Transfusioni #3 Verita Monselles / Jacopo Benci, Karmen Corak

Transfusioni #3 Verita Monselles / Jacopo Benci, Karmen Corak

Transfusioni #3 aderisce a RomeArtWeek RAW e AMACI Tredicesima Giornata del Contemporaneo

Con la collaborazione della Federazione Unitaria Italiana Scrittori

Associazione Culturale No­Profit ­ Anno 43°

Archivio Menna/Binga – sede romana della Fondazione Filiberto e Bianca Menna via dei Monti di Pietralata 16, 00157 Roma Lavatoio Contumaciale Associazione Culturale diretta da Tomaso Binga/Bianca Menna Piazza Perin del Vaga 4, 00196 Roma FigurAzioni Associazione Culturale transfusioni2016@gmail.com

Si ringrazia:

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Transfusioni #3 Verita Monselles / Jacopo Benci, Karmen Corak a cura di Anna D’Elia

Archivio Menna/Binga sede romana della Fondazione Filiberto Menna 8 – 25 ottobre 2018

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Questo catalogo è stato realizzato per Transfusioni #3

Transfusioni è un progetto ideato e curato da Anna D’Elia con il contributo di Bianca Menna, Silvia Stucky e Paola Romoli Venturi Si ringraziano: Fabio Barile, Patricia Carmo, Giuseppe Demasi, Davide Di Gianni, Alessandra Lanciotti, Lou B. True.

Si ringraziano per le foto: Jacopo Benci (pagine: 22, 23, 24, 25, 31, 32, 33), Jeanmarc Caimi (pagina: 50), Werner Maschmann (pagina: 50), Palma Mattioli (pagine: 41, 43), Karmen Corak (pagine: 26, 27, 29), Paola Romoli Venturi (pagine: 34, 35, 36, 40, 41, 46)

Graphic design: Silvia Stucky

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Indice

Anna D’Elia

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Marion d’Amburgo Ritratto di signora

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Verita Monselles Trittico per Bianca Menna

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Verita Monselles

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Jacopo Benci

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Karmen Corak

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Biografie

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Transfusioni #2 Verita Monselles / Jacopo Benci, Karmen Corak Anna D’Elia

Questa mostra, come quelle che l‘hanno preceduta del ciclo Transfusioni, nasce dalle poten­ zialità che l’arte ha di creare relazioni e sinergie, di mettere in moto storie e narrazioni, in un intreccio complesso di persone, personaggi, parole, immagini, suoni. Personaggio chiave è To­ maso Binga che tesse le fila di una vicenda pluridecennale risalente agli anni Settanta, in cui la sua storia personale e artistica s’intrecciò con quella di Filiberto Menna, cui l’intero ciclo di Transfusioni rende omaggio.

Ciò che viene raccontato nasce dal suo incontro con Verita Monselles (1929­2005), artista ar­ gentina nata a Buenos Aires e vissuta a Firenze dove, nei primi anni Settanta, cominciò a usare la fotografia come mezzo di critica sociale, con l’intento di dare visibilità a un’immagine del corpo consona allo sguardo femminile per far emergere l’identità soppressa della donna, la sua parola, il pensiero, le emozioni. In Italia, Verita Monselles incontrò un gruppo di artiste che lavoravano su temi affini, tra cui Tomaso Binga con la quale s’instaurò un’immediata complicità.

All’epoca, Binga preparava i suoi ‘Alfabetieri’, affidandone la resa fotografica alla Monselles per la quale posò nella terza versione del suo Ecce Homo (1976).

In mostra emerge la relazione tra due artiste che, a partire dal medesimo sguardo sul mondo e dal comune disagio nei confronti del potere maschilista, creano un sodalizio artistico che le porta a realizzare opere in tandem di forte impegno sociale. Erano gli anni in cui l’arte era declinata in maniera quasi assoluta al maschile, le artiste non erano riconosciute neppure dai colleghi che alla creatività femminile assegnavano un ruolo del tutto ancillare.

La solidarietà non era però scontata, sia per gli schematismi che collocavano l’arte all’interno di un genere androgino, sia per le rivalità che non mancavano in uno spazio in cui la porzione ri­ servata alle donne era minima. È su tale sfondo che la complicità tra Tomaso Binga e Verita Mon­ selles si trasforma in lotta politica.

Il corpo, reale e simbolico, era il territorio da cui ripartire per la rifondazione della lingua, della religione, dei diritti. Alla riappropriazione della corporeità era connessa la possibilità di una ri­ nascita: essere al mondo con una voce, un sentire, un pensiero di donna. Non a caso, il corpo è stato al centro dell’attenzione di molte delle artiste che, in quegli anni, fondevano la loro ricerca con la pratica femminista, ed è spesso un corpo umiliato, massacrato, negato, violato.

L’Ecce Homo della Monselles narra in quattro folgoranti fotogrammi in che modo il corpo fem­ minile sia stato trasformato in icona votiva, fino alla scarnificazione totale e alla sua crocifis­ 7

sione. In principio era la donna con un corpo sensuale e fecondo, ma tutto questo non piaceva alla religione, andava perciò rimosso e cancellato. La metamorfosi alla quale si assiste evoca il sacrificio della corporeità negata dal cattolicesimo.

Una storia triste sulla quale non si è riflettuto ancora abbastanza.

La Monselles nella sequenza Ecce Homo inverte la metamorfosi per restituire alla donna un’immagine corporea, e lo fa dapprima con reticenza e poi con sem­ pre più forza. Nella prima fotografia del corpo non restano che due linee, una orizzontale e l’altra verticale che si incrociano per formare una croce. L’icona di­ nanzi alla quale ci si trova appartiene ormai al genere sacro, in particolare a quello delle reliquie. Nella seconda il corpo è ripreso di spalle e, dalla vita ai piedi, comincia a essere più visibile; le due candele issate sui rispettivi porta­ candele si rimpiccioliscono e la corona di fiori intorno ai piedi si fa più spoglia.

Nella terza immagine il senso della metamorfosi è evidente e le forme del profilo corporeo appaiono sempre più nitide. Nella quarta fotografia la metamorfosi è compiuta, complice la stampa più contrastata, il corpo si impone in tutta la sua possanza.

In mostra sono esposte due versioni di Ecce Homo realizzate dalla Monselles; per quella con quattro immagini posò Marion d’Amburgo, la grande attrice del gruppo teatrale Il Carrozzone/Magazzini Criminali di Firenze; per la versione con cinque immagini, molto più stringata e priva di ogni elemento naturalistico, posò Tomaso Binga. Attraverso la stilizzazione dell’immagine, Monselles sottolinea come ai danni della donna e della sua rappresentazione sia stata consumata una duplice violenza: il cattolicesimo l’ha negata mortificandola, il maschilismo l’ha negata trasformandola nel simbolo di un erotismo morboso e voyeur. Marion d’Amburgo, invitata a partecipare alla mostra, ha inviato Ritratto di Signora, testo inedito (pubblicato di seguito) che testimonia il profondo rapporto dell’attrice con l’arti­ sta, mettendo in luce l’amicizia e l’affetto che la malattia acuisce divenendo com­ plicità e partecipazione agli ultimi gesti che segnano non la disfatta del corpo, ma il suo trionfo. L’arte che era stata al servizio della vita continua ad esserlo fino all’ultimo istante ed oltre.

A distanza di quattro decenni, queste tematiche sono tutt’altro che inattuali. Ad essere cambiata è solo la modalità con cui al corpo ci si accosta: più strabica, meno diretta e con un’apertura più ampia che riannette al sapere sui corpi un’esperienza interdisciplinare e variegata. Pur non eludendo la critica sociale all’uso distorto 8

che tuttora si consuma ai danni del corpo femminile, s’indaga oggi in maniera più costruttiva per accedere a visioni e dimensioni altre, in grado di ricollocarne l’immagine all’interno di uno spazio e di un tempo più ampi, in cui sia il mito che la metafisica possano trovare voce. Ed è questo che accade nelle opere proposte in mostra da Karmen Corak e Jacopo Benci, invitati a dialogare con i cicli fotografici della Monselles.

Al mito di Daphne si rifà il lavoro di Karmen Corak, quattro fotografie scattate nell’Orto Bota­ nico di Palermo a un albero sulla cui corteccia – metafora della pelle – l’occhio dell’autrice ri­ trova dettagli anatomici di un corpo femminile, sì che l’analogia scatti immediata e riveli Apollo nell’atto in cui abbraccia quel tronco, nelle cui sembianze ha riconosciuto l’amata Dafne. Il mito riporta a diverse interpretazioni: l’amore non vissuto, la donna che preferisce diventare albero pur di sottrarsi all’abbraccio con il dio che non ama, il sacrificio della sua corporeità e identità. Al centro della narrazione mitologica è dunque ancora una volta – come la Monselles aveva mostrato – la negazione del femminile. Dafne cambia specie ma è tutt’altro che una li­ bera scelta; è piuttosto l’estrema conclusione che il mito riattualizza dinanzi alla violenza inferta al corpo delle donne che per sottrarsi al femminicidio preferiscono diventare alberi o insetti.

Dopo questa prima lettura se ne possono fare molte altre, poiché il lavoro di Karmen Corak è anche un’operazione sul guardare. Oggi, a essere minacciata dall’invasione mediatica di cattive immagini dal ritmo ultraveloce, è proprio quell’attitudine al guardare lento, alla visione come fonte di stupore e meraviglia, condizioni necessarie per collegare il presente al passato remoto e vedere, in una corteccia d’albero le sembianze di una Ninfa. Un’attitudine questa molto cara all’occhio fo­ tografico di Corak, come ha dimostrato il suo precedente lavoro sulla fragilità.1 L’occhio che guarda con lentezza e attenzione si sintonizza con la vita segreta delle cose, di cui coglie i movimenti im­ percettibili, entrando in relazione con livelli più profondi e sottili dell’esistere, sì che dietro una fronda rigogliosa d’alloro riappaia la folta capigliatura di una ninfa e nei rami, l’arco delle sue braccia sollevate verso l’alto e dietro la corteccia, il ventre lì dove il pube piega verso l’inguine.

La metamorfosi di cui parla il mito è ravvisabile, dunque, in questi dettagli che possono rivelarsi solo all’occhio del poeta, aprendo a una rinnovata visione. Nel rimando da un’immagine all’altra, il racconto si rianima come una pellicola che ricominci a svolgersi dopo una lunga interruzione.

Il potere delle immagini non banali è infatti di evocarne altre, lungo la catena dei ricordi personali e collettivi, fino al sapere rimosso e alla memoria archetipica dell’Universo.

Le immagini vive evocano in chi le guarda saperi antichi, ed è quello che fa Ecke Bonk, artista che interloquisce a distanza con Karmen Corak con un dittico che rappresenta rami d’alloro, Untitled (Laurus nobilis L.), 2018. L’albero in cui la Ninfa si era trasformata prese il nome di 9

Lauro (traduzione dal greco di Dafne) e da quell’istante, per volere del dio Apollo, l’alloro di­ venne pianta sacra e simbolo di gloria con cui coronare la testa dei vincitori.

Nel dialogo tra Verita e Karmen si inserisce un terzo interlocutore aprendo l’opera allo sguardo e all’intervento dell’altro. Non è una prassi consueta nella ricerca artistica, dove l’autorialità so­ litamente è vissuta come sovrana, ma rompere tale schema intrecciando saperi, inducendo con­ fronti, stimolando reazioni e relazioni, trasfondendo visioni è ciò che ci siamo proposti con il progetto Transfusioni.

Sulla capacità di guardare il mondo non ingenuamente per vedere oltre le apparenze, sulla ne­ cessità di recuperare stupore e lentezza, di sintonizzarsi con la luce e con ciò che appare piccolo e insignificante, sul valore memoriale delle immagini e sullo sguardo che le riattualizza, molto ha lavorato Luigi Ghirri cui ho voluto rendere omaggio nel libro Fotografia come Terapia (Mel­ temi, 2018), ai cui temi è dedicata la tavola rotonda con Karmen Corak, Jacopo Benci, e le storiche dell’arte Raffaella Perna e Francesca Gallo.

Dalla metà degli anni Novanta, quando realizza i lavori Polvere e ombra, Sguardo luminoso, Iti­ nerari silenziosi, Jacopo Benci sperimenta un diverso rapporto con i luoghi attraversati, immer­ gendovisi fino a toccarli, ascoltarli e non solo vederli. Ebbi modo di verificarlo già nel 2012 presentando la sua mostra Il mistero del parco (il londinese Maryon Park, lo stesso che fa da sfondo al film Blow­Up di Antonioni, che è tra i cineasti più amati e studiati dall’artista).2 Un an­ tefatto utile per meglio comprendere come Benci si rapporti con la realtà attraverso l’immagine fissa e in movimento, attraverso la tradizione fotografica e cinematografica.

In Transfusioni#3 l’artista propone un video, intitolato Sim yes sì, e alcuni frames da esso tratti.

La durata di ciascuno è 1/25 di secondo; ciò li rende invisibili ma, grazie al fermo­immagine, l’occhio può soffermarvisi a lungo, recuperando un tempo altro della visione rispetto a quello dell’immagine in movimento, come accade con le parole – dette da tre donne – tratte da L’ora della stella3, ultimo romanzo della scrittrice brasiliana Clarice Lispector, che scorporate dal testo rimbalzano in primo piano assumendo il valore di annunci, profezie, moniti. Il rapporto tra visibile e invisibile messo in evidenza dall’accostamento di video e frame è speculare a quello tra parola detta e non detta che emerge in Sim yes sì, dove Benci approfondisce l’inda­ gine sul volto e la voce.

Tre donne (l’artista Patricia Carmo, l’attrice Lou B. True, l’acrobata Alessandra Lanciotti) recitano in tre lingue – l’originale portoghese, le traduzioni inglese e italiana – alcuni tra i più penetranti brani del libro scritto quando Clarice Lispector già combatteva contro il male che l’avrebbe uccisa 10

e in cui si coglie un amore per la vita che si spinge fino ad abbracciare la morte acme della vita.

Il libro e il video si aprono e si chiudono, infatti, con un ‘sì’ di accettazione.

Nel video, la ripetizione delle frasi identiche e differenti – come lo sono i volti e le voci – si tra­ sforma in ritmo; la parola apre a ciò che la eccede, che tramite il tono, l’accento, la cadenza si diversifica. Il video mostra relazioni multiple in cui ogni elemento apre all’incontro e allo scam­ bio: ognuna delle interpreti è non solo tramite di una lingua e di una cultura diversa che si fon­ dono in un’unica espressione, ma ognuna guarda l’altra ed è guardata dall’autore, instaurando una circolarità di visioni che chiama lo spettatore a partecipare al concerto di voci come ad un movimento di danza. Attraverso le parole di Lispector, che fungono da attivatore delle sue, Jacopo Benci intreccia un dialogo con l’artista argentina Verita Monselles e con il suo Ecce Homo. Dice Benci: “Tendo una mano indietro nel tempo verso ciò che hanno detto e che intendevano dire Lispector con L’ora della stella (l’ora della stella è l’ora in cui si muore: un’idea paragonabile al­ l’idea pasoliniana della morte come ‘montaggio definitivo’ di una vita, che finalmente dà senso e ordine ai fatti altrimenti eterogenei e slegati dell’esistenza) e Monselles con il monito rivolto in Ecce Homo contro un’idea del sacro inteso come rastremazione e scomparsa della corporeità”.

I due artisti sono accomunati da un discorso sull’essere che valorizza la sensorialità, in ciò che è sottovalutato, vissuto velocemente, ascoltato distrattamente. La lezione sul guardare, sommata a quella sull’ascoltare, diventa elogio del vivere con acuità, presenza e coscienza.

L’esposizione si chiude con l’episodio che suggella l’amicizia tra Tomaso Binga e Verita Monselles, un capitolo struggente rappresentato attraverso tre fotografie, le prime due rievocano i giorni felici del comune sodalizio, la terza mostra un volto dormiente immerso in un’aureola di luce, dando forma a un’icona per la posterità. In una lettera scritta all’amica, Verita parla dei suoi ul­ timi progetti, del desiderio di mettere ordine nei lavori fatti, vuole realizzare un catalogo che possa essere una traccia del suo percorso fotografico. Sa di avere poco tempo, non può spre­ carne neppure un attimo e pone il filo del divenire nella mani di colei con la quale ha condiviso l’avventura dell’arte.

1. Cfr. mostra Fragilità dell’essere, Accademia di Belle Arti, Roma, maggio 2018.

2. Jacopo Benci – Il mistero del parco, a cura di Anna D’Elia, Ecos Gallery, Roma, 13 aprile­2 maggio 2012.

3. Clarice Lispector, L’ora della stella [1977] (Milano: Feltrinelli, 1989).

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Ritratto di signora Marion d’Amburgo

Consapevole che non c’era più rimedio trovasti la forza di congedarti, al telefono la voce resa aspra dalla malattia offuscò ogni cosa intorno a me, sgomenta dopo pochi minuti trottavo verso via di Rusciano e litigavo con la morte. Varcando la soglia della tua casa mi sono trovata dentro un set dietro il quale c’era il segno della tua inimitabile femminilità. Tutto perfetto: riposavi sul letto, vestita di un camicione esotico, a capo del letto un vaso traboccava, e i fiori rivelavano il tuo gusto.

La sera prima avevi scattato un’ultima foto di famiglia, raccontano che ti eri preoccupata di preparare nel cassetto la culla per l’in­ fanta nipote, ho riso di cuore come sapevamo ridere solo noi, il riso ha reso meno bruciante il dolore della tua perdita, in quel mo­ mento ho capito che mi lasciavi un tesoro.

Nella testa fluttuavano mille pensieri, in una veloce sequenza ho rivisto le tue foto spagnolescamente ridondanti e coloristiche e a quelle ho unito la sobrietà degli ultimi lavori, voli di uccelli in bianco e nero. Chiudevano il cerchio con l'inizio quando l’amore per l’obiettivo è stata la spinta per abbandonare quella Napoli per te tanto nemica.

Alla fine di un’estate torrida mi consegnasti una scatola che conteneva due teste femminili, due copie classiche che ti avevo prestato molti anni fa per un set fotografico, sapevi che dovevi partire, e da tempo provvedevi alla preparazione dell’ultimo atto che com­ prendeva l'attenta considerazione di cosa lasciare alle persone che avevano abitato la tua vita.

Con Alessandra Lombardi, altra grandissima amica, cercavamo di ricostruire i percorsi della donna e dell’artista che spesso, nel femminile sono indissolubilmente intrecciati.

Quello che mi ha sempre commosso di te è la cura sapiente dei particolari, mettevi a servizio dell’arte e della vita una dote antica del femminile poi con forza, rimescolavi le carte, allora fioriva da te qualcosa di unico, uno sguardo inedito sul mondo.

Le due teste poggiano sul mio tavolo di studio e sono state elevate a spiriti protettori della mia casa, mio figlio spesso ne incappella una con il casco della moto, l'atto irriverente di certo ti avrebbe fatto ridere.

Ci siamo conosciute attraverso Ketty La Rocca, giorni incredibilmente spensierati nella tua casa calda e ospitale, poi altri neri e di­ speratamente tragici.

Cene, risate, progetti, teatrini, travestimenti, foto, oggetti e stoffe giravano da una casa all’altra con la delizia irriverente di quei folli anni ‘70, sempre rilanciando sfide.

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Venivamo da origini ed esperienze completamente diverse, ma in virtù di quegli anni ‘70 una profonda empatia spianava ogni diffi­ coltà, trovavi sempre il modo di essere complice, amica, sorella, madre, con quella splendida treccia da india che tenevi appoggiata sulla spalla e quello sbuffo bianco sui capelli che ti rendeva unica: elegante, esotica, signora e bambina. Sulle “faccende” artistiche fingevi di “non sapere”, e allora eri irresistibile come Marylina quando suona le tagliatelle.

Un giorno aprendo una scatola saltarono fuori le foto delle star del night club anni ‘60 appartenuto alla tua famiglia, cosi fui iniziata al culto della divina Dodò d’Amburgo, la Vedova Nera, e decisi di prenderne il nome.

Fisicamente diverse: tu longilinea ed elegante, io rotonda e debordante.

Ho messo a disposizione con divertimento e curiosità alcune parti del mio corpo per alcune tue opere: Ecce Homo, la Venere Con­ testatrice e altre che conservo gelosamente.

Anche se il gesto artistico partiva da motivazioni diverse, il momento della sua attuazione si esprimeva per entrambe in maniera irriverente e dissacrante.

Posare per te corrispondeva a una condizione di felicità fisica, evidente segno che la tua anima era aperta al possibile, ‘giocavi’ alla fotografia con impeto, grazia e levità estetica e mondana.

Vano cercare di leggerti rispetto alle tue ascendenze russe, sudamericane, fiorentine, napoletane. Forse è stata questa sapiente pozione a renderti unica, trasversale a tutto quello che passava in quegli anni nell’arte e negli artisti.

Ti vedevo come una moderna Karenina capace di morire d’amore.

Il femminile che tanto ti avvinceva portava i segni di una ferita incolmabile, terribile l'impossibilità di coincidere con l’altro, l’uomo questo assente sempre presente, era oggetto di una ricerca tangibile e quotidiana che coinvolgeva in egual misura l’artista e la donna. La donna che in un sapiente gusto della citazione mettevi in scena paludata di colori e resa virgulto e pianta, maliardizzata e incubata nel bianco e nero, mostrava un universo teatrale dentro un altro universo, dentro quello spazio le tue creature premevano per uscire dallo spazio della foto.

Mi hai regalato foto che sigillano la mia giovinezza inquieta di cui hai colto l’impeto e la fragilità, poi sono arrivate altre stagioni, sono passati battesimi e funerali e tutto quel gran fiume della vita, il tuo occhio ne ha testimoniato il fluire, in un racconto fotografico che nel corso degli anni è diventato in larga parte privato, negli ultimi giorni della mia gravidanza il tuo obiettivo fotografico cercava e accarezzava i cambiamenti del mio corpo, conservo la serie fotografica in bianco e nero su cui poi sperimentasti con grande libertà grandi campiture di colore.

Perdona queste righe sgangherate, avrei voluto avere più tempo, ti ringrazio di avermi fatto capire che è possibile affrontare anche l’ultimo viaggio con ironia e sobrietà.

Testo inviato da Marion d’Amburgo in occasione della mostra Transfusioni #3, ottobre 2018 13

Verita Monselles Trittico per Bianca Menna con lettera (testo nella pagina a fronte), 2004 14

Firenze 19­01­04 Cara Bianca, mi ha fatto molto piacere la tua visita.

Mi hai fatto ricordare tante cose belle della nostra avventura artistica.

Mi ritengo molto fortunata di averti come amica e ti sono riconoscente per il prezioso ed affettuoso sostegno che sempre mi hai dato.

Sto vivendo questa mia sofferente malattia (diagnosi non ce ne sono), con serenità.

Mi sto rendendo conto che il tempo mi è passato attraverso, molto velocemente.

Il tempo che mi è rimasto è poco e per di più incerto.

Devo mettere ordine nelle mie cose e buttare quello che non serve e devo riuscire a fare il catalogo. Fare 300 copie per lasciare a conoscenza, per chi non mi conosce bene, la traccia del mio percorso fotografico.

Che ne potrei fare? Spedire a vari indirizzi di archivi fotografici, Fondazioni (Fondazione Menna?) Parma, Prato, gallerie?

Come stai?

Ti accludo tre foto. Due del nostro passato ed una del mio futuro dormiente.

Ti abbraccio forte Verita

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| Verita Monselles

Verita Monselles Ecce Homo 3, 1976 4 stampe fotograďŹ che montate su carta nera, 18 x 14 cm ognuna 18

Verita Monselles Ecce Homo, 1977 5 stampe fotograďŹ che montate su carta nera e didascalia dattiloscritta, 23,5 x 17,5 cm ognuna 19

Trittico per Bianca Menna (con lettera), 2004 particolare 20

Serata dedicata al femminismo a Casa Menna/Binga dopo una manifestazione al Lavatoio Contumaciale, 1976 I membri del gruppo teatrale Il Carrozzone (poi Magazzini Criminali) partecipano alla serata tutti travestiti da donne incinta 1. Marion d’Amburgo e Filiberto Menna 2. Il gruppo teatrale Il Carrozzone (in basso con Filiberto Menna) 3. Tomaso Binga, Cintura di castrità 21

| Jacopo Benci

Tudo no mundo começou com um sim. Uma molécula disse sim a outra molécula e nasceu a vida.

Jacopo Benci sim yes sì, 2018 video HD, 11’25” 7 stampe digitali su carta Hahnemühle Photomatt, 21 x 30 cm 22

Everything in the world began with a yes. One molecule said yes to another molecule and life was born.

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A questo mondo tutto è cominciato con un sì. Una molecola ha detto sì a un’altra molecola ed è nata la vita.

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| Karmen Corak

Karmen Corak Daphne (I., II.a,b,c) 2017 4 stampe digitali su carta HahnemĂźhle Bamboo, 60 x 40 cm 26

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Ecke Bonk Untitled (Laurus nobilis L.) 2018 2 stampe digitali su carta HahnemĂźhle Bamboo, 40 x 30 cm 29

backstage

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opening

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Finissage

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Anna D’Elia Fotografia come terapia. Attraverso le immagini di Luigi Ghirri (Meltemi) con la partecipazione dell’autrice e Francesca Gallo, Raffaella Perna, Jacopo Benci.

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Concerto Rhapsody in Pink di Roberto Laneri 43

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Biografie

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Verita Monselles Verita Monselles, nata a Buenos Aires nel 1929, si trasferisce negli anni Settanta a Firenze, dove inizia una ricerca fotografica volta ad analizzare e denunciare le rappresentazioni stereoti­ pate del femminile. Partecipa a una serie di importanti mostre curate dalla gallerista Romana Loda: Coazione a mostrare, Pa­ lazzo Comunale di Erbusco, 1974; Magma, Castello Oldofredi, Iseo, 1975; Altra, Galleria Il Falconiere, Ancona, 1976.

Del 1977 è la serie dedicata a Paolina Borghese, emblema del­ l’arte femminista d’avanguardia: la Venere Contestatrice, che compie il ‘gesto della vagina’, rivendica la sessualità, la libertà e il diritto all’azione politica della donna. Nel frattempo, Mon­ selles diventa la fotografa ufficiale della compagnia teatrale Magazzini Criminali (fino al 1982 Il Carrozzone) composta da Federico Tiezzi, Sandro Lombardi e Marion d’Amburgo.

Negli anni Ottanta inizia a lavorare come fotografa professio­ nista nel campo della moda e della pubblicità, mentre la sua arte ottiene importanti riconoscimenti in Italia e all’estero: nel 1982 è a Parigi al Centre Pompidou nella mostra Sei fotografe italiane, e a Napoli con una personale al Maschio Angioino. Nel 1984 partecipa alla mostra 11 donne fotografe alla Fiera Inter­ nazionale della Fotografia di Colonia; nel 1987 espone nella se­ zione culturale del Sicof di Milano, e nel 1988 nella mostra internazionale L’immagine delle donne, Palazzo San Galgano, Facoltà di Lettere dell'Università di Siena.

Negli anni Novanta, cessata l’attività di professionista, si dedica alla sperimentazione delle tecnologie digitali, e al contempo recupera scatti in bianco e nero di profili di colline, uccelli, tetti, paesaggi, passanti realizzati agli inizi della carriera, organizzan­ doli in composizioni che suggeriscono affinità elettive, perce­ zioni fugaci in tempo reale, combinazioni di luce, materia, sparizione. Muore a Firenze nel 2005.

Nel 2006 Lara Vinca Masini cura la mostra Codice inverso. La dissacrazione dell’archetipo maschile nella fotografia di Verita Monselles, 1970­2004 presso Le Antiche Stanze di Santa Cate­ rina, Prato (il catalogo è pubblicato nei Quaderni di AFT Archi­ vio Fotografico Toscano, n. 5). http://www.aft.it/quaderni/htm/005.htma/ 48

Jacopo Benci Jacopo Benci vive e lavora a Roma. La sua pratica artistica com­ prende video/film, fotografia, installazione, disegno/pittura, performance. Tra il 1996 e il 2013 è stato responsabile del pro­ gramma Fine Arts della British School at Rome. Dal 2003 si oc­ cupa di studi culturali visuali, con conferenze e pubblicazioni in inglese. È anche attivo come musicista.

Principali mostre personali: È là che io vado, a cura di F. Gallo, AOC F58, Roma (2018); Débrayages, a cura di M. Ri­ naldi, Add­Art, Spoleto (2015); Passaggi nella città prigio­ niera, Sala Santa Rita, Roma (2014); A tour of the monuments of Magliana, 26cc, Roma (2012); Il mistero del parco, a cura di A. D’Elia, Ecos Gallery, Roma (2012); Débra­ yages, a cura di M. Rinaldi, Centro Luigi Di Sarro, Roma (2011); Un itinerario possibile/A possible itinerary 1981­ 2011, a cura di L. Cippitelli, Museo Laboratorio d’Arte Con­ temporanea, Università ‘Sapienza’, Roma (2011); Itinerari in video/Testi e Testimoni IV, Sala Santa Rita, Roma (2011); Sen­ tieri invisibili, a cura di M. Sconci, Hybrida Contemporanea, Roma (2010); Itinerari silenziosi, Nuovo Cinema Aquila, Roma (2008); L’infraordinario, a cura di R. Caruso, TraLe­ Volte, Roma (2008); Reality and its Shadow, Cover Up, Lon­ dra (2003); Itinerari silenziosi – Stille Wege, Galerie Schütz, Francoforte (1998); Itinerari silenziosi, Change Studio d’Arte Contemporanea, Roma (1998).

Principali mostre collettive recenti: Transfusioni#3 – Verita Monselles / Jacopo Benci, Karmen Corak, Archivio Menna Binga, Roma (2018); Dimensione fragile, Salone Borromi­ niano, Biblioteca Vallicelliana, Roma (2018); La camera chiara, MUSPAC, L’Aquila (2016); Ricapitolando 1996­2016, PlusArtePuls, Roma (2016); Una festa dell’arte, Scuderie di Palazzo Farnese, Caprarola (2015); Viaggio in Italia / Italieni­ sche Reise, AtelierFrankfurt, Francoforte (2013); Siamo tutti greci, Benaki Museum, Atene (2012); Viaggio in Italia / Ita­ lienische Reise, Werkschauhalle, Spinnerei, Lipsia (2012); In Albis, Piazza del Palazzo, L’Aquila (2012); Le Scosse dell’Arte, MUSPAC, L'Aquila (2011).

Karmen Corak Nata in Slovenia, studia Arti Grafiche in Croazia e Conserva­ zione e Restauro di opere d’arte su carta in Italia, Giappone e Austria. Segue seminari di fotografia con Rinko Kawauchi e Hans­Christian Schink. Vive e lavora tra Roma e Venezia. Par­ tecipa a mostre collettive in Croazia, Francia, Germania, Giap­ pone, Italia, Russia, Slovenia, Spagna e Ungheria; e con personali a diverse edizioni (XI, XII, XIII) del Festival Interna­ zionale di Fotografia a Roma. Riceve premi internazionali in Fine Art Photography a Parigi, Malaga e Berlino.

Mostre personali: 2018, Fragilità dell’essere, Accademia di Belle Arti, Roma. 2018, Sub Divo. La via sacra, residenza d’artista, Gal­ leria Civica d’Arte Contemporanea, Agrigento. 2017, In a Lan­ dscape, Istituto Centrale per la Grafica, Roma. 2015, Nothing is ­ Look, and it is, Doozo gallery, Roma. 2015, Ribi. Tears in the Eyes of Fishes, Mala Galerija, Porec, Croatia. 2014, In a Landscape, Palazzo Taverna, Roma. 2014, Unveiled_altriritratti, Centro Luigi Di Sarro, Roma. 2014, Washi.The traditional way, Museo della carta e della filigrana, Fabriano. 2014, Umbratilis, Gallery of Art Temple University, Rome. 2013, Ribi. Tears in the Eyes of Fishes, ACTA International gallery, Roma. 2013, Fragments from Tradi­ tional Japan, ex Collegio dei Gesuiti, Noto, Sicilia. 2012, Washi.

The traditional way, Studio Camera 21, Roma. 2011, Aware. Be­ yond the apparence, Studio Camera 21, Roma.

Mostre collettive: 2018, Female Artists International exhibi­ tion, Prince Kung’s Mansion, Beijing, China. 2018, KWVD In­ ternational Exhibition, University Art Center Gallery Iang, Seoul, South Corea. 2017, Female Artists International exhibi­ tion, Accademia di Belle Arti, Roma. 2017, Il sangue delle donne. Trace di rosso sul panno bianco, Galerija Rigo, Novi­ grad/Cittanova, Croatia; Galerija Forum, Zagreb, Croatia; Mo­ nastero di San Benedetto, Conversano, Bari. 2016, Mindscape.

Scatti e memoria, Castelnuovo Fotografia IV ed., Castelnuovo di Porto, Roma. 2016, Different Dimension, The International Biennial of Photography VI ed., State Art Museum, Novosi­ birsk, Russia. 2015, Red alert!, PH21 Gallery, Budapest. 2014, Colours and Shadows, in)(between gallery, Parigi.

http://www.jacopobenci.com

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Ecke Bonk Born 1953 Cairo, Egypt.

Grew up in Germany, lives in New Zealand.

Studied art, philosophy and history of science in Frankfurt, Kassel and Vienna.

Founding director of the Typosophic Society – since 2001 – Typosophes sans Frontières.

Currently working on a stage adaption of Herman Melville’s Bartleby, the Scrivener, New York 1853.

Exhibitions (selection) 1997 The Typosophic Pavilion, in collaboration with Richard Hamilton, documenta X 1999 Biennale di Venezia, Austrian Pavilion, curated by Peter Weibel 2002 Book of Words / Random Reading, documenta 11 2002 Iconoclash, ZKM Karlsruhe 2003 Biennale di Venezia, Utopia Station, curated by Hans­Ulrich Obrist 2005 Monte Carlo Methode, Neue Galerie, Graz 2011 Trabant E Klasse, ZKM Karlsruhe Publications (selection) Marcel Duchamp,The Portable Museum, Inventory of an Edition (Munich, London, 1989) Marcel Duchamp, The White Book, together with Richard Hamilton (Northend, 1999) Monte Carlo Method, A Typosophic Manual (Graz, Munich, 2007)

https://zkm.de/en/person/ecke­bonk

Roberto Laneri compositore e polistrumentista (clarinetto, sax, didjeridoo, specialista di canto armonico), si è formato negli Stati Uniti (Ph.D., Università di California). Dal 1972 inizia il lavoro sulle tecniche vocali: nel 1973 fonda il gruppo Prima Materia, che usa tecniche vocali dell’Asia centrale e Tibet partecipando ad eventi prestigiosi. È ospite di festivals e rassegne importanti tra cui: Evenings on the Roof (Los Angeles); Evenings for New Music (New York); Metamusik­Festival (Berlino); Pro Musica Nova (Brema); Musik der Zeit (Colonia); Zagreb Biennale; Fe­ stival d’Automne (Parigi); Autunno Musicale (Como); Nuova Consonanza, Musica Verticale, Opening Concerts, Teatro Mu­ sica, Progetto Musica (Roma); Holland Festival; Milano Estate; BRT (Bruxelles); Biennale di Venezia; East­West Music Encoun­ ter e Jazz Yatra (India); Time Zones (Bari); Festival dei Due Mondi (Spoleto); Talos Festival (Ruvo di Puglia); Ambient Music (Bologna); la Fondazione Scelsi (Roma); Asti Musica; To­ rino Spiritualità.

La sua attività discografica comprende progetti personali (Two Views; Anadyomene; Memories of the Rain­Forest; PRIMA MATERIA; Sentimental Journey; Escher; Breath) e numerose collaborazioni. Il suo ultimo lavoro, Winds of Change, pubbli­ cato dalla Da Vinci Editions, è un quartetto jazz con Giuppi Paone e Stefano Diotallevi.

Tiene conferenze e corsi sul Canto Armonico, tra gli altri per il Freies Musik Zentrum (Monaco); l’Atelier d’Exploration Har­ monique (Marsiglia); Federazione Italiana Yoga; l’Ordine Sufi in Occidente; il Politecnico di Zurigo; lo Holland Festival; il Dar­ mstadt Musikinstitut; il National Centre for the Performing Arts (Bombay); l’Associazione Italiana di Psicologia Analitica (AIPA); il Conservatorio “Cherubini” e l’Accademia di Belle Arti di Firenze, La Sapienza (Roma).

Autore dei libri di riferimento sul canto armonico La voce del­ l’arcobaleno e Nel cielo di Indra, membro del Club di Budapest, ha insegnato fino al 2011 al Conservatorio Cherubini di Firenze.

http://www.robertolaneri.net

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Transfusioni #3 8 – 25 ottobre 2018