Stars 'N' Stripes N°40

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il periodico online per gli amanti della palla a spicchi d’oltre oceano

Lakers, Heat I B u ll s l a n c ia n o l a s f i d a p e r la c o n q u is t a d e l l ’ a n e l l o o p p u r e . . . . .


IL LIBRO SULLA ST ORIA RECEN TE DELLA JUVECASERTA IN VENDITA ANCHE ON LINE SCRIVENDO A info@a40m inutidalparadiso.c om


NBA PLA YOFF TU TT E L E S ER IE D EL L A C O RSA AL L AR RY O ’B RI EN TR OPHE Y

FOCUS ON... UDO NIS HASLEM

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Stars ‘N’ Stripes ideato da: scritto da:

Domenico Pezzella Alessandro delli Paoli

Mirko Furbatto

Bennedetto Giardina

CO SA SUC CED E... MIAMI HEAT

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FOCUS 1 LEBRON JAMES

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IL PERSONAGGIO 1DWYANE WADE

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IL PROFILO 1 ERIK SPOELSTRA

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CO SA SUC CED E... LOS ANGELES LAK ER S

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FOCUS 2 KOBE BRYA NT

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Raffaele Valentino

Nicolò Fiumi

Domenico Landolfo

Stefano Panza

Vincenzo Di Guida Guglielmo Bifulco Stefano Livi

info, contatti e collaborazioni:

Lorenzo de Santis

domenicopezzella@hotmail.it

OCCHI PUNTATI SU R ON AR TE ST

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IL PROFILO 2 PAU GASOL

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CHE COSA SUCCEDE...

Chiusa la stagione regolare gli Heat hanno ormai un solo obiettivo in mente: l’anello Nba Ingredienti per vincere: rinnovare il contratto al tuo miglior giocatore (Dwayne Wade), colui che nel 2006 assieme all'ultimo Shaq dominante, ti ha portato al primo anello della tua storia. Regalare ai Timberwolves il "progetto" più pazzo della lega (Michael Beasley) per fare spazio salariale. Convincere i due All Star più ricercati (Lebron James e Chris Bosh) a trasferirsi in Florida e a non chiedere il massimo consentito (così come fatto con Wade) per avere spazio nel salary cap per firmare un sesto uomo (Mike Miller). Trattenere soltanto sette giocatori della precedente annata (diventati sei con il taglio di Carlos Arroyo direttosi verso il Massachusetts) lasciando partire anche il pupillo di Pat Riley (Dorell Wright). Ed infine, per far amalgamare il tutto, aggiungere una serie di giocatori ormai sul viale del tramonto da un bel po (Dampier, House, Ilgauskas e Howard) che possano dare quella esperienza in più di cui una squadra che vuole puntare al titolo da subito necessita. Tutto molto semplice sulla carta, ma all'atto pratico le difficoltà sono state certamente maggiori di quelle che tanti si aspettavano. Il mettere insieme due fenomeni del calibro di Lebron James e Dwayne Wade non è certo da tutti ed aggiungervi un'opzione importante quale Chris Bosh (All Star più sulla carta che nei fatti, ma certamente un giocatore di valore) ha fatto dire a molti che in questa stagione non ci sarebbe stata gara e che in Florida, sponda Miami, sarebbe arrivato il secondo anello. Invece le cose sono andate un po differentemente da quanto ci si aspettava. Avere tre giocatori di questo tipo porta ad accentrare il gioco solo sui big three e consequenzialmente porta ad una scarsa circolazione della palla andando invece alla ricerca di un perenne uno contro uno che fa degli Heat una delle peggiori squadre per numero di assist smazzati a partita. Altra evidente lacuna degli Heat è sottocanestro dove la mole e l'esperienza dei "nonni" Dampier, Ilgauskas ed Howard e la buona volontà del "undersized" Anthony non bastano a fronteggiare i lunghi avversari di un certo livello e in molti non hanno nascosto di aver tirato un sospiro di sollievo alla notizia della cessione di Perkins da parte dei

Ora bas ora si

Celtics proprio in vista di un possibile/probabile scontro playoff. Ecco, i playoff; mai come quest'anno la lotta ad est per accaparrarsi le prime tre piazze si annuncia avvincente in questa volata con i sorprendenti Chicago Bulls, trascinati da Derrick Rose, primi al momento con due W di vantaggio sugli Heat, primi nella southeast cinque vittorie sopra i Magic e terzi al momento, sopravanzati anche dai Celtics (al momento secondi). La stagione degli


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DI

M IRKO IRKO F URBATTO URBATTO

sta scherzare, i fa sul serio Heat è stata un susseguirsi di up&down fatte di vittorie schiaccianti contro tutto e tutti e di cocenti ed inaspettate delusioni (non ultima la recente sconfitta nel secondo ritorno all'inferno della Quicken Loans Arena). Gli Heat sembrano ora essere in un trend positivo con un record nelle ultime dieci di 8-2 beneaugurante in vista delle ultime sette partite di regular season prima dell'inizio delle danze di fine Aprile. Se le cose si cristallizzassero così, con Lebron&Co terzi alla fine della stagione regolare, Miami

si troverebbe ad affrontare i Philadelphia 76-ers con una probabile semifinale contro i Boston Celtics con eventuale settima da giocare al Boston Garden, cosa non necessariamente negativa vista l'ottima propensione della squadra di coach Spoelstra ad uscire vincenti negli scontri fuori casa (24-13, miglior cammino di marcia ad est). L'obbiettivo in Florida resta il secondo anello; qualsiasi altro risultato sarebbe visto, giustamente, come un fallimento


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FOCUS

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Lebron J alla pr del no

I FALLIMENTI DI CLEVELAND SO

Era parecchio tempo che una squadra non aveva Heat. E probabilmente da ancora più tempo un ogni suo minimo movimento così come accade in aspettare niente di diverso. Già, perché il vecchio Heat, non ha certo fatto niente per placare un po estate, poi dal suo passaggio a Miami per formare dersi quali siano le reali intenzioni di James. Senz dietro casa, chiunque ha in corpo ogni volta che interpretando questa sua nuova avventura al sole discussioni su come James sarebbe entrato in que punta di piedi, cercando poco per volta la sintonia le luci del proscenio davanti a tutti anche in ques che optare per la seconda opinione. E, per certi Ragazzo Prodigio da Akron è sempre stata riconos


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James rova ove

ONO ORMAI ALLE SPALLE, E’ ORA DI CRESCERE

a tanto gli occhi della critica e dei tifosi puntati addosso come i Miami giocatore non aveva tanto le attenzioni, soprattutto dei critici, fisse su n questa stagione 2010/2011 a LeBron James. E del resto non ci si poteva o numero 23 di Cleveland, ora passato al 6, oltre che alla maglia degli o’ le attenzioni mosse, prima dalla sua situazione di free agent la scorsa e il super trio assieme a Dwyane Wade e Chris Bosh. Ora viene da chieza mettere in dubbio la sua voglia di vincere, che, dalla NBA al campetto mette piede sul parquet (o sul cemento), ci si chiede come James stia della Florida. Dopo la famigerata “Decision” di luglio si erano aperte le ello che era e resta tutt’ora il regno di Dwyane Wade. Lo avrebbe fatto in a con le altre due stelle? O avrebbe ceduto al suo ego smisurato cercando sto caso? Per come le cose sono evolute fino a questo punto, non si può versi, questo lascia un po’ perplessi. Se la smania di protagonismo del sciuta da tutti, si pensava, comunque, che James avrebbe approcciato la

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N ICOLO ICOLO’ F IUMI IUMI

sua nuova, e decisiva per le sorti della sua carriera e reputazione, avventura in maniera abbastanza diversa. Magari provando a fare quello che Garnett aveva fatto non più tardi di tre anni fa a Boston. Entrando in sintonia con Pierce e Allen senza imporre la sua presenza ma lasciando che il gruppo la assimilasse, diventandone poi il leader spirituale alla lunga. Come abbiamo accennato, il carattere e la visione di se stesso all’interno di un campo da basket da parte di LBJ sono abbastanza distanti da quelli di KG, ma non sembrava volerci uno scienziato per capire che un ingresso in scena senza tutti gli squilli di tromba extra rispetto a quelli che, di default, una situazione del genere avrebbe scatenato, sarebbe stata molto più saggia. “Io lo so cosa non va a Miami. D’altronde se festeggi l’anello prima ancora di fare il primo allenamento della stagione, devi aspettarti che accada quello che sta capitando a loro.” Parole, musica e arrangiamenti di Stan Van Gundy, coach della squadra rivale dello stato, gli Orlando Magic. Che delinea molto bene la situazione. Chi ha dimenticato la parata per accogliere in città il Trio delle Meraviglie, con celebrazioni degne di un titolo appena conquistato? Se è vero che i media americani sono molto bravi a “pompare” certe situazioni, va anche detto che Wade e Bosh, dopo qualche tempo, hanno cercato di buttare un minimo di acqua sul fuoco sulla questione, mentre LeBron continuava a farne un fatto personale tra lui e il resto del mondo che lo aspettava al varco dopo il suo comportamento da diva (oltre a “The Decision”, non dimentichiamo la stucchevole parata di general manager e allenatori nel suo ufficio per convincerlo a vestire la propria maglia) di quest’estate. Un atteggiamento tradotto subito sul campo, dove, con James in testa, i magnifici tre hanno giocato da soli per un mese a mezzo buono, arrivando a mala pena al 50% di vittorie. Poi, dopo il primo ritorno a Cleveland coronato da vittoria, super prestazione personale e sguardi cattivi anche ai bambini in prima fila, il momento migliore della stagione per la squadra di Eric Spoelstra, con 21 affermazioni nelle successive 22 partite, compresa la vittoria di Natale contro i cugini di secondo grado dei Lakers. Arma a doppio taglio se ce n’è stata una. Un record del genere, agevolato anche da un calendario tutt’altro che impossibile (unica altra vittoria di rilievo a Portland e la sola sconfitta, guarda caso, contro Dallas, uno dei top team della Lega), ha probabilmente convinto James e compagni di essere arrivati a quell’onnipotenza tanto sbandierata, prima di fare i conti con la dura realtà, fatta di otto partite consecutive contro le migliori squadre della Lega. E alla quinta sconfitta in altrettante gare ecco il famoso “Cry Gate”, con Bosh in lacrime negli spoglilatoi dopo la sconfitta casalinga con Chicago e LeBron


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James in conferenza stampa a dichiarare che: “Ho detto ai miei compagni che smetterò di fallire nei momenti finali della partita. Provo grande vergogna per me stesso in questo momento.” Belle parole? Proviamo a interpretarle nell’ottica di una squadra, che vede un giocatore certamente tra i primi 2/3 al mondo, ma fino a quel punto 0/7 al tiro in situazioni di cronometro in scadenza e partita punto a punto. Sette tiri, peraltro, mai scaturiti da una qualsivoglia circolazione di palla, ma quasi sempre partiti dopo una serie di palleggi in isolamento e arrivati, alcune volte, con scriteriati jumper da almeno otto metri di distanza. E, tranne che in un occasione, mai neanche lontanamente vicini al bersaglio. Ma riportiamo l’attenzione alle parole di James. Che dice di essere convinto di smettere di fallire nei momenti cruciali e di provare vergogna verso se stesso. Capite bene che il soggetto della frase sia sempre lui. Della squadra, o di quell’ammasso di gente che lo circonda, non si fa menzione, se non come di un gregge di pecore impaurito che non può fare altro che affidarsi a lui per farsi salvare e giungere alla Terra Promessa. “Devi cercare di fare del tuo meglio. Sempre. E’ tutto quello che possiamo fare e lo sapevamo nel momento in cui abbiamo deciso di giocare insieme. Ci sarebbero stati sacrifici da mettere in conto. E ora bisogna vivere con le conseguenze di quella decisione.” Queste, invece, sono le parole di Dwyane Wade, sempre dopo la sconfitta contro i Bulls. E’ necessario rammentarvi quali, o meglio, quale sia la “conseguenza” della decisione di unire le forze con altre due superstar? E’ dunque assolutamente necessario per il suo futuro e quello degli Heat che LBJ capisca che la vera necessità della sua squadra è quella di averlo sublime componente di un’orchestra che produce musica all’unisono e non come clamoroso solista, attratto più dai boati di stupore del pubblico che dalla soddisfazione dei compagni in seguito a una sua giocata altruista, anche banale, ma altruista e, soprattutto, non fine a se stessa. Quello che James sembra non riuscire a comprendere è che forzare tiri impossibili o giocare per i fatti propri quando la gara si decide può magari portarti a vincere una o due partite, d’altronde il talento a sua disposi-

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zione è strabordante, ma alla lunga crea attorno a lui un clima negativo. Il resto della squadra non può che risentirne, sia come ritmo partita che a livello di umore. Situazione non certo migliorata dalle ultime news extra campo, che hanno visto l’ex Cavs prima denunciato da un Club di Atlanta per una sua mancata apparizione durante una serata del locale in occasione di una partita degli Heat nella città della Georgia e poi nuovo acquirente di una quota di proprietà della squadra di calcio inglese dell’Arsenal. A margine, molto poco in realtà, c’è l’arcinoto record degli Heat contro le prime tre squadre ad Est, tre vinte e otto perse, e contro le prime quattro a ovest del Mississippi, quattro vinte e quattro perse, non certo casuale. Quando il livello si alza a dismisura, come accade negli scontri fra titani della NBA, il singolo non basta più. Ci vuole una squadra. Ci vuole un meccanismo dove ogni ingranaggio sia messo nelle condizioni di fare il suo lavoro al meglio. E per LeBron James è giunto il momento di trasformare la pienezza e sicurezza di se che ha solitamente davanti alle telecamere in qualcosa di veramente concreto sul campo. Anche se questo vorrà dire fare un passo indietro in favore di Wade, certamente coinvolgendo maggiormente gente come Bibby, Chalmers e Miller, non i salvatori della patria, ma giocatori comunque validi, troppo spesso relegati a semplici specialisti del tiro da dietro l’arco. Il buon finale di stagione sembra essere un buon viatico per i playoff imminenti, momento della stagione dove, come lo stesso LeBron ha provato amaramente sulla sua pelle, non si può più sbagliare. Sempre scomodando paragoni illustri, Kobe Bryant ha scoperto un mondo migliore nel momento in cui ha dato una chance a Gasol, Odom e Artest di dimostrargli il loro valore. E oggi ha una mano che piange miseria alla vista dell’altra imbandita di argenteria. Potranno anche sembrare discorsi pieni di luoghi comuni, ma la squadra và sempre oltre la prestazione del singolo. Le luci della ribalta potranno anche confonderti, ma un uomo, e un giocatore maturo, hanno la forza per riconoscere la giusta strada da percorrere. E’ il momento di crescere, LeBron James.

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IL PERSONAGGIO - 1

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Dwyane Wade, nel segno del titolo del 2006

Dopo cinque anni dal successo contro i Dallas Mavericks, l’ex Marquette non ha mai superato il primo turno

Come cambiano le cose da un anno all’altro. Neanche dodici mesi fa i Miami Heat venivano sculacciati dai Boston Celtics al primo turno di playoff. La franchigia della Florida dopo l’eliminazione, si avviava mestamente verso la “ lunga estate calda dei free agent”. Il Presidente Pat Riley, oscillava tra propositi di rifondazione e tentativi di trattenere la stella Dwayne Wade, costruendo intorno al campione di Chicago una squadra da titolo. Già


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Chicago. La squadra che adesso domina l’Est nel segno di Derrick Rose, aveva avviato una corte serratissima intorno al prodotto di Marquette. Poi sappiamo come è andata a finire. I Celtics posero fine all’era Lebron James, e con essa ai sogni di una città, Cleveland, e di una franchigia, i Cavaliers. E mentre andava in scena di “The Decision”, la scelta di Lebron che avrebbe condizionato gli equilibri della Nba della decade successiva, le voci intorno alla dipartita di D-Wade da Miami iniziarono a placarsi. I Bulls non erano più una grande tentazione, ma una semplice opzione. Dietro le quinte del mercato, partì operazione “Bring your talent to South beach”. Artefici :Wade Dwayne e Riley Pat. Destinatario: James Lebron. Wade per Lebron. James per Dwayne. E così è stato. Miami si prepara per lo spettacolo dei “big three”. Chi è il terzo? Chris Bosh da Toronto. Un perfetto terzo violino travestito da All Star. Il resto è storia recente. Wade ha avuto quel che voleva da Riley. Niente più “one man show”, niente più umiliazioni ai playoff, fine della nostalgia per la cavalcata al titolo del 2006. Ma ogni cosa ha il suo prezzo. Oggi la regular season dice che i Miami Heat andranno alla post season con la testa di serie numero due ad Est. Gli analisti prevedono una finale di Conference Chicago-Miami, con gli Heat nel ruolo di favoriti. Tutto molto bello e apparentemente semplice, nonché prevedibile. E invece Wade e i Miami Heat per arrivare ad essere quello che sono oggi, hanno dovuto attraversare quella che i leggendari Pink Floyd hanno chiamato “The Dark Side of the moon”. Il lato oscuro della luna di una squadra obbligata a vincere, se non a dominare, è arrivato molto presto. Un avvio di stagione in salita, e via alle critiche di chi attendeva gli odiati Heat al varco. “ Dobbiamo perderci per ritrovarci”. Parole pronunciate da Dwayne Wade dopo una rovinosa sconfitta con i Boston Celtics. L’ennesima contro un top team. Grandi con le piccole, e piccoli con le grandi. Questo sembravano i Miami Heat. Ma una stagione Nba dura 82 partite, e se non si deve mai giudicare un libro dalla copertina, non si deve mai giudicare una squadra Nba dalle prime trenta partite di regular season. Miami (pur nel difficile processo di assemblaggio di una squadra che non aveva un play di ruolo, e che sotto canestro alterna degli specialisti) aveva un grande potenziale. E Wade lo sapeva più di ogni altro, essendo stato insieme a Riley, il principale fautore dell’operazione Big Three. Per vincere occorre essere squadra. Per diventare squadra ci vuole tempo, fatica e dolore. Il dolore delle sconfitte, che quando sei costantemente sotto i riflettori, pesa ancor di più. I quarantelli, le giocate alla Jordan, non bastavano. Ci voleva qualcosa di “mentale” per dirla alla Phil Jackson. La più grande vittoria di Dwayne Wade è stata proprio questa. Non il titolo della SoutEast Division, non i 25.6 punti di media a partita, ma qualcosa di più profondo. Un lavoro costante di introspezione che “Flash” ha compiuto durante la sua stagione, nella sua testa e nel suo gioco. “ Dobbiamo essere pronti a rinunciare a qualcosa di noi stessi, per metterlo al servizio di un bene più grande: la squadra”. Il mantra ripetuto incessantemente durante l’anno da coach Erick Spoelstra, da Dwayne Wade e Lebron James. Ma tra il dire e il fare, passano le opinioni di un mondo (quello Nba)


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abituato a giudicare un giocatore dalla sue statistiche, dal numero di titoli, e dalle vittorie. La convinìvenza tra due camoioni di questo livello non è agevola, e mai lo sarà. Ideali per giocare insieme? Non del tutto. Vogliono giocar e vincere insieme ad ogni costo? Questo si. Ed già una bella base di partenza. Le buone intenzioni spesso rimangano tali, poi alla fine bisogna fare i conti con se stessi. E Wade i conti li ha fatti per bene. Certo, non è stato facile né indolore, ma il Dwayne Wade 2010/2011 è un giocatore che ha trovato un nuovo equilibrio. Una consapevolezza nata dal fatto che da soli non si vince nulla. Un destino che accomuna Wade e Lebron, riuniti come due stelle in un sistema binario. Wade per Lebron. James per Dwayne. E tutti gli altri pronti a seguirli. Pretoriani di lusso come Chris Bosh, Mike Miller, Mike Bibby, Eric Dampier e James Jones. La vittoria del sorpasso contro i Boston Celtics rappresenta l’emblema di una squadra guidata da un uomo che ha capito la giusta direzione da intraprendere. I 14 punti punti di “Flash”, i 27 di “The King”, sono solo una parte della storia. La difesa, la leadership e gli occhi sono il resto. Gli cocchi, lo specchio dell’anima. Quelli non tradiscono mai. Wade adesso ha gli occhi giusti ed è pronto a volare verso il titolo.

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FOCUS ON

A Miami manca a la carta Udonis Ha

E' stato forse, insieme al "white chocolate" Jason Williams ed all'ultima versione di Gary Payton, uno degli inaspettati, ma importantissimi punti di forza dei Miami Heat di Pat Riley nei playoff 2006 che portarono alla sorprendente vittoria contro nelle finals contro i lanciatissimi Dallas Mavericks. La sua solidità sotto le plancie ed il suo mid-

range shot sono stati un complemento ed una alternativa fondamentale alle incursioni ed alle penetrazione spezza caviglie di Wade ed al gioco nei tre metri di Shaquille O'Neal. A distanza di cinque anni si è trovato ad inizio stagione a fare da trait d'union assieme a D-Wade tra la Miami che vinse il primo anello e gli Heat che sferrano l'assalto al


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anche aslem

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MIRKO MIRKO

F URBATTO URBATTO DI

secondo. Purtroppo, per Haslem e per Miami, l'ex Gator ha subito un infortunio il 20 novembre in uno scontro con Zach Randolph riportano la lacerazione del legamento del piede che l'ha tenuto lontano dal parquet fino ad ora. Già da un paio di settimane Haslem è tornato ad allenarsi quasi a pieno regime con i compagni di squadra e non è escluso che possa tornare a giocare per l'inizio dei playoff, anche se è più facile torni a disposizione dopo il primo turno di post season. Secondo molti la sua assenza si è rivelata fondamentale per Miami (che all'epoca acquistò Erick Dampier, free agent, per sostituire Haslem) e proprio un suo ritorno, anche se non al 100%, potrebbe portare quel "quid" in più sottocanestro necessario per potersi giocare al meglio la post season.


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IL PROFILO

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Il suo nome è sempre stato sul banco degli imputati nel periodo di non gioco di Miami, in caso di non titolo sicuro l’avvicendamento in panchina con l’ex coach anche di L.A.

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Dopo “The Decision” da parte di Lebron James e Chris Bosh di raggiungere Dwyane Wade ai Miami Heat, molti addetti ai lavori erano pronti a credere a un ritorno di Pat Riley, presidente della squadra, in panchina. Ciò perché il precedente del 2006, quando Stan Van Gundy era stato licenziato da coach degli Heat e il suo posto era stato preso proprio da Riley, che poi aveva vinto il titolo con Wade&Shaq, lasciava presagire questo scenario. Riley invece ha voluto dare fiducia al giovane Erik Spoelstra, 40 anni, da Evanston, Illinois (proprio come il grande coach Dan Peterson). Che non sarebbe stato un compito facile allenare quei tre, lo si era intuito dopo la conferenza stampa di presentazione, dove i Big-Three avevano annunciato di essere pronti a dominare il decennio e di voler vincere 7-8 anelli insieme. Ma tre giocatori (per quanto fenomeni) non fanno una squadra e sicuramente si devono adattare a giocare assieme, inserendoli in un sistema di gioco studiato apposta per loro. Dopo le prime partite, si era toccato il punto più basso della stagione, con gli Heat che ruotavano intorno a un record del 50% e già si facevano costanti rumors di un pronto ritorno di Riley in panchina. Ma sia Riley che Spoelstra hanno tenuto duro e subito è arrivata una striscia di 12 vittorie di fila e 21 su 22 partite, che ha spento definitivamente (o almeno per quest’anno) rumors sulla panchina degli Heat. Spoelstra, in passato discreto giocatore dell’Università di Portland, è entrano nell’organizzazione dei Miami Heat nel 1995 come coordinatore video della squadra, scalando posizioni negli anni successivi fino a diventare assistant

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coach di Van Gundy prima e di Riley poi, vincendo anche il titolo del 2006 come assistente. Quando Riley ha deciso di ritirarsi nel 2008, ha voluto affidare la panchina al suo giovane assistente, che in un anno portò una squadra che aveva vinto appena 15 partite la stagione precedente a vincerne 43, con un incremento di 28 vittorie e il raggiungimento dei playoff. Per Spoelstra questo è un piccolo record, in quanto ha superato il precendente record di miglioramento di vittorie per un allenatore alla prima esperienza, che era di 20 del coach dei Bulls Ed Badger nel lontano 1976-77. Continuando su questa strada, gli Heat migliorarono pure l’anno successivo, giungendo a un record di 47 vittorie e 35 sconfitte e un altro biglietto staccato per la postseason. Spoelstra è riconosciuto soprattutto per essere un coach molto preparato nell’organizzazione difensiva della propria squadra. Gli Heat 2009-2010 erano infatti secondi nell’intera lega per punti subiti (94.2) e percentuale di realizzazione avversaria (43.9%). Dati confermati anche quest’anno, con gli Heat che subiscono 95 punti di media (settimi in assoluto), segnandone 102 e con percentuali ancora più basse dell’anno precendente, 43.3% sempre secondi alle spalle dei Bulls. Probabilmente il destino di Spoelstra si deciderà in questa postseason, il risultato minimo che i tifosi Heat si aspettano è arrivare alla finale di conference, per poi andare a giocarsela per il titolo. Se ciò non avverrà, dubitiamo fortemente che Spoelstra si siederà ancora sulla panchina della squadra della Florida il prossimo anno. Ovviamente gli auguriamo che questo accada e che la sua carriera di coach degli Heat possa durare ancora a lungo.

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CHE COSA SUCCEDE...

Operazione Three-peat. E' questa la missione che coach Phil Jackson, Kobe Bryant e gli altri protagonisti dei Losangelini "più fortunati" si sono prefissati ad inizio stagione. Three-peat per entrare ancora di più nella leggenda, ammesso ce ne sia bisogno visto che coach Zen ha già alle spalle ben tre Three-peat (due con i Bulls di un certo Michael Jordan ed un altro arrivato nella prima avventura con i Lakers dal 2000 al 2002) e Kobe già uno nel suddetto triennale con Jackson. Per arrivare al titolo però, quest'anno la strada sembra ben più irta di ostacoli rispetto alle passate stagioni. Migliorate le avversarie, Heat e Bulls su tutte, ritornati in auge gli Spurs (del resto siamo in anno dispari), Celtics sempre in prima fila e Mavericks e Thunder a creare più di un grattacapo ad ovest. I Lakers hanno deciso di fare loro il motto "squadra che vince non si cambia" tenendo in pratica tutti gli uomini chiave, lasciando partire Jordan Farmar (approdato a Newark) e sostituendolo con l'ex Blazers Steve Blake (nativo di Hollywood), aggiungendo nella rotazione degli esterni Matt Barnes ed esperienza sotto canestro con gli arrivi di Theo Ratliff e, nel corso della stagione, di Joe Smith (scambiato in una trade a 3 con Sasha Vujacic). La stagione però non è stata esaltante come negli ultimi due anni in cui i gialloviola hanno avuto il miglior record ad ovest. Dopo un buon inizio, fame di vittorie, problemi fisici (Bynum) e rendimento quantomeno rivedibile di alcuni uomini chiave, vuoi per spiccate abitudini all'alternanza di prestazoni (Artest), vuoi per le primavere che per alcuni iniziano a pesare (Fisher) hanno minato le sicurezze coltivate nelle ultimissime annate fino a far pensare agli addetti ai lavori più pessimisti, nella parte centrale della regular season, che ci si trovasse dinanzi all'inizio del declino dei Lakers dominatori delle ultime stagioni. Sono noti, benchè smentiti, i tentativi di convincere Melo a

Da l ‘ba ck to e cco il

scegliere l'altra sponda degli States ed i tentativi di inserimento di "Ron-Ron" in trattative plurime senza però trovare le contropartite adatta a convincere la dirigenza Losangelini a premere "l'invio". Le ultime prestazioni invece stanno facendo ricredere anche i più scettici; i Lakers vengono infatti da nove vittorie nelle ultime dieci partite, hanno recuperato terreno, sfruttando anche il momento non propriamente roseo, dovuto alla stanchezza tipica di una regular season da 82 partite e gli infortuni, di Spurs e Mavericks per sorpassare quest'ultimi ed avvicinarsi minacciosamente ai primi. Primissimi per distacco su ciò che resta dei Suns nella Pacific, Bryant&Co sono ora secondi ad ovest tra le due texane, con il secondo record di tutta la lega, a sole due vittorie dalla truppa di coach Popovich e con due vittorie di vantaggio sui Mavs, brutalizzati nell'ultimo match allo Staples Center vinto di 28 punti. Se le ultime 7/8 partite lasciassero le cose come sono i campioni in carica si troverebbero ad affrontare al primo turno o i New Orleans Hornets, privi del loro miglior marcatore David West per


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M IRKO IRKO F URBATTO URBATTO

o back’ al ‘thre e peat’, so gn o de i La ke rs tutta la stagione, o i ritrovati Portland Trail Blazers che, nonostante gli infortuni e la prima metà di stagione non all'altezza delle aspettative, con l'arrivo di Wallace e l'apporto, anche se ancora per pochi minuti ed uscendo dalla panchina, del ritrovato Brandon Roy, sembrano tornati ad essere una delle mine vaganti di un ovest sempre più competitivo. A prescindere da come andrà a finire questa stagione è logico pensare che i Lakers dovranno cambiare molto nel prossimo futuro per restare competitivi ai massimi livelli. La situazione salariale è molto pesante (già ora infatti i Lakers sono la franchigia che spende di più nell'intero panorama cestistico con oltre 91 milioni di dollari annui di spesa destinato a sfiorare i 93 nella prossima stagione) e l'età media dei bicampioni è tutt'altro che rassicurante; Fisher va per i 36, Kobe per i 33, Artest, Odom, Blake e Barnes (nel caso in cui esercitasse la player option, cosa non scontata per un giocatore che in carriera ha già cambiato otto squadre) per i 32, Gasol per i 31. Insomma, a parte Bynum (le cui ginocchia restano sempre un punto interrogativo)

non ci sono top player sotto i trenta e quest'estate nessuno di questi andrà in scadenza. La situazione più complicata è quella di Artest depositario di altri tre anni di contratto da quasi 22 milioni di dollari complessivi, situazione difficile da dirimere visto si l'indubbio talento in entrambe le fasi di gioco, ma vista anche la palese discontinuità di prestazioni che fanno di Artest uno degli emblemi del particolarissimo mondo NBA. Da considerare anche che i due migliori giocatori Bryant e Gasol si troveranno tra 2/3 anni, con altre 2/3 massacranti stagioni sulle gambe, a percepire quasi 50 milioni in due (quasi la stessa cifra percepita quest'anno complessivamente dai cugini Losangelini dei Clippers) cosa che rischia di zavorrare i gialloviola nel futuro prossimo. Ma per cambiare il futuro ci sarà tempo quest'estate, nel frattempo i Lakers puntano ad un nuovo titolo ed a sconfiggere i big three di casa a Miami (ammesso e non concesso arrivino alle finals). Per questi Lakers di Jackson e Bryant l'obbiettivo resta solo uno: il three-peat.


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FOCUS

Il ‘Black M ad un pa Michael

UN SOLO TITOLO PER RAG

In principio fu il 1998: Michael Jordan e Phil Jackson affrontavano l’incredibile rush finale di una splendida convivenza con la consapevolezza, consolidata da mesi, che il loro rapporto professionistico sarebbe cessato di lì a poco. Il coach dei Bulls definì quella stagione come quella dell’ultimo ballo (last dance, appunto) e alla fine è andata come tutti noi sappiamo. A distanza di 13 anni cambiano scenario, la soleggiata LA al posto della cupa e ventosa Chicago, e un protagonista , Kobe Bryant al posto di His Airness. La storia è esattamente la stessa, con la rincorsa al sesto titolo della compagine losangelina con l’addio oramai certo annunciato mesi or sono da parte di coach Zen. Partendo da quest’ottica risulterà interessante vedere quanto Kobe riuscirà a reggere la pressione del tentare il suo secondo threepeat -questa volta da primo violino offensivo-,e del dare un degno saluto al coach che lo ha reso grande, quel Phil Jackson in grado di ridimensionare brutalmente le comunque epiche ed indescrivibili imprese del fu Red Auerbach. Fa strano sentire accennato il nome di Kobe, ancora frescamente intinto di una notevole aurea di giovinezza ed entusiasmo, accostato a questi personaggi e a questi contesti storici. Questo ci fa rendere conto della caratura tecnica e del peso specifico nella storia NBA di questo ragazzo: 5 titoli vinti, 2 finali perse, postseason mancata solo un anno su 15, sesto marcatore all time in attesa di ulteriori scalate, record dei Lakers strainfranti . E tanto, molto altro, ancora.

Potrebbe bastare come biglietto da assoluto e indiscusso, rimane anc momenti topici delle ultime finali va delle cose, non si possono cert Artest nella celeberrima gara7 dell bilmente il trionfo del collettivo, s ta su questi successi di certo non m paragone tra MJ ed il Mamba si d fin qui viste; no contest, se la dispu Eppure, ridurre il giudizio globale tra l’altro ti ritrovi dove ti ritrovi a mente monstre, è fondamentalmen diretto in campo, si esplica sopra Lakers dei quali nulla si può disc marcatamente sia dal punto di v


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Mamba’ asso da Jordan

GGIUNGERE ‘SIR AIRNESS’ A QUOTA 6

a visita. Ciononostante, pur avendo conquistato due titoli da protagonista cora attaccata all’immaginario collettivo la sua scarsa lucidità in alcuni con Orlando e Boston: non bastasse questa visione volutamente alternatito cancellare dalla memoria le giocate di Derek Fisher, Pau Gasol e Ron lo scorso anno e il suo chiarp 6-24 dal campo: il tutto a sancire insindacasullo splendore del singolo Kobe, quindi una sua impronta visiva marchiamastodontica da tramandare ai posteri. Secondo molti. quando si pensa al dovrebbe tenere conto del diverso peso specifico avuto dai due nelle finali uta si considera soltanto dagli highlights. e su Bryant ad analisi tecniche su specifici momenti di una stagione, dove anche grazie alla sua intensità e alle sue prestazioni comunque obiettivante sbagliato. Perché la leadership del 24, oltre che per il suo rendimento attutto nella capacità di comunicazione con il resto della squadra, quei cutere in senso negativo, fuorché nella tendenza intrinseca a decelerare vista emotivo che atletico per larga parte della regular season: in quei

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DI

G UGLIELMO UGLIELMO B IFULCO IFULCO momenti emerge con i pro e i contro del caso, la vera figura di Kobe Bryant, quell’immagine che meglio descrive il suo carattere; si vede in quei momenti la diversa applicazione al gioco, la diversa voglia di imporsi e di non ammainare mai bandiera bianca; si vede, dunque, il suo essere un leader raro, uno che non si lascia mai sconfiggere da qualcosa di umano che non sia solo se stesso, uno che è sempre il primo a dare quella scossa mascherata da buon esempio ai propri compagni, per lo meno in termini di intensità e “focusement”. La sua ansia maniacale e quasi feticista di mettere a posto le cose da solo lo caratterizza negativamente, ma gli conferisce parimenti delle virtù fondamentali e rare per un campione. Chi lo conosce bene, e parlo di gente che con lui lavora, giura che il suo non è tanto un egoismo spudorato figlio di un ego altamente autovenerato, quanto un inimmaginabile senso di competitività e una cattiveria unica applicata al gioco. Un assassino spietato: il Black Mamba, non a caso. Questo atteggiamento comunque, per qualunque verso lo si consideri, lo ha spesso esposto a brutte figure, a prendersi eccessive responsabilità in campo al punto da diventare addirittura l’arma in meno dei suoi: vedi gli storici airball contro Utah nei 90’s fino alle litigate col ferro dello Staples dello scorso 17 giugno. Ma la sostanza è che alla fine ha vinto decisamente troppe volte la squadra trascinata nel carattere e nello spirito da Bryant; che negli anni più di tutti ci ha rimesso sangue, sudore e faccia. Chapeau, dunque. Se la storia la scrivono i vincitori, allora massimi onori per Kobe. LOOKING FOR THREEPEAT . Triplicare il successo questo giugno vorrebbe dire scrivere il proprio nome in una ristrettissima categoria di giocatori: Michael Jordan, Scottie Pippen, Shaquille O’Neal e lui stesso (!) sono gli unici top player negli ultimi 30 anni ad esserci riusciti. A parte questi, nella storia NBA solo i Boston Celtics di Auerbach ottennero tanto a cavallo tra gli anni 60 e inizio anni settanta. L’obiettivo dichiarato di puntare Bill Russel quanto a titoli vinti sa di mera dichiarazione di intento di creare un nuovo standard di eccellenza cestistica, più che una semplice sfida allo Shaq di turno, al Jordan semi irraggiungibile, e appunto al plurivincente Russell. Kobe ha finalmente a disposizione una squadra che possa garantirgli almeno un altro triennio di elevata competitività. Questo tuttavia, in una fase della sua carriera in cui si sono registrati i minimi storici in minutaggio e in termini di intensità del suo body language: se la dichiarazione di gestirsi al massimo è stata ribadita fin dalla prima palla a due di questa stagione, altrettanto palese è stata la sua perdita del passo in più rispetto all’avversario dal punto di vista atletico: il che, a onor del vero, ha compromesso e può compromettere solo marginalmente il suo impatto offensivo, che è figlio deduttivo di una completezza di repertorio forse unica nella storia del gioco, quindi in grado di reggere una fisiologica debacle atletica. Elencare i pregi del figlio di Jelly Bean equivale a riconoscergli una capacità irreale di giocare sul perimetro, spalle a canestro ( con varietà di movimenti e soluzioni degne dei migliori lunghi NBA), in entrata , con l’intera difesa collassata sulle sue iniziative. Il tutto in una totalmente armonica sintonia di movimenti e pensieri con Pau Gasol e in misura lievemente inferiore con Lamarvellous Odom. Ad ogni modo quanto il vecchio Bryant sia ancora in grado di spostare e scrivere in maniera diversa nuove pagine di storia lo vedremo in questi playoff, nei quali dovrebbe sciogliere una volta per tutte le briglia e dimostrare al pubblico giustamente scettico nei confronti del suo target dichiarato e della sua tenuta fisica, che il suo regno è ancora lungi dal vedere il tramonto. Di fronte al bersaglio una folta schiera di nomi: i rivali di sempre, gli Spurs e i Celtics (entrambi già sconfitti), e in più i Miami Heat e i Chicago Bulls, freschi dei loro più o meno giovani aspiranti al dominio futuro della lega. Ingredienti per una sceneggiatura da Academy Awards ve ne sono. Starà al Black Mamba dimostrarci se sarà all’altezza dei suoi illustri e, almeno finora, superiori al confronto, predecessori.


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FOCUS ON

Brian Shaw o Coac Chi per il dopo Jac

Indipententemente da come finirà la stagione dei Lakers è ormai assodato che Jackson, salvo clamorosi ripensamenti dell'ultima ora dovuti magari alla possibilità di una stagione 2011/2012 più breve in caso di lockout, lascerà la panchina Losangelina ed andrà in pensione. Di certo sostituire l'allenatore più vincente della storia, dal carisma debordante tanto da convincere il secondo Kobe Bryant a passare la palla e da dare

una insperata dimensione e continuità ad Odom ed alla sua testa fatta di continui vuoti cestistici e pause inspiegabili, sarà compito tutt'altro che semplice. Dal punto di vista tattico bisognerà capire quale fiume vorranno dragare l'owner Buss ed il gm Kupchak. Bisognerà capire se si vorrà continuare sulla strada della triple offense di Winteriana memoria dettata da coach Zen o se cambiare registro in tutto e per tutto. Il principale can-


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MIRKO MIRKO

ch K? ckson?

didato alla sostituzione di Jackson è Brian Shaw, veteran assistant dei Lakers e benvoluto dai senatori Bryant e Fisher (dei quali è stato anche compagno di squadra) oltre che dallo stesso Jackson. Cercato in passato anche dai Cavaliers di James, secondo i beninformati sarebbe il

F URBATTO URBATTO DI

candidato principe per la panchina gialloviola. Tra i contro di questa eventuale scelta ci sarebbe ovviamente la giovane età oltre al fatto che è sempre difficile per un allenatore che è stato compagno di squadra di alcuni degli elementi in rosa (i già citati Bryant e Fisher) gestire eventuali quanto probabili periodi di difficoltà. bisognerà anche vedere se Buss e Kupchak riterranno opportuno continuare con la triple offense, sistema efficace ma anche molto dispendioso, con Kobe e gli altri che si avviano verso la fase calante della carriera. Un nome che pare essere stato sondato dalla dirigenza Losangelina è quello di coach K, al secolo Mike Krzyzewski. Da trentuno anni a Duke e da cinque coach degli Stati Uniti, il coach nativo di Chicago pare però aver rifiutato per la seconda volta, dopo il primo tentativo fatto prima del secondo approdo di Jackson ai Lakers, la panchina Losangelina preferendo contiunare il suo percorso ultratrentennale a Duke University. Altro nome accostato ai gialloviola è quello di un altro ex Lakers, Byron Scott. L'attuale allenatore dei Cavs però non pare idoneo alla tipologia di gioco dei Lakers, lui che punta molto sul ruolo del playmaker (proprio con lui Chris Paul ha probabilmente giocato le migliori stagioni che gli sono valsi la fama di miglior play del mondo) ruolo che attualmente non risulta proprio il punto di forza di questi Lakers, per cui, a meno che non si riesca a portare un play di certo spessore (Deron Williams dai Nets se non proprio lo stesso Chris Paul) pare poco probabile l'avvento dell'ex tecnico degli Hornets. Altri due nomi circolati in queste settimane sono quelli di Nate McMillan attuale coach dei Portland Trail Blazers e dell'ex Knicks e Rockets Jeff Van Gundy. Il primo viene ritenuto nell'ambiente Nba uno dei migliori gestori di talenti dell'intera lega professionistica. L'altro invece, inattivo da quattro anni dopo l'esperienza a Houston, verrebbe considerato il più idoneo per dare un'identità ed uno spessore difensivo maggiore a questa squadra. Non trovano fondamento invece i rumors su un possibile interessamento verso Larry Brown, libero da qualche mese dopo l'avventura finita con le dimissioni a Charlotte. I playoff e l'estate porteranno consiglio in California e magari anche un nome a sorpresa.


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IL PROFILO

G Ga as so ol l l la a m ma ag gi ic ca a l la a ‘ ‘t tr ri ip p


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R AFFAELE AFFAELE VALENTINO ALENTINO

Il catalano è l’arma principale sotto le plance per i gialloviola. Il successo passerà anche dalle sue mani

a ch hi ia av ve e a c a ve er rs so o a v p le et tt ta a’ ’ pl


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Probabilmente stiamo parlando del lungo più forte della lega, un giocatore così completo, in attacco e in difesa non si vedeva da tempo. Lo spagnolo, da quando si è trasferito ai Lakers nel febbraio del 2008 ha fatto quel salto di qualità che tutti si attendevano da tempo. Leader solista dei Memphis Grizzlies, senza mai aver vinto una partita di playoff, perfetto secondo violino ai Lakers di Kobe Bryant, Gasol ha trovato l’ambiente ideale per crescere come giocatore e

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come uomo accanto al Maestro Zen, al secolo Phil Jackson. Dopo aver svoltato la stagione dei Lakers, che grazie all’arrivo del catalano sono diventati immediatamente una contender, arrivando anche alla finale NBA, poi persa, contro i Boston Celtics. Qui l’inesperienza ad alti livelli di Gasol aveva contribuito alla sconfitta dei Lakers, qualcuno lo accusava di essere troppo molle e di essere stato distrutto dal pari ruolo Kevin Garnett. Effettivamente i punti di Gasol erano scesi dai 19 della stagione regolare ai 14 alle finals, anche se per contro i rimbalzi erano aumentati passando da 8 a 10. Nell’estate 2008 lo si vede protagonista con la Spagna, che porta fino alla finale olimpica, persa contro Kobe e gli Usa. La stagione successiva è quella dell’incoronazione per Pau, che reagisce alle critiche, viene convocato tra le riserve dell’Ovest all’All-Star Game ma soprattutto vince il suo primo titolo, quasi abusando, nel pitturato, di Dwight Howard e dei suoi Orlando Magic. Nei playoff di quell’anno le sue cifre parlando di 19 punti e 10 rimbalzi di media, fondamentale nella conquista del decimo titolo per Phil Jackson. L’anno successivo è quello della riconferma. Oltre a venire convocato per la seconda volta consecutiva all’All-Star Game, Gasol chiude la stagione regolare con 18.3 punti, 11.3 rimbalzi 3.4 assist, e 1.7 stoppate di media. Ma è nei playoff che emerge tutto il talento di Pau che in gara 6 del primo turno segna sulla sirena il tap-in vincente che firma il passaggio del turno contro i Thuder , nel secondo turno contro i Jazz segna 23,5 punti e cattura 14.5 rim-

Fonte foto: facebook.com

balzi di media e soprattutto nelle Finals, contro Boston, a parte qualche passaggio a vuoto in trasferta, mostra una continuità di rendimento spaventosa e in gara 7 firma una doppia doppia da 19 punti e 18 rimbalzi che risulta decisiva per vincere il secondo anello consecutivo. Quest’anno i Lakers puntano chiaramente al Three-Peat e, dopo un calo fisiologico nei mesi di dicembre e gennaio abbastanza normale per una squadra che gioca più di 100 partite a stagione da 3 anni ormai, hanno tutte le carte in regola per portare a Los Angeles il 17° titolo di franchigia, che tra l’altro pareggerebbe il conto con quelli dei Boston Celtics, un motivo in più per dare il 100% ancora una volta. In questo momento il Lakers hanno il secondo record assoluto della lega, assieme ai Chicago Bulls, dietro solamente ai mostruosi San Antonio Spurs, che stanno facendo una stagione regolare davvero al di sopra delle aspettative. Le cifre di Pau in questo momento sono simili a quelle dell’anno precedente, 19 punti, 10.2 rimbalzi, 3.4 assist e 1.7 stoppate di media. Il vantaggio dei Lakers sottocanestro di poter giocare con lui, Bynum e Odom li rende automaticamente favoriti per il titolo, grazie anche a quello forte col 24 sulla schiena ovviamente. Lo stesso Kobe recentemente lo ha definito: “Il più forte giocatore di Pick’n’Roll della lega”, sicuramente l’uomo di cui Kobe si fida di più e passa la palla (volentieri o no) dai tempi di Shaquille O’Neal. Anche perché senza l’aiuto del catalano non avrebbe i due titoli di Mvp delle Finals e non potrebbe puntare al terzo quest’anno.

Fonte foto: facebook.com

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OCCU PUNTATI SU...

L’enigma di Ron Artest


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B ENNEDETTO ENNEDETTO G IARDINA IARDINA DI

A Los Angeles è arrivato la scorsa stagione, tra lo stupore generale e mille proclami, dando dimostrazione di quanta intensità difensiva e leadership potesse mettere sul parquet, cancellando tutti i dubbi sulla sua capacità di fare gruppo con una prima donna del calibro di Kobe Bryant. Ron Artest, l'uomo che ha dato la marcia in più ai Lakers nelle scorse Finals, era chiamato quest'anno a confermarsi come elemento cardine dei giallo viola, qualcosa in più di un semplice specialista difensivo, un po' come dimostrato negli scorsi playoffs, ma non appena a Los Angeles sono sorti i primi problemi, Ron è stato uno dei primi a soffrire. Offensivamente meno coinvolto rispetto allo scorso anno, e dopo una stagione di apprendistato, continua a mostrare un naturale rigetto per la Triple Post Offense di coach Phil Jackson, e tutto ciò può spiegare i numeri impietosi di questa stagione. Career low per punti segnati (8.5 a partita), minutaggio sceso sotto i 30' a partita, e nuovi dubbi sull'effettiva utilità di Artest in un team come i Lakers. Dubbi che sembrano essersi insinuati anche nella testa del GM gialloviola, Mitch Kupchak, che a febbraio ha ammesso di guardarsi intorno per qualche scambio, e probabilmente Artest era considerato uno dei sacrificabili per i losangelini. Fino alla trade deadline è stato tutto un susseguirsi di insinuazioni, curiosità, ipotesi e tweet, da parte sia dei Lakers che dell'entourage del giocatore, ma la canotta numero 15 dei campioni in carica continua ad essere quella di Ron Ron, anche se l'apporto dell'ex Rockets alla causa dei californiani non è per nulla migliorato, a parte qualche colpo di genio isolato. Lo stesso Artest, tra l'altro, ha provato a scherzare sulle voci di una possibile trade, dopo essere stato multato di 4000$. “Avrei potuto comprare 10000 hamburger da In'n'Out, avrei perferito fare questo piuttosto che darli via così. Adoro In'n'Out, sono assuefatto, è l'unica ragione per cui sono qui a Los Angeles, altrimenti già sarei andato a Memphis o da qualche altra parte...“ In una regular season andata al di sotto delle aspettative, Artest è il primo capro espiatorio per questi Lakers, e il rischio concreto di perdere anche la seconda piazza nella Western Conference non fa altro che aumentare la pressione nell'ambiente gialloviola, già abbastanza appesantito dai continui alti e bassi stagionali e dalle aspettative non confermate dei nuovi arrivati. Artest però è uno che riesce a dare il meglio di sé proprio in queste situazioni, e prima di dare un giudizio negativo sia sul giocatore che sulla squadra, sarà bene aspettare l'esito dei playoffs. Lo scorso anno Artest risultò decisivo per il repeat degli uomini di Phil Jackson, riuscirà a fare altrettanto per il three-peat?


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We l c o m Larry O’Brie


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me to: en ‘Rumble’


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Chicago Bulls

Tutto scontato, tutto già scritto tutto già proiettato a quando il livello degli avversari sarà un gradino molto più elevato rispetto a quello che sarà opposto ai Bulls questa sera. Niente da dire nei confronti della stagione degli Indiana Pacers che hanno messo il primo mattone per un futuro al quanto interessante, seppur con un cambio di panchina nel mezzo, ma quelli di questa stagione, quelli di quest’anno sono dei Bulls delle grandi occasioni. Troppo più talentuosa e ricca di motivazione la formazione di coach Thibodeau per perdersi in un upset che saprebbe di fenomenale dopo la regular season della truppa proveniente dalla Windy City. Tutt’al più quello che si potrebbe vedere è un colpo di genio e di orgoglio da parte dei Pacers e tale da mettere in cascina almeno il punto della bandiera. Possibile ma forse improbabile, dal momento che i ‘tori’ di Chicago non vedranno nessun altro colore che il rosso per giungere quanto prima e senza problema al secondo ostacolo.

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La chiave. Per Indiana è chiaro e cristallino. Riuscire a fermare la furia di Derrick Rose, che potrebbe essere incoronato Re della Lega anche durante la stessa serie con Indiana, è l’unico imperativo. Più facile a dirsi che a farsi, dal momento che in tanti quest’anno c’hanno provato e nessuno c’è riuscito. Riuscire a mettere la museruola agli altri, vedi Deng, vedi Boozer, potrebbe essere, invece, la chiave vera, dal momento che la stagione regolare appena conclusa ha dimostrato come certo movimenti sono impossibili da fermare o da impedire. Dall’altra parte affidarsi ovviamente alle mani di Rose e a quelle dalla lunga distanza di Deng per aprire l’aria è l’unico modo che ha sempre funzionato per Chicago. Poi c’è la difesa e quella si spiega e si commenta da sola. Aspettate solo di vederla in campo. COME E’ ANDATA NELLE PRIME DUE USCITE Ch ic ag o Bu lls -In dia na Pa c er s – (Ro se 39 , De ng 1 8 ; Gr a ng e r 2 4 ,


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Indiana Pacers

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Hansbrough 22).

Chicago Bulls-Indiana Pacers 96-90 (Rose 36, Boozer 17; Granger 19, Price 13)

Non un soliloquio come ci si aspettava alla vigilia, ma la gara1 tra i Bulls ed i Pacers è stata al quanto avvincente. Il fuoco, il calore e la grinta dell’inizio dei playoff avrà dato ad Indiana (che in trasferta ha giocato la partita perfetta) quella spinta in più non solo per restare attaccata a tutta la partita ma anche di mettere paura ad una squadra che invece è scesa in campo cin il suo solito credo e la sua solita pallacanestro: palla a Derrick Rose e pedalare. Granger e Hansbrough iniziavano a crederci (24 e 22) con l’ex North Carolina che da l’ultima sterzata per i Pacers convertendo il gioco da tre punti del 98-88. Da quel momento in poi, però, Chicago decide che è arrivato il momento di chiudere i giochi e di mettere tutto a posto. A raffica arrivano 16 dei 17 punti finali, 5 di Derrick Rose che fino a quel momento era stato devastante, chiudendo poi con 39 punti, 6 rimbalzi e 6 assist. Indiana Barcolla vistosamente ed i Bulls portano a casa la prima vittoria.

Ancora una volta con qualche fatica di troppo a prendere il largo all’interno del match, ma alla fine i Chicago Bulls portano a casa anche la gara numero 2 in un match che è stato se non uguale, ma molto simile a quello di due giorni fa. I Pacers non hanno mollato di un centimetri e addirittura sono anche andati avanti tra terzo e quarto periodo con Tj Ford dopo l’infortunio alla caviglia di Collison che non gli ha permesso più di rientrare in campo. Ma quando c’è bisogno del leader Derrick Rose si fa sempre trovare pronto. Alla prima sono stati 39, nella notte l’ex Memphis ha chiuso con 36, 8 rimbalzi e 6 assist ed anche 2/5 dalla lunga distanza. Alle sue spalle Korver piazza la tripla che fa barcollare Indiana dopo quelle di Aj Price, e Deng infila il liberi della staffa che sposta la serie ad Indianapolis con i Bulls sopra 2-0.


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#4

Power Ranking

Orlando Magic

Una scena già vista. Un film già girato, ma questa volta gli attori protagonisti sono praticamente gli stessi solo da una parte, quella degli Hawks. Lo scorso anno la Orlando alla ricerca della nuova avventura in finale dopo quella persa contro i Lakers, eliminò senza nessun problema e con un secco 4-0, con gli Hawks che mostrarono per l’ennesimo anno consecutivo di essere quella che viene definita squadra da regular season e senza nessun cambio di marcia per i playoff. Tutto uguale anche quest’anno? Assolutamente no, almeno sulla carta. Tutto dipende da quanto Orlando riuscirà ad avere la stessa consistenza tecnica e tattica della passata stagione o da quella ancora precedente. Tutto dipenderà ovviamente anche da Dwight Howard. Il ‘Superman’ della Florida deve fare un passo in avanti, caricarsi la squadra sulle spalle e provare a sopperire da solo a quelle che sono le mancanze dei compagni cosi come fanno le superstar ed i ‘franchise player’. Attorno a lui, poi, dovranno crescere anche gli altri, a partire da Nelson e finendo per Turkoglu che da quella annata della finale Nba non è stato più lo stesso. Se il turco riuscisse a trovare la verve di due anni or sono

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tutto potrebbe avere un sapore diverso.

La chiave. Per gli Hawks il tutto è sempre nello stile di gioco o di vista se vogliamo proprio chiamarlo cosi. Evitare di affidarsi solo ed esclusivamente a quel tiro dalla media e lunga distanza che potrebbe diventare, come in passato, la croce e delizia degli Hawks nella post season. Cosi è stato lo scorso anno contro i Magic cosi ancora dietro contro Lebron ed i Cavaliers. Un sistema che se in serata è in grado di abbattere chiunque, ma che se funziona anche a strappi produce solo tiri sbagliati rimbalzi difensivi e non di rado anche contropiedi per gli avversari. Alternare con palloni nel pitturato con il chiaro intento anche di far spendere qualche fallo ad Howard potrebbe essere la strada giusta. Collins è arrivato per questo motivo, ma da qui a dire che riuscirà nell’opera è un vero e proprio terno al lotto. COME E’ ANDATA NELLE PRIME DUE USCITE


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Atlanta Hawks

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#5

Power Ranking

18 dei Magic) ed il doppio ventello, 25 e 23, di Joe Johnson e Crawford. Orlando Magic-Atlanta Hawks 93-103 (Howard 46, Nelson 27; Johnson 25, Crawford 23) Orlando Magic-Atlanta Hawks 88-82 (Howard 33, Nelson 13; Smith17, Crawford 25) Frustrato e di poche parole nella conferenza stampa di chiusura del match, Dwight Howard, che almeno ci ha messo il suo per provare a portare a casa la Questa volta ne sono bastati 33 per decretare la vittoria dei Magic e pareggiare la prima partita e non iniziare una post season che davvero potrebbe lasciare degli serie prima che la stessa si trasferisca ad Atlanta. Questi i punti di Dwight strascichi indelebili. Il ‘Superman’ della Florida chiude con 46 punti 16/23 dal Howard all’interno di quella che è stata la partita con più errori dal campo di campo, 14/22 ai liberi , 19 rimbalzi ed un assist. Numeri dai quali ti aspetti arri- questo inizio di playoff. I numeri parlano chiaro: 34% totale e 21% da tre per i vare una vittoria ed invece l’unica cosa ad arrivare è stata una sconfitta, visto che Magic, 39% totale e 35% da tre per gli Hawks. Una sorta di festival dell’errore degli altri Magic sono Nelson ha giocato al di sopra di un certo standard con 27 dove Orlando stava anche rischiando, visto che si ritrovava sotto nel punteggio punti e 6 rimbalzi, mentre il resto della squadra ha deciso di non ‘presentarsi’ ed il solo Superman a mettere punti sul tabellone. Poi però la svolta nel quarto per la prima tappa della serie. Dall’altra parte gli Hawks avevano una sola possi- periodo. Howard continua a segnare, Nelson decide di metterci intensità in difebilità, metterla dentro dalla media e lunga distanza ed allora la vittoria di Atlanta sa e dal pick and roll con Turkoglu nel ruolo di playmaker arrivano due giocate, sta tutta nei numeri: 51,4% dal campo, 42,9% da tre 9 palle perse (a fronte delle l’ultima quella di Richardson dalla lunga distanza, che chiudono il match.


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#2

Power Ranking

M Miia am mii H He ea att

Ci siamo. Gli Heat sono arrivati alla prova del fuoco. Da qui in poi il team affidato alle mani tecniche di Eric Spoelstra dovrà dimostrare di essere quella macchina assassina che tutti credevano in estate. Una post season nella quale James e Wade avranno sulle spalle non solo il peso di quella Finale Nba che rappresenta l’unico risultato negativo ammesso, in caso una volta all’atto finale gli Heat dovessero capitolare, ma anche quello di cancellare tutti gli alti ed i bassi di una regular season dove solo un calo dei Celtics ha permesso di agguantare quel secondo posto che ora li metterà di fronte ai Sixers. Una delle due formazioni considerata ‘abbordabile’ ad Est insieme ai Pacers, ma che a casa propria hanno sempre detto la loro, ma non contro gli Heat. Doug Collins avrà, poi, il fardello di trovare due alternative in difesa per fermare James e Wade in pieno stile Mission Impossible.

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dovrà insistere se vorrà arrivare fino alla fine. Due punti dai quali nessuna vincitrice del titolo Nba ha mai potuto prescindire. Due punti che sono stati anche quelli determinanti nel 2006 quando il giovane Wade si portò a casa anello e Mvp delle finali. Due punti che sono andati a corrente alternata fino alla palla a due di questa notte e che non possono essere regalati ad una squadra come Philadelphia che da par suo non ha niente da perdere e tutto da guadagnare. Ancora meglio se gli Heat provassero a metterla insieme quando il tutto si sposterà al Wells Fargo Center di Phila dove i Sixers hanno sempre giocato una pallacanestro di buon livello mietendo vittime illustri e dove il ritorno di Lou Williams potrebbe anche essere la chiave per un successo di consolazione. COME E’ ANDATA NELLE PRIME DUE USCITE

La chiave. Chimica e difesa. Questi gli unici due punti sui quali Miami Miami Heat-Philadelphia 76’ers 97-89 (Bosh 25, James 25; Holiday 19,


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Philadelphia 76’ers

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Young 20)

M i a m i H e a t - P h i l a d e l p h i a 7 6 ’ e r s 9 4 - 7 3 ( L e b r o n 2 9, B o s h 2 1 , W a d e 1 4 ; Young 18, Battie 15, Iguodala 5)

Doveva essere una passeggiata ed a tratti nel terzo quarto lo è anche stata. Gli Heat salvano la faccia ed una marea di critiche vincendo nel classico bianco playoff dell’American Airlines Arena, una gara1 nel segno di Chris Bosh, ma soprattutto dei Sixers. Phila parte a cento all’ora portandosi subito in vantaggio e sbagliando poco e niente. Una verve offensiva che si spegne nel secondo e terzo quarto quando non solo l’ex Raptors ci mette il proprio di zampino, ma anche quando i Sixers hanno continuato a sbagliare canestri, per poi ritrovarla nel finale. Miami va avanti in doppia cifra, pensa che tutto sia finita e di tenere in controllo il match, ma Phila piazza la ‘remuntada’ arrivando fino al -1 con il canestro di Young. La palla inizia a pesare ed allora ci pensa Dwyane Wade a mettere le cose a posto con un gioca da tre punti che riconsegna ai padroni di casa l’inerzia del match e dopo pochi secondi anche la vittoria finale.

Finisce in scioltezza e senza patemi d’animo la seconda sfida della serie in quel di Miami. Gli Heat annientano i Sixers, che però ci hanno messo del loro nel servire il successo a Lebron e compagni su di un piatto d’argento. Un continuo sparare a salve per Philadelphia che nel primo quarto ha chiuso con il 20% dal campo e migliorando un po’ solo nel secondo periodo. Poi sempre e solo errori. Alla fine i Sixers hanno chiuso il match con 27/79 totale dal campo e 6/14 da tre; troppo poco se si vuole vincere contro una formazione con Wade e Lebron. Cheto ancora una volta l’ex Marquette che ne mette 14, ma tutti nei momenti che contavano, mentre sono stati 29 con anche qualche perla da highlights per James.


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Boston Celtics

L’unica serie di grande interesse della Eastern Conference. L’unica serie che potrebbe regalare un risultati insperato o partite epiche o addirittura una gara7 già al primo turno. Tutto può accadere, tutto può e deve essere messo in lista in una sfida che ha anche un sapore particolare anche dal punto di vista del ‘face to face’. Una sfida sentita. Una serie che di sicuro potrebbe esaltare l’ego di tutti i giocatori, da una parte e dall’altra, cosi come è accaduto in stagione regolare sia con la vecchia che con la nuova versione dei Knicks. Da Spike Lee a Paul Pierce tutto varrà la pena di essere seguito notte dopo notte. Si inizierà ovviamente nel Massachusetts ed al Garden, ma occhio a quando il tutto avrà come scenario un Madison Square Garden incandescente e di ritorno alla post season dopo anni di purgatorio.

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larsi e di giocare il suo basket. Rallentamenti che potrebbero essere anche un piacere per una squadra come i Celtics, che oltre a pensare di passare il turno dovrà anche pensare di conservare forze in vista del prosieguo dei playoff. Dalla loro, però, i Celtics hanno una panchina molto più lunga ed occasioni di attacco molto più variegate rispetto alla ‘coperta corta’ di coach Mike D’Antoni che a questo punto ridurrà ancor di più le proprie rotazioni per non perdere di valore ed intensità nei confronti di Boston. Attaccare con continuità una difesa che lascia fare ed anche tanto e non fare lo stesso, per i biancoverdi è l’unico modo per avere sempre la sfida tra le mani. Riuscire, invece, a trovare un compromesso tecnico-tattico e sfruttare un po’ di fortuna ed il calore del Garden, quello a disposizione dei Knicks affidati alle mani di Stoudemire ed Anthony.

La chiave. La velocità attuale della transizione e della ‘run and jump’ di New COME E’ ANDATA NELLE PRIME DUE USCITE York non è certo quella della prima sfida di dicembre dove fu Pierce nel finale a decidere il finale. Un ritmo che presenta cali per permettere ad Anthony di iso- Boston Celtics-New York Knicks 87-85 (Allen 24, Pierce 18; Stoudemire 28,


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N e w Yo r k K n i c k s

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Anthony 15)

Ventiquattro punti e due triple pesantissime nel finale di quarto periodo per il ritorno la prima e quella della vittoria con pochi secondi sul cronometro la seconda. Due perle che salvano i Celtics che fino a quel momento erano stati costretti ad inseguire i Knicks con Anthony con problemi di falli e Stoudemire a fare da padrone della squadra al centro dell’area partendo in palleggio o schiacciando dal rimbalzo. Ma ai Knicks è sempre mancato qualcosa per vincere la partita. Come la difesa sull’alley oops da rimessa che ha accorciato sul -1 nel finale, come il fallo in attacco di Anthony che ha dato il possesso decisivo ai Celtics, come i non canestri di Billups che si è anche infortunato ad un ginocchio, oppure quel tiro da ‘go tu guy’ di ‘Melo’ che nell’ultima azione ha incocciato il ferro regalando a Boston il primo punto della serie.

#6

Power Ranking

Douglas 14)

E sono due. Due i crediti che i Knicks hanno con la fortuna e che forse al Madison Square Garden sarà molto più benevola. Non in quel di Boston, dove New York, incappa nella seconda sconfitta della serie arrivata dopo un finale incandescente e deciso da un tiro o da un passaggio nei secondi finali. Dopo Ray Allen in gara1, tocca a Kevin Garnett mettere la firma sotto quella di gara2 con due azioni in fila: prima quella del canestro sulla faccia di Jeffries, dopo che lo stesso aveva segnato il canestro del vantaggio Knicks; e ruba palla sempre a Jeffries, che in una manciata di secondi passa da eroe ad autore di un passaggio orribile, e sancisce la vittoria. Una vittoria sofferta, di misura nonostante i 3° di Rondo ed i 20 di Pierce, ma complice anche i 42 punti, 17 rimbalzi e 6 assist di un Carmelo Anthony versione unico leader della squadra causa i problemi alla schiena di Stoudemire che lo hanno tenuto in campo solo per 17’ con 4 punti, Boston Celtics-New York Knicks 96-93 (Rondo 30, Pierce 20; Anthony 42, oltre all’assenza dopo l’infortunio in gara1, di Chauncey Billups.


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#1

Power Ranking

San Antonio Spurs

Una corsa al contrario quella dei Grizzlies nelle ultime uscite di stagione regolare. Dopo aver rincorso per lungo tempo la possibilità di scalare posizioni nella griglia generale, le ultime uscite sono state invece alla ricerca della conferma dell’ottava piazza. Evitare i Lakers. Questo il punto più importante. I gialloviola sono stati considerati più temibili nonostante tutti i problemi che i losangelini hanno avuto in questa regular season. Meno temibili, invece, gli Spurs che hanno avuto qualche noia fisica di troppo e potrebbero addirittura presentarsi senza Manu Ginobili al debutto per un problema al gomito. Guai fisici li ha anche Randolph, ma quella che gli sta capitando tra le mani è un’occasione più unica che rara per redimersi a livello di prestazioni di livello anche in chiave playoff rispetto al passato.

NBA PLAYOFF

per prudenza, un po’ per natura e carta di identità, farà tutta la differenza di questo mondo. Attaccare nel settore dei lunghi i Grizzlies o meglio attaccare Randolph in post basso rappresenta un fulcro importante per tenere occupato la’arma principale di Memphis in attacco. Per Duncan questa può essere l’ultima occasione per arrivare al titolo e quindi l’ultima occasione per dare quello che ha. Al resto poi ci penseranno Ginobili e Parker con il francobelga già pronto a fare a fette l’area avversaria e costruendo metri di vantaggio a tiratori di razza come Neal e Bonner. COME E’ ANDATA NELLE PRIME DUE USCITE

S a n A n t o n io S p u r s - M e m p h i s Gr iz z li e s 9 8 - 1 0 1 ( P a r k e r 2 0 , Du n c a n 1 6 ; La chiave. La condizione di Duncan prima ancora di quella di Ginobili che in Randolph 25, Gasol 24) questo momento sta monopolizzando l’intera stampa texana. Riuscire a capi- Doveva essere una sorta di pura formalità, visto i piazzamenti in regular seare se ora il caraibico può innescare quelle marce alte che ha evitato un po’ son, ma nei playoff lo si sa tutto può accadere, persino che la teste di serie


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Memphis Griz zlies

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numero 8 batta in trasferta la numero 1e conduca la serie per 0-1. Questo è quanto è accaduto in Texas tra i San Antonio Spurs ed i Memphis Grizzlies. Spurs che si sono presentati alla partita senza Ginobili e con un Duncan che è sembrato in grande spolvero con partenze dal palleggio e schiacciate stile vecchi tempi (seppur soffrendo contro i vari Randolph e Gasol). Il caraibico c’ha provato insieme a Parker a prendere il largo contro una squadra che della leggerezza mentale ha fatto un’arma micidiale, ma il massimo che sono riusciti a produrre è stato un +8 nel terzo periodo. Poi Mayo, Conley e Randolph hanno fatto il resto riaprendo tutto negli ultimi 12’. San Antonio è costretta ad inseguire, Memphis inizia a sentire l’odore dell’impresa con il canestro di Battier dopo le due triple di Bonner a mantenere alte le speranze degli Spurs che si infrangono però, sotto di tre, come il pallone sul primo ferro scagliato da Richard Jefferson nella tripla della vittoria.

#8

Power Ranking

Randolph 11, Young 17)

Et voila. Il ritorno in campo di Manu Ginobili coincide immediatamente con una vittoria per i San Antonio Spurs che in questo modo pareggiano la serie ed evitano di finire a Memphis sotto 2-0. L’argentino ritorna in squadra dopo l’infortunio al gomito che lo aveva tenuto fermo ai box in gara1, e lo fa segnando 17 punti, dispensando 4 assist e catturando 7 rimbalzi. Una dimostrazione, sempre che ce ne fosse stato bisogno, che il vero metronomo delle prestazioni degli Spurs è lui. I Grizzlies, però, non hanno mai mollato e tornano a casa con un briciolo di fiducia in più, dal momento che sono stati solo tre i possessi di distanza dai texani alla fine della partita, senza però mai poter usufruire di Zach Randolph che ha trascorso più tempo in panchina che in campo per problemi di falli. Alla fine 11 punti in 26’ per l’ex Clippers e Knicks che ora proverà San Antonio Spurs- Memphis Gri zzlies 93-87 (Gi nobi li 17, Duncan 16; a farsi vendetta nella prima casalinga a Memphis.


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#4

Power Ranking

Oklahomna Cit y Thunder

Con tutta probabilità la serie più seguita e più elettrizzante dell’intero primo turno di playoff. Certo già di suo la Western Conference ha un livello maggiore in ogni tipo di accoppiamento rispetto ai dirimpettai dell’Est, ma questo è davvero di altissimo livello. Dal momento della trade, forse in pochi avrebbero scommesso su queste parole, visto che in tanto avevano considerato i Nuggets una squadra da bassifondi della Western se non fuori dai playoff. Ed invece è stato il netto contrario. Velocità di gioco, intelligenza e possessi meno fermi rispetto al passato hanno fatto dei Nuggets, che si presenteranno con un Lawson che problemi ad una caviglia cosi come Danilo Gallinari, un brutto cliente per chiunque e per info chiedere ai Lakers.

NBA PLAYOFF

anche grossi e portano il nome di Kendrick Perkins. Il brasiliano Nene è l’unico in casa Nuggers che può tenergli testa senza subire fisicità e centimetri su ambo i lati del campo, dopo di lui solo poca roba e magari tanta voglia di fare. Una bella gatta da pelare, ma non certo l’unica, visto che poi ci sarebbero i due precedentemente indicati che non sono certo arrivati fin qui per restare a guardare. Se la caviglia di Gallinari (al debutto in una post season Nba) tiene per tutta la serie, l’italiano potrebbe anche essere a lungo andare e con i tempi di una serie playoff dove ti puoi permettere tanti aggiustamenti, l’arma difensiva a favore di Karl. In caso contrario Chandler dovrà ergersi a protagonista cosi come ha fatto con Kobe. Lo stesso dicasi per Lawson, ma non per Felton che non è certo riconosciuto come un mago della difesa.

La chiave. Un anno fa avremmo detto che gli osservati speciali per i Nuggets sono due, i soliti due: Kevin Durant e Russell Westbrook; e riuscire a trovare COME E’ ANDATA NELLE PRIME DUE USCITE un antidoto a questi due mali, sarebbe stato l’unica arma per un possibile ‘upset’. Da febbraio in poi, però, i problemi per Denver sono diventati altri ed Oklahoma City Thunder-Denver Nuggets 104-101 (Westbrook 31, Durant 41;


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Denver Nuggets

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Power Ranking

Gallinari 18, Nene 22)

tiene anche ad alta velocità, chiudendo con 6/11 dal campo e 2/4 da tre punti.

Doveva essere la serie più intrigante della Western Conference e la notte di Oklahoma non ha certo tradito le attese. Alla fine i Nuggets escono sconfitti dal campo ad Oklahoma, ma non con le ossa rotte e con la consapevolezza che nonostante i 41 di Durant ed i 31 di Russell Westbrook, alla fine lo svantaggio è stato solo di tre punti e grazie al canestro nel finale di Westbrook praticamente dalla lunetta. Denver ha tenuto botta e comandato fino a metà terzo quarto, quando Westbrook, Durant e Maynor (l’unico in doppia cifra dopo i due) hanno rimesso le cose a posto, complice anche il mini infortunio al ginocchio di Nene rientrato solo nella seconda parte del quarto periodo. Nel finale e prima del canestro della staffa di Westbrook è, però, Kendrick Perkins a piazzare il tocco (secondo Denver irregolare perché avvenuto da sotto la retina) che del nuovo vantaggio Thunder. Sono stati 18 cheti e con tanta difesa i 31’ di Danilo Gallinari che quindi ha dimostrato che la caviglia

Oklahoma City Thunder-Denver Nuggets 106-89 (Durant 23, Westbrook 21, Harden 18; Gallinari 7, Lawson 20, Nene 16)

Non poteva esserci inizio migliore per i Thunder che mantengono inviolato il campo amico e volano tra le montagne rocciose del Colorado alla ricerca del punto primo punto dello ‘sweep’. Tutto facile nella notte per la squadra di coach Brooks che ha un solo momento di defaillance nel quarto periodo quando Denver torna sino al -10 dopo essere stata sotto anche con svantaggi maggiori. Ma a quel punto è Kevin Durant show: triple, canestri in crossover, schiacciate a volo da rimbalzo e l’ex Texas che piazza il punto esclamativo ad una vittoria dove James Harden è stato uno dei protagonisti principali con 18 punti e 5 rimbalzi. Ne esce male anche Gallinari che chiude la sua seconda gara di playoff con 7 punti, 3/8 dal campo e -12 di plus/minus.


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#2

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Los Angeles Lakers

Una post season molto più difficile di quello che si poteva immaginare nell’anno della ricerca del three-peat per I Los Angeles Lakers. A dire il vero dopo la pausa dell’All Star Game ed una squadra che sembrava aver trovato quella cattiveria voluta da Bryant in vista dei playoff e che invece è mancata nella prima parte, i gialloviola sono ri-diventati quelli di prima. Una squadra che ha inanellato 5 sconfitte prima della sfida contro gli Spurs e che dovrà avere a che fare con le grane del ginocchio di Bynum. Una squadra forse meno forte rispetto a quella degli ultimi due titoli per amalgama e a tratti qualità di gioco. Ma poi ogni volta nei playoff L.A. cambia marcia e ritmo per diventare tutt’altra squadra. Lo sanno bene i tifosi, ma lo sanno bene anche gli Hornets che sembrano essere la vittima sacrificale ed in campo solo per evitare un pesante 4-0.

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zione offensiva di Chris Paul non è stata certo da cannoniere della Lega. Coach Lerry Drew ci sta provando in tutti i modi a mascherare la sua assenza provando a dare a Landry la possibilità di mettere più punti in saccoccia, ma non è certo la stessa cosa. Ed allora tutto passerà dalle mani di Chris Paul. CP3 deve fare un grande sforzo se vuole almeno provare ad impensierire Bryant e compagni. Riprendersi la squadra sulle spalle e mettersi in luce in una vetrina illuminata come i playoff. In sponda Lakers si proverà a non accusare più del dovuto l’assenza di Bynum contro una formazione non altissima come quella di New Orleans per poi provare a recuperarlo in quelle successive in maniera definitiva e magari anche riposato. Al catalano le chiavi dell’area colorato, ad Odom quelle dell’imprevedibilità, al Black Mamba le solite dei momenti importanti di ogni singola partita. Quella attuale è stata la prima apparizione anche per Marco Belinelli.

La chiave. La mancanza di un terminale offensivo di primo livello. Senza West New Orleans non è più stata la stessa in attacco, anche perché la produ- COME E’ ANDATA NELLE PRIME DUE USCITE


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New Orleans Hornets

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#7

Power Ranking

Los Angles Lakers-New Orleans Hornets 100-109 (Bryant 34, Artest 16; Paul della passata stagione e 1-0 sotto nella serie. Notte di luce anche per Belinelli 33, Belinelli 10, Landry 17) che chiude la sua partita di playoff con 10 punti e 2/4 da tre punti. Prima o poi tutti si sarebbero aspettati una reazione. Tutti si sarebbero aspettati l’orgoglio del campione e quel talento che tanto aveva fatto impazzire la lega nei primi anni di Nba. Il tutto non poteva essere sparito all’improvviso, ma di sicuro una reazione era attesa in regular season ed ormai sembrava essere ormai troppo tardi. Ma non è mai troppo tardi per tirare fuori le unghie e combattere, anzi riesce meglio quando tutti non se l’aspettano. E di sicuro i Lakers un Paul cosi non se lo aspettavano. L’ex Wake Forest si prende tutte le responsabilità della sfida, si carica sulle spalle la squadra e la conduce alla vittoria contro i campioni in carica senza il proprio primo marcatore ovvero David West. Alla fine CP3 ha chiuso con 33 punti, 14 assist, 6 rimbalzi, 4 recuperi e +25 di plus/minus. Sono stati, invece 34 i punti di Kobe che ora deve trovare il modo per rianimare una squadra una spanna sotto a quella

Los Angeles Lakers-New Orleans Hornets 87-78 (Bryant 11, Bynum 17; Paul 20, Belinelli 4, Ariza 22) Senza il contributo di Kobe Bryant. Questa lo notizia più confortante, oltre la vittoria, per i Lakers che battono gli Hornets, recuperano lo svantaggio della sconfitta di gara1 e ora proveranno a restituire il favore alla prima in trasferta in Louisiana. Solo 11 punti, 3/10 dal campo e qualche problema di falli di troppo per il Black Mamba che ne spende qualcuno di troppo provando a mettere pressione su Chris Paul. L’ex Wake Forest chiude con 20 punti, 5/11 dal campo e 8/12 ai liberi, ma senza riuscire nell’impresa di gara1. Un CP3 rinato e che fa ben sperare agli Hornets in vista delle partite casalinghe. Notte non brillantissima per Belinelli; in campo 22’ ma segna solo 4 punti.


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#3

Power Ranking

Dallas Mavericks

La serie più incerta insieme a quella tra i Nuggets ed i Thunder. Una serie dalla quale potrebbe succedere ed uscire di tutto. Tra le due di sicuro Dallas avrà più peso sulle spalle, visto che per tutta la regular season ha dimostrato di voler contendere per le prime piazze e di voler puntare al titolo con una squadra più fisica e più lunga rispetto agli altri anni. La terza piazza ad Ovest, però, è stata ingenerosa come accoppiamento per i Mavs che di fronte avrà una squadra imprevedibile e che con l’arrivo di Gerald Wallace ha aggiunto un’altra freccia alla faretra di coach Nate McMillan. Una faretra che l’ex giocatore dei Sonics dovrà sfruttare a fondo e nel migliore dei modi per mettere in ginocchio i texani allo loro vera occasione di ri-puntare alla finale Nba. La chiave. Un nome per parte: Dirk Nowitzki e Lamarcus Aldridge.

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Non può non passare dalle mani del tedesco di Wuzburg il destino della franchigia di Mark Cuban. Non può passare dalle sue mani la possibilità di ritornare a calcare il parquet dell’ultimo atto. Per il biondo in maglia 41 è questo il momento di far sentire la sua leadership. Finalmente ha dei giocatori che gli evitano l’incombenza di fare a botte da numero ‘5’ ed allora da ala forte a tempo pieno deve fare la differenza. La stessa che dovrà fare Aldridge che non solo si ritroverà faccia a faccia Nowitzki sui ventotto metri di campo, ma avrà anche il compito duro di provare a spezzare il cuore dei tifosi texani ovvero quelli della sua città di provenienza. Al suo fianco Gerald Wallace e Brandon Roy potrebbero essere i nomi da outsider. La vena offensiva di Kidd, le triple di Terry e la difesa di Chandler il contorno che serve a Dallas per provare ad arrivare fino in fondo.


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Por tland Trailblazers

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COME E’ ANDATA NELLE PRIME DUE USCITE

#6

Power Ranking

coda sul primo passo di una serie che si preannuncia interessante e forse anche più lunga di quanto previsto.

Dallas Mavericks-Portland TrailBlazers 89-81 (Kidd 24, Nowitzki 28; Aldridge 27, Miller 18) Da l l as Ma ve ri ck s- Po rt l an d T ra i l Bl a zer s 10 1- 8 9 ( N ow i t z ki 3 3, Stojakovic 21; Aldridge 24, Wallace 18) E’ stata tutta nelle mani del veterano ad una delle ultimissime e rare occasioni di puntare al titolo vista la carta di identità, Jason Kidd, e La prima vera prova di forza della serie. I Mavericks spazzano via del leader della squadra texana: Dirk Nowitzki. Non si è dovuto anda- Portland con un secondo tempo da macchina da punti che non da re oltre o molto lontano dai due, quando la palla ha iniziato non solo respiro e scampo agli avversari. ad essere bollente, ma anche pesante visti i sei punti di svantaggio che Due quarti tre diversi protagonisti: Kidd ne mette 9 in apertura di Dallas aveva accumulato con dei Blazers che sono sempre restati li a terzo per il primo strappo, il secondo e decisivo, invece, arriva nel dare fastidio e ad impensierire una American Airlines Center che è quarto periodo dove prima Stojakovic dalla lunga distanza e poi esplosa quando le triple di Kidd e quelle di Nowitzki, che ha poi chiu- Nowitzki chiudono definitivamente il conto prima di partire per so il tutto con un gioco di fallo e canestro, hanno lanciato i titoli di l’Oregon con destinazione Portland.


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MARCH MADNESS

M ICHELE ICHELE TALAMAZZI ALAMAZZI DI

Kemba Walker il ‘Re’ di U-Conn e della Ncaa Negli Stati Uniti l'hanno definita 'Worst Title Game in College Basketball History'. La peggiore, delle finali. Noi tendiamo a fidarci, perché non le abbiamo certo presenti tutte dal 1939, ma con riserva: i 12 canestri dal campo di Butler sono solo la seconda peggior prova dopo i 9 di Oklahoma nel 1949, anno in cui venne sconfitta da Kentucky, e il record negativo di segnature del 1941 (WisconsinWashington 39-34) è rimasto intatto. E chissà se allora poterono godersi talenti come quelli di Kemba Walker e Jeremy Lamb, o storie affascinanti come quelle di Jim Calhoun e Brad Stevens. Certo negli ultimi quindici anni, a memoria, una finale per il titolo NCAA da 31-119 complessivo dal campo come quella del Reliant Stadium non s'era mai vista. Brutta sì, ma anche adrenalinica, come ogni gara senza ritorno che si rispetti. Ed ovviamente ricca delle storie personali di cui sopra, non bastasse il fatto che l'università che tornava in finale per la seconda volta consecutiva era la piccola Butler, Cinderella destinata a fare la fine della Houston del 1983-1984 e della Michigan dei Fab Five, entrambe con il pesante fardello del doppio ko a stretto giro posta. La più rinomata Connecticut, invece, l'anno scorso volava fuori al secondo turno per mano di Virginia Tech, ma non del torneo NCAA, bensì dell'NIT. Ecco perché, oltre al fatto che la partita in sé non ha eletto un protagonista definito, il successo dei Connecticut Huskies nella sfida 'canina' con i Bulldogs è soprattutto la rivincita di coach Jim Calhoun. Che è al suo terzo titolo negli ultimi dodici anni (1999 e 2004 i precedenti), viene considerato un santone, ma prima di diventare, a 68 anni, il più anziano coach a vincere il titolo NCAA, si era sentito dire di tutto: un paio di stagioni fa, durante una conferenza stampa, ad un attivista che contestò il suo salario milionario replicò seccato che non avrebbe restituito un centesimo; l'anno scorso, a fronte di problemi di salute che gli fecero saltare alcune partite, dovette smentire le tante voci, per la verità più suggerimenti, che lo volevano già in pensione dorata, lui che era già tornato dopo un


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tumore alla prostata nel 2003 e poi da un carcinoma; quest'anno, infine, l'accusa di violazione dei regolamenti di reclutamento, con tre partite di squalifica per la prossima Big East e soprattutto alcune restrizioni nelle borse di studio da concedere per i prossimi tre anni. Quello di Calhoun è stato un successo molto sobrio: l'ultimo Huskie a taglia la retina, equilibrato nello spiegare le ragioni di un successo nato nel secondo tempo, dopo che nell'intervallo “ho fatto un discorso che non posso riportare per motivi di buon gusto. Il succo era: se continuiamo a giocare da schifo, perdiamo. Se cominciamo a farlo con un minimo di decenza, non avremo problemi». Semplice quanto veritiero, perché senza voler sminuire Butler, a UConn è bastato giocare decentemente per portare a casa il titolo. Sfondando, per quanto possibile, il

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muro della transizione difensiva di Butler, capace nei primi venti minuti di non far correre gli Huskies nonostante una qualità di tiri presi orripilante ed una percentuali del 20% dal campo: l'unico flash di Kemba Walker, peralto ben limitato anche a metà campo con i raddoppi sul pick and roll, era rimasto il canestro e fallo in contropiede, quello del 13-8 a metà di un primo tempo chiuso sul 22-19 per merito della tripla sulla sirena di Shelvin Mack, altro protagonista imbavagliato, dal Jeremy Lamb che di lì a poco sarebbe diventato protagonista. Il sogno della Cinderella Butler è infatti finito sulla terza tripla di Chase Stigall, uomo da 4 punti a partita, quella del 25-19. Da lì, per sette lunghissimi minuti la squadra di Stevens è andata in rottura prolungata, senza mai segnare dal campo e trovando solo un misero punticino con Nored, crollando contro il muro


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difensivo eretto da Oriakhi e compagni: con il sophmore a piazzare tre delle sue quattro stoppate in una manciata di minuti, Butler ha perso il proprio riferimento interno, Matt Howard (7 punti con 1-13 dal campo), giusto mentre UConn trovava il grimaldello sul perimetro in Jeremy Lamb, 12 punti tutti nella ripresa, 9 dei quali in quel 14-1 che in nemmeno metà ripresa aveva sostanzialmente deciso la partita, sul 33-26 Huskies. E ha fatto specie come Butler sia 'crollata': i 12 punti di gap finale sono un'enormità per la squadra di Stevens, se si pensa che in stagione aveva perso con uno scarto superiore ai 6 punti solamente in tre occasioni, due ancora nell'anno vecchio, con Louisville e Duke, ed una a inizio gennaio con Milwaukee University. La forza di Butler, quella di saper restare attaccata ad un match pur non giocando bene, lì si è dissolta, perché oltre a correre UConn ha trovato anche le stoccate di un Kemba Walker che di questa Final Four è stato l'MOP (Most Outstanding Player) più per 'nome' che altro, se è vero che in due serate ha scritto 'solo' 34, con 11-34 dal campo. Ma non ci si faccia ingannare dalle nude cifre: l'ex ballerino di reggae arrivato fino al palco dell'Apollo Teathre di Harlem è stato un “grande leader” (Calhoun dixit), che il meglio di sé l'ha dato nel primo tempo contro Kentucky e nella ripresa contro Butler (dove ha finito anche con 9 rimbalzi, per quel che possono valere in una partita dove ne sono piovuti 91...), ovvero i due momenti in cui le ultime due partite dell'anno hanno preso la strada di UConn. Walker si è poi preso il premio quale miglior giocatore della Final Four, in un'ideale divisione di meriti con Jimmer Fredette, votato Naismith Player of the Year. Sono forse i due giocatori migliori del panorama collegiale per produzione offensiva, ma non saranno i primissimi scelti. Perché mentre si sprecano fiumi d'inchiostro per trascrivere negli annali questa stagione, quella scienza inesatta che è il Draft NBA si è già messa in moto, tra le prime early entries e il Portsmouth Invitational, dove un occhio ce lo buttano pure i dirigenti delle squadre europee. Sarà un Draft macchiato dall'ombra del possibile e a quanto pare sempre più probabile lock-out, che potrebbe influenzare le scelte di freshman, soph-

more ma anche degli europei, magari spinti a dichiararsi in anticipo per scalare posizioni pur se non con l'sigenza dell'immediato sbarco oltreoceano. Nel momento in cui scriviamo, l'unico europeo di lotteria dichiaratosi è il ceco del Partizan, Jan Vesely, mentre tra i prospetti più interessanti ci saranno Tyler Honeycutt, Isaiah Thomas, Trey Thompkins e soprattutto Kyrie Irving, cui metà stagione con i Blue Devils basterà per essere chiamato fra i primi tre; si attende invece la decisione di Derrick Williams, alona di Arizona passata dall'anonimato liceale (non era nemmeno tra i primi 50 prospetti) alla possibile chiamata numero 1. Anche questo è il bello del College Basketball. FLASH BACK...COSI IN SEMIFINALE Molti, Connecticut-Kentucky, l'avevano indicata come la vera finale. Considerazione ingiusta nei confronti delle altre due partecipanti; di certo sarebbe stata quella ideale, dal punto di vista mediatico, con due pezzi grossi come Calhoun e Calipari a confronto, Kemba Walker contro il freshman Brandon Knight, attesissimo, clutch durante il torneo contro Princeton e Ohio State ma naufragato in un 6-23 al tiro contro gli Huskies, bravi a forzarlo alla larga dal ferro. Con un primo tempo solido, annullando la sorpresa Harrelson e contenendo il talento di Terrence Jones (11 e 15 rimbalzi, con il peso di uno 0-5 dalla lunetta), UConn si è messa sulla corsia preferenziale per la finale nella scia del proprio leader, un Kemba Walker da 18 punti e 7 assist. Così come aveva fatto, nella prima semifinale, Butler, appoggiatasi sulle larghe spalle di Shelvin Mack (24 con 5-6 da tre) prima e Matt Howard (17 con 11-12 dalla lunetta, 6 punti nell'ultimo minuto) poi, nella sfida tra Cinderellas con Virginia Commonwealth. Lì la squadra di Stevens era riuscita a limitare, dopo un buon inizio, l'esterno più pericoloso, Bradford Burgess, concedendo alla squadra di Shaka Smart (già rinnovato per i prossimi otto anni dai Rams) di fare la partita con un superbo Jamie Skeen (27 con 10-17), ma legittimando il dominio a rimbalzo (46-30, 15 offensivi dei Bulldogs) con un 20-26 dalla lunetta.


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