La scienza della qualità - novembre 2008

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Questa pubblicazione è realizzata con il contributo di QC&I e SoCert

Novembre Numero

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Se l’informazione aiuta la scelta

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La geografia tra marchi e Dop

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Globalgap, Ifs, Brc sotto la lente d’ingrandimento

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Qualità “digitale” o “analogica”?

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Comunicare la qualità reale

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Se l’informazione aiuta la scelta

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e n’est qu’un début continuons le combat. Non vorrei che questo incipit risultasse pretenzioso e poco rispettoso per il movimento del ’68, però il

Alberto Bergamaschi, responsabile comunicazione & marketing QC&I International Services

mio stato d’animo, nel momento di scrivere l’editoriale per il primo numero (ma seconda uscita) di questa rivista, è proprio quello di chi ha incominciato un’avventura con la consapevolezza che sarà complessa e non di breve durata. L’avventura di chi si è impegnato in uno dei progetti più difficili da portare avanti: diffondere l’informazione. Paradossalmente è proprio in questo momento di “globalità” che l’informazione può essere fintamente oggettiva e pericolosamente indirizzata. Quando, infatti, non esisteva la possibilità di svolgere verifiche dirette delle notizie diffuse era più facile che si avesse voglia di fare qualche approfondimento o, almeno, non si prendessero per oro colato le notizie propagate. Ora, pigramente, ci accontentiamo delle immagini che sempre accompagnano una notizia, con

Diritto & alimentazione pag.

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Globalgap, Ifs, Brc: tre schemi da scoprire

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Qualità “digitale” o “analogica”

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Il nuovo Regolamento (CE) 889/2008

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La conversione dell’azienda agricola

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La qualità geografica: marchio o Dop?

Certificazione

la falsa convinzione di essere stati testimoni oculari degli avvenimenti che, quindi, hanno avuto la necessaria verifica confirmatoria. Siamo, ahimè, molto lontani dalla realtà. L’informazione che ci raggiunge molte volte non è così corretta e approfondita da permetterci delle valutazioni e delle decisioni consapevoli. E’ questa la parola d’ordine di La Scienza della Qualità: fornire informazioni oggettive e approfondite per arrivare alla consapevolezza decisionale. Personalmente, infatti, sono contento se le persone seguono i miei consigli perché mi trovano professionalmente competente e serio, ma sono molto più gratifi-

Agricoltura biologica

Dalla parte del consumatore Come comunicare la qualità reale?

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cato se riesco a comunicare tutte le informazioni che permettano delle scelte autonome in conformità alle aspettative personali. In questo numero incominciamo a organizzare i contenuti secondo diverse rubriche, quelle che si è ritenuto essere le più interessanti. Poiché, però, le informazioni devono sempre essere bidirezionali, aspettiamo le vostre indicazioni per cercare di percorrere la strada del miglioramento continuo, già a partire dal prossimo numero che arriverà nelle caselle di posta elettronica di tutti i lettori all’inizio del nuovo anno.

Storie di qualità I mirtilli del Canavese

La Scienza della qualità - Anno I, 2008 - numero 1 Bimestrale informativo della società QC&I International Services Direttore editoriale Alberto Bergamaschi Direttore responsabile Guglielmo Frezza Coordinamento Comitato scientifico Carmelo Bonarrigo Le fotografie di questo numero sono state scattate al Salone del Gusto di Torino


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La qualità geografica: marchio o Dop?

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n Europa, le regole del settore alimentare conoscono modi diversi per comunicare le “qualità geografiche” del prodotto. Il primo è certamente il marchio: segno creativo, di fantasia, totalmente inventato dall’imprenditore, e che può essere anche geografico. Se il consumatore associa mentalmente un marchio alla capacità di soddisfare le sue aspettative, ciò accade per merito degli investimenti che il produttore ha fatto per realizzare un prodotto che piace; ma anche per merito

degli investimenti sulla promozione commerciale del brand, poiché è evidente che lo sforzo di assecondare i desideri del consumatore sarebbe inutile se il marchio restasse sconosciuto. All’estremo opposto, in quanto puramente descrittiva (si limita a informare il consumatore di un dato), è l’indicazione di provenienza. E’ un elemento – quello della provenienza geografica – che non sempre l’acquirente associa alle “qualità”, ma ci sono alcune importanti eccezioni. L’indicazione “Made in Italy”, ad esempio, in buona parte del mondo è considerata quasi un sinonimo di qualità, un po’ per abitudine indotta dai media, un po’ perché si conosce la tradizionale cura dei produttori italiani, la cultura alimentare che c’è alla base, l’amore del mercato italiano per il buon gusto, ecc. E, almeno in Italia, ciò è vero anche per via di una innata diffidenza italiana verso il cibo di provenienza estera: il “Made in Italy” rassicura. Di per sé, tuttavia, non bisogna mai dimenticare che l’indicazione di provenienza si limita a descrivere; e lo fa anche, talvolta, in modo approssimativo, perché le attuali regole europee sull’etichettatura esigono che si indichi solo il luogo ove è avvenuta l’ultima trasformazione sostanziale dell’alimento, luogo che potrebbe significare ben poco sul piano qualitativo. Il Parlamento italiano ha tentato, in effetti, di introdurre in Italia un principio diverso (indicare sul prodotto la provenienza della materia prima prevalente utilizzata): lo ha fatto con la legge n. 204/2004, ma questa è stata censurata dalla Commissione europea per contrasto con le regole comunitarie, poiché impedisce il funzionamento del mercato interno della Comunità. E lo sta per fare nuovamente in questi giorni, essendo all’esame del Consiglio dei ministri – incurante delle critiche di Bruxelles – un disegno di legge che vorrebbe introdurre nuovamente lo stesso principio. Ne parleremo, magari, in un prossimo numero.

Prof. Avv. Paolo Borghi Ordinario di diritto alimentare Università di Ferrara SDA Studio di Diritto Alimentare dirittoalimentare@studioborghi.eu

A metà strada – per così dire – fra il marchio e le indicazioni di provenienza stanno le “indicazioni geografiche”, costituite a volte da un semplice nome di luogo (“Chianti”, “Cartoceto”), a volte da un nome di fantasia unito a un nome geografico (“culatello di Zibello”, “bresaola della Valtellina”). Per le indicazioni geografiche, il legame fra nome e pregio dipende dalla reale origine dell’alimento, dalla reputazione che esso ha per via di quella origine, e dalla capacità della legge di garantire tutto ciò, creando un sistema di riconoscimento pubblico del nome e delle tecniche produttive, di controlli, di sanzioni. Per anni questa garanzia è stata compito delle legislazioni dei singoli Stati europei, con regole nazionali tra loro diverse, alcune più rigorose e restrittive, altre più elastiche. Per ovviare a quelle differenze, e dare così al consumatore europeo un quadro di regole uniforme, prima col reg. CEE n. 2081/92 e oggi con il reg. CE n. 510/2006, la Comunità ha sostituito alle protezioni nazionali un sistema unico di tutela delle DOP e delle IGP. Centrali sono: - la presenza di un “disciplinare di produzione”, contenente elementi vincolanti sul metodo di produzione e sul suo legame alla zona geografica; - il fatto che chi chiede la registrazione (solo associazioni di produttori o di trasformatori, secondo l’art. 5 del reg. n. 510/2006) non ha l’esclusiva sull’uso del nome; - il fatto che la registrazione possa esser chiesta anche da soggetti extraeuropei (sempre che il prodotto goda di analoga tutela nel Paese di origine). Accanto alla disciplina delle indicazioni geografiche, ormai solo comunitaria, vi è il complesso sistema di tutela del marchio (anche geografico), protetto sia dalla legislazione italiana che da quella europea. Secondo il Codice italiano della proprietà industriale (d.lgs. n. 30/2005), è vietato registrare come marchio nomi geografici puri e semplici, a meno che non si trat-

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Diritto & Alimentazione ti di un nome già affermato come marchio nell’uso. A differenza però di quanto accaduto per le indicazioni geografiche (la cui disciplina uniforme europea ha integralmente sostituito i sistemi nazionali di tutela), la protezione nazionale del marchio può coesistere con quella comunitaria, disciplinata dal reg. CE n. 40/94: sono infatti possibili doppie registrazioni (starà all’imprenditore decidere se gli interessa proteggere il marchio solo entro i confini nazionali, o anche in tutta Europa). Anche l’art. 7 del reg. 40/94 esige che il marchio (comunitario) geografico individuale, per poter

imprenditori (o della loro associazione, società, ecc.) che chiedono il riconoscimento: è così, è un dato di fatto che dipende da una tradizione e da fattori locali, tant’è vero che l’accoglimento della domanda di registrazione di una DOP è condizionato anche alla verifica di tali presupposti. Un’altra differenza è nel modo in cui è regolata la pre-

essere registrato, non sia costituito da un mero nome o

valenza reciproca: come si è visto, la registrazione di

segno geografico: un riferimento geografico può esser-

una DOP impedirà di registrare successivamente un

ci, sì, ma deve essere presente anche una componente

marchio che possa confondersi con essa; al contrario, la

di fantasia.

registrazione precedente di un marchio spesso non

Invece, in caso di marchio geografico collettivo, l’art.

impedisce la registrazione successiva di una DOP.

64 del regolamento fa una deroga. Occorre natural-

Infine, una differenza essenziale sta nella disciplina legale. Chi decide di registrare un marchio collettivo geografico è libero di inserire o meno nel “regolamen-

mente che a chiedere la registrazione sia un soggetto anch’esso collettivo (una associazione di imprese, un consorzio, ecc.); e che la domanda sia accompagnata

to sull’uso del marchio” gli stessi contenuti di un disci-

da un “regolamento per l’uso del marchio” che precisi,

plinare (i metodi di produzione obbligatori, le regole sulla provenienza delle materie prime, ecc.).

ad esempio, chi sarà abilitato a usarlo, le condizioni per poter aderire alla associazione titolare del marchio (necessariamente aperta a tutte le imprese i cui prodotti o servizi provengano dalla zona geografica richiamata), e le “condizioni per uso del marchio”. Chi registri all’Ufficio comunitario dei marchi (OAMI) un marchio geografico collettivo non può impedire ad altri di usare segni o indicazioni simili, o riferite alla stessa zona geografica, purché lo faccia secondo correttezza e lealtà commerciale; e nulla può opporre a chi sarà, in un secondo momento, autorizzato a usare una indicazione geografica relativa a quella zona. Infatti, se la domanda di registrazione di un marchio geografico è respinta quando già esiste una DOP o una IGP con cui il marchio possa generare confusione (art. 14 reg. 510/2006), in presenza di somiglianze fra un marchio geografico e una DOP o una IGP registrata successivamente, la registrazione del marchio rimane valida, e i due segni dovranno “convivere” sul mercato. Dunque, se indicazione geografica e marchio geografico hanno tra loro una parentela tanto stretta, in base a quali elementi un gruppo di imprenditori alimentari di una certa zona, che producano un alimento tipico di essa, dovrebbe optare per registrare l’una piuttosto che l’altro? Qualche differenza c’è. La prima è data dal fatto che, nel caso delle DOP (ma anche di molte IGP) il legame fra le caratteristiche del prodotto e la zona in cui esso è elaborato non dipende dalla volontà dei singoli

La registrazione di una DOP obbliga, invece, il soggetto che la chiede a elaborare un disciplinare, che traduca in regole di produzione vincolanti il legame con la zona di origine. Se è vero che l’associazione di produttori, quando registra una DOP, non ha poi l’“esclusiva” su quel nome (poiché chiunque segua il disciplinare e si assoggetti al regime di controllo potrà usare il nome protetto, e apporre il segno della DOP sul proprio prodotto, anche senza aderire all’associazione), è però altrettanto vero che il legame con le caratteristiche e con la zona d’origine è obbligatorio e garantito da norme comunitarie: il consumatore, sapendo che c’è un controllo pubblico sul rispetto di quel disciplinare, dovrebbe fidarsi maggiormente. E il potenziale di mercato della DOP potrebbe essere, perciò, di per sé maggiore di quello di un marchio, prima ancora di investire in pubblicità.


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Tre schemi di certificazione sotto la lente d’ingrandimento Leonardo Pani,

GLOBALGAP EUREPGAP nasce nel 1997 dall’iniziativa dei distributori appartenenti al Euro-Retailer Produce Working Group (EUREP), in risposta alle crescenti preoccupazioni dei consumatori relativamente ai temi della sicurezza alimentare, delle condizioni ambientali e di lavoro nella produzione dei prodotti agricoli. L’obiettivo è quello di elaborare uno standard di certificazione, condiviso internazionalmente, che garantisca la qualità dei prodotti scambiati e non costringa i produttori a gestire tanti strumenti di certificazione quanti sono i paesi con i quali commerciano. Nel settembre 2007 EUREPGAP assume il nuovo nome di GLOBALGAP, l’associazione privata che ha sviluppato e gestisce standard di certificazione volontaria di prodotti agricoli. Gli standard si fondano sull’attuazione delle GAP (Good Agricultural Practices) o Buone Pratiche Agricole, nella filiera produttiva aziendale, a partire dal controllo sui mezzi tecnici per arrivare al prodotto pronto a lasciare l’azienda agricola. Il marchio GLOBALGAP, revisionato ogni tre anni per garantire il suo miglioramento continuo e un costante adeguamento agli sviluppi tecnologici e di mercato, è adottato in più di ottanta paesi e funge da certificazione business-to-business, interna agli scambi commerciali e non direttamente visibile al consumatore. Lo standard copre larghe categorie di prodotti vegetali (cereali, frutta e verdura), di prodotti zootecnici (bovini, ovini, suini e pollame), di prodotti dell’acquicoltura, di mangimi composti e di materiale riproduttivo vegetale. L’adesione allo standard richiede di sottoporsi a ispezioni annuali e ispezioni supplementari non annunciate. In sintesi, GLOBALGAP: - è una certificazione di prodotto - definisce gli standard minimi accettabili per i principali gruppi operanti nel commercio al dettaglio in Europa

In seguito alla richiesta di alcune aziende cerchiamo, in questo sintetico articolo, di dare alcune informazioni sulla storia e le caratteristiche di tre schemi di certificazione abbastanza diffusi in campo agroalimentare e non solo. Invitiamo tutti gli interessati ad approfondimenti sul tema a scriverci all’indirizzo mail marketing@qci.it.

responsabile qualità QC&I International Services

- nello sviluppare i suoi standard di certificazione ha tenuto conto delle realtà produttive in agricoltura, spesso caratterizzate da dimensioni che rendono impossibile accedere ad eventuali strumenti di certificazione. A tal fine ha studiato la possibilità di ottenere una certificazione di gruppo, per garantire l’accessibilità dello standard anche ai piccoli produttori agricoli - rappresenta uno strumento per introdurre le tecniche colturali di gestione integrata. L’adozione delle strategie della produzione integrata è ritenuta essenziale per il miglioramento e la sostenibilità a lungo termine della produzione primaria, - sostiene i principi di H.A.C.C.P. e ne incoraggia l’applicazione Questo tipo di certificazione prevede che i coltivatori applichino una serie di requisiti specifici mirati al rispetto del prodotto, dei lavoratori e del territorio. Di seguito, riportiamo, i principali requisiti che il protocollo prevede che devono essere sottoposti a verifica di conformità: -

Rintracciabilità Aspetti ambientali Caratteristiche igienico sanitarie e organolettiche del Prodotto Salute degli animali Salute e sicurezza dei lavoratori Monitoraggio dei processi aziendali Rispetto della normativa cogente

IFS Lo standard IFS (International Food Standard) è una certificazione di prodotto e costituisce uno standard internazionalmente riconosciuto, con un sistema di valutazione unificato. E’ nato per offrire ai fornitori e ai distributori di prodotti alimentari a marchio, di qualsiasi dimensione aziendale, uno strumento per la certificazione dei pro-

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Certificazione dotti ed una soluzione per rispondere alle aspettative dei clienti e dei consumatori ed agli obblighi di legge in materia di sicurezza alimentare. Lo standard IFS viene sviluppato dalle aziende socie della HDE – Federazione Tedesca dei Distributori e della FCD – Fédération des Entreprises du Commerce et de la Distribution, insieme alle associazioni dei distributori italiane CONAD, COOP e Federdistribuzione. L’IFS Food Standard si rivolge esclusivamente ai fornitori di prodotti alimentari, quali industrie di trasformazione, o agli stabilimenti di imballaggio di prodotti alimentari sfusi. Lo standard può, dunque, essere utilizza-

I distributori all’ingrosso e al commercio che sono organizzati nella Commissione per la legislazione alimentare HDE, nella Commissione qualità FCD, nella Commissione qualità di Federdistribuzione, oltre che in CONAD e COOP, sostengono l’IFS e lo richiedono ai loro fornitori. Per fare alcuni esempi, i distributori che appartengono

to solo quando il prodotto subisce una trasformazione

a queste commissioni sono: Metro Group, Edeka, Rewe

o quando esiste il rischio di una contaminazione duran-

Group, Aldi, Lidl, Kaufland, Kaiser’s Tengelmann,

te la fase d’imballaggio del prodotto sfuso.

Auchan, Carrefour Group, EMC – Groupe Casino,

L’IFS Food Standard si occupa di certificare anche le fasi di

Leclerc, Monoprix, Picard, Surgelés, Provera (Cora and

trasporto e stoccaggio solo qualora l’azienda alimentare

Supermachés Match), Système U, COOP, CONAD e Unes.

possieda al suo interno un settore che si occupa di svolgere queste attività logistiche. L’IFS Food Standard non riguarda, quindi, l’importazione di prodotti alimentari, né il loro trasporto, stoccaggio o distribuzione. Per rispondere all’esigenza, dei produttori e della distribuzione, di poter controllare l’intera catena produttiva, comprese le fasi di trasporto e stoccaggio, è stato sviluppato l’IFS Logistic Standard. L’IFS Logistic è uno standard volto al controllo di ogni attività logistica legata a prodotti food e non-food, tutte le volte che, lungo la filiera, si verifica un contatto fisico con il prodotto già confezionato. L’IFS Logistic certifica anche derrate sfuse che non subiscano lavorazioni o non vengano confezionate non appena prodotte. Le aziende che adottano lo standard IFS ricevono gli audit con frequenza annuale, a meno di dover procedere a verifiche straordinarie dettate da necessità particolari. Principali requisiti che lo standard prevede che devono essere sottoposti a verifica di conformità: - Attuazione delle buone pratiche produzione - Attuazione di un sistema H.A.C.C.P. - Attuazione di un sistema di gestione della qualità documentato - Attuazione di un sistema di monitoraggio degli standard previsti per gli ambienti di lavoro - Attuazione di un sistema di monitoraggio degli standard previsti per il prodotto - Attuazione di un sistema di monitoraggio degli standard previsti per il processo - Attuazione di un sistema di monitoraggio degli standard previsti per il personale - Definizione e attuazione di appropriate specifiche tecniche per le varie fasi del processo

BRC La nascita dello standard BRC (British Retail Consortium) risale al 1998, quando il Consorzio dei distributori britannici, per rispondere alle richieste provenienti dai settori dell’industria alimentare, sviluppò il BRC Food Standard: uno strumento necessario a garantire i distributori nel corso di eventuali procedimenti intentati dalle autorità competenti in materia di alimenti, per poter dimostrare l’affidabilità e l’avvenuta valutazione dei loro fornitori di prodotti alimentari. Allo stesso tempo i fornitori sarebbero stati in grado di attestare la qualità del loro prodotto ai clienti della distribuzione. A seguito del successo riscontrato con il BRC Food Standard, sono stati sviluppati il Packaging Standard, relativo ai materiali da imballaggio, il BRC Consumer Products Standard, relativo ad articoli non-food come giocattoli, vestiario, elettrodomestici, e il BRC Global Standard - Storage and Distribution, relativo alle fasi di trasporto e stoccaggio. L’ultimo arrivato della famiglia è il BRC Global Standard – Non GM, per garantire i consumatori dalla presenza di organismi geneticamente modificati negli alimenti. La certificazione secondo lo standard BRC è una certificazione di prodotto e le aziende che lo adottano ricevono gli audit con frequenza annuale, a meno di dover procedere a verifiche straordinarie dettate da necessità particolari. I principali requisiti che lo standard prevede che siano sottoposti a verifica di conformità, sono equivalenti a quelli dell’IFS.


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Qualità “digitale” o “analogica”?

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uando parliamo di qualità è importante definire cosa intendiamo, perché la mia definizione di qualità potrebbe essere sensibilmente diversa da quella di un’altra persona. Per esempio io preferisco una mela con un ottimo sapore anche se il suo aspetto estetico non è perfetto, mentre per la maggioranza delle persone sembra essere più importante il contrario. Se parliamo della qualità “da agricoltura biologica” questa oggi è definita dalla legge - semplificando un po’ - con l’assenza dell’uso di prodotti di sintesi nella coltivazione e trasformazione. Per il mio gusto è troppo poco per diversi motivi: - Proprio per una questione di gusto: il mangiare dovrebbe essere un piacere per il profumo e il sapore che si sente e mi sono stancato di tanti prodotti certificati da agricoltura biologica che non hanno sapore. - L’obiettivo principale dell’agricoltura biologica è sempre stato produrre alimenti più sani. L’assenza di pesticidi è solo un aspetto di questo, certamente importante. Ma altrettanto importante per me è la vitalità di un alimento che si esprime per esempio con un maggior contenuto in sostanze nutritive come vitamine, minerali, antiossidanti ecc. e che apporta più energia a chi lo mangia. - Perché in origine l’agricoltura biologica era qualcosa di più, era un modo di rapportarsi diversamente con la Natura e l’ambiente, era intesa come un servizio invece di una rapina e ritengo che questo sia oggi più importante che mai per la sopravvivenza del nostro pianeta. L’attuale sistema di controllo per gli alimenti da agricoltura biologica non prende in considerazione questi aspetti (ad eccezione dell’assenza di pesticidi) e perciò definisce la qualità “da agricoltura biologica” con il livello più basso possibile. Per il consumatore esigente e attento perde così ogni significato perché non fornisce elementi per la valutazione di aspetti diversi dall’assenza dell’uso di pesticidi. Rimane solo la possibilità di farsi una graduatoria personale delle aziende e degli organismi di certificazione, basandosi sul sapore degli alimenti che generalmente rappresenta abbastanza bene il modo di coltivazione. Per il consumatore meno attento ed esigente un pro-

Hubert Bosch, ricercatore, consulente, naturopata editore della rivista REMEDIA NEWS

dotto bio vale l’altro, indipendentemente dalla sua vitalità, dal contenuto in vitamine, minerali e antiossidanti, dal modo in cui sono stati trattati il terreno, le piante e l’ambiente. Così l’unico criterio di scelta all’interno della categoria del biologico diventa il prezzo. Di conseguenza chi lavora bene deve abbassare il livello di qualità per rimanere concorrenziale, portando tutto il reparto del biologico a un livellamento in basso.

Questo è il problema di tutti i sistemi di controllo che sono per così dire “digitali”: esiste solo il si e il no, la qualità minima c’è o non c’è. Non ha nessuna importanza quanto la qualità reale sia lontana dalla qualità minima, sia in senso di eccesso che difetto. Al consumatore attento una certificazione di questo tipo non dà nessuna possibilità di individuare il prodotto più consono alle sue aspettative. Solo un sistema “analogico” che prende in considerazioni diversi aspetti di qualità potrebbe dare le informazioni necessarie per capire fino a che punto un prodotto corrisponde alle proprie aspettative. Con una serie di informazioni analogiche si potrebbe capire quanto un prodotto corrisponde alle proprie aspettative e a questo punto fare realmente un rapporto qualità/prezzo secondo le esigenze personali. Una certificazione analogica della qualità sarebbe, contrariamente a quello che avviene con una qualità digitale, un grande stimolo per le aziende a migliorare la qualità con conseguenti vantaggi per il consumatore e in molti casi anche per l’ambiente. Anzi in questo caso

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Certificazione l’ambiente potrebbe entrare direttamente negli aspetti certificati, e non solo in agricoltura biologica. Naturalmente una certificazione analogica diventa piuttosto complessa perché dovrebbe prevedere di fornire il maggior numero di informazioni utili sui vari aspetti che compongono la qualità di un prodotto dal punto di vista dei consumatori. L’azienda che aderisce dovrebbe avere libera scelta sugli aspetti da certificare, cioè una azienda potrebbe certificare solo un aspetto mentre un’altra certificare tutti gli aspetti. L’altro punto essenziale sarebbe la comunicazione dettagliata delle varie qualità certificate al consumatore, oggi facilmente risolvibile tramite internet. Proviamo a vedere quali potrebbero essere gli aspetti di qualità da certificare per un prodotto biologico. Naturalmente si tratta di una ipotesi che si basa principalmente sulle mie esigenze di consumatore e andrebbe necessariamente ampliata con le esigenze di altre persone.

rappresentanza degli altri, naturalmente con il rischio che qualcuno possa fare il furbo. Per quanto riguarda la qualità bioenergetica esiste gia qualche metodo di analisi (come la cristallizzazione) che però andrebbe raffinato e reso più facilmente interpretabile. Per la discussione di questo aspetto rimando a un articolo futuro.

Un nuovo blog firmato QC&I Uno strumento semplice, informale e immediato per approfondire il contatto con le aziende e facilitare lo scambio di informazioni tra tutti i tecnici inseriti nel

- Le qualità organolettiche del prodotto, compreso odore, sapore, consistenza - Il contenuto in sostanze vitali come vitamine, minerali, antiossidanti - La qualità bioenergetica, cioè quanta energia ha l’alimento - Quali e quanti interventi agronomici sono stati effettuati (concimazioni, lavorazioni, trattamenti…) sulla coltura - Com’è stata eseguita una eventuale trasformazione In più sarebbe interessante aggiungere anche informazioni sull’azienda stessa come:

sistema di controllo QC&I. Vuol essere questo il nuovo blog, on-line ormai da qualche settimana all’indirizzo http://qciblog.blogspot.com, nato parallelamente a La scienza della qualità per contribuire a rendere più ricca la discussione attorno ai temi della certificazione, dall’agricoltura biologica alla cosmetica fino ai nuovi schemi di recente introduzione. Oltre a ospitare i contributi degli esperti che collaborano periodicamente alla nostra rivista, il blog consente di fornire un tempestivo aggiornamento sulle novità normative e soprattutto apre una nuova finestra di dialogo con le aziende e i lettori che ci seguono nell’ap-

- dov’è situata - come e da chi viene condotta - che impatto ha sull’ecosistema e sull’ambiente in generale - bilancio sociale e ambientale

puntamento bimestrale con La scienza della qualità. Per ciascun articolo è infatti possibile inserire commenti, proporre quesiti agli autori, inviare richieste di ulteriori approfondimenti. Dalle sue pagine, inoltre, è possibile effettuare il download in formato .pdf de La scienza della qualità, scari-

Certamente alcuni di questi aspetti sono piuttosto difficili da certificare. Per esempio solo alcune delle qualità organolettiche sono misurabili, mentre l’odore e il sapore sono aspetti strettamente soggettivi dove la certificazione potrebbe esistere solo nella raccolta dell’opinione dei consumatori con l’aiuto di internet. Il contenuto in sostanze vitali è verificabile con le analisi, ma probabilmente pone non solo un problema di costo su lotti di piccole e medie dimensioni e di attendibilità su lotti di grandi dimensioni, ma anche di tempistica nel caso di alimenti facilmente deperibili. Si potrebbe pensare a certificare solo uno o due lotti in

care i documenti e le schede di iscrizioni dei corsi di aggiornamento organizzati da QC&I e stampare gli articoli curati dall’ufficio comunicazione per il portale Greenplanet e altre testate specializzate. A breve, infine, il blog si arricchirà di ulteriori strumenti, a partire dalla possibilità di entrare in contatto con la rete dei coordinatori regionali di QC&I e con gli uffici nazionali. E soprattutto saprà modellarsi sulle richieste che arriveranno da voi lettori, perché una comunicazione efficace nasce prima di tutto dall’ascolto.


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Regolamento (CE) 889/2008: le novità in arrivo da gennaio Dopo diciassette anni di onorata carriera il Reg. CEE 2092/91 sta andando in pensione, sostituito dal Reg. CE 834/2007 recentemente “completato” dal Reg. CE 889/2008. Fare in poche righe una disamina approfondita delle modifiche che entreranno in vigore dal primo gennaio 2009 non è certamente possibile. Si possono tuttavia mettere a fuoco le principali novità che intervengono in alcuni ambiti di grande importanza quali la comunicazione della biologicità di un prodotto, ovvero l’etichettatura, e le norme di produzione vegetale e animale. ETICHETTATURA I prodotti trasformati possono utilizzare termini che suggeriscano all’acquirente che il prodotto, trasformato conformemente al regolamento europeo, è da agricoltura biologica se: - almeno il 95% in peso degli ingredienti è da agricoltura biologica e gli eventuali ingredienti non bio sono compresi nell’Allegato IX. In questo caso l’indicazione della provenienza biologica è inserita nella denominazione di vendita; - qualche ingrediente sia proveniente da agricoltura biologica. L’indicazione della provenienza biologica è nell’elenco degli ingredienti, con la percentuale totale di ingredienti biologici rispetto alla quantità totale di ingredienti di origine agricola; - il principale ingrediente sia un prodotto della caccia e della pesca e tutti gli altri ingredienti di origine agricola siano provenienti da agricoltura biologica. L’indicazione della provenienza biologica è nell’elenco degli ingredienti e nello stesso campo visivo della denominazione di vendita, con la percentuale totale di ingredienti biologici rispetto alla quantità totale di ingredienti di origine agricola. Dall’1 luglio 2010 sull’etichetta dovrà essere inserito il numero di codice dell’autorità o dell’organismo di controllo e il luogo di origine delle materie prime agricole. Per quanto riguarda lo smaltimento delle scorte, il regolamento prevede che i prodotti ottenuti, condizionati ed etichettati anteriormente al 1° gennaio 2009 a norma del regolamento (CEE) n. 2092/91 possono continuare ad essere commercializzati con termini che fanno riferimento al metodo di produzione biologico fino ad esaurimento delle scorte. Il materiale da imballaggio a norma del regolamento

Carmelo Bonarrigo, responsabile documentazione QC&I International Services

(CEE) n. 2092/91 può invece continuare ad essere utilizzato per i prodotti commercializzati con termini che fanno riferimento al metodo di produzione biologico fino al 1° gennaio 2012, purché i prodotti siano conformi ai requisiti del regolamento (CE) n. 834/2007. NORME DI PRODUZIONE VEGETALE Dal 01/01/2009 sarà applicato integralmente il Reg. (CE) n. 834/2007 del 28/06/2007, relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici, che abroga il Reg. (CEE) n. 2092/91 del 24/06/1991. Premesso che l’agricoltura biologica è un sistema globale di gestione dell’azienda agricola, basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, su di un alto livello di biodiversità e sulla salvaguardia delle risorse naturali, con il Reg. (CE) n. 834/2007 il legislatore ha voluto vincolare i suddetti principi, che furono i fondamenti ispiratori del “movimento” sull’agricoltura biologica, definendo gli obiettivi e i principi generali della produzione biologica (Art. 3 e 4). Inoltre ha esplicitato i principi specifici applicabili all’agricoltura (Art. 5). Tali obiettivi e principi non erano esplicitati nel Reg. (CEE) n. 2092/91 se non leggendo i “considerando” che precedevano l’articolato del regolamento stesso. Successivamente alla pubblicazione del Reg. (CE) n. 889/2008, il legislatore ha definito ed attuato le specifiche norme di produzione dei prodotti vegetali (escluso le alghe marine). La nuova normativa [combinato disposto tra Reg. (CE) n. 834/2007 e Reg. (CE) n. 889/2008] ribadisce il concetto che la produzione biologica vegetale si basa sul principio che le piante debbano essere essenzialmente nutrite attraverso l’ecosistema del suolo, limitando l’apporto esterno di concimi e di ammendanti poco solubili. Per questo motivo ha vietato, in modo esplicito, la coltura idroponica. Al fine di garantire la continuità alle norme di produzione vegetale, definite dal Reg. (CEE) n. 2092/91, il Reg. (CE) n. 889/2008 ha mantenuto:


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Agricoltura biologica - l’autorizzazione all’utilizzo di determinati concimi, ammendanti e prodotti fitosanitari, elencandoli, rispettivamente, negli allegati I e II del Reg. (CE) n. 889/2008; - le norme specifiche applicabili alla produzione di funghi; - la possibilità di considerare produzione biologica i prodotti ottenuti dalla raccolta di vegetali selvatici e delle loro parti che crescono nelle aree naturali, nelle foreste e nelle aree agricole. NORME DI PRODUZIONE ANIMALE Così come per le produzioni vegetali, anche la produzione animale biologica si basa su un sistema globale di gestione dell’azienda agricola che deve: - rispettare criteri rigorosi in materia di benessere degli animali (dalla nascita alla macellazione); - soddisfare le specifiche esigenze comportamentali degli animali secondo la specie; - soddisfare la gestione della salute degli animali, con particolare attenzione alle condizioni di stabulazione, alle pratiche zootecniche e alla densità degli animali. Inoltre la produzione animale biologica è una componente essenziale dell’organizzazione della produzione agricola nelle aziende biologiche, poiché fornisce la materia organica e gli elementi nutritivi necessari alle colture e, quindi, contribuisce al miglioramento del suolo e allo sviluppo di un’agricoltura sostenibile per evitare l’inquinamento dell’ambiente (nel rispetto della “direttiva nitrati”). La nuova normativa esplicita maggiormente gli obiettivi, i principi e le norme applicabili alla produzione animale biologica, ribadendo che la produzione zootecnica sia legata alla terra e vietando, in modo esplicito, la produzione animale “senza terra”. Successivamente alla pubblicazione del Reg. (CE) n. 889/2008, nel rispetto della continuità alle norme di produzione animale, definite dal Reg. (CEE) n. 2092/91, e per non perturbare il settore dell’allevamento biologico, il legislatore ha definito ed attuato le specifiche norme di produzione animale, escludendo la produzione degli animali d’acquacoltura. Tali norme si applicano alle seguenti specie: bovini, comprese le specie Bubalus e Bison; equidi; suini; ovini; caprini; avicoli (galline ovaiole; polli da ingrasso; faraone; anitre; tacchini; oche); api. Secondo i principi definiti dal Reg. (CE) n. 834/2007, il Reg. (CE) n. 889/2008 ha stabilito le norme di produzione dettagliate per quanto riguarda l’origine degli animali, biologici e non biologici, le pratiche zootecniche e le condizioni di stabulazione. In particolare ha

stabilito: le condizioni di ricovero per gli animali; le condizioni di stabulazione specifiche per i mammiferi, gli avicoli e le api; l’accesso agli spazi all’aperto; la densità degli animali; le condizioni per l’allevamento simultaneo di animali allevati con metodo biologico e non biologico; i metodi di gestione zootecnica; la riproduzione. Per quanto riguarda gli alimenti per animali, vengono stabiliti la percentuale di alimenti di provenienza aziendale e la percentuale di alimenti di provenienza extraziendale; gli alimenti necessari per soddisfare le esigenze nutrizionali degli animali; la percentuale di alimenti in conversione che possono essere incorporati nella razione alimentare; le materie prime non biologiche di origine vegetale e animale; le materie prime biologiche di origine animale; le materie prime minerali per mangimi; i prodotti e i sottoprodotti della pesca; gli additivi per mangimi e gli ausiliari di fabbricazione. Il regolamento inoltre interviene in materia di prevenzione delle malattie e cure veterinarie, compresi i trattamenti veterinari in apicoltura.

Infine è da segnale la novità introdotta dall’art. 9 del Reg. (CE) n. 834/2007, in merito al divieto di uso di OGM. Per i prodotti per i quali non possono essere escluse tracce non intenzionali e tecnicamente inevitabili di OGM autorizzati, viene fissata una soglia minima dello 0,9 (richiamata dalla direttiva 2001/18/CE, dai regolamenti (CE) n. 1829/2003 e n. 1830/2003) sotto la quale tali prodotti non devono essere etichettati con la dicitura “questo prodotto contiene OGM”. Pertanto il fatto che i prodotti non siano etichettati o accompagnati da un documento che riporti la suddetta frase fa presupporre che nella coltivazione degli stessi non si è fatto uso di OGM o prodotti derivati da OGM. In caso di prodotti non biologici acquistati da terzi, il fornitore dovrà rilasciare una dichiarazione di conferma che gli stessi non sono derivati od ottenuti da OGM, secondo il fac simile riportato nell’allegato XIII del Reg. (CE) n. 889/2008.


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Dal convenzionale al biologico: la conversione

L

’agricoltura biologica è regolata dal Reg. (CE) 2092/91 e prossimamente dal nuovo Reg. (CE) 834/2007 che sarà applicabile a decorrere dal 1° gennaio 2009, ai sensi del quale le aziende agricole che vogliono definire le proprie coltivazioni “da agricoltura biologica o biologiche” e perciò commercializzare le loro produzioni su questo specifico mercato, debbono:

Carlo Bazzocchi, Consulente aziendale esperto di agricoltura biologica Studio Biologico - baztel@libero.it

tre per quelle arboree e perenni. In questo periodo, ma solo dopo dodici mesi dall’entrata nel sistema di

- dare una descrizione completa dell’unità di produzione, degli stabilimenti e dell’attività e fare una dichiarazione e descrizione delle misure concrete adottate per garantire il rispetto del metodo di produzione biologica; - rispettare, per la produzione, le norme previste per la coltivazione, la fertilizzazione e per la difesa dalle malattie delle piante, nonché i mezzi tecnici indicati dagli appositi elenchi; - essere sottoposte al controllo degli Organismi di Controllo del biologico autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali;

controllo, il prodotto dell’azienda agricola può essere commercializzato nel mercato specializzato del biologico, sempre accompagnato dalla dicitura “agricoltura biologica - fase di conversione”; - di fatto è anche, semplicemente, un periodo di osservazione reciproca: l’agricoltore osserva la nuova situazione di mercato, i nuovi attacchi parassitari, i nuovi problemi e cerca nuove soluzioni con nuovo atteggiamento, mentre i clienti consumatori e l’ Organismo di Controllo osservano lui cercando di valutarne l’affidabilità. In questo periodo l’agricoltore si trova ad affrontare i

CONVERSIONE ALLA COLTIVAZIONE BIOLOGICA Innanzitutto questa parola non ha una valenza univoca: - in passato è stata intesa soprattutto come disintossicazione del terreno dell’azienda agricola che iniziava a praticare l’agricoltura biologica; in altre parole un periodo in cui i prodotti chimici usati nel passato scomparivano, si “trasformavano”, si “distruggevano” o erano asportati, dilavati dalle acque piovane. Ciò si credeva sino a qualche anno fa, ma oggi è quasi impossibile sostenerlo alla luce delle recenti ricerche in agro-eco-tossicologia. Infatti ci sono prodotti chimici che divengono non rilevabili alle attuali analisi chimiche nel giro di poco tempo, mentre altri prodotti, ad esempio cloruro di clorocolina, clororganici ed i metalli pesanti, hanno una rintracciabilità nel suolo agricolo o addirittura nelle piante a distanza di anni o decenni. - nella legislazione del regolamento del biologico, la conversione è il periodo che intercorre tra l’entrata nel sistema di controllo ed il momento in cui un prodotto ottenuto in quell’unità produttiva può essere commercializzato a pieno titolo come prodotto da “agricoltura biologica” o “biologico”, generalmente due anni per le produzioni erbacee annuali e

problemi di fertilizzazione del terreno e di difesa dalle malattie con un limitato numero di mezzi tecnici e senza l’ausilio “dell’arsenale dei “cannoni” del convenzionale. I mezzi tecnici autorizzati in agricoltura biologica non consentono una resa così elevata come in agricoltura intensiva convenzionale, cioè chimica, né garantiscono l’efficacia della difesa da tutte le avversità: insetti, acari, nematodi, malattie fungine, malattie virali, malattie batteriche, erbe infestanti. Inoltre l’agricoltura biologica non è solo la sostituzione di prodotti di sintesi chimica, con prodotti naturali od a basso impatto ambientale, ma anche e soprattutto la modificazione delle pratiche agronomiche mirate al miglioramento della fertilità ed alla prevenzione delle avversità. Commercializzazione In ogni caso l’agricoltore che si vuole affacciare sul mercato del prodotto biologico, oltre a scegliere l’Organismo a cui affidare il controllo della sua azienda e della sua attività, deve: - decidere se vendere direttamente interamente i propri prodotti ai consumatori (filiera corta) , cosa che


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Agricoltura biologica

richiede disponibilità, tempo, organizzazione e predisposizione. Nel qual caso deve semplicemente informarsi presso la propria organizzazione professionale agricola per gli obblighi di legge cui ottemperare; Nel caso di aziende che per vari motivi pensino di non potere o non volere commercializzare tutto da sole è opportuno che esse si mettano in contatto con cooperative di agricoltori biologici o comunque strutture commerciali attive nella propria zona e specializzate sul biologico per avere: assistenza tecnica adeguata; garanzia di collocamento del prodotto. La garanzia di collocamento del prodotto si ottiene solo dopo avere programmato le colture da fare in quantità e periodi, elaborando queste notizie in base alle richieste di mercato. Nel caso di aziende che, invece, vogliono o hanno la possibilità di rifornire i mercati nazionali ed internazionale della DO o GDO, è indispensabile possedere,oltre a tutte le strutture necessarie, capacità manageriale e di commercializzazione.

Gestione dei cambiamenti In realtà non si tratta di una gestione dei cambiamenti ma di una dialettica vera e propria. L’agricoltore con l’assistenza del tecnico propone e l’ambiente risponde ed alla fine di ognuna delle stagioni si tirano le somme: si ricercano gli immancabili errori e si proporranno ed attueranno modifiche alla gestione prescelta. Fertilizzazione Generalmente in agricoltura biologica, salvo pochi fortunati casi, si pone il problema di colmare un differenziale negativo del livello di sostanza organica del terreno e ciò si fa mediante l’ammendamento. I tre tipi di ammendamento più frequentemente praticato in agricoltura biologica sono:

Piano di conversione Predisporre e organizzare un piano di conversione che deve obbligatoriamente in considerazione: - il miglioramento della fertilità; - le rotazioni; - una scelta accurata di: varietà, epoca e sesti d’impianto e per le colture frutticole, porta-innesti, forma di allevamento, tecniche e tempi di potatura, etc. La gestione del suolo va modificata, cercando di lavorarlo quando opportuno e con i mezzi meccanici più idonei per mantenere una buona struttura ed evitarne il compattamento. La scelta delle coltivazioni va fatta in funzione della vocazione territoriale, evitando il più possibile rischi dovuti alle avversità fitopatologiche: più è rispettata la vocazione del territorio e delle colture che si sceglie di coltivare e più dette colture crescono in maniera sana e con meno problemi. Nella scelta vanno evitati anche i più grossi rischi prevedibili in relazione al mercato scelto, ad esempio preferendo le specie e le varietà che consentono una collocazione sul maggior numero di mercati possibile.

- la somministrazione di letame: una mescolanza di deiezioni animali e paglia maturato in presenza di aria per un lasso di tempo sufficiente a dare, in seguito all’attacco microbico, dei composti atti a formare una struttura glomerulare del suolo, con la creazione di microcamere in cui le radici possono crescere e reperire facilmente nutrimento ed acqua; - compost: mescolanza di prodotti di origine organica, soprattutto vegetale, trasformata ad opera di microrganismi in humus; - il sovescio: consiste nella semina di essenze (leguminose, graminacee, crocifere, etc.) destinate poi ad essere frantumate ed interrate per migliorare la fertilità del suolo di coltivazione. Il Reg. (CE) 2092/91 dice espressamente che “..la fertilità e l’attività biologica del suolo devono essere mantenute od aumentate, nei casi appropriati , mediante .. la coltivazione di leguminose, di concimi verdi o di vegetali aventi un apparato radicale profondo nell’ambito di un adeguato programma di rotazione pluriennali..”


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Dal convenzionale al biologico: la conversione Solo in casi particolari di carenze manifeste su colture particolarmente remunerative si integra l’ammendamento con le concimazioni. La difesa e la biodiversità: introduzione di siepi e nidi La scarsissima disponibilità di mezzi di difesa, spinge alla prevenzione e alla messa in atto di tutti i “piccoli

- pirodiserbo: bruciatura od allessamento delle plantule di infestanti mediante apposite attrezzature lungo la fila; - Fisica: la paccimatura con materiale vegetale, plastiche anche biodegradabili;

trucchi” della pratica agronomica antica e moderna,

L’acquisto eventuale di nuove attrezzature per la gestione del suolo più rispettosa va programmata in

integrando solo, qualora insufficienti, con i mezzi tec-

tempi e modi confacenti alla dimensione e alle possi-

nici della difesa diretta (prodotti fitosanitari). Tra i vari mezzi quello più “moderno” è quello dell’incremento della “biodiversità”:

bilità finanziarie dell’azienda, senza proporre impegni onerosi e non previsti.

- siepi; - boschetti; -

alberature; zone incolte; rive di fossi e canali inerbite; nidi;

Questi ambienti inseriti nell’azienda agricola ospitano la maggior parte delle specie più importanti per la predazione di parassiti (insetti ed acari, ma anche uccelli etc,) che consentono di attuare la cosiddetta “lotta naturale”, cioè quella lotta agli insetti dannosi al campo coltivato che si basa sulla ampliamento e sullo sfruttamento della pressione degli insetti utili. Per le colture frutticole, ad esempio, avrebbe senso l’introduzione di un inerbimento ben gestito con sfalci periodici e a file alternate. Controllo delle infestanti Le infestanti sono un grosso problema in agricoltura biologica e la loro lotta assorbe la maggior parte delle energie dei tecnici e degli agricoltori, giacché l’agricoltura biologica non prevede l’utilizzo di alcun diserbante anche se di origine naturale o biologico. Pertanto le tecniche di contenimento su cui si può più contare sono le seguenti: - agronomica: la rotazione e la scelta di alcune essenze per il sovescio, l’epoca di lavorazione del terreno, etc.; - meccanica: utilizzando attrezzature meccaniche idonee; - manuale: la cara e vecchia zappa, la “penna dell’agricoltore!”;

Conclusioni Comincia, per l’agricoltore, con un cerchio alla testa il passaggio dal convenzionale al biologico. La paura di non poter produrre con soddisfazione, di vedere compromesse le sue colture, spaventa maggiormente il produttore che spesso crede che questo modello di agricoltura non abbia metodologie efficaci a disposizione. La fase di conversione è pertanto un passaggio da un approccio fitoiatrico ad un approccio agronomico alla coltivazione, e l’agricoltore deve, poiché è possibile, ricercare le soluzioni produttive nel rispetto delle discipline biologiche, agire in prevenzione ed in sintonia con l’agro-ecosistema. Gli agricoltori biologici hanno incominciato a conoscere i limiti della propria produzione, conoscerne i limiti significa fruttarne le potenzialità, pertanto sono in grado di valutare specie per specie dove, come e quando è possibile coltivarle e quanto è possibile raccogliere.


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La comunicazione della qualità reale nel mondo agroalimentare I prodotti presenti sul mercato, di qualsiasi tipologia siano, possono essere classificati secondo molteplici, per non dire infinite, categorie merceologiche predefinite o anche di fantasia, a seconda di alcune loro caratteristiche. Una della classificazione che si può utilizzare è la trasformazione che si crea nello stesso prodotto al

Alberto Bergamaschi, responsabile comunicazione & marketing QC&I International Services articolo tratto da Punto CE, rivista edita da ANCCP

momento del suo impiego. Ci sono quelli, come i mac-

re in grado, con le uniche possibilità dell’indagine visi-

chinari in genere, che possono essere usati molte volte

va, della lettura dell’etichetta, della fiducia nel marchio

senza che subiscano delle modificazioni e la cui durata

commerciale e, a posteriori all’acquisto, della verifica

di vita è dipendente unicamente dall’usura e dalla loro

organolettica, di accertarsi che il prodotto sia conforme

naturale obsolescenza tecnica. Al contrario, invece,

alle aspettative di qualità proprie e del mercato.

alcuni prodotti, quando sono impiegati, subiscono

Aspettative che non dipendono solo dal gusto perso-

delle complete trasformazioni fino, addirittura, alla

nale e dalle richieste commerciali, ma anche da necessità dietetiche e, non ultimo, dalla sensibilità ambientale. Se ci pensiamo, inoltre, quelli sopra indicati sono i mezzi di valutazione (aspetto esterno, fiducia nel marchio, informazioni sul prodotto e prova di “funzionamento”) che utilizziamo in generale per procedere, o meno, a un qualsiasi acquisto e per valutarne la conformità alle proprie aspettative.

loro scomparsa. Sono molti i prodotti che hanno tali caratteristiche, e una categoria è rappresentata dai prodotti agroalimentari. Questa differenziazione di comportamento non è assolutamente trascurabile, e ci deve fare riflettere se prodotti con caratteristiche così differenti tra loro non debbano avere delle metodologie di verifica e comunicazione della qualità intrinseca altrettanto diverse. Per qualità intrinseca, per chiarezza, si considerano tutte le caratteristiche del prodotto, la cui somma valutativa ne determina il livello qualitativo. Per cercare di approfondire ancor di più questo concetto, proseguiamo con la proposta di un’altra classificazione: la durata di vita. Nei prodotti agroalimentari la durata di vita, in altre parole la “shelf-life”, può andare da pochi giorni a diversi mesi, a seconda della tipologia del prodotto e della sua metodologia di conservazione. In ogni caso, come regola generale, i prodotti agroalimentari si possono definire deperibili, non per naturale usura o obsolescenza tecnica, ma per il loro inevitabile decadimento nel tempo in un bene non più commestibile e, pertanto, non commercializzabile. Vediamo le conseguenze, per il consumatore, della caratteristica di deperibilità dei prodotti agroalimentari. Un prodotto deperibile ha, necessariamente, dei tempi molto brevi di valutazione della sua qualità, in qualche caso di pochi giorni. Pensiamo in tal senso al tempo di vita commerciale degli ortaggi, della frutta o, ancor di più, di alimenti come il latte fresco. In questo scarso periodo di tempo il consumatore finale, o il commerciante all’interno della filiera, deve esse-

Focalizzando la problematica agroalimentare, queste quattro prove di valutazione assumono delle caratteristiche particolari. L’indagine visiva, che non è possibile nel caso di confezioni chiuse e non trasparenti, può verificare se esistono delle macro anomalie o se si è lontani dal proprio gusto estetico, ma nulla ci può dire a meno che la non conformità non sia di tipo eclatante. E’ sicuramente il mezzo più sfruttato dal consumatore per decidere sull’acquisto di un prodotto, però la sua affidabilità è molto relativa e dipendente da un’approfondita e specifica esperienza, in possesso di un numero molto limitato di consumatori. Inoltre l’estrema variabilità della produzione agroalimentare, anche all’interno dello stesso lotto, impedisce di poter semplificare la valutazione complessiva con qualche verifica visiva a campione. La lettura dell’etichetta è sicuramente una più significativa fonte di informazioni ma, purtroppo, è una capacità di valutazione ancora non diffusa in modo generale nei consumatori. Inoltre, le indicazioni che vi si possono trovare sono, generalmente, solo quelle obbligatorie di legge. Non certamente esaustive di


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La comunicazione della qualità reale nel mondo agroalimentare tutti i possibili parametri della produzione e della trasformazione che il mercato vorrebbe conoscere. La fiducia nel marchio commerciale è un parametro di scelta molto personale, opinabile e fortemente spinto e guidato dalla pubblicità. Se non fosse un mezzo di scelta molto importante e facilmente indirizzabile, non spiegherebbe il denaro speso nella comunicazione

I dati che si possono ottenere, riguardo al macchinario che vogliamo acquistare, sono generalmente molto approfonditi e applicabili, come già detto sopra, a tutti i singoli prodotti dello stesso modello. Differente, ripetiamo, è il caso dei prodotti alimentari per i quali, proprio in considerazione della macro variabilità tra i lotti e della micro variabilità all’interno del

pubblicitaria.

lotto stesso, non è possibile una valutazione omogenea

Generalmente, purtroppo, la pubblicità è utilizzata

magine positiva allo stesso o al marchio in generale. In

e definitiva. La fiducia del marchio commerciale segue le stesse regole del prodotto alimentare mentre, invece, la fase di garanzia, quella della verifica organolettica post

questo modo sono privilegiati aspetti emozionali rispetto

acquisto è totalmente differente, a vantaggio dei pro-

a quelli oggettivi o misurabili scientificamente. La verifica organolettica, per sua stessa caratteristica, è possibile solo posteriormente all’acquisto. E’ molto soggettiva, contestabile ed è sfruttabile solo nel periodo di garanzia di un prodotto, che non è altro che il tempo che intercorre tra l’acquisto e il consumo dello stesso o alla sua scadenza commerciale. Periodo che, come si è già detto, può essere molto limitato, pertanto abbastanza scomodo per chi ha intenzione di organizzare una procedura di contestazione dell’acquisto. Inoltre non sempre, visto la distruzione del prodotto stesso al momento della sua consumazione, la non conformità può essere provata adeguatamente in sede di contradditorio.

dotti non alimentari. Infatti, il lungo periodo di tempo disponibile per la verifica dopo l’acquisto e il fatto che il bene non si consumi né si trasformi rende molto più agevole, approfondita e comprovabile la valutazione.

non per informare sulle caratteristiche intrinseche e peculiari del prodotto, ma per cercare di creare un’im-

Dopo questa, riteniamo, attenta disamina sugli alimenti, passiamo all’altra tipologia di prodotto, quella non edibile. Molto differente è il caso, ad esempio, della valutazione dell’acquisto di un’automobile o di un macchinario in genere, dove possiamo utilizzare, allo scopo di verificare il concetto già espresso, gli stessi mezzi di indagine sopra riportati per i prodotti agroalimentari. L’indagine visiva e la lettura dell’etichetta sono molto facilitati, rispetto agli alimenti, dall’immutabilità, sia di forma che di componenti, del singolo prodotto all’interno del modello. Abbiamo, pertanto, tutto il tempo necessario per una valutazione approfondita utilizzando la visione diretta o altre metodologie di indagine e reperimento di informazioni, sia di provenienza cartacea o digitale. I siti web, in particolare, sono la fonte di informazione più comoda per i prodotti che subiscono delle modificazioni con cadenze temporali relativamente sostenute.

Nei tre o cinque anni, ad esempio, di garanzia di un’automobile difficilmente possono sfuggire dei difetti di fabbricazione. Come caso personale posso portare una “maledizione” che mi perseguita. In tutte, e dico tutte, le sette automobili da me acquistate fino ad ora, c’erano dei problemi di guarnizioni dei vetri, o di altri componenti, di conseguenza piogge molto forti ottenevano il non desiderato risultato di creare delle infiltrazioni d’acqua. In alcuni casi, quando la garanzia era solo annuale, sono dovuto intervire economicamente per riparare l’inconveniente, a causa del mio poco celere riscontro del problema. Quando, invece, la garanzia si è allungata ai tre anni, è sempre stata la casa automobilistica a dover intervenire. La comparazione tra le due tipologie di prodotti dovrebbe essere stata sufficientemente approfondita per poter affermare che, se un prodotto è per sua natu-


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Dalla parte del consumatore ra di breve durata commerciale e subisce delle trasformazioni al momento del suo utilizzo, è di difficile valutazione e ci si affida, per il suo acquisto, in modo quasi totale ad informazioni poco approfondite, soprattutto di natura emotiva e difficilmente verificabili. Non è un caso che un prodotto agroalimentare sia facilmente soggetto a falsificazioni, riguardo le comunicazioni delle proprie caratteristiche o delle garanzie dei controlli a monte della vendita. Il consumatore, in realtà, ha poche armi, nella situazione attuale, per potersi difendere da queste false informazioni. Infatti, le più importanti difformità tra le caratteristiche reali e quelle millantate, presenti in generale sul mercato, sono certamente in campo agroalimentare. Queste difformità sono comunemente definite sofisticazioni alimentari e periodicamente qualche scandalo diffuso dai mass media viene a confermare tale asserzione. La maggiore carenza d’informazione, per una decisione di acquisto consapevole, purtroppo è sempre in campo agroalimentare. L’aspettativa prioritaria dell’acquirente di una automobile, di un macchinario o di un elettrodomestico è che l’oggetto funzioni e che il periodo della garanzia sia il più lungo possibile. Anche perché, in molti casi, non si parla più di convenienza dell’aggiustatura di un malfunzionamento, bensì della sostituzione dell’intero prodotto. E’ difficile traslare lo stesso concetto di aspettativa in un prodotto alimentare. In estrema sintesi potrebbe essere la seguente somma di affermazioni: bello da vedere, buono da mangiare e, visto il limitatissimo periodo di “garanzia”, ricco di informazioni per potere accertarsi della conformità alle aspettative del consumatore. Le aspettative che possono essere esplose, in modo esemplificativo, nei concetti di provenienza delle materie prime, della mancanza di principi attivi dannosi, della conoscenza dei quantitativi dei costituenti degli alimenti, della salvaguardia dell’ambiente di lavoro, dell’attuazione di un piano di controlli analitici molto approfonditi, delle metodologie di trasformazione utilizzate (solo fisiche o, quanto meno, con l’utilizzo di sostanze chimiche ritenute non dannose), della verifica della rintracciabilità degli ingredienti lungo la filiera, dell’utilizzo di materiale di imballaggio che sia ritenuto adatto per la tipologia dell’alimento, dell’informazione delle metodologie di conservazione utilizzate lungo tutta la filiera e di tutte le altre infinite aspettative. Come si può facilmente capire, la maggioranza di que-

ste informazioni non sono reperibili né con una lettura delle etichette o dei pieghevoli pubblicitari né, tanto meno, con la visione o l’assaggio del prodotto. Quindi, cosa è possibile fare per avere delle risposte al comprensibile desiderio di verifica delle proprie aspettative di qualità e per cercare di evitare le truffe alimentari? E inoltre, mettendosi il cappello del produttore italiano, cosa si può fare per valorizzare il più possibile le proprie produzioni, rispetto a quelle di provenienza meno verificabile, anche se più convenienti economicamente? La risposta è molto semplice, sia dal punto di vista concettuale che attuativo. Concettualmente devo avere come obiettivo quello di portare a conoscenza del mercato tutte le caratteristiche del prodotto e della produzione, lo devo fare garantendo, tramite soggetti terzi, che le informazioni trasmesse siano reali e devo rendere queste informazioni di facile accesso. A questo punto salta all’occhio che un comportamento di questo tipo è altamente discriminante verso i produttori che non lo fanno. La domanda che il mercato si porrebbe sarebbe la seguente: non lo realizzano, perché non sono in grado di farlo o non hanno delle infor-

Il libro verde dell’Unione La commissione europea ha approvato un libro verde “inteso ad avviare il dibattito sulle modalita’ per aiutare gli agricoltori europei a valorizzare nel modo più adeguato i prodotti alimentari e le bevande di qualità che producono”, nella convinzione che “di fronte alla globalizzazione che avanza, all’aumento della pressione da parte di prodotti a basso costo e all’evoluzione della domanda dei consumatori, l’arma migliore dell’Europa è la qualità”. Il periodo di consultazione terminera’ a fine 2008. L’anno prossimo, sulla base dei risultati ottenuti, verrà elaborata una comunicazione che potrà successivamente dar luogo a proposte legislative in materia. E’ possibile ottenere maggiori informazioni e contribuire alla consultazione sul seguente sito: http://ec.europa.eu/agriculture/quality/policy/index_en.htm.


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La comunicazione della qualità reale nel mondo agroalimentare mazioni che possano portare valore aggiunto alle proprie produzioni? In tutti i due i casi, l’immagine che ne ricaverebbero non sarebbe positiva e, se il numero di quelli che svolgono regolarmente questa pratica di comunicazione diffusa aumentasse, rischierebbero di rimanere fuori da un futuro standard minimo di commercializzazione.

dati che fa riferimento all’alimento e al suo produttore. Questa comunicazione diffusa, che in alcuni convegni la QC&I International Services ha definito Tracciabilità controllata e comunicata, si può applicare in realtà a qualsiasi tipologia di produzione, anche non agroalimentare, e segna il cambiamento della certificazione da una verifica della conformità di un prodotto, rispet-

Attuativamente, poi, questa comunicazione diffusa

mento della filiera e coordinare il trasferimento dei

to a un disciplinare precostituito, alla verifica che le informazioni che riguardano un prodotto, o meglio ciascun lotto di prodotto, siano reali. I vantaggi di questa evoluzione sono evidenti: la possibilità di poter comunicare anche quelle informazioni che non sono previste dal disciplinare, la possibilità di comunicare i

dati dal campo allo scaffale è assolutamente possibile,

livelli qualitativi di ogni parametro e non solo il suo rag-

anche in presenza di parte della filiera già informatiz-

giungimento, comprendendo pertanto anche i livelli ecce-

zata. Prove di questo tipo si sono già fatte con successo e il passaggio dalla sperimentazione all’applicazione estesa sarà a breve termine. Anche la messa a disposizione dei dati al mercato è molto semplice, il raggiungimento dell’obiettivo può essere ottenuto tramite un sito web o altra metodologia con cui viene trasmessa l’intera o parziale banca

zionali, la possibilità di adeguare la propria comunicazione

delle caratteristiche del prodotto e della produzione è relativamente semplice. Nell’era dell’informatica e dell’obbligatorietà della rintracciabilità aziendale, ampliare il numero di informazioni trasmesse da ogni seg-

ai singoli mercati di riferimento, la possibilità, soprattutto, di non rimanere invischiati nell’abbassamento del livello qualitativo che la certificazione tradizionale rischia ultimamente di avere. Tutto questo per arrivare allo scopo che qualsiasi produttore e organismo di certificazione dovrebbe avere: la comunicazione della qualità reale.

Aziende di qualità: i mirtilli di Caterina Pradella A cavallo tra Vercelli e la Serra morena del Canavese l’azienda conta su 2000 piante adulte Produttore di mirtilli giganti da agricoltura biologica, ha iniziato la messa a dimora di questi importanti frutti nel 1990. Le coltivazioni si collocano in collina, a cavallo della pianura vercellese con la serra morena del Canavese, in terreni circondati da boschi e irrigati dall’acqua della Dora Baltea. Attualmente la produzione si sviluppa su 1,3 ettari con 2000 piante adulte da cui si ottiene un prodotto di qualita’ superiore.

Caterina Pradella Coltivatore diretto Via Vische 24 - 13040 Moncrivello (VC) Tel.0161 401164 cell.348 2305103 Fax 0161 921162 e-mail : renegermano@tiscali.it


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