icsART 2020 N.8 Luca Chisté

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PERIODICO della icsART N.8 - Agosto ANNO 2020

icsART


In copertina: LUCA CHISTÉ, RADUNO DEGLI ALPINI


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icsART

sommario Agosto 2020, Anno 9 - N.8

Editoriale

Christo e Jeanne-Claude

pag. 4

Politica culturale

Wanted!

pag. 5

Intervista a un artista

Luca Chistè

Mercato dell’arte?

Brice Marden

pag. 20-21

Popular Art

Pulp & Horror

pag. 22-23

Storia dell’arte

Charlie Brown

pag. 24-25

pag. 6-19

News dal mondo BRICE MARDEN

COMPLEMENTS, 2004 - 2007

pag. 28

BRICE MARDEN

THE ATTENDED, 1996 - 99

pag. 29

BRICE MARDEN

NUMBER TWO, 1983 - 84

pag. 30

BRICE MARDEN

STAR (FOR PATTI SMITH), 1972 - 74

pag. 31

AFTER BARNETT NEWMAN, 2014

pag. 32

Omaggio a BRICE MARDEN

Copyright icsART Tutti i diritti sono riservati L’Editore rimane a disposizione degli eventuali detentori dei diritti delle immagini (o eventuali scambi tra fotografi) che non è riuscito a definire, nè a rintracciare


EDITORIALE»»» CHRISTO e JEANNE-CLAUDE

CHRISTO VLADIMIROFF JAVACHEFF, 1971

JEANNE-CLAUDE DENAT DE GUILLEBON, 1976

Christo Vladimiroff Javacheff, nato il 13 giugno 1935 a Gabrovo in Bulgaria, è morto il 31 maggio 2020 a 84 anni; la moglie, compagna inseparabile nella vita e nell'arte, Jeanne-Claude Denat de Guillebon - nata la stessa ora, giorno, mese e anno - a Casablanca in Marocco, è morta nel 2009 a 74 anni. Il giovane artista bulgaro era fuggito a 21 anni a Vienna, libero e senza un soldo. Nel 1958 incontra Jeanne-Claude a Parigi e iniziano la loro collaborazione artistica, si sposano l'anno successivo. Christo aveva iniziato a creare fin dalla fine degli anni '50 dei pacchi densamente incartati e legati stretti con attenti nodi di spago avvolgendo prima piccole cose, poi sempre più grandi e il suo primo progetto di avvolgere un edificio risale al 1961. Nel '64 la coppia emigra definitivamente a New York chiedendo la cittadinanza americana. I loro lavori, inizialmente molto criticati da chi sosteneva che non fossero arte, hanno coperto l'intero arco della loro vita e nel corso degli anni sono stati costruiti e ammirati in tutto il mondo. La coppia di artisti è oggi identificata con il nome "Christo" dato che, a partire dal 1994, Jeanne-Claude è riconosciuta come co-autore di ciascuna delle loro installazioni: Christo Vladimiroff sviluppava il progetto con l'aiuto di modelli e disegni, mentre lei era responsabile della loro realizzazione. L'intento esplicito di Christo era la creazione di oggetti temporanei su larga scala progettati per siti all'aperto specifici; un'arte monumentale ma effimera e nomade che permettesse a chi riusciva a vederla nelle due settimane della sua esistenza, di vivere un'esperienza artistica unica, intensa e memorabile, al di fuori dei luoghi istituzionali deputati. Il periodo della "progettazione" poteva durare anni ma «l'intero viaggio è l'opera d'arte, non i 14 giorni che dura lo spettacolo». E nulla di tutto ciò può essere inventato, orchestrato o immaginato: può solo essere vissuto. «In 50 anni abbiamo realizzato 23 progetti ma non siamo riusciti a ottenere l'autorizzazione per 36», spiegavano. Come ha detto una volta Jeanne-Claude: «La nostra arte non ha assolutamente alcuno scopo, se non quello di essere un'opera d'arte - non diamo messaggi». Dietro questa assenza di "messaggio" però, esisteva una grande utopia visionaria di un'arte come esperienza che meravigli. Nel 2016 (Jeanne-Claude era già morta) in Italia, la loro installazione "The Floating Piers", un lunghissimo circuito di pontili pedonabili interamente ricoperti con 100.000 mq di tessuto sintetico arancione che galleggiavano sul Lago di Iseo, ha ottenuto un incredibile presenza di pubblico con 1,2 milioni di visitatori. (vedi in basso) 4


POLITICA CULTURALE

WANTED!

Spinto dall'esigenza di rilanciare l'economia prima delle elezioni di novembre - nonostante le indicazioni degli scienziati e l'esperienza di quanto stava succedendo negli altri Paesi - non ha voluto rendere obbligatorie le restrizioni come il distanziamento o la mascherina che la pandemia avrebbe imposto. La conseguenza è che, a causa della sua nota irresponsabilità e protervia, gli Stati Uniti sono la nazione con il più alto numero al mondo di casi di Coronavirus (5 milioni) con 160.000 morti (contro i 60mila predetti da Trump) che si prevede, arriveranno a novembre a oltre 230.000. Il 20 luglio, The Donald ha twittato una sua foto in cui - per la prima volta - indossa la mascherina: «Nessuno è più patriottico di me, il vostro presidente preferito». Si può essere più coglioni di così?.

Robert De Niro in un'intervista a The Guardian ha definito il Presidente degli Stati Uniti d'America Donald Trump «Un razzista, un suprematista bianco, un truffatore, un idiota»". Se lo dice un grande attore come De Niro non possiamo che credergli. In quanto a truffatore e idiota le prove sono evidenti e inoppugnabili ed è apparso chiaro in più di un'occasione che The Donald ha delle simpatie per la destra razzista ma, non sono solo queste le sue colpe anche se basterebbero a metterlo al bando in qualsiasi Paese civile (forse anche l'Italia). Ma non basta perché la colpa più grave per cui dovrebbe essere processato questo imbonitore e venditore televisivo è di essere pericoloso per i suoi concittadini e, indirettamente, per il mondo intero. 5



Intervista a LUCA CHISTÉ Come non esiste un solo tipo di pittura, così anche la fotografia comprende al suo interno innumerevoli generi che esprimono i diversi interessi dei loro autori: fotoreportage, fotoritratto, fotografia pubblicitaria, sportiva, naturalistica, documentaria, scientifica ecc. La formazione sociologica di Luca Chistè lo indirizza a un approccio alla fotografia che non esiterei a definire "analitico", nel senso che egli si pone di fronte alla realtà spinto dall'interesse di indagarla e decodificarla tramite sia gli strumenti concettuali "classici" che quelli visivi specifici della disciplina, o come scrive: «Documentare, interpretando». Coerentemente, chiarisce che scambia una fotografia "interessante" con dieci “belle” e, per evitare il termine troppo pretenzioso di "artista", preferisce definirsi un "artigiano". Ottimo conoscitore di tecniche storiche e moderne (oltre che insegnante delle stesse), ama fotografare con apparecchi di grande formato per ricercare la massima qualità sia in fase di ripresa che di stampa. Come i grandi maestri, nutre una vera passione per l'essenzialità astratta e radicale delle immagini in bianco e nero che gli consentono di sperimentare in camera oscura. Ogni suo lavoro si colloca sempre all'interno di un progetto che segue rigorosi percorsi narrativi: sia che scatti fotografie di ambiti settoriali molto strutturati come l’architettura o il paesaggio urbano (Albere, Marilleva, Berlino), oppure esegua ritratti, Luca li inserisce in un discorso coerente e finalizzato a un'analisi umana (i malati di Alzheimer) o ad uno studio socio-antropologico (gli Alpini). Anche la montagna e i suoi abitanti (Vallarsa, Monte Bondone), sono oggetto di servizi che rientrano all'interno della sua ricerca di un filo conduttore comune a realtà sociali molto diversificate. A questi lavori professionali si accompagna anche una produzione "artistica" più creativa (il Brenta) e di altri generi fotografici in cui Luca dimostra di eccellere dato che il suo talento gli consente di spaziare e di esprimersi sia con forme di reportage sul campo (Terremoto, Kapadokya) che di innovazione tecnologica come le riprese di paesaggi dall'alto effettuate con il drone. Paolo Tomio A sinistra: "UN CAMMINO DI DEVOZIONE" Il pellegrinaggio a Sabiona del 1994

In basso: “BERLINO. PROFILI URBANI” Area Potsdamer Platz


Quando e perché hai cominciato a interessarti alla fotografia? Ho iniziato ad occuparmi di fotografia a poco meno di vent’anni, ossia 40 anni fa, fotografando velivoli militari. A quell’epoca, riuscivo talvolta, grazie al permesso ottenuto tramite alcune riviste specializzate, ad accedere a particolari aree degli aeroporti ove avvenivano le esercitazioni o le manifestazioni aperte al pubblico. Parallelamente, ho iniziato a sviluppare le mie competenze, con infiniti studi, sulla fotografia “applicata”, ossia le tecniche di ripresa, lo sviluppo dei negativi bianco/nero e la stampa analogica in camera oscura. Dopo la tragedia di Ramstein, ho deciso di abbandonare quel tipo di fotografia e di dedicarmi totalmente alle mie indagini tematiche, perfezionando sempre più i processi di stampa fineart.

Ci sono stati fotografi o anche artisti che ti han“Quotidiani paralleli. Un percorso visivo nell’esistenza quotidiana delle persone affette da Alzheimer”

no influenzato? Come credo per tutti gli autori, moltissimi fotografi hanno influenzato, negli ambiti prevalenti in cui esercito i miei interessi per la fotografia (paesaggio antropico, naturalistico, urbano e fotografia sociale), la mia personale visione sulla fotografia. Per il rigore metodologico e la tecnica applicata all’ottenimento di uno specifico risultato, tutti i fotografi del Gruppo F64, Ansel Adams in primo luogo. Edward Weston e Minor White, sono autori che ho studiato con grande interesse per la loro interpretazione concettuale del paesaggio. Per la fotografia di paesaggio urbano sono debitore, sia in termini interpretativi, ma anche tecnici, alla straordinaria visione delle città di Gabriele Basilico e Andreas Gursky, le cui inquietanti seriazioni sugli habitat umani, offrono inediti spunti di lettura del nostro paesaggio contemporaneo. In linea con la grande scuola fotografica tedesca, trovo geniali le intuizioni avute dai coniugi Becker e le letture delle città operate da Thomas Struth, così come le bellissi-


“Quotidiani paralleli. Un percorso visivo nell’esistenza quotidiana delle persone affette da Alzheimer”

me e intriganti panoramiche di Josef Koudelka. Sul versante italiano, adoro i lavori di Luigi Ghirri, Guido Guido e le cose pensate e prodotte da Chiaramonte e Campigotto. Per la fotografia sociale, impensabile non contemplare l’opera di Lewis Hine, August Sander, Robert Frank e Bill Brandt.

logico, sia nella dimensione concettuale con cui cerco di affrontare i miei temi di ricerca (Carla Bianco e gli studi condotti per un certo periodo in collaborazione con l’Università di Trento, con la regia di Emanuela Renzetti, hanno profondamente influenzato il mio modo di intendere il “campo” e le conseguenti determinanti metodologiche ed operative con cui interpretarlo, comprenderlo, spiegarlo). Tuttavia, la vera chiave di volta, come più spesso mi accade, è pensare alla fotografia come la sintesi di contributi interdisciplinari. Per questo, sono molto attratto da possibili lavori con architetti, urbanisti, geografi, sociologici, antropologi e studiosi di letteratura e antichi scritti. La genialità di alcune riflessioni, inevitabilmente, finisce con l’arricchire anche il pensiero e l’azione fotografica. “Contaminarsi”, è essenziale.

La tua formazione sociologica quanto influenza il tuo approccio alle immagini? I miei studi in campo sociologico e antropologico sono stati determinanti per l’elaborazione della mia personale visione fotografica. Alla fotografia, sotto il profilo metodologico, ho dedicato un’ampia parte della mia tesi di laurea, utilizzandola in chiave documentaristica e come strumento di analisi per comprendere il fenomeno che costituiva l’oggetto di tesi. Le influenze di alcuni autori, soprattutto in campo etnografico e antropologico, sono state per me molto rilevanti, sia sotto il profilo metodo-

Qual è il ruolo della fotografia oggi in una società dell'immagine?

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“KAPADOKYA”. Rassegna esposta al 51mo Film Festival della Montagna di Trento

Che tipo di lavori preferisci: paesaggi, documentazioni, inchieste, ritratti...?

Determinante, credo. Anche se oggi, parafrasando un bel lavoro di Giorgio Salomon; “We are all photographers”, credo che sulla fotografia, si siano generati molti equivoci. La fotografia è diventata, all’apparenza, uno strumento piuttosto “facile”, gestibile e impiegabile da chiunque. E tuttavia, nonostante l’esponenziale proliferare delle immagini, gli autori che riescono a “dire” qualcosa, in maniera strutturata e capace di durare nel tempo, sono sempre meno. Una sorta di paradosso, che sconta insuccessi e frustrazioni, con il desiderio, da parte di moltissime persone, di conseguire risultati immediati, facili e ricchi di consenso. La verità è che, pe rendere persistente un proprio discorso con la fotografia, occorre impegnarsi moltissimo, viverla giorno per giorno, ora per ora, associando, all’esercizio di essa, l’individuazione di un proprio personale stile e l’utilizzo di un determinato linguaggio.

La mia azione fotografica si svolge in tre fondamentali direttrici: il paesaggio, in un’accezione molto ampia del termine; la fotografia di indagine sociale (gli studi sull’Alzheimer, la condizione degli anziani nelle case di riposo, diversi studi sulla religiosità popolare, gli esiti del terremoto, ecc..) e la fotografia documentaria (legata per lo più a specifici processi produttivi o ad alcuni accadimenti/fatti di rilevanza sociale). Se dovessi definire il mio lavoro, direi che cerco di “Documentare, interpretando”.

Secondo te, la fotografia è una forma d'arte? È una bellissima e difficile domanda. Me lo sono chiesto spesse volte. La risposta non è univoca. In alcuni casi, certamente lo è. Moltissimi lavoro fotografici hanno oggi lo statuto e la paternità di “opere d’arte”. Credo che la fotografia

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intrattenga con l’arte un rapporto “dinamico”. Ossia, accade spesso che ciò che nasce per documentare, testimoniare, raccontare, finisce poi per confluire in una riconosciuta e accettata forma d’arte. Penso per esempio ad alcuni lavori di Ansel Adams, Edward Weston, Gabriele Basilico, Josef Koudelka o Helmut Newton, solo per citarne alcuni e in una linea di coerenza con quanto ho più sopra definito. Non credo che, storicizzando le loro attività, al tempo in cui essi riprendevano le loro “opere”, si sentissero degli artisti (forse Weston, più degli altri), ma è innegabile che, oggi, nessuno dubiterebbe mai che questi lavori abbiano la paternità di “opere d’arte”. In sintesi, credo che il discorso non possa essere di carattere generale e che possa astrarsi dalle specifiche individualità autoriali. Credo che alcuni “nascano” e producano i propri lavori fotografici sentendosi degli artisti; altri sono professionisti dell’immagine, magari con lavori eseguiti su commissione o per parti-

colari affidamenti e che la storia, nel corso del tempo, riconoscendo la grandezza di alcuni lavori eseguiti, attribuisca loro la legittima paternità di opere d’arte.

Quali sono le caratteristiche che ricerchi in una "bella" fotografia? Dico spesso, nei miei corsi o nei workshop monografici che tengo sulla fotografia, che scambio volentieri dieci “belle fotografie”, con una sola “fotografia interessante”. Le fotografie possono essere ovviamente anche “belle” e, anzi, i fotografi sono spesso alla ricerca della fotografia dall’effetto “WOW!”. Si tratta di una ricerca, per lo più autocelebrativa, che si è amplificata a dismisura con l’avvento dei social e della fotografia digitale. Personalmente, alle “belle fotografie”, preferisco, da sempre, le immagini che “MARILLEVA 1400. Tra storia, paesaggio e architettura”.


"IL QUARTIERE LE ALBERE A TRENTO" Architettura e spazi urbani

Che capacità e competenze deve avere un bravo fotografo?

siano capaci di “raccontare” delle storie. A color che mi chiedono ipotesi o soluzioni su come sviluppare un proprio discorso con la fotografia, rispondo sempre nello stesso modo: “Raccontami una storia... Usa la fotografia per descrivere e raccontare una storia”. Una storia prevede una trama. Una trama prevede una riflessione e una concettualizzazione di ciò che si vuole narrare. Senza un’intrinseca coerenza filologica, il discorso visivo non “regge” mai alla prova dei fatti. Oggi si vedono milioni, di belle, bellissime, fotografie. Le osserviamo, spesso con lo “swiping” di Instagram o lo scrolling del mouse di Facebook. Immagini che scivolano via, infinite, tutte uguali a sé. Bellissime, tecnicamente ed esteticamente perfette. Gli autori che cercano di costruire un proprio discorso, attraverso l’uso dell’immagine, pensata come a un vero e proprio linguaggio, non sono moltissimi. E quando li si incontra, se il discorso “tiene”, è una vera e propria gioia. Autori che vanno sostenuti e aiutati a far conoscere il loro lavoro.

Molte, credo. In primo luogo, una solida cultura sulla storia della fotografia. Dovrebbe conoscere i lavori di grandi autori e le fondamentali strategie di produzione, gestione, editing e post-produzione delle proprie immagini. Tra i fotografi delle nuove generazioni, sono pochissimi coloro che si dedicano, con curiosità intellettuale ed interesse autentico alla conoscenza della fotografia storica e, dal punto di vista tecnico, alla fotografia analogica. Conoscere anche questi processi di produzione dell’immagine si rivela invece utilissimo per la gestione delle fotografia digitale, la cui pretesa, del “tutto e subito” contribuisce a creare quel terribile loop a cui mi riferivo più sopra. Sono pochissimi, ad esempio, coloro che, partecipando ad un corso di fotografia, hanno preso “contatto” con qualcuno dei grandi autori che tu impieghi quale fonte bibliografica, per testimoniare loro uno specifico approccio tematico o linguistico alla fotografia.

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“IL MUTARE DELL’ETERNITÀ” Progetto coautoriale con Terri Maffei Gueret.

Esiste un GAP, piuttosto grave, fra la crescita dello sviluppo tecnico e tecnologico e quella della cultura fotografica che, spesso, rappresento graficamente con due distinte curve (ovviamente non in termini analitici, quanto piuttosto concettuali). Lo spazio “vuoto” fra queste due curve, è quello che il fotografo dovrebbe essere motivato a riempire.

proprio nel rapporto che i colori intrattengono fra di essi, la nostra percezione delle cose e dei soggetti. Il bianco/nero, operando una significativa astrazione della realtà, così come noi la percepiamo in senso fisiologico, credo ci offra un’opportunità in più per ricondurci all’essenza delle cose e al loro intrinseco valore e significato. Ovviamente, è un’opinione. Un’altra ragione importante per la quale preferisco il bianco/nero è legata alla passione, metodologica e operativa, che attribuisco a questa specifica calligrafia. Registrando ancora immagini su pellicola (per lo più con camere in grande formato, o con formati panoramici), mi piace gestire integralmente l’intero processo di produzione dell’immagine. In ripresa, per il calcolo dell’esposizione, uso il Sistema Zonale di Ansel Adams, sviluppo personalmente, anche con particolari formulazioni, i negativi, li digitalizzo e li interpreto, in accordo alle luminanze che caratterizzavano l’immagine originale, per produrne delle stampe fineart.

Perché la maggior parte delle tue immagini sono in bianco/nero? Moltissimi dei miei lavori sono in bianco/nero. Tuttavia, per alcuni lavori, anche importanti (“Berlino. Profli urbani”, per esempio, è un lavoro integralmente a colori) impiego anche il colore. La ragione del perché io usi prevalentemente il bianco/nero è essenzialmente di ordine concettuale. Privandoci del colore, trovo che la calligrafia del bianco/nero ci porti più in relazione con l’essenza delle cose. Le relazioni cromatiche sono spesso intriganti, soprattutto sotto il profilo estetico, ma condizionano molto,

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Non riesco, anche in piena era digitale, a privarmi del contributo che mi perviene, sotto il profilo tecnico e metodologico, dalla fotografia analogica in bianco/nero.

Quali sono, secondo te, le caratteristiche che ti rendono riconoscibile? Credo, in una pluralità di circostanze e differenziati temi di ricerca, di riuscire ad impostare un mio personale stile narrativo, la cui essenza è riconducibile alla fotografia documentaria, ancorché soggettivamente interpretata. Sia che la ricerca muova da me, sia che faccia parte di un affidamento d’incarico, credo che le immagini si orientino verso un preciso output espressivo e tecnico: la capacità di saper restituire, anche sulla scorta di specifiche aree tematiche afferenti l’indagine su cui cerco sempre di impostare il lavoro, un mio personale racconto documentario.

“SGUARDI SUL MONTE BONDONE” Progetto coautoriale con i fotografi Guido Benedetti e Mattia Dori

Chi è l’artista, secondo te? Credo che l’artista sia colui che viene riconosciuto, come tale, da una specifica serie di soggetti, auspicabilmente competenti (critici, galleristi, collezionisti, istituzioni museali, ecc..), che si interessano alla produzione materiale e d’ingegno, di un’opera, che tu hai pensato e prodotto. Provocatoriamente, mi verrebbe da dire che, “essere un’artista” è un fatto essenzialmente sociale. Sei tale, non quando lo dichiari o lo definisci tu (puoi anche chiamarti o definirti “artista”, ma se nessuno considera o valorizza adeguatamente la tua opera, sei più che altro figlio di una tua personale ed equivoca autovalutazione), ma quando una comunità che si interessa all’arte come fatto sociale ed economico, si accorge della tua opera, la stima e la valorizza compiutamente, da una pluralità di punti di vista (investimenti per farla conoscere, pubblicazione di saggi critici sul lavoro, esposizioni, ecc..). Ecco, forse in quel caso, diventi un’artista.


Cos’è la bellezza? È una cosa che mi sono chiesto spesso. Credo che il discorso sia inevitabilmente complesso. Tuttavia, distinguerei fra una bellezza “oggettiva”, od “universale”, ed una bellezza “soggettiva” o “privata”. La prima si fonda su canoni estetici verso i quali vi è una immensa convergenza di opinioni (la “Pietà” del Michelangelo, la “Gioconda” di Leonardo, alcuni habitat naturalistici del pianeta…) tale per cui, la bellezza di un determinato oggetto, luogo o contesto, finisce con l’appartenere, incontrovertibilmente, alla storia culturale dell’umanità ed è riconosciuta come “fatto sociale”. La bellezza che, invece, solitamente muove le corde di un autore, è quella a cui dedico il mio interesse prevalente. Rimanendo circoscritti alla fotografia, ci sono cose che trovo personalmente molto “belle” ed altre che, invece, riconosciute come tali, non esercitano su di me alcun fascino. Ci sono luoghi, apparentemente orribili, che io trovo forniti di una straordinaria

bellezza e che, da soli, muovono le mie corde interpretative. Penso a certi lavori di matrice urbana, dove gli uomini cercano faticosamente di sopravvivere, totalmente avulsi da qualunque idea di bellezza. Personalmente, invece, trovo queste realtà incredibilmente “belle”, perché in esse si consumano le speranze e le aspettative di sopravvivenza di un altro essere, del tutto simile a me. Interpretarle, in chiave, fotografica, significa riconoscere ad esse una paternità di bellezza che, molti, troverebbero quanto meno discutibile o irrituale.

E, per finire, cosa è l’arte? L’arte è nata pochi istanti dopo che l’uomo ha avuto la possibilità, attraverso il pensiero autoriflesso, elaborando il tema della morte (“Sono qui, ora, ne ho consapevolezza. Vivrò e morirò”), di avere un’idea abbastanza precisa sulla finitezza temporale del proprio destino.

“SGUARDI SUL MONTE BONDONE” Progetto coautoriale con i fotografi Guido Benedetti e Mattia Dori


In alto: “BERLINO. PROFILI URBANI” Neue Nationalgalerie, Ludwig Mies van der Rohe

A destra: “BERLINO. PROFILI URBANI” Galeries Lafayette, Jean Nouvel

L’arte, o il tentativo di produrre delle opere d’arte, è ciò che differenzia, nettamente, l’uomo da qualunque altra specie animale del pianeta e, in ultima analisi, credo rappresenti il tentativo più importante per elaborare ed esorcizzare il tema della morte, sapendo che essa, ineluttabilmente, prima o poi, giungerà per ciascuno di noi. L’arte, in questa prospettiva, coniuga, elaborandolo attraverso “l’opera”, il più profondo e antico disagio esistenziale di cui l’uomo ha consapevolezza: quella di morire. Nasciamo, sapendo già, cognitivamente, che dovremo morire. L’arte, come la fede, cerca di trovare una risposta a questo immenso interrogativo. Credo quindi, al di là e oltre i “sistemi di rappresentazione” sociale dell’arte (il “mondo” dell’arte, la critica, i critici, le esposizioni, gli eventi d’arte, ecc..), che l’arte, in sé e per sé, rappresenti il tentativo, per ciascuno di noi, di

rendere esteriori, e tangibili, le proprie inquietudini interiori. Sono ovviamente escluse, o sono forse comprensibili per via psicoanalitica, tutte le produzioni artistiche volte a testimoniare l’esistenza di un problema nella vita delle persone (opere, ad esempio, di elevata valenza sociale, civile o politica contro specifici soprusi, violenze, disagi, ecc..). Letta attraverso questa prospettiva, in filigrana, l’arte rappresenta il tentativo di rendere intellegibile, a chi osserva l’opera, il nostro personale vissuto intrapsichico. Credo che l’opera d’arte, sempre, celi qualcosa di autenticamente biografico di chi l’ha prodotta. Per questa ragione, se un’artista ha consapevolezza della propria grandezza, le sue opere contengono in sé, talvolta in maniera mascherata o inconsapevole, un tentativo abbastanza sistematico: quello di rendere immortale la propria presenza. 16



Valle del Vanoi – immagini di un paesaggio in trasformazione” e Trento Palazzo Roccabruna [catalogo] 2017 Trento Palazzo Firmian Unicredit | Rassegna e pubblicazione monografica del volume “Architettura e spazio alpino” dedicato allo studio di architettura di Willy Schweizer e Maria Grazia Piazzetta [volume] 2017 Trento Museo Diocesano | “Fratelli e sorelle. Racconti dal carcere” [catalogo] 2015 Trento Museo Storico - “Le Gallerie” “Il quartiere Le Albere a Trento – architettura e spazi urbani [catalogo] 2014 Riva del Garda Galleria Craffonara |“Il tempo sospeso” 2014 Mezzolombardo Istituto Martino Martini | “Muri d’acqua” 2012 Trento 61° Film Festival internazionale della Montagna, Museo archeologico “S.A.S.S.”| “Kapadokya” Pergine Nuovo Teatro comunale | “OP! Pergine Ospedale Psichiatrico” Trento Centro Direzionale Interporto, “A nord di Trento a sud di Bolzano”, poi Bolzano, presso Fotoforum Galerie [catalogo] Bolzano Fotoforum Galerie, Rassegna collettiva (selezione di fotografi espositori nel corso degli anni alla Galerie); Trento Museo archeologico “Sass” | “Via Pilati – ex carcere di Trento” [catalogo] Trento Spazio espositivo Hortus Artieri, “Iphoneography” 2011 Bolzano Galerie Foto-Forum, “Telecom” Trento Palazzo Lodron, “Via Pilati – ex carcere di Trento” [catalogo] Verona Centro Internazionale fotografia Scavi Scaligeri, “Berlino. Profili urbani” [catalogo] 2010 Trento Spazio archeologico Museo Sass , “Berlino. Tracce di memorie urbane” [catalogo] Nago Forte Superiore, “Mnemosine”, poi Brescia. 2009 Trento Spazio Espositivo Pretto, “Frammenti” Palazzo Roccabruna, “Le mani nella terra” [catalogo] 2008 Trento Palazzo Trentini, “Acqua e energia” Biblioteca Comunale, “Muri”, parallel-event Manifesta7, poi Nago, Forte Superiore PRESENTAZIONI – TESTI CRITICI IN CATALOGHI E LIBRI I testi critici predisposti per la presentazione di alcuni lavori fotografici autoriali e/ collettivi

LUCA CHISTÈ È nato il 29 aprile 1960 a Trento, dove risiede e lavora. Sociologo, fotografo e libero professionista, ha pubblicato una tesi sulla storia delle tradizioni popolari, con la quale ha analizzato l’impiego della fotografia come prospettiva di ricerca autonoma nell’ambito delle scienze sociali e dell’antropologia culturale. Si occupa di fotografia dal 1980 ed ha esposto in numerose rassegne personali e collettive, sia in Italia sia all’estero, presso importanti istituzioni museali (tra le altre, l’Istituto culturale Ladino “Micurà De Rü” di San Vigilio in Marebbe (BZ), il Centro Internazionale di fotografia di Verona Scavi Scaligeri, il Museo Diocesano di Trento, il Museo Storico di Trento, il MAG – Museo Alto Garda). Ha conseguito un master in formazione presso l’Università Cattolica di Piacenza con il massimo dei voti e la lode. ESPOSIZIONI 2019 - 2008 2019 Trento Palazzo Roccabruna “Il Mutare dell’Eternità” rassegna dedicata alle Dolomiti di Brenta con Teresa Maffei Gueret [catalogo] 2019 Trento Museo archeologico “S.A.S.S.” | “Quotidiani paralleli - un percorso visivo nell’esistenza quotidiana delle persone affette da Alzheimer [catalogo] 2019 Trento Palazzo Roccabruna |“Sguardi sul Monte Bondone” rassegna con Guido Benedetti e Mattia Dori [catalogo] 2018 Trento Palazzo Roccabruna | “Marilleva 1400 tra storia, paesaggio architettura” [catalogo] 2018 Riva del Garda MAG - Museo Alto Garda | “Il lavoro che cambia.Sette racconti fotografici sullo sviluppo industriale in Trentino” [catalogo] 2018 Canal San Bovo Ecomuseo del Vanoi | “La

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2019 “La ricchezza di un paese” | Agostino Anesi e Valentina Degiampietro | Testo critico sul volume prodotto dagli autori 2019 “Gardumo” | Guido Benedetti | Testo critico sul volume/catalogo prodotto dall’autore 2018 “La lista di Candido” | I lavoratori della Collotta & Cis di Molina di Ledro tra magnesia, amianto e lavoro Progetto fotografico a cura dl MAG | Museo Alto Garda Testo critico in catalogo per la parte fotografica e curatela delle imamgini esposte in rassegna realizzate dal Gruppo Fotoamatori Valle di Ledro 2017 “MAHEELA” | Quando essere donne è una sfida quotidiana”, Giuseppe Benanti, Giacomo d’Orlando e Paolo Piechele. Progetto fotografico nazionale ed itinerante, promosso dall’Associazione Apeiron Onlus | Testo critico in catalogo e curatela tecnica della assegna 2016 “Carcere di Procida” | Luigi Lauro | tra memoria e sofferenza. Collana Antropologia dei Territori Testo critico introduttivo e curatela tecnico/artistica della rassegna 2014 “Friends” | Valentina Degiampietro | testo critico sul volume del progetto 2013 “A nord di Trento a Sud di Bolzano” | Gianni Bodini, Giorgio Dalvit, Fabio Maione, Stefan Stecher | testo critico in catalogo 2011 “Racconti di donne” – 40 anni del Gruppo Fotoamatori Pergine | Carla Manincor, Mariagrazia Morat, Angela Panebianco, Silvia Tonelli, Marilena Martinelli, Francesca Miorelli, Gina Bello, | testo critico in catalogo 2010 “FotoStorie di ordinaria immigrazione” | Enrico Fuochi, | testo critico in catalogo “I Suani na’ pasta de omeni” | Cristian Deflorian & Andrea Turrini, | testo critico in catalogo Luca Chistè / Phf Photoforma Via della Resistenza, 50 38123 POVO - TRENTO (I) luca.chiste@gmail.com www.lucachiste.it

ics

ART E' possibile sfogliare tutti i numeri delle annate 2012-2020 della rivista icsART sul sito icsART all'indirizzo:

www.icsart.it icsART N.8 2020 Periodico di arte e cultura della icsART Curatore e responsabile Paolo Tomio

PERIODICO della icsART N.8 - Agosto ANNO 2020

icsART

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MERCATO DELL’ARTE ? ombre e alla geometria dei templi antichi che nei colori che catturano le sfumature turchesi del Mediterraneo. Per aumentare l'effetto di ogni colore aggiunge alla pittura ad olio cera d'api e trementina e applica la miscela in tanti strati sottili. Nel 1975, a soli 37 anni, il Guggenheim Museum di New York organizza la sua prima retrospettiva. Sono anche gli anni in cui inizia a usare molto frequentemente la marijuana e in seguito in modo pesante anche la cocaina con riflessi negativi sulla famiglia e sul lavoro. Dopo un lungo viaggio in Oriente nell''83-84 rimane affascinato dall'energia di una mostra di calligrafia giapponese da cui trae ispirazione per una nuova serie di pitture gestuali completamente diverse dal suo stile precedente. Anche se nel corso della sua carriera Marden è stato etichettato come minimalista ed espressionista astratto, il suo modo di avvicinarsi a queste categorie ha fatto sì che superasse le teorie sostenute dai minimalisti per abbracciare

BRICE MARDEN (1938), COMPLEMENTS, 20042007, olio su tela, in due parti, ciascuna tela: 182,9 x 121,9 cm, complessive: 182,9 x 243,8 cm, venduto da Christie's New York 2020 a $ 30.920.000 (€ 27.843.300) (vedi a pag.28). Brice Marden nasce nel 1938 a Bronxville, New York, dove tuttora lavora e risiede. Consegue il suo MFA presso la Yale School of Art and Architecture nel 1963 e, sulla linea di Robert Rauschenberg, produce il suo primo pannello singolo monocromatico nel '64 e nel '66 inaugura la sua prima mostra personale alla Bykert Gallery di New York. Dopo di che inizia a sviluppare la sua pratica di costruzione di dipinti composti da più pannelli accostati tra di loro. Insegna pittura alla School of Visual Arts di New York dal 1969 al 1974 ed espone per la prima volta in Europa con una mostra personale presso la galleria di Yvon Lambert e partecipa a Documenta 5 a Kassel. All'inizio degli anni '70 scopre Hydra, un'isola greca nel Mar Egeo che influenzerà notevolmente i suoi lavori, le opere diventano di dimensioni maggiori e più ambiziose sia nelle composizioni con dipinti costituiti da diciotto pannelli interconnessi ispirati alle

In basso: COLD MOUNTAIN I (PATH), 1988 - 89 olio su lino, 274,3 x 365,8 cm Sotheby's New York 2010 a $ 9.602.500 (€ 7.186.500)

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BRICE MARDEN la capacità gestuale e fisica del colore e sviluppando un proprio stile distintivo così che le sue opere assumessero un linguaggio molto personale e riconoscibile nel panorama dell'astrazione. La sua pratica artistica è ugualmente informata dalla sua profonda conoscenza della storia antica, dell'architettura classica, della spiritualità e delle religioni del mondo. Negli anni '80 Marden rinuncia alla sua tecnica pittorica a base di cera e cerca un mezzo che trasmetta più direttamente il colore sperimentando una nuova tecnica di miscelazione di terpineolo con olio per produrre un pigmento che consenta di percepire sulla superficie il colore puro con una fisicità mai vista prima nei suoi dipinti. Inizia a incorporare linee organiche e tortuose che si intersecano creando schemi ritmici su campi di colore sperimentando spazi vuoti, cancellazioni e riferimenti al mondo naturale. Cerca di creare un'esperienza mistica attraverso la creazione di spazi astratti inafferrabili. Rivede continuamente il suo lavoro, a volte cancellando e rielaborando i suoi pezzi per un tempo molto lungo che, in qualche misura, limita la sua produttività. La difficoltà di classificare il lavoro di Marden deriva in parte dal modo in cui ha attraversato le diverse fasi della sua carriera: quando sente di aver esaurito la sua creatività, guarda ad altre fonti di ispirazione, spesso disparate. Egli ha riunito le formulazioni schematiche del minimalismo, l'immediatezza dell'espressionismo astratto e il gesto intuitivo della calligrafia nella sua esplorazione del gesto, della linea e del colore. Sebbene abbia continuato anche negli ultimi anni la sua esplorazione delle qualità del monocromo, ha dichiarato: «Sto deliberatamente cercando di essere più intuitivo e cercare qualcosa di più naturale». A destra:TOUR III, 1972, encausto su tela, 3 pannelli complessivo 248 x 92,4 cm, Christie's New York 2004 a $ 2.247.500 (€ 1.692.500)

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POPULAR ART Delitti, terrore, suspense, donne discinte eternamente coinvolte in situazioni pericolosissime è la formula vincente di questi periodici che fanno tremare i polsi alla gente comune: dietro ogni ombra, in qualsiasi luogo del pianeta c'era sempre un moro pronto a violentare la donna bianca, il gorilla feroce liberatosi dalle catene o qualche misterioso personaggio che somministra droghe per annichilire la volontà della protagonista. Era un mondo pervaso da ogni sorta di pericoli in cui i buoni, minacciati da ogni sorta di malvagi, dopo mille peripezie, finivano sempre vittoriosi con il Bene che trionfava. L'immaginario popolare si è nutrito di questi racconti pulp e horror ma ad accrescere l'interesse per queste letture hanno contribuito anche le immagini delle copertine illustrate da pittori a volte di buon livello. Le loro fantasiose tavole sono state ora riproposte da Helen McCullen, un'artista statunitense che vi ha ritro-

Il termine "pulp" ha raggiunto la notorietà nel 1994, dopo il successo del film di Quentin Tarantino "Pulp fiction". Come si può intuire, la parola 'pulp' si riferisce a 'polpa' ma non si tratta, come potrebbe sembrare di primo acchito, di una polpa umana di qualsiasi tipo, ma attiene più banalmente alla polpa della carta in pasta di legno con cui erano realizzate le "Pulp Magazine", le riviste popolari a basso prezzo di avventure e di horror. Nata all'incirca a fine ottocento questo tipo di letteratura per le classi basse (anche se probabilmente erano lette da persone di ogni livello sociale), aveva raggiunto il suo apice negli anni 1930-35 scomparendo dopo la seconda guerra superata da altre forme di intrattenimento 22


PULP & HORROR

vato il fascino del mondo ormai lontano della sua infanzia quando amava leggere di nascosto i libri della biblioteca del nonno. Le avventure vissute sulle pagine di quelle Pulp Magazine le hanno lasciato un ricordo indelebile che, con il tempo si è trasferito nella sua pratica artistica attraverso grandi tele eseguite ad olio in cui le eroine di quando era bambina, si sono trasformate in altrettanti quadri neo-pop in bilico tra LIchtenstein, Warhol e i grandi disegnatori del fumetto d'azione classico. La forza comunicativa dei suoi dipinti esposti nella sua personale "Adventurous Women" catturano l'interesse di visitatori che appartengono a tutte le età e gli strati sociali riportandoli indietro a quei tempi in cui la psicologia e le emozioni dei personaggi erano immediatamen-

te comprensibili poiché direttamente legate alle pulsioni profonde dell'inconscio. Al di là dell'analisi sociologica, però, i quadri dell'artista americana possiedono il pregio di "raccontare delle storie" - peculiarità a lungo appartenuta alle arti visive - tramite un linguaggio popolare decifrabile da chiunque perché consolidato nella cultura di massa. Ma, al contrario dei prodotti serializzati, freddi e anonimi riprodotti da Andy Warhol che strizzano l'occhio alla cultura consumistica dell'industria, le pittoresche e ingenue scene raffigurate da Helen McCullen possiedono il potere di mettere in gioco la forza dell'immaginazione personale dei visitatori e risvegliare in ognuno la disponibilità a lasciarsi coinvolgere emotivamente dalle storie più vecchie del mondo.

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PEANUTS

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Charles Monroe Schulz (1922 - 2000) è il vignettista più famoso al mondo per avere creato "Peanuts" (Arachidi), nome scelto dal suo Sindacato ma mai amato dall'autore. La striscia ha fatto la sua prima apparizione il 2 ottobre 1950 su sette giornali (a ottobre festeggerà i 70 anni); la pagina settimanale della domenica ha debuttato il 6 gennaio 1952. Dopo una partenza lenta, è diventato uno dei fumetti più popolari e più influenti. di tutti i tempi. Al suo apice, Peanuts era pubblicato quotidianamente su 2.600 giornali in 75 paesi e in 21 lingue. In Italia è stato introdotto nel 1965 da "Linus", la prima rivista dedicata esclusivamente ai fumetti. Nato a Minneapolis, Charles Schulz era figlio unico di Carl Schulz, barbiere emigrato dalla Germania e di Dena Halverson, casalinga di origini norvegesi. La sua vita condizionata dall'ossessione di diventare un fumettista professionista, è stata normale e tranquilla come era lui: in quasi 50 anni, ha disegnato 17.897 strisce prendendo una sola pausa di cinque settimane per festeggiare il suo 75° compleanno. In tutta la saga ritornano i riferimenti biografici alla sua vita: da piccolo era timido e chiuso, come i suoi genitori, il padre di Charlie Brown è un barbiere e la madre casalinga, Linus era il nome di un suo caro amico, da ragazzo aveva avuto un cane molto intelligente, Peppermint Patty è stata ispirata da una sua cugina ecc.

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In Peanuts Schulz racconta con il suo umorismo secco, intellettuale e schivo la vita di un gruppo di piccoli amici dove gli adulti non si vedono mai; la comicità nasce dal fatto che in quel microcosmo di soli bambini si ritrovano tutti i problemi emotivi ed esistenziali, le ansie e le ossessioni dei grandi, espressi con il linguaggio degli adulti. Come ha detto: «Suppongo che ci sia un sentimento malinconico in molti fumettisti, perché il fumetto, come ogni altro umorismo, deriva da cose brutte che accadono». Nei cinque decenni in cui li ha disegnati, l'aspetto fisico e grafico dei personaggi si è naturalmente evoluto, così come i loro atteggiamenti individuali e le filosofie personali; all'interno del gruppo sono andate differenziandosi le diverse personalità e le complesse dinamiche comiche che si sviluppavano tra di loro. 1. Il protagonista principale dei Peanuts è "il buon vecchio Charlie Brown", l'alter ego di Schulz, il quale appare nel primo fumetto del 1950. I segni distintivi del suo personaggio sono la polo dal tipico motivo a zig-zag, la gentilezza, l'insicurezza e la perseveranza di fronte ai problemi. Possiede un'inguaribile fiducia negli altri, anche in Lucy che ogni volta gli sposta all'ultimo momento il pallone da calciare così che lui vola in aria e atterra sulla schiena. Non riesce mai a trovare il coraggio di parlare con la "bambina dai capelli rossi" (che non si vede mai) e che è 24

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STORIA DELL’ARTE

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ispirata a una ragazza che aveva rifiutato di sposare il vignettista. 2. Lucy van Pelt è la sorella maggiore di Linus, prepotente e sarcastica, adora comandare, umiliare Charlie Brown e bullizzare il fratellino. Dispensa consigli da psichiatra a 5 centesimi dalla sua bancarella ed é gentile solo con Schroeder il quale però è insensibile alla sua corte. 3. Linus van Pelt, più giovane di Charlie Brown è il suo migliore amico oltre che il fratello minore di Lucy. Apparso nel 1952, si succhia sempre il pollice e tiene stretta la sua coperta di sicurezza. Dato che è intelligente e molto saggio, funge da filosofo e teologo (cita spesso i Vangeli) del gruppo. È spesso vittima della sorella Lucy e crede nel potere della Grande Zucca. 4. Violet Grey, bambina un po' snob a cui piace vantarsi, prendere in giro e tormentare Charlie Brown. Originariamente un personaggio importante, è stata relegata a un ruolo secondario. 5. Schroeder, grande amico di Charlie Brown, è un genio musicale e fan sfegatato di Beethoven che suona sempre il suo mini pianoforte. 6. Sally è la sorellina di Charlie Brown che chiama il suo "dolce babboo", sempre alla ricerca di risposte alle sue domande, ma quando non le ottiene si limita a un "A chi importa?" 7. Uno dei personaggi di Peanuts che ha avuto maggior fortuna è Snoopy, il cane di Charlie Brown, un beagle il cui aspetto e personalità

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sono cambiati più di quelli degli altri personaggi, in particolare dopo aver iniziato a camminare su due piedi e a sviluppare una comicità surreal-demenziale lo hanno trasformato da normale cagnetto in un nuovo protagonista. 8. Peppermint Patty, una leader nata senza paura e un'atleta naturale, schietta e ostinatamente leale, una bambina tosta per cui lo sport è facile e difficile la scuola. Un maschiaccio, ma possiede anche un lato tenero: è irrimediabilmente innamorata di Charlie "Chuck" Brown. 9. Marcie, bambina seria e studiosa ma incapace nello sport, è la migliore amica di Peppermint Patty che lei chiama rispettosamente "Sir". 10. Pigpen, costantemente avvolto nella sua nuvola di sporcizia e polvere personale, nonostante il suo aspetto esteriore, si porta sempre con dignità. Charlie Brown è l'unico che lo accetta incondizionatamente. Nell'ultima striscia del 13 febbraio 2000, Snoopy è seduto alla sua macchina da scrivere e nel suo fumetto è riportato il commiato scritto il 14 dicembre 1999 da Charles Schulz: «Cari amici, sono stato fortunato a disegnare Charlie Brown e i suoi amici per quasi cinquant'anni. È stata la realizzazione della mia ambizione d'infanzia. Sfortunatamente, non sono più in grado di mantenere il programma richiesto da un fumetto quotidiano... quindi sto annunciando la mia pensione.»

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Agosto 2020, Anno 9 - N.8

News dal mondo BRICE MARDEN

COMPLEMENTS, 2004 - 2007

pag. 28

BRICE MARDEN

THE ATTENDED, 1996 - 99

pag. 29

BRICE MARDEN

NUMBER TWO, 1983 - 84

pag. 30

BRICE MARDEN

STAR (FOR PATTI SMITH), 1972 - 74

pag. 31

AFTER BARNETT NEWMAN, 2014

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Omaggio a BRICE MARDEN

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BRICE MARDEN, COMPLEMENTS, 2004 - 2007, olio su tela in due parti, ciascuna tela: 182,9 x 121,9 cm, complessivo 182,9 x 243,8 cm, venduto da Christie's New York 2020 a $ 30.920.000 (€ 27.843.300)

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BRICE MARDEN, THE ATTENDED, 1996 - 99, olio su tela 208,3 x 144,8 cm, venduto da Sotheby's New York 2013 a $ 10.917.000 (€ 8.380.500)


BRICE MARDEN, NUMBER TWO, 1983 - 84, olio su tela in dodici parti, 214 x 276,2 cm, venduto da Sotheby's New York 2019 a $ 10.920.600 (€ 9.807.600)

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BRICE MARDEN, STAR (FOR PATTI SMITH), 1972 - 74 olio e cera d'api su tela, trittico, 172,7 x 114,3 cm, venduto da Phillips New York 2016 a $ 5.989.000 (€ 5.359.500)



PAOLO TOMIO: Omaggio a BRICE MARDEN AFTER BARNETT NEWMAN, 2014, stampa su carta, 178 x 126 cm


ics

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