Calcio2000 n.237

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Bimestrale

diretto da Fabrizio Ponciroli

Calcio 2OOO

DIC

237 GEN

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

prima immissione 01/11/2018

3,90€

CAmpioni del passato ESCLUSIVA

GARRINCHA, Il fenomeno giganti del calcio ESCLUSIVA

DAVIDE NICOLA

“Il calcio è un gioco semplice” STORIE DI CALCIO ESCLUSIVA

GIOVANNI SIMEONE

“SOGNO LA

CHAMPIONS E…”

I BOMBER DELLA LIGA Da Zarra a Hugo Sanchez

ALFABETO DEI BIDONI

Dobrovolski, caso sovietico

Speciale Pallone d’Oro Finita l’egemonia di Messi e CR7

Dove sono finiti

Orlandini, il primo Golden Gol


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Per maggiori informazioni:

b2b@mizuno.it


FP

Ma sono invincibili?

I

l grande quesito di questa stagione calcistica è il seguente: ma la Juventus è davvero imbattibile? Se lo chiedono in tanti e le risposte sono molto in disaccordo tra di loro. C’è chi li vede come dei marziani, ovvero decisamente sopra ogni logica calcistica, chi crede che, prima o poi, andranno in crisi, confermando che il dogma secondo cui il calcio non è una scienza esatta. Indubbiamente è un argomento intrigante, anche in ottica Champions League. So che avete apprezzato lo Speciale di Calcio2000 Champions League ed Europa League (grazie), speriamo sia stato di buon auspicio per altre uscite speciali, magari per celebrare un successo italiano in Europa. Chi pensa alla musichetta della Champions League è anche il buon Simeone. Il figlio del Cholo (ma chiamatelo semplicemente Giò, sarà più felice), ci ha accolto nella sua casa e ci ha svelato tanti suoi piccoli segreti come, ad esempio, il fatto che, prima di ogni partita, si carica ascoltando la famosa musichetta della Champions League (in attesa di giocarla per davvero). Un’intervista che non vi lascerà indifferenti… Viste le tante mail di argomento storico, su

editoriale

Ponciroli Fabrizio

questo numero abbiamo esagerato con la “nostalgia del calcio” e i “focus sul passato”. Delicato e approfondito lo speciale sui bomber che hanno scritto il libro dei record nella Liga, accorato l’omaggio a Garrincha (che fenomeno) e grazioso il ricordo dell’ultima Coppa Italia granata. Per chi ama gli articoli “statistici”, consigliamo il pezzo sui grandi argentini del calcio italiano e quello sui gol fantasma. Insomma, tanta carne al fuoco, come sempre direi… So che vi divertirete anche a leggere di Dobrovolski. Io lo ricordo benissimo. Ho seguito il suo approdo al Genoa con grande partecipazione emotiva. Ero un ragazzino e, come tanti altri, ero ossessionato da Igor, il sovietico che faceva mirabilie con l’URSS. Beh, non è andata benissimo… Chiudo con una riflessione: sono settimane che, complice l’imminente assegnazione del Pallone d’Oro, sento parlare solo di quanto siano bravi gli altri. I fenomeni sembrano “abitare” solo in Spagna, Inghilterra o a Parigi. Il resto? Non sembra esistere. Mi auguro che, il prossimo anno, possa scrivere un editoriale in cui l’Italia e i suoi fenomeni siano l’argomento principe. Io ci credo, ciecamente. E voi?

Il successo è ottenere ciò che si vuole. La felicità è volere ciò che si ottiene

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SOMMARIO

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Calcio2OOO

Anno 21 n. 6 dicembre 2018 / gennaio 2019 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli SIMEONE 8 GIOVANNI INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

& BUSINESS 46 CALCIO SPECIALE di Fabrizio Ponciroli

48 GARRINCHA LEGGENDE DEL CALCIO di Fabrizio Ponciroli

ROSSA 54 STELLA MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano

NICOLA 62 DAVIDE GIGANTI DEL CALCIO di Sergio Stanco

IN SERIE A 18 ARGENTINI SPECIALE

70 Blackburn REPORTAGE

di Luca Gandini

di Luca Manes

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/11/2018 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto. Hanno collaborato Thomas Saccani, Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Pierfrancesco Trocchi, Stefano Borgi, Giorgio Coluccia, Luca Savarese, Luca Manes, Davide Orlando, Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi

D’ORO 24 PALLONE SPECIALE

ORLANDINI 76 PIERLUIGI DOVE SONO FINITI? di Stefano Borgi

di Gianfranco Giordano

CAPUTO 30 FRANCESCO INTERVISTA ESCLUSIVA

INTERTOTO 80 SPECIALE STORIE DI CALCIO di Luca Gandini

di Sergio Stanco

BOMBER DELLA LIGA 34 ISTORIE DI CALCIO di Thomas Saccani

FANTASMA 40 GOL SPECIALE di Davide Orlando

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DOBROVOLSKI L’ALFABETO DEI BIDONI di Thomas Saccani

90 TORINO-ROMA GARE DA RICORDARE di Luca Savarese

Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000 Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network

DA 98 SCOVATE CARLETTO

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 gennaio 2019 Numero chiuso il 27 ottobre 2018


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AQUA

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bocca del leone

la

ITALIA, CHE FUTURO? Buongiorno Direttore, la seguo sempre su RMC e su TMW. Mi piace la sua schiettezza. La Nazionale continua a deludere. Ventura, Mancini, sono tutti uguali. Ci vuole uno come Conte, uno che sappia farli andare al massimo. Perché così non abbiamo futuro. Complimenti, aspetto sua risposta. Cyem89, mail firmata Eccomi… Allora, la Nazionale è ai minimi storici in quanto a talento. L’ho detto e lo ribadisco. Ritengo che ci sia un solo modo per risollevarsi, ossia puntare al collaudato “concetto di appartenenza”. Se Mancini non riuscirà a trovare gli uomini giusti per creare il giusto gruppo, non avremo risultati soddisfacenti per diverso tempo…

PALLONE D’ORO, CHI LO VINCE? Direttore, le scrivo per parlare di Pallone d’Oro. Dopo non so quanti anni, CR7 e Messi non lo vinceranno. Spero che lo vinca Pogba perché è un campione, giovane e ha fatto un grande Mondiale e poi torna alla Juventus forse. Chi lo vince per lei? Pogba ce la può fare? Danilo, mail firmata Ciao Danilo… Io voto Griezmann e non solo per quello che ha fatto con la nazionale francese. È un fenomeno e ha fatto una stagione eccezionale, sia con i colchoneros che con i galletti. Mi piacerebbe lo vincesse lui. Pogba? No, credo che non sia stato il migliore della scorsa stagione. Credo che Modric sia l’unico, vero, rivale di Griezmann ma potrei sbagliarmi di grosso come mi è già capitato, più volte, in passato…

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W LA STORIA Direttore Ponciroli, le scrivo da affezionato lettore. Dopo tanti numeri acquistati solo per continuare la collezione, sono tornato a leggere qualche articolo. Le interviste sono sempre interessanti ma mi piacciono i pezzi storici e spero ce ne saranno sempre di più. Almeno è qualcosa che non c’è in giro e si imparano cose nuove. Ci vogliono più racconti del passato e anche le statistiche sempre di più. L’alfabeto dei bidoni perché solo poche pagine? Ce ne sono stati tanti di bidoni, non ci credo che non avete materiale su di loro. Scusi lo sfogo ma vedo che si sta impegnando. Davide, mail firmata Grazie Davide… Fa sempre piacere un punto di vista crudo e reale. Sì, confermo che sto attingendo, in maniera sempre


di Fabrizio Ponciroli

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» RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO ALCIONE MILANO, IL FUTURO È ADESSO

Dal 1952 Alcione Milano è una fra le realtà più dinamiche e significative nel settore del calcio giovanile. Da sempre iscritta alla Federazione Italiana Gioco Calcio e alla Lega Nazionale Dilettanti ha ottenuto, anno dopo anno, vittorie e trofei nelle varie categorie, in Italia e all’Estero. Insignita del “Diploma di Benemerenza Tecnica” dal Centro Tecnico FIGC di Coverciano, ha una propria metodologia di insegnamento del calcio, conosciuta e apprezzata da generazioni di calciatori. Lo scorso ottobre, Grande successo per la presentazione della nuova maglia Alcione, con il Presidente Marcello Montini che ha fatto gli onori di casa. Il Ceo di ZTE Italia Mr. Hu Kun ha dato il calcio d’inizio alla partitella di benvenuto e ha sottolineato l’importanza per ZTE della partnership con Alcione per la crescita del calcio giovanile.

più robusta, alle storie che fanno parte del libro dei ricordi. Ritengo che siano racconti che hanno ancora tanto da svelare. È una precisa scelta editoriale e sto notando che inizia a dare i primi frutti. Materiale ne abbiamo, solo le pagine che non sono infinite… Comunque, cercherò di fare del mio meglio, come sempre. Anche sul fronte statistiche…

ta Serie A. Se conosce la storia della nostra/vostra rivista, sa che Calcio2000 ha realizzato delle raccolte di figurine in passato (le ho tutte). Felice di averla stupita e sono certo che riuscirò a farlo anche in futuro. Come sempre, dipendiamo dalle vendite ma ci stiamo attrezzando per un altro grande colpo a sorpresa… Non posso svelare altro!

SERIE A E CHAMPIONS LEAGUE… Ponciroli, devo dire che sono stupito. Prima la Serie A e poi la Champions League. Due guide ben fatte, come faceva Calcio2000 negli anni passati. Ora cosa devo aspettarmi? Magari un album di figurine del calcio? Gianmaria, mail firmata

MILANISTA DELUSO Direttore Ponciroli, un po’ di conforto ad un milanista deluso. La squadra mi piace. Abbiamo preso Higuain che a 31 anni è ancora il più forte in attacco ma la Juventus è imbattibile. Non se ne può più di questi che vincono sempre. La Champions tanto non la vincono sicuro, vanno in finale e poi perdono come sempre e poi piangono. Complimenti per Calcio2000 e l’editoriale su Tuttomercatoweb di Calcio2000 che leggo tutti i mercoledì mattina prima di andare al lavoro. Enrico, mail firmata

Caro Gianmaria, se non ci fosse una “questione di diritti”, proverei a far concorrenza alla Panini con un bell’album di figurine dedicato alle stelle della nostra ama-

Caro Enrico, capisco il suo risentimento dovuto alla fede rossonera ma noto anche un pizzico di “gufata” nei confronti della Vecchia Signora. Io vado contro corrente. Spero che qualcuno questa maledetta Champions League la vinca. Che sia la Juventus, l’Inter, il Napoli o la Roma mi importa poco, deve vincerla una squadra italiana. E il Milan? Sarebbe meraviglioso vincesse l’Europa League. Stesso desiderio per la Lazio. Cerchiamo di tifare le squadre italiane, soprattutto in questo momento in cui la Nazionale fatica in maniera indicibile a fare qualcosa di buono…

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VA

I S U L C S E A T INTERVIS Giovanni Simeone di Fabrizio Ponciroli

SULLE NOTE DEL

GLADIATORE… Alla scoperta di Giovanni Simeone, attaccante della Fiorentina con tanti sogni nel cassetto

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iovanni Simeone abita a pochi chilometri di distanza del Centro Sportivo Davide Astori. La sua dimora fiorentina è ben lontana dalle trafficate zone turistiche del centro. Gio, come lo chiamano tutti, preferisce la tranquilla beatitudine di un quartiere in cui è la natura l’incontrastata sovrana. Il silenzio è una dolce compagnia. Appena entriamo nella splendida casa, Giovanni ci indica la veranda, teatro di tante cene a base di asado: “Qui con amici e compagni, si esagera”. Giovanni è un ragazzo sorridente, decisamente affabile. Mentre osservia-

8 Foto in posa di Federico De Luca


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ESC INTERVISTA Giovanni Simeone

mo il meraviglioso panorama, ci sorprende: “Quando ho visto questa casa, ho capito subito che era quello che mi serviva. Qui c’è il silenzio, il massimo per me”. Curioso detto da uno che, in campo, fa a sportellate con tutti… Dopo un caffè preparato dallo stesso Gio, ci siamo… Apriamo il libro dei ricordi… Sei nato in una famiglia dedita al calcio. Impossibile fare altro nella vita? “Sai, tutta la mia famiglia ruota attorno al calcio. Non ho mai pensato di fare altro. Ecco, prima di diventare professionista, pensando a cosa avrei potuto fare, se non avessi fatto il calciatore, mi era venuta l’idea di fare l’insegnate di educazione fisica ma poi, per fortuna, sono diventato professionista”. Ma quando hai capito che avresti potuto fare il calciatore professionista? “Onestamente, da sempre… Quando ero piccolo, che ero in Italia, mio padre (Diego Simeone, ndr) mi portava sempre con lui e mi guardava giocare. Pensa che il primo dentino che mi è caduto da bambino, l’ho perso mentre stavo giocando a pallone in un campo da calcio (Ride, ndr). Insomma, era destino…”. È chiaro che avere un padre come il tuo condiziona parecchio ma hai avuto altri idoli da ragazzino? “No, il mio modello è sempre stato mio pa-

Tanti i sogni de El Cholito, in primis Champions League e Coppa del Mondo

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dre. Lui era ed è, ancora oggi, una sorta di divinità per me. C’è sempre stato lui al mio fianco. Lui mi ha aiutato a coronare il mio sogno di giocare a calcio”. Nella tua formazione calcistica, ha un posto speciale anche nonno Carlos… “Ah, certo… Il nonno si faceva sentire, mi spronava tanto ma mi ha anche dato una carezza che non dimenticherò mai… Quando avevo 13 o 14 anni, dopo una partita, mi ha preso da parte e mi ha detto: ‘Sai, questa volta voglio dirti una cosa che ho detto a tuo padre tanto tempo fa: arriverai in Primera Division argentina’… e così è stato. Per il resto, erano sempre rimproveri da parte del nonno ma, quella volta, mi ha dato una vera e propria carezza che non dimenticherò mai”.

“Mio padre mi ha sempre detto che il calcio italiano è il migliore per imparare. E aveva ragione…” Quando sei arrivato al Genoa, a chi ti ha chiesto di presentarti hai risposto: “Io sono Giovanni, Gio in Argentina”. Come mai? “Guarda, sin da piccolo, mi dicevano sempre che giocavo a calcio perché ero il figlio di Diego Simeone. Oppure si diceva che io giocassi, perché ero suo figlio. Per questo non mi piaceva, da ragazzino, essere chiamato Cholito. Io volevo essere Giovanni, non il figlio di Diego Simeone. Per fortuna, quando sono diventato professionista, tutto è cambiato. Se sei il figlio di un giocatore importante, puoi arrivare fino ad un certo punto ma poi sta a te dimostrare di valere davvero”. Anzi, forse, se si è il figlio di un grande campione, la gente si aspetta ancora di più… “Vero, infatti io ho sempre cercato di dare tutto quello che avevo proprio perché volevo dimostrare di essere un giocatore vero. Ora


LA GIOIA ALBICELESTE Non c’è nulla di più prestigioso dell’indossare la maglia del proprio Paese. Lo scorso 7 settembre, Giovanni Simeone ha coronato un suo grande sogno. È sceso in campo con la casacca albiceleste, nella sfida contro il Guatemala: vittoria per 3-0 e primo centro per l’attaccante della Fiorentina. Un grande traguardo ma il diretto interessato non considera l’approdo alla maglia albiceleste come un punto di arrivo: “Quando sono sceso in campo con la casacca dell’Argentina non ho pensato ‘c’è l’ho fatta’… Era quello che volevo, quello che sognavo ma credo che sia solo l’inizio. Posso e devo fare ancora di più. Arrivando alla maglia della mia nazionale ho avuto, ancor di più, la conferma di essere sempre più vicino ai migliori. Mi alleno con i migliori giocatori argentini e vedo che posso starci anch’io in quel gruppo, ne sono orgoglioso”. Orgoglioso anche padre Diego che, al suo primo gol con l’Argentina, si è coccolato il figlio: “Era felice, contento per me. Mi ha detto che era orgoglioso di quello che avevo fatto”. Un gol al quale Gio è estremamente legato: “Se dovessi scegliere, oggi, il gol più importante della mia carriera, sceglierei quello fatto con l’Argentina”. Un’Argentina che, al momento, non ha più Messi: “Tornerà, sono certo che tornerà -continua Giovanni- Dopo il Mondiale, credo sia normale prendersi del tempo per ricaricarsi, soprattutto a livello mentale. Ma io penso proprio che Messi tornerà in nazionale”. Attendiamoci di veder duettare Messi e Simeone…

non mi dà più fastidio essere chiamato Cholito. Adesso sono diventato un giocatore con una sua precisa identità”. Contrasti con tuo padre a livello di calcio? “No, anche io sono un fan del Cholismo: 4-42, tranquillo… (Ride, ndr)”. Come mai hai scelto proprio l’Italia e il Genoa per la tua prima avventura fuori dall’Argentina? “C’era stato anche un interessamento del Pescara ma non è andato in porto. Mia zia mi ha chiamato e mi ha detto che c’era questa opzione del Genoa, una squadra storica, in un campionato molto difficile ma dove si impara tanto. Io ho sempre voluto giocare in Europa, sin da piccolo. Così ho accettato subito”. A Genoa ti sei inserito subito alla grande… “Ho trovato tante persone che mi hanno aiutato a crescere. Devo ringraziare Mister Juric che mi ha insegnato tantissime cose. Prima ero uno che correva sempre, andavo ovunque per il campo. Juric mi ha spiegato come si gioca a calcio in Italia. È stato importante per me, mi ha permesso di migliorarmi tanto”. Per un attaccante, fare subito bene nel cal-

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ESC INTERVISTA Giovanni Simeone

cio italiano è complicato… “Mio padre mi ha sempre detto che il calcio italiano è il migliore per imparare. E aveva ragione… In Italia si impara tantissimo. Diventi un attaccante completo, scopri tante cose nuove. C’è tanta tattica, è una grandissima scuola. Io, quando sono arrivato, correvo dietro al pallone poi, grazie a Juric, Mandorlini e ora Pioli, ho capito cosa bisogna fare in campo”. Credi di essere migliorato anche come persona? “Sicuramente. Sono diventato più tranquillo, l’esatto contrario di come sono in campo (ride, ndr). Ho imparato a vivere da solo, senza la famiglia attorno. Mi sono dovuto mettere in gioco. Ho cominciato ad essere semplicemente Gio, tutto qui. È un processo che è cominciato a Genova e sta proseguendo qui a Firenze…”. Quanto è importante per te aver conosciuto un allenatore come Pioli? “È stato molto importante. Lui mi sta insegnando come correre bene e non a vuoto. Con lui sono più equilibrato quando gioco”.

Alla Fiorentina, Simeone è cresciuto enormemente come giocatore

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Parliamo proprio della tua scelta di venire a Firenze… “All’inizio non volevo lasciare Genova. Per tutta la mia carriera ho sempre cambiato maglia dopo una sola stagione e non volevo ricapitasse. Voleva dire, ancora una volta, ricominciare tutto da zero. Nuova casa, nuovi amici e nuovi compagni. Poi, appena sono arrivato a Firenze, ho incontrato tantissima gente che mi ha aiutato ad integrarmi alla perfezione. Tutti mi hanno sostenuto, compresi i compagni e il mister, e, finalmente, sono riuscito a restare in un club per più di un anno. Era un mio obiettivo…”.

“Se sei il figlio di un giocatore importante, puoi arrivare fino ad un certo punto ma poi sta a te dimostrare di valere davvero” Dove può arrivare questa Fiorentina? “Abbiamo tutto per far bene. Abbiamo tanta voglia e ci sono anche tanti giovani ambiziosi, come lo sono io. È una rosa davvero interessante e credo che ci divertiremo. Non è un caso che ci sia tanta gente che ci segue. Noi mettiamo in campo davvero tutto quello che abbiamo nell’anima e la gente lo vede e lo apprezza”. Il tutto nell’anno in cui CR7 è arrivato in Italia… “Sì, il suo arrivo è stato importante ma non solo il suo. Sono arrivati tanti giocatori di livello internazionale, come Pastore ad esempio, durante l’ultima sessione di mercato, a dimostrazione che il calcio italiano ha tanto appeal. Sta tornando ad essere un campionato che attrae le stelle”. Ma questa Juventus è battibile? “Molto, molto difficile da battere. È una squadra super, con tantissimi campioni in rosa.


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Ogni gara, dimostrano di essere i migliori. La vedo dura (ride, ndr)”. Hai già affrontato tanti grandi difensori, qual è il più tosto che ti sei trovato di fronte? “Ce ne sono tanti. Mi viene in mente de Vrij. Magari lo salti una volta e, quasi per magia, te lo ritrovi davanti. Ha una grande fisicità e sa sempre dove posizionarsi per anticiparti. Fortissimo. Beh, anche Koulibaly è durissimo da superare ed è anche pericolosissimo in attacco, quindi lo devi sempre seguire”. Parliamo un po’ di te… Grande appassionato di arte, vero? “Sì, è vero. Grazie a mia zia… Da piccolo, mi parlava sempre di arte e mi passava dei libri da leggere. Inizialmente non ero interessato poi, come capita spesso, proprio quando nessuno mi obbligava più a leggere quei libri, ho iniziato ad interessarmi io all’arte ed è stato magnifico. Poi, qui a Firenze, è uno spasso. Ci sono talmente tante meraviglie da vedere…”. Insomma, nella vita di Gio non c’è solo il calcio… “No, c’è tanto altro. Mi piace molto la tranquillità, infatti ho scelto di vivere qui, in una zona in cui non c’è nessun rumore e tanta natura. Faccio meditazione. Posso ascoltare musica jazz di notte o rilassarmi leggendo un buon libro. Non sono un tipo che esce molto, non vado dove c’è troppo caos. Quando non sono in campo, dove sono super focoso, mi piace tantissimo starmene calmo e sereno”. Vedo anche una playstation…

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“Sì, qualche partita a calcio”. Tre giocatori che metteresti nella tua squadra ideale? “In attacco prendo Griezmann, in difesa Godin e a centrocampio Jordan Veretout”. Appassionato anche di cinema? “Certamente. Mi piace di tutto… Quando sono con la mia ragazza, magari sto più su film romantici ma a me piace di tutto. Vado pazzo per la saga di Harry Potter, ad esempio… Ascolto molto, come musica motivazionale prima di andare in campo, i brani del compositore Hans Zimmer, quello de Il Gladiatore per capirci. E ho anche la musichetta della Champions League nella mia lista motivazionale…”.


LA MAGLIA VIOLA Ci tiene molto alla sua “9”. Con la casacca della Fiorentina si sta togliendo tante soddisfazioni. Il nuovo kit 2018/19, ovviamente griffato Le Coq Sportif (al quarto anno di collaborazione con la Viola) è un perfetto mix di tradizione e fascino. Bellissima la “prima maglia”. Interamente viola, senza nessun inserto di altro colore, rispecchia la passione per la Fiorentina. Sul retro è ben visibile il famoso Saluto alla Voce: “State attenti al comando. Badate a voi, le armi in pugno. Presentate le armi, salutate! Rimettetevi, armi a terra. Riposatevi sulle vostre armi. Gridate con me. Viva Fiorenza!”. Il calcio storico ha ispirato il noto marchio francese che ha realizzato una maglia da trasferta abbinata ad ogni quartiere di Firenze: gli azzurri di Santa Croce, i verdi di San Giovanni, i rossi di Santa Maria Novella e i bianchi di Santo Spirito. “In questa quarta stagione con Le Coq Sportif abbiamo voluto dare continuità a un progetto che ci è molto caro perché ripercorre le radici del tifo viola e va a riscoprire proprio gli elementi identitari che accomunano i nostri tifosi: l’attaccamento a Firenze, alle sue tradizioni e ai colori viola” ha commentato Gino Salica, Vice Presidente ACF Fiorentina, nel giorno della presentazione ufficiale della nuova maglia. “Le Coq Sportif ha sempre saputo cogliere lo spirito del nostro legame con la città e anche in questa stagione ha dato profondità e sostanza al racconto di 4 Quartieri, 1 Cuore Viola”.

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ESC INTERVISTA Giovanni Simeone

LA CARRIERA DI GIO Giovanni Simeone è nato a Buenos Aires, il 5 luglio 1995. Si appassiona al calcio sin da piccolo, complice il padre, il noto Diego Pablo Simeone, attuale allenatore dell’Atletico Madrid. Si forma, calcisticamente parlando, nelle fila del River Plate. Nel 2013, fa il suo esordio nel calcio professionistico proprio con la casacca dei Los Millonarios, contro il Gimnasia y Esgrima La Plata (con in panchina una vecchia conoscenza del calcio italiano, ovvero Ramon Angel Diaz). Trova la sua prima marcatura contro il Tigre. Si fa valere anche con il nuovo tecnico Marcelo Gallardo. Mette a referto, con i paraguaiani del Club Libertad, il suo primo gol in Copa Sudamericana. Nel 2015 si trasferisce, con la formula del prestito, al Banfield dove segna 12 reti in 34 gare. Nell’estate del 2016, arriva l’accordo con il Genoa. Il Pescara è la sua prima “vittima italiana”. Chiude la sua prima stagione italiana con 13 reti (12 in campionato). La Fiorentina decide di scommettere sulle sue doti e viene premiata. Migliora il suo bottino di reti, arrivando a quota 14 in campionato (brilla la tripletta ai danni del Napoli). Lo scorso agosto viene convocato dal CT della nazionale argentina Scaloni. Il 7 settembre 2018, ecco l’esordio, con gol, contro il Guatemala. Siamo solo ai primi capitoli di una carriera che promette scintille…

Giovanni Simeone e il Direttore Ponciroli durante l’intervista

La musichetta della Champions League? “Sì, assolutamente. Quello è davvero un torneo unico nel suo genere. Mi piace da impazzire. Spero proprio di giocarla, prima o poi. È uno dei miei obiettivi personali”. Visto che sperimenti di tutto, come andiamo con il cibo italiano? “Vado pazzo per la pasta italiana. In qualsiasi modo, basta che sia pasta. Quando la mia ragazza mi chiede cosa voglio, io rispondo sempre: ‘Spaghetti in bianco, olio e formaggio, così sono felice’… (ride, ndr)”. Chiudiamo con i tre sogni di Giovanni Simeone? “Te ne dico due legati al calcio e uno alla vita

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privata. Per quanto riguarda la mia carriera da calciatore, sogno di vincere la Champions League e alzare la Coppa del Mondo. Per quanto riguarda la mia vita privata, di farmi una famiglia”. I due sogni da calciatore sono piuttosto ambiziosi… “Che sogni sarebbero se no? Bisogna sempre puntare al top, no?”. Nulla da eccepire. Giovanni Simeone è davvero un ragazzo con le idee chiare. Nonostante la presenza, a volte ingombrante, del padre, ha lottato contro tutto e tutti, conquistandosi un posto tra i migliori attaccanti d’Europa. Alla Fiorentina si sta consacrando, le porte della nazionale gli si sono già aperte. Ha il futuro tra le mani. Determinato, deciso ma anche con un grande equilibrio personale. Nella sua sala, ci sono medaglie, trofei, figurine Panini, il pallone della tripletta al Napoli e ricordi di ogni luogo dove è stato e ha giocato. C’è anche un posto speciale per il defunto compagno Davide Astori (“le sue cose le tengo in un’altra stanza, più privata”, ci spiega). Un ragazzo d’oro, con un grande istinto per il gol e non solo. Riduttivo chiamarlo solo El Cholito…


I CAMPIONI DI PANINI FIFA 365 Un appuntamento che è diventato un classico. Una nuova edizione tutto da scoprire…

Finalmente in edicola l’edizione 2019 di Panini Fifa 365, ovvero la collezione di figurine dedicata al top del calcio mondiale (realizzata da Panini su licenza ufficiale FIFA). La nuova raccolta è composta da ben 468 figurine, di cui ben 182 speciali. Sono rappresentati i campioni di 22 tra i club più prestigiosi e amati al mondo. A tenere alto il nome dell’Italia ci sono tre società, ossia Juventus, Inter e Napoli. Nell’album di “Panini FIFA 365” ogni club è innanzitutto presentato da due sezioni speciali, in cui appaiono l’emblema ufficiale in un innovativo formato circolare per la sezione denominata “Football Giants” e le maglie ufficiali per la sezione “The Colours Of Football”. I 22 club rappresentati all’interno della collezione hanno una doppia pagina dedicata. Ognuno di questi presenta figurine a mezzobusto e in movimento di 16 calciatori, oltre che dati statistici relativi a vittorie e goal negli ultimi 5 anni, anno di fondazione e titoli nazionali ed internazionali conseguiti. Tra le 16 figurine dedicate ai giocatori trovano spazio anche 3 “Golden Player”, giocatori di spicco che vengono quindi rappresentati con sticker speciali. Completano i club presenti all’interno della collezione anche le squadre che hanno preso parte alla “FIFA Club World Cup”. Una sezione dedicata a questo prestigioso torneo prevede infatti, tra le 6 squadre che hanno conteso il trofeo al Real Madrid, anche Al-Jazira Club, Wydad Athletic Club, CF Pachuca, Urawa Red Diamonds, Auckland City FC, che partecipano alla collezione con la figurina della squadra schierata. In totale, i calciatori presenti nella raccolta sono quasi 400 e le aree geografiche con il maggior numero di club rappresentati nella raccolta sono l’Europa e il Sud America, rispettivamente con 16 e 3 squadre. Spazio anche a “parti” dedicate all’universo FIFA, come la sezione “2018 FIFA World Cup Russia”, dove vengono mostrate le squadre che hanno preso parte alla fase finale della competizione.


SPECIALE

Argentini in Serie A di Luca Gandini

LEZIONI DI

TANGOL PiĂš povero e meno prestigioso sarebbe stato il nostro calcio senza il marchio indelebile dei grandi bomber argentini.

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e c’è una nazione che più di ogni altra può essere considerata “sorella” dell’Italia, questa è l’Argentina. Non solo perché quasi la metà della sua attuale popolazione ha origini italiane, ma anche per via delle tante similitudini culturali, climatiche e sociologiche che contraddistinguono e accomunano i due Paesi. Una di queste è ovviamente la passione per il calcio, così fortemente radicata nel DNA di entrambi i nostri popoli. Non è un caso che alcuni tra i più celebri club argentini siano stati fondati da immigrati italiani, e non è un caso che, da quasi un secolo, molti dei più grandi campioni argentini abbiano trovato l’America proprio qui da noi, venendo ad arricchire il nostro

“fútbol” con il loro inconfondibile patrimonio tecnico e temperamentale. È un connubio che, in fin dei conti, ha fatto bene a tutti. A loro, perché in Italia sono cresciuti e migliorati sotto tanti punti di vista, da quello tecnico-tattico a quello economico. E alle nostre squadre che, grazie alle prodezze degli assi venuti dalle pampas, hanno saputo imporsi ai vertici del grande calcio, sia a livello nazionale che internazionale. ¡CAMPEONES DEL MUNDO! Sono stati soprattutto gli attaccanti, con i loro gol a ritmo di tango, ad aver deliziato le nostre platee. Uno dei primi, e dei più celebri, fu RAIMUNDO “Mumo” ORSI. Ala sinistra

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Speciale

Argentini in Serie A minuscola, ma in possesso di una velocità impressionante e di un tiro potente e preciso con entrambi i piedi, aveva portato la “Selección albiceleste” al successo nel Campionato Sudamericano (l’odierna Coppa America) nel 1927 e al secondo posto ai Giochi Olimpici di Amsterdam nel 1928, alle spalle dei cugini uruguayani. Un po’ come accaduto esattamente 90 anni dopo con Cristiano Ronaldo, la Juventus di Edoardo Agnelli mise a segno un sensazionale colpo di mercato assicurandosi il miglior giocatore dell’epoca per 8.000 Lire al mese, una lussuosa villa sulla collina torinese e una fiammante FIAT 509 con tanto di autista personale. Orsi non solo ripagò la Juve segnando 76 gol in 177 partite e regalandole 5 Scudetti consecutivi, ma fece anche la fortuna della Nazionale italiana una volta naturalizzato, guidandola con i suoi irresistibili dribbling al primo trionfo mondiale della sua storia nel 1934. Era però un periodo difficile, quello. Venti di guerra spiravano sul nostro Paese per via della pericolosa amicizia con il Reich hitleriano e dell’imminente annessione dell’Etiopia. Orsi, amante della dolce vita e impareggiabile violinista, capì che quella non era più la spensierata Italia di una volta. Così, nel maggio del 1935, fece le valigie e se ne tornò in Argentina, lasciandosi dietro infiniti rimpianti. Nella Nazionale campione del mondo nel 1934, un altro formidabile goleador argentino risultò determinante ai fini del successo finale. Era l’ala destra ENRIQUE GUAITA, detto “El Indio”. Più giovane di Orsi di 9 anni (“Mumo” era del 1901, Guaita del 1910), era stato portato in Serie A dalla Roma giusto nell’anno che precedeva il Mondiale, evento a cui partecipò con la maglia dell’Italia in virtù del suo status di oriundo. Una fortuna per i colori azzurri, visto che “El Indio” segnò un pesantissimo gol nella vittoriosa semifinale contro l’Austria, forse la nostra rivale più quotata. Il suo passaggio nel nostro calcio, sebbene trionfale, fu molto breve. Dopo 2 soli campionati in maglia giallorossa impreziositi

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da 43 gol in 60 presenze, nel settembre del 1935, preoccupato per la situazione politica in Italia, prese armi e bagagli e fece ritorno in patria. La stagione successiva, la Roma sarebbe arrivata seconda a un solo punto dal Bologna campione. Con Guaita, lo Scudetto sarebbe certamente finito nella Capitale. “ANGELI” E RECORD Dopo la guerra nacque la stella di Alfredo Di Stéfano, il micidiale centravanti che fece grandi sia la “Selección”, con cui dominò il Campionato Sudamericano del 1947, sia soprattutto il Real Madrid delle 5 Coppe dei Campioni consecutive. Purtroppo non approdò mai in Italia, ma in quel periodo gli sportivi di casa nostra poterono comunque consolarsi con molti altri bomber cresciuti a mate, tango e gol. Grazie alle magie della seconda punta MIGUEL ÁNGEL MONTUORI, la Fiorentina

Tevez, l’Apache che ha entusiasmato alla Juventus


vinse il primo Scudetto della sua storia nel 1955/56 e contese vanamente la Coppa dei Campioni al Grande Real nella sfortunata finale di Madrid dell’anno dopo. Proprio nel 1957, l’esaltante affermazione nel Campionato Sudamericano dell’Argentina degli “angeli dalla faccia sporca”, HUMBERTO MASCHIO, ANTONIO ANGELILLO e OMAR SÍVORI, non lasciò indifferenti gli ambiziosi club italiani. Fu soprattutto Sívori, fantasista mancino dal dribbling geniale e dal carattere irriverente, a segnare un’epoca con la maglia della Juventus. Pur non essendo un centravanti puro, si piazzò spesso ai primi posti delle classifiche marcatori, conducendo i bianconeri alla vittoria di 3 Scudetti e togliendosi anche la soddisfazione di conquistare il Pallone d’Oro nel 1961. Non seppe invece fare la differenza né in Coppa dei Campioni né in Nazionale una volta naturalizzato italiano. Partì alla grande, all’Inter, anche il giovane centravanti Angelillo. Nella sua seconda stagione si laureò capocannoniere del campionato con 33 gol, un record tuttora ineguagliato nei tornei a 18 squadre. Il suo talento incantò anche un critico tradizionalmente pungente come Gianni Brera, che, dalle pagine de “Il Mestiere del Calciatore”, arrivò a scrivere di lui: “Aveva grandissima classe e uno stile così raffinato da apparire splendido in ogni mossa”. Angelillo non riuscì però a confermarsi a lungo ai vertici, anche a causa di alcuni dissidi con il tecnico Helenio Herrera, che lo accusò di abbandonarsi spesso alle lusinghe della dolce vita. Alla faccia della solidarietà tra connazionali...! Porta inoltre la firma di un grande goleador argentino l’unico trofeo internazionale di un certo prestigio conquistato dalla Roma: la Coppa delle Fiere edizione 1960/61, di cui PEDRO MANFREDINI fu l’indiscusso capocannoniere con 12 reti. Dopodiché, l’autarchia causata dalla chiusura delle frontiere e durata dal 15 febbraio 1965 sino a tutta la stagione 1979/80, ci impedì a lungo di ammirare i sensazionali assi provenienti da Buenos Aires e

Maradona e Higuain, due argentini ben noti ai fan italiani...

dintorni. Fu solo negli anni ‘80 che le nostre strade tornarono ad incrociarsi, in una lunga saga di gol e talento che avrebbe raggiunto picchi di irripetibile magnificenza con DIEGO ARMANDO MARADONA. NON SOLO DIEGO Non solo il più celebre calciatore straniero ad aver militato in Serie A; non solo faro del gioco e leader carismatico del Napoli; numeri alla mano, “El Pibe de Oro” fu anche un ottimo realizzatore totalizzando 81 reti in 188 presenze in campionato. Un bottino notevole in anni in cui la vita di qualsiasi fantasista era resa particolarmente difficile dalla durezza e dalla qualità della scuola difensiva italiana. Fece bene anche RAMÓN DÍAZ, centravanti opportunista e altruista dell’Inter scudettata nel 1988/89: la sua intesa con l’altra punta Aldo Serena fu l’arma vincente della squadra allenata da Giovanni Trapattoni. La stagione

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Speciale

Argentini in Serie A successiva vide il debutto in Italia con la maglia dell’Udinese di un altro implacabile bomber. ABEL BALBO era il classico “delantero” che faceva reparto da solo: oltre a garantire medie realizzative importanti, giocava per la squadra e si faceva rispettare in area di rigore. Visse gli anni migliori nella Roma, con cui vinse lo Scudetto nel 2000/01, ma fu determinante anche nel successo in Coppa UEFA del Parma nel 1998/99. Per lui un totale di 117 gol in 11 stagioni in Serie A. Proprio in quello stesso periodo potemmo applaudire anche GABRIEL BATISTUTA, forse il più grande cannoniere argentino ad aver mai calcato i nostri palcoscenici. Venne acquistato dalla Fiorentina nel 1991 sulla scia del trionfo centrato con la “Selección” in Coppa America, e fu subito boom. Centravanti di razza, dotato di un destro micidiale e di un infallibile istinto goleador, ripagò l’amore di Firenze con valanghe di reti, oltre a una Coppa Italia e una Supercoppa Italiana, ma si vide sempre sfuggire il sogno Scudetto. Per coronarlo si trasferì alla Roma, di cui fu

l’insostituibile punta di diamante nell’esaltante cavalcata tricolore del 2000/01. L’eco della “mitragliata” con cui “Batigol” celebrava ogni rete ha risuonato sull’Italia per 184 volte, facendo così di lui il miglior realizzatore argentino nella storia della Serie A. A quota 153 centri, e dunque al secondo posto di questa speciale classifica, troviamo HERNÁN CRESPO. Arrivò da noi appena 21enne nell’estate del 1996, acquistato dal Parma dopo aver guidato il River Plate al successo in Coppa Libertadores. Abilità nel gioco aereo, dribbling fantasioso, tiro dalla distanza, imprevedibilità e senso del gol furono solo alcune delle caratteristiche che fecero di Crespo uno dei “delanteros” più completi della sua epoca. Lasciò ottimi ricordi ovunque giocò: a Parma, dove vinse la Coppa UEFA nel 1998/99; alla Lazio, dove fu capocannoniere nel 2000/01 con 26 reti; all’Inter, portata alla conquista di 3 Scudetti; e pure al Milan, con cui a Istanbul, nel 2005, sfiorò il titolo più ambito: la Champions League persa ai rigori contro il Liverpool.

CANNONIERI ARGENTINI in serie a argentini con più minuti in serie a

SQUADRE CON PIU’ ARGENTINI NELLA STORIA

GIOCATORE minuti Zanetti 55.305 Pesaola 35.406 Sensini 32.433 Burdisso 28.443 Batistuta 27.522 Cambiasso 27.028 Silvestre 26.688 Samuel 25.843 Massei 25.110 Flamini 24.300 Crespo 24.263 Angelillo 22.950 Izco 19.939 Gomez 19.879 Palacio 19.537

SQUADRA TOT. GIOCATORI Inter 47 Genoa 40 Roma 36 Lazio 35 Napoli 31 Fiorentina 28 Catania 26 Sampdoria 26 Milan 24 Torino 23 Udinese 23 Atalanta 21 Palermo 18 Juventus 15 Parma 13

* In grassetto giocatori in attività ** Dati aggiornati a settembre 2018

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* Dati aggiornati alla stagione 2018/2019

GIOCATORE GOL Batistuta 183 Crespo 154 Balbo 117 Higuain 113 Icardi 111 Angelillo 97 Maradona 96 Milito 86 Manfredini 81 Cruz 80 Palacio 78 Massei 77 Orsi 76 Denis 73 Montuori 72 Dybala 69 Curti 65 Diaz 64 Pesaola 64 Maschio 62 * In grassetto giocatori in attività ** Dati aggiornati a settembre 2018


“EL PRÍNCIPE” E IL SOGNO CHAMPIONS Uno che invece la Champions League riuscì ad alzarla per davvero fu DIEGO MILITO, “El Príncipe” del Triplete nerazzurro. Nato nel 1979 a Bernal, provincia di Buenos Aires, da una famiglia di lontane origini calabresi, Milito, pur avendo sempre segnato a raffica sia in patria, sia in Spagna con la maglia del Real Saragozza che in Italia con quella del Genoa,

TÉVEZ, ad esempio, fu la stella della Juventus campione d’Italia nel 2013/14 e nel 2014/15, ma alla ciliegina non seppe abbinare la gustosa torta della Coppa Campioni, sfumata nella finale di Berlino contro il Barcellona. C’è poi il caso-HIGUAÍN. Gonzalo è da ormai un decennio ai vertici delle classifiche marcatori, ma gli è sempre mancato il guizzo vincente a livello internazionale, sia al Mondiale che in

Diego Milito, uno dei bomber argentini più letali mai visti in Serie A...

approdò in un top-club solamente nel 2009/10, quando l’Inter di José Mourinho intravide in lui il centravanti ideale per realizzare un’impresa mai riuscita a nessun altro club italiano. Con umiltà, passione e serietà, Diego non deluse e con un’impressionante sequenza di gol a ritmo di rock più ancora che di tango, si lanciò in un viaggio nella gloria che ebbe come tappe-simbolo la finale di Coppa Italia contro la Roma, decisa da una sua prodezza, le 22 perle in campionato, determinanti ai fini della vittoria del 18° Scudetto della storia nerazzurra, e infine la straordinaria doppietta di Madrid contro il Bayern Monaco, che regalò all’Inter quella Champions rincorsa da 45 anni. Dopo di lui, altri specialisti del gol “made in Argentina” sarebbero sbarcati nel Bel Paese. CARLOS

Coppa America con l’Argentina, sia in Champions che in Europa League con le maglie di Real Madrid, Napoli e Juventus. Avendo avuto come compagni d’attacco campioni del calibro di Raúl, Cristiano Ronaldo, Kaká, Lionel Messi, Sergio Agüero e Mario Mandžukić, ciò costituisce un demerito non da poco. Solo il tempo ci dirà dove potrà arrivare MAURO ICARDI. La mediocrità dell’Inter in questi ultimi anni gli ha impedito di competere per i traguardi più prestigiosi, ma se c’è un attaccante che sembra avere il “killer instinct” tipico dei bomber audaci e decisivi, quello è proprio “Maurito”. Dalle sue fiammate dipenderanno i destini nerazzurri e quelli biancocelesti della “Selección”, in un futuro a ritmo di gol, tango y pasión ancora tutto da scrivere.

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SPECIALE

Pallone d’oro di Gianfranco Giordano

IL TROFEO DEI SINGOLI Scopriamo tutto sul Pallone d’Oro, il sogno di ogni calciatore…

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I

l Pallone d’Oro è da sempre uno dei premi individuali più prestigiosi e più controversi del mondo del calcio, ogni anno alla pubblicazione della lista dei nominati e poi alla dichiarazione del vincitore si susseguono polemiche senza fine. Forse il fascino di questo trofeo è proprio l’opinabilità con cui viene assegnato, il voto di giornalisti (in origine uno per nazione) è spesso influenzato dal campanilismo piuttosto che dall’appeal di un giocatore o di una squadra che, consciamente o meno, attrae il voto dei giurati. Il premio venne istituito dalla rivista France Football nel 1956, su impulso di quattro giornalisti Gabriel Hanot, Jacques Ferran, Jacques Goddet e Jacques de Ryswick, l’obiettivo era eleggere il miglior giocatore europeo della stagione attraverso i voti di una giuria di giornalisti specializzati. Altro obiettivo era quello di dare lustro e credibilità alla rivista France Football, in un momento in cui la carta stampata viveva un periodo di grande espansione e concorrenza. Gabriel Hanot in gioventù era stato un buon calciatore collezionando anche 12 presenze con la Nazionale francese, finita la carriera di calciatore divenne contemporaneamente commissario tecnico della Nazionale e giornalista per L’Equipe e France Football, nel 1949 lasciò la Nazionale per dedicarsi completamente al giornalismo. Hanot fu l’ideatore della Coppa dei Campioni e, sull’onda del successo della coppa, ideò anche il Pallo-

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SPECIALE

Pallone d’oro ne d’Oro. Nel 1991 viene istituito il FIFA World Player of the Year, premio istituito direttamente dalla FIFA per premiare il migliore giocatore del mondo, a votare erano i commissari tecnici e i capitani delle Nazionali di calcio. Dal 1995 il Pallone d’Oro si aprì ai giocatori di tutto il mondo, purché militanti in club europei, dal 2007 premia il miglior giocatore del mondo. Nel 2010 i due premi si fusero per eliminare la concorrenza mediatica, dando vita al Pallone d’Oro FIFA, organizzato congiuntamente da France Football e dalla FIFA, unendo le due giurie di giornalisti, allenatori e capitani. Il matrimonio durò poco e nel 2016 France Football e la FIFA chiusero la collaborazione, France Football ripristinò il Pallone d’Oro originario mentre la FIFA istituì il The Best FIFA Men’s Player. Al momento dell’istituzione del trofeo venne stilato un regolamento in dieci punti, che stabiliva in modo preciso come arrivare alla designazione del vincitore, in particolare l’articolo 9 cita i criteri che devono essere presi in considerazione per ogni giocatore, ovvero: l’insieme delle prestazioni individuali e di squadra durante l’anno preso in considerazione; il valore del giocatore (talento e fair play); la carriera; la personalità e il carisma. Il premio è realizzato dalla Maison Mellerio detta Meller attiva a Parigi dal 1613, è una delle gioiellerie più importanti del mondo, fornitrice di case reali e ha realizzato anche la Coupe des Mousquetaires, il trofeo che viene assegnato al vincitore del RolandGarros. Il trofeo originario venne consegnato fino all’edizione 1982, si trattava di un pallone stile anni ‘50 di piccole dimensioni posto su un basamento di legno, dal 1983 il trofeo divenne più importante composto da un pallone a esagoni di dimensioni più grandi e posto su un basamento a forma di roccia. Una piccola maledizione colpisce i detentori del Pallone d’Oro, nessuno di loro è mai riuscito a vincere la Coppa del Mondo, al massimo alcuni sono arrivati in finale. Fin dalle prime edizioni il premio assunse molta importanza e attenzio-

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Kakà, l’ultimo Pallone d’Oro vinto da un giocatore del calcio italiano

ne per giocatori e tifosi, sollevando in egual misura consensi e critiche. Se da un lato tanti campioni sono stati premiati, d’altra parte molti altri sono stati ignorati, spesso si è preferito premiare giocatori che avevano vinto un torneo importante a discapito di altri che, pur essendo più bravi, non avevano vinto niente in stagione. Molto importante anche il ruolo, attaccanti e centrocampisti hanno di fatto lottizzato il premio, i giocatori che segnano godono delle simpatie dei tifosi più degli altri giocatori sul campo, da bambini tutti abbiamo sognato di realizzare valanghe di reti e da adulti applaudiamo ancora quelli che sembra risolvano le partite da soli. Ovviamente è solo una percezione dei tifosi, si scende in campo in undici e si vince in undici però quando i giurati votano per il miglior giocatore alla fine votano un attaccante, questo spiega perché i difensori hanno vinto poco mentre i portieri sono quasi assenti dall’albo d’oro del trofeo. Poco influente invece l’età, anche se solitamente il premio va a giocatori nel pieno della loro carriera, non sono mancati giovani e anziani insigniti del trofeo. Se in alcune edizioni il vincitore ha prevalso con un largo margine sui rivali, in due occasioni un solo punto ha separato il primo dal secondo. Bobby Charlton vinse con 81 punti davanti a Eusebio, già vincitore l’anno precedente, sicuramente aver alzato la Coppa Rimet ha fatto pende-


Giocatori con almeno 2 Palloni d’Oro vinti Giocatore Lionel Messi

Cristiano Ronaldo

Palloni d’oro vinti 5

(2009, 2010, 2011, 2012, 2015)

5

(2008, 2013, 2014, 2016, 2017)

Michel Platini

Johan Cruyff

Marco van Basten

3

(1983, 1984, 1985)

3

(1971, 1973, 1974)

3

(1988, 1989, 1992)

Franz Beckenbauer 2

(1972, 1976)

Ronaldo 2

Alfredo Di Stéfano

Kevin Keegan

Karl-Heinz Rummenigge

(1997, 2002)

2

(1957, 1959)

2

(1978, 1979)

2

(1980, 1981)

re la bilancia dalla parte del centravanti del Manchester United. Trentanni dopo Sammer superò Ronaldo per 144 a 143, il Fenomeno si rifece l’anno seguente. Il primo trofeo è stato assegnato nel 1956 a Stanley Matthews, al tempo non ancora sir, la notizia è stata data sul numero 561 di France Football del 18 dicembre 1956. Matthews è il giocatore più vecchio ad aver ricevuto il premio, 41 anni, e anche il vincitore con minor argenteria in vetrina, in carriera ha vinto solo una FA Cup con il Blackpool. Si può parlare, in questo caso, di un premio alla carriera più che un riconoscimento per la stagione appena conclusa. Le prime edizioni del Pallone d’Oro registrarono un’egemonia di giocatori militanti nel Real Madrid, vincitore delle prime cinque edizioni della Coppa dei Campioni, nel 1956 dietro a Matthews si classificarono Di Stefano e Kopa che vinsero poi le tre edizioni successive. Nel 1960 vinse Luis Suarez del Barcellona che fu l’ultimo giocatore spa-

gnolo a vincere il titolo, nonostante i numerosi trofei arrivati successivamente nel paese iberico. Nel 1961 venne la volta di Omar Sivori, nato in Argentina ma oriundo e militante nella Nazionale azzurra, quindi a tutti gli effetti è il primo Pallone d’Oro italiano. Nel 1962 tocca a Josef Masopust del Dukla Praga, primo giocatore dell’Europa dell’Est a vincere il trofeo. L’anno successivo il trofeo viene assegnato a mitico Lev Jascin, portiere della Dinamo Mosca e dell’Unione Sovietica. Dopo il Ragno Nero solo sei podi per i portieri e nessuna vittoria, anche se i grandi portieri non sono mancati negli anni, basti pensare a Banks, Maier, Zoff, Pfaff, Buffon, e Neuer solo per citarne alcuni. Per tutta la decade dei 60 il premio viene assegnato a un giocatore diverso ogni anno, una sfilza di campioni incredibili: Dennis Law, Eusébio, Bobby Charlton, Flórián Albert, George Best e Gianni Rivera. Gli anni 70 segnano un netto dominio del nord Europa, prima tedeschi e olandesi con Gerd Müller, Johan Cruyff e Franz Beckenbauer (nel 1972 la Germania campione d’Europa monopolizza il podio con Franz Beckenbauer, Gerd Müller e Günter Netzer, tra l’altro mai i tre sul podio sono stati così vicini con rispettivamente 81 punti il vincitore e 79 gli altri due), poi il danese Simonsen e l’inglese Keegan, in mezzo a loro unico intruso geograficamente parlando il sovietico Oleg Blochin. Gli anni 80 cominciano con due vittorie di Karl-Heinz

Messi e Cristiano Ronaldo, il loro regno dura da anni

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SPECIALE

Pallone d’oro

Il Pallone d’Oro 1988, ossia Gullit del grande Milan - Credit foto: Liverani

Rummenigge, in queste due edizioni per i giocatori tedeschi è un dominio, cinque posti sul podio su sei a disposizione. A seguire la premiazione molto discutibile di Paolo Rossi, nulla da dire sulle qualità tecniche e stilistiche del centravanti toscano, ma in quella stagione era reduce dalla squalifica per il primo calcio scommesse e aveva giocato pochissimo. Molto probabilmente i votanti erano stati ammaliati dalle sei reti segnate nelle ultime tre partite del mondiale di Spagna. A metà decennio arrivano i tre titoli di Michel Platini, i trofei vinti con la Nazionale transalpina e con la Juventus consentono a Le Roi di diventare il miglior calciatore europeo. Nel 1986 il premio va a Igor Belanov, forse è l’assegnazione che desta più perplessità. Attaccante talentuoso della Dinamo Kiev e della Nazionale sovietica,

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in quell’anno si mise in evidenza vincendo la Coppa delle Coppe con il suo club e segnando una tripletta negli ottavi di finale del mondiale, più un altro gol nel girone, oggettivamente un po’ poco per giustificare il premio. A chiudere il decennio tre anni in cui la fanno da padrone gli Olandesi e il Milan. Nel 1987 vittoria per Ruud Gullit, nel 1988 i tre milanisti Marco Van Basten, Ruud Gullit e Frank Rijkaard occupano il podio, l’anno seguente ancora tre rossoneri con Franco Baresi al posto di Ruud Gullit. Il decennio dei 90 ripropone un vincitore diverso per ogni edizione, si alternano autentici mostri sacri a vere sorprese. Dopo Lothar Matthäus, campione del mondo con la Germania, arriva Jean-Pierre Papin, gli organizzatori non vedevano l’ora di premiare un francese, poi ancora Marco Van Basten e


Roberto Baggio. Nel 1994, anno del mondiale negli Stati Uniti, la spunta a sorpresa Hristo Stoičkov ma probabilmente Baggio e Maldini, classificati dietro il bulgaro avrebbero meritato la vittoria, l’anno seguente il premio viene aperto a tutti i giocatori che calcano i campi europei e vince George Weah, unico calciatore africano a vincere il trofeo. Nel 1996 tocca a Matthias Sammer fresco campione europeo con la Germania. Sia chiaro che Sammer era un ottimo giocatore, premiato nel 1996 come miglior giocatore tedesco e vincitore della Bundesliga con il Borussia Dortmund, ma la sua premiazione ha sollevato molte perplessità. Nel 1997 i giurati mettono a tacere ogni polemica premiando Ronaldo, il Fenomeno è il giocatore più giovane ad aver vinto il premio, 21 anni, dopo essere arrivato secondo la

stagione precedente. Zinédine Zidane e Rivaldo chiudono il decennio. Il nuovo millennio si apre con Luis Figo a cui segue Michael Owen, il talentuoso attaccante inglese si aggiudicò il trofeo nel 2001, anno in cui vinse cinque trofei con il Liverpool ma nonostante tutte queste vittorie la sua viene considerata una delle vittorie più controverse. Ronaldo, Pavel Nedvěd, Andrij Ševčenko, Ronaldinho, Fabio Cannavaro (probabilmente più un premio alla squadra che aveva vinto il mondiale, di cui Fabio era il capitano, che al giocatore) e Kaká nel 2007 chiudono l’era dell’incertezza che precedeva l’assegnazione del titolo. Dal 2008 fino all’edizione dello scorso anno si sono alternati Lionel Messi e Cristiano Ronaldo, agli altri solo briciole anche quando, nel 2010 a seguito della vittoria della Spagna nella Coppa del Mondo, forse sarebbe stato più giusto assegnare il trofeo ad un altro giocatore, in questo caso ad Andrés Iniesta. Ormai siamo vicini alla prossima premiazione e forse riusciremo ad uscire da questa diarchia, complice un mondiale in cui Ronaldo e soprattutto Messi non hanno brillato molto, ormai è giunto il momento di avere un nuovo re. Tanti giocatori più o meno giovani sono pronti a scalzare i due dittatori del calcio, Luka Modric e Kylian Mbappé sarebbero sicuramente degni di alzare il trofeo, senza dimenticare Heden Hazard, ma il mio voto va ad Antoine Griezmann vincitore di Coppa del Mondo ed Europa League. Ci sono stati nel corso degli anni tanti calciatori che si sono distinti per doti tecniche eccezionali e che hanno vinto molto, eppure non hanno mai vinto il Pallone d’Oro o addirittura non sono mai arrivati tra i primi. Il caso forse più clamoroso è quello di Paul Scholes che non ha preso neanche un voto dai giurati, tutte le volte in cui è stato inserito nella lista dei canditati. Tra i non vincenti i nomi che saltano alla mente, oltre a Scholes, sono sicuramente Franco Baresi, Paolo Maldini, Ryan Giggs e Raul, senza dimenticare i portieri per i quali sembra che … la porta sia chiusa.

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A

V I S U L C S E A INTEVIST Francesco Caputo di Sergio Stanco

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Un bomber di Serie A Intervista a Francesco Caputo, uno dei principali artefici della promozione in A dell’Empoli: il bomber pugliese, però, non ha nessuna intenzione di fermarsi a festeggiare…

L

a Serie A vissuta da protagonista: questo l’obiettivo che avresti presi era messo in testa Francesco Caputo dopo la fugaferito “arrice esperienza nella massima serie con il “suo” Bari vare” prima? qualche anno fa. Con la maglia biancorossa addosso “Ho fatto il perla A, se l’era prima conquistata già nel 2009, senza però gocorso che dovevo dersela, e poi l’aveva ritrovata nel 2010, ma solo per pochi fare. Sono partito mesi. Da allora gli era stata cucita addosso l’etichetta di dal basso e col lavobomber di categoria (la B), che a Ciccio stava tremenro e il sacrificio sono damente scomoda. Da qui la decisione di andare ad riuscito ad arrivare. Ho Empoli, diventare fondamentale per la promozione conosciuto tante persoe festeggiarla alla grande (magari con una delle ne negli anni che mi hanno birre prodotte nel birrificio pugliese di cui è socio insegnato molto e sono crecon alcuni amici). Il tempo dei festeggiamenti, sciuto con il passare del temperò, è un ricordo, ora Caputo vuole veramenpo. Adesso, dopo tanto tempo te dimostrare a tutti di poterci stare in A, ma ad inseguire il ritorno in A, me la anche che è riduttivo considerare il suo voglio giocare alla grande e, anEmpoli una semplice “sorpresa”. Il sogno che se so che non sarà facile, darò il – ovviamente - è quello di festeggiare massimo e voglio viverla da protagonuovamente a maggio. nista con l’Empoli”. Francesco, tu a differenza di altri Un barese che veste la maglia del Bari: colleghi hai fatto davvero tutta la che effetto ti ha fatto? Che ricordi hai gavetta, dai dilettanti alla Serie dell’esordio? A: è una cosa che ti ha aiutato o “Bari è stata la mia prima vera squadra, dopo

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LUSIVA

ESC INTERVISTA Francesco Caputo

Altamura e Noicattaro. Parliamo di una squadra e di una città alla quale devo molto e che sento vicina. L’esordio? Ad Ascoli in Coppa Italia, entrai nel finale ma non riuscimmo a portare a casa il risultato. Se parliamo di ricordi indimenticabili, penso sicuramente alla tripletta contro il Grosseto, la mia prima nel campionato cadetto e tutti gli altri gol che contribuirono alla vittoria del mio primo campionato in biancorosso”. Andavi a vedere il Bari allo stadio? La prima o la partita che più ha segnato la tua adolescenza da tifoso? “Sì capitava di andare allo stadio da ragazzino a vedere la squadra. Se devo dire una gara in particolare cito Bari-Cremonese, la mia prima partita vista da bambino quando andai allo stadio con mio zio”. Il tuo idolo da ragazzino? “Stimavo Del Piero per la sua professionalità, il suo modo di fare e l’attaccamento alla maglia che ha sempre dimostrato”. Che cosa ha rappresentato per te, invece, un allenatore come Antonio Conte? “Conte è stato importantissimo per la mia carriera. L’ho avuto prima a Bari e poi a Siena: è un allenatore eccezionale, un gran lavoratore, che pretende sempre grande impegno da parte di tutti. Credo sia stato fondamentale per la mia crescita, per quello che mi ha dato a livello calcistico ma anche sotto il punto di vista umano”. Ti ha sorpreso la carriera che ha fatto e qual è il suo principale pregio? “Non mi ha sorpreso perché si vedeva che aveva voglia di arrivare. Come ho detto è un gran lavoratore, uno che si dà al 100% per raggiungere l’obiettivo. Ha fatto bene nei club e altrettanto in nazionale, perché riesce davvero a tirare fuori il meglio da ogni calciatore”. Mister Andreazzoli sembra un altro martello: è effettivamente così?

“Sono due tecnici diversi, con Andreazzoli che è più pacato, ma allo stesso tempo diretto. È un gran lavoratore sul campo, lo era in B e adesso ancor di più in A”. In cosa l’anno scorso Mister Andreazzoli è riuscito a migliorare una squadra che comunque non era partita male, ma che dopo il suo arrivo ha cominciato a volare? “La sua nomina l’anno scorso arrivò quasi come un fulmine a ciel sereno. Ma il suo approccio fu altrettanto positivo: ha portato serenità nel gruppo e la mentalità vincente, riuscendo ad entrarci subito in testa con concetti chiari e netti ed esaltando le caratteristiche di ognuno di noi con un calcio divertente”. Qual è stato il “segreto” della cavalcata dello scorso anno? “Non credo che esista un segreto particolare, quanto una serie di elementi positivi. Eravamo una squadra forte che è riuscita ad esprimersi al meglio. Dopo la sosta abbiamo vinto 4-0 a Bari, con il Palermo e poi con il Parma. E in quel periodo abbiamo davvero capito che potevamo battere chiunque e arrivare fino alla Serie A”. 100 gol in B un traguardo non da tutti: quale ricordi come il più significativo, emozionante? “Un bel traguardo, che sono stato felice di aver raggiunto con la maglia dell’Empoli. I gol sono tutti belli e ad ognuno sono particolarmente affezionato. Quelli che ricordo con maggior piacere sono quelli che hanno portato vittorie importanti. Se penso a quelli fatti con la maglia dell’Empoli, dico il 3-3 con il Frosinone nel recupero, che completò una rimonta incredibile. Se poi devo sceglierne uno fra tutti, il primo in carriera non si dimentica mai”. Più orgoglioso del titolo di capocannoniere o di essere riuscito a tornare in Serie A da protagonista? “Vincere la classifica cannonieri fa piacere, ma conquistare la Serie A ancora di più. L’anno scorso giocavo in una grande squadra e il me-

“Dopo la sosta dello scorso anno abbiamo capito che potevamo battere chiunque ”

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Caputo è alla sua seconda stagione all’Empoli, la prima in Serie A

rito dei 26 gol è davvero di tutti perché la palla buona arrivava sempre da ogni parte. Far gol per un attaccante è sempre il massimo ma a me interessa giocare per la squadra e vincere coi compagni”. Quest’anno in A i bomber non mancano: qual è il tuo preferito e chi vincerà la classifica capocannonieri? “In Serie A ci sono tanti attaccanti forti e sarà una bella lotta. Penso a Ronaldo, per il quale non credo servono parole, Icardi, un attaccante completo che ogni stagione fa tantissimi gol; ma non solo: ci sono anche Dzeko, Dybala, e tanti giovani che stanno crescendo bene”. Come hai ritrovato la Serie A rispetto a quella che avevi assaggiato qualche anno fa? “Era da otto stagioni che speravo di tornare a segnare in Serie A… A parte le battute, la A è da sempre un campionato tosto, dove non ti puoi permettere di sbagliare, nessuno davvero regala niente e nel quale sono decisivi i dettagli. Noi, però, dobbiamo giocarcela con la nostra mentalità, con rispetto ma senza paura, proseguendo per la nostra strada, con la convinzione che i risultati arriveranno”. Qual è il prossimo obiettivo personale che ti sei posto? “Non c’è un obiettivo preciso. Sono felice per i gol fatti, ma non lo sono per la classifica attua-

le. Meritavamo di più per quello che abbiamo fatto e tante partite potevano finire diversamente. L’obiettivo primario è la salvezza dell’Empoli e darò tutto me stesso per raggiungerla. Se questa arriva grazie anche ai miei gol ancora meglio…”. Quanto ti dava fastidio essere considerato un attaccante di categoria e quant’è la voglia di togliertela di dosso quest’anno? “Non mi ha mai dato fastidio ma mi spingeva a fare di più. Ho sempre sognato di tornare in A e sapevo che per farlo dovevo solo lavorare e far bene. Non cerco assolutamente rivincite, ma se le cose andassero bene, diciamo che qualche sassolino dalla scarpa potrei anche togliermelo”. In cosa dovrete essere perfetti per raggiungere il vostro obiettivo? “Nella cura dei dettagli. La Serie A non concede il minimo errore, ogni partita è difficilissima e non ci sono gare da poter prendere alla leggera. E inoltre non dovremo perdere le nostre convinzioni e il nostro modo di giocare che – come dicevo prima - alla lunga porteranno risultati”. C’è un sogno che vorresti ancora realizzare da calciatore? “Penso a far bene giorno dopo giorno, allenarmi bene in settimana e poi giocare bene la gara la domenica. Adesso la testa è alla prossima gara e più in generale alla salvezza dell’Empoli. Ho un sogno preciso, ma per il momento me lo tengo per me (sorride, ndr)”. Come ti immagini da qui a dieci anni: ancora su un campo da calcio (e in che vesti?) o nel tuo birrificio a fare l’imprenditore? “Sinceramente non saprei. Penso al presente, a far bene con la maglia dell’Empoli, ad allenarmi al meglio e alla gara della domenica. Dove sarò tra dieci anni ancora non riesco davvero ad immaginarmelo”. Carpe Diem, insomma: dopo tanta fatica per riconquistarla, difendere la A con le unghie e con i denti è l’unica missione di bomber Caputo. Poi ci sarà tempo per togliersi qualche sassolino dalla scarpa e pensare al sogno successivo…

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IO C L A C I D E I STOR I bomber della Liga di Thomas Saccani

I BOMBER DELLA LIGA Messi il Re assoluto ma quanti super attaccanti in terra iberica…

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omplice l’addio di Cristiano Ronaldo, accasatosi alla Juventus, Messi è destinato ad entrare ancor più nella leggenda del calcio spagnolo. La Pulce, dati aggiornati al termine della scorsa stagione, è già il recordman assoluto nella classifica dei marcatori di sempre della Liga. Al Barcellona dal 2004, l’argentino, vincitore di cinque Palloni d’Oro, ha segnato 387 reti in 422 presenze nella Primera Division. Numeri spaziali che lo rendono un alieno tra i mortali. Messi e Cristiano Ronaldo, rispettivamente primo e secondo nella gra-

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storie di calcio I bomber della Liga

duatoria All-Time dei marcatori della Liga, sono tantissimi i bomber che hanno fatto la storia del calcio spagnolo. Andiamo a fare la conoscenza dei più noti e di qualche nome curioso…

Telmo Zarra Telmo Zarraonaindía Montoya, noto a tutti come Telmo Zarra, è una vera e propria leggenda del calcio spagnolo. A Bilbao è ricordato come una sorta di divinità. Ben 15 anni ha trascorso all’Athletic Club, diventando, con 251 gol in 278 presenze con la casacca dei Leones, il giocatore più prolifico nella storia del club (oltre che lo spagnolo che ha firmato più reti nella Liga). Settimo di ben 10 fratelli, ha iniziato a giocare a calcio contro il volere del padre che, di professione, faceva il capo stazione. Nella stagione 1939/40, fa il suo esordio nella Segunda Division con l’Erandio Club. Il talento non gli manca. La dirigenza dell’Athletic Club, alla disperata ricerca di nuovi giocatori, punta su di lui. In realtà, il Barakaldo C.F. l’aveva in pugno ma, grazie all’intervento di uno dei suoi fratelli, firma per i Leones. Inizia una splendida storia d’amore. Che sia un bomber nato, lo si capisce immediatamente. Segna al suo esordio (29 settembre 1940), contro il Valencia. Lascia, temporaneamente, il club per arruolarsi con l’esercito. Torna e perde una finale col Barcellona (sbagliando un gol clamoroso nell’extra time) ma ha il fiuto del grande attaccante. Nel 1942/43 fa la storia dell’Athletic, vincendo il campionato di Primera Division e la Copa del Generalisimo. Ormai è la stella dei Leones. Conquista il Trofeo Pichichi in sei occasioni (1945, 1946, 1947, 1950, 1951 e 1953). Nel 1951, segna ben 38 reti in campionato (un record che resiste fino al 2011). Una curiosità: dal 2006, Marca, uno dei media spagnoli più famosi e prestigiosi, ha istituito il Trofeo Zarra, premio dedicato al massimo goleador, di nazionalità spagnola, di Primera e Sugunda Division…

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Hugo Sanchez Un mito blanco. Hugo Sanchez Marquez è stato, secondo tanti addetti ai lavori, l’attaccante più acrobatico visto con la casacca del Real Madrid. Negli anni ’80, era uno degli assi che componevano la famosa Quinta del Buitre. Nativo di Città del Messico, ha segnato ben 556 gol in 883 partite disputate nella sua lunghissima carriera. La sua avventura nella Primera Division inizia nel 1981, quando accetta le lusinghe dell’Atletico Madrid. La sua consacrazione arriva nella stagione 1984/85, quando, con i colchoneros, vince sia il Trofeo Pichichi, come miglior cannoniere della stagione (19 gol), sia la Copa del Rey. Nell’estate del 1985, tra mille polemiche, passa al Real Madrid. Una decisione che si rivela corretta. Segna gol a raffica, conquistando il Trofeo Pichichi in ben quattro occasioni (1985/86, 1986/87, 1987/88 e 1989/90). Al termine della

Anche il grande Di Stefano è tra i goleador più prolifici della Primera Division


GLI ALTRI SUPER BOMBER La lista sarebbe ancora lunghissima. Come non citare l’immenso e celebratissimo Di Stefano, cinque volte vincitore del Trofeo Pichichi e con ben 227 reti complessive in Primera Division. Ne ha vinti cinque, di titoli di capocannoniere, anche Quini, splendido bomber dello Sporting Gijon e del Barcellona. Negli anni ’40 imperversava anche un certo César Rodríguez Álvarez, noto semplicemente come Cesar, capace di mettere a referto 221 reti in 353 gare totali (190 delle quali con la casacca del Barcellona). Nella classifica All-Time sono presenti anche tanti campioni del recente passato come David Villa (186 reti), Samuel Eto’o (162) e Aritz Aduriz, quest’ultimo ancora in azione con la casacca dell’Athletic Bilbao. Attenzione anche a Benzema che, complice la partenza di Cristiano Ronaldo, potrebbe scalare diverse posizioni. Chiaramente tutti sono a servizio di sua maestà Messi. Il suo nome appare innumerevoli volte nel libro dei record del calcio spagnolo e, come detto, il tassametro continua a correre…

fantastica annata 1989/90, conquista anche la Scarpa d’Oro. Le sue doti acrobatiche diventano note in tutto il mondo. In particolare, è un fuoriclasse nell’arte della rovesciata. Recentemente si è fatto sentire proprio per difendere il suo “titolo” di migliore nella “bicicletta”. E’ accaduto quando un certo Cristiano Ronaldo ha messo a segno la meravigliosa Chilena contro la Juventus, in Champions League. Hugo Sanchez ha ricordato a tutti la sua magica rovesciata contro il Logrones nel 1988, spiegando quanto segue: “Il cross di Martin Vazquez fu molto più alto e questo mi ha costretto a spingere più in alto e realizzare una bicicletta molto alta. Quella di CR7 non era molto alta ma è stata bellissima a livello estetico”, le sue parole al programma Futbol Picante.

Raul Gonzalez Blanco Impossibile non citare Raul Gonzalez Blanco tra i più grandi bomber del calcio iberico. Figlio di un’elettricista e di una casalinga, Raul è cresciuto nella periferia sud di Madrid. Il padre Pedro, grande tifoso dell’Atletico Madrid, lo “invita” a giocarsi le sue carte nelle giovanili del colchoneros. Raul va alla grande, “marcando” con una continuità disarmante. Siamo nel 1992. Raul ha solo 15 anni. Jesus Gil, l’allora presidente dell’Atletico Madrid, è alle prese con una grossa crisi finanziaria. Deve ridimensionare gli investimenti, soprattutto sulle giovanili. Raul finisce così a vestire la casacca del Real Madrid. Solo due anni più tardi, grazie al tecnico, altro ex del Real Madrid, Valdano, fa il suo esordio con i blancos (a soli 17 anni e 124 giorni). Il destino vuole che segni il suo primo gol ufficiale proprio contro l’Atletico Madrid. Diventa un cannoniere eccezionale. Nei suoi 16 anni al Real Madrid, va in doppia cifra di gol in 14 stagioni (solo nel 2005/06 e nel 2009/10, sua ultima annata a Madrid, non segna almeno 10 gol). Impressionante il suo rendimento nel campionato 2000/01, il primo dell’era dei Galacticos. Mette a referto la bellezza di 32 reti, di cui 24 in campionato (fa scintille al fianco di Figo). Vince così il suo secondo titolo di capocannoniere della Liga (ci era già riuscito nel 1998/99), regalando emozioni uniche al suo adorante pubblico. Tanti i record che appartengono a Raul. Insieme a Hugo Sanchez, è il giocatore che ha segnato, in più occasioni, la prima rete di una gara della Liga (ben 77) e, subito dopo Messi, è il bomber che ha infilzato più squadre (35 per Raul, 37 per la Pulce). Inoltre, è il giocatore con più presenze nella Liga in tutta la storia del Real Madrid (550 gettoni totali). Solo Cristiano Ronaldo ha segnato più reti, in Primera Division, con la casacca dei blancos (311 il portoghese, 228 lo spagnolo)…

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storie di calcio I bomber della Liga

BATA & KUBALA Agustín Sauto Arana, detto Bata, e László Kubala Stecz sono due nomi che fanno parte del libro dei record della Primera Division. Il primo è stato uno degli attaccanti più prolifici degli anni ’30. Ha indossato le maglie di Barakaldo (sua città natale) e Athletic Bilbao. Il suo soprannome (Bata) deriva dalla tuta (bata in lingua spagnola) che la madre gli faceva indossare per non macchiare i suoi vestiti migliori. Oltre a vincere quattro titoli della Liga e altrettante Copa del Rey, ha alzato, per due volte, il Trofeo Pichichi (1930/31 e 1931/32). Il suo nome è legato, indissolubilmente, a quanto avvenuto il 18 febbraio 1931. In quella data, il suo Athletic Club rifila un pesantissimo 12-1 al Barcellona. In quella gara segna ben sette reti, il primo a “marcare” così tanti gol in una singola gara. Un vero e proprio record (tante discordanze sulle fonti, alcune raccontano di un Bata capace di segnarne ben otto). A distanza di ben 21 anni, László Kubala Stecz, nativo di Budapest, in Ungheria, riesce nell’impresa di eguagliare Bata. Stella del Barcellona grazie al lavoro dell’allora “uomo mercato” blaugrana Josep Samitier, fa il suo esordio nel torneo spagnolo nel 1951 (colpa di un divieto internazionale). Nella sua prima stagione con il Barça, segna 19 gol in 26 gare. Sette di queste arrivano nella partita del 10 febbraio 1952: Barcellona-Sporting Gijon 9-0. I due sono, ad oggi, gli unici ad aver siglato sette gol in un solo match…

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Raul, uno dei bomber più straordinari del Real Madrid

Julio Salinas I tifosi della Sampdoria lo ricordano bene. Suo il gol che ha aperto la strada al Barcellona nella finale di Coppa delle Coppe del 1989 (2-0 per i blaugrana). Di origine basche, Salinas è stato, per quasi 20 anni, uno degli striker più apprezzati di Spagna. Nella sua lunga carriera, ha lasciato il segno con club di primissimo livello come Atletico Madrid e, soprattutto, Barcellona (dove gioca per sei stagioni). E’ tra i primi 20 cannonieri della storia della Liga con 152 reti complessive. In blaugrana, fa parte del famoso Dream Team, la super squadra allenata da Cruiff che ha emozionato l’intero panorama calcistico europeo. La sua annata da ricordare è quella in cui il Barcellona vince la Coppa delle Coppe contro i blucerchiati. Segna la bellezza di 20 gol stagionali, il suo record personale. Spesso parte dalla panchina ma, quando entra in campo, è spesso letale. La sua bacheca è ricca di trofei. Ne ha vinti ben 15 con le casacche di Athletic Club Bilbao, Barcellona e Deportivo La Coruna. Salinas è noto per la sua grande capacità di farsi trovare pronto al momento giusto. Innamorato del calcio ma non solo. Nel 1993, decide di darsi anche alla televisione. Partecipa al noto programma televisivo spagnolo Fantàstic. Peccato che l’allora allenatore del Barça Cruijff non apprezzi più di tanto la sua “vena artistica”.


TRIPLETTE e DOPPIETTE A livello di triplette, sempre con dati cristallizzati alla scorsa stagione, è ancora Cristiano Ronaldo quello che ne ha messe a segno di più (34). Alle sue spalle Messi, a quota 30 (ma il tassametro corre). Seguono Telmo Zarra (23), Alfredo Di Stefano (22) e Mundo, ex attaccante del Valencia, a quota 19.

Lo “invita” a lasciare immediatamente la TV, pena l’esclusione dalla squadra. Ovviamente Salinas sceglie il calcio. Non a caso, quando smette di dedicarsi al pallone, si dedica anima e corpo alla sua passione televisiva. Attualmente è un apprezzato opinionista e commentatore TV. Curiosità: non ha mai vinto il Trofeo Pichichi, se non quello di Segunda Division (1984). Altra curiosità: il fratello Patxi Salinas, di un anno più giovane, è stato anch’egli un giocatore professionista della Liga.

Isidro Langara Un monumento del calcio spagnolo. A Oviedo, il suo nome è enormemente rispettato. Nato a Pasajes Ancho, nei pressi di San Sebastian, fa il suo debutto nella Primera Division nel 1933, proprio con la casacca del Real Oviedo. Nei primi tre anni, vince, per tre volte, il Trofeo Pichichi. Ha una media gol impressionante: 27 nel 1933/34, 26 l’anno successivo, 28 nell’annata 1935/36. A conti fatti, il suo score, nei primi tre anni in Primera Division, è decisamente mostruoso: 81 gol in 61 gare ufficiali. Davanti alla porta, è un cecchino. La sua abilità nel trovare la rete con grande facilità, gli permette di stabilire diversi record. Uno resiste tutt’ora. E’, ancora oggi, il bomber che ha raggiunto quota 100 gol nella Liga nel minor tempo possibile (82 gare). Ma non finisce qui. E’ l’unico che è riuscito a segnare tre triplette consecutivamente. Nella stagione 1934/35, tra la 9° e l’11° giornata, riesce, infatti, nell’impresa di segnare tre reti, rispettivamente, all’Atletico Madrid, al

Valencia e all’Espanyol. La sua splendida carriera viene “rovinata” dalla Guerra Civil. Tutto cambia, anche il suo approccio al calcio. C’è altro a cui pensare. Se ne va in Messico e in Argentina dove continua a fare ciò che gli riesce meglio, ossia segnare gol a raffica. Per rivederlo con la casacca del Real Oviedo bisogna attendere la stagione 1946/47. Nonostante sia ormai 34enne, dimostra di non aver perso il feeling con la rete: ne segna 18 in 20 gare. L’anno seguente gioca solo nove partite (con cinque marcature), prima di appendere gli scarpini al chiodo. In tanti sono certi che, se non fosse stato costretto a lasciare la Spagna per lo scoppio della guerra, sarebbe stato uno dei più grandi attaccanti mai visti in azione. Al pari di gente del calibro di Di Stefano e Romario, ha vinto il titolo di capocannoniere in tre campionati differenti: Spagna, Argentina, con il San Lorenzo, e Messico. E’ il bomber con la media gol più alta della storia della Liga: 1,16 reti a gara (CR7, secondo, si è fermato a 1,05).

Tra i giocatori in attività, solo Messi ha più gol di Aduriz nella LIga

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SPECIALE

Gol fantasma di Davide Orlando

MA È GOL O NO?

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Ripercorriamo alcuni dei gol fantasma più famosi della storia del calcio…

C’

ra una volta il gol fantasma: potremmo intitolarlo così questo viaggio nella storia del calcio attraverso gli episodi più discussi e controversi accaduti negli anni con un unico protagonista: il gol no-gol. Di cosa parliamo? Il gol fantasma, riconosciuto anche come “gol no-gol”, si verifica quando l’arbitro non è in grado di determinare se il pallone ha varcato la linea di porta, causando sviste clamorose e molto spesso determinanti sul risultato finale e sulle sorti del campionato (e causa di conseguenti accese polemiche). Discussioni continue, giudizi pesanti, critiche asfissianti che il sistema arbitrale ha subìto per anni e che ha portato i vertici del calcio italiano a introdurre finalmente la tecnologia negli stadi italiani della massima serie dalla stagione 2015/2016. La Gol Line Technology, in particolare, è un sistema tecnologicamente avanzato utilizzato dagli arbitri per verificare la validità di un gol. Il suo funzionamento è basato sulla connessione di chip, sensori e telecamere di porta in grado di trasmettere all’arbitro il segnale di gol

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SPECIALE

Gol fantasma

I GOL FANTASMA INTERNAZIONALI

Quali sono i gol fantasma internazionali più clamorosi di sempre? Mondiali 1966: Inghilterra – Germania, il mistero del gol di Geoff Hurst Il Times l’ha classificato al primo posto tra i gol che hanno cambiato la storia del calcio mondiale ed effettivamente è considerato, tutt’oggi, il gol fantasma più famoso. Il protagonista è Sir Geoff Hurst calciatore inglese che con la sua tripletta (unico attaccante fino ad ora ad aver segnato tre reti in una finale Mondiale) regalò il primo e unico titolo iridato alla nazionale dei Tre Leoni. Una partita memorabile che fu caratterizzata da un episodio discusso ancora oggi, a più di quarant’anni di distanza. Durante lo svolgimento dei tempi supplementari, al minuto 101 della partita, si verificò, infatti, il primo caso al mondo di gol fantasma: il pallone, scagliato in porta con forza da Hurst infilò il portiere tedesco Tilkowski, toccando prima la traversa e poi rimbalzando in maniera perpendicolare sulla linea di porta: un brivido attraversò la schiena dei 110.000 tifosi presenti sugli spalti del vecchio Wembley fino a quando l’arbitro (il fischietto svizzero Gottfried Dienst, all’epoca uno dei più affermati), dichiarò dapprima che la palla non era entrata in rete e, in seguito ad alcune proteste dei giocatori in campo e dopo un veloce consulto con il collega guardalinee, decise di assegnare definitivamente il gol agli inglesi, per la gioia di tutta la Gran Bretagna. La partita terminò 4 a 2 per l’Inghilterra che vinse così il suo primo Mondiale, disputato peraltro tra le mura amiche. Per la cronaca, parecchi anni dopo, grazie alle moderne tecnologie e alle analisi di Sky Sport il mistero pare essere stato risolto: l’arbitro e i suoi assistenti avevano ragione, infatti, il gol di Hurst era valido con la palla del 3 a 2 che aveva superato la linea di porta. Mondiale 2010: Germania – Inghilterra e il gol fantasma di Lampard Per uno strano scherzo del destino la storia mondiale di Germania e Inghilterra si ripete 44 anni dopo, precisamente in Sudafrica, durante la rassegna iridata del 2010. Siamo agli ottavi di finale e il protagonista dell’episodio è, ancora una volta, un calciatore inglese: il punteggio è fissato sul 2 a 1 per la Germania

o no-gol. Nello specifico, il direttore di gara riceve un impulso mediante una vibrazione sul suo “computer di bordo” rappresentato da un orologio da polso, sul quale percepisce il segnale che porterà alla sua decisione finale. La tecnologia di porta nel calcio è stata usata ufficialmente per la prima volta durante il Mondiale per club 2012, disputato in Giappone. Oltre a essere stata utilizzata anche durante gli Europei del 2016 in Francia e, recentemente, durante il mondiale russo del 2018, la Gol Line Technology è ormai diventata protagonista nei maggiori campionati d’Europa quali Ligue 1, Bundesliga e Premier League, oltre appunto alla Serie A. Nella Liga spagnola,

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invece, le decisioni spettano ancora allo staff arbitrale. Un supporto notevole per gli arbitri che, negli anni, si sono resi protagonisti di episodi quantomeno bizzarri e, a volte, imbarazzanti. Come dimenticarsi, per esempio, del famoso gol negato a Sulley Muntari in quel freddo febbraio del 2012 durante JuventusMilan o come non ricordare il primo gol no-gol per eccellenza di Geoff Hurst durante la finale mondiale del 1966 tra Inghilterra e Germania? Cartoline calcistiche dense di emozioni e sentimenti impresse nella mente di ogni appassionato, ormai destinate a entrare nel cassetto dei ricordi. Oggi, infatti, grazie alle Gol Line Technology è praticamente impossibile che


ma al minuto 38 accade l’impensabile: la conclusione a rete dalla distanza del centrocampista Frank Lampard sbatte sulla parte bassa della traversa con la palla che cade perpendicolarmente verso la linea di porta, proprio come anni e anni prima: il pallone varca nettamente la riga bianca di oltre un metro. Gli inglesi sono pronti a esultare, le braccia sono al cielo, un gol bello, chiaro, solare per tutti o quasi: l’arbitro uruguaiano Larrionda e l’assistente Espinosa decidono di lasciar clamorosamente correre il gioco e non assegnare la rete a Lampard, negando agli inglesi la possibilità di raggiungere il pareggio nel loro momento migliore. Le proteste dell’allora manager Fabio Capello e dei suoi giocatori sono vane, la decisione è ormai presa, la gara finirà 4 a 1 per la Germania che passerà ai quarti di finale. Una sorta di vendetta per i tedeschi… La favola di Panama accade grazie a un gol fantasma Non sempre tutto il male viene per nuocere, direbbero alcuni: questa volta il gol fantasma trasforma in realtà la favola di Panama che, proprio grazie a un episodio irregolare si qualifica per la prima volta al Mondiale 2018 battendo la Costa Rica e, al tempo stesso, estromettendo dai giochi gli Stati Uniti. Una partita che i panamensi ricorderanno per sempre. Siamo al minuto 53 e i costaricensi sono avanti per una rete a zero. Il discusso episodio avviene sugli sviluppi di un calcio d’angolo: la palla buttata in mezzo all’area, sembra impazzita e Gabriel Torres si trova a pochi centimetri dal pareggio. Il giocatore di Panama si lancia per buttare la palla dentro e, a un certo punto, la sfera sembra varcare effettivamente la linea di porta però così non è. La sfera, infatti, rimane sempre al di fuori della riga bianca non entrando mai in rete ma l’arbitro, ingannato dall’effetto ottico del caos intorno all’azione, decide di assegnare ugualmente il gol a Panama, scatenando da una parte le polemiche degli avversari, per i panamensi la gioia più grande. Un sogno che diventa realtà, Panama ai Mondiali e Stati Uniti a casa. E poi dicono che il calcio è solo un gioco!

episodi così possano verificarsi di nuovo, con buona pace della classe arbitrale (e degli stessi tifosi). Niente più sviste né supposizioni personali dunque: è la tecnologia a determinare, con esattezza, se il pallone varca o meno la linea di porta. Bello o meno? Un sistema sicuramente utile e funzionale che, da una parte però, ha reso il calcio meno affascinante, meno umano. I dubbi sull’introduzione della tecnologia nel calcio (VAR compresa) erano derivanti proprio dal fatto che, introducendo

Il suo gol alla Germania è una parte essenziale della sua autobiografia

una componente così importante e a tratti imponente e ingombrante, si rischiava di oscurare con prepotenza la figura dell’arbitro che in alcuni casi poteva perdere il suo ruolo decisivo. Ma il contributo della Gol Line Technology e della VAR è diventato, oggi, troppo importante, tanto che, dopo tante discussioni e molti confronti, recentemente è stata presa la decisione di introdurre ufficialmente la tecnologia anche in Champions League dalla stagione 2019/20. Il gol fanta-

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SPECIALE

Gol fantasma sma ha una lunga storia caratterizzata da circa cinquant’anni di polemiche che oggi fanno ancora molto discutere. Quali sono stati, negli anni, gli episodi che hanno fatto più clamore nel nostro campionato? Tuffiamoci nel passato e ripercorriamo i gol no-gol più clamorosi. Inter-Milan: Rivera e Sassi Sono innumerevoli i gol fantasma che fanno ancora discutere. Nell’epoca della TV in bianco e nero, gli episodi che hanno dato vita a eterne discussioni se la palla fosse entrata o meno sono infiniti. C’è un evento che, tuttavia, ha lasciato il segno negli almanacchi del calcio italiano. Parliamo del Derby della 5.a giornata del campionato di Serie A 1967/68. Una gara molto sentita, seguita da un’intera città. I nerazzurri sono in vantaggio. Il Diavolo non ci sta e, con un colpo da maestro, di Rivera pareggia i conti ad una manciata di minuti dalla fine. Il meraviglioso 10 rossonero colpisce la palla con un tiro di prima intenzione. Questa, dopo aver colpito la traversa, ricade oltre la linea di porta. L’arbitro Agostini non ha dubbi: è gol. Burgnich protesta veemente, ma il direttore di gara non cambia opinione. In serata, alla domenica sportiva, affidandosi a, per quel periodo, strabilianti

Anche Rivera è stato protagonista di un famoso gol fantasma

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immagini televisive al rallentatore, il curatore della Moviola Sassi dichiara che il pallone non aveva oltrepassato la linea di porta. Un’analisi spietata, crudele ma reale. La palla di Rivera non era gol. Di fatto, dopo quanto stabilito alla Domenica Sportiva, tutto cambia in maniera radicale. La Moviola diventa, per decenni, l’unico strumento in grado di smascherare i cosiddetti gol fantasma. Ancora oggi, quel “gol no-gol” di Rivera è argomento di discussione… Milan–Juve: il gol di Muntari Come non ricordare il famoso gol fantasma di Sulley Muntari? Un episodio indimenticabile protagonista del campionato italiano nella stagione 2011/12. Cosa accadde precisamente? Era un freddo mese di febbraio, la classifica sorrideva a entrambe le squadre posizionate nelle zone alte della classifica a distanza di pochi punti l’una dall’altra. Una sfida affascinante, con uno stadio gremito di tifosi, che vede il Milan, dominare la gara nel primo tempo e, dopo pochi minuti, portarsi subito in vantaggio grazie a un’autorete di Leonardo Bonucci. Poco dopo il raddoppio fantasma della squadra di casa: calcio d’angolo per i rossoneri e palla sulla testa di Muntari che, con una stoccata, mette il pallone in porta. Sfera 70 centimetri, almeno, oltre la riga. Buffon respinge quasi inutilmente in modo decisivo perché l’arbitro Tagliavento non convalida la rete e fa proseguire la gara che finirà poi 1 a 1, tra liti e polemiche post-partita. Lo scudetto a fine anno andrà ai bianconeri di Antonio Conte mentre Paolo Tagliavento (oggi ex arbitro) commenterà così qualche anno dopo: “È il mio errore più evidente, con il VAR oggi si sarebbe risolto in un decimo di secondo”. Un episodio che, anche senza VAR, sarebbe stato risolto velocemente dalla tecnologia di porta che in pochi secondi avrebbe determinato la decisione finale dell’arbitro. Milan-Udinese: il colpo di testa di Rami Questa volta la tecnologia conferma la decisione dell’arbitro Valeri che grazie alla sua


Milan-Udinese, la palla di Rami oltre la linea

prontezza (e un po’ di fortuna) riesce a evitare una decisione sbagliata. Stagione 2014/15: la partita è Milan-Udinese e, nel corso del primo tempo, precisamente al 21’, viene assegnato un calcio d’angolo ai rossoneri: Rami sale in cielo e con un colpo di testa sembra infilare la palla in rete ma Karnezis, portiere dell’Udinese, con un grande intervento respinge la palla che sembra aver varcato interamente la linea di porta. Gol non assegnato e rossoneri furiosi: la tecnologia post-partita, però, viene in soccorso del direttore di gara e smentisce le supposizioni. Il replay, infatti, mostrerà come il pallone non avesse varcato per intero la linea di porta confermando la rischiosa decisione dell’arbitro. Un episodio che contribuirà fortemente all’introduzione della Gol Line Technology in Serie A con l’allora direttore milanista Adriano Galliani che post-partita commenterà “L’occhio umano può fallire, quindi compriamo queste macchine e usiamole”. Il Milan vincerà comunque la gara per 2 a 0 con una doppietta di Menez, tornando alla vittoria dopo ben 40 giorni.

a portarsi in vantaggio con Fabio Pecchia. Il discusso episodio accade però qualche minuto dopo, quando l’arbitro Rodomonti decide di annullare un gol all’Empoli che, su colpo di testa di Bianconi, riesce a raggiungere l’inaspettato pareggio. Il portiere bianconero riesce a respingere la palla che ha ormai superato la linea di porta ma il direttore di gara decide di non convalidare la rete. Angelo Peruzzi qualche anno dopo dichiarerà: “Ricordo che quando mi tuffai all’indietro per ricacciare fuori la palla colpita di testa da Bianconi, ebbi chiara la sensazione che il pallone fosse entrato. Ma vedendo l’arbitro indicare con decisione il calcio d’angolo, fra le proteste dei giocatori dell’Empoli e di Spalletti che si rivolgevano a me perché ammettessi che era gol, pensai di aver visto male. L’arbitro era lì a tre metri, nessuno poteva vedere meglio di lui. Invece non era così.” Un gol fantasma destinato a entrare nella storia del calcio italiano.

Juventus-Empoli: Angelo Peruzzi il “gol nogol” Siamo nella stagione 1997/98 e la Juventus gioca in casa dell’Empoli, partita che anticipa la famosa Juventus-Inter (quella del discusso rigore di Ronaldo). Una gara inaspettatamente difficile per i bianconeri che però riescono

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SPECIALE

Calcio & Business

Un’idea geniale, un risultato eccezionale. Nel nome della Collina dei Ciliegi…

di Fabrizio Ponciroli

IL VINO DI SAN SIRO

I

l calcio è lo sport più seguito al mondo. Gli stadi, in maniera sempre più evidente, stanno diventando luoghi in cui ci si può gustare molto più che una semplice partita. Massimo Gianolli, Presidente de La Collina dei Ciliegi, cantina della Valpolicella, ci racconta come il calcio può diventare una cassa di risonanza straordinaria. Ci racconti la sua storia… “Mio padre, quando avevo 14 anni, mi ha detto di seguire la terra di Erbin, in quel di Verona. Uno splendido terreno incantato che adoro alla follia e che ha dato il via alla Collina dei Ciliegi come è conosciuta oggi. L’ho fatto per un po’ di tempo poi ho scoperto la mia passione per il vino. Sono diventato collezionista di vini e ho cominciato a pensare a come potermi trovare un mio spazio nel complicato settore vinicolo. Ho trasformato quella che era una realtà pensata per tutt’altro, con ciliegi, foraggio e mucche, in un’azienda vinicola. Essendo un

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novizio di quel mondo, ho pensato a come posizionare il brand, in maniera diversa rispetto alla concorrenza. Dopo alcuni spot televisivi, ho pensato ad un luogo che potesse accentrare tante persone e mi è subito venuto in mente lo stadio…”. Ed ecco che nasce il rapporto con Inter e Milan… “Ho pensato che lo stadio San Siro, con il suo fascino e il suo status, fosse l’ideale per ciò che avevo in mente. Sono andato ad esporre il mio progetto a chi rappresentava le due società calcistiche milanesi, spiegando che, se mi avessero dato lo spazio necessario, avrei portato l’alta ristorazione e la cantina dentro a uno stadio. Non ho scelto uno stadio qualsiasi ma il più affascinante e prestigioso d’Italia. Questo accadeva cinque anni fa. E’ stata una grande soddisfazione, perché sono riuscito nel mio intento. Si tratta dell’unica l’unica lounge in Italia, stabile, aperta a due squadre avversa-


rie, della stessa città. Fatta con grande qualità, come confermano le presenze di due chef come Enrico Bartolini e Davide Oldani, uno per squadra, tanto per essere equo”. Come mai ha deciso di avere sia Milan che Inter? “Da milanista convinto, posso dire che è stata una scelta corretta quella di avere anche l’Inter. Non aveva senso smontare e rimontare il tutto solo per le partite di una delle due squadre. Averle entrambe sarebbe stato più semplice e funzionale al progetto. E poi San Siro è lo stadio di Milano, dell’intera città”. Così facendo, c’è anche la possibilità di avere ancor più persone che frequentato la lounge… “Assolutamente. Abbiamo avuto tanti personaggi famosi, come Bocelli. Ovviamente non mancano i calciatori come Massaro, Abate, Zanetti, Beppe Baresi, Montolivo, Zambrotta e tanti altri nomi noti. Massaro, ad esempio, quando gioca a golf, alla buca numero nove, non si lascia scappare l’occasione di gustarsi un favoloso Recioto o un ottimo Amarone. Massaro è il nostro testimonial naturale”. Facciamo un gioco. Leghiamo un vino ai calciatori più di spicco del Milan… “Suso è l’unico che ha la stoffa per l’Amarone. Gattuso, che è strepitoso, un bel Corvina freddo a otto gradi. Un tignosissimo Corvina… Cutrone ci sta bene con un bel Brut frizzante e giovane, vista la sua voglia di imporsi in tempi brevi. Vedo bene anche Reina. Lui si

sposa perfettamente con un notevole Ripasso. Per Higuain, goleador navigato e con grande esperienza, andrei per il nostro Classico 1 che nasce da una miscela dei tre vitigni principe per la spumantizzazione: Pinot Nero, Pinot Meunier e Chardonnay. Uno spettacolo proprio come il Pipita”. Con il suo Milan è arrivato anche in Cina… “Sì, quando abbiamo avuto pronte le prime bottiglie di amarone, abbiamo subito pensato all’estero. Due anni fa è nata questa partnership con il Milan. Si sa, parliamo di un marchio, quello rossonero, conosciuto in tutto il mondo. In Cina ci sono milioni di persone che hanno interesse nel calcio, soprattutto del calcio europeo e dei maggiori club internazionali, come il Milan. E’ stato un successo clamoroso e immediato. Tutto brandizzato ufficialmente. La prima collezione AC Milan ha riscontrato un successo enorme. Siamo stati anche ad Hong Kong per il vino ufficiale rossonero. Ricordo che il primo ordine è stato di 71.000 bottiglie e gli ordini proseguono. Tra poco ci sarà anche un nostro punto vendita a Shanghai, insieme, ovviamente, all’AC Milan”. La conferma che il calcio è fonte di business… “Vero, a patto che si faccia tutto con grande professionalità e con lungimiranza”.

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di Fabrizio Ponciroli

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Credit foto: Liverani


IL FUNAMBOLO Ancora oggi, il nome di Garrincha è sinonimo di eccellenza…

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elé viene considerato il più grande giocatore che il Brasile abbia mai forgiato. Eppure, per tanti brasiliani, Garrincha non è stato inferiore a O Rei. Ne sono convinti soprattutto coloro che hanno avuto la fortuna di vederlo all’opera dal vivo. Manoel Francisco dos Santos, meglio noto come Garrincha, rappresenta l’allegria del calcio. Non a caso, è stato il primo, straordinario, funambolo del pallone. Ha avuto una vita intensa, dentro e fuori dal campo. Nato a Magé, nello stato di Rio de Janeiro, nel lontano 1933, ha estasiato milioni di fan, sia con la casacca del Botafogo, il club con cui è diventato una stella, sia con la nazionale verdeoro, con cui ha vinto ben due Mondiali. Ma chi era Garrincha? Perché è una leggenda tanto atipica? Le ragioni sono da ricercare nella sua surreale esistenza. Figlio di un alcolista (morto di cirrosi), il giovane Manuel trascorre i suoi primi anni di vita allo stato brado. Il suo soprannome, Garrincha, gli viene affibbiato quando è ancora un bambino. Lui vive come un “selvaggio”. Adora cacciare uccelli, in particolare un piccolo volatile brasiliano dalla testa grande e le zampette esili, di colore marrone e nero, chiamato Garrincha (Troglodytes musculus): “Quando presi il Garrincha, mio fratello, guardando l’uccello, mi ha ribattezzato con lo stesso nome, Da allora sono sempre stato Garrincha”, ha ricordato lo stesso Mané in un’intervista riportata dal me-

dia Universidade do Futebol. Il piccolo Manuel fa tutto di fretta. Si avvicina ad alcol e fumo in tenerissima età, come molti altri che vivono nel suo quartiere. Il suo unico amore è il calcio. Con la palla tra i piedi, è straordinario. Fa tutto benissimo, soprattutto sa dribblare chiunque. La scuola lo annoia a morte, a 14 anni è già dipendente di una fabbrica tessile. Salta spesso i turni di lavoro ma è talmente forte a calcio che gli viene perdonato (quasi) tutto. A soli 16 anni, perde la madre. Il padre trova una nuova compagna, tale Cecilia, che si occupa della cospicua prole, Garrincha incluso. Oltre ad avere diversi amici di bevute, ha un debole per il gentil sesso. A 18 anni si sposa con Nair Marques (da cui avrà otto figli) ma, parallelamente, porta avanti altre relazioni. Per fortuna, c’è sempre l’amore per il calcio tra le priorità della sua vita. La prima squadra in cui fa faville è la squadra amatoriale dell’azienda tessile dove lavora. Si chiama Sport Club Pau Grande. È giovanissimo, eppure, in campo, è, di gran lunga, il migliore. Nel 1951 firma il suo primo contratto con il Serrano. Ha anche un modesto stipendio a rendergli il calcio ancor più piacevole. Il suo nome è già noto ma Garrincha non è il tipo da cercare provini. Si narra che il Vasco da Gama non l’abbia “selezionato” perché sprovvisto di scarpe. Come se non bastasse, il suo fisico non aiuta. Ha una gamba più corta dell’altra (la sinistra misura sei centimetri meno della

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destra), è piccolo, ha un leggero strabismo e, a guardarlo, sembra tutto fuorché un atleta. È grazie ad un ex giocatore, ossia Araty Viana, che finisce al Botafogo. Viene tesserato per far parte delle giovanili ma è talmente abile che finisce presto in prima squadra, nonostante il difetto fisico alle gambe: “Quando ero piccolo, non me ne sono mai accorto. Al Botafogo mi hanno fatto notare che avevo un difetto di fabbrica…”, ricorda lo stesso Mané. A 19 anni è professionista, un’età, a dire il vero, non più verdissima. Sarà, comunque, la scelta migliore della sua vita che porterà tante fortune al Botafogo e, successivamente, alla Seleçao. Nel ruolo di ala destra, manda ai

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matti chiunque provi a fermarlo. I vertici della società capiscono che, con uno così, si può fare strada. Decidono di migliorare la rosa. Arrivano, nel corso degli anni, giocatori del calibro di Didi, Zagallo, Paulo Valentim e Quarantinha. Curiosamente, tutti ben stipendiati, tranne Garrincha che viene sempre tenuto ad un ingaggio decisamente basso (ma lui non si lamenterà mai). Libero da incombenze tattiche (su precisa indicazione del tecnico Joao Saldanha), Garrincha è inarrestabile, così come il suo Botafogo che, nel 1957, conquista il Campionato Carioca (1957). Il primo di tanti titoli che, al diretto interessato, non spostano più di tanto. A lui importa giocare a calcio,


sempre e comunque. È per la concreta paura di non poter tornare sul campo verde che decide di non operarsi al ginocchio (nonostante le pressioni dello staff medico del Botafogo). Purtroppo, con il passare degli anni, i problemi fisici si fanno sempre più marcati. Le infiltrazioni al ginocchio aumentano, così come l’artrosi. Il tutto va di pari passo con la sua dipendenza dall’alcol e dalle donne (qui si inserisce Elza Soares). A differenza di quando era un ragazzo, ora vuole soldi, sempre più soldi. Ne ha bisogno per mantenere il suo elevato stile di vita. Gioca, anche quando non dovrebbe. Il suo ultimo contratto con il Botafogo è a gettone. Più scende in campo, più guadagna. Una sorta di condanna per lui che, nonostante non sia più in grado di fare il calciatore, non può farne a meno. Arriva anche a decidere di operarsi alle ginocchia (ma l’operazione viene svolta da un medico diverso da quello del club). Il 22 agosto 1965 firma la sua ultima rete con la casacca del Botafogo (contro il Flamengo). Nel 1966, lascia il Botafogo (dopo 12 anni di militanza, con 85 reti in 236 gare) per il Corinthians. Ci prova ma non è più il Funambolo di un tempo. Ha problemi anche con i compagni, a causa del lauto stipendio che percepisce. Dopo un solo anno, va al Vasco da Gama dove, di fatto, gioca una sola partita. È l’inizio di un continuo e vorticoso girovagare che lo porterà anche in Colombia, all’Atletico Junior. Diventa prigioniero del suo nome. Vengono organizzate amichevoli per permettergli di giocare e, cavalcando il suo nome, fare più incassi. Finisce anche in Italia, allenandosi con la Lazio. Chiude la sua esperienza da calciatore, comunque, in Brasile, con la casacca dell’Olaria, contro, ironia della sorte, quel Botafogo che aveva contribuito, in maniera determinante, a rendere stellare sul finire degli anni ‘50. Un declino inesorabile, viziato anche da episodi extracalcistici che ne hanno dilaniato l’anima. Nel 1969, ad aprile, è vittima di un incidente stradale. Sulla sua auto ci sono la suocera Rosaria, madre di

Elza Soares, e una figlia adottiva. Muore la suocera, lui nega di essersi messo alla guida in stato di ebrezza. Viene condannato a due anni prigione che evita solo perché viene considerato il suo primo reato. Riceve così il diritto alla sospensione cautelare della pena. Nel 1977, finisce anche la relazione con Elza. Cerca conforto in un’altra donna ma la dipendenza dall’alcol è sempre più forte. Prova a risolvere il suo problema ma senza riuscirci. Un edema polmonare lo stronca nel 1983, non ancora cinquantenne. Il funambolo non c’è più, rovinato da una vita estrema, proprio come il suo calcio, fatto di rischi e ubriacanti dribbling. Eppure, nonostante siano passati tanti decenni dai giorni in cui imperversava con la casacca del Botafogo, il suo nome è ancora motivo di discussione. Per tanti, non c’è stato nessuno come Garrinha, neppure O Rei era al suo livello… I DUE MONDIALI Tante magie con il Botafogo ma spettacolo puro con la Seleçao. Innanzitutto, un dato: con lui e Pelé contemporaneamente in campo, la nazionale brasiliana non ha mai perso un singolo match (nonostante, pare, tra i due non ci fosse una grande amicizia). Altra statistica impressionante: nelle 50 gare giocate con la casacca verdeoro, “l’angelo dalle gambe storte” ne ha persa solo una, contro l’Ungheria. Manoel, inizialmente, non viene reputato “idoneo” alla nazionale. Troppi dribbling, poca concretezza. Per fortuna sua, e del Brasile, il talento, alla fine, ha la meglio sulle perplessità. Tra i convocati per il Mondiale del 1958, c’è anche lui. In una gara di preparazione alla Coppa del Mondo, contro la Fiorentina, Anjo das Pernas Tortas (l’Angelo dai piedi storti) irride tutti gli avversari, prima di andare in rete. Un comportamento che l’allora Ct Feola non gradisce. Infatti, nelle prime due gare della rassegna iridata, Garrincha è in panchina. Poi, però, l’estro di Garrincha viene sfruttato. Prima contro l’Unione Sovie-

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tica, poi contro il Galles. In semifinale non brilla particolarmente contro la Francia ma è decisivo nella finale contro la Svezia, con due assist a Vavà. Liedholm, stella della Svezia del 1958, evidenzierà come Garrincha sia stato decisivo ai fini del risultato. Lui e Pelè vincono il Mondiale, da autentici protagonisti. Nonostante la sua dipendenza dall’alcol, Garrincha è tra i convocati anche per il Mondiale del 1962. In Cile, si vede il miglior Garrincha di sempre. L’esterno del Botafogo è il migliore della rassegna iridata (conquista il titolo di miglior giocatore e anche quello di capocannoniere). In semifinale, contro il Cile, accade l’incredibile: Garrincha viene espulso. Mentre esce dal campo, viene, forse, colpito da una pietra. Niente finale? No, grazie anche all’intervento dell’allora Primo Ministro brasiliano Neves, la squalifica viene revocata. Nell’ultimo atto, contro al Cecoslovacchia, non è al top ma è comunque determinante nel 3-1 che consegna al Brasile il secondo Mondiale consecutivo (vinto con Pelé a guardare, perché infortunato). Tutto grazie a Garrincha… Va anche al Mondiale del 1966, in Inghilterra, ma non ha più la velocità e lo scatto di un tempo. Il Brasile esce al primo turno, è la parola fine sull’esperienza in verdeoro di Garrincha. ELZA SOARES L’incontro tra Mané Garrincha ed Elza Soares è datato 1961. Tra i due scatta immediatamente la scintilla, nonostante la stella del Botafogo fosse sposato e con prole. Garrincha, a quell’epoca, era il giocatore più popolare del Brasile. Tutti lo amavano. La sua immagine pubblica cambiò radicalmente quando, di ritorno dal Mondiale del 1962, in cui era stato divino, decise di lasciare la moglie Nair e le figlie per stare con l’amata Elza. Il campione e la cantante, una coppia che faceva scalpore ma anche notizia. Sono inseparabili, soprattutto nelle uscite pubbliche. I due si sposano anche (1966), nonostante “il popolo” non fosse affatto favorevole alla cop-

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Elza Soares insieme a Garrincha, una coppia bollente Credit foto: Liverani

pia. I due avranno anche un figlio, morto, in un incidente stradale a soli nove anni. La loro scabrosa e inaccettabile storia d’amore termina nel 1977, quando Garrincha, in preda ai fumi dell’alcol, la aggredisce… Dopo tanti anni, la stessa Elza, ricordando il suo Mané, ha dichiarato a Globo Esporte: “Adoro ancora quell’uomo, lo sogno ancora oggi” DRIBBLING FENOMENALE “La alegria del pueblo”. Questa è la definizione più azzeccata di Garrincha. L’uccellino zoppo che sapeva, con la sua incredibile finta, superare qualsiasi avversario, anche il più accorto. Nel corso degli anni, in tanti l’hanno accusato di “prender in giro”, in maniera eccessiva, chi provava, invano, a fermarne l’incedere. Tutto falso. Il suo era un calcio magico, fatto di dribbling e magia. Il pallone è sempre stato il suo unico, grande amico. Non avrebbe mai tradito il pallone. La più grande ala destra della storia del calcio, un giocatore fenomenale, favorito da una zoppia che, sfruttata in maniera divina, l’ha reso infermabile. Tutti conoscevano le sue finte ma, incredibilmente, in campo, tutti ci cascavano… Non per caso, è sempre stato “La alegria del pueblo”.


TORNA SPORT MOVIES & TV Ci siamo. A Milano, dal 14 al 19 novembre, andrà in scena Sport Movies & TV 2018, 36 edizione del Milano International Ficts Fest. L’occasione per assistere a produzioni provenienti dai cinque Continenti che concorreranno per l’assegnazione dell’Oscar del Cinema e della Tv sportiva ovvero la “Guirlande d’Honneur”, oltre alle “Mention d’Honneur” e ai “Premi Speciali” che saranno assegnati per ogni Sezione da una Giuria Internazionale composta da esponenti del cinema, della televisione, dei media, dello sport e della cultura dei Paesi che non partecipano al Festival. Tante le proposte calcistiche. Omaggi a icone del calibro di Pelé, con il documentario che racconta la sua carriera e Lev Yashin (“Lev Yashin – Number One”), oltre a produzione di grande interesse come il film di Alberto Serra “La Fuerza del Balon” o il docu-film dedicato a Cesare Alberti, rossoblù degli anni ’20 dal titolo “Sono Cesare ma chiamatemi Mimmo”. Non manca, ovviamente, anche Cristiano Ronaldo. Da vedere “Chasing Ronaldo”, diretto da Thomas Lemmer. Tra gli ospiti d’onore di retaggio calcistico, da segnalare le presenze di Arrigo Sacchi, Emilio Butragueno e tanti altri esponenti del calcio nazionale e internazionale.

A Milano, dal 14 al 19 novembre, con tanti titoli calcistici… Omaggi a icone del calibro di Pelé e Lev Yashin SEDE E DATE

Il Grande Auditorium di Palazzo Lombardia (Piazza Città di Lombardia, 1 – Milano) sarà la sede della “Cerimonia di Apertura” (Mercoledì 14 Novembre) e “Cerimonia di Premiazione” (Lunedì 19 Novembre) alla presenza di prestigiosi ospiti nazionali ed internazionali, delle più alte Autorità Istituzionali, civili, sportive e militari. Info: www.sportmoviestv.com


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Avversaria del Napoli in Champions League, la Stella Rossa ha una lunga storia…

LA STELLA DEL DANUBIO

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ella primavera del 1896 uno studente di nome Hugo Buli ritornava a Belgrado dopo aver terminato gli studi a Berlino, oltre alle conoscenze accademiche portava con sé un pallone da calcio. Tornato a casa divenne membro della società di ginnastica Soko, il 12 maggio venne fondata la sezione calcio, la prima entità calci-

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stica dell’Europa Sud Orientale. Il primo maggio 1899, nei locali del ristorante Trgovačka Kafana, venne fondata la Prima Società Serba di Calcio, tra i fondatori Hugo Buli, il console turco Feti Bey, l’avvocato Mihailo Živadinović e il ministro degli esteri Andra Nikolić. Dopo la fondazione il club si esibì su un campo nel quartiere di Topčider, giocavano due squadre


composte da membri del club stesso. Il primo club serbo esclusivamente dedicato al calcio venne fondato il 3 agosto 1901 a Subotica, il Bácska Szabadkai Athletikai Club attualmente denominato FK Bačka 1901. In realtà nel 1901 Subotica faceva parte dell’Impero Austro-Ungarico, quindi si può dire che il primo club fondato in Serbia sia stato l’SK Soko fondato il 18 aprile 1903 come sezione automa della società di ginnastica, attualmente denominato FK Bask. Sempre nel 1903, il 14 settembre a Kragujevac venne fondato l’FK Šumadija da Danilo Stojanović, anch’esso di ritorno da un’esperienza di studio in Germania. Ritorniamo nel 1897 quando Belgrado venne fondata la società di scherma Srpski Mač (Spada Serba), negli anni successivi venne inserito anche il calcio nelle attività del club e a partire dal 1906 divenne attività del sodalizio sportivo. Gli spadisti si esibivano con una divisa composta da camicia bianca accompagnata da pantaloni e calzettoni neri. Nel 1911 la Spada Serba giocò due partite a Zagabria contro la squadra dell’HASK, questa trasferta innescò un conflitto interno tra i membri del club che portò allo scioglimento del club stesso, in quanto molti soci non gradirono i rapporti amichevoli con una squadra austro-ungarica. Gli scissionisti della Spada Serba fondarono il 6 luglio 1911 il Beogradski Sport Klub (attualmente OFK Belgrado), colori sociali bianco e azzurro, è il primo club di Belgrado a dedicarsi esclusivamente al calcio. Dopo soli due anni si ripropone il problema di una trasferta in Croazia, questa volta a Spalato, una parte dei giocatori del BSK non gradisce la partita contro l’Hajduk e decide per una nuova scissione. Il leader degli scissionisti è Danilo Stojanović detto “Čika Dača”, già fondatore dell’FK Šumadija e considerato uno dei pionieri del calcio serbo. La riunione per la fondazione si svolge nei locali del ristorante Kasinò il 6 agosto 1913, il club verrà denominato Sportski klub Velika Srbija (Grande Serbia) con un dichiarato spirito patriottico per celebrare la vittoria nella guerra dei Bal-

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cani, questo viene indicato come il germoglio da cui fiorirà la Stella Rossa. Oltre a Stojanović erano presenti giocatori del l’FK Šumadija, l’intera struttura dell’FK Slavija e alcuni cecoslovacchi residenti in città. Non trovando divise e materiale in città, Josif Furjanovic si recò a Vienna con l’incarico di reperire tutto il necessario. Tornò dalla capitale austriaca con scarpe, palloni e due giochi di maglie, uno verde e uno rosso, venne deciso di utilizzare le maglie verdi per la prima squadra e le maglie rosse per la squadra di riserva. Il campo venne trovato nell’ex ippodromo di Trkalište, dove successivamente venne costruito l’edificio che ospiterà la Facoltà di Ingegneria. L’SK Velika Srbija gioca la sua prima partita ufficiale l’8 settembre 1913, avversario di giornata i rivali del BSK che vincono per 2-0, la divisa è composta da maglia verde con collo chiuso da laccetti, pantaloncini bianchi e calzettoni neri con riporti bianco verdi. In questo periodo prebellico la squadra ebbe un notevole impegno agonistico sia in Serbia che nel vicino impero Austro-ungarico, l’11 maggio 1914 vinse il suo primo trofeo, la Coppa Olimpica Serba (il primo torneo ufficiale giocato in Serbia), battendo per 3-1 l’FK Šumadija, poco dopo scoppiò la prima guerra mondiale e l’attività agonistica venne sospesa. Nel 1919 si ricominciò a giocare a calcio, venne ricostituito il club ma il direttivo decise di cambiare la denominazione in SK Jugoslavija, anche in questo caso si trattava di una scelta patriottica ad indicare il desiderio di un riconoscimento ufficiale per il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni sorto il primo dicembre 1918 e diventato poi Regno di Jugoslavia il 3 ottobre 1929. Venne ricostruito il campo da gioco, distrutto durante

la guerra, venne ricostruito completo di tribune per 2.500 spettatori, spogliatoi e pista di atletica. La prima partita dopo la guerra venne giocata contro una squadra di marinai inglesi (viene da chiedersi cosa facessero dei marinai inglesi a Belgrado, la distanza in linea d’aria dal mare è di circa 350 km), vittoria 9-0, per la prima volta vennero indossate le maglie rosse che diventeranno caratteristica del club. Per tutti gli anni 20 la divisa è composta da maglia rossa con collo a camicia oppure a girocollo chiuso da laccetti, pantaloncini neri e calzettoni neri, solitamente con bordini rossi oppure biancorossi. Nel 1924 e nel 1925 l’SK Jugoslavija vince i suoi primi due titoli di campione nazionale, nel 1926 arriverà secondo. Il 9 agosto 1925 i Rossi affrontarono in amichevole lo Slovan Vienna, risultato finale 3-3, partita importante perché era l’ultimo atto dello stadio di Trkalište, verrà demolito per far posto alla facoltà tecnica dell’università. Il nuovo stadio verrà costruito a Topčidersko Brdo in Ljutice Bogdana, un impianto da 20.000 posti con tribune coperte, spogliatoi, magazzini, pista di atletica e un vicino campo di allenamento. L’impianto verrà inaugurato il 25 aprile 1927 con un quadrangolare su due giornate, oltre allo Jugoslavija erano presenti lo Slovan Vienna, l’HŠK Građanski Zagabria e il SAND Subotica. Nel periodo trascorso tra la demolizione del vecchio stadio e la costruzione di quello nuovo, lo Jugoslavija giocò le sue partite sul campo dei rivali del BSK. Nella stagione 1929/30 e seguente maglia rossa con collo a camicia chiuso da bottoni, pantaloncini neri e calzettoni con bordino rosso. Dalla stagione 1931/32 la maglia presenta un collo a girocollo


piuttosto largo, nella stagione 1934/35 il collo diventa a V più accollato. Dalla stagione successiva maglia con collo a camicia chiuso da laccetti mentre i pantaloncini diventano bianchi, nel 1938/39 maglio rossa con collo a V bianco, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi con vistoso risvolto bianco, la stagione successiva la divisa è immutata ma compare lo stemma sociale sul petto. Con l’invasione del Regno di Jugoslavija, iniziata il 6 1941, da parte della Germania il club deve cambiare denominazione in SK 1913, rimangono invariate le divise. Nella stagione 1941/42 l’SK 1913 gioca con maglia rossa con collo a camicia chiuso da laccetti, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi con bordino bianco, il club vince il campionato serbo, a cui partecipavano perlopiù squadre di Belgrado, e nelle due stagioni successive arrivò al secondo posto. Nel 1945 le autorità della Repubblica di Jugoslavia dichiararono nulle tutte le competizioni giocate in tempo di guerra. Il 20 ottobre del 1944 Belgrado veniva liberata dalle truppe dell’Armata Rossa e dai partigiani jugoslavi, dopo soli due mesi il nuovo governo decise lo scioglimento di tutti i club serbi perché durante l’occupazione tedesca era stato organizzato un campionato di calcio e i club vennero accusati di collaborazionismo, tra questi SK Jugoslavija e BSK. Nel febbraio del 1945 un gruppo di calciatori, studenti e membri della Federazione Giovanile Antifascista Serba cominciarono ad attivarsi per fondare una Società per la Cultura Fisica Giovanile. La riunione decisiva si tenne il 4 marzo in Via Deligradska 27, i personaggi di spicco della riunione erano il presidente George Paljic, i vice Zoran Žujović e Slobodan Cosic, il segretario Ljubisa Sekulic, il tesoriere Predrag Djajic, il direttore della sezion calcio Kosta Tomasevic. Al momento di decidere il nome Cosic propose di denominare il club Stella e Zujovic aggiunse spontaneamente: “Se è una stella, che sia rossa”, in serbo Crvena Zvezda. Alla Stella Rossa vennero assegnate tutte le strutture dell’SK Jugoslavija, ovvero uffici, stadio e quello che

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rimaneva delle divise e dei palloni. Nello stesso giorno di fondazione del nuovo club, la Stella Rossa giocò la sua prima partita contro una squadra del Primo Battaglione della Seconda Brigata del KNOJ (Corpo di Difesa Popolare della Jugoslavia). Vennero trovate dieci maglie dello stesso colore e la Stella Rossa vinse per 3-2, la prima rete è stata segnata da Kosta Tomasevic, autore di una doppietta, e la terza da Pecencic. Raccontano le cronache che all’ingresso in campo delle squadre venne sparata una salva con fucili, tale da danneggiare il tetto della tribuna. L’attività agonistica riparte ufficialmente nella stagione 1946/47, la Stella Rossa si classificherà al terzo posto nella nuova Prva Liga indossando una maglia rossa con collo a girocollo, pantaloncini bianchi e calzettoni a righe biancorosse. Nella stagione 1947/48 e seguente la maglia è rossa con collo a girocollo chiuso da laccetti, pantaloncini rossi e calzettoni rossi con doppio bordino bianco, in queste due stagioni la Stella Rossa vince la Coppa di Jugoslavia. Nel 1950, è il primo di tre campionati giocati nell’anno solare, la divisa dei Belgradesi è composta da maglia rossa con collo a camicia chiuso da laccetti, pantaloncini rossi e calzettoni rossi con ampio risvolto bianco, terza vittoria consecutiva in coppa nazionale. Il 1951 vede la Stella Rossa vincere il campionato per la prima volta, in questa stagione compare la maglia a strisce verticali biancorosse, collo a camicia a strisce con chiusura a laccetti, alternata alla maglia completamente rossa della passata stagione, pantaloncini rossi e calzettoni rossi con risvolto bianco, medesime divise nel 1952. Nel 1952/53 si ritorna a gioca-

re a cavallo di due anni solari, da agosto a giugno con pausa invernale, la stella Rossa indossa la maglia rossa con collo a camicia chiuso da laccetti nei mesi invernali e una maglia rossa con collo a camicia bianco chiuso a V sul davanti da un bordo bianco il resto della divisa è invariato rispetto alle stagioni precedenti. Nella stagione 1953/54 e seguente si ritorna alla maglia a strisce verticali, collo a camicia a righe biancorosse chiuso da laccetti. Nel 1956/57 la divisa è quasi invariata, leggero cambio di stile per la maglia che presenta un collo con chiusura a V, in questa stagione la Stella Rossa raggiunge la semifinale di Coppa dei Campioni venendo eliminata dalla Fiorentina, poi sconfitta in finale dal Real Madrid. Nel 1957/58 i pantaloncini diventano bianchi, il 5 febbraio 1958 la Stella Rossa ospita il Manchester United, partita di ritorno per i quarti di finale di Coppa dei Campioni. Dopo aver perso in Inghilterra gli Slavi pareggiano in casa per 3-3 dopo essere stati sotto di tre reti all’intervallo, il giorno seguente i Red Devils tornano a casa, il loro aereo effettua uno scalo tecnico programmato a Monaco di Baviera e nella fase di decollo un guasto e la neve accumulata sulla pista provocano lo schianto dell’aereo contro la recinzione dell’aeroporto. È il tristemente famoso disastro di Monaco nel quale perirono otto giocatori e tre membri dello staff del Manchester United, oltre ad atre dodici persone tra giornalisti al seguito e membri dell’equipaggio. Nella stagione 1959/60 i Belgradesi indossano un’inedita maglia rossa e bianca a righe orizzontali sottili con collo bianco a V, i pantaloncini sono bianchi e i calzettoni rossi con risvolto bianco. La stagione successiva maglia a


strisce verticali sottili con collo a V bianco, pantaloncini e calzettoni rimangono invariati. Nelle stagioni 1961/62 e seguente maglia con collo a camicia biancorosso chiuso da bottoni, nella stagione 1963/64 e successiva una divisa più moderna composta da maglia con 7 strisce verticali ma con collo a camicia rosso chiuso da un triangolo rosso davanti, pantaloncini e calzettoni bianchi per la stagione invernale mentre nei mesi caldi maglia con strisce verticali decisamente più larghe con collo rosso a girocollo sottile. Nel 1965/66 la divisa invernale è invariata mentre la divisa per il periodo estivo ha sempre il collo rosso a girocollo ma le strisce sono di larghezza normale, la stagione successiva un solo tipo di maglia per tutto il campionato, 9 strisce verticali con collo a girocollo rosso, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi. Nel 1967/68 si alternano tre modelli diversi di maglia, una con 7 strisce verticali collo a camicia biancorosso chiuso da bottoni (sarà indossata anche nella stagione successiva), una seconda versione con 9 strisce verticali e collo a girocollo bianco ed infine al termine della stagione una maglia con 11 strisce sottili e collo a V rosso, pantaloncini bianche e calzettoni bianchi oppure rossi. Nella stagione 1969/70 maglia a righe sottili con collo a V rosso questa casacca sarà riproposta nella stagione seguente insieme ad altri due modelli, uno a strisce medie con collo a girocollo bianco e uno molto particolare bianca con collo a girocollo e due strisce verticali rosse molto larghe e le maniche rosse. Nel 1971 la Stella Rossa raggiunge nuovamente la semifinale di Coppa dei Campioni venendo eliminata, solo per il minor numero di reti segnate in trasferta, dal Panathinaikos, poi sconfitto in finale dall’Ajax. Le stesse divise saranno utilizzate anche nella stagione 1971/72, in alcune partite compare per la prima volta sulle maglie una scritta pubblicitaria, il marchio della ditta di abbigliamento Prvi Maj Pirot, uno dei primi esempi di sponsorizzazione calcistica. Nella stagione 1972/73 maglia con sette strisce ver-

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ticali e collo a girocollo rosso, compaiono ancora saltuariamente maglie delle stagioni precedenti, evidentemente c’erano ancora residui di magazzino da smaltire. Nelle due stagioni successive sempre sette strisce verticali ma finalmente c’è uniformità di divise durante la stagione. I Biancorossi raggiungono un’altra volta le semifinali di una coppa europea, questa volta sconfitti dal Ferencváros in Coppa delle Coppe, e anche questa volta chi ha eliminato la Stella Rossa viene poi sconfitto in finale, dalla Dinamo Kiev. Nel 1975/76 le maglie sono fornite dalla britannica Umbro che propone una maglia a sette strisce verticali con collo a camicia rosso chiuso da un triangolo anteriore, i pantaloncini ed i calzettoni, entrambi bianchi, sono della Adidas che li personalizza con le classiche tre strisce, per la prima volta compare il logo del fornitore sia sulla maglia che sui pantaloncini. Nel 1976/77 divise fornite dalla Kombinat Sport di Belgrado, azienda che in quegli anni era molto diffusa in Jugoslavia. Nelle stagioni 1977/78 e seguente le divise sono fornite dalla Admiral, la maglia è bianca con due larghe strisce verticali rosse e collo a camicia bianco con bordini rossi chiuso a V. Nel 1979 la Stella Rossa raggiunge la finale di Coppa Uefa, venendo sconfitta con il risultato complessivo di 2-1 dal Borussia Mönchengladbach, in finale i Belgradesi indossano una maglia con sette strisce verticali e collo a girocollo rosso, pantaloncini Puma rossi con strisce laterale bianca e calzettoni rossi. Nella seconda metà degli anni ‘70 abbiamo visto una certa confusione di maglie e fornitori, ai tempi le squadre pagavano le forniture, questo spiega perché due fornitori diversi sulla stessa divisa, evento particolare ma non unico al tempo. Gli anni ‘80 vedono finalmente una fornitura uniforme delle divise che vengono fornite dalla Puma, nel 1979/80 maglia a righe sottili con collo a V rosso, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi, la stagione seguente il collo è bianco a girocollo mentre i calzettoni presentano un vistoso risvolto bianco. A partire

dalla stagione 1981/82 arriva la divisa che accompagnerà la Stella Rossa fino alla stagione 1990/91, maglia con 5 strisce verticali, collo a camicia bianco chiuso a V, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi. A partire dalla stagione 1980/81 sulle maglie della Stella Rossa compare il logo dello sponsor commerciale, il primo sponsor è la fabbrica di cristalli Kristal Zajecar. Il 29 maggio 1991 la Stella Rossa vince la finale di Coppa dei Campioni contro il Marsiglia a Bari, 5-3 a rigori, è una squadra fortissima con un gruppo di giocatori che successivamente andrà a raccogliere onori e denari in giro per l’Europa. In Quella partita i Belgradesi indossano una maglia con le strisce larghe ed il collo a camicia rosso, pantaloncini e calzettoni rossi. Finito l’abbinamento con la Puma, dalla stagione 1991/92 subentra la danese Hummel che vestirà la Stella Rossa fino al 1993/94 proponendo una divisa praticamente uguale a quella della Puma. Con questa divisa la Stella Rossa vince la coppa intercontinentale nel dicembre 1991, 3-0 ai cileni del ColoColo. Nella stagione 1994/95 la divise sono fornite dalla Diadora, la maglia è pressoché uguale alle precedenti, pantaloncini bianchi e


calzettoni bianchi con risvolto rosso. Dalla stagione 1995/96 la fornitura passa alla torinese Kappa, la maglia è bianca con due strisce verticali rosse molto larghe e collo a camicia bianco, sulle maniche strisce blu con il logo aziendale, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi, la maglia cambia nelle stagioni 1998/99 e seguente, strisce verticali più sottili, collo a camicia biancorosso e scompaiono le strisce blu sulle maniche, pantaloncini bianchi e calzettoni bianchi con bordini rossi. Con il nuovo millennio arriva la Adidas e le regole del merchandising impongono una nuova divisa ogni stagione, cambiano anche i fornitori ma lo stile rimane immutato senza stravolgere l’identità del club. La seconda maglia di Velika Srbija, Jugoslavija e SK 1913 era bianca. Con la fondazione della Stella Rossa è entrata in uso la maglia blu, per richiamare la bandiera della Serbia, oltre alla maglia bianca e a quella rossa, negli ultimi anni con l’introduzione della terza maglia si sono viste divise arancioni e grigie. Tradizionalmente i portieri hanno indossato maglie bianche, grigie o nere, molto curiosa quella rosso bianca a strisce verticali larghe della stagione 1923/24. A partire dalla fine degli anni settanta molto usate maglie azzurre, verdi e gialle. Lo stemma compare sulle maglie dei Biancorossi a partire dalla seconda metà degli anni ‘70, è uno scudo bianco e rosso tagliato in diagonale con al centro una stella rossa, a partire dalla stagione 1995/96 compaiono due stelle dorate a sormontare lo stemma a rimarcare le venti vittorie in campionato. Nel periodo compreso tra il 1996/97 e il 2010/11 lo scudo è stato richiuso all’interno di un cerchio blu, bianco e rosso a richiamare la bandiera serba. Nel catalogo HW del Subbuteo la Stella Rossa è rappresentata dal numero 4, maglia biancorossa a strisce, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi con risvolto bianco, la divisa degli anni ‘70 e ‘80, il numero 52, con i pantaloncini rossi, rappresenta la meglio la divisa anni ‘90.

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i c l a c l e d i i gigant Davide Nicola di Sergio Stanco

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Una bellissima chiacchierata con Mister Davide Nicola: dalla tecnica alla tattica, dalla crisi del calcio italiano alle novità offerte da quello estero, da Sacchi e Scoglio fino ai giorni nostri, passando da Allegri e Guardiola. Mettetevi comodi…

Il Calcio secondo Nicola

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in da quando ho cominciato ad allenare ho sempre avuto un unico obiettivo: regalare emozioni. Il calcio è questo e i moduli, le tattiche, i giocatori e noi allenatori, siamo semplicemente un collegamento con gli spettatori. La mia massima aspirazione è riuscire a far giocare così bene la mia squadra, da far venir voglia al pubblico di unirsi a noi. Se un mio tifoso un giorno dovesse dirmi: “’Avrei voluto essere in campo’”, in quel momento mi sentirei un allenatore appagato. Non arrivato, intendiamoci, perché se mi sentissi arrivato sarebbe finita. Io quando vado a letto rivivo la giornata, ripasso quello che è accaduto e penso già a quello che devo fare la mattina

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lc i giganti de Davide Nicola

dopo per migliorarmi. Anche adesso che sono più libero, ho la fortuna di poter sperimentare con i ragazzi che alleno, applico la mia metodologia di lavoro, cerco di comunicare loro le mie idee nel modo più semplice possibile, studio nuove soluzioni e testo quelle su cui mi sono sempre basato. Chiamiamola una piacevole ossessione, ma forse neanche ossessione è la parola giusta, perché ha un retrogusto antipatico. E’ semplicemente una bellissima passione, che non mi costa alcuna fatica e mi porta a sviluppare sempre nuovi progetti. Non riesco a stare fermo, cerco sempre di creare situazioni che mi serviranno per il futuro. Il resto è una mare di emozioni”. E un fiume di parole, aggiungiamo noi, che trasudano passione. Questo è Davide Nicola, l’allenatore dell’incredibile salvezza del Crotone, quello che dopo aver compiuto un miracolo che resterà nella storia del calcio italiano, l’an-

Con il Livorno si è goduto la promozione nella massima serie

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“Quello che dovremmo riuscire a inculcare nella testa dei nostri giovani, è soprattutto il coraggio” no successivo ha preferito togliere il “disturbo” con dignità, dando le dimissioni, piuttosto che proseguire un progetto che non corrispondeva più alla sua visione. E’ lo stesso che si è fatto il Giro d’Italia personale in bicicletta per celebrare l’impresa, trovando sulla sua strada migliaia di tifosi di tutte le città ad aspettarlo, sostenerlo e accompagnarlo. Quello che nonostante i successi ottenuti a Livorno e Crotone come allenatore (una storica promozione dalla B alla A e una indimenticabile salvezza all’ultimo respiro), ricorda il quinto posto con il suo Lumezzane in Lega Pro come un traguardo altrettanto importante. Un mare d’emozioni, come lui stesso ci ha detto. E siccome con le nostre parole non potremmo mai essere così bravi a raccontarlo, ci metteremo da parte e faremo in modo che sia lui stesso a farlo. IL MIO CALCIO Credo in un gioco collettivo, dinamico, intenso, fatto di pressing asfissiante, alla ricerca costante della superiorità numerica. Non sono importanti gli schemi, ma l’atteggiamento di squadra: ovviamente ho alcuni moduli di riferimento, tendenzialmente il 3-5-2 o il 4-2-3-1, con relativi adattamenti: stesso sviluppo ma vertice basso o alto a seconda delle necessità o delle caratteristiche dei giocatori. La mia idea di calcio è flessibile, fatta di smarcamenti condivisi e scelte libere, ma operate in spazi ben individuati. Preferisco palla a terra, quando possibile, e la ricerca del gioco in verticale, mettendo costantemente pressione all’avversario. Credo che tutto, però, debba avere come unico scopo quello di regalare emozioni agli spettatori, questo deve essere il nostro unico obiettivo. Tutto il resto è una conseguenza.


Non ho paura di sperimentare, osare, provare cose nuove, l’errore è un feed-back necessario, non lo vivo come un fallimento, ma piuttosto come un evento che mi aiuta a crescere, che mi servirà in futuro per risolvere difficoltà mai affrontate. Non esistono campioni che non siano funzionali al progetto, se non si mettono a disposizione della squadra, se non sono votati al collettivo, semplicemente non sono veri campioni. Sono parecchi i giocatori che vorrei sempre avere nella mia squadra, ma se dovessi sceglierne uno, il mio ideale di calciatore è Pavel Nedved: uno che con l’impegno, con la dedizione, con la caparbietà, l’intensità, lo spirito di sacrificio, è diventato un fuoriclasse. E che è sempre stato d’esempio per i compagni e al servizio della squadra. Tutti valori fondamentali per la mia idea di calcio. IL NOSTRO CALCIO Ovviamente non essere andati ai Mondiali è stato un bruttissimo segnale per il nostro movimento, ma abbiamo le risorse per ricominciare. Non sono d’accordo con chi so-

stiene che non ci sia “materiale” sul quale lavorare, di giovani bravi ne abbiamo e sono convinto che Mancini riuscirà a dimostrarlo. Abbiamo bisogno, però, che i nostri ragazzi facciano esperienza e siano liberi di sbagliare. Se continueremo a criticarli al primo errore, allora non usciremo mai da questa spirale negativa. Non credo che il problema sia che i nostri ragazzi non giochino più per strada o che siano infarciti di nozioni tattiche fin da piccoli, è una visione romantica, suggestiva, ma non abbiamo la controprova che sia vera. Forse ci piace crederlo. Sicuramente si è perso un po’ di spontaneità nel gesto tecnico, quello sì. L’errore sarebbe fondare l’allenamento dei giovani sulla tattica di reparto, piuttosto che sulla tattica individuale, ma per la mia esperienza personale, questo non accade: nei settori giovanili italiani si fa un grande lavoro tattico, è vero, ma di tipo individuale, per sviluppare il talento singolo. Quello che dovremmo riuscire a inculcare nella testa dei nostri giovani, è soprattutto il coraggio: il coraggio di provare, anche quel-

UNA VITA DA MEDIANO “Una vita da mediano, a recuperar palloni, nato senza i piedi buoni, lavorare sui polmoni. Una vita da mediano, con dei compiti precisi, a coprire certe zone, a giocare generosi”. La canzone di Ligabue si staglia perfettamente sul nostro ricordo del Nicola calciatore. Il passaggio sui piedi poco educati è un po’ ingeneroso, ma cambia poco la sostanza: il compito di Davide era quello di correre, sì, ma non a caso, in zone ben precise. Gli stessi concetti che ora insegna da allenatore. Nicola nasce nella provincia di Torino nel 1973, ma già a 16 anni è costretto ad emigrare per inseguire il suo sogno di diventare calciatore: le giovanili sono quelle del Genoa, ma l’esordio in A arriva con la maglia del Siena solo nel 2004. Una volta si chiamava farsi le ossa in provincia o – se volete – gavetta: Davide se l’è fatta tutta, prima in campo e poi in panchina. E’ tornando al Genoa, però, che si toglie le maggiori soddisfazioni, ma è con la maglia della sua città che raggiunge l’apice. “Una vita da mediano, da chi segna sempre poco, che il pallone devi darlo a chi finalizza il gioco. Una vita da mediano, che natura non ti ha dato, né lo spunto della punta, né del 10 che peccato”. A volte, però, anche il “gregario” sveste i panni della comparsa per indossare quelli del protagonista: a Davide succede l’11 giugno del 2006, quando trascina il suo Torino alla promozione in Serie A nella finale play-off contro il Mantova, segnando il gol deciso al quinto minuto dei tempi supplementari. “Vivo per regalare emozioni ai tifosi”, ci ha detto: i 60mila tifosi granata presenti al Delle Alpi non si dimenticheranno mai quelle vissute quella sera…

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lo di sbagliare, senza vivere l’errore come un dramma. Ma in questo dobbiamo aiutarli: i giovani faranno sempre duemila errori, ma saranno comunque fondamentali per crescere e noi dobbiamo essere bravi a non farglieli pesare. Questo è il momento giusto per sviluppare un ambiente formativo che incoraggi i nostri ragazzi, che consenta loro di giocare almeno cento partite prima di giudicarli, che tolga loro pressione e che li faccia scendere dalle montagne russe sulle quali li abbiamo costretti. Dobbiamo promuovere il concetto di performance non fine a se stessa, e che non sia basata solo sul risultato, solo così riusciremo a favorire quel passaggio generazionale di cui abbiamo bisogno per tornare a grandi livelli.

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piace molto vedere il Liverpool di Klopp, il suo atteggiamento aggressivo, il suo gioco fatto di pressione e ripartenze veloci. Trovo che anche il Paris Saint Germain sia molto maturato e che Tuchel abbia portato novità decisamente interessanti. Sono entrambe squadre infarcite di campioni, votati però al collettivo, che riescono ad esprimere un calcio molto efficace, capace di regalarti emozioni e trascinarti. Ma all’estero non ci sono solo le grandi squadre a far vedere qualcosa di interessante, recentemente ho avuto modo di assistere ad alcune partite del Wolwerhampton: una neopromossa in Premiership che, pur con concetti molto basici, sviluppa un gioco molto piacevole ed efficace. Alla fine non dovremmo mai dimenticare che il calcio è un gioco molto semplice.

IL CALCIO ESTERO In questo periodo ho avuto modo e tempo di guardare il calcio internazionale, anche dal vivo, e la sensazione è che venga vissuto con molta meno pressione rispetto a quello che accade da noi. Si va proprio alla partita per assistere ad uno show e le squadre pensano più a giocare piuttosto che a fare calcoli sul risultato. è un atteggiamento che mi piace, perché andare allo stadio deve essere come andare a vedere uno spettacolo: se non ti diverti, non è un piacere. E la mancanza di pressione ha un effetto positivo e benefico anche sui giocatori, che sono più sereni e non hanno timore di provare la giocata. Mi

“Preferisco palla a terra, quando possibile, e la ricerca del gioco in verticale, mettendo costantemente pressione all’avversario. Credo che tutto, però, debba avere come unico scopo quello di regalare emozioni agli spettatori”

La sua carriera da allenatore è cominciata sulla panchina del Lumezzane

IL CALCIO SEMPLICE Allegri in questo è uno dei migliori, nel senso che ha la capacità di semplificare al massimo, di non essere schiavo dei moduli, di basarsi su tre-quattro principi fondamentali, ma chiarissimi ed evidenti, sui quali costruisce i suoi successi. è una dote immensa, perché alla fine il calcio semplice paga sempre e soprattutto paga la capacità di renderlo semplice agli occhi dei tuoi giocatori. Credo che l’allenatore che mi abbia dato di


IL PROFESSORE L’allenatore di quella serata magica per il Torino del 2006 era Gigi De Biasi, uno che ha fatto la storia dell’Albania portando la nazionale per la prima volta alle fasi finali di una competizione internazionale (l’Europeo in Francia nel 2016). A farlo esordire in Serie A, però, è stato un certo Gigi Simoni, che certamente non ha bisogno di presentazioni. Insomma, i maestri a Mister Nicola non sono mancati, ma nella nostra intervista ne ha citato uno forse troppo sottovalutato: Franco Scoglio è stato uno dei più grandi innovatori del nostro calcio negli Anni ’80 e ’90. Era soprannominato il Professore, perché ha cominciato come insegnante di educazione fisica, ma anche perché insegnava calcio. “Io non comando i miei giocatori, li guido”, una delle sue massime che sono passate alla storia. Proprio come fa Davide Nicola con i suoi ragazzi: il mister, infatti, ha deciso di aiutare la Vicus 2010, società di calcio giovanile di Vigone, paese dove è cresciuto, di cui è diventato supervisore tecnico, ed è lì che cerca di trasmettere la sua passione a quelli che, da grandi, sognano di diventare come lui. Proprio come Scoglio faceva con i suoi sulle spiagge di Lipari. Del Professore, però, si ricordano altre massime, anche più colorite, che lo hanno trasformato in un personaggio un po’ naif e forse ne hanno svilito le idee e la loro portata innovativa. Rileggendo le parole di Nicola sulla sua idea di calcio ce n’è tornata alla mente una geniale: “I miei giocatori devono avere attributi tripallici – disse un giorno Scoglio – quelli che hanno tre palle fanno pressing, quelli che ne hanno due giocano a calcio, quelli che ne hanno una fanno la partita tra scapoli e ammogliati”. Parole non edulcorate, forse, ma certamente non concetti “ad minchiam”, come direbbe lo stesso Professore. Se volete, possiamo tradurle così: “Credo in un gioco collettivo, dinamico, intenso, fatto di pressing asfissiante, alla ricerca costante della superiorità numerica”. Ognuno ha il suo imprinting, ovviamente, ma i maestri non si dimenticano. Grande appassionato di calcio, qui con il leggendario Gigi Buffon

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più sia stato Franco Scoglio: probabilmente nella sua testa il suo calcio era estremamente complicato, ma aveva la capacità di spiegarcelo con concetti banali e noi sapevamo esattamente cosa avremmo dovuto fare in ogni situazione di gioco. E questo per un allenatore significa aver raggiunto il risultato, perché il nostro compito è quello di trasmettere concetti ai giocatori e di aiutarli a crescere da un punto di vista tecnico, tattico e professionale. Per un tecnico non c’è gioia più grande di vedere un proprio giocatore migliorare giorno dopo giorno. Credo che Allegri esageri quando dice che le partite alla fine le vincono i grandi campioni, estremizza il concetto per far passare il messaggio, ma è vero che puoi studiare tutte le tattiche che vuoi, ma alla fine il compito dell’allenatore è mettere i suoi giocatori nelle condizioni di esprimersi al meglio, sfruttando le loro qualità ed esaltandone il talento.

Tantissimi i ricordi legati alla sua esperienza al Crotone

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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

IL CALCIO DEI MAESTRI Sono troppo ambizioso, non potrei mai fare il secondo a qualcuno, ma se potessi tornare indietro mi piacerebbe poter osservare da vicino il lavoro di grandi allenatori del passato come Herrera, Liedholm, Bernardini, tecnici capaci di essere innovativi e direi quasi visionari. Ognuno, però, ha la sua identità, la sua filosofia, il suo imprinting. Non mi piace quando ci si divide tra pro-qualcuno da contrapporre a qualcun altro: non possiamo pensare che il gioco sia uguale per tutti, altrimenti rischiamo di spersonalizzarlo e diventa semplicemente strutturale. Non è così ed è bello proprio perché tutti abbiamo la nostra visione personale del calcio. Sento dire, ad esempio, che Guardiola abbia rovinato il gioco, la stessa cosa si diceva di Sacchi, accusato di averlo meccanizzato, ma ogni fenomeno va inquadrato nel contesto e nel periodo storico in cui si manifesta e questo vale anche nel calcio. Guardiolismo e Sacchismo altro non sono che l’espressione di gioco di due grandissimi allenatori, che hanno prodotto risultati eccelsi nei rispettivi periodi storici, rapportati ai loro calciatori ed ai loro avversari. I danni, se mai ci sono stati, sono derivati da chi ha provato ad applicare le loro filosofie in contesti con condizioni non idonee, senza apportare i necessari correttivi, pensando potessero funzionare sempre e ovunque.


Gioco collettivo e pressing asfissiante, il credo di Nicola

IL CALCIO è EMOZIONE Non sarò mai ricordato come un fuoriclasse, ma nella mia carriera da calciatore mi son tolto anche io le mie soddisfazioni. Quella più grande è essere riuscito a tornare a giocare nella mia città dopo tanto girovagare e riuscire ad essere decisivo, regalando al popolo granata una promozione storica. Quello potrebbe essere il momento più bello della mia vita “precedente”, mentre da allenatore sarebbe facile ricordare la salvezza con il Crotone o la promozione con il Livorno. Non dimentico, però, il quinto posto con il Lumezzane: era la mia prima stagione su una panchina e abbiamo fatto un campionato eccezionale, arrivando a giocarcela con squadre molto più blasonate e accreditate, come il Verona, tanto per citarne una. In realtà, la cosa di cui vado più orgoglioso oggi, è il fatto di aver allenato in tre campionati diversi, Lega Pro, Serie B e

Serie A, e aver dimostrato che la mia metodologia può funzionare al di là delle categorie. Questo per me è stato un passaggio fondamentale che, se possibile, mi ha dato ancora più entusiasmo. A livello personale, poi, mi ha colpito il fatto di aver lasciato un buon ricordo ovunque, l’ho provato sulla mia pelle quando ho fatto Crotone-Torino in bicicletta: ovunque passassi o mi fermassi, trovavo centinaia di persone ad aspettarmi e sostenermi. A Bari, dove ho allenato, erano tantissimi, così come a Livorno, e soprattutto a Genova, ma in realtà anche in posti dove magari non ero mai stato. Lungo quella strada ho trovato un affetto che mi ha davvero colpito. Poi, ovviamente, quando sono arrivato al Filadelfia, con tutte quelle maglie e bandiere granata ad aspettarmi, è stato qualcosa di magico, il finale perfetto. Io vivo per regalare emozioni ai tifosi, ma quella volta sono stati loro a fare emozionare me.

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reportage Blackburn di Luca Manes Foto di Luca Manes

Non solo Leicester Viaggio nel magico mondo di Blackburn: ascesa, cadute e risalite di un club dalla storia unica.

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l più grande tifoso del Blackburn”. Di solito a campeggiare davanti alle tribune degli stadi britannici ci sono statue di campioni o allenatori del passato, ma Blackburn fa eccezione. E non poteva essere altrimenti. All’Ewood Park ad accoglierci a braccia spalancate e con un bonario sorriso sul volto, in una posa che ricorda tanto quella del leggendario allenatore del Liverpool Bill Shankly, c’è Jack Walker, il proprietario dei Rovers dal 1991 al 2000. Colui che da bimbetto, negli anni Cinquanta, seguiva la sua squadra del cuore dalle gradinate e che, una volta fatta fortuna, ha vo-

luto regalare a se stesso e ai suoi concittadini l’ebrezza di un team che pareva uscito dritto dritto da una maratona notturna di fantacalcio (che in Inghilterra si chiama Fantasy Football, ma poco importa). Di umili origini, divenuto un magnate dell’acciaio si trasferì nel paradiso fiscale di Jersey per pagare meno tasse possibili, lasciando così la sua amata Blackburn. Quasi come in un film d’altri tempi, Walker decise però di regalare parte della sua ricchezza alla città d’origine aiutando la sua squadra del cuore, prima con munifiche donazioni per finanziare lavori urgenti per lo stadio, poi rile-

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reportage Blackburn

vando la proprietà del club, che per decenni era rimasto ai margini del calcio che contava. Fu così negli anni Novanta i supporter del Blackburn si ritrovarono a esultare per i gol a frotte di Alan Shearer, provarono piacere fisico a vedere David Batty che sradicava palloni a destra e a manca consegnandoli al re del centrocampo Tim Sherwood, applaudirono fino a spellarsi le mani Colin Hendry che sbarrava con rudezza e decisione la strada agli attaccanti avversari e ancora si fecero venire i lucciconi agli occhi al solo pensiero che un’icona del Beautiful Game come Kenny Dalglish sedeva sulla panchina della loro squadra del

cuore. Il culmine di questa rapida ascesa fu raggiunto nella stagione 1994-95, quando i Rovers spodestarono dal trono della Premier il primo grande Manchester United targato Alex Ferguson. I bianco-blu vinsero il campionato all’ultima giornata nonostante una sconfitta per 2-1 ad Anfield Road. I Red Devils, infatti, non riuscirono a raccogliere i tre punti che sarebbero serviti per il titolo sprecando vagonate di palle gol al mai poco compianto Boleyn Ground. L’11 con il West Ham scatenò una festa senza pari dalle parti di Blackburn, con la squadra locale di nuovo campione d’Inghilterra a distanza di

ANIMO SCOZZESE Fondato nel 1875, il Blackburn è stato il primo tra i club professionistici inglesi a vincere la Coppa d’Inghilterra. Anzi, fece proprio incetta, centrando tre edizioni consecutive fra il 1884 e il 1886. Delle sei edizioni della FA Cup che i Rovers si sono aggiudicati in totale, l’ultima è però datata 1928, così come non è troppo recente nemmeno l’ultima finale (1960). Membri fondatori della Football League, in campionato si imposero nel 1912 e nel 1914, prima di essere a lungo (fino al “miracolo” del Leicester) l’unica squadra al di fuori delle grandi a mettere in bacheca una Premier. Il giocatore simbolo dei primi due titoli raccolti all’inizio del Ventesimo secolo fu il capitano Bob Crompton, difensore a tratti insuperabile. Quella del 2017-18 non è stata la prima esperienza nella terza serie, perché già negli anni Settanta il Blackburn era scivolato nella periferia del calcio inglese, rimanendoci ben quattro stagioni. Da notare il forte legame con la Scozia che contraddistingue il club. Kenny Dalglish raccolse infatti il testimone da una serie di giocatori che resero grandi i Rovers all’inizio della sua storia, in primis l’ex capitano dai Glasgow Rangers Hughie McIntyre. Anche l’attuale capitano, l’ex Celtic Charlie Mulgrew, è nato a nord del Vallo di Adriano. Per la verità anche un altro Shearer, Duncan, era scozzese, ma giocò solo sei partite nel 1992. Poi arrivò Alan da Newcastle Upon Tyne...

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ben 81 anni. La discesa è stata rapida e molto triste. Con Walker malato e di riflesso meno attento ai “bisogni” della squadra, dopo soli quattro anni dal trionfo in Premier il Blackburn dovette dire addio al salotto buono del calcio d’oltre Manica. Shearer aveva già salutato nell’estate del 1996, preferendo la sua squadra del cuore (il Newcastle) al Manchester United di Cantona e Beckham. Ma questa è un’altra favola che magari racconteremo in uno dei prossimi numeri. Nel 2000 Walker perse la sua battaglia con il cancro, senza riuscire ad assistere alla promozione, siglata nel maggio del 2001. Riposti nel cassetto i sogni di gloria, se si eccettua la vittoria in Coppa di Lega nel 2002, il Blackburn vivacchiò per poco più di un decennio in Premier, una sorta di preludio a un altro tonfo nella serie cadetta. Una diretta conseguenza dell’arrivo nella cittadina del Lancashire degli imprenditori indiani del settore della lavorazione della carne Balaji e Venkatesh Rao, con la loro Venky’s Limited. Una vera iattura, anzi, a sentire i sostenitori dei Rovers, una catastrofe assoluta. Come dar loro torto: da quando sono nella stanza dei bottoni, i Rao non hanno imbroccato una decisione, aumentando il debito della società da 20 a oltre 100 milioni di sterline. I tifosi hanno lanciato una petizione alla Football Association per chiedere agli sceriffi della federazione di indagare sulla pessima gestione del club, inscenato proteste e perfino boicotta-

to la società rimanendo lontani dalle tribune di Ewood Park. Le cose sono andate di male in peggio, fino alla retrocessione in League One, la terza divisione d’altri tempi, nel 2016-17. Per fortuna il ritorno in Championship è stato rapido e la grande paura ha fatto comprendere ai Rao che serviva fare qualche sforzo economico per puntellare la squadra. Per carità, nulla di eclatante, visto la complicata situazione finanziaria del club. Il Blackburn neo-promosso in Championship che abbiamo ammirato dal vivo durante uno dei primi match casalinghi della nuova stagione ci è parso un team abbastanza competitivo, che non dovrebbe far passare brutti momenti ai suoi fedelissimi. È evidente che l’eredità più tangibile dell’epoca d’oro è un impianto, l’Ewood Park, per tre quarti così imponente e moderno da essere sovradimensionato per le attuali ambizioni della squadra. Poiché il restyling è datato anni Novanta, i tratti distintivi sono ancora molto britannici, con la classica forma rettangolare, le tribune a due piani e i piloni dell’illuminazione agli angoli. Solo la Riverside Stand, che come si può intuire ha alle sue spalle un corso d’acqua, l’Alum House Brook, sembra uscita dalle nebbie del passato. Piccola, vecchia e punteggiata da colonne a sostegno del decrepito tetto in acciaio ondulato, ha veramente poco a che vedere con il resto dell’arena. Un’asimmetria architettonica che ritroviamo anche nei pressi dell’Ewood Park. A complessi

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reportage Blackburn L’eterno nemico Il Lancashire è una delle regioni a più alta concentrazione di squadre professionistiche di Europa. Non deve stupire quindi che si siano tante rivalità profonde e radicate nello spazio di poche miglia. Nel caso del Blackburn, il nemico si chiama Burnley, con i primi match ufficiali in campionato che risalgono niente meno che alla First Division 1888-89, vinti entrambi dai Rovers. Benvenuti al Cotton Mills Derby, così denominato per i tanti cotonifici presenti nei decenni passati nella due città, che distano solo 10 minuti di treno l’una dall’altra. A causa delle alterne fortune dei due team, ci sono stati lassi di tempo abbastanza lunghi (per esempio dal 1983 al 2000) senza derby in campionato, così che diventava un utile surrogato l’apparentemente insignificante e prestagionale Lancashire Cup. Rigurgiti di violenza si sono verificati non solo nell’epoca buia dell’hooliganismo, ma anche negli anni recenti, con tanto di invasioni di campo per tentare di aggredire i giocatori avversari. Noi abbiamo assistito dal vivo all’ultimo match del Burnley nella Premier 2016-17 e vi possiamo assicurare che i festeggiamenti dei tifosi locali per una insperata salvezza erano resi ancora più “vivaci” grazie alla clamorosa retrocessione in terza serie dei rivali di sempre.

residenziali di recente fattura e piacevoli spazi verdi fanno da contraltare viuzze strette con delle case che ricordano gli slum descritti da Charles Dickens nei suoi immortali romanzi. Abitazioni molto malandate e vetuste che forse c’erano già quando il Blackburn Rovers giocò il primo campionato inglese, nel 1888-89, piazzandosi quarto, e che rappresentano una sorta di pro-memoria del declino post industriale di questo angolo d’Inghilterra. L’Ewood Park può ospitare fino a 31mila spettatori, ma, come detto, è ormai molto sovradimensionato, tanto che la media degli ultimi anni non arriva a 15mila presenze e il tutto esaurito non si registrava nemmeno durante le ultime stagioni

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in Premier. Il pessimismo cosmico che ha pervaso i tifosi dall’arrivo degli odiati fratelli indiani sembra essersi ridotto dopo la promozione dello scorso maggio. Nessuna delle persone con cui scambio due chiacchiere ha parole al miele per i Rao, ci mancherebbe, ma almeno nutrono fiducia nei giocatori e nel navigato manager Tony Mowbray, serbando la speranza che in qualche anno si possa concretizzare un ritorno in Premier – o che quanto meno arrivi un proprietario più affidabile. “È durata poco, ma almeno quando c’era Jack Walker ce la siamo goduta”, mi confessa un supporter più attempato e due passi dalla statua del più “grande tifoso del Blackburn”.


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TI I N I F O N O S DOVE Pierluigi Orlandini

di Stefano Borgi

IL PRIMO (GOLDEN) GOL,

NON SI SCORDA MAI...

N

oi da una parte, Pierluigi Orlandini dall’altra. Presentazioni di rito, una stretta di mano, e la consapevolezza per entrambi che ad un certo punto saremmo cascati lì. Una sorta di condanna, senza aver commesso reato. Parliamo del gol segnato al Portogallo con l’Under 21 di Cesare Maldini. Era il 20 aprile 1994, finale del campionato europeo di categoria, ed il giovane Orlandini (esterno d’attacco, come ama autodefinirsi) sferra un sinistro chirurgico che si infila alla destra del portiere portoghese. È il 7’ del primo tempo supplementare: tutto molto bello, come direbbe qualcuno. Però, c’è un però... “Certo il calcio è strano – sbotta Pierluigi. Uno gioca due anni nell’Inter, con Pagliuca, Bergomi, Bergkamp, Ruben Sousa... Non proprio gli ultimi arrivati. Poi va al Parma e trova Buffon, Cannavaro, Zola, Crespo... Forse il Parma più forte di sempre. Poi va al Milan, nel frattempo vince un Europeo con l’Under 21... e nonostante tutto la gente si ricorda solo di quel gol”. Quindi, ci sembra di capire, un po’ le dispiace... La risposta è tra l’ironico e il divertito: “No no, si figuri. Almeno io, in carriera, ho

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vinto qualcosa. Chieda, chieda pure...”, tiriamo un sospiro di sollievo. Anche perché, non è il primo e non sarà l’ultimo: ricordate Turone? (il gol annullato contro la Juve nel 1981). E Calori? (anno 2000, la pioggia di Perugia). Addirittura Felix Magath, numero 10 dell’Amburgo, che in Italia è ricordato solo ed esclusivamente per il gol di Atene, ancora contro la Juve in una finale di Coppa dei Campioni. Insomma, un gol (come la famosa telefonata) ti salva la vita. O nel migliore dei casi, ti salva la carriera. E la tramanda ai posteri. Senza contare che, nel caso suo, fu il primo Golden Gol della storia. Tanta roba... “Certo, ma io stavo scherzando. È ovvio che i tifosi mi ricordino per quello. Entro al posto di Inzaghi, e dopo 7 minuti tolgo la ragnatela dal sette. Di sinistro, che in teoria non era nemmeno il mio piede. Golden Gol, il primo della storia, e tutti a casa”. Tra l’altro un Portogallo niente male. Figo, Jorge Costa, Abel Xavier... vuol proseguire lei? “Rui Costa, Sa Pinto, Rui Bento, ma non solo... In semifinale avevamo battuto la Francia pa-


Promessa nell’Inter di Ottavio Bianchi, una carriera tra Parma e Milan, il gol al Portogallo come piacevole condanna. E quella passione per i giovani... tutto vissuto a modo suo.

Credit Foto - Liverani

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DOVE SONO

FINITI?

Pierluigi Orlandini drona di casa (ai rigori ndr.) nella quale giocavano Zidane, Thuram, Dugarry. In panchina c’era Domenech, insomma... una bell’impresa”. A proposito di panchina, sulla nostra sedeva Cesare Maldini... “Un padre di famiglia. Non so dire altro. Non conosco nessuno che abbia un parere negativo su Cesare: uomo d’altri tempi, serio, competente, una guida perfetta per noi giovani. Mi spiace solo non essere stato convocato per la nazionale maggiore, nel 1997, quando Maldini aveva preso il posto di Sacchi. Ci sono andato vicino, con lui avrei fatto bene. Pazienza...” Com’era il Pierluigi Orlandini da bambino? “Come tutti i bambini: fisso a giocare all’oratorio, col pallone sempre con sé, che già mostrava un certo talento e poca voglia di studiare...” Il momento in cui ha detto: da grande farò il calciatore! “Nell’estate del 1990, quando feci il mio primo ritiro precampionato con l’Atalanta (Pierluigi è di San Giovanni Bianco, in provincia di Bergamo. Lo stesso paese di Davide Astori... ndr.) Lì ho capito che ce la potevo fare”. Qualcuno a cui si è ispirato? “Per ruolo ed appartenenza dico Roberto Donadoni. Innanzitutto Roberto era un’ottima

Orlandini ha sempre avuto Donadoni come modello

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persona. Poi un riferimento per come si muoveva, per come trattava il pallone. Se ci mette che, più o meno, facevamo lo stesso ruolo... il gioco è fatto”. Come allenatore, invece, ecco un nome a sorpresa... “Ottavio Bianchi? Guardi, in Serie A mi ha fatto esordire Frosio: era il 20 gennaio 1991, un’Atalanta-Torino. Chi mi ha fatto fare il salto di qualità, invece, è stato proprio Ottavio Bianchi. Fu lui a volermi all’Inter nel 1994. Le dirò... Mister Bianchi era una persona dura ma leale. Riprendeva me come rimproverava Bergkamp. Senza fare differenze. E questo, per un giovane, vale tantissimo. A livello tattico poi era avanti. Superiore a tanti altri...” Più o meno come il suo successore... “Roy Hodgson? Lasciamo perdere, non voglio parlar male di nessuno. Certo ho avuto allenatori migliori. Hodgson non mi vedeva e non mi faceva giocare. Del resto, il calcio è opinabile...” Dopo Milano andò a Verona. Non fu per lei un passo indietro? “Assolutamente no. Innanzitutto, restavo in Serie A, poi mi aveva voluto personalmente mister Cagni. Ed infatti feci un’ottima annata, sfiorai la nazionale, l’anno dopo andai al Parma. Credo uno dei migliori Parma di sempre...” Mi tolga una curiosità: perché “quel” Parma non ha vinto lo scudetto? “Questione di fame, di cattiveria, di convinzione. Non so, forse l’ambiente, la piazza che non ti mette pressioni... Da una parte è positivo, dall’altra non ti ti dà quella spinta necessaria per vincere. Per arrivare. Eppure, quel biennio 97-99, prima con Malesani poi con Ancelotti, era un Parma fortissimo. Fatto di grandi campioni. Eppure...” Cattiveria, convinzione, mi ricordano qualcuno... Lei, ad esempio: ha più dato o ricevuto dal calcio? “Lei vuol dire se potevo fare una carriera migliore? Cominciamo col ricordare che il mio


Si ringrazia Panni per la gentile concessione delle immagini

sogno l’ho realizzato. Qualsiasi bambino, quando gioca con gli amici, sogna di giocare in Serie A. Meglio se nell’Inter, nel Milan... Io ce l’ho fatta. Poi, è ovvio, con la testa di oggi avrei fatto di più. Ma non perché non mi allenavo, oppure non mi comportavo da professionista. Forse mi è mancata una certa costanza mentale, forse in certo momenti mi sono un po’ abbattuto, non ho saputo reagire... Per fare una grande carriera si devono incastrare tante cose. Comunque, se voleva una risposta, si: avevo le qualità per fare una carriera migliore. Ma io sono contento di quello che ho fatto”. Dopo aver appeso le scarpe al chiodo, comincia ad allenare. Spesso lavorando con i giovani. Le piace il calcio di oggi? “Non molto. C’è un sistema che dovremmo combattere. Il sistema del business, dei procuratori... ci sono troppi interessi. Io impazzisco quando i bambini si illudono, gli dicono che avranno un grande avvenire. Ma come si fa a dire cose simili? Ad illudere un bambino in quel modo? Per non parlare dei genitori: io con loro sono sempre stato sincero, diretto, in otto anni di settore giovanile al Francavilla non ho mai illuso nessuno. E soprattutto ho sempre messo al primo posto la meritocrazia. Se sei figlio dell’avvocato, del poliziotto, non mi interessa. Con me, se sei bravo... giochi. Sennò, arrivederci e grazie”. Ed infatti oggi Pierluigi Orlandini non allena... “Da quest’anno ho fatto una scelta diversa: insegno tecnica calcistica. Mi chiamano nelle scuole calcio, particolarmente della Puglia, dove risiedo. Vado dove mi cercano. E, mi creda, è una grande soddisfazione. Poi se un giorno mi offriranno un progetto serio, credibile, dove non mi viene imposto niente, se ne riparla. Ma per adesso...”

Lei ha un figlio 17enne. Non gioca a calcio? “Per prima cosa, voglio ricordare Gabriele, il mio secondo figlio nato pochi mesi fa, purtroppo senza vita. È stato un dolore immenso. Per me e per mia moglie Gabriele è un angelo che ci protegge da lassù e vive dentro di noi. Il primo si chiama Nicolò. Gioca, ma a livello amatoriale. Avrebbe voluto giocare da professionista dove allenavo io, ma secondo me non era pronto”. Non deve essere stato facile dirglielo... “È stata dura, molto dura. Una delle cose più difficili che mi siano capitate. Dovergli dire che il calcio, quello vero, non faceva per lui. Ma io l’ho fatto per il suo bene. Non l’ho illuso, gli ho detto la verità. Dovevo farlo giocare solo perché era il figlio dell’allenatore? No, mi spiace. Io non sono così...” Chiudiamo con la beneficenza. Un (golden) gol ti salva la vita, ma nel calcio le amicizie importanti salvano tante vite... “Se si riferisce alla “Bobo Summer Cup”, sono d’accordo con lei. Con Vieri siamo rimasti amici (insieme hanno vinto quel famoso europeo del ‘94 ndr.) negli ultimi due anni ho sempre partecipato. È una causa importante, è giusto ricordarsi della gente che soffre. Poi faccio parte della “Nazionale dell’amicizia”, un progetto nato a Torino, grazie al quale raccogliamo fondi per bambini. Andiamo negli ospedali, ci vestiamo come super eroi, insomma... ci diamo da fare”. Scusi, ancora una: perché non commenta le partite in TV? Perché non fa l’opinionista? Lo fanno tutti, e la chiacchera non le manca... “Perché non mi piace chiedere. Quando te l’ho fatto capire, te l’ho chiesto una, due volte, per me è più che sufficiente. Non vengo a mendicare un posto, un ruolo. Non fa parte del mio carattere. So che nel calcio non funziona così, ma dall’intervista si dovrebbe aver capito come la penso. O no?” Si è capito perfettamente. E a noi, Pierluigi Orlandini da San Giovanni Bianco, piace anche per questo.

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IO C L A C I D E I STOR

Credit Foto: Sporting Clube de Braga

Speciale Intertoto di Luca Gandini

INTERTOTO, LA COPPA DEI SENZA-COPPA 80


Terza ed ultima puntata dedicata alla meno rinomata delle competizioni europee, la Coppa Intertoto UEFA, che dopo 14 edizioni e 35 titoli assegnati va in pensione senza essere mai davvero entrata nel cuore dei tifosi. 2004: LILLE, SCHALKE 04 E VILLARREAL Dopo le soddisfazioni raccolte nei sei anni precedenti, con le vittorie di Bologna, Juventus, Udinese e Perugia e con le finali raggiunte dal Brescia e dallo stesso Bologna, nel 2004 l’Italia decide di dare forfait. Non mancano però gli spunti interessanti in questa decima edizione della Coppa Intertoto UEFA. È infatti l’estate in cui la Grecia vince il Campionato Europeo dopo aver sconfitto in finale il Portogallo padrone di casa. Tempo poche settimane, ed ecco che un epilogo simile si ripete anche nella meno prestigiosa delle competizioni europee per club, con i portoghesi dell’União Leiria che all’ultimo atto vengono battuti sul proprio campo e vedono così svanire il primo titolo internazionale della propria storia. Stavolta i carnefici non sono greci, bensì i francesi del Lille, che dopo lo 0-0 dell’andata al “Lille Métropole”, al ritorno sbancano il “Dr. Magalhães Pessoa” con il 2-0 maturato nei tempi supplementari. I transalpini non vantano acclamati fuoriclasse, ma sono un collettivo affidabile la cui qualità sarà certificata sia dalla successiva avventura in

Coppa UEFA, con il raggiungimento degli ottavi di finale, sia, soprattutto, dal 2° posto in Ligue 1. Seconda estate consecutiva da incorniciare per i tedeschi dello Schalke 04. Il club allenato da Jupp Heynckes festeggia il centenario dominando l’Intertoto con 6 vittorie in 6 partite ed esibendo assi come l’attaccante brasiliano Aílton e il difensore serbo Mladen Krstajić, entrambi freschi campioni di Germania col Werder Brema, e come il ruvido mediano Christian Poulsen, protagonista poche settimane addietro della famigerata rissa con Francesco Totti durante la gara tra Italia e Danimarca all’Europeo. In Coppa UEFA lo Schalke 04 non farà poi sfracelli, uscendo ai sedicesimi seppur con il quotato Shakhtar Donetsk, ma in Bundesliga si piazzerà 2° dietro al Bayern Monaco. Si riconferma padrone

La vittoria del Villarreal passa dai piedi di un giovanissimo Cazorla, futura stella della Spagna

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ALCIO

STORIE DI C

Speciale Intertoto dell’Intertoto anche il Villarreal. Gli spagnoli hanno una squadra forse ancora più forte rispetto all’edizione 2003. Ai pilastri Pepe Reina, Marcos Senna e Sonny Anderson si sono aggiunti il raffinato fantasista argentino Juan Román Riquelme e l’altro argentino Sebastián Battaglia, mediano già vincitore di 3 Coppe Libertadores e 2 Intercontinentali con il Boca Juniors, mentre inizia a farsi prepotentemente spazio il giovanissimo jolly di centrocampo Santi Cazorla, futuro bi-campione d’Europa con la Spagna nel 2008 e nel 2012. Nella finale tutta spagnola, il Sottomarino Giallo supera ai calci di rigore l’Atlético Madrid, a cui non bastano l’esperto “Cholo” Simeone e il “Niño” Fernando Torres. Il Villarreal sarà poi protagonista di un’ottima Coppa UEFA, raggiungendo i quarti di finale, e di un’eccellente Liga, con il 3° posto alle spalle soltanto delle regine Barcellona e Real Madrid. Da dimenticare, invece, l’Intertoto del Borussia Dortmund, club tedesco campione d’Europa nel 1996/97, crollato già al terzo turno con i belgi del Genk. Fanno un po’ meglio i connazionali dell’Amburgo, pure loro campioni d’Europa nel 1982/83, che in semifinale si arrendono all’inarrestabile Villarreal.

2005: OLYMPIQUE MARSIGLIA, AMBURGO E LENS È questa l’edizione forse più prestigiosa della Coppa Intertoto UEFA. Tra le 61 partecipanti spiccano infatti i nomi dell’Amburgo, dell’Olympique Marsiglia e del Borussia Dortmund, società che vantano in bacheca una Champions League ciascuna. C’è poi il Valencia, che solo nel 2004 ha centrato la doppietta Coppa UEFA-Supercoppa Europea; c’è il Göteborg, blasonata compagine svedese vincitrice di 2 edizioni della Coppa UEFA negli anni ‘80, e c’è pure il Deportivo La Coruña, semifinalista in Champions League nel 2003/04 dopo aver travolto ai quarti i campioni uscenti del Milan. E l’Italia? L’I-

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Heynches, uno che ha avuto un gran feeling con l’Intertoto

talia torna in pista ed è rappresentata dalla Lazio. Il primo anno alla presidenza di Claudio Lotito ha portato in eredità uno scialbo 10° posto che ora obbliga la squadra a rientrare anticipatamente dalle vacanze per affrontare l’esordio nel terzo turno dell’Intertoto. L’allenatore Delio Rossi può tuttavia contare su ottimi elementi come Paolo Di Canio, Goran Pandev, Fabio Liverani, César e Roberto Muzzi; il problema è che dopo aver liquidato i modesti finlandesi del Tampere United, il sorteggio per la semifinale è il peggiore possibile, visto che gli avversari dell’Olympique Marsiglia sono considerati tra i grandi favoriti per la vittoria. I francesi non possono schierare il portiere della Nazionale, Fabien Barthez, squalificato, ma hanno un paio di giovani di cui si sentirà parlare. Uno è l’esterno di centrocampo Samir Nasri, 18 anni appena compiuti; l’altro è il formidabile fantasista d’attacco 22enne Franck Ribéry. Non c’è storia: la Lazio rimane in vita dopo l’1-1 dell’”Olimpico”, ma al “Vélodrome” 3 gol in 5 minuti firmati da


Mamadou Niang, Andrés Mendoza e dallo stesso Ribéry danno all’OM il passaggio del turno. In finale c’è spazio per un altro capolavoro: il Deportivo La Coruña si impone 2-0 nell’andata al “Riazor”, ma a Marsiglia l’Olympique ribalta tutto, con un poderoso 5-1 che permette ai transalpini di tornare in quella Coppa UEFA vista sfumare in finale sia contro il Parma nel 1999 che contro il Valencia nel 2004. È una sfida di alto livello anche quella che all’ultimo atto contrappone Valencia e Amburgo. Nonostante un parco-attaccanti di notevole spessore, con Patrick Kluivert, David Villa e il nostro Marco Di Vaio, gli spagnoli non sfondano all’andata in Germania, anzi, sono beffati al 51° dal colpo di testa vincente del bosniaco Sergej Barbarez. Al ritorno al “Mestalla” la ferrea difesa tedesca non tradisce, e così il prezioso 0-0 consegna all’Amburgo un nuovo trofeo europeo 22 anni dopo la Coppa dei Campioni strappata alla Juventus ad Atene. È un’estate da ricordare anche per il Lens, che vince il suo primo titolo internazionale battendo in finale i rumeni del Cluj, forse un po’ stanchi dopo essere partiti addirittura dal primo turno a fine giugno. La stella dei francesi è il mediano maliano Seydou Keita, futuro asso pigliatutto nel Barcellona di Pep Guardiola, ma anche l’altro mediano Alou Diarra farà un’ottima carriera, nobilitata dalla finale mondiale giocata con la Francia a Berlino 2006. La Coppa UEFA 2005/06 non sorriderà però alle tre regine dell’estate. Il Lens verrà eliminato ai sedicesimi dall’Udinese, mentre l’Amburgo e l’Olympique Marsiglia cadranno agli ottavi per mano rispettivamente di Rapid Bucarest e Zenit San Pietroburgo. Il grande flop dell’Intertoto è rappresentato ancora una volta dal Borussia Dortmund, estromesso al terzo turno dai cechi del Sigma Olomouc. Neanche il Newcastle del bomber Alan Shearer supera l’esame estivo, venendo nettamente battuto in semifinale dal Deportivo La Coruña.

2006: NEWCASTLE Anno nuovo e formula nuova per la dodicesima edizione della Coppa Intertoto. Il prestigio della manifestazione non decolla, e così la UEFA decide di intervenire sfoltendo il numero delle partecipanti ed accorciando considerevolmente i tempi di svolgimento del torneo. Sono ora 49 e non più 61 i club iscritti, mentre i 5 turni ad eliminazione diretta con gare di andata e ritorno che eleggevano le vincitrici vengono ridotti a 3. In ciascun turno le squadre sono suddivise in 3 ulteriori sottogruppi in base alla regione geografica di appartenenza (Nord, Centro/ Est e Sud/Mediterraneo), una novità introdotta da quest’anno che prevede che si affrontino sempre e solo formazioni della stessa fascia territoriale, in modo tale da ridurre al minimo i costi delle trasferte. Le 11 vincenti del terzo turno sono tutte promosse in Coppa UEFA, ma non più al primo turno, bensì al secondo turno preliminare, ovvero la fase immediatamente precedente. Ne traggono vantaggio soprattutto i club delle Federazioni meglio piazzate nel ranking UEFA, i quali entrano in gara proprio dal terzo turno e hanno quindi bisogno di 2 sole partite per centrare l’obiettivo. La squadra che poi riuscirà a fare più strada in Coppa UEFA verrà dichiarata campione della Coppa Intertoto e riceverà il trofeo. Chiariamolo subito: non è un’edizione memorabile. Il calcio italiano, scosso alle fondamenta dallo scandalo “Calciopoli”, dichiara forfait. Inoltre, giocandosi tra il 17 giugno e il 22 luglio, e dunque in concomitanza con il Mondiale di Germania, molti club sono costretti a rinunciare ai propri giocatori impegnati in Nazionale. A tenere alto il livello del torneo ci prova il Villarreal, semifinalista nella Champions League 2005/06 e forte di individualità del calibro di Alessio Tacchinardi, Robert Pirès e Diego Forlán, oltre che dell’autorevole guida tecnica di Manuel Pellegrini. Come non detto: gli spagnoli

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ALCIO

STORIE DI C

Speciale Intertoto falliscono in pieno le due sfide con il Maribor e in Coppa UEFA vanno gli sloveni. Non sbagliano, invece, l’Auxerre del promettente laterale Bacary Sagna, l’Olympique Marsiglia, nonostante l’assenza del nazionale Franck Ribéry, e l’Hertha Berlino del futuro milanista Kevin-Prince Boateng. Superano l’esame Intertoto anche gli olandesi del Twente, gli svizzeri del Grasshoppers, gli austriaci del Ried, i turchi del Kayserispor, i danesi dell’Odense e i ciprioti dell’Ethnikos Achnas. La parte del leone la fanno però gli inglesi del Newcastle. Alan Shearer si è ritirato, ma i Magpies possono comunque schierare pedine di valore come il portiere irlandese Shay Given, il terzino nigeriano Celestine Babayaro, il fantasista turco Emre Belözoğlu e il giovane esterno di centrocampo James Milner. La pratica Intertoto è superata in scioltezza a spese dei norvegesi del Lillestrøm, e anche la successiva avventura in Coppa UEFA è soddisfacente, con il conseguimento degli ottavi di finale. Lì il Newcastle si arrende agli olandesi dell’AZ Alkmaar allenati da Louis van Gaal, ma, visto che tra le 11 reduci del torneo estivo ha saputo fare più strada, viene automaticamente dichiarato campione della Coppa Intertoto 2006 e il capitano Scott Parker può così esibire il meritato trofeo.

Christian Maggio e l’esperto attaccante Vincenzo Montella. Il sorteggio è benevolo per i genovesi, che difatti al terzo turno si sbarazzano senza problemi dei bulgari del Cherno More. Non deludono neppure le altre big in gara. L’Atlético Madrid di Diego Forlán e del “Kun” Agüero soffre ma alla fine piega i rumeni del Gloria Bistriţa. Si qualificano in Coppa UEFA, inoltre, i francesi del Lens, allenati dall’intramontabile Guy Roux; gli inglesi del Blackburn, trascinati dai gol di Benni McCarthy; i portoghesi dell’União Leiria, gli austriaci del Rapid Vienna, gli svedesi dell’Hammarby, i danesi dell’Aalborg, i rumeni dell’Oțelul Galați e i kazaki del Tobol. Vincono e convincono anche i tedeschi dell’Amburgo, che domano agevolmente i moldavi del Dacia grazie a un organico di valore che ha i punti di forza nel difensore belga Vincent Kompany, nell’attaccante croato Ivica Olić e negli olandesi Joris Mathijsen, Nigel de Jong e Rafael van der Vaart, rispettivamente centrale difensivo, mediano e trequartista che solo tre anni dopo porteranno la Nazionale al secondo posto mondiale in Sudafrica. Per la conquista della Coppa Intertoto è un duello a distanza tra Atlético Madrid e Amburgo. Entrambe riescono ad approdare fino ai sedicesimi di Coppa UEFA, ma mentre gli spagnoli cedono il passo al Bolton, i

2007: AMBURGO Resta invariata la formula della tredicesima edizione del torneo. L’unica novità riguarda il numero dei club partecipanti, che sale da 49 a 50 in virtù della secessione del Montenegro dalla Serbia e che porta il primo turno ad avere un accoppiamento in più. Tra i 49 Paesi rappresentati si rivede l’Italia, che iscrive la nona classificata del campionato 2006/07, ovvero la Sampdoria. I blucerchiati sono affidati a Walter Mazzarri e hanno come giocatori più rappresentativi l’inesauribile esterno destro

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Credit Foto HSV-Museum, Amburgo Anche l’Amburgo ha vinto l’Intertoto


tedeschi superano lo Zurigo e centrano gli ottavi. Lì non possono nulla nel derby contro il Bayer Leverkusen, ma, essendo arrivati più lontano, si aggiudicano di diritto il trofeo. L’Amburgo raggiunge così a quota 2 vittorie i connazionali dello Stoccarda e dello Schalke 04 e gli spagnoli del Villarreal: un primato destinato a non essere più eguagliato. Non ha invece lasciato il segno la Sampdoria, il cui cammino in Coppa UEFA si è prematuramente arenato al primo turno con i danesi dell’Aalborg dopo l’illusorio successo sui croati dell’Hajduk Spalato al secondo turno preliminare.

2008: SPORTING BRAGA È il 30 novembre 2007 quando, con uno scarno comunicato apparso sul proprio sito ufficiale, la UEFA annuncia che quella del 2008 sarà l’ultima edizione della Coppa Intertoto. A partire dalla stagione 2009/10, il torneo estivo verrà di fatto sostituito dai 4 turni preliminari che precederanno la fase a gironi della rinnovata Europa League. Non cambia, però, la formula di questa ultima edizione, con i soliti 3 turni in programma tra la fine di giugno e la fine di luglio a cui partecipano 50 club suddivisi in 3 distinte fasce geografiche. Sale invece a 50 il numero delle Federazioni rappresentate: un record mai toccato in precedenza. L’Italia, come gli altri Paesi più avanti nel ranking, parte dal terzo turno. Lo fa con l’ottava forza del campionato 2007/08, ovvero il Napoli, ambiziosa società che il presidente Aurelio De Laurentiis mira a riportare stabilmente in Europa dopo anni di vacche magre. Gli avversari, i greci del Panionios, non sono granché, e così ai ragazzi di Edy Reja basta un doppio 1-0 firmato rispettivamente da Mariano Bogliacino e da Marek Hamšík per tornare in quella Coppa UEFA già vinta nel 1988/89. Stavolta i sogni di gloria hanno vita breve, perché, dopo aver eliminato gli albanesi del Vllaznia, Paolo Cannavaro

e compagni sono costretti alla resa dal più esperto Benfica. Oltre al Napoli, hanno superato la prova Intertoto anche gli inglesi dell’Aston Villa, in cui militano l’ex difensore milanista Martin Laursen e l’ex attaccante romanista John Carew; i tedeschi dello Stoccarda, forti del futuro campione del mondo Sami Khedira; gli spagnoli del Deportivo La Coruña dell’esperto fantasista Juan Carlos Valerón e dell’emergente terzino brasiliano Filipe Luís; i portoghesi dello Sporting Braga, abili a travolgere i turchi del Sivasspor con un complessivo 5-0; e poi ancora i francesi del Rennes, gli austriaci dello Sturm Graz, gli svizzeri del Grasshoppers, i rumeni del Vaslui, i norvegesi del Rosenborg e gli svedesi dell’Elfsborg. La lunga corsa a ostacoli della Coppa UEFA vede emergere alla distanza Aston Villa, Stoccarda, Deportivo La Coruña e Sporting Braga, le uniche capaci di raggiungere i sedicesimi. Lì, un po’ a sorpresa, le prime tre capitolano, mentre i portoghesi hanno il merito di superare lo Standard Liegi e di involarsi verso gli ottavi, conquistando così l’ultima edizione della Coppa Intertoto UEFA. Il Paris Saint-Germain mette poi fine alla marcia dei ragazzi di Jorge Jesus, ma poco importa: dopo i 12 successi francesi, gli 8 tedeschi, i 5 spagnoli, i 4 italiani e inglesi, ora anche il Portogallo può iscrivere per la prima volta il proprio nome nell’albo d’oro del torneo, affiancando la Danimarca. Resta invece ineguagliata la prodezza del Bordeaux di Zinédine Zidane, l’unica squadra promossa dall’Intertoto ad aver raggiunto la finale di Coppa UEFA (era il 1995/96). Parla francese anche il re dei bomber della manifestazione, ovvero Stéphane Guivarc’h, con 17 gol segnati nell’arco di 3 edizioni con le maglie di Rennes e Auxerre. Un applauso, infine, al grande Jupp Heynckes, il solo allenatore ad aver vinto 2 titoli, nel 2003 e nel 2004, entrambe le volte alla guida dello Schalke 04. Fine terza parte

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n o d i b i e d o Alfabet Igor Dobrovolski

di Thomas Saccani

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IO NON SONO ZAVAROV L’incredibile storia di Dobrovolski, il sovietico del Genoa…

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na Coppa dei Campioni, una Ligue 1 e un oro olimpico. Di cosa si tratta? Dei tre, prestigiosi, successi sportivi, da calciatore, di Igor Dobrovolski. Tuttavia, come dice l’antico detto: “Non è tutto oro ciò che luccica”. Andiamo con ordine. Classe 1967, Dobrovolski, nell’allora URSS, è considerato, sin da giovane, un “centrocampista moderno”, quello che fa girare la squadra con i propri lampi di classe. Con la casacca della Dinamo Mosca, mostra qualità importanti. A soli 21 anni, alle Olimpiadi di Seul, è protagonista della cavalcata dell’URSS che si chiude con la conquista della medaglia d’oro. è uno degli artefici del successo sovietico, con ben sei reti a referto. Un diamante grezzo, destinato a portare il calcio sovietico ai massimi vertici d’Europa. Nel 1990, eccolo difendere i colori dell’amata patria a Italia 1990. La nazionale sovietica non fa un gran figurone (esce alla fase a gironi) ma il buon Igor riesce comunque a farsi notare: segna il gol del definitivo 4-0 ai danni del Camerun e, soprattutto, convince l’allora patron del Genoa Spinelli ad investire su di lui. è il grande colpo del Grifone dell’estate del Mondiale italiano. Pur di portarlo in Serie A, Spinelli sborsa una cifra impo-

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doni

ei bi Alfabeto d Igor Dobrovolski

nente per la casse del club, ossia 1,5 miliardi di vecchie lire. Un acquisto straordinario, di levatura internazionale. Elegante, con grandi doti e con soli 23 anni sulla carta d’identità. Un vero affare. Beh, non proprio… Pochi giorni l’ufficializzazione del suo passaggio dalla Dinamo Mosca al Genoa, arriva la doccia gelata. Dall’URSS non se ne va nessuno, se non al compimento del 28esimo anno di età. Il club ligure non demorde e aspetta l’arrivo di Igor, sicuro che non ci saranno problemi ma l’attesa si prolunga in maniera estenuante. L’1 settembre 1990, come riporta La Repubblica, la questione pare risolta. La Dimod, società che ha in gestione i calciatori sovietici in procinto di trasferirsi all’estero, fa sapere che è tutto risolto. Al termine del campionato sovietico, Dobrovolski potrà giocare in Italia. La nuova data per l’approdo in Serie A viene fissato: 1 ottobre 1990. Purtroppo, le rassicurazioni della Dimod saranno disattese. Dobrovolski, l’1 otto-

bre, non si materializza nella cittadina ligure. Quando, ormai, il Genoa ha definitivamente rinunciato al centrocampista, arriva, quasi a sorpresa, il transfer dalla Dinamo Mosca (a novembre). Dobrovolski è libero di lasciare l’URSS e iniziare la sua avventura nel calcio italiano. Beh, non proprio… Stanco di attendere la risoluzione del caso diplomatico con la madre URSS, Spinelli si è già mosso: ha preso il brasiliano Branco come terzo e ultimo straniero (all’epoca il limite di giocatori non italiani era bloccato a tre). Con Aguilera, Skuhravy e Branco in rosa, per il sovietico non c’è spazio. In fretta e furia si cerca una sistemazione. Ci sarebbe il Porto ma non se ne fa nulla. Ironia della sorte, proprio al termine del suo ultimo anno alla Dinamo Mosca, viene votato giocatore dell’anno in URSS. Nel mese di gennaio del 1991, sbarca in Spagna, al CD Castellon, squadra che milita in Primera Division. Va bene ma non benissimo (la squadra retrocede e non

IL MISTERO DEL DOPPIO GIALLO A modo suo, Igor Dobrovolski è nella storia del calcio italiano. Merito di una mancata espulsione che è diventata leggendaria. Settima giornata di campionato, stagione 1992/93. Siamo ad ottobre inoltrato, al Ferraris si presenta lo spettacolare Pescara di Galeone. Giorgi, nell’undici iniziale, inserisce anche il sovietico. L’avvio del Grifone è da urlo. Dopo solo 16’, il Genoa è avanti per 3-0 con la terza rete firmata proprio dal sovietico, bravo ad infilare, con un bel tocco vellutato, il portiere pescarese Savorani. Partita chiusa? Tutt’altro. Il Pescara riesce, incredibilmente, a rimontare, portandosi sul 3-3 al termine della prima frazione di gioco. Nella ripresa accade l’inimmaginabile. L’arbitro Massimo Chiesa di Milano punisce con un giallo Dobrovolski, reo di aver simulato in area di rigore degli abruzzesi. Un giallo pesante, visto che il “9” del Grifone è già stato ammonito. Doppio giallo, espulsione per somma di ammonizioni, recita il regolamento. Bene, Chiesa “si dimentica” di espellere Dobrovolski. Il tecnico del Genoa Giorgi lo sostituisce prontamente, prima che qualcuno possa avvisare il direttore di gara della tremenda e inspiegabile cantonata presa. Risultato? Il Genoa trova il 4-3 con Onorati e vince la gara, giocando tutti i 90’ più recupero in 11 uomini. Un caso unico, irrepetibile. Piccola curiosità: il Pescara, alla luce del marchiano errore di Chiesa, decide di fare ricorso per invalidare il risultato della partita. Si cerca di dimostrare come l’arbitro fosse “in stato confusionale”. Casarin, alla nota trasmissione sportiva televisiva “Il Processo”, parla di “… errore tecnico da parte di Chiesa, non di valutazione”. Il documento, di cinque pagine, preparato dagli avvocati della società Pescara viene presentato al Giudice Sportivo che, comunque, respinge il ricorso. Dobrovolski, l’unico giocatore ad essere stato ammonito due volte in una gara di Serie A, senza essere espulso.

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tornerà più nel massimo campionato spagnolo). Terminata la “parentesi iberica”, sembra, finalmente, giunto il suo momento. Niente da fare. Altro prestito, questa volta al Servette, in Svizzera. Si diverte (15 reti in 23 gare complessive) ma non si sente a proprio agio. Il massimo campionato svizzero non è ciò che vuole. Dopo due anni di tribolati rinvii, nell’estate del 1992, è ufficialmente nella rosa del Genoa. Si presenta, di fatto con due anni di ritardo sulla propria tabella di marcia, in pompa magna: “Non ho paura di nulla, non sono Zavarov”, racconta, in luglio, a La Gazzetta dello Sport. è pronto a tutto per dimostrare di valere il calcio italiano. Nel frattempo, la panchina del Grifone è stata consegnata nelle mani di Giorgi che, parlando al Secolo XIX, del sovietico, spiega: “è un giocatore offensivo, deve ordinare le idee in difesa”. Non proprio un giudizio edificante. Eppure, il ragazzo non si tira indietro. Nel ritorno della gara di Coppa Italia con l’Ancona (2-1 per i biancorossi all’andata con il sovietico sostituito, dopo 63’ anonimi), a Marassi, segna una doppietta nella vittoria dei liguri (5-1 ai tempi supplementari). Gol inutili. Giorgi non lo vede e lo lascia spesso in panchina. Appare, magicamente, nella sfida di campionato del 25 ottobre 1992 contro il Pescara. Il Genoa vince 4-3 e Dobrovolski segna una rete ma, dopo 54’, viene sostituito. La giornata seguente è titolare nel Derby della Lanterna. La Sampdoria si impone 4-1 e il sovietico è un fantasma. La sua esperienza italiana, di fatto, è già al capolinea. Viene ceduto, ancora una volta all’O.Marsiglia. Trova pochissimo spazio anche nelle fila dei marsigliesi (una manciata di gare con una rete) ma si consola vincendo Ligue 1 e Coppa dei Campioni. Tornato a Genova e compreso che nessuno ha intenzione di dargli una chance, fa ritorno nell’amata patria, alla sua Dinamo Mosca. Più ombre che luci, tuttavia qualcuno torna a scommettere su di lui. Si tratta

dell’Atletico Madrid. Con i colchoneros arriva un’altra delusione: 19 presenze e un solo gol. Prova a rimettersi in gioco in terra tedesca, al Fortuna Dusseldorf. Ci resta per tre stagioni, senza mai entusiasmare. A soli 32 anni, nel 1999, decide che è giunto il momento di dire basta con il calcio giocato. Dopo qualche anno di assestamento, in cui sperimenta altri mestieri, torna sul campo verde, questa volta indossando i panni dell’allenatore ma non solo. Al Tiraspol, nel 2005, lo ingaggiano come allenatore/giocatore. Arriva anche a guidare una nazionale, quella moldava (due “regni”, dal 2007 al 2010 e dal 2015 al 2017, con pochissime soddisfazioni e ancor meno vittorie) ma è con il Dacia Chisinau, società proprio del campionato moldavo, che si esalta. Nella stagione 2010/11, il Dacia Chisinau conquista il titolo moldavo, ad oggi l’unico trofeo dei Lupi, così sono chiamati i giocatori del Dacia Chisinau. Un traguardo eccezionale per Igor che, almeno in Moldavia, diventa un eroe. Riesce, infatti, a spezzare l’egemonia del club Sheriff Tiraspol, vincitore dei precedenti 10 campionati. Peccato che la società venga, nel 2017, ritirata dal massimo campionato moldavo. Nessun problema, le ultime notizie danno Igor nuovamente in sella. è stato messo sotto contratto, insieme a diversi ex giocatore del Dacia Chisinau, dalla Dinamo-Auto. Recentemente si è imposto con un secco 3-1 ai danni del Sfintul Gheorghe (reti di Boychuk, Janu e Rebenja per la squadra di Dobrovolski). Nel momento in cui scriviamo, la Dinamo-Auto è quinta in classifica (su otto squadre che partecipano al massimo campionato moldavo), a -31 dalla capolista, ossia il solito Sheriff Tiraspol. Non proprio il massimo per uno che, nel 1990, era il miglior giocatore dell’allora URSS… Eppure, guardando al suo palmares, soprattutto da calciatore, brillano un oro olimpico, una Coppa Campioni e una Ligue 1…

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

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Torino - Roma di Luca Savarese

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1993, Mondonico vs Boskov, una finale di Coppa Italia leggendaria‌


Credit Foto - Liverani

TORO LOCO È TUA LA COPPA

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a finale di Coppa Italia del 1993 tra il Torino e la Roma non fu solo un doppio confronto intenso e ricco di emozioni, ma anche Emiliano Mondonico contro Vujadin Boskov, due tra gli allenatori più umani e sapienti che il calcio abbia conosciuto. All’andata sembra fatta per i granata che piegano i giallorossi per 3 a 0. Al ritorno non bastano tre rigori di Giannini, la coppa la alza il Toro. Anche se non si chiamava ancora Tim Cup, anche se non c’erano i nomi sulle spalle delle magliette e né tantomeno il calcio spezzatino, la Coppa Italia di fine anni Novanta, regalava ugualmente emozioni. Non era ancora tempo dell’odierno monopolio juventino, così capitava che ogni tanto, qualche cenerento-

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Torino -Roma

la, indossava le scarpine del coraggio, l’abito giusto e puff diventava regina. Nel 1992 fu la volta del Parma. Scala in panchina ed una scalinata di adrenalina in campo: Juve battuta, crociati in delirio. Nel 1997 sarà il Vicenza, targato Francesco Guidolin, a zittire in finale il Napoli. E nel 1993? Ci pensò il Torino, che all’ultimo atto della coppa nazionale tirò un brutto scherzetto alla Roma. Si, la Coppa Italia era quel circuito dove le provinciali provavano ad impennare ed ogni tanto, ci riuscivano. Altro che peso, come spesso le piccole la concepiscono oggi, i cui presidenti sempre più impegnati a far fronte a risultato tecnico

e bilanci devono gioco forza fare delle scelte. La Coppa Italia era essa stessa spesso una soluzione, mica un problema. Chi la giocava e non aveva le stimmate della grande, ne approfittava, la viveva come vetrina, per costruirsi una grandezza alternativa, controcorrente, rispettabilissima. Estate 1992, l’Ancona per la prima volta sale in massima serie. Sul piano regolamentare, fremono novità. Restano i due punti per la vittoria, ma ecco una norma che da tempo si invocava: da quest’anno il portiere non potrà più prendere il retropassaggio di un compagno con le mani; tranne se effettua-

I TABELLINI DELLA FINALE

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12/06/1993 – Stadio Delle Alpi

19/06/1993 – Stadio Olimpico

TORINO – ROMA 3-0 (1-0) Torino: Marchegiani, Bruno, Mussi, Fortunato, Annoni (al 46’ Cois), Fusi, Sordo (al 77’ Sergio), Venturin, Aguilera, Scifo, Silenzi. All. Mondonico. Roma: Fimiani, Garzya, Petruzzi (al 46’ Muzzi), Bonacina, Benedetti, Aldair (al 64’ Comi), Mihajlovic, Hässler, Piacentini, Giannini, Rizzitelli. All. Boskov. Arbitro: Amendolia di Messina. Marcatori: Aut.Benedetti 17’, Cois 53’, Fortunato 78’ Spettatori: 43.732 paganti per un incasso di 1.330.048.000 lire. Ammoniti Petruzzi, Annoni, Fusi, Marchegiani e Sergio.

ROMA – TORINO 5-2 (1-1) Roma: Fimiani, Garzya, Piacentini (al 93’ Salsano), Bonacina (al 90’ Muzzi), Benedetti, Comi, Mihajlovic, Häßler, Carnevale, Giannini, Rizzitelli. All.: Boskov. Torino: Marchegiani, Bruno, Mussi, Fortunato, Cois, Fusi, Sordo (al 90’ Falcone), Venturin, Aguilera (al 77’ Casagrande), Scifo, Silenzi. All.: Mondonico. Arbitro: Sguizzato di Verona. Marcatori: Giannini 22’ rig, 50’ rig, 55’ rig (R), Silenzi 45’53’ (T), Rizzitelli 47’ (R), Mihajlovic 65’ (R) Spettatori: 63.646 per un incasso di lire 2.487.010.000 Ammoniti Giannini, Sordo, Benedetti, Carnevale, Silenzi e Bonacina.


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

to di testa. Comanda sempre il Milan degli invincibili made by Fabio Capello. Al gran bisiaco, non ce n’è, gli piacciono i titoli. A fine campionato, festeggerà infatti un altro scudetto ma perderà una Coppa campioni, finita al Marsiglia anche se con l’illecito. Ma questa è un’altra storia. La nostra, di Coppa Italia, parte da una data: 26 agosto 1992 e dalla Brianza. Monza, stadio Brianteo di fronte Monza e Torino. I ragazzi di Emiliano Mondonico ripartono dopo essersi fermati ad un passo dalla Coppa Uefa, persa nella doppia finale contro l’Ajax, ma senza aver mai perso tra andata e ritorno e con un fallo su Cravero che fece salire al cielo mani, rabbia e quella sedia del mister di Rivolta d’Adda. Ma il Mondo, non si è fermato mai un momento. Piuttosto che piangere sulla coppa andata, sotto di buzzo buono verso la nuova stagione che inizia. Con questa umiltà il Toro va a Monza. Silenzi, Aguilera e Sordo regalano i primi tre squilli di un nuovo inizio. È qui che i granata capiscono che le scorie per quanto vissuto contro i lancieri ora possono diventare scintille per una nuova impresa. Se così faceva ripartire i suoi Mondonico, anche in casa Roma le cose fremevano. In fatto di personalità, il labbro di Novisad, al secolo Vujadin Boskov, non era secondo a nessuno. L’anno prima i giallorossi, con Ottavio Bianchi in panchina, erano arrivati quinti in Serie A. Ma pesavano le due eliminazioni dalle coppe, maturate sia in Coppa Coppe che in Coppa Italia ai quarti di finale. Ecco perché la

dirigenza voleva adesso cercare di quagliare qualcosa. Così si era deciso di puntare sul tecnico serbo, reduce da sei strepitosi anni doriani, nobilitati da uno scudetto nel 1991. Ma ciò che accomunava mastro Vujadin e il prof Emiliano era lo stesso triste epilogo europeo vissuto l’anno prima. Se per Mondonico la sua ecatombe si chiamava Ajax e quell’Uefa sfumata dopo aver sognato di toccarla, di sollevarla al cielo, per Vujadin un brutto ricordo era rappresentato dal Barcellona e da quella finale, secca, persa a Wembley, dalla sua Samp per merito di un bolide di Ronald Koeman. Insomma, Emiliano e Vujadin erano due profeti. Arrivati l’anno appena trascorso a un passo dai massimi trofei continentali, come l’Uefa e la Coppa dei campioni, adesso erano più famelici che mai, adesso volevano prendersi le loro rivincite, adesso schiumavano della giusta rabbia, quella che non fa nessun male ma costruisce, dalle sconfitte, miniere di altro bene. Anche per la Roma tutto ricominciava dai gradini di Coppa Italia. Mihajlovic, Giannini, Benedetti e Carnevale, lo stesso giorno dell’esordio del Toro nella coppa nazionale, il 26 agosto del 1992, “matavano” il Taranto rispedendolo in Puglia. Probabilmente allenate da altri due signori, Toro e Roma non ripartivano così, con quel piglio. Ma con Emiliano e Vujadin, tutto era sempre a portata di imprese, di sedie volanti, di frasi e paragoni taglienti ed improvvisi. Come quel famigerato “Gullit è come cervo che esce di foresta”, che Boskov disse in riferimento all’asso olandese del Milan. Si, due

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Torino -Roma

IL RICORDO DI FORTUNATO Daniele Fortunato, omen nomen. Ebbe la fortuna e la bravura di essere protagonista di quella squadra, che con mister Mondonico al timone, andò a conquistare la sua quinta e finora ultima Coppa Italia. Daniele, sono passati 25 anni ma se pensi a quella doppia finale contro la Roma, cosa pensi? “Penso che un giorno così non ritorni mai più...Scherzi a parte, quella finale fu un qualcosa di incredibile per il Torino ed unico per me. Rappresentò il momento più alto della mia carriera, ne vado davvero molto fiero. Anche quando ero alla Juve vincemmo coppa Uefa e coppa Italia, ma ebbi un infortunio e partecipai ai trionfi indirettamente. Qui invece ero coinvolto in prima persona ed ho ancora i brividi lungo la schiena”. Gara d’andata, in casa, minuto 78, metti la firma anche tu, le reti diventano tre e si può pensare al ritorno con più serenità “Sì, feci quel gol ma anche l’assist a Cois. Ecco nel calcio non si può mai stare tranquilli, e ne abbiamo una dimostrazione quasi quotidianamente per come vengono ribaltate certe partite, però si quel tre a zero almeno ci permise di respirare, anche se al ritorno...” Infatti al ritorno accade di tutto, 3 rigori di Giannini, la doppietta di Silenzi, che vi permette di sollevare la coppa, insomma un pandemonio di emozioni: “Ogni volta che cadevano quei ragazzi della Roma era rigore, però abbiamo resistito. Il momento più alto toccato dai granata fu quello negli ultimi anni. Credo che quella stagione che abbiamo vissuto e come siamo andati avanti in coppa Italia racconti tutto: mille difficoltà, la sofferenza davvero sempre presente nel nostro menù, percorso travagliato, ma soprattutto, per questo, alla fine bellissimo ed esaltante: battemmo la Lazio ai quarti e la Juve in semifinale”. Nel calcio contano anche i particolari. L’anno prima il Toro perde la finale di Uefa contro l’Ajax senza di fatto mai perdere nel doppio confronto, l’anno dopo, in semifinale di coppa Italia, arriva il derby con la Juve, tua ex squadra prima di vivere anche l’esperienza a Bari. 1 a 1 all’andata e 2 a 2 al ritorno da loro, che in virtù dei gol in trasferta, vi qualifica per la finale “Con la Juve fu un’esperienza quasi da perdere i sensi. Loro avevano un patrimonio tecnico molto alto eppure in finale andammo noi. Il Toro ci mise tutto se stesso, la finale fu solo un di più: la gente era pazza di gioia, avevamo eliminato la Juve, il resto non contava più così tanto...”. La cifra stilistica di quel Toro era Emiliano Mondonico, la sua mano plasmò un po’ tutti voi? “Riesce (Daniele utilizza il presente, quasi per sottolineare che Emiliano in fondo non se n’è mai andato...) ad esprimere il meglio nelle difficoltà. Guarda sono sincero con lui, da giocatore, sapevo che c’era uno che ti poteva dare una mano in panchina. Altri allenatori non mi davano questa sensazione. Recentemente a Rivolta D’Adda abbiamo inaugurato in suo onore un campo sintetico in un oratorio: c’eravamo io, Bruno, Annoni, Lentini, ma c’era soprattutto lo spirito del Mondo. Abbiamo giocato ricordandolo. Io poi con lui ho condiviso davvero molta vita, facevamo le vacanze insieme, sono stato suo collaboratore in varie fasi”. Dopo la finale ci fu la festa e come vi accolsero all’arrivo a Torino: era la quinta coppa Italia, l’ultima era datata 1971…? “Si fu una roba da non credere. Mi ricordo che vedemmo sull’aereo una folla di gente mai vista ed erano tutti lì ad aspettarci. Bellissimo! Credo che rappresentammo il terzo e finora ultimo periodo d’oro del Toro. Ci fu il grande Torino poi quello che vinse lo scudetto nel ‘76 con Pulici e Graziani e poi il nostro”. Un pregio di quel Toro da trasferire in quello di oggi “Il Toro di oggi deve provare ad uscire da un paio di campionati anonimi. Il Toro non si merita undicesimi posti o robe simili, deve sempre provare a qualificarsi per l’Europa. Poi, è chiaro, per vari motivi, non sempre ci si riesce, ma ecco forse lo spirito del nostro Toro farebbe bene al Toro di questi ultimi anni”.

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cervi che uscivano dalle foreste di recenti scottanti sconfitte, erano quel Torino e quella Roma. Il ritorno del secondo turno di Coppa fu una formalità, per entrambe: 1 a 0 del Toro in casa e Monza eliminato. Firma di Pato Aguilera. Tre sonanti reti romaniste, di Caniggia, Mihajlovic e Salsano, allo Iacovone di Taranto. Da subito gli occhi della tigre, Toro e Roma, li avevano mostrati. Certo i rispettivi avversari non erano stati degli ossi duri, però, quello che faceva ben sperare gli ambienti era che la prima tornata di Coppa Italia, fosse stata superata. Nei turni successivi ecco il Bari per il Toro e la Fiorentina per la Roma. Galletti battuti, viola superati con qualche difficoltà in più, visto lo spessore dell’avversario. Ai quarti il percorso di entrambe si tinge d’azzurro-celeste. C’è infatti la Lazio per il Toro mentre la Roma trova il Napoli. Fusi e Scifo, il silenzioso ed indolente belga dalle giocate improvvise e geniali, inchiodano i biancocelesti sul 2 a 2. Questo Toro non fa sconti a nessuno. Un 3 a 2 a Torino spedisce i granata al penultimo atto. Dopo lo zero a zero del San Paolo invece i giallorossi in casa travolgono i partenopei: Roma scatenata, con Carnevale e Tommasino Haessler sugli scudi e goleador. Tra i giallorossi e la finale della coppa nazionale, c’è il Milan, che tremare l’Italia e l’Europa faceva. Ma c’è anche un altro avvenimento. Ci sono date che restano scolpite nella memoria collettiva di uno sport. Ci sono date che dicono un inizio, ci sono date che vanno al di là dei numeri che le compongono. Il 28 marzo 1993, è una di queste date. In campionato è in programma allo

stadio Mario Rigamonti di Brescia, Brescia-Roma. La magica ha ampiamente acquisito la posta piena grazie ai guizzi vincenti di Caniggia e Mihajlovic. È la giornata numero 25 di campionato. Così al minuto numero 87, Vujadin Boskov richiama a sé Ruggero Rizzitelli. Chi lo sostituisce è un ragazzetto romano di belle speranze. Capello mezzo a caschetto e mezzo scombinato, emozione giusta, voglia di spaccare il mondo, totale. Francesco è il suo nome, Totti il suo cognome. La Roma, nella propria faretra, ha una freccia in più. Il ragazzo crescerà e negli anni a venire giocherà con la maglia numero 10. Ma, nei frangenti di quel primo giorno di scuola bresciano, nulla di tutto questo si può prevedere. La Roma deve pensare solo a chiudere bene la stagione e ad andare a prendersi la finale di Coppa Italia, nella semifinale, contro il Milan. Si parte con la gara all’Olimpico, messa sui propri binari dai padroni di casa grazie alle reti di Muzzi e Caniggia che aprono e chiudono il match. Al ritorno a San Siro succede il finimondo. Il Milan sa che deve fare due gol per portare la pratica all’extra time. La Roma sa che non può permettersi cali di concentrazione. Albertini batte un angolo beffardo, bravo Eranio a credere nella deviazione sotto porta. Il diavolo impugna il forcone. Giovanni Cervone intanto para tutto ciò che arriva dalle sue parti e tiene viva la Roma. Giannini segna ma il gioco è fermo. Garzya viene espulso per un’entrata su Lentini. Il Milan ha un rigore ma Cervone è ancora protagonista andando a respingere il tiro di Papin. La Roma passa così come non passano inosservate le parole di accusa che l’estremo difensore di Catanzaro ed il suo vice

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Torino -Roma

Zinetti rivolgono alla terna arbitrale. C’è aria di squalifica. Il Toro, invece, sulla sua strada, guarda un po’ chi ti trova: Madama! Quel derby non fu solo una stracittaddina come tante, rappresentò per il popolo granata molto di più. L’esito, rispetto a tante sfide al cospetto dei bianconeri dell’altra metà di Torino, fu diverso. Nella Torino del Toro al primo round arriva un pareggio per 1 a 1. Segnano Robi Baggio dal dischetto e Paolino Poggi, girata di sinistro al volo (il gol più bello della competizione). Al ritorno ecco il 2 a 2 nella Torino zebrata: autogol di Marchegiani, gol di Poggi, rete di Ravanelli e gol qualificazione di Aguilera. Così ecco che il percorso di Vujadin ed Emiliano, il serbo ed il cremasco, giunge all’ultima sfida. Le rispettive finali perse lo scorso anno, di Coppa Campioni Boskov e di Coppa Uefa il Mondo, adesso, non contano più perché c’è una nuova finale, tutta da vivere, tutta nazionale e in due partite. All’andata la Roma deve rinunciare a Cervone ed al suo secondo Zinetti squalificati nel frattempo per gli insulti rivolti all’arbitro nella semifinale di San Siro. In porta a sorpresa, ma non troppo, va il giovane Fimiani. A Torino, però, sembra che il grande Torino degli anni 40 ed il Torino grande del 76 si siano dati appuntamento. 3 A 0 secco. Silenzi tira, Benedetti devia: uno a zero. Daniele Fortunato spizza un pallone spiovente, Cois lo allunga in porta. Due a zero. Botta convinta di Fortunato dalla destra a due passi dalla porta romana. Ecco il tremendismo granata. Mondonico non è il Trap, ma sa anch’egli che non bisogna mai dire mai gatto. Al ritorno tutto l’Olimpico prepara il terreno per la rimonta. Carnevale viene toccato da Cois. Sguizzato non ha dubbi. Rigore. Giannini trasforma e rende tutto ancora possibile. Silenzi con una genialata di destro nello stretto fa 1 a 1. La ripresa è una pioggia di brividi, a cielo aperto. Rizzitelli sugli sviluppi di un corner prende l’ascensore: 2 a 1 Roma. Mussi sgambetta uno sgusciante Haessler. Rigore. Giannini fa 3 a 1.

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Credit Foto - Liverani

Aguilera e Annoni festeggiano la Coppa Italia appena vinta


IL RICORDO DI Fimiani Per Patrizio Fimiani davvero la gloria, durò solo un attimo, ma che attimo. Stagione 1992-93. È il terzo portiere della Roma, sa che non troverà spazio se non in allenamento. Poi all’improvviso Cervone e Zinetti vengono squalificati contemporaneamente: per la finale la porta, è tutta sua. Patrizio, sono passati 25 anni da quella doppia finale contro il Torino, ma la prima immagine che ti viene in mente? “L’immagine di un Olimpico pieno zeppo. Già nel prepartita si respirava un entusiasmo incredibile, un clima straordinario. Tutto l’ambiente sapeva che dopo aver perso per tre a zero a Torino nella sfida d’andata, adesso, si doveva provare l’impresa e non ci fece mancare niente: calore, supporto, erano davvero tutti lì con noi e per noi” Che mister era Vujadin quando ti disse e cosa significò per te quel doppio confronto? “Non appena uscita la sentenza di squalifica per Zinetti e Cervone, che pagarono per delle dichiarazioni al vetriolo espresse durante la semifinale contro il Milan a San Siro, il mister, grandissima persona, mi comunicò che avrebbe puntato su di me per quella doppia finale, facendomi fare anche qualche presenza in A, per prepararmi al meglio per quelle date e io mi feci trovare pronto. Avevo vent’anni, ma in alcuni casi, non conta l’età che hai, ma esserci. Io c’ero”. Se quella finale fosse un film da dove inizierebbe? “Sarebbe un film che inizierebbe dalla fine. A partita conclusa, per poco non riuscimmo a fare l’impresa, ma fu come se l’avessimo vinta davvero quella partita. L’amarezza per essere andati vicinissimi alla Coppa dopo una finale forse mai vista, per numero di gol, per come sono maturati, perché fino all’ultimo ci credemmo, fu subito trasformata in apprezzamento da parte del nostro pubblico che capì che noi ce l’avevamo messa tutta, era una sconfitta ma che sapeva di vittoria. Fu una sensazione unica”. La tua storia ci racconta come se hai un sogno e lo coltivi poi alla fine si realizza, non importa forse la durata ma l’intensità che vivi. Quale consiglio daresti per tutti quelli che oggi hanno quel sogno nei settori giovanili? “Certo, i sogni vanno coltivati, mai smettere di farlo, e poi chissà magari ti capitano due partite come le mie, dove non sono più sogni ma piacevole realtà. Però, tu devi farti sempre trovare sul pezzo, fare in modo che la realtà ti venga in qualche modo a cercare”.

Qui qualsiasi altra squadra si sarebbe sciolta come neve al sole, non quel Toro di Mondonico, cervice durissima, tempra da vendere. Su spizzata fulminea di Fortunato, la testa di Silenzi è una torre che mica s’arrende, piuttosto s’arrampica: secondo gol del Toro. Silenzi romano de Roma, zittisce la magica. Ma pure lei prima di dirsi morta ci pensa su due volte, anzi tre. Come i rigori di Giannini. Ogni fischio di Sguizzato è un rigore per la Roma. Ci stanno tutti. Questa volta è Cois ad atterrare Carnevale. Il principe non sbaglia. Ma il romanzo continua. Mihajlovic, che un giorno

guiderà il Toro in panchina, alla sua maniera, su punizione fissa il risultato sul pirotecnico 5 a 2 per la Roma, che si prende la partita mentre il Toro alza la Coppa. È la quinta della sua storia. La alzano le mani operaie di Luca Fusi, quella da combattimento di Pasquale Bruno, quelle sempre sul pezzo di Fortunato, quelle dei goleador Silenzi ed Aguilera e quelle di tutti gli altri. Come quelle del Mondo, il profeta di un calcio semplice, ma redditizio. Emiliano si rifà in parte dall’Ajax. Vujadin non si rifà dal Barcellona. Ma che tipi quei due là e, quanto ci mancano.

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da carletto Carlo CARLETTO Nicoletti (Direttore Artistico MATCH MUSIC) seguirà i profili Instagram e Twitter dei giocatori più importanti del pianeta Calcio e ci segnalerà le foto e i tweet più divertenti e particolari. Segnalate quelle che magari potrebbero sfuggirgli scrivendogli al suo profilo Twitter e Instagram @carlettoweb

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