Dal paternalismo di stato al welfare society Flavio Felice Il problema Per welfare aziendale s’intende l’insieme delle iniziative e dei servizi che le aziende realizzano per andare incontro alle esigenze dei lavoratori negli ambiti più vari, dall’assistenza sanitaria alla necessità di cura dei figli, alle attività sportive. Analizzando i bisogni dei lavoratori si possono individuare possibili interventi che, fornendo ai dipendenti beni, servizi e opportunità in molteplici forme, consentano al datore di lavoro di aumentare il grado di soddisfazione dei lavoratori a fronte di oneri contenuti. Il cambio di paradigma, che si è avuto con la legge di stabilità 2016, consiste nell’aprire ad un welfare negoziato, ossia non più come proiezione della lungimiranza del singolo imprenditore, ma come frutto di una intesa collettiva (il nuovo CCNL dei metalmeccanici per la priva volta ha conseguentemente negoziato l’erogazione sperimentale di servizi e non di retribuzione). Il passaggio non è da poco e va a connettersi con la crescente esigenza della gestione collettiva privata di taluni servizi storicamente (in Italia) affidati alla gestione pubblica (salute, cultura, benessere, supporto alla famiglia …). Il supporto al welfare aziendale è avvenuto attraverso il riconoscimento di benefici fiscali. Uno dei maggiori teorici di welfare aziendale, il sociologo Riccardo Prandini, afferma che, con riferimento alla dimensione aziendale, la nozione di welfare si riapproprierebbe di una dimensione “privata” che la mera dimensione statuale – welfare state – aveva escluso. Una sorta di recupero o di reinserimento dell’azienda nella società nel suo complesso che la qualificherebbe come “Corporate Citizenship” (Adler 2006; Crane et alii, 2012), evidenziandone il carattere innovativo ed anche il crescente ruolo politico (Scherer e Palazzo, 2011). Scrive Prandini: «Questo è lo spazio-tempo dove emerge la possibilità di “contratti relazionali” specifici o – detto in altri termini – dove si rendono possibili processi di braiding, !1