Quer pasticciaccio brutto della Grande Guerra: il Giornale di guerra di Carlo Emilio Gadda

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Quer pasticciaccio brutto della Grande Guerra: il Giornale di guerra di Carlo Emilio Gadda Maggio 1915. A Milano si susseguono manifestazioni a favore dell’entrata in guerra dell’Italia che portano in piazza circa trentamila persone. Tra i manifestanti c’è una cospicua componente di giovani e, fra questi, uno studente del Politecnico meneghino appena ventunenne, Carlo Emilio Gadda. La fortunata concomitanza di eventi che il giovane Ingegnere intravedeva nell’ipotesi di guerra coinvolgeva soprattutto questioni personali: il conflitto sarebbe potuto essere un regolamento di conti con se stesso, un banco di prova, ma anche una contingenza irripetibile per potersi dimostrare - fuori dall’ambiente familiare, lontano dalla madre, in un sistema di vita organizzato - quell’uomo volitivo, coraggioso e determinato che sognava di essere. Egli considererà sempre dirimente quel momento di esaltazione giovanile, pur con tutte le ritrosie e le vergogne ad esso connesse. L’interventismo di Gadda presenta infatti un aspetto solipsistico ed esistenziale, fondato su motivazioni individuali, benché poggiato anche su ragioni patrie e familiari, di servizio al Regno d’Italia. Ma la guerra, per quanto vissuta come possibilità di riscatto dal senso d’inadeguatezza ed inelezione che Gadda avvertiva propri, sarebbe stata invece l’esperienza che fissò in drammatiche certezze quei sentimenti, generando in lui una lancinante scissione interiore: «Tuttavia io voglio affrontare con serenità la rabbia delle palle nemiche, perché solo allora il mio paese avrà in me un figlio non indegno, non degenere: in mille modi potrei ancora sottrarmi al fuoco, ma non vi penso neppure»1. Carlo Emilio è un giovane che associa all’entusiasmo per la grande ed utile avventura della guerra un’abitudine alla disciplina, un’attitudine al fare concreto, una repulsione per l’approssimazione, per il vano parlare, per le affermazioni prive di fondamento e per il vivere disordinato. Ed ecco che, attraverso il minuto annotare di ogni atto ed episodio, si fa avanti nei suoi taccuini bellici un analista che ricerca costantemente i segni di quell’ordine, la necessità della gerarchia, ma soprattutto i sintomi di una dispersa austerità. Non li troverà, chè anzi rinverrà in ogni dove segnali opposti: quelli della leggerezza e del dilettantismo, della faciloneria e dell’improvvisazione. Frammezzo alla catalogazione dei moti d’insofferenza verso l’insulsaggine dei suoi colleghi ufficiali, si fanno luce le predisposizioni gaddiane: egli stesso si autorappresenta come un «minchione»2, un ragazzo beneducato e bruciante d’attivismo, ma che non ci sa fare né coi gesti né con le parole, denunciando con ogni proprio comportamento la canonica condizione di un uomo senza qualità. Ma sa scrivere. Ed il Giornale di guerra e di prigionia si presenta in sostanza come un’esemplare conferma di quella perniciosa convinzione, da cui è così difficile svincolarsi, secondo cui la guerra, nonostante tutto, è pur sempre qualcosa di glorioso, come sostiene anche George Orwell in Omaggio alla Catalogna del 1948. Per l’immediatezza espositiva, la scarsa o impercettibile elaborazione e per la puntigliosa raffigurazione della vita di trincea offerta, il diario di Gadda si pone credibilmente come una delle testimonianze più immediate e sostanziose, dal punto di vista della resa rappresentativa e della quantità di informazioni, della Grande Guerra italiana. Pubblicato nel 1955 dall’editore Sansoni di Firenze, Gadda si oppone per anni alla divulgazione del Giornale di guerra e di prigionia, dichiarandone contestualmente l’inattualità e le costitutive deficienze di apporto interpretativo dentro un involucro frammentario e letterariamente imperfetto. Scriveva, Gadda, con la sincerità di un uomo che non aveva motivo per non dire la verità, in un quaderno che nessuno - pensava - avrebbe mai letto: manìe, coazioni a ripetere, ed infine urla rabbiose e parossistiche. Incomincia così la tragedia delle ossessioni gaddiane. I propositi iniziali del diario appaiono modesti, per stare alla dichiarazione d’intenti che viene subito esplicitata: «Le note che prendo a redigere sono stese addirittura in buona copia, come viene viene, con quei mezzi lessigrafici e grammaticali e stilistici che mi avanzeranno dopo la sveglia antelucana, le istruzioni, le marce, i pasti copiosi, il vino e il caffè»3. Ma siamo invece di fronte ad una vera e propria dichiarazione di poetica: quella dell’esibizione di una scrittura immediata, cui però la novità della guerra in atto dà i caratteri di una registrazione fuori dalla banalità e dalla comune routine giornaliera. E subito la prosa di Gadda comincia a incidere la realtà, annotando senza posa situazioni e incontri, corroborando il tutto con una serie di giudizi stringenti su fatti e persone, con una minuzia unica nel suo genere. E tutto in lui acquista plastica 1

C. E. Gadda, Giornale di prigionia e di guerra, Garzanti, Milano 2002, p. 82. Ivi p. 23. 3 Ivi, p. 11. 2

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