Calcio 2000 n.246

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Bimestrale

Calcio

MAg

EDIZIONE SPECIALE

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giu

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

diretto da Fabrizio Ponciroli

prima immissione 01/05/2020

3,90€

intervista esclusiva ESCLUSIVA

MEHDI BENATIA

“La doppietta in finale...” italiani all’estero ESCLUSIVA

Il calcio di Antonio Nocerino

INTERVISTA ESCLUSIVA

Il presidente Sebastián Verón

“VI RACCONTO IL MIO CALCIO”

EROI PER UN GIORNO ESCLUSIVA

Corneliusson elimina la Juve

ALFABETO DEI BIDONI

Il “politico” Vikash Dhorasoo

GARE DA NON DIMENTICARE Italia-Germania 4-3, la Partitissima

Il calcio secondo... Gigi Maifredi

LEGGENDE DEL CALCIO

Il bomber “Kalle” Rummenigge


FIGURINE 2019•2020

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FP

LA FORZA DELLA NOSTRA PASSIONE

N

on ci siamo arresi, lottiamo e continueremo a farlo, fino a quando ci sarà richiesto. Il Covid-19 è entrato a gamba tesa nelle nostre vite. Ci ha privato di tante certezze e di quella quotidianità che ci sembrava garantita, naturale e scontata. Uno schiaffo in pieno volto, di quelli che fanno male… Il nostro volto si è rigato di lacrime ma, con grande determinazione, abbiamo rialzato la testa, poco alla volta… Il calcio è sempre stato la nostra più grande passione e continuerà ad esserlo. Chiaramente, anche se il pallone rotola sempre alla stessa maniera, tutto è diverso. Per un po’ di tempo, forse per un lungo periodo, dovremo abituarci ad un calcio “televisivo”, senza tifosi. Gli stadi deserti lasciano un senso di vuoto ma è pur sempre calcio, no? Il tifo è il cuore pulsante dello sport più bello del mondo ma, nelle circostanze attuali, è confinato sul divano, davanti alla TV. Tutti “a porte chiuse”, non c’è altra via. Un’altra privazione, necessaria e doverosa. Fa male ma è l’unica maniera per non rischiare di restare con il nulla tra le mani. Ne sono certo, prima o poi torneremo

editoriale

Ponciroli Fabrizio

a godere del calcio autentico, quello in cui lo stadio ribolle di entusiasmo. Dobbiamo solo avere pazienza e continuare a ricordarci che la forza della nostra passione è superiore a qualsiasi virus, anche al più infimo… Un giorno, voltandoci e rimembrando il nostro passato, ci ricorderemo di quel momento in cui un maledetto virus di provenienza cinese ha provato, in ogni maniera, a spezzarci in due. La sofferenza non la dimenticheremo mai, eppure ci sentiremo più forti e, sicuramente, sapremo valorizzare al meglio il nostro presente. Ogni singolo gol avrà un sapore ancor più dolce, un trofeo verrà festeggiato con più enfasi e anche la sconfitta sembrerà meno tragica perché, comunque sia, sarà il risultato di una partita giocata su un campo verde, all’aperto, respirando aria di calcio e guardando quel pallone rotolare… Calcio2000 non si è fermato. Ci è sembrato giusto proseguire nel nostro lavoro, perché la nostra/vostra rivista è il frutto di una passione e non c’è virus al mondo che può spegnere un’autentica passione… Buona lettura, amici miei! Restiamo uniti, non molliamo la presa!!!

Nella caduta ci sono già i germogli della risalita, fragili ma verdi. Vanno coltivati con premura.

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SOMMARIO

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Calcio2OOO

Anno 23 n. 2 maggio/giugno 2020 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli

8 VERÓN INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

BILBAO 44 ATHLETIC MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano

50 OMOFOBIA SPECIALE di Andrea Ranaldo

MAIFREDI 56 GIGI GRANDI ALLENATORI di Luca Gandini

BENATIA 62 MEDHI GIGANTI DEL CALCIO di F. Ponciroli e M. Di Natale

VOLTA ERANO... 16 UNA FOCUS ON di Sergio Stanco

verde 24 daniele FRATELLI D’italia di Sergio Stanco

nocerino 30 Antonio ITALIANI all’estero di Mirko Di Natale

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70 CORNELIUSSON EROI PER UN GIORNO di Thomas Saccani

LUCCHINI 74 STEFANO DOVE SONO FINITI? di Sergio Stanco

1968 78 EUROPEO STORIE AZZURRE di Stefano Borgi

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/05/2020 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto. Hanno collaborato Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Patrick Iannarelli, Mirko Di Natale, Alessandro Guerrieri, Stefano Borgi, Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000 Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it

RUMMENIGGE LEGGENDE DEL CALCIO

Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805

di Stefano Borgi

86 Dhorasoo L’ALFABETO DEI BIDONI di Patrick Iannarelli

90 ITALIA-GERMANIA GARE DA RICORDARE

Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688 Calcio2000 è parte del Network

di Gianfranco Giordano

DA 98 SCOVATE CARLETTO

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 luglio 2020 Numero chiuso il 27 aprile 2020



bocca del leone

la

MESSI IN ITALIA? Direttore, ho letto che Messi potrebbe lasciare il Barcellona e venire a giocare qui all’Inter. Premesso che sono un tifoso dell’Inter e mi piacerebbe molto ma penso che sia impossibile, me lo conferma? O davvero Messi può diventare un giocatore dell’Inter? Suning ha i soldi e può spenderli anche con il Fair Play che abbiamo? Grazie Adriano, mail firmata Messi e CR7 in Italia… Al solo pensiero, già sono pervaso da

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tanta, troppa esaltazione. Dopo il “colpo del secolo” (Cristiano Ronaldo alla Juventus) non c’è nulla che mi stupisce nel mondo, strano e strambo, del calciomercato. Indubbiamente, complice il Covid-19, tutto è destinato a cambiare eppure non me la sento di escludere che, un giorno, Messi possa lasciare il Barcellona. E’ un classe 1987 e, prima o poi, il Barça dovrà pensare ad un nuovo ciclo, magari senza Leo. Non so se l’Inter possa essere una destinazione plausibile ma, sicuramente, è una società solida economicamente e tremendamente ambiziosa…

LA SUA TOP 11… Direttore, ho letto la sua Top 11 su Tuttomercatoweb e mi ha sorpreso la sua scelta in attacco dove mi ha piazzato Madjer che non conoscevo neppure visto che io sono nato nel 1988. Sono andato a vedere e ho visto che sembrava dovesse venire all’Inter e girano anche delle foto con lui con la sciarpa dell’Inter. Magari quelle sono un fake ma era così forte da metterlo in una Top 11? Complimenti per l’intervista a Leao, speriamo diventi forte forte Christian, mail firmata


di Fabrizio Ponciroli

BIDONI DEL CALCIO Direttore, ma quando scriverà un altro libro sui bidoni del calcio? Il primo era bellissimo e mi piace leggere le sue storie su Calcio2000 sui bidoni. Il più scarso che ho visto è stato Andrade. Ogni volta che lo vedevo giocare mi dicevo: “MA CHE SEI USCITO DALL’ÒVO DE PASQUA?”… Carmelo, mail firmata Beh, fantastico… Il mio preferito in assoluto? Jardel, quello che è sbarcato ad Ancona. E dire che era un signor bomber ma quello arrivano ad Ancona era un ex giocatore. Non sapeva neanche più palleggiare… MI MANCA IL CALCIO… Cara Redazione, messaggio per il Direttore Pon-

ciroli che ascolto sempre il venerdì mattina su radio TMW: mi manca da morire il calcio e, soprattutto, andare allo stadio con i miei amici a tifare Juventus. Non vedo l’ora che ricapiti ma ho paura che dovremo aspettare a lungo! Saluti da un tifoso in astinenza Stefano, mail firmata

Caro Stefano, manca tantissimo anche a me… Concordo, l’andare allo stadio è l’aspetto del gioco che vorrei riavere il prima possibile. Temo che tu abbia ragione: mi aspetto un graduale e lento ritorno alla normalità e tantissime gare a porte chiuse… Purtroppo!

» riceviamo e pubblichiamo

»

Caro Christian, Madjer l’ho inserito non perché fosse, qualitativamente parlando, da Top 11 ma perché io ho venerato il “tacco di Allah”. Guarda, le foto sono verissime. Lui era anche stato annunciato ufficialmente dall’Inter dell’allora presidente Pellegrini e allenata dal Trap. Il problema è che, durante le visite mediche, sono emersi dei problemi (se non ricordo male problemi ai flessori) ed è saltato tutto. C’è chi dice che, in realtà, ci sono state delle incomprensioni sul contratto ma la verità non è mai stata svelata. Ha deciso una finale di Coppa dei Campioni di tacco, è stato un mio idolo per tanti anni…

Caro Ponciroli, è un periodo difficile per me e la mia famiglia. Il Coronavirus è diventato parte della nostra realtà quotidiana e non è facile. Bene, volevo dirle che, in questo momentaccio, ho avuto tempo per rispolverare i miei vecchi Calcio2000. Ho riletto tante interviste, alcune anche sue, come quella ad Ibrahimovic o quella a Bojinov che mi hanno divertito. Da tempo compravo Calcio2000 solo per non interrompere la mia collezione, invece ho ricominciato a leggerlo e mi piace pure. è proprio vero che, quando le cose vanno male, si ha più tempo per capire cosa ha valore. Io mi sono ripreso il mio tempo e mi sono letto tutte le vecchie riviste che ho qui in soffitta da me. è stato un tuffo nel passato bello e nostalgico che mi ha riportato alla mente tanti anni felici che spero tornino il prima possibile perché ce li meritiamo. Complimenti, anche per non aver mollato in questo momento!!! Il mio edicolante mi ha detto che ci sarete anche dopo il Coronavirus e per me è un sollievo.

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VA

I S U L C S E A T INTERVIS Juan Sebastián Verón

di Fabrizio Ponciroli

Juan Sebastián Verón è una leggenda del calcio. Dal campo alla scrivania, eppure i valori sono sempre da fuoriclasse.

PAROLA AL PRESIDENTE 8

Credit foto: Estudiantes


A

rgentino nel cuore, Juan Sebastián Verón è legatissimo all’Italia. Ha indossato le casacche di Sampdoria, Parma, Lazio e Inter, facendosi amare da ogni singolo tifoso. Campione in campo, lo è stato anche fuori dal rettangolo di gioco. Oggi è il presidente dell’Estudiantes, il suo primo amore, quello che non ha mai dimenticato… Un onore fare due chiacchiere con una leggenda del calcio e, soprattutto, un presidente innovativo e molto ambizioso… Partiamo dal tuo nuovo mestiere. Che comporta essere il presidente dell’Estudiantes? “Diciamo che la mia giornata non ha più orari. Sono tutto il giorno a disposizione del club. Abito al fianco del centro sportivo dell’Estudiantes e, quindi, sono sempre presente. La mia vita è legata a quella del club”. Che obiettivi ti sei prefissato come presidente? “Al momento il nostro obiettivo è quello di crescere come società. Sia a livello di infrastrutture che di organizzazione. Ovviamente vogliamo raggiungere anche risultati importanti a livello sportivo. In Argentina, le società sono diverse rispetto a quelle italiane. C’è tanto da fare”. Immagino che sia un grande orgoglio per

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intervista

esclusiva

Juan Sebastián Verón te essere il presidente del club dove ha avuto inizio la tua carriera da calciatore… “Sono nato qui e passavo le mie giornate all’interno del centro sportivo. Ci stavo da piccolo, quando mio padre (Juan Ramón Verón, n.d.r.) è tornato all’Estudiantes per chiudere la sua carriera professionistica. Ho svolto tutte le giovanili qui, sono cresciuto all’Estudiantes e sono tifoso del club da sempre. La vita mi ha dato questa nuova opportunità e sono contento di poter aiutare il club che amo”. Si dice che, come presidente, sei molto legato all’istruzione… “Per me l’istruzione dei giovani dell’Estudiantes è fondamentale. Ci tengo moltissimo. Se vuoi giocare con questa maglia, devi studiare per forza. È una nostra priorità. Sai, tutti vogliono diventare giocatori professionisti ma tantissimi non ce la faranno e, mi chiedo, cosa farebbero questi ragazzi

se non avessero almeno l’istruzione? Ecco perché ci tengo tanto. Usiamo il calcio per insegnargli tanto altro”. Tu hai lasciato l’Argentina a soli 21 anni… “Io ho avuto fortuna. Se non avessi sfondato nel calcio, cosa avrei fatto senza aver terminato gli studi? Ripeto, io sono stato fortunato”. È stato Sven Goran Eriksson, allora tecnico della Sampdoria, a volerti in Italia… “Oggi ci sono mille modi per visionare un giocatore. A quei tempi, a Eriksson, è arrivata una videocassetta con qualche mia immagine. Lui ha avuto il coraggio di prendermi, quasi al buio. Non aveva mai visto una mia partita ma ha voluto comunque rischiare su un ragazzo di 21 anni. Anche perché uno può essere anche bravo in campo ma poi c’è il carattere. Lui, di me, non sapeva nulla. È stato bravo anche a sopportarmi i primi 4/5 mesi. Poi, per fortuna, è andato

Verón ha giocato con tantissimi campioni nel corso della sua lunga carriera

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Come suo padre, Sebastián è sempre stato un fan dell’Estudiantes - Credit foto: Estudiantes

figlio d’arte “Ho sempre avuto il pallone con me. Mio padre giocava a calcio e io ero sempre tra calciatori e spogliatoi”. Juan Sebastián Verón è figlio d’arte. Suo padre, Juan Ramón Verón, è stato un giocatore professionista. Nazionale argentino (quattro presenze), ha legato la sua carriera soprattutto alla sua militanza all’Estudiantes, club con cui ha giocato oltre 10 anni, conquistando diversi titoli, tra cui tre edizioni della Copa Libertadores (decisivo nella conquista della prima, visto che segna sia all’andata che al ritorno nella finale contro il Palmeiras) e pure una Coppa Intercontinentale (1968, in rete nella sfida di ritorno della finale contro il Manchester United di Best). La Bruja (La Strega), soprannome del padre di Sebastián, ha militato anche in Grecia, al Panathinaikos (dal 1972 al 1974). Un’esperienza formativa che ha “aperto” la mente di Sebastián che, come il padre, non ha esitato a lasciare l’amata Argentina per trasferirsi in Italia. Da ricordare anche che Iani Martín Verón, fratello di Sebastián, è un calciatore professionista. Classe 1986, centrocampista e, ovviamente, con tante apparizioni con la casacca dell’Estudiantes, il club di famiglia.

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intervista

esclusiva

Juan Sebastián Verón tutto bene”. Sei rimasto in contatto con qualche giocatore di quella Sampdoria? “Certo, ho molti amici e fratelli che ho conosciuto in quel periodo. Il mio amico Roberto Mancini, Moreno Mannini, Giovanni Invernizzi, Alberigo Evani, Fausto Salsano, Sinisa Mihajlovic, Christian Karembeu, Fabrizio Ferron, David Balleri, tutta gente che mi ha insegnato molto. Mi hanno fatto capire com’era la vita del calciatore professionista e mi hanno aiutato a crescere come persona. Ho sicuramente sentito la mancanza del mio Paese ma mi sono fatto forza e, appunto, ho avuto tanti amici attorno”. Sei stato in quattro città bellissime: Genova, Roma, Parma e Milano. Che cosa ti hanno lasciato queste piazze? “Guarda la cucina italiana è il top. Quando sono arrivato, devo aver preso 4/5 kg in un mese. Tra mozzarelle, prosciutto e pasta… Si mangia tanto e si mangia bene. Ecco, anche in questo frangente, ho dovuto impara-

Ovunque è stato in Italia, Verón è sempre stato amatissimo dai fan

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re a gestirmi. Sai, l’Italia è la mia seconda casa. Mi sono trovato bene in tutte le città dove sono stato e, ovviamente, nei rispettivi club. Mi sono fatto una famiglia, insomma l’Italia è parte di me. Roma e Milano sono grandi città, sono casa mia. Uguale anche per Genova e Parma, più piccole ma incredibilmente accoglienti”. È incredibile che, ovunque ha giocato, hai lasciato un ottimo ricordo… “Sicuramente sono sempre stato benvoluto. Ho avuto la fortuna di vincere anche in tanti club dove ho giocato in Italia. Ho sempre avuto un grande rispetto per la maglia che indossavo. Non mi sono mai permesso di mancare di rispetto nei confronti della società per cui giocavo. Penso al periodo al Parma o alla Lazio. Sono arrivato e abbiamo vinto tanto, quello aiuta tantissimo a lasciare un bel ricordo. Sicuramente ho sempre cercato di dare il meglio di me stesso”. Hai vinto tanti titoli in Italia, a quale sei più legato?


portiere qualsiasi ma di Gigi. Se ha ancora il desiderio di giocare, fa bene ad andare avanti. Difficilmente troverà le emozioni che provi da calciatore in un altro ambito”. A proposito di campione. Ci hai mai creduto alla possibilità che Messi possa trasferirsi in Italia? “Mi risulta difficile pensare che uno come Messi possa lasciare il Barcellona. Credo che sarebbe più semplice veder andar via il presidente piuttosto che Messi… Tuttavia, sarebbe bellissimo avere Cristiano Ronaldo e Messi, insieme, nel calcio italiano. Nell’ultimo periodo, la Serie A sta crescendo come livello. Avere Messi sarebbe qualcosa di straordinario”. Da argentino, che ne pensi dell’esplosione di Dybala dell’ultimo periodo? È il presen-

“Guarda, ogni trofeo che ho vinto ha la sua storia e la sua importanza. Il primo che ho vinto è stato la Coppa Italia con il Parma. Non avevo mai vinto nulla, è stato bellissimo. Ma anche l’ultimo con l’Inter, lo Scudetto da dedicare a Moratti… Nel mezzo c’è lo Scudetto con la Lazio che non vinceva da tantissimi anni. Tre trofei che non dimenticherò mai”. Hai giocato con tantissimi grandi campioni. Me ne dici tre che il presidente Verón prenderebbe subito all’Estudiantes? “Allora, prendo due miei ex compagni che ho nel cuore che sono Sinisa Mihajlovic e Roberto Mancini. Due fuoriclasse assoluti, impressionanti. Poi, mi prenderei, per la porta, sicuramente Gigi Buffon, davvero unico”. Che ne pensi di Buffon? Te l’aspettavi che potesse continuare a questi livelli? “Devi avere la voglia che ha lui e poi le qualità che ha Gigi. Non stiamo parlando di un

Credit foto: Estudiantes

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

Con l’Estudiantes ha vinto anche la Copa Libertadores

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intervista

esclusiva

Juan Sebastián Verón te e il futuro della nazionale argentina? Potrebbe essere lui l’erede di Messi? “Non ha le stesse caratteristiche di Messi. Per me Dybala è un grandissimo attaccante e può migliorare molto. Come immagine, giocando nella Juventus, ha tanto appeal. Mi piace Dybala, così come Lautaro Martinez che, secondo me, è davvero fortissimo. Ecco, pensare di raccogliere l’eredità di Messi, uno che ha vinto sei volte il Pallone d’Oro, non credo sia facile per nessuno. Comunque, sono due profili molto interessanti”. Sebastián, hai fatto il giocatore, il dirigente, l’allenatore e il presidente. Quale è il mestiere più complicato? “Il ruolo più difficile è quello del dirigente.

Sono nato calciatore mentre, per fare il dirigente ti devi impegnare, devi studiare. Sai, da giocatore, hai sempre la rivincita che è la partita successiva. Da dirigente, nel mio caso da presidente, gli obiettivi sono a lungo termine. Devi attendere tanto tempo per capire se hai fatto bene. Sicuramente, le sensazioni che provi da calciatore non le proverai mai più”. Come mai il ruolo del centrocampista/fantasista è merce rara nel calcio d’oggi? “Sicuramente ci sono giocatori che si devono reinventare in alcuni casi. Ormai sapersi adattare è fondamentale. Penso a De Bruyne, del Manchester City di Guardiola. Ha iniziato giocando sulla fascia, ora è diventato un ‘tuttocampista’. Ecco, lui è stato

IL CAMPIONE DI LA PLATA Juan Sebastián Verón è nato a La Plata, in Argentina, il 9 marzo del 1975. Cresciuto nelle giovanili dell’Estudiantes, si mette in luce proprio con la casacca dei Los Pincharratas. Centrocampista dalla grande visione di gioco, capace di giocare ovunque a centrocampo, nel 1996, dopo una stagione al Boca Juniors, approda in Italia. Lo acquista la Sampdoria dell’allora patron Mantovani, su indicazione del tecnico Eriksson (investimento di circa sei miliardi di vecchie lire). Resta ai blucerchiati per due anni, collezionando 60 presenze, con sette reti, in Serie A. Nel 1998 si trasferisce al Parma dove brilla di luce propria, trascinando la squadra a vincere sia la Coppa Italia che la Coppa Uefa. L’estate seguente la Lazio decide di investire su di lui la cifra monstre di 60 miliardi di lire. È sempre Eriksson a spingere per averlo. La Brujita (suo soprannome) gioca alla grande, facendo incetta di titoli. È uno degli artefici dello Scudetto biancoceleste dello storico 2000 (indimenticabile la sua rete nel derby vinto dalla Lazio per 2-1 il 25 marzo 2000). La Lazio, nel 2001, lo cede al Manchester United per 80 miliardi di lire. Vince la Premier League con i Red Devils guidati dal leggendario Sir Ferguson. Dopo una parentesi al Chelsea, decide di ascoltare il richiamo dell’Italia che è forte. Arriva la chiamata dell’Inter allenata dal suo ex compagno alla Sampdoria Mancini (2004). Come per magia, Verón torna a ricamare in campo. L’Inter torna a vincere anche grazie alla sua leadership. Giunge anche la soddisfazione dello Scudetto 2005/06, assegnato ai nerazzurri dopo i fatti di Calciopoli. Terminato il suo lavoro in Italia, fa ritorno all’Argentina, al suo amato Estudiantes. Inizia una seconda carriera sportiva che lo porta a vincere, con i biancorossi, la Copa Libertadores nel 2009. Il 19 luglio 2013 disputa la sua ultima gara con la casacca dell’Estudiantes. Ci ripensa più volte. La voglia di giocare è tanta e l’Estudiantes è la sua famiglia. Il 12 aprile del 2017, a 42 anni suonati, è in campo nella sfida, di Copa Libertadores, tra Estudiantes e Barcelona Guayaquii. Nel frattempo, è già direttore sportivo dei Los Pincharratas (dal 2012). Ricopre il ruolo di presidente del club argentino che ha nel cuore dal 2014 e la sua missione è solo agli inizi. In carriera, da calciatore, ha vinto 15 trofei. Ha indossato la casacca della nazionale argentina in 72 occasioni, segnando nove reti.

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bravo, si è evoluto. E così è più facile trovare spazio in campo e, anche per l’allenatore, è tutto più semplice. In Italia, dopo Del Piero, Totti e Zidane, qualcosa è cambiato. Bisogna saper fare più cose nel calcio d’oggi”. Hai segnato una valanga di gol. Me ne dici uno al quale sei legato? “Uno quando ero alla Sampdoria, contro il Perugia. Calcio d’angolo di Mihajlovic e io l’ho presa al volo. È stato davvero bellissimo, anche perché, durante la settimana, l’avevamo provato con Mihajlovic”. Ultima domanda: che cosa fa Sebastián quando non pensa al calcio? “Ho un problema: mi posso prendere una settimana di pausa ma, con il cellulare che squilla sempre, mi è impossibile non pensare al calcio. Sono sempre al lavoro per il bene del club. La mia vita è legata al calcio. Sono nato dentro un club e difficilmente posso starne lontano. Magari tra 40 anni avrò tempo per altro”. Il nostro tempo svolge al termine. Il presidente Juan Sebastián Verón deve tornare al lavoro. L’Estudiantes ha bisogno delle sue cure per continuare a crescere e diventare sempre più grande. Con uno come Sebastián a guidarlo, nulla è impossibile.

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focus on

Una volta erano... di Sergio Stanco

Una panchina a centrocampo 16


Una panoramica sugli allenatori della Serie A (e non solo): che ruolo occupavano da calciatori? I dati non mentono, se nasci centrocampista parti in vantaggio…

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ualcuno siamo riusciti a vederlo quando ancora calcava i campi di calcio, alcuni sarebbe stato impossibile perché hanno frequentato solo i polverosi terreni di provincia, altri ancora hanno talmente tanta esperienza che si fa fatica a ricordarli (almeno noi). Ci è però sorta una curiosità: in che ruolo giocavano da calciatori? Di quelli che diventano tecnici spesso si dice che erano già leader in campo. E ancor più spesso il leader in campo, almeno dal punto di vista tecnico-tattico, è quello che a centrocampo da una parte smista il gioco e dall’altro cerca di anticipare le mosse dell’avversario per prevenire i pericoli. Ma è davvero così? I numeri confermano, ma il dibattito è aperto… LA FANTASIA NON È AL POTERE Abbiamo infatti fatto un’analisi delle panchine della nostra Serie A, un campione abbastanza rappresentativo, almeno del nostro calcio. Il verdetto sicuro è che sulle nostre panchi-

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FOCUS ON

Una volta erano... ne c’è poco spazio per i cosiddetti fantasisti, o trequartisti che dir si voglia. De Zerbi lo è stato con discreto successo, ma è una mosca più unica che rara nel panorama italico. Gli fa compagnia un rappresentante della categoria decisamente prestigioso, come il Commissario Tecnico della nostra Nazionale: Roberto Mancini è stato uno dei calciatori più geniali del nostro calcio, nato trequartista per poi essere trasformato in attaccante quando il dogmatico 4-4-2 di sacchiana ispirazione ha messo al bando il fantasista, costringendolo a defilarsi in fascia o ad avanzare di dieci metri. Insomma, pochi ma buoni, diciamo così. Per altro De Zerbi è uno dei tecnici emergenti della Serie A, uno di cui si dice un gran bene. Il suo calcio rappresenta quello che era da giocatore: propensione offensiva, tecnica, qualità e rapidità di pensiero, oltre che di gambe. Dunque, se il buongiorno si vede dal mattino… LA SOLITUDINE DEL NUMERO UNO Anche solo per un fatto statistico, è inevitabile che non ci siano tanti portieri sulle panchine calcistiche. Il ruolo di certo non aiuta, perché spesso quando gli altri fanno tattica, il numero uno fa allenamenti specializzati. Alcuni, però, sostengono che la visuale privilegiata è un plus importante: alla fine il portiere può godersi la partita da “spettatore” e da “dietro”, potendo così ammirare tutte le evoluzioni del gioco, tutte le contromisure tattiche apportate durante la gara e, di fatto, è il secondo allenatore in campo perché deve guidare i movimenti dei compagni, quanto meno in fase difensiva. Sarà, ma in concreto c’è solo un rappresentante della categoria, seppur importante, sulle panchine di Serie A: parliamo ovviamente di Uomo Ragno Zenga, uno dei migliori portieri della storia calcistica italiana e che ha preso il posto di Rolando Maran alla conduzione tecnica del Cagliari. A proposito di migliori portieri della storia, Dino Zoff fa certamente parte della categoria, ma

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Ora guida il Chelsea, una volta Lampard era l’anima del centrocampo dei Blues...

è entrato anche nel novero degli allenatori ex portieri con una discreta carriera. E chissà cosa sogna Gigi Buffon per il suo futuro. I BOMBER Sarà forse perché il calcio italiano è considerato molto tattico, decisamente poco spettacolare e difensivo, che si fa fatica a trovare ex attaccanti sulle panchine nostrane? Forse è un’analisi decisamente superficiale, ma alla fine è solo statistica. Di certo Simone Inzaghi porta alta la bandiera dei bomber: l’allenatore della Lazio sta facendo un grandissimo lavoro sulla panchina biancoceleste e ha mostrato doti fuori dall’ordinario. Il suo modulo preferito – il 3-5-2 – non è considerato tra i più offensivi, ma spesso i numeri non la raccontano tutta: uno che a centrocampo schiera Luis Alberto e Milinkovic-Savic, e in attacco Immobile e Correa, viene difficile catalogarlo alla voce “difensivista”. Tra gli ex attaccanti ora allenatori e che hanno quanto meno iniziato la


stagione in A, c’è anche Vincenzino Montella, fino a qualche mese fa tecnico della Fiorentina. Tuttavia, sebbene si parli di Serie B, non possiamo non citare l’ottimo lavoro di Pippo Inzaghi, che sta facendo bene almeno quanto il fratello in A: il suo Benevento vola, batte tutti i record e – Coronavirus permettendo – ha praticamente già staccato il biglietto promozione. Maniacale nei dettagli proprio come lo era da calciatore, di lui raccontano che – ironia della sorte – il suo principale cruccio ora che ha fatto il salto della barricata sia la fase difensiva. D’altronde nessuno come lui sa quanto possano essere furbi gli attaccanti. DIFESA MA NON TROPPO Se, però, il calcio italiano è catenacciaro, allora sarebbe lecito attendersi panchine pregne di ex difensori. Invece non è così. Non che non ce ne siano, ma non sono la categoria preponderante. Tra i principali esponenti va inevitabilmente citato Sinisa Mihajlovic, di (ex) professione terzino, centrocampista, ma soprattutto difensore centrale nel momento clou della sua lunghissima e vincente carriera. Difensori erano anche Pioli, Ranieri, Maran, Semplici e Diego Lopez, in questa stagione sulle panchine di Milan (subentrato a Giampaolo, ex centrocampista), Ranieri (sostituto di Di Francesco), Cagliari (al suo posto da marzo Zenga), Spal (prima di essere esonerato e rimpiazzato da Di Biagio), Brescia (succeduto a Corini). L’unico ex difensore ancora saldo sulla propria panchina dall’inizio della stagione, è Paolo Fonseca, tecnico portoghese della Roma. Una discreta carriera da calciatore spesa quasi tutta in Patria, ma forse una ancor più brillante già disegnata da allenatore. Curiosità, l’allenatore giallorosso è considerato uno dei tecnici più propositivi, e non solo del panorama italiano. Il suo è un calcio offensivo, in cui si attacca spesso in sette, con i due terzini contemporaneamente in avanti. Chissà se i suoi difensori, apprezzino…

IL CERVELLO DELLA SQUADRA Capello dice sempre che la squadra si costruisce dalla sua colonna vertebrale: portiere, difensore centrale, regista, centravanti. Altri sostengono che la vittoria passa inevitabilmente dalla prestazione del centrocampo: se in mezzo si gira, allora si vince. Anche qui, è probabilmente una sintesi eccessiva e superficiale, ma è indubbio che nel calcio moderno il centrocampo svolga un ruolo fondamentale. Se fossimo ancora in Inghilterra negli Anni ’80, potremmo addirittura farne a meno, ma con l’avvento di Sacchi prima, e Guardiola poi, il palleggio, la qualità tecnica, i cosiddetti registi, sono diventati gli uomini chiave del successo di una squadra. C’è chi, come Sarri ad esempio, non potrebbe farne a meno: da Jorginho a Pjanic, cambiano gli interpreti, ma non la filosofia dei cento palloni che devono passare dal vertice basso del suo

Guardiola ha creato uno stile personale, partendo dalla sua anima da centrocampista

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FOCUS ON

Una volta erano... 4-3-3 (o 4-3-1-2 che dir si voglia). Andrea Pirlo è stato probabilmente uno dei giocatori più decisivi dell’ultimo ventennio calcistico: sarà un caso che stia studiando da allenatore? Difficile crederlo. E, per altro, saremmo pronti a scommettere su una carriera altrettanto spettacolare in panchina. Un altro che era già allenatore, leader e guida tattica, era un certo Gianpiero Gasperini, storico capitano del Pescara negli Anni ’80. E rigorista, anche se non sempre infallibile. Corsi e ricorsi storici, infatti, raccontano di un rigore parato da Zenga proprio al Gasp: correva l’anno 1989, ma questa è un’altra storia. CIAK SI GIRA Tuttavia, le squadre di Gasperini sono decisamente prolifiche, ma i loro successi si basano su una difesa estremamente “offensiva”. La superiorità si costruisce con i tre centrali di difesa, veri e propri registi aggiunti e l’azione si sviluppa soprattutto sulle fasce, per poi essere finalizzata dai tre attaccanti. Dire che il

centrocampo è un corollario sarebbe troppo, ma comunque un giocatore come Gasperini in questa Atalanta sarebbe forse sprecato. Forse. Nella categoria registi puri possiamo inserire anche Eugenio “Genio” Corini, protagonista a Brescia, ma anche a Palermo, uno che dava del tu al pallone e che ha fallito pro-

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“Con l’avvento di Sacchi prima, e Guardiola poi, il palleggio, la qualità tecnica, i cosiddetti registi, sono diventati gli uomini chiave del successo di una squadra” babilmente soltanto alla Juventus, ma solo per il troppo carico di responsabilità (e forse anche per una questione di “tempismo”). Liverani è stato per anni regista e leader indiscusso della Lazio, Thiago Motta faceva girare il centrocampo dell’Inter del Triplete e di Mourinho, e che dire di Carletto Ancelotti, anima e metronomo proprio di quel Milan di Sacchi che cambiò la storia del calcio italiano e lo trasformò da tattico a moderno? Un altro

che era già allenatore in campo, e che accendeva la luce proprio dal cerchio di centrocampo, era un certo Pep Guardiola, ma di questo parleremo dopo… UNA VITA DA MEDIANO Poi ci sono quelli che da calciatori si sono fatti il… contachilometri: sono i centrocampisti


di fatica, di corsa, ma anche di inserimento, come Antonio Conte, ad esempio, ma anche Mazzarri, Longo, Di Francesco, Juric, Di Francesco, Iachini, D’Aversa, Di Biagio e probabilmente potremmo andare avanti ad oltranza. Forse il “presidente” della categoria è quel Gennaro Gattuso, che “se nasci quadrato non puoi morire tondo”, per dirla come una delle sue massime preferite. Uno che ha arato i campi d’Italia ed Europa senza mai mollare un centimetro, correndo dietro chiunque gli passasse davanti con una maglietta diversa dalla sua, fosse pure quella nera dell’arbitro. Quella grinta la chiede anche oggi ai suoi ragazzi: si può anche perdere, ma solo dopo aver speso ogni singola goccia di sudore. Le sue squadre sono attente, diciamo così, coperte e irreprensibili dal punto di vista tattico. Inevitabile per uno che quando Ancelotti dava la formazione di quel Milan con Rui Costa, Kakà, Sheva,

Seedorf e Pirlo, al mister diceva: “Si vabbè Carlè, metti in campo pure tua sorella, che tanto a correre per tutti ci penso io”. Ringhio sa che non può chiedere la stessa cosa al suo Allan e per questo cerca un’armonia di movimenti di squadra che dal punto di vista difensivo è quasi più “lippiana”. D’altronde, ci sono molti modi diversi per vincere. E noi italiano ne sappiamo qualcosa.

GLI EX IMPIEGATI E poi ci sono gli allenatori di professione. Già, perché anche se guardati con scetticismo dai colleghi, sono quelli che si sono fatti da soli, che hanno studiato il calcio sui campetti di provincia, che non hanno mai provato l’esperienza di una finale di Champions League o di Coppa del Mondo e che non hanno condiviso spogliatoi con grandi campioni, ma che forse anche per questo hanno più meriti degli altri. Perché arrivare in vetta partendo dal basso, semplicemente studiando sui libri o dagli spalti ancora in cemento degli stadi di periferia, non può essere certamente considerato un minus. Anzi. Ne sa qualcosa proprio quell’Arrigo Sacchi che ormai abbiamo citato allo sfinimento: “Il fatto di non essere stato calciatore non è un problema – spiegava il tecnico del Milan ai suoi detrattori – Per essere un bravo fantino non devi per forza esser

stato prima un cavallo”. “Mi chiamano ancora l’ex impiegato – racconta di sé Maurizio Sarri – come se aver fatto dell’altro nella vita fosse una colpa”. E proprio Sarri è l’emblema dell’allenatore senza grande esperienza pregressa sui campi di calcio professionistici, che la gavetta sulla panchina se l’è fatta davvero tutta e solo una volta abbattuti tutti i cliché, si è potuto godere la ribalta di stadi meravigliosi come il San Paolo, lo Stamford Bridge

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FOCUS ON

Una volta erano...

Poche presenze nel calcio minore tedesco per il tecnico del PSG Tuchel

Allegri è un alltro ex centrocampista, anche se con spiccate doti offensive...

e lo Juventus Stadium. Un calcio spettacolare sciorinato a Napoli, un’Europa League vinta con i Blues, non ha ancora fatto sparire del tutto lo scetticismo. Lo stesso con cui devono combattere altri colleghi come Andrea Andreazzoli (ad inizio stagione sulla panchina del Genoa), per tutti ancora “il tattico”, e Luca Gotti, eterno secondo per scelta, prima che l’Udinese quest’anno lo “costringesse” ad assumere il ruolo di Mister della prima squadra dopo l’esonero di Tudor.

ex centrocampisti, poi, sono il doppio dei loro colleghi difensori. Questo, almeno, per quanto concerne il campionato italiano. Ma cosa succede all’estero? Inutile dire che Pep Guardiola continua a fare tendenza, il suo “tiqui taca” si è trasformato nel tempo e adattato alle situazioni, ma continua ad ispirare i suoi adepti. Il primo della lista è quel Xavi che da giocatore ha copiato il Guardiola calciatore e ora spera di seguirne le tracce e replicarne i successi anche in panchina. In Spagna, invece, il dualismo è tra il calcio champagne di Zinedine Zidane e il pragmatismo del Cholo Simeone. Da qualsiasi parte stiate finora – guarda caso - abbiamo parlato di tre ex centrocampisti. In Inghilterra, però, domina un certo Jurgen Klopp, di (ex) professione difensore (dal 1990 al 2001 al Mainz), che però al Liverpool sciorina un calcio spumeggiante. Tuttavia, Oltremanica, ci sono

NON SOLO GUARDIOLA Insomma, la nostra analisi non aveva velleità di uno studio statistico o di una sentenza definitiva, ma solo disegnare un trend. I risultati a cui siamo arrivati, però, sono piuttosto evidenti: quello dell’allenatore non è un mestiere per ex portieri o attaccanti. Gli

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anche Solskjaer (ex attaccante del Manchester United di cui ora è il mister) e Frank Lampard, che dopo aver guidato il Chelsea dal cerchio di centrocampo, ora lo dirige dalla panchina. Stessa sorte è toccata a Mikel Arteta, per anni faro dell’Arsenal e ora chiamato a risollevarlo dopo i “misfatti” di Unai Emery, e fino a qualche tempo fa secondo proprio di Pep Guardiola al Chelsea. Strano eh? NUOVI KLOPP CRESCONO La scuola di Coverciano che ha formato tanti tecnici italiani è ancora molto considerata e apprezzata all’estero, non a caso Massimiliano Allegri (guarda caso ex centrocampista pure lui), sarà uno dei tecnici più ambiti nella prossima sessione di calciomercato. Negli ultimi anni, però, il guardiolismo ha fatto crescere tutto il movimento spagnolo (da Emery ad Arteta, tanto per citare a titolo di esempio due nomi di cui abbiamo appena

parlato), e Klopp sta facendo altrettanto con i suoi connazionali. Thomas Tuchel è il suo alter ego alla panchina del Paris Saint Germain, e anche se l’ambiente parigino sembra squarciato da insanabili polemiche interne, la considerazione di cui gode il mister tedesco è rimasta intatta (tanto che si parla di lui per la panchina del Bayern Monaco o del Real Madrid per la prossima stagione). Il “genietto” del calcio tedesco, però, Julian Niagelsmann, che a soli trentadue anni in questa stagione ha portato il Lipsia ai quarti di Champions League. Sia Tuchel che Niagelsmann hanno una storia simile, costretti entrambi ad appendere le scarpe al chiodo per problemi fisici. Entrambi troppo presto, forse, per essere considerati ex calciatori, ma troppo tardi per essere classificati tra gli ex impiegati, visto che hanno cominciato subito ad allenare. Una nuova categoria di cui magari parleremo in un altro speciale ad-hoc…

Ancelotti e Conte, due grandi allenatori, due grandi ex centrocampisti

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fratelli d’italia • Daniele Verde • di Sergio Stanco

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Intervista a Daniele Verde, ex talento del settore giovanile della Roma oggi all’AEK Atene.

Un Giorno all’Improvviso

L

a storia di Daniele Verde è comune a quella di moti ragazzini, soprattutto di quelli che crescono a Napoli. Si comincia a giocare per strada, gli slalom si fanno tra motorini e macchine che sfrecciano, altro che i birilli d’allenamento. È lì, su quelle strade sconnesse che si affina la tecnica, non calciando per ore contro un muro. È facile undici contro undici, contro pari età, su campetti in erba. Fatelo sul cemento, in partite infinite, con rimbalzi da “palla matta”, magari contro avversari più grandi fisicamente e anagraficamente, spesso anche poco inclini alla sconfitta. Dalla mattina a notte fonda, spesso dimenticandovi di tornare a casa per cena. E al rientro, vi aspetta lo zoccolo della mamma, mica un piatto di pasta riscaldato. Storie che sembrano quelle di un passato lontanissimo, soprattutto in questo periodo. Eppure, una volta era così che si formava il talento. Di sicuro, così si è formato quello di Daniele Verde, che nei quartieri di Napoli ha affinato la tecnica e forgiato il carattere: “Fin da piccolo avevo solo un sogno. E l’ho realizzato. Volevo diventare

calciatore. Ed eccomi qua”. Probabilmente Daniele non la racconta proprio tutta, perché quando diventi professionista ti insegnano quello che si può e che non si può dire: “Sono nato e cresciuto a Napoli: amo la mia città, è la cosa che più mi manca in assoluto. Forse è per questo che ho sempre scelto piazze calde, perché per me il calcio è passione, tifosi veraci, gente che vive per arrivare al fine settimana e andare alla partita. Qui ad Atene è così, probabilmente è per questo che mi ci trovo benissimo”. Ma andiamo per gradi: “Fin da ragazzino impazzivo per il pallone, non pensavo ad altro. Ed è strano, perché mio papà è un appassionato, ma non un fanatico. Mia mamma, poverina, era costretta a rincorrermi per farmi tornare a casa. Ricordo partite che duravano da mattina fino a sera, in campetti improvvisati. Ed è strano dirlo oggi che sono diventato calciatore professionista, ma credo che quelli siano tra i ricordi più felici della mia vita”. A 13 anni Daniele va a fare un provino alla Roma, non glielo fanno neanche finire che ha già la penna in mano per firmare: “E’ un ricordo indelebile, un’emozio-

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fratelli d’italia • Daniele Verde ne incredibile. La mattina ero a Fuorigrotta, il pomeriggio a Trigoria: ho giocato il primo tempo da terzino, il secondo da laterale alto. Io in realtà avevo sempre giocato attaccante fino a quel momento. Ero un po’ titubante, timido, intimorito. Non ero neanche sicuro di avere fatto bene. Quando mi hanno detto che avevo passato il provino, non ho capito più niente. E me lo dissero subito, la partita praticamente non era ancora finita che mi presero da parte per farmi firmare”. E a dirglielo, non sono certo stati due “qualunque”: “A notarmi fu Bruno Conti, è stato lui a farmi fare il provino, ma è stato Montella a scegliermi. È stato proprio il Mister a dirmi di giocare terzino, non so perché. Ma poi, da quando mi ha messo laterale alto, non mi ha più cambiato ruolo”. Ora pensate un ragazzino tredicenne strappato alla sua Napoli e trapiantato a Roma… “All’inizio è stata davvero dura, avevo voglia di scappare e tornare a casa. Poi, però, mi sono ambientato in fretta, anche perché ho trovato persone stupende, tra i compagni ma anche tra i dirigenti. Alcuni ragazzi avevano fatto il provino con me e poi me li sono ri-

trovati in squadra: si è creato un rapporto stupendo, siamo cresciuti praticamente insieme. Con Bruno Conti mi sento ancora oggi e anche Montella mi ha aiutato tanto, perché aveva vissuto la stessa esperienza quando da ragazzino da Napoli si era trasferito ad Empoli”. Per altro, oltre che nel ruolo, a Bruno Conti Daniele Verde assomiglia anche nelle movenze, e quando glielo diciamo quasi arrossisce: “Ne sono onorato. Me l’avevano già detto, ma non l’avevo mai visto giocare e così sono andato a rivedermi le sue partite. Era davvero un campione, essere accostato a lui mi riempie di orgoglio”. La generazione di Daniele, però, è un’altra e dunque è inevitabile che gli idoli siano più recenti: “Sono cresciuto nel mito di Ronaldo il fenomeno: ricordo ancora quando gli ho fatto da raccattapalle in un Roma-Milan, mi tremavano le gambe. E pensare che quello non era nemmeno il miglior Ronaldo, perché quello dell’Inter, del PSV e del Barcellona era veramente devastante. Poi mi piaceva Ronaldinho, perché era uno che faceva divertire, ma soprattutto dava sempre la sensazione di divertirsi. Per lo

Cinquanta sfumature di azzurro Daniele Verde è napoletano DOC, ma nel Napoli non ha mai giocato. Passa direttamente da Fuorigrotta, dove è nato e cresciuto, al settore giovanile della Roma. Classe 1996, a 13 anni viene notato da Bruno Conti e allenato dal concittadino Vincenzo Montella. A 18 anni esordisce in A grazie a Mister Rudi Garcia, che il 17 dicembre del 2015 lo butta nella mischia in un momento delicatissimo di un Palermo-Roma a 15’ dalla fine. Il tecnico francese ha talmente tanta fiducia nel suo talento, che successivamente lo schiera addirittura titolare in Cagliari-Roma dell’8 febbraio. Fiducia ripagata, visto che in quella gara Daniele strappa la scena ai suoi compagni ben più famosi e confeziona due assist meravigliosi (e decisivi) per l’1-2 finale. Nelle pagelle riceve addirittura un sette e mezzo. Roba da grandi, come sentenzia la Gazzetta: “Gioca come un vecchio, altro che deb. È lui l’anima della Roma che rinasce. Strappi continui, conclusioni. E due assist, il primo da fenomeno”. Da lì, inevitabilmente, l’asticella si alza. Così come le pressioni. Il resto è cronaca. Oggi all’AEK Daniele sta tornando a quei livelli: il 23 febbraio scorso i primi gol in maglia giallonera, con tanto di dedica alla figlioletta appena nata. Un’emozione doppia. Così come la maglia della Nazionale, vestita in U19 e U21. Manca solo quella azzurrissima dei “grandi”: “Ci spero, ci credo, ma non ne faccio un’ossessione. La mia ambizione è quella di maturare e migliorare come calciatore giorno dopo giorno, per arrivare ai massimi livelli”. Non a caso l’Azzurro è il colore del cielo.

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L’esordio in Serie A lo fa con la Roma, grazie al tecnico Garcia

stesso motivo oggi guardo con piacere Neymar, che di Ronaldinho mi sembra l’evoluzione in chiave moderna, ma che non ha perso la passione per la giocata. Per me il calcio è questo, se quando giochi non ti diverti, allora non ha senso.”. E quando giochi con gente come Totti e De Rossi, non è poi così difficile divertirsi: “Quando penso che un giorno potrò raccontare ai miei figli e ai miei nipoti di aver giocato con Francesco Totti, mi vengono già i brividi. Per me Francesco è stato uno dei giocatori più forti al Mondo, vederlo da vicino era uno spettacolo. Poi è un ragazzo stupendo: timido, quasi sempre silenzioso, mai una parola fuori posto, sempre pronto ad incoraggiarti. Era il vero Capitano, l’esempio da seguire. Da fuori lo hanno disegnato in maniera completamente diversa, ma visto da dentro lo spogliatoio ti accorgevi quanto fa-

cesse gruppo e pensasse solo al bene della Roma. Lui era la Roma. Incredibile anche l’affetto dei tifosi. Quella squadra, comunque, era piena di giocatori di personalità, anche De Rossi era un leader naturale, uno che ti dava una carica pazzesca, che a volte ti sgridava anche, ma sempre per spronarti a dare qualcosa in più, per correggerti e farti migliorare. Essere cresciuto con questi grandi campioni è stato un “regalo” del destino, un privilegio per me e un passaggio fondamentale per la mia carriera”. Eppure, in una squadra così pregna di star, Daniele si è ritagliato il suo spazio: non solo esordisce, ma comincia a diventare il jolly in grado di sparigliare le carte. Garcia lo usa spesso come cavatappi per stappare le partite. E lui lo fa alla grande: “Esordisco in un Palermo-Roma (1-1 il risultato finale, n.d.r.). Il mister mi fa entrare negli ultimi 15’ al posto di Iturbe. Entro con una voglia di spaccare il mondo. Capirai, per un 18enne esordire in Serie A, dopo tutto il settore giovanile, era una cosa fantastica. Faccio anche bene, ma quando rientro negli spogliatoi Garcia mi ha dato una lezione che non ho

“Quando penso che un giorno potrò raccontare ai miei figli e ai miei nipoti di aver giocato con Francesco Totti, mi vengono già i brividi” più dimenticato. Mi si avvicina scuro in volto e mi dice: “Se quando ti metto in campo devi giocare con la paura di sbagliare e non ti diverti, allora con me non giochi più”. Da allora ho deciso che non sarei più sceso a compromessi, che sarei sempre stato me stesso, magari a costo di fare scelte impopolari, ma questa è prima di tutto la mia passione e solo dopo la mia professione”. Dopo Roma, ci ha

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fratelli d’italia • Daniele Verde

In gol con la casacca della Roma contro la Lazio nella finale di Coppa Italia Primavera

messo un po’ a ritrovarla quella passione Daniele e spesso ci sono volute scelte originali per trovare la strada giusta: “Ho fatto qualche anno in prestito in cui non sono riuscito ad esprimermi come avrei voluto (Frosinone e Pescara in particolare, ndr). Poi ad Avellino (seconda parte della stagione 2016/2017 n.d.r.) ho ritrovato un discreto stato di forma, che mi ha consentito di ritagliarmi l’opportunità di Verona, che per me è stata molto importante. Anche l’ambiente di Avellino mi ha aiutato tanto, perché anche lì il calcio è una religione. Sempre pronti ad incitarti, a sostenerti, anche nei momenti più difficili”. Grazie all’annata di Verona, poi, si schiudono le porte dell’estero. La prima esperienza a Valladolid: “Non chiedermi perché, ma la Spagna mi ha sempre attirato tantissimo. Forse perché lo stile di vita ricorda un po’ quello di Napoli (sorride, ndr). Sarei potuto andare anche in Francia, lo Stade Rennais mi aveva fatto un’offerta interessante, ma quando mi è stata prospettata la possibilità di andare in Spagna,

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ho accettato subito. Poi, capirai, il pensiero di poter giocare nello stesso campionato di Messi, per me era già un sogno. Ci sono i campioni, poi ci sono gli extraterrestri come Messi, Maradona e pochi altri. Ricordo ancora la partita con il Barcellona, mi hanno anche detto che ho giocato bene, ma io in realtà non me lo ricordo perché guardavo solo lui. E, poi, avere la sua maglietta a fine partita, è stata un’emozione enorme. Ora la conservo come una reliquia, l‘ho messa in banca, così sto più sereno”. Per altro, con un idolo Daniele ci ha giocato contro, un altro se l’è trovato come “capo”: “Già, perché dopo pochi mesi dal mio arrivo al Valladolid, Ronaldo il fenomeno è diventato il Presidente del club. Per me che sono cresciuto ammirando le sue giocate, è stato incredibile. E poi è un personaggio davvero speciale: pensa che mancavano due, tre partite a fine stagione, e noi stavamo ancora lottando per la salvezza, è venuto negli spogliatoi e ci ha detto: “Dai ragazzi, facciamo in fretta. Se ci salviamo, vi porto tutti in


vacanza”. E l’ha fatto davvero. Ci ha portati tutti ad Ibiza!”. Un’esperienza positiva, molto positiva, che era naturale che si concludesse con un prolungamento. Tuttavia, come avrete capito, nella vita e nella carriera di Daniele non c’è nulla di “ordinario”: “Avevo l’ultimo anno di contatto con la Roma, per questo non dipendeva tutto da me. Io sarei rimasto in Spagna perché mi trovavo bene, però non c’erano le condizioni. È arrivata la proposta dell’AEK che, ha investito su di me pur essendo praticamente in scadenza, offrendo una cifra importante alla Roma per il cartellino e a me tre anni di contratto. È stato un segnale di fiducia decisivo. E poi l’AEK è un club prestigioso, di grande storia, che ogni anno gioca le coppe europee. Per me era un’occasione importante e devo dire che non ci ho messo molto ad accettare. Anzi”. Ad Atene Daniele si sente a casa: “E’ caotica, viva, la gente è aperta, disponibile. Insomma, anche qui

sembra di essere a Napoli (sorride, ndr). Il livello del calcio non è paragonabile al nostro, ma le prime quattro, cinque squadre, se la giocano anche in Europa. Per me era un’occasione troppo importante per lasciarmela sfuggire. L’ambiente, poi, è stato fondamentale per la mia scelta: anche qui vivono per il calcio, c’è tantissima passione e i tifosi sono stupendi.”. Insomma, manca solo che allo Stadio Olimpico Spyros Louis, parta “Un giorno all’improvviso”, il coro che fa tremare il San Paolo. Che, pensandoci, visto tutto quello che gli è successo nella vita, potrebbe essere anche il titolo e la colonna sonora della vita di Daniele. “Un giorno all’improvviso, mi innamorai di te. Il cuore mi batteva, non chiedermi perché. Di tempo ne è passato, ma siamo ancora qua. E oggi come allora, difendo la città”. Perché se ce l’hai nel cuore, pure la Spagna o Atene possono sembrarti Napoli. Ma niente sarà mai come l’originale.

Decisamente positiva la sua stagione con la casacca dell’Hellas Verona

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o r e t s e ’ l l a italiani Antonio Nocerino

di Mirko Di Natale

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ANTONIO NOCERINO IL GLADIATORE Dall’Italia agli Stati Uniti con un’incrollabile fiducia in sé stesso e un folle amore per il calcio…

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ella mia giovanissima carriera da esclusivista, ammetto di aver intervistato tantissimi ex calciatori. Ed ognuno di loro mi ha insegnato qualcosa. Li conosci per cognome, fai il tifo per loro incitandoli col cognome, compri le loro magliette con inciso il loro cognome. Ma quando inizi a conoscerli chiamandoli per nome, allora diventa tutta un’altra storia. Il racconto che inizierete a leggere parla di un ragazzo che si è affermato nel dorato mondo calcistico grazie a due qualità: sacrificio ed umiltà. E il suo credo è quello di trasmetterlo, a sua volta, alle future generazioni che allenerà. Ma facciamo prima un passo indietro: Se da bambino ti avessero chiesto di intitolare un tema scolastico, la scelta sarebbe caduta su “i miei 15 anni di carriera?”. “No, più che a far carriera da bambino pensavo di giocare in Serie A e in Nazionale. Erano quelli i miei due grandi traguardi”. Quindi hai sempre voluto fare il calciatore? “Diciamo che con il calcio non è stato amore a prima vista. Nonostante seguissi il mio papà che faceva l’allenatore, inizialmente non mi piaceva molto questo sport. Ma l’interesse è venuto pian piano, credo che la scintilla sia scoccata quando lo praticavo con gli amici per strada”.

Nel caso in cui tu non lo fossi diventato, hai mai preso in considerazione l’idea di fare altro nella vita? “Questa idea era stata presa in considerazione dai miei genitori, loro mi hanno sempre messo in testa che era importante andare a scuola e prendere il diploma. Poi veniva il calcio, che era soltanto un gioco. Sicuramente avevano pensato ad un piano b, ma non ho mai scoperto che cosa fosse (sorride n.d.r.). La voglia, la costanza e la passione mi hanno permesso di trasformarlo in un primo lavoro”. Inizialmente, quando scendevi in campo, volevi emulare qualcuno? Chi era il tuo idolo? “A me piaceva tantissimo Redondo, ma non disdegnavo nemmeno Guardiola ed Albertini. Questi calciatori li osservavo con un occhio diverso, sicuramente quando entravo in campo volevo esser come loro. Nella mia generazione, invece, guardavo Rino (Gattuso n.d.r.) e De Rossi, due persone eccezionali. Sono partiti da zero come me, con il lavoro e il sacrificio hanno ottenuto grandi risultati. Erano il mio riferimento”. Ti è mai pesato non conquistare nessun trofeo? “Onestamente ho pensato molto a questo, forse non sono stato bravo abbastanza da

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Antonio Nocerino meritarmelo. Ripercorrendo la mia carriera, ritengo di esser stato sfortunato al Milan e di esserci andato vicinissimo a Palermo. Però sono felice lo stesso. Perché il riconoscimento più grande è stato l’affetto avuto dalle persone incontrate durante il mio viaggio. Più che di ricordi, preferisco vivere di amore e rispetto”. Che cosa ti piace fare nel tempo libero? “Amo passare il tempo libero con la mia famiglia, vivo per loro. Avendo quattro figli, io e mia moglie non ci annoiamo: guardiamo cartoni animati, organizziamo spettacoli e riesco anche a giocare a calcio con uno di loro”. Qual è il tuo film preferito? “Io impazzisco per il Gladiatore di Ridley Scott, che un po’ rispecchia quello che è stato il mio modo di giocare. La sua storia mi ha sempre affascinato, perché il protagonista è in grado di riconquistare il rispetto e la stima delle persone dopo aver toccato il baratro. Per me questa è la vera vittoria anche nella vita di tutti i giorni”. Come è vivere negli Stati Uniti? “È molto bello, si vive bene. Io lo chiamo ‘il paese delle opportunità’ per quello che ha saputo offrirci. Qui esiste meritocrazia, vai avanti solo se lo meriti. E i miei figli non sono privilegiati per il cognome che portano. Qui è molto più ‘easy’, il giocatore di basket ad esempio passeggia tranquillamente senza quell’invadenza che c’è altrove. Sicuramente non è stato facile lasciare l’Italia, siamo dovuti ripartir da zero. Molti pensano che essendo benestanti sia tutto più semplice, ma non è per nulla vero”. L’APPROCCIO DI COACH “NOCE” Oggi, dopo aver appeso gli scarpini al chiodo, Antonio Nocerino allena i giovanissimi dell’Orlando U15 e U17: “L’avventura procede bene, sono contento di questa nuova vita lavorativa e mi sento molto coinvolto. Mi piacerebbe poter essere un esempio per i più

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giovani”. Come? Nocerino ha le idee chiare a proposito: “Vorrei che i miei ragazzi mi ricordassero per la serietà e la professionalità, oltre che per l’onestà e il rispetto. Una dote importante è quella di parlare in faccia, a loro lo ripeto spesso questo concetto. Vorrei evitare di commettere l’errore di alcuni dei miei ex allenatori”. Ma ciò che vuol sottolineare “Schiaccianoci”, così come veniva chiamato ai tempi del Milan, è il differente approccio che c’è tra il ragazzo italiano e quello americano: “Mentre il primo già dall’infanzia vive di calcio, il secondo comincia da zero. Qui lo sport nazionale è il basket o il football, non il calcio. C’è una cultura differente. Mancano le basi, spesso ho l’impressione che non sanno di che cosa si parla. Un ragazzo di 15 anni americano equivale ad uno di 11 italiano. Sto insistendo, in particolare, sulla postura, sul passaggio e sui fondamentali. A loro dico che non c’è soltanto il college, ma anche altre strade per praticare questo sport. Voglio fargli alzare l’asticella dal punto di vista mentale, voglio far crescere la loro ambizione. Solo in questo modo, puoi comin-


di Palermo, ma anche il ciare a raggiungere i tuoi Balzaretti, l’Hernandez e sogni”. Quando gli chiel’Ilicic dello stesso periodiamo se è sicuro di ciò do. Forse lo sloveno non che ha scelto, la risposta ha mai avuto continuità, è decisa: “Sì, ogni giorno ma sta dimostrando di mi affascina sempre di meritare la Champions. più”. Adesso giocherebbero Capitolo allenatori: quatranquillamente in una le è stato il più imporbig del calcio europeo tante? come il Real Madrid”. “Non ce ne è soltanHai citato i tuoi ex comto uno, perché ognuno pagni di squadra di quel di loro mi ha insegnato fantastico triennio visqualcosa. Zeman è una suto a Palermo. persona incredibile, dis“Sì e per continuare il se fin da subito che sadiscorso, se prendiamo rei stato titolare con lui. d’esempio Balzaretti forHo sempre avuto il suo se soltanto l’Inter aveva il supporto, lo ritengo una terzino più forte. In quegli figura fondamentale nel Tante le soddisfazioni con la casacca del Palermo anni, dopo Zambrotta in mio primo anno tra i proquel ruolo c’era Federifessionisti. Mister Iachini co come giocatore italiano. I giocatori da me lo sento ancora oggi, a distanza di anni è rielencati, singolarmente, erano all’altezza di masta immutata la stima. Gasperini, invece, quei campioni che governavano la Serie A in già ai tempi era un visionario. L’ho conosciuquel periodo. Ma erano i più sottovalutati”. to nelle giovanili della Juventus e l’ho avuto Alla Juventus, la mentalità veniva data dalcome tecnico a Crotone, mi fece capire ancor la società o dai senatori presenti? di più che cosa significasse lavorare”. “La società aveva tramandato il suo credo ai Ci sono mai stati dei tecnici che sono stati giocatori, alla Juventus la vittoria più bella è importanti anche per vicende fuori dal camsempre la prossima. Era così anche al Mipo? lan, ricordo che un pareggio equivaleva ad “Sì, ricordo Delio Rossi che è stato come una sconfitta. Purtroppo sono arrivato in un un fratello maggiore. Lo è stato, in realmomento in cui c’era confusione dal punto di tà, per tutti noi che giocammo a Palermo. vista societario, non era la squadra vincente Così come Donadoni, che mi è stato vicino degli anni d’oro di Conte ed Allegri. Sarebbe a Parma quando ho perso mio papà e mia bastato arrivare qualche anno più tardi, con mamma nel giro di 40 giorni. E quello è stato una proprietà diversa”. un periodo delicato anche dal punto di vista In che ruolo giocavi in bianconero? calcistico, perché la società emiliana stava “Giocavo in mezzo in un centrocampo a due attraversando davvero un bruttissimo periocon Zanetti, Camoranesi e Nedved erano gli do”. esterni alti. Se c’erano le tre punte, ricordo Chi è stato il giocatore più sottovalutato con che Pavel arretrava e faceva un po’ di tutto. cui hai giocato? Quanto era impressionante”. “Anche qui è difficile fare un solo nome A quale squadra sei rimasto più legato? (sorride n.d.r.). Mi viene in mente il Cavani

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Antonio Nocerino “Calcisticamente sono rimasto legato a tutte, ma quelle che più mi han dato a livello umano sono state Piacenza, Palermo e Milan”. Ci puoi raccontare, a distanza di anni, che cosa è successo in quegli ultimi giorni della fase di calciomercato 2011? “Avevo premesso al Palermo che non sarei voluto andar via, perché volevo concludere qui la mia carriera. E mi sarebbe piaciuto raggiungere l’Europeo con la maglia dei rosanero. Avevo ricevuto delle rassicurazioni importanti dal direttore, ma forse Zamparini non era dello stesso avviso in quanto voleva cedere tutti i suoi pezzi pregiati. Quando ho saputo del trasferimento al Milan, mi sono arrabbiato”. Perché stavi per andare al Milan? “Non per il Milan, bensì perché non avevo voglia di iniziare nuovamente tutto. Ormai avevo raggiunto la mia dimensione, la famiglia stava bene e tutti provavano affetto per me. Però è andata così, sarò per sempre grato di aver indossato quella maglia. Poi c’è un altro retroscena da raccontare: presi il 22 senza pensarci, non avevo pensato fosse appartenuta a Kaká. Quando ho iniziato a pensarci avevo un po’ di timore, ma alla fine è andato tutto bene (sorride n.d.r.)”. Il 2012 fu per te un anno travagliato, caratterizzato dagli insuccessi in campionato e all’Europeo. Quale fu quello più deludente? “Sicuramente il primo, anche perché in nazionale avevo giocato poco. E in finale con la Spagna siamo stati distrutti. Al Milan ho vissuto un’annata straordinaria, me lo ricordo di più perché lo scudetto è stato perso per pochi punti”. Quando il Milan ha ceduto Ibrahimovic e Thiago Silva, quale è stato il pensiero di voi giocatori? La squadra aveva già perso bandiere e senatori del calibro di Nesta, Gattuso, Seedorf, Inzaghi. “Pensavamo di aver dato forza alle altre squadre. A mio parere, la rifondazione anda-

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va fatta in maniera più graduale. Serviva la presenza e l’apporto di quei campioni, come Gattuso e Van Bommel, che non avevano smesso. Loro sarebbero state delle figure importanti sia dentro che fuori dal campo, specialmente nel tramandare la mentalità ai nuovi arrivi. In questo modo nemmeno Ibra e Thiago sarebbero più partiti”. A proposito di Ibra, per te è stato un amico e un nemico calcistico. “Lui è quel che si vede, pretende tanto e vuol sempre vincere. Cura in maniera impressionante i dettagli, non si accontenta mai. Zlatan ti aiuta ad alzare l’asticella, io vorrei sempre averlo al mio fianco (ride n.d.r.). Come avversario è difficile da marcare”. E su Kaká che cosa ci puoi dire? “È un ragazzo eccezionale, d’oro. Ha un’umiltà spaventosa. È uno dei 15 giocatori di sempre più forti al mondo. Quando lo osservavo in allenamento era allucinante, rimanevo impressionato da quel che riusciva a fare. Orlando? Ho accettato anche per merito suo. Lui già indossava quella maglia, è stato più semplice adattarmi alla nuova vita. Avevo altre offerte da Washington e DC United, ma non ci ho pensato due volte”.

Del suo rapporto con Ibrahimovic si è parlato a lungo



Rummenigge

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di Stefano Borgi

del

LEGGENDE calcio


KAISER KALLE Karl-Heinz Rummenigge è stato uno degli attaccanti più forti di sempre, con due costanti: i muscoli fragili e l’amicizia con Beckenbauer...

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er capire fino in fondo la grandezza, la dimensione, financo la maledizione di Karl-Heinz Rummenigge, bisogna riprendere due gol e guardarli attentamente. Parliamo del quarto (?) contro i Rangers di Glasgow (24 ottobre 1984), e del secondo contro il Torino (8 dicembre 1985). Due perle, a distanza di un anno l’una dall’altra, molto simili tra loro ma ahimè... con destini diametralmente opposti. Annullato il primo tra lo stupore generale, concesso il secondo tra l’incredulità e l’ammirazione... sempre generale. Per questo abbiamo battezzato come “quarto” il gol contro gli scozzesi (in realtà la partita finì 3-0 per i nerazzurri), perché annullare una prodezza simile è un’offesa al gioco del calcio. Una profanazione al tempio della bellezza, al quale accedono solo gli eletti: tecnicamente, atleticamente e stilisticamente. Eh già, perché Karl-Heinz Rummenigge è stato uno dei calciatori che meglio di altri ha coniugato i tre principi: tecnica, forza ed eleganza. Una via di mezzo tra Van Basten e Batistuta, tra Hrubesch e Gerd Muller, tra Careca e Bobo Vieri, con la differenza che il buon “Kalle” non ha niente da invidiare a nessuno di que-

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Rummenigge

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sti. Ha semplicemente raccolto il meglio di ognuno e lo ha messo in un unico corpo... il suo. Unico minus la fragilità muscolare ma si sa, a tutti i poeti manca un verso. Facciamo invece i complimenti al signor Paparesta di Bari, arbitro di quell’Inter-Torino 3-3, che giudicò regolare la “sforbiciata” con la quale Rummenigge impallinò il granata Copparoni. A differenza di Volker Roth, nato nell’ex DDR (sarà un caso?) che invece osò annullare quella che lo stesso Rummenigge definì: “non proprio una rovesciata. Diciamo un’acrobazia più laterale, per prendere la palla altissima. Un gesto raro, unico. Impatto perfetto, botta imprendibile”. Per poi aggiungere: “Quando mi rialzo scorgo un difensore per terra, vedo l’arbitro Roth che dà punizione a loro, ma in quel momento non capisco la bellezza estrema del gesto. La gente attorno però è tutta in piedi, applaude a lungo: troppo per un normale gol non valido. A fine partita Roth, mio connazionale, mi chiede la maglia per ricordo: mi ha appena tolto la rete più bella della mia carriera, non

1976

vince Coppa Campioni ed Intercontinentale col Bayern

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vince l’Europeo con la Germania ed il Pallone d’Oro

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e 1986 perde due finali mondiali

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presenze in nazionale, 45 gol realizzati

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reti e 102 presenze totali nell’Inter dal 1984 al 1987

Il panzer tedesco ha indossato la casacca dell’Inter per tre anni

posso regalargliela. Infatti gliela nego”. E per far arrabbiare uno “buono” come Rummenigge, ce ne vuole... ERRARE HUMANUM EST, PERSEVERARE... Piccola appendice al “leso calcio” di cui sopra: lo stesso arbitro Roth (al tempo molto quotato, ma evidentemente refrattario alle meraviglie di “eupalla”) si renderà protagonista di un’altra efferatezza, ovvero l’annullamento del celeberrimo gol di Michel Platini nella finale intercontinentale contro l’Argentinos Juniors. Ricordate? Correva l’8 dicembre 1985, squadre sull’1-1 quando “Le Roi” Michel stoppa di petto, “sombrerizza” Pavoni, e col sinistro incrocia alle spalle di Vidallè. Chapeau! Per tutti, meno che per il buon Volker che diabolicamente persevera nell’errore. E forse, nell’invidia per non esser capace di fare altrettanto. Seppur in modo diverso, e soprattutto non per colpa sua, anche la carriera di Rummenigge è un perseverare... di rimpianti, di occasioni mancate. Al netto di un “palmares” ricchissimo: due Bundesliga, due coppe di Ger-


Ha giocato al Bayern Monaco dal 1974 al 1984

mania, due Coppe dei Campioni, una coppa Intercontinentale... tutto col Bayern, nel decennio d’oro che va dal 1974 al 1984. E poi due edizioni del Pallone d’Oro (1980 e 1981), oltre che una serie infinita di riconoscimenti personali. Di contro un “misero” campionato Europeo con la Nazionale (Italia 1980), e nulla più. Ed è qui che cominciano i “vorrei ma non posso” di uno dei più grandi fuoriclasse del calcio mondiale, anche perché... le vittorie sono come i figli, tutte belle, tutte uguali. Ma alcune sono più uguali delle altre:

soprattutto quelle conquistate in nome della patria. FINALE AMARA Cominciamo dalla fine, anzi... dalla finale. L’ultima, in tutti i sensi. È il 29 giugno 1986, allo stadio Azteca di Città del Messico si affrontano Argentina e Germania. Ore 12 locali, davanti a 114.600 spettatori. Karl-Heinz Rummenigge si appresta a disputare la sua 95° partita con i “bianchi” di Germania, ed a realizzare il 45° gol che lo piazza al 6° posto

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Rummenigge

dei marcatori tedeschi di tutti i tempi. Cronaca: è’ il 74’, Maradona & co avanti di due reti, Brehme calcia l’ennesimo angolo, Rudi Voeller prolunga di testa per Rummenigge che, dall’area piccola, si allunga e corregge in rete. Lo stesso Voeller pareggerà i conti pochi minuti dopo, fino al gol vittoria di Burruchaga... segnato in contropiede. Stranezze del calcio. Sarà l’ultimo centro di Kalle, nella sua ultima apparizione con la nazionale. Ahimè non basterà a vincere quella corona mondiale che, per bravura, per merito, per carriera, si sarebbe ampiamente meritato.

Come quattro anni prima (e qui torniamo al discorso del perseverare) quando Rummenigge ne aveva giocata un’altra di finale, a Madrid, anche quella con la fascia di capitano al braccio. Anche quella perduta... stavolta contro l’Italia di Bearzot. In entrambe le occasioni Rummenigge arriva alla kermesse mondiale in non perfette condizioni fisiche. Addirittura in Spagna gli tocca spesso partire dalla panchina, per poi decidere le sorti del match, come in semifinale contro la Francia quando (grazie ad un suo gol nei supplementari) i tedeschi recuperano due reti ai tran-

il ricordo di mandorlini Andrea Mandorlini e Karl-Heinz Rummenigge approdano insieme all’Inter nell’estate 1984. Il primo è un giovane di belle speranze, proviene dalla provincia, Ascoli Piceno. Il secondo, già vincitore di coppe, scudetti e palloni d’oro, arriva da Monaco. Dalla ricca Germania. E non è proprio la stessa cosa. Eppure i due diventano amici, tanto che Castagner li mette addirittura in camera insieme. “Pensate che shock - racconta Andrea - trovarmi a pochi metri di distanza da uno degli attaccanti più forti del mondo. Uno che, solo due anni prima, avevo ammirato contro l’Italia in una finale mondiale. Insomma, come si dice in questi casi... tanta roba”. Le differenze, però, non si notavano... “Perché Kalle era un grande. Anzi... è un grande. Ci siamo rivisti con le famiglie l’estate scorsa, siamo stati insieme tutto il giorno. Abbiamo ricordato i tempi dell’Inter.…” Anche se la sua permanenza in Italia non fu fortunatissima... “Colpa degli infortuni. Colpa di una muscolatura che, a differenza della bravura tecnica, era forse un po’ fragile. Sia il primo che il terzo anno saltò parecchie partite. Però, nonostante questo, fece vedere grandi cose. Ricordo i gol in acrobazia, le doppiette con Juventus e Colonia, le battaglie in allenamento. Io da difensore lo incrociavo spesso, e mi colpiva per la sua tecnica, per la sua forza, per la sua intelligenza. Era potente e veloce allo stesso tempo, calciava col destro e col sinistro. E poi la professionalità... un tedesco in tutto e per tutto. Era un tedesco anche quando andava a letto...” Prego? “Vi racconto un aneddoto. L’inverno, alla Pinetina, fa freddo. Parecchio freddo. Eppure Kalle si coricava praticamente senza niente, al massimo una maglietta. Mentre io mi imbacuccavo come un eschimese, lui invece sembrava scolpito nel ghiaccio”. Ce lo descriva caratterialmente... “Un vero leader. Un po’ per il passato che si portava appresso, un po’ perché era proprio così. Un compagno eccezionale, di grandissima personalità. Dentro e fuori dal campo. Ripeto, peccato gli infortuni: con lui al massimo avremmo vinto di certo qualcosa. Ed invece in tre anni abbiamo raccolto appena due semifinali in coppa Uefa. Però aver giocato con Rummenigge, aver condiviso lo spogliatoio con Rummenigge, è una medaglia che mi porto dentro”.

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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

salpini. Per poi giocare menomato la finale, marcato senza pietà da un giovanissimo (ma già bravissimo) Giuseppe Bergomi. Idem con patate in Messico dove tutta la Nazionale tedesca non è al meglio. Gironcino iniziale superato da “seconda”, con tanto di sconfitta contro la Danimarca di Elkjaer. Vittorie di misura negli ottavi contro il Marocco, addirittura ai rigori nei quarti contro i padroni di casa del Messico. Solo in semifinale con la Francia si vede una Germania degna della propria tradizione, e come diceva Lineker: “al calcio si gioca 11 contro 11, ma alla fine vince sempre la Germania”. Parafrasando l’adagio di Gary aggiungiamo che la Germania arriva spesso in finale, e con lei ci arriva anche Rummenigge. Peccato che quando gioca Kalle... vincono sempre gli altri. Insomma, Karl-Heinz Rummenigge fa trenta, ma non fa trentuno. Almeno in Nazionale. Diverso il discorso nei club, segnatamente col Bayern di Monaco. GLASGOW NEL DESTINO... La città di Glasgow, per Rummenigge, non rappresenta solo rimpianti e gol annullati, ma vuol dire l’inizio di una grande carriera. Quantomeno il primo trofeo conquistato da protagonista. È il 12 maggio 1976 e si gioca la finale di Coppa dei Campioni tra Bayern e Saint-Etienne. Sono i primi vagiti del calcio francese, dopo che nel 1958 Just Fontaine aveva portato i galletti al terzo posto nei mondiali svedesi. Un fuoco di paglia, visto che bisognerà aspettare 20 anni esatti per riammirare i “bleu” con pochette e papillon. Nel frattempo la squadra di Robert Herbin, birillo dopo birillo, butta giù i danesi del KB, gli scozzesi dei Rangers, i sovietici della Dinamo Kiev, gli olandesi del PSV. Dall’altra

parte la corazzata di Dettmar Cramer, bi-campione in carica alla caccia del terzo successo consecutivo. Che arriverà, anche grazie ad un giovane attaccante (allora 21 enne) che arriva da Lippstadt, nella Renania settentrionale. La finale dell’Hampden Park è un susseguirsi di corsi e ricorsi storici: abbiamo detto del destino ondivago che unisce Glasgow a Rummenigge, e guarda caso chi è che decide la partita con un gol su punizione al 57’? Tale Franz Roth, centrocampista che già aveva segnato nella finale del 1975. E soprattutto si chiama come Volker Roth, l’arbitro contrario ai gol spettacolari. Bayern-Saint Etienne volle dire anche il passaggio di testimone tra Kalle e Gerd Muller, altro colosso del calcio tedesco. Insomma, da quel giorno Karl-Heinz Rummenigge diventa il Bayern: come Beckenbauer, come Hoeness, più di Muller, più di Breitner. Come testimoniano i due “palloni d’oro” del biennio ‘80-’81, impresa riuscita, prima di lui, solo a “Kaiser Franz”. Con Muller e Lothar Mattheus che si devono accontentare di uno.

Il Bayern Monaco è la sua vita, è ancora uno dei massimi dirigenti del club tedesco

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Rummenigge

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MADUNINA TRISTE Nel 1984 Kalle approda a Milano, sponda interista, fortemente voluto da Sandro Mazzola. Che però, quando il tedesco firma, non è più dirigente dell’Inter. Come abbiamo detto prima? Stranezze del calcio. La trattativa non è semplice perché, fino a poche settimane prima, resisteva una prelazione della Fiorentina. Ma, complice il grave infortunio occorso a Giancarlo Antognoni nel mese di febbraio, la dirigenza viola aveva virato su un pari ruolo come il brasiliano Socrates. Ahimè, le cose alla Pinetina non andranno come previsto. I tre anni di permanenza di Rummenigge vivranno tra luci ed ombre: grandi gol, grandi prodezze (alle due già descritte aggiungiamo un gol fantastico nel derby del 17 marzo 1985, sinistro imprendibile nel “sette” alle spalle di Terraneo) poi tanti, troppi infortuni. E la continuità che va a farsi benedire. Il primo anno con Castagner allenatore, un’Inter ambiziosa (che si era assicurata anche Liam Brady dalla Sampdoria) arriva “solo” terza in campionato, dietro Verona e Torino. Rummenigge si presenta timidamente al popolo nerazzurro con 8 reti in 26 partite, anche se il 4-0 alla Juventus con doppietta del tedesco resterà negli annali della società nerazzurra. Meglio nelle coppe dove, al termine, saranno 10 i centri complessivi su 18 partite. Peccato che le brucianti eliminazioni con Milan in coppa Italia e Real Madrid in coppa Uefa annacquino le prodezze di Kalle. La stagione seguente è quasi in fotocopia: solita campagna acquisti faraonica (sono gli anni nei quali l’Inter vince lo “scudetto d’estate”) gli innesti dei campioni d’Italia Fanna e Marangon, e Tardelli ad impreziosire la pinacoteca del presidente Pellegrini. Il secondo è l’anno migliore di Rummenigge: 13 reti in campionato (2° dietro a Pruzzo con 19), ma la classifica piange: 6° posto finale. Male anche in coppa Italia (sconfitta ai quarti con la Roma) e per finire la solita, immancabile sconfitta nella seminale Uefa col Real Madrid: 3-1 a

San Siro, 5-1 a Madrid per gli spagnoli con tempi supplementari giocati in 10 (espulsione di Mandorlini), senza attaccanti titolari (Rummenigge ed Altobelli erano usciti per infortunio), e carneade Bernazzani schierato centravanti. Il campionato ‘86-’87, infine, è il peggiore per il tedesco, causa un infortunio patito contro il Brescia il 1° febbraio 1987. Appena sei gol totali in 24 presenze. Peccato perché Trapattoni in panchina e Passarella in difesa rappresentavano due pezzi da 90, con la “beneamata” che contese lo scudetto al Napoli fino a poche giornate dalla fine. UNA VITA COL KAISER... Finisce così l’esperienza di Karl-Heinz Rummenigge nel campionato italiano. Non mancano gli sfoghi, la delusione a mezzo stampa (“pago per tutti”, ebbe a dire a campionato concluso) e la cessione in Svizzera, al Servette, dove si tolse la soddisfazione di vincere la classifica cannonieri. Da quel momento inizia una carriera fuori dal rettangolo verde (anche lì) piena di soddisfazioni. Soprattutto prosegue il binomio con Franz Beckenbauer, tanto che ci arroghiamo la libertà di chiamarlo come lui: Kaiser Kalle. Entrambi, infatti, vengono chiamati dal Bayern per il ruolo di dirigenti. Dal 1994 Franz diventa presidente e Karl-Heinz vice presidente. Fateci caso, per Rummenigge l’amicizia con Beckenbauer è l’alfa e l’omega di una carriera straordinaria, vissuta sempre accanto al Kaiser: dall’inizio in quella finale di Glasgow del ‘76, passando per l’Intercontinentale giocata e vinta contro i brasiliani del Cruzeiro, per arrivare alla conquista di due Palloni d’oro (lo abbiamo ricordato, i soli ad esserci riusciti nella storia del calcio tedesco). In più la delusione comune per il mondiale messicano: perduto... uno in campo, l’altro in panchina. Certo, a “Kalle” manca la vittoria in un campionato del mondo, mentre Beckenbauer ne ha vinti addirittura due: uno da giocatore, uno da allenatore. Ma del resto, il Kaiser originale resta lui...


Grande forza fisica e un fantastico istinto per il gol, questo era Kalle

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In Spagna, l’Athletic Bilbao è una “categoria speciale”, così come la storia della sua maglia…

L’UTOPIA BASCA

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lla fine dell’800 l’estuario di Bilbao ospitava numerosi battelli a vapore che collegavano il porto basco al nord Europa, soprattutto l’Inghilterra. La città era sede di numerose società che operavano nei trasporti, nell’estrazione mineraria e nei cantieri navali. La fiorente attività industriale attirò molti tecnici e operai specializzati inglesi (soprattutto da Southampton e Portsmouth i navali e da Sun-

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derland i minatori), i quali portarono con loro dei palloni e cominciarono a giocare a calcio e rugby nel tempo libero. Nello stesso periodo rientravano, dopo aver studiato in Inghilterra, dei giovani della classe media locale che avevano imparato i primi rudimenti del calcio durante gli studi. Nel 1892 venne fondato il Club Athletic de Astilleros Del Nervión, squadra in cui militavano i dipendenti dei cantieri navali, che si esibiva sul terreno


dell’ippodromo di Lamiako. I giovani bilbaini cominciarono ad assistere a queste partite e a interessarsi al nuovo gioco. Giovedì 3 maggio 1894 venne finalmente organizzata una sfida tra britannici e baschi, la partita finì con un roboante 6-0 a favore degli stranieri. Nel 1896 la società Astilleros del Nervión SA chiude, di conseguenza anche la squadra di calcio si scioglie, in quello stesso anno viene fondato il Bilbao Foot-Ball Club, camicia bianca abbinata a pantaloni bianchi e calze nere, i soci erano britannici e baschi. Due anni più tardi, alcuni membri della Zamacois Gymnastic Society fondarono l’Athletic Club, i membri del sodalizio erano quasi tutti ragazzi locali. Le prime immagini mostrano una divisa composta da maglia bianca con un elegante bordo bianconero oppure camicia bianca, pantaloni bianchi e calzettoni neri con bordo bianconero. Nell’estate del 1900 il Bilbao FC regolarizza la sua posizione come società sportiva, l’anno seguente i membri dell’Athletic Club si riuniscono al Café García nel centro città, il 5 aprile viene approvato lo statuto e l’11 giugno si riunisce il primo consiglio direttivo, infine il 5 settembre arriva il permesso governativo. I due club decidono di dividere le spese del terreno di gioco e di creare una squadra mista, denominata Club Vizcaya de Bilbao (camicia bianca con stemma sul petto accompagnata da pantaloni e calzettoni neri), per giocare contro altri club della Spagna. Questa selezione cittadina vincerà la Copa de la Coronación, disputata nel maggio 1902 a Madrid in occasione dell’incoronazione del re Alfonso XII. Sempre nel 1902 vengono fondate due nuove squadre, il Deusto Foot-ball Club da membri dell’università, e il The Union Football Club dove giocavano numerosi britannici. Nello stesso anno l’Athletic Club adotta delle camicie biancoblù divise a metà con pantaloni blu e calzettoni blu con ampio risvolto bianco. Queste nuove divise erano un regalo di Juan Mozer, socio del club di origi-

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ni irlandesi, di ritorno da un viaggio in Inghilterra, probabilmente ad imitazione delle divise del Blackburn Rovers. All’inizio del 1903 il Bilbao FC comincia ad avere problemi economici, il presidente dell’Athletic Club offre una fusione tra i due sodalizi e il 29 marzo viene firmato l’accordo secondo il quale il Bilbao FC viene sciolto e tutti i membri e le attività vengono assorbiti dall’Athletic Club. Nel 1903 venne disputata la prima edizione della Copa del Rey (ufficialmente denominata al tempo Campeonato de España de 1903), un torneo triangolare ad inviti organizzato dal Madrid Foot-Ball Club a cui parteciparono Athletic Club e il Club Español de Foot-ball di Barcellona. Il torneo si disputò nei giorni 6,7 e 8 aprile e vide i baschi battere le due avversarie. L’anno successivo l’Athletic Club vinse nuovamente la Coppa, vittoria a tavolino senza giocare neanche una partita in virtù del ruolo di detentore. Nelle due successive edizioni i baschi si classificarono al secondo posto, nel 1907 partecipò alla coppa il Club Vizcaya (selezione basca) che si classificò ancora al secondo posto. Nel dicembre del 1909 Juan Elorduy, un socio del club, effettuò un viaggio di lavoro in Inghilterra. Elorduy aveva l’incarico di acquistare 42 maglie per sostituire le camicie ormai logore dell’Athletic e dell’allora filiale dell’Athletic de Madrid, 21 per ogni squadra. Elorduy si dedicò ai suoi affari, quando all’ultimo momento si decise a cercare le maglie biancoblu non riuscì a trovarle, un ultimo tentativo fu fatto a Southam-

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pton, prima di imbarcarsi per tornare a Bilbao, anche questa volta non riuscì a trovare camicie biancoblu, trovò solo delle maglie biancorosse, i colori della squadra locale. Una volta tornato in patria le nuove maglie trovarono i favori dei giocatori, in quanto il bianco e il rosso erano i colori della città di Bilbao, inoltre i materiali con cui erano confezionate le nuove maglie erano migliori per giocare a calcio. È curioso notare, nella prima fotografia della squadra con le nuove maglie, come queste siano di due modelli diversi, ovvero alcune con la striscia centrale rossa ed altre con la striscia centrale bianca. Il 9 gennaio 1910 l’Athletic Club scende in campo contro l’Irun Sporting Club, partita amichevole, indossando maglia biancorossa a strisce verticali con collo rosso oppure bianco a girocollo chiuso da laccetti, pantaloncini bianchi e calzettoni neri. Nel 1910, a causa di dissidi tra i club spagnoli, si svolsero due tornei, entrambi considerati ufficiali. L’Athletic vinse quello organizzato a San Sebastian, il secondo torneo organizzato a Madrid venne vinto dal Barcellona. In questa stagione l’Athletic si trasferì al Campo de la Jolaseta, un campo moderno per l’epoca ma aveva il difetto di essere nella cittadina di Getxo e quindi scomodo da raggiungere. I problemi logistici, insieme alla necessità di avere uno stadio con maggior capienza, spinsero i dirigenti del club a cercare un altro posto dove costruire un nuovo stadio. Venne trovato un terreno adiacente alla Gran Via e vicino ad un complesso che


ospitava i più disagiati della città, all’interno di questa struttura benefica c’era una cappella dedicata a San Mamés. Mamés di Cappadocia era un martire cristiano, destinato nel 275 ad essere divorato dai leoni al circo. I leoni però, anziché divorarlo, si accucciarono ai suoi piedi per difenderlo. Il nuovo stadio venne inaugurato il 21 agosto 1913, successivamente ristrutturato negli anni seguenti, con la partita tra Athletic Club e Racing de Irun, partita terminata 1-1 con rete per i Biancorossi di Rafael Moreno detto Pichichi. In questa partita l’Athletic indossa, oltre alla maglia biancorossa, pantaloni neri e calzettoni neri con bordino biancorosso, ormai è nata la divisa classica del club. A partire dalla stagione 1922/23 si vedono maglie con collo a camicia biancorosso chiuso da una profonda abbottonatura. Torniamo indietro al 26 aprile 1903, un gruppo di studenti baschi residenti a Madrid fondò l’Athletic Club (Sucursal de Madrid), ovviamente stesse divise del club basco. Il 20 gennaio 1907 il club madrileno ottenne una sua personalità giuridica propria pur mantenendo il legame con il club di Bilbao, i legami si troncano definitivamente il 4 ottobre 1924. Nella stagione 1928/29 venne organizzato il primo campionato di Primera División, il primo vero campionato nazionale, l’Athletic terminò al terzo posto e la stagione successiva vinse il suo primo campionato rimanendo imbattuto. Nel 1929, dopo una vittoriosa partita dei Biancorossi, il cronista del quotidiano El Liberal intitolò l’articolo sulla partita: “I leoni di San Mamés hanno ruggito di nuovo”, da quel momento i giocatori dell’Athletic vennero definiti i Leoni. In quegli anni i calciatori baschi erano i migliori della penisola iberica, quindi venne naturale per il club utilizzare solo giocatori della regione, in seguito divenne una questione di principio per sottolineare un’identità basca, negli anni in cui il regime franchista cercava di sottomettere ogni rigurgito indipendentista. An-

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cora oggi l’Athletic utilizza solo giocatori nati nelle province basche oppure formati nel vivaio di squadre basche. Negli anni 30 i giocatori indossano una vera camicia, nelle prime stagioni del decennio completa di taschino, a righe biancorosse, pantaloncini neri e calzettoni neri con bordi biancorossi. Questo stile andrà avanti fino al dopoguerra, le camicie avranno abbottonatura completa o a metà, la striscia centrale sarà rossa oppure bianca a seconda delle stagioni così come il colletto varierà nel tempo come colore. Nel frattempo, a partire dalla stagione 1948/49, i calzettoni diventano biancorossi a righe orizzontali, questa è la stagione in cui le squadre spagnole cominciano ad usare i numeri sulla schiena. Nella stagione 1959/60 compare una maglia più moderna, le strisce un po’ più larghe e un collo a camicia biancorosso chiuso sul davanti da un triangolo rosso, per il resto del decennio si vedono principalmente una maglia invernale con collo a camicia e chiusura a polo con tre bottoni e una maglia estiva, sempre con collo a camicia ma con collo a V. Bisogna aspettare la stagione 1968/69 per vedere una maglia moderna sullo stile europeo, maglia sempre a strisce verticali ma con un collo a girocollo

Una formazione dell’Athletic Bilbao, anno 2015

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bianco oppure rosso, come di consuetudine in quegli anni si alternano diversi tipi di maglie nella stessa stagione. A partire dalla stagione 1972/73 la maglia presenta il collo a girocollo rosso, il fornitore è principalmente Juan Casabella, marchio che andava per la maggiore in Spagna in quel periodo. Nella stagione 1974/75 la maglia presenta un collo a camicia rosso chiuso a V sul davanti, le strisce sono più sottili e tornano i calzettoni neri con bordi biancorossi, sempre neri i pantaloncini. Gli anni 70 sono un periodo duro nei Paesi Baschi, il regime franchista opprime le speranze di indipendenza o di autonomia della regione, mentre la lotta armata è all’apice. Il 5 dicembre 1976, Franco è morto da un anno, all’Estadio de Atocha a San Sebastian Real Sociedad e Athletic Club entrano in campo per disputare il derby, le due squadre sono guidate dai due capitani, Inaxio Kortabarria e José Angel Iribar, che tengono in mano una Ikurriña, lo storico vessillo dei Paesi Baschi illegale dal 1938. Il governo centrale cercò inutilmente di censurare il gesto e l’episodio entrò subito nella storia locale. Nella stagione 1981/82 arriva il primo kit con il logo dello sponsor tecnico, si tratta della Adidas che fornisce una maglia a strisce con le maniche completamente rosse con le tre strisce bianche, collo a camicia biancorosso chiuso a V sempre da un motivo biancorosso, invariato il resto del completo. Questo è un periodo dorato per il calcio basco, prima la Real Sociedad (1980/81 e seguente) e poi l’Athletic (1982/83 e 1983/84) vincono quattro campionati spagnoli consecutivi, saranno gli ultimi per entrambe le squadre. Il campionato 1982/83 finisce con il sorpasso dell’Athletic nei confronti del Real Madrid all’ultima giornata, la


stagione 1983/84 i Leoni finiscono a pari merito con i Blancos ma vincono il campionato grazie alla differenza reti (+23 contro + 22). In tutto il periodo della fornitura Adidas la maglia rimane quasi invariata, vengono apportati solo dei cambiamenti al collo, a camicia oppure a V. Nel 1990/91 la fornitura passa alla Kappa, nei primi anni la ditta torinese propone una maglia a righe più sottili, da 11 a 13 righe, con collo a camicia bianco, nel 1995/95 le strisce ritornano 11 e nella stagione 1998/99, l’ultima firmata Kappa, le strisce diventano 7. Il nuovo millennio vede il ritorno della Adidas per due stagioni, maglia a 7 righe con collo a camicia rosso. Nell’estate del 2001 il club lancia un proprio marchio di abbigliamento, denominato 100% Athletic, lo stile della maglia rimane classico ma con l’inserimento di piccoli inserti neri su collo e bordi, contestualmente spariscono i risvolti biancorossi dai calzettoni. Nel 2004 in occasione del ritorno dei Leoni nelle coppe europee, il club commissionò all’artista basco Darío Urzay il progetto di una maglia speciale da utilizzare in Coppa UEFA. Urzay presentò una maglia dal design a dir poco stravagante che sostituiva le strisce con disegni astratti rossi su fondo bianco, si trattava della famigerata “maglia ketchup”. Indossata per la prima volta il 5 agosto in un’amichevole a Groningen, suscitò una reazione decisamente sfavorevole da parte dei tifosi e la dirigenza decise di ritirala immediatamente. Stranamente, nonostante l’indignazione dei tifosi, la maglia ha ottenuto grande consenso nel mondo dell’arte. In questa stagione compare per la prima volta, limitatamente alla Coppa UEFA e alla Copa del Rey, uno sponsor istituzionale sulle maglie, il Governo Basco sponsorizza il club con la scritta “Euskadi”. Nella stagione 2008/09 la maglia dell’Athletic perde la sua verginità, il club firma un contratto di sponsorizzazione per tre anni, in cambio di sei milioni di Euro, con la compagnia petro-

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tiene il raccoglitore, 4 bustine da ben 8 card ciascuna, la checklist, il campo da gioco, la guida ufficiale e le prime 2 card LIMITED EDITION esclusive: CIRO IMMOBILE (Italia) e AARON RAMSEY (Galles). In uscita a distanza di pochi giorni, i prodotti speciali del sistema Panini Adrenalyn, da non perdere: • la TIN BOX che contiene 5 bustine e ben 4 Limited Edition esclusive e fortissime; • la bustina PREMIUM, sensazionale, la migliore occasione per trovare le card più speciali e rare. Ogni Premium contiene 10 card, di cui 1 sempre Limited Edition a rotazione tra 8 differenti; • la bustina PREMIUM GOLD, disponibile solo online, il top assoluto! All’interno trovi 1 bustina Premium e ben 3 card Limited Edition esclusive e una card Premium Online. Tutte le informazioni e l’elenco delle 23 LIMITED EDITION sono contenute all’interno della guida ufficiale! Per giocare online a entusiasmanti tornei e avvincenti partite, è possibile scaricare l’app mobile ADRENALYN XL™ UEFA EURO 2020™, o collegarsi a euro2020. paniniadrenalyn.com e attivare le proprie card fisiche attraverso il codice stampato sul retro di ognuna!

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lifera Petronor. Nel 2009/10 la fornitura passa alla Umbro e successivamente a partire dal 2013/14 (dopo la cessione del marchio Umbro) alla Nike in precedenza proprietaria del marchio britannico. La Nike propone delle maglie con collo a girocollo nero, prima a 7 strisce e poi a 5 e infine a 11. A partire dalla stagione 2017/18 lo sponsor tecnico è la New Balance, che propone maglie simili a quelle degli ultimi anni. Due volte i Leoni sono arrivati in finale di Coppa UEFA, 1977 e 2012, entrambe le volte sconfitti da Juventus e Atletico Madrid. La seconda divisa dell’Athletic nei primi decenni era una semplice camicia bianca, a partire dagli anni 50 si sono usate maglie biancoblu a richiamare le divise degli albori, a inizio anni 70 è arrivata la divisa completamente blu. Negli anni 90 ritornano le maglie biancoblù, maglie nere a partire dal 2007 e nell’ultimo decennio maglie verdi con inserti biancorossi a richiamare la bandiera basca. I portieri dell’Athletic, nel corso dei decenni, hanno alternato maglie di tutti i colori, dal bianco al giallo al verde al nero, famose le maglie di questo colore indossate da Iribar. Lo stemma compare sulla maglia biancoblu agli albori, ritorna nella stagione 1974/75 in maniera definitiva. Agli inizi era un semplice monogramma AC, lo stemma attuale racchiude, oltre ai colori sociali, i simboli che rappresentano la città di Bilbao e la regione di Vizcaia. Il ponte e la chiesa di San Antón rappresentano la città, l’albero di Gernika e la croce di Sant’Andrea rappresentano la regione. I due lupi richiamano i signori di Vizcaya, uno di loro, Diego V López de Haro, fondò la città nel 1300. Dal 1941 al 1972 durante il regime di Franco, la denominazione del club cambiò da Athletic Club de Bilbao ad Atletico de Bilbao. Nel catalogo HW del Subbuteo non c’è la divisa dell’Athletic Club, la ref che più si avvicina è la numero 7, maglia biancorossa a strisce, pantaloncini neri e calzettoni rossi con risvolti in bianchi.

2004 2005

2008 2009

2011 2012

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SPECIALE Omofobia

di Andrea Ranaldo

Un Calcio all’Omofobia

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L’omosessualità nel calcio è ancora un tabù, ma sono sempre di più le iniziative messe in essere per sfatarlo in via definitiva.

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utti noi abbiamo ancora negli occhi il romantico bacio a fine partita tra la svedese Magdalena Eriksson e la danese Pernille Harder, diventato uno dei simboli dei Mondiali di calcio femminili tenutisi lo scorso anno in Francia; ma immaginate lo scalpore che avrebbe generato lo stesso identico gesto, se fosse stato compiuto durante una manifestazione sportiva maschile? INTERVIENE BRUXELLES A questo, e a molti altri interrogativi, ha provato a rispondere un evento organizzato al Parlamento europeo di Bruxelles dagli europarlamentari Tiziana Beghin, Marc Tarabella e Tomasz Frankowski - ex calciatore della nazionale polacca -, fondatori dell’intergruppo Sport. Tra i principali ospiti del convegno Patrick Gasser, Head of Football & Social Responsibility della UEFA, Chiara Marchitelli, portiere dell’Inter Women, e Fabio Canino, autore de “Le Parole che Mancano al Cuore”, romanzo che parla di una storia d’amore, vissuta

clandestinamente, tra un grande campione di calcio e un suo compagno di squadra. Il grande protagonista della giornata è stato però Albin Ekdal: il centrocampista della Sampdoria, notoriamente impegnato nella lotta all’omofobia, ha fotografato l’attuale e preoccupante, situazione, ricordando come nel mondo solamente otto calciatori professionisti abbiano fatto coming out, nonostante siano chiaramente molti coloro che vivono nell’ombra e, soprattutto, nella paura. UN LUNGO PERCORSO Il nome più celebre è quello di Thomas Hitzlsperger, ex centrocampista della Lazio che in carriera ha vestito anche le prestigiose maglie di Aston Villa, Stoccarda, West Ham, Wolfsburg ed Everton, e che vanta 52 presenze nella nazionale tedesca. Hitzlsperger annunciò la sua omosessualità solamente dopo il ritiro, ammettendo le difficoltà nel rivelare il proprio orientamento sessuale perché preoccupato dalla reazione dei suoi compagni nello spogliatoio. Il tedesco, oggi, è nel quadro dirigenziale dello Stoccarda. Diversa, e purtroppo molto più tragica, la storia di Justin Fashanu, che nel 1990, nel pieno della carriera, rivelò la sua omosessualità sperando che un simile gesto avrebbe incoraggiato altre celebrità a uscire allo scoperto. Purtroppo, però, quelle parole furono accolte con estrema ostilità, sia dalla sua famiglia, con il fratello John che lo rinnegò pubblicamente, che dalla comunità nera britannica, che riteneva di essere stata coperta di vergogna. Fashanu morì suicida nel 1998, ormai abbandonato da tutti, dopo che fu indagato per presunto abuso sessuale su un minore di 17 anni in Maryland. Altrettanto emblematica è la vicenda di Graeme Le Saux, discriminato per anni sia dai tifosi avversari

Chiara Marchitelli, portiere della squadra femminile Inter Women

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SPECIALE Omofobia

che dai colleghi: nel 1999, durante un ChelseaLiverpool, fu platealmente provocato da Robbie Fowler con gesti emblematici e deplorevoli; Le Saux cercò di attirare l’attenzione dell’arbitro, rifiutandosi di battere un calcio d’angolo, ma alla fine fu l’unico a pagare dazio con un’ammonizione per perdita di tempo. Le Saux, in realtà, è eterosessuale e felicemente sposato con una donna, ma le sue vicissitudini confermano come l’omosessualità, vera o presunta, sia vissuta universalmente come un problema insormontabile, capace di troncare la carriera di un calciatore. UEFA E FIFA IN PRIMA LINEA Purtroppo, è triste constatare come, a distanza di anni, la situazione non sembri particolarmente migliorata. Sono molti i casi di conservatorismo che hanno coinvolto esponenti rilevanti del calcio italiano: ad esempio, nel 2009 Marcello Lippi, all’epoca Commissario Tecnico della Nazionale, asseriva con forza l’inesistenza di omosessuali in Serie A; o ancora, nel 2016, ha fatto tristemente notizia il brutto battibecco tra Sarri e Mancini, culminato con insulti omofobi ai danni dell’ex tecnico interista. Sarri fu punito con due giornate di squalifica e un’ammenda di 20 mila euro, lasciando spazio a un ulteriore dibattito sulla presenza di norme adeguate, nel mondo del calcio, per casi analoghi. Ufficialmente UEFA e FIFA sono da tempo in prima linea nel combattere ogni forma di discriminazione. La nostra redazione ha contattato Joyce Cook, Chief Social Responsibility & Education Officer della FIFA, che ci ha raccontato degli ottimi risultati raggiunti grazie alla strategia di sostenibilità adottata in occasione della Coppa del Mondo del 2018: “La maggior parte delle 80 sanzioni emesse dalla FIFA durante le qualificazioni ai Mondiali in Russia sono scaturite da fenomeni discriminatori legati all’omofobia. Per risolvere il problema abbiamo quindi adottato misure proattive, come convegni sul tema rivolti sia agli organizzatori e ai membri dello staff dell’evento, che al pubblico, e siamo fieri

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EKDAL TESTIMONIAL Come detto, Albin Ekdal, campione della Sampdoria e della nazionale svedese, ha risposto all’invito dell’intergruppo Sport del Parlamento europeo, esponendosi in prima persona per la causa: “In un mondo ideale nessuno dovrebbe sentirsi a disagio nel dichiararsi omosessuale, che sia nella vita o nel calcio, ma purtroppo la realtà è molto diversa. Nel nostro sport solo otto giocatori si sono ufficialmente dichiarati omosessuali: molti altri vorrebbero farlo, ma non si sentono liberi per paura delle reazioni negative. Il nostro è un ambiente dove l’omofobia è ancora diffusa: questi giocatori sono preoccupati di diventare un bersaglio per gli insulti e lo scherno, sia dentro che fuori dal campo. Come risultato si sentono obbligati a nascondersi, fuggire e vivere nella paura: ecco perché dobbiamo reagire, utilizzando l’istruzione come una forza per un cambiamento positivo. Che società siamo se un bambino non può seguire il suo sogno di diventare un calciatore per via del suo orientamento sessuale? Ogni volta che un ragazzino appende le scarpe al chiodo e smette di giocare perché non è accettato nello spogliatoio della sua squadra, o da chi lo circonda, è una sconfitta per il mondo del calcio. Essere omosessuale non definisce te come persona, ma determina solo chi trovi attraente. Ognuno di noi è parte della razza umana e abbiamo una passione in comune: amiamo il calcio, e questa è la cosa più importante per tutti noi”.


di poter dire che durante la manifestazione siamo riusciti a garantire a tutti i fan, di qualsiasi orientamento sessuale, di poter manifestare il proprio affetto e di sventolare, senza alcun tipo di censura, la bandiera arcobaleno. Come donna apertamente gay che lavora nel calcio sono orgogliosa di questi risultati e del nostro impegno, e continueremo a lavorare su questa strada per sconfiggere ogni tipo di discriminazione”. UN FUTURO DA SCRIVERE Tuttavia, la prossima sfida, chiamata Mondiali 2022 in Qatar, si preannuncia ancora più complicata: nella penisola mediorientale l’omosessualità non solo non è tollerata, ma è addirittura punita con la pena di morte. La storia ci insegna che le competizioni sportive internazionali mantengono una forte influenza anche sulla politica: scopriremo presto se l’obiettivo sarà raggiungibile anche in un Paese come il Qatar, dove il processo democratico sta trovando grossi ostacoli. A scendere in campo contro l’omofobia sono state anche le stesse società, pur con esiti discordanti. In tal senso, ha fatto “scuola” il caso del calciatore croato del Wolfsburg, Josip Brekalo. Il club tedesco aveva deciso che tutti i capitani delle proprie formazioni, dalle giovanili fino alla prima squadra, avrebbero indossato una fascia colore arcobaleno: sotto il post che annunciava l’iniziativa sono comparsi, oltre agli elogi, anche gli inevitabili insulti, tipici dell’era dei social network, ma a fare rumore è stato il like, sotto un commento offensivo, proprio di Josip Brekalo. Il croato ha prima provato a lamentare problemi tecnici del proprio smartphone, salvo poi ammettere di non condividere l’iniziativa del club. UN ATTO DI CORAGGIO Il processo di accettazione della “diversità” nel mondo del calcio appare, dunque, ancora molto lungo. Forse la svolta culturale potrebbe partire grazie al coraggio degli stessi atleti, specialmente di coloro che sono star globali e

che hanno il non trascurabile potere di influenzare l’opinione pubblica. Di sicuro l’arma di cui disponiamo tutti, e che non possiamo permetterci di sprecare, si chiama educazione: una società che si professa, talvolta con presunzione, evoluta non può permettere che un ragazzino abbandoni i propri sogni e le proprie passioni solamente per via del suo orientamento sessuale. È arrivato il momento di passare dalle belle parole ai fatti. Gli unici che valgono davvero. Nello sport, come nella vita.

IL BACIO DELLA CONCORDIA Il Mondiale femminile del 2019 è stata un’autentica favola. E lo è anche la storia d’amore vissuta da Magdalena Eriksson e Pernille Harder, che per uno scherzo del destino si sono giocate l’accesso alla kermesse iridata proprio all’ultimo turno del girone di qualificazione. Alla fine a prevalere è stata la svedese Eriksson, che ha così strappato il pass per Francia 2019 a discapito della compagna, ma la delusione sportiva non ha scalfito il forte sentimento tra lei e la danese Harder. Le due atlete sono felicemente fidanzate da 8 anni, nonostante una storia a distanza obbligata dai rispettivi impegni professionali: Magdalena Eriksson milita infatti nel Chelsea, di cui è baluardo difensivo e capitano, mentre Pernille Harder è un attaccante che fa le fortune del Wolsfburg; i suoi gol sono valsi, oltre a due campionati tedeschi e tre coppe di Germania, anche il UEFA Women’s Player of the Year Award del 2018, riconoscimento assegnato alla migliore calciatrice che milita in un club europeo. Separate da migliaia di chilometri, ma unite nel cuore: la dimostrazione è tutta nello “scatto rubato” dal giornalista spagnolo Federico Barreiro, che al termine della sfida tra Svezia e Canada ha immortalato un dolcissimo bacio che ha suggellato la qualificazione ai Quarti di Finale delle scandinave. Un gesto che è diventato subito simbolo della competizione e, allo stesso tempo, schiaffo morale per tutti gli omofobi e i retrogradi.

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i r o t a n e l l grandi a Gigi Maifredi di Luca Gandini

UNA SPLENDIDA METEORA Venne improvvisamente respinto da quel calcio che l’aveva accolto come nuovo profeta. L’ascesa e il declino di Gigi Maifredi, il tecnico che provò a fare la rivoluzione.

Credit Foto: Liverani 56


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ran bel personaggio, Gigi Maifredi. Uno che è partito dal nulla, senza una carriera agonistica alle spalle, e che ha bruciato le tappe passando in brevissimo tempo dai campi in terra battuta della provincia bresciana fino al cuore dell’impero. E che quando pareva destinato a spiccare il volo è stato clamorosamente

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ena grandi all Gigi Maifredi

respinto da quel calcio che l’aveva accolto come nuovo profeta. Il tutto restando sempre fedele alle proprie idee, in quel sottile equilibrio tra coerenza ed integralismo che all’inizio tanto l’aveva premiato ma che poi finì per tradirlo. Una cosa è certa: quella sua proposta di calcio-champagne di fine anni ‘80 conquistò un po’ tutti, e peccato se l’epilogo si porta in dote forse più rimpianti che soddisfazioni. Il passaggio della meteora-Maifredi nel firmamento calcistico italiano ha comunque lasciato un segno importante. IL CALCIO CHAMPAGNE Luigi Maifredi nasce a Lograto, a un tiro di schioppo da Brescia, il 20 aprile 1947. Dopo aver tentato senza fortuna l’esperienza da calciatore, si dedicò al commercio diventando rappresentante di champagne e prodotti dolciari. Tentò quasi per scommessa l’avventura da allenatore in alcune piccole realtà della provincia bresciana: Real Brescia, Lumezzane, OMAS Pontevico e Leno. Il primo importante successo lo ottenne nel 1984/85 alla guida dell’Orceana, società con sede ad Orzinuovi. Impegnati nel girone C del campionato Interregionale, ovvero il quinto livello del calcio italiano dell’epoca dopo la Serie A, la Serie B, la Serie C1 e la Serie C2, Maifredi e il suo manipolo di pedatori un po’ improvvisati si tolsero la soddisfazione di concludere la stagione al primo posto e di conquistare la promozione. Fu sorprendente anche l’annata successiva in C2, con un ottimo ottavo posto. Il giocatore più rappresentativo di quell’Orceana era il difensore Renato Villa.

Lo avremmo ritrovato insieme a Maifredi qualche anno dopo, a Bologna, dove sarebbe stato soprannominato “Il Mitico”, autentico idolo del “Dall’Ara”. Nel 1986/87, intanto, Gigi Maifredi si trasferì di pochi chilometri e passò ad allenare l’Ospitaletto. Trovò una squadra ricca di giocatori promettenti, che, come vedremo, avrebbero fatto strada in categorie ben più prestigiose. Fu un trionfo. Con la sua difesa a zona pura e la ricerca di un calcio spregiudicato ad alto tasso spettacolare, l’Ospitaletto dominò il girone B della C2 e centrò la promozione in C1. Maifredi fu ingaggiato dal Bologna, in Serie B, e si portò con sé il gigantesco portiere Nello Cusin, il difensore centrale Marco De Marchi, il terzino Marco Monza e i centrocampisti Maurizio Gilardi e Pietro Strada. L’inizio dell’avventura in Emilia fu circondata da un po’ di scetticismo. In pochi conoscevano quell’allenatore che aveva fatto faville in Interregionale e in C2, ma che non aveva mai affrontato nemmeno da giocatore un’esperienza in una piazza così importante. Maifredi ebbe la fortuna di avere al fianco il presidente Gino Corioni, bresciano come lui e pronto a scommettere fino in fondo sulle qualità del giovane mister. I risultati non tardarono ad arrivare. Il Bologna esprimeva un gioco spumeggiante e offensivo prontamente ribattezzato “calcio-champagne”. Addirittura 62 gol fatti in 38 partite, Lorenzo Marronaro capocannoniere con 21 reti, l’anziano regista Eraldo Pecci nelle perfette vesti di chioccia e leader tecnico della squadra; “Il Mitico” Villa, che già avevamo incrociato ai tempi dell’Or-

“A quel punto il calcio sembrò voltargli definitivamente le spalle. Lui si rimise in gioco come opinionista televisivo, facendo valere la schiettezza e l’arte di sdrammatizzare tipiche di chi ha sempre inteso il calcio prima di tutto come un divertimento”.

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ceana, a simboleggiare la classe operaia che va in paradiso. Inevitabile che la vittoria del torneo cadetto suscitasse l’interesse delle big. L’inesauribile centrocampista Giancarlo Marocchi fu infatti acquistato dalla Juventus, ma il vero obiettivo dei bianconeri in quell’estate 1988 fu proprio lui, Gigi Maifredi, il quale preferì però declinare le offerte non ritenendosi ancora sufficientemente pronto per affrontare un compito così gravoso. LA NOUVELLE VAGUE Quel 1988 fu un po’ il... Sessantotto del calcio italiano, con il successo di tanti giovani allenatori che predicavano concetti come la zona pura, la squadra corta, il pressing alto e la ricerca di trame di gioco offensive a scapito del vecchio calcio all’italiana, considerato ormai sorpassato. Oltre al capolavoro di Maifredi col Bologna in Serie B, ci fu lo Scudetto vinto da Arrigo Sacchi con il suo Milan futuristico e futuribile. Il Pescara di Giovanni Galeone che

centrò una brillante salvezza senza ricorrere alle tanto vituperate barricate di catenacciara memoria. Perfino in C2, la Carrarese zonista di Corrado Orrico si tolse la soddisfazione di vincere il campionato. Fu un po’ la rivoluzione dei profeti della nouvelle vague. L’impatto di Maifredi con la Serie A non fu tuttavia dei migliori, nella stagione 1988/89, con una bruttissima partenza e una chiusura in crescendo che portò a un modesto 14° posto. Il vero anno d’oro, per lui e per il Bologna, fu il 1989/90. La squadra tornò a esprimersi come due anni addietro proponendo l’inconfondibile calcio-champagne. Un piccolo Ajax trapiantato sul prato del “Dall’Ara”. L’8° posto conclusivo portò i rossoblù in Coppa UEFA, proprio mentre a Torino la Juventus dava il benservito al tradizionalista Dino Zoff per intraprendere la strada zonista. Gigi Maifredi ora era pronto per il grande salto sulla panchina della squadra per cui tifava fin da bambino. Era l’estate 1990. Roberto Baggio,

La passione per il calcio di Maifredi è senza confini, così come le sue idee

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l’astro nascente ammirato al Mondiale, era appena stato prelevato dalla Fiorentina per 18 miliardi. Raggiungeva a Torino quel Totò Schillaci che della nostra Nazionale era stato l’autentico trascinatore. Dalla Germania arrivò poi il fantasista Thomas Hässler, fresco di titolo mondiale; dalla Lazio un altro imprevedibile fantasista, il giovane Paolo Di Canio, mentre il solido difensore brasiliano Júlio César veniva strappato ai francesi del Montpellier. Maifredi si portò con sé dal Bologna due difensori abituati alla zona: il terzino destro Gianluca Luppi e il centrale Marco De Marchi, quest’ultimo fedele scudiero sin dai tempi dell’Ospitaletto. I 70 miliardi investiti in totale dalla società fecero capire alle grandi rivali dell’epoca (il Milan dei tre olandesi, il Napoli di Diego Maradona, l’Inter dei tre tedeschi e la sbarazzina Sampdoria di Paolo Mantovani) che quell’anno la Juventus sarebbe partita coi favori del pronostico. Il prologo di inizio stagione fu però disastroso. Il 1° settembre, il Napoli inflisse infatti alla Juve un pesantissimo 5-1 nella gara che assegnava la Supercoppa Italiana, quasi un fosco presagio in un’annata che si sarebbe rivelata da dimenticare. Maifredi e la squadra seppero subito reagire in campionato, con un girone d’andata chiuso a soli 2 punti dall’Inter capolista e con la marcia trionfale in Coppa delle Coppe. Ai primi tepori primaverili, però, la Juventus iniziò a incappare in alcuni risultati deludenti che le fecero via via perdere contatto dalle posizioni di vertice. Emblematica, a questo proposito, la trasferta di Firenze del 6 aprile, finita con l’1-0 per la Fiorentina e con Roberto Baggio che uscì dal campo impugnando una sciarpa viola dopo essersi rifiutato di calciare un rigore, poi fallito da Gigi De Agostini. Con la stagione ormai appesa a un filo (anche la Coppa Italia era sfumata in febbraio contro la Roma ai quarti di finale), la Juve dovette concentrarsi sull’unico obiettivo rimasto, la semifinale di Coppa delle Coppe, e sul proibitivo osta-

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Una delle ultime apparizioni in panchina alla guida del Brescia

colo rappresentato dal Barcellona di Johan Cruijff. La prima sfida, di fronte ai 120 mila del “Camp Nou”, fu la sintesi della stagione bianconera. Primo tempo soddisfacente, concluso in vantaggio grazie al gol di Gigi Casiraghi, e puntuale crollo nella ripresa. Il 3-1 finale lasciava però aperti i giochi in vista del ritorno del “Delle Alpi”. E la Juventus in effetti onorò la sfida fino in fondo. Andò in gol con una splendida punizione di Baggio al 61°, ma fallì più volte l’occasione per il decisivo 2-0. E così si chiudeva nel modo più malinconico possibile anche l’avventura europea. Le ultime quattro giornate di campionato non fecero altro che evidenziare la spaccatura creatasi tra il tecnico e parte della squadra,


tanto che il 7° posto finale portò la Juventus a una clamorosa esclusione dalle Coppe europee dopo ben 29 anni. Il calcio-champagne era ormai solo un ricordo lontano. La rivoluzione di Maifredi era fallita. La Juventus era pronta per la restaurazione rappresentata da un vecchio cavallo di ritorno, quel Giovanni Trapattoni reduce dai successi ottenuti con l’Inter. MAI DIRE MAIFREDI La carriera del tecnico bresciano era invece attesa da un’interminabile serie di delusioni, periodi in cui provò a restare fedele alle proprie teorie, ma forse senza più quella convinzione che l’aveva sostenuto negli anni ruggenti. Anche perché quella concorrenza che inizialmente si era fatta cogliere di sorpresa, aveva ora pronte valide contromisure tattiche al calcio spregiudicato e spensierato promosso dai profeti come Maifredi. Nel 1991/92 provò a ripartire dal suo Bologna, che nel frattempo era precipitato in B. Non durò che le prime 11 giornate, dopodiché gli venne dato il benservito. Lo ritrovammo l’anno seguente in Serie A, alla corte di Aldo Spinelli al Genoa, ma le cose non andarono meglio: 8 soli punti in 12 partite. Ironia della sorte, a dare il colpo di grazia alla sua avventura in Liguria fu una sconfitta interna con la Lazio di Dino Zoff, colui al quale meno di 3 anni prima aveva strappato la panchina della Juventus. Dopo un anno di inattività, tornò in pista nella stagione 1994/95 e si fece in due, nel senso che nel girone d’andata guidò senza fortuna il Venezia di Maurizio Zamparini in Serie B, mentre nel girone di ritorno venne chiamato dal vecchio mentore Gino Corioni sulla panchina di un Brescia ultimo in Serie A. Risultato: 6 partite e 6 sconfitte per le Rondinelle. Nemmeno a Pescara, nel 1995/96, seppe ritrovare lo smalto dei giorni migliori, e così, per un po’, decise di chiudere con l’Italia. Tentò un paio di esperienze oltre confine, una in Tunisia, alla

“Ad Ospitaletto una squadra ricca di giocatori promettenti, che, come vedremo, avrebbero fatto strada in categorie ben più prestigiose. Fu un trionfo. Con la sua difesa a zona pura e la ricerca di un calcio spregiudicato ad alto tasso spettacolare”. guida della squadra forse più famosa del Paese, l’Espérance, e l’altra nella Serie B spagnola con il modesto Albacete. Ma anche lì, solo amarezze. Nel 2000/01, altra parentesi da dimenticare, con la Reggiana, in una categoria in cui non aveva ancora lavorato, la Serie C1. Partirono bene, i granata, con uno spumeggiante 4-3 sul campo del Lecco. Ma poi, puntuali, la crisi, le sconfitte e l’esonero. A quel punto il calcio sembrò voltargli definitivamente le spalle. Lui si rimise in gioco come opinionista televisivo, facendo valere la schiettezza e l’arte di sdrammatizzare tipiche di chi ha sempre inteso il calcio prima di tutto come un divertimento. Rientrò nel mondo del pallone un po’ in sordina nel 2009, quando il vecchio amico Corioni gli affidò un incarico dirigenziale nel Brescia. Ebbe addirittura l’occasione di tornare ad allenare la squadra, ma lo fece per pochi giorni, nel settembre del 2013, il tempo di subire un doloroso 2-0 sul campo del Latina nel campionato di Serie B. Ora è da un po’ che è fuori dal giro. Dice di non avere rimpianti, ma forse, sotto sotto, la verità è un’altra. Perché gli eterni ragazzi come lui, cresciuti a calciochampagne, non smettono mai di sognare una nuova rivoluzione.

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C L A C L E D I T GIGAN Medhi Benatia

di Mirko Di Natale e Fabrizio Ponciroli

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GIOCANDO A DOHA…

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idea viene a Mirko: “Che ne pensi di sentire Benatia?”. “Mi sembra un’ottima idea, sarebbe l’ideale per la rubrica Giganti del Calcio…”, rispondo immediatamente. Mirko ha il suo numero privato, l’ha intervistato qualche tempo fa. Ci attiviamo. Il tempo di contattarlo ed è tutto organizzato. Benatia si trova a Doha, la sua nuova casa: “Ci sentiamo domani”, mi scrive via WhatsApp. Trascorrono meno di 24 ore ed è pronto per una chiacchierata sulla sua brillante carriera… Medhi, partiamo da Doha e la tua nuova squadra… “Qui mi trovo benissimo. È un Paese davvero bellissimo. In Qatar stanno cambiando tante cose. Tra poco arriverà il Mondiale e si stanno impegnando per farsi trovare pronti. Stadi nuovi, innovativi e, soprattutto, stanno lavorando per alzare il livello del massimo campionato qatariota. Sono arrivati tanti buoni giocatori”.

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CA GIGANTI DEL Medhi Benatia

Un solo anno a Roma ma la città e il club gli sono rimasti nel cuore...

Quindi ti sei ambientato alla grande… “Sì, assolutamente. Ci sono 40 gradi, ma ho la fortuna di vivere vicino al mare. Appena finisco l’allenamento e i bimbi terminano la scuola, ci divertiamo in mare, spesso con le moto d’acqua. Ti sembra quasi di essere in vacanza anche se io sono venuto a Doha per giocare e vincere. Sono un professionista e sono qui per impegnarmi al 100%, come ho sempre fatto. Comunque, quando finisce il mio lavoro, mi piace rilassarmi e qui c’è tutto per stare tranquilli con la propria famiglia”. Tu sei un vero cittadino del mondo, sei stato in tante belle città… “Sono stato bene praticamente ovunque ho giocato. Forse solo a Monaco, quando giocavo al Bayern Monaco, non mi sono ambientato tantissimo. Mentre, soprattutto in Italia, mi sono trovato alla grande”. Parliamo della tua carriera. Come nasce la

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tua passione per il calcio? “Mio padre giocava a calcio, anche se non a livelli altissimi. Sin da piccolo, mi portava negli spogliatoi. Lo seguivo spesso, mi piaceva stare con lui. Da che ho memoria, ho sempre giocato a calcio. Ci trovavamo in qualche spiazzo del quartiere, si creavano due porte e

La Coppa Italia vinta con la Juventus con due gol proprio di Benatia


si giocava fino a sera. Tutti volevamo diventare giocatori professionisti. Io, per fortuna, ci sono riuscito”. Sei un grande difensore ma hai iniziato da attaccante, vero? “È vero. Da ragazzino giocavo in attacco e segnavo anche qualche gol. Poi sono cresciuto fisicamente, ho messo su un po’ di muscoli e Francisco Filho, grandissimo responsabile dell’accademia Clairefontaine dove giocavo, mi ha spostato in difesa ed è cominciata la mia carriera da difensore”.

“Da che ho memoria, ho sempre giocato a calcio. Ci trovavamo in qualche spiazzo del quartiere, si creavano due porte e si giocava fino a sera” Il grande passo lo fai nel 2010 quando sbarchi in Italia, all’Udinese… “A Udine ho lavorato tantissimo. Quando sono arrivato e ho visto come si allenavano gli altri, ho pensato: ‘Ma perché mi hanno comprato? Io non ce la posso fare a tenere questi ritmi”. Sembravano tutti delle macchine da guerra, non si fermavano mai. L’allenatore era Guidolin. Mi ha parlato e io l’ho ascoltato. Mi ha dato subito tanta fiducia e i risultati si sono visti immediatamente. Nei tre anni all’Udinese abbiamo conquistato risultati importantissimi, conquistando l’Europa. Inoltre, grazie al lavoro di Guidolin, tantissimi giocatori di quell’Udinese hanno avuto una grande carriera. Penso a Zapata, Sanchez, Inler, Cuadrado e tanti altri. Davvero un bel gruppo, allenato benissimo da un grandissimo allenatore come Guidolin”. Grazie all’Udinese, vieni chiamato dalla Roma… “Io non sono un tipo che riguarda al passato e ci perde tanto tempo ma devo dire che sono rimasto molto deluso da come è andata

UN GRANDE CAPITANO Mehdi Benatia è nato in Francia ma, di fatto, è marocchino. Il debutto con la nazionale del Marocco risale al 19 novembre 2008, quando aveva solo 22 anni. Un’amichevole contro lo Zambia: “Ricordo l’emozione, fortissima, di indossare quella maglia”. Una maglia che indosserà per ben 66 volte, segnando anche due reti molto pesanti: “Non dimenticherò mai i due gol fatti con la mia nazionale. Il primo è arrivato durante la Coppa d’Africa del 2012. Giocavamo contro l’Algeria, quindi una partita molto sentita per il Marocco. Abbiamo vinto per 4-0 e io ho aperto le marcature e fornito l’assist per il 2-0. Davvero esaltante ma ancor più forte è stata l’emozione per la seconda rete. Ho segnato contro la Costa d’Avorio in una partita decisiva per la qualificazione al Mondiale del 2018. Abbiamo vinto 2-0 e siamo andati in Russia. Indescrivibile la gioia che ho provato”. Ecco, la Coppa del Mondo. Un traguardo che ha reso Benatia un vero eroe in patria: “Non ci qualificavamo per la fase finale di un Mondiale dal 1998. Ci abbiamo messo 20 anni. Prima c’erano problemi, non si riusciva a diventare una squadra. Io ero il capitano del gruppo che ha conquistato il Mondiale. Portavo i miei compagni al ristorante, ho creato l’ambiente giusto per diventare una famiglia e ce l’abbiamo fatta. È stato fantastico, meraviglioso, unico”.

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CA GIGANTI DEL Medhi Benatia

alla Roma. Avevo trovato la città perfetta per me. Il club mi piaceva tantissimo, c’era tanta voglia di far bene e di crescere tutti insieme. La Roma è la squadra della capitale, quindi è giusto che lotti per il vertice, come le altre big del calcio italiano. I tifosi, poi, sono eccezionali. Vivere a Roma è eccezionale, tanto che avevo comprato casa solo dopo tre mesi dal mio arrivo. Avrei voluto restare per sempre. Inoltre avevamo anche fatto benissimo, conquistando pure 10 vittorie di fila”. E poi cosa è successo? “Mi hanno promesso un nuovo contratto ma non è mai arrivato. Sono arrivate delle offerte. Mi ricordo quella del Manchester City. Mi avevano pagato 13 milioni e potevano incassarne 35 ma non volevano vendermi e neppure rivedere il contratto. È stato difficile, un comportamento scorretto. A fine mercato c’era la soluzione Bayern Monaco e l’ho presa. Sono andato via ma ci sono rimasto male. Volevo

“A Udine ho lavorato tantissimo. Quando sono arrivato e ho visto come si allenavano gli altri, ho pensato: ‘Ma perché mi hanno comprato? Io non ce la posso fare a tenere questi ritmi” restare a Roma. Si sono serviti del mio amore verso squadra, città e tifosi”. Beh, ti sei rifatto quando sei tornato in Italia, alla Juventus… “La Juventus è unica. Quando arrivi alla Juventus, ci metti neanche una settimana a capire che non sei lì per caso ma che ti hanno scelto per vincere, per andare in guerra, tutte

Uno dei tanti gol di Benatia, questo rifilato all’Atletico Madrid con la maglia dell’Udinese

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LA CARRIERA DI BENATIA Stagione Squadra Totale Campionato Pres Reti 2006-2007 Tours L2 30 0 2007-2008 Lorient L1 1 0 2008-2009 Clermont Foot L2 28 1 2009-2010 Clermont Foot L2 32 1 2010-2011 Udinese Serie A 34 3 2011-2012 Udinese Serie A 38 2 2012-2013 Udinese Serie A 25 2 2013-2014 Roma Serie A 37 5 2014-2015 Bayern Monaco Bundesliga 24 2 2015-2016 Bayern Monaco Bundesliga 22 1 2016-2017 Juventus Serie A 21 1 2017-2018 Juventus Serie A 32 4 2018-gen. 2019 Juventus Serie A 6 0 gen.-giu. 2019 Al-Duhail QSL 7 1 2019-2020 Al-Duhail QSL 12 0 *Dati aggiornati al 19 marzo 2020

le partite. Devi sempre vincere. La Juventus è una società che non scherza mai. Non è facile restarci per tanti anni, perché chiedono tantissimo, ma è il top. È una società creata per vincere, non c’è altra via”. Hai giocato con tantissimi campioni. Mi dici il più forte compagno di squadra che hai avuto? “Ce ne sono stati moltissimi. Ribery, Lewandowski, Totti, Buffon e tantissimi altri ancora… Se proprio ne devo scegliere uno, dico Cristiano Ronaldo. Lui è davvero speciale. Lo si vede dal suo atteggiamento, lo stesso di sempre. È incredibile quello che ha fatto e quello che sta facendo. Sarà difficile pensare ad uno così forte quando non ci sarà più. Potremmo dover aspettare anche 100 anni”. E il più simpatico? “Guarda, io mi sono trovato bene con tutti durante la mia carriera. Matuidi, ad esempio, lo conosco da quando avevo 11 anni. Pjanic è un mio grande amico. Dante, ex del Bayern Monaco, altrettanto. C’è poi Asamoah. In 15 anni, non l’ho mai visto arrabbiato una sola volta. Lui è la persona più buona che abbia mai co-

nosciuto”. Parliamo di avversari. Il più difficile da marcare? “Bella domanda. Neymar è sempre stato un bel problema. Pure Cristiano Ronaldo non è semplice da fermare. Uno fastidioso era Ibra. L’ho affrontato quando ero giovane. Io ero all’Udinese, lui al Milan. Pure le sfide con Higuain, un grandissimo giocatore. I nostri duelli durante Roma-Napoli, che lotta…”. Che tipo è Mehdi quando non pensa al calcio? “Penso alla famiglia. Ho quattro figli, quindi sono piuttosto impegnato come padre”. Altre passioni? “Ascolto tanta musica, soprattutto rap francese. Mio figlio ascolta Ghali, quindi conosco le sue canzoni. Mi divertono anche i documentari, soprattutto quelli sul calcio. Ho appena visto un film su Maradona ai tempi di Napoli e mi sono gustato un docu-film su Ronaldinho davvero ben fatto”. E a livello di cucina, quali sono le tue preferenze? “Ovunque vada, cerco sempre un ristorante

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CA GIGANTI DEL Medhi Benatia

italiano. La miglior cucina l’ho provata in Italia. Penso a Roma. Puoi mangiare un piatto di pasta fatto bene in tutto il mondo ma non sarà mai buono come un piatto di pasta cucinato a Roma. Non serve andare in un ristorante conosciuto, a Roma si mangia bene dappertutto”. Insomma, l’Italia ti è rimasta nel cuore… “Assolutamente sì. Due miei figli sono nati in Italia, uno a Udine, l’altro a Torino. Ho giocato tanti anni in Serie A. Adoro l’Italia. In questo momento delicato, tutto il mio sostegno va agli italiani che stanno affrontando un periodo complicato. Conosco l’Italia e gli italiani e sono sicuro che tutto andrà per il meglio”. Il tempo a nostra disposizione volge al termine. Mehdi è richiamato da alcuni membri della famiglia che, giustamente, lo vogliono tutto per loro. Ci saluta calorosamente. È ancora un difensore di prima fascia, di quelli che “azzannano” l’avversario ma, conoscendolo, risulta evidente come tutta la sua determinazione sia figlia della grande passione per il pallone. Grazie Mehdi.

In due stagioni, ben tre trofei conquistati con la casacca del Bayern Monaco...

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UNA SUPER CARRIERA Con la conquista della Coppa dell’Emiro con la casacca dell’Al-Duhail, Benatia ha raggiunto quota nove trofei nella sua bacheca personale. Decisamente non male per un giocatore che si è “fatto da solo”. Cresciuto in Ligue 2, nel 2010 è approdato all’Udinese. In tre stagioni, ha collezionando 97 presenze, segnando anche sette reti. Grandi prestazioni che hanno portato Benatia ad indossare la maglia della Roma. Nella capitale è rimasto per un solo anno, giocando ad altissimi livelli (37 presenze e cinque reti). Al termine del mercato estivo del 204 firma per il Bayern Monaco. Non gioca moltissimo ma vince due volte la Bundesliga e pure la Coppa di Germania (2015/16). Nel luglio del 2016 viene ingaggiato dalla Juventus (in prestito). Diventa subito prezioso per i bianconeri. Segna il suo primo gol nella sfida contro il Milan (10 marzo 2017, Juventus-Milan 2-1). La Vecchia Signora lo riscatta dal Bayern Monaco per 17 milioni di euro. Nella sua seconda annata a Torino gioca titolare, complice l’addio di Bonucci (passato al Milan). Si diverte ancora contro il Diavolo. È lui il grande protagonista della finale di Coppa Italia del 9 maggio 2018, vinta dai bianconeri con un sonoro 4-0: “Non dimenticherò mai la doppietta segnata contro il Milan nella finale di Coppa Italia all’Olimpico. Non capita spesso che un difensore segni una doppietta, soprattutto in una finale. Inoltre, all’Olimpico, uno stadio che mi ha sempre portato grande fortuna e che amo tantissimo”, racconta. Con il ritorno a Torino di Bonucci, trova meno spazio e, nel gennaio del 2019, decide di rimettersi in gioco in Qatar. Si trasferisce a Doha, all’Al-Duhail dove lo raggiunge, un anno più tardi, un certo Mandzukic. Tanto per cambiare, sta facendo benissimo anche in Qatar dove ha intenzione di incrementare il numero di trofei da esporre nella bacheca di casa: “Sono sempre stato un professionista, ovunque ho giocato. E lo sono anche qui. Quando scendo in campo, io penso solo a vincere. Non mi interessa altro”. Un atteggiamento da vincente, la caratteristica migliore di Benatia…


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O N R O I G N U EROI PER

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Mats Dan Erling Corneliuss di Thomas Saccani

IL PRODIGIO DI DAN 29 gennaio 1986, il Como, in un Sinigallia innevato, sorprende la Vecchia Signora di Platini. Decide un certo Corneliusson… 70


Credit Foto: Liverani

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l Sinigallia assomiglia più ad una zona sciistica che ad un impianto in procinto di ospitare una gara di calcio. Siamo a fine gennaio del 1986 (29 per l’esattezza) e, in quegli anni, l’inverno non faceva prigionieri. Ma si vuole giocare, si deve giocare. Il Como, provinciale al secondo anno nella massima serie (i lariani ci sono tornati nella stagione 1984/85), si sta riprendendo grazie alla cura Marchesi (subentrato a Clagluna a novembre). Affronta la nobile Juventus di Trapattoni, già sorpresa, un paio di settimane prima, al Comunale in campionato (0-0).

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RNO

GIO EROI PER UN

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Mats Dan Erling Corneliuss

ingaggiato dal Como. È un colpo Il match è valido per l’andata desensazionale per l’epoca. Corgli ottavi di Coppa Italia. Il Trap, neliusson è il “9” della nazionale per non rischiare di ritrovarsi svedese, non è una scommessa con qualche infortunio di tropqualunque. Nonostante i soli 23 po, lascia a casa qualche pezzo anni, appare decisamente più pregiato, ovvero Cabrini, Scirea, maturo. Lo si nota anche nelle Mauro, Serena, Platini e Laufigurine Panini dell’epoca che lo drup ma è pur sempre la squaritraggono con un taglio di cadra più forte d’Italia. Nonostanpelli che non aiuta a farlo paste il grande lavoro degli addetti sare come un giovane virgulto al campo, la neve è presente in desideroso di farsi apprezzare maniera massiccia ma Pezzeldal Bel Paese. Possente fisicala, direttore di gara, decide per mente, diventa il partner ideale far disputare l’incontro (con un del compianto Borgonovo. I due ritardo di 26’). I tifosi presenti si trovano alla grande in campo allo stadio, forse per riscaldare sono amici fuori dal rettangosi, accolgono i propri beniamini lo di gioco: “Sono contento di con una sorte di fiaccola che riessere venuto a trovarlo prima disegna il panorama rendendoche morisse”, ricorderà, diversi lo quasi magico. In effetti, sarà anni dopo, l’ex bomber lariano. una partita magica, almeno per A Como resta per cinque anni, il Como del presidente Gattei (alla guida della società dal 1983 Si ringrazia Panini per la gentile giocando al fianco di stranieconcessione delle immagini ri come Muller e Dirceu. Nono al 1993). Al 17’ del primo tempo, segna moltissimi gol (21 reti accade l’impossibile. Su un caltotali in cinque stagioni) ma, ogni volta che cio di punizione apparentemente innocuo, scende in campo, non si risparmia mai, diTaccoli esce a farfalle e Corneliusson colventando un idolo del tifo lariano. La Roma pisce di testa, facendo rotolare la palla in è la sua vittima preferita (infilzata tre volte) fondo al sacco innevato. L’attaccante lariatanto che, come svelerà nel 2009, nel giorno no festeggia la rete come se avesse vinto la del suo ritorno a Como da ex, “… mi aveva Coppa del Mondo. Una bella soddisfazione proposto un contratto biennale ma, nella per lo svedese che, ad inizio della stagione, mia ultima partita con la maglia del Como era considerato un grande punto interrogacontro la Sampdoria mi feci male e non se tivo (reduce da una prima annata in riva al ne fece nulla”. Giallorosso mancato ma laLario decisamente anonima). La sua storia riano doc. Nessuno dimenticherà mai il suo merita una parentesi piuttosto estesa. Prigol “prodigio” messo a segno in quella sema che arrivasse lo tsunami Ibrahimovic, la rata sul manto bianco del Sinigallia contro Svezia ha conosciuti altri “potenziali” eroi la temibile Juventus. Un gol che lo ha reso che hanno provato, con fortune alterne, ad eterno, almeno sulle rive del lago. Una rete innalzare il valore del calcio svedese. Uno di che viene rivista, continuamente, sulla rete questi risponde al nome di Mats Dan Erling perché riporta alla mente un’impresa che, Corneliusson. Classe 1961, si destreggia, con il passare dei decenni, ha acquistato da giovanissimo, con la maglia dell’IFK Gosempre più vigore, diventando quasi legteborg. A 22 anni viene scelto dallo Stoccargendaria. A ripensarci, c’erano tutte le conda. Nel 1984, tra lo stupore generale, viene

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IL TABELLINO DELLA PARTITA Stadio Giuseppe Sinigallia – 29/01/1986 Coppa Italia – Andata Ottavi di finale COMO – JUVENTUS 1-0 (1-0) COMO: Paradisi, Tempestilli, Bruno (68’ Invernizzi), Casagrande, Maccoppi, Albiero, Todesco, Centi, Borgonovo (78’ Mattei), Dirceu (85’ Notaristefano), Corneliusson. All. Marchesi JUVENTUS: Tacconi, Caricola, Pioli, Bonini (68’ Cabrini), Brio, Favero, Briaschi, Manfredonia, Pacione, Pin, Bonetti. All. Trapattoni MARCATORI: 17’ Corneliusson ARBITRO: Pezzella

dizioni ideali affinché si trasformasse in un attimo destinato all’eternità: un campo innevato più adatto ad una gara di hockey che ad un match di calcio, un avversario prestigioso, una cornice di pubblico straordinaria e lui, uno svedese possente e glaciale, capace di farsi trovare nel posto giusto al momento giusto. Bellissimo, unico, irripetibile. Una perfetta storia da “eroi per un giorno”. Tornando al match, il Como non si accontenta e cerca anche di fare ancor più male ai bianconeri. Davanti agli occhi estasiati degli infreddoliti ma calorosi tifosi presenti, i lariani mettono paura al Trap che, in un paio di occasioni, deve ringraziare i suoi proverbiali Santi. Tante emozioni ma il risultato non cambia più. Finisce 1-0, grazie al guizzo di Corneliusson (prima sconfitta stagionale per i bianconeri): “Abbiamo interpretato bene la partita ma non facciamo illusioni sul passaggio del turno perché sappiamo come

sarà il ritorno”, dichiara un soddisfatto Marchesi nel post match. In realtà, la previsione sul ritorno del tecnico della formazione comasca sarà completamente errata. Forti del gol di vantaggio della sfida d’andata, i lariani riusciranno a resistere agli assalti della Juventus nella combattuta gara di ritorno al Comunale, conquistando un clamoroso accesso ai quarti di finale di Coppa Italia. Un sogno diventato realtà: Como ai quarti di finale di Coppa Italia ai danni della Juventus. E andrà anche meglio, visto che i lariani, eliminando l’Hellas Verona, agguanteranno anche le semifinali (massimo risultato per la società nella coppa nazionale e, a conti fatti, il momento più elevato della storia del club). La splendida cavalcata si interromperà bruscamente con la Sampdoria (compreso un discusso 0-2 a tavolino) ma poco importa: il Como ha stupito tutti quanti. Ancora oggi, il gol di Corneliusson è ricordato da ogni tifoso del Como. Un gol che ha mandato al tappeto la Juventus di Trapattoni che, tanto per essere chiari, al termine di quella stagione, vincerà lo Scudetto. Onore a Dan, il ragazzo svedese che, in una fredda notte di gennaio, tra cumuli di neve bianca, è stato capace di infilzare, mortalmente, la Vecchia Signora. Ultima curiosità: al termine di quell’incredibile stagione, anche grazie ai gol di Corneliusson, il tecnico Marchesi lascerà il Como per accasarsi proprio alla Juventus, la squadra che, in quella gelida e innevata notte del 29 gennaio era stata colpita e affondata da un ragazzo venuto da Trollhattan, cittadina della parte ovest della Svezia..

“Nessuno dimenticherà mai il suo gol “prodigio” messo a segno in quella serata sul manto bianco del Sinigallia contro la temibile Juventus. Un gol che lo ha reso eterno, almeno sulle rive del lago. ”

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TI I N I F O N O S DOVE Stefano Lucchini

di Sergio Stanco

Piacevole chiacchierata con Stefano Lucchini, ex difensore tra le altre di Atalanta, Sampdoria ed Empoli, oggi allenatore della Primavera della Cremonese.

Cremona andata e ritorno 74


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tefano Lucchini è nato a Codogno ed è cresciuto nella provincia di Lodi. Si è formato come calciatore a Cremona. E Cremona è ancora il fulcro della sua vita professionale. Nei tremendi giorni del Coronavirus vive blindato in casa, ma cerca comunque di aiutare la sua terra: “Abbiamo appena donato otto carrozzine all’ospedale di Cremona – ci racconta – e presto dovremmo essere in grado di riuscire a fornire altre apparecchiature”. Questa collaborazione e disponibilità verso il territorio, però, non è cosa recente: quando ancora era calciatore, Stefano raccoglieva maglie dei colleghi e le metteva all’asta per poi devolvere il ricavato in beneficienza: “Questa disgrazia ha toccato un po’ tutti. Ho sempre saputo che c’erano tanti colleghi che facevano del bene, alcuni pubblicamente altri in maniera più discreta. Sappiamo benissimo di essere privilegiati e di dover fare qualcosa per chi nella vita è stato meno fortunato di noi, questa tragedia ha semplicemente fatto uscire allo scoperto colleghi che prima tenevano un maggior riserbo. Sono comunque molto orgoglioso di quello che il mondo del calcio sta facendo, lo trovo doveroso ma non è scontato”. Diciamo che Stefano ha tracciato la strada e che, ora, molti suo colleghi lo stanno fortunatamente seguendo. “Nel calcio non esiste l’io, ma solo il noi”, è uno dei mantra che gli allenatori ripetono spesso. Parlando con Stefano hai proprio questa sensazione, perché mai in tutta l’intervista lo abbiamo sentito parlare in prima persona singolare, né quando raccontava delle sue esperienze da calciatore, né oggi che di mestiere fa l’allenatore: “Non mi sento ancora allenatore, perché ho cominciato da poco e devo ancora imparare tanto, ma so che questo è quello che mi piace fare. Già sul finire della mia carriera da calciatore avevo cominciato a scambiare opinioni con i miei ex mister, perché volevo informarmi, capire, farmi una mia idea. Alcuni mi hanno chiesto anche di entrare nel loro staff”. Prima, però, Stefano aveva una promessa da onorare: “Sono

cresciuto nelle giovanili della Cremonese, questo club mi ha accudito dagli 8 ai 19 anni. A 19 anni son dovuto partire, perché la società non navigava in buone acque: con i soldi ricavati dalla mia cessione, sono riusciti a iscriversi alla Serie C2. Da quando sono andato via, però, mi sono sempre ripromesso di tornare per aiutare la società che tanto mi aveva dato: così, quando ne ho avuto l’opportunità, l’ho colta al volo”. Nell’estate del 2016, dopo sedici anni dunque, Stefano torna per chiudere la carriera là proprio dove l’aveva cominciata. E poco importava che ci fosse da scendere in Lega Pro. Anzi, l’obiettivo di poter riportare in B il “suo” club dopo undici anni, era uno stimolo in più: “È stata un’annata magica, una scarica di adrenalina indescrivibile. Non abbiamo mai smesso di crederci, nemmeno quando l’Alessandria aveva accumulato undici punti di vantaggio. Poi, riuscirci in rimonta, è stato un qualcosa di eccezionale. E l’ultima partita in casa qualcosa di epico: sotto di 1-2 contro la Racing Roma praticamente retrocessa e con due gol nel finale davanti a diecimila tifosi. È stato il miglior epilogo che potessi sognare per la mia carriera. E infatti, nonostante avessi un altro anno di contratto, ho deciso di smettere col botto (sorride, n.d.r.)”. Una carriera che è stata un’escalation, cominciata a Cremona, esplosa a Terni ed Empoli e consacratasi a Genova sponda Samp e a Bergamo con la maglia dell’Atalanta, con Cesena ultima tappa prima del ritorno a casa. E allora è tempo di aprire l’album dei ricordi: “Guardando indietro, sono molto orgoglioso di quello sono riuscito a raggiungere. Certo, mi rimane qualche rammarico, come quello di aver solo accarezzato la maglia azzurra ma di non essere mai riuscito ad entrare costantemente nel giro della Nazionale maggiore. Ad un certo punto credevo di meritarlo: nel 2009 si era parlato della possibilità di una mia convocazione per la Confederations Cup, ma non si è concretizzata. Nel 2010, invece, Prandelli mi chiamò per un’amichevole contro la Costa d’Avorio,

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DOVE SONO

FINITI?

Stefano Lucchini senza però esordire. Lo ringrazierò comunque per sempre per aver coronato il sogno di bambino”. Eppure, con le nazionali giovanili Stefano qualche soddisfazione se l’era tolta: “Con l’Under 21 nel 2002 siamo arrivati terzi all’Europeo: avevamo una bella squadra, forse avremmo meritato di più, ma non siamo stato fortunati”. Una squadra che poteva contare su due che, in futuro, si sarebbero laureati campioni del Mondo: “Sì, c’erano Pirlo e Iaquinta, ma anche tanti altri ragazzi molto forti: ricordo Maccarone, che quell’anno andò al Middlesbrough, Caracciolo, Bonazzoli, Marchionni e molti altri. Nessuno si offenderà, ma chiaramente Pirlo già allora era avanti anni luce: campione vero, tecnica eccezionale, ti faceva fare sempre bella figura, perché pure se sbagliavi il passaggio, lui lo controllava con una qualità disarmante. Si vedeva che era un predestinato”. E di grandi giocatori Stefano ne ha incrociati parecchi sulla sua strada: “Pirlo a parte, credo che aver giocato con Di Natale e Cassano sia stato un grande onore. Totò l’ho conosciuto ad Empoli, quando aveva già 24 anni ed era già un fenomeno. Il calcio si è accorto troppo tardi della sua classe. Di Antonio posso solo parlare bene: un ragazzo d’oro e uno dei pochi in grado di farti vincere le partite da solo quando era in giornata. Poi, ogni tanto gli si spegneva la luce e non riusciva a controllarsi. Anche lui ne era consapevole, ma era più forte di lui. Proprio in questi giorni alcuni tifosi via social mi hanno mandato una foto di quel famoso Sampdoria-Torino del 2008 in cui si fece espellere per proteste e stava per aggredire l’arbitro (Pierpaoli, n.d.r.): ero io quello che lo teneva e lo portava fuori dal campo per evitare guai peggiori. Però, ripeto, era un giocatore superlativo, letteralmente immarcabile quando era in forma, e poi un ragazzo solare, divertente, generoso”. Se a “figurine” di calciatori Lucchini è messo bene, ancor meglio se consideriamo i suoi presidenti. Ne citiamo solo alcuni, ma siamo sicuri che a molti lettori della nostra epoca

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scorrerà qualche lacrimuccia: Luzzara (Cremonese), Lugaresi (Cesena), Corsi (Empoli), Garrone (Samp), Percassi (Atalanta): “Ricordo tutti con piacere, sono stati dirigenti illuminati, ma soprattutto grandi persone. Di Garrone e Percassi ho ricordi più diretti, perché - come dico di solito – per me sono stati “presidenti da spogliatoio”, perché molto presenti nei momenti belli, ma soprattutto in quelli di difficoltà. E in quelle occasioni non facevano mai mancare una parola di incoraggiamento. Permettetemi però di spendere una parola anche per il Cavalier Arvedi (Patron della Cremonese, n.d.r.), perché oltre ad essere un grande dirigente e una splendida persona, mi ha consentito di realizzare il mio sogno”. Un sogno che – come detto – continua, visto che oggi Stefano è l’allenatore della Primavera grigiorossa. Anche in questo caso le fonti di ispirazione non mancano: “Ho avuto

Lucchini ha militato anche tra le fila del Cesena


Il centravanti della solidarietà Del legame con la Cremonese abbiamo abbondantemente parlato nell’articolo, dell’amore per la sua terra abbiamo accennato, così come della sua dedizione e disponibilità verso chi nella vita è stato meno fortunato di un calciatore di Serie A. Galeotte furono le aste delle magliette dei colleghi, con il ricavato devoluto per sovvenzionare progetti speciali negli ospedali della zona. Quella che allora è cominciata come un’attività sporadica, oggi si è trasformata in qualcosa di molto più organizzato e costante: nel 2011, infatti, Stefano fonda “Il Volo degli Angeli”, Onlus dedita alla raccolta fondi per opere benefiche e di promozione sociale. Da allora l’associazione è diventata un punto di riferimento della comunità locale, anche (se non soprattutto) durante l’emergenza del Coronavirus: all’Ospedale di Cremona, infatti, sono arrivate otto nuove carrozzine proprio nel corso dell’esplosione della pandemia. Un altro gol indimenticabile.

Una sfida con Gilardino ai tempi dell’Atalanta

la fortuna di aver lavorato con grandi mister, ma quello che dico sempre è che è giusto ispirarsi a qualcuno, ma non copiarlo. Ad esempio, credo che uno dei maggiori innovatori del calcio negli ultimi anni sia stato Guardiola, ma chi ha cercato di imitarlo ha fatto solo danni. Oggi guardo con piacere il Liverpool di Klopp o l’Atalanta di Gasperini, perché sono squadre molto organizzate e al contem-

po spettacolari. Mi sarebbe piaciuto essere allenato da uno come Gasperini, perché io ero in grado di giocare sia come centrale che come terzino e credo che nella sua difesa a tre avrei potuto dire la mia (sorride, n.d.r.)”. Di sicuro Stefano sa che tipo di allenatore non vuole essere: “Non mi sono mai piaciuti quelli che tengono le distanze dai calciatori – ci confida – l’allenatore non può essere amico dei giocatori, ma deve entrarci in sintonia, deve essere empatico e anche un po’ psicologo. A me piace dialogare con i miei ragazzi, perché voglio capire quale sia il modo migliore per rapportarmi con loro. A maggior ragione con i giovani di oggi, che hanno milioni di stimoli ed è difficile riuscire a tenerli concentrati. Non sono, né sarò mai loro amico, ma nemmeno un sergente di ferro”. Appese le scarpette al chiodo, e cominciata l’avventura da allenatore, ci si può divertire a redigere bilanci e disegnare il futuro: “Vado orgoglioso della mia carriera: oltre a quello di non aver mai esordito in Nazionale, ho il solo rimpianto di aver perso qualche treno importante, ma non è stata colpa mia. Richieste ne sono arrivate negli anni, anche da club prestigiosi, ma spesso i miei presidenti hanno fatto richieste esagerate. Credo che l’apice della mia carriera sia stata la stagione eccezionale nella Sampdoria di Del Neri (annata 2009/2010, ndr), quando al termine del campionato riuscimmo a qualificarci per la Champions League giocando un calcio spettacolare e battendo squadroni come l’Inter del Triplete e la Roma all’Olimpico. Una stagione meravigliosa, con la difesa meno battuta d’Europa in casa. Un record di cui ancora oggi io e i miei compagni di allora andiamo fieri. Oggi voglio imparare il più possibile il mestiere di allenatore. La mia nuova carriera me la immagino come quella da calciatore, con grandi difficoltà e tanta voglia di dimostrare il mio valore. L’obiettivo è lo stesso di allora: un giorno mi piacerebbe arrivare in Serie A”. Da allenatore come da calciatore: umile. Anche quando sogna.

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STORIE AZZURRE • Europeo 1968 • di Stefano Borgi Due anni dopo la “Corea”, l’Italia si rialza e conquista l’Europeo. L’unico della sua storia. Le armi vincenti? Gruppo compatto, buona sorte e panchina lunga.

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RIVOLUZIONE AZZURRA

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Storie azzurre • Europeo 1968 La vittoria al Campionato Europeo del 1968 ha una primogenitura, chiara ed incontestabile: il tonfo con la Corea di due anni prima. Fin troppo facile scomodare adagi del tipo: “l’arte della vittoria si impara nella sconfitta”, piuttosto che il cinematografico: “solo chi cade può risorgere”. Però il destro del dentista (o presunto tale) Pak Doo-Ik ebbe davvero l’effetto di insegnare l’arte di vincere ad una Federazione che non festeggiava un titolo da 30, lunghissimi anni. E non a caso, la sera del 10 giugno 1968, ad applaudire in tribuna c’era anche Vittorio Pozzo, Commissario Tecnico dell’ultimo trofeo italico: il mondiale del ‘38. Dopo di allora, il buio. Ma andiamo con ordine...

RIVOLUZIONE, IN TUTTI I SENSI... A proposito di riferimenti triti e ritriti, come non ricordare che nel 1968 ci fu... il “68”. Ovvero la contestazione, l’occupazione delle classi, l’aggressione di Valle Giulia (1° marzo) come miccia che accese la rivoluzione, le facoltà prese d’assalto... e non solo loro. Quel giorno ad Architettura ci furono 60 feriti tra gli studenti (probabilmente anche di più) e ben 180 tra i poliziotti. Un mese dopo (a Memphis, il 4 aprile) fu assassinato Martin Luther King, leader della rivolta afroamericana. A chiudere il cerchio (16 ottobre) Tommie Smith e John Carlos, 1° e 3° classificati nei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico, mostrano il pugno guantato in segno di protesta per i diritti civili dei neri. Bianchi, neri, giovani, vecchi, sportivi e non sportivi, il 1968 vede coinvolto ogni tipo di “genus”, che in latino vuol dire tipo, genoma dell’essere umano. Ognuno con qualcosa da vendicare, da riconquistare. Proprio come l’Italia del calcio che, molto più prosaicamente, voleva cancellare quel pomeriggio di Middlesbrough. Soprattutto doveva dimenticare quella che poi è diventata, con un fortunatissimo neologismo, “la Corea”.

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CON QUELLA FACCIA DA... ITALIANO Come primo provvedimento furono chiuse le frontiere. L’idea venne a Giuseppe Pasquale, allora presidente della Federazione: stop a giocatori e tecnici stranieri ad libitum... fino al 1980, come vedremo. Secondo provvedimento: trasformazione delle società di calcio in S.P.A, con responsabilità diretta per i dirigenti. Terzo: riduzione, da 18 a 16, del numero delle squadre partecipanti al campionato. In più, lo stesso Pasquale, si rese promotore della legge antidoping, idea che (sa va sans dire) gli creò non pochi grattacapi. Allo stesso modo anche i calciatori prendono coscienza del proprio ruolo, fondando (due anni dopo, il 3 luglio 1968) l’AIC: acronimo di Associazione Italiana Calciatori. Anche qui ci fu un ideologo, l’avvocato Sergio Campana, che si porta dietro 5 campioni d’Europa (Rivera, Mazzola, De Sisti, Bulgarelli e Castano) più altri meno titolati. Tornando al dopo “Corea”, inevitabile l’avvicendamento tecnico, con la promozione ufficiale di Helenio Herrera e quella ufficiosa di Ferruccio Valcareggi. Una conduzione a quattro mani che verrà riproposta nel 1974 (guarda caso all’indomani di un’altra disfatta, quella dei mondiali di Germania) tra Fulvio Bernardini ed Enzo Bearzot. Il gironcino preliminare vede contrapposte all’Italia, la Romania, Cipro e la Svizzera. Non sembra difficile, ed a conti fatti non lo sarà.

I TABELLINI DELLA DOPPIA FINALE ITALIA-JUGOSLAVIA 1-1 Dopo i tempi supplementari MARCATORI: Džajić 39’, Domenghini 80’ ITALIA: Zoff, Burgnich, Facchetti, Ferrini, Guarneri, Castano, Domenghini, Juliano, Anastasi, Lodetti, Prati Allenatore: Valcareggi Ferruccio JUGOSLAVIA: Pantelić, Fazlagić, Damjanović M., Pavlocić M., Paunović B., Holcer, Petković, Trivić, Musemić, Acimović, Džajić Allenatore: Mitic ARBITRO: Dienst (Svizzera) ITALIA-JUGOSLAVIA 2-0 MARCATORI: Riva 12’, Anastasi 31’ ITALIA: Zoff, Burgnich, Facchetti, Rosato, Guarneri, Salvadore, Domenghini, Mazzola A., Anastasi, De Sisti, Riva Allenatore: Valcareggi Ferruccio JUGOSLAVIA: Pantelić, Fazlagić, Damjanović M., Pavlović M., Paunović B., Holcer, Acimović, Trivić, Musemić, Hosić, Džajić Allenatore: Mitić

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Storie azzurre • Europeo 1968

“...e qui si sprecano le leggende metropolitane. La più gettonata vuole che, sul primo lancio, la monetina si incastri in una fessura, costringendo l’arbitro tedesco Tschenscher a ripetere l’operazione” SENZA INFAMIA E SENZA LODE Da due italianisti come Herrera e Valcareggi non c’è da aspettarsi granché, in quanto a gioco e spettacolo: Helenio guida le prime due partite contro Romania e Cipro (3-1 e 2-0), al mini-blocco del Bologna (4 presenti contro la Corea) sostituisce il maxi-blocco dell’Inter (addirittura saranno 8 su 11). Dalla trasferta di Bucarest (29 giugno 1967) subentra in prima persona Ferruccio che ristabilisce un po’ di equità, schierando due elementi della Fiorentina (torna Albertosi, dopo lo schiaffo del dentista coreano), due della Juventus, due del Bologna, tre dell’Inter, uno ciascuno di Milan e Napoli. E del resto, dallo storico inventore della “staffetta”, era il minimo ci si potesse aspettare. Si va avanti tra vittorie in casa (5-0 con Cipro, 4-0 alla Svizzera) e pareggi fuori (2-2 a Berna), con mattatore un certo Gigi Riva (6 gol totali)

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che vendica così la mancata convocazione ai mondiali inglesi. Nei quarti, in doppia partita, ci tocca la Bulgaria: avversario ostico contrariamente alla tradizione, non particolarmente onusta di gloria. Ed infatti l’andata a Sofia si mette male: Italia senza il bomber Riva, Juliano è lento, Rivera non recupera, addirittura Picchi si frattura il bacino... al 73’ siamo già 3-1 per i bulgari. Per fortuna, ad accorciare ci pensa Pierino Prati in acrobazia, spedendoci a Napoli fiduciosi. Al San Paolo ancora Prati decisivo, che con Domenghini ribalta il risultato. Accediamo alla fase finale che (guarda un po’) si giocherà in Italia. Tutto grazie ad un 46enne dirigente senese, già segretario della Fiorentina, capitano della Contrada della Torre. Insomma, uno che nelle pubbliche relazioni ci sa fare. E non poco...


COLPA DI ARTEMIO Si chiama Artemio Franchi, sostituisce un Pasquale dimissionario (in pochi capiscono il perché), e sfruttando il 70esimo anniversario della Federcalcio ottiene di organizzare in Italia la fase finale della Coppa delle Nazioni d’Europa. Aulica dicitura del moderno Campionato Europeo di calcio. La formula è a dir poco stringata, con semifinali e finale da disputarsi in tempi regolamentari, supplementari, ed eventuale ripetizione. A quel punto subentra la Dea bendata sotto forma della “monetina”. A proposito... All’Italia, che giocherà a Napoli, tocca la Russia che nei quarti ha superato l’Ungheria. Nell’altra semifinale (con sede a Firenze, altro “magheggio” di Franchi) si affrontano Jugoslavia ed i campioni del mondo dell’Inghilterra. I quali, lo sappiamo, fuori dal Regno Unito diventano piccoli piccoli. Ed infatti Džajić e compagni vincono per 1-0. Lo abbiamo detto, l’Italia pallonara si è ricostruita (anzi, si sta ricostruendo) ma altre nazioni sono più avanti di lei. Come, appunto, l’Unione Sovietica, orfana di Jascin, ma con un pregresso ben collaudato: quarta ai mondiali inglesi, campione d’Europa nel ‘60 e seconda nel ‘64. Di fronte una nazionale italiana volenterosa, che gioca in casa, ma che ha “cannato” tutti i mondiali (e gli europei) dopo il ‘38. Per di più si fa male Rivera, e si infortuna pure Bercellino con Domenghini che finirà la gara a fare il terzino destro. Non bastano neppure i supplementari, si va al sorteggio. E qui si sprecano le leggende metropolitane. La più gettonata vuole che, sul primo lancio, la monetina si incastri in una fessura, costringendo l’arbitro tedesco Tschenscher a ripetere l’operazione. Un’altra racconta che Facchetti (il capitano, depositario delle sorti azzurre) era un uomo talmente fortunato che nessuno dubitava del buon esito finale. L’ultima, la più dietrologa (per non dire malevola) tira ancora in ballo Artemio Franchi il quale avrebbe fatto in modo che la moneta avesse due facce uguali (a fiori) e che il primo a scegliere fosse lo stesso Facchetti. Anche perché Šesternëv (il capitano russo) aveva scelto il campo. Fatto sta che sul terreno del San Paolo erano rimasti solo in sei o sette (gli altri erano già a farsi la doccia), ed il pubblico del San Paolo intonava l’inno di Mameli con insolita sicumera. Giacinto Facchetti, tenendo fede alla nomea di uomo fortunato, sale le scale insieme a Fino Fini (medico della Nazionale che intanto origliava) e mulinando la maglietta annuncia la lieta novella: l’Italia è in finale. Alé.

L’ITALIA S’è DESTA... Tre ore dopo e seicento chilometri più a nord la Jugoslavia batte l’Inghilterra per 1-0, gol (manco a dirlo) di Dragan Džajić. Dragan era un formidabile attaccante della Stella Rossa di Belgrado, a fine stagione si classificherà addirittura terzo nel “Pallone d’Oro”, dietro George Best e Bobby Charlton. E sarà proprio lui a segnare all’Italia nella prima finale dell’8 giugno: teatro lo stadio Olimpico di Roma. È inutile girarci intorno, gli jugoslavi sono più forti: tatticamente schierano un moderno 4-3-3 contro il tradizionale 4-4-2 azzurro. E poi oltre a Džajić hanno un ottimo portiere (Pantelić), il difensore Paunović, la mezzala Acimović, tutta gente che dà del tu al pallone. Non che noi fossimo da meno, ma per l’occasione Valcareggi è senza Riva e Rivera, Mazzola sta fuori per scelta tecnica (e succederà un putiferio), esordisce il giovane Anastasi, azzarda Lodetti mezzala... lui che di mestiere farebbe il mediano. La partita va come va, fino al 39’ quando Burgnich “buca” l’intervento su Džajić e.… buonanotte. Però si gioca in Italia, e se non siamo bravi in campo, fuori lo siamo di più. Nella ripresa l’arbitro Dienst ci grazia di un rigore grosso come una casa, fino all’80’

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Storie azzurre • Europeo 1968 quando lo svizzero concede all’Italia una punizione dal limite. Piccola chiosa sulla figura di Gottfried Dienst, uno dei due arbitri (insieme al nostro Sergio Gonella) ad aver diretto sia una finale europea che una mondiale. Il buon Gottfried, però, aveva la fama di favorire le squadre di casa, diciamo (?) per una sorta di buona educazione. Esattamente come due anni prima quando, al 101’ della finale mondiale tra Inghilterra e Germania, convalidò il tiro di Hurst che (palesemente) non aveva varcato la linea di porta. Era il gol del 3-2, un gol che alla fine risulterà decisivo. Abbiamo intanto lasciato Domenghini mentre posiziona il pallone, catechizzato da Guarneri, e mira alle figure. Chissà, avrà pensato, magari qualcuno si sposta... Detto fatto: la barriera si apre e fa 1-1. Si va ai supplementari (inutili), si va alla ripetizione. Due giorni dopo. Sursum corda.

DELIRIO E FIACCOLATA Per assurdo la seconda finale è la partita dai contenuti tecnici minori. Valcareggi cambia 5/11 della squadra, Mitić appena uno. Escono Ferrini, Castano, Juliano, Lodetti e Prati, entrano Rosato, Salvadore, Mazzola, De Sisti e Riva. Il figlio di Valentino gioca una delle sue migliori partite in azzurro, da mezzala, dopo che Burghich e Ferrini lo avevano convinto a non andarsene (sandrino, offeso per l’esclusione nella prima finale, aveva già fatto le valige). Resta invece Anastasi che al 31’, alla seconda da titolare, riceve al limite e gira imparabile alle spalle di Pantelić. Venti minuti prima Riva aveva aperto le marcature sul filo del fuorigioco: 2-0 dopo mezzora, praticamente partita finita. Europeo in bacheca. Quella sera andrà in scena una delle prime fiaccolate della storia: tutto il pubblico dell’Olimpico, già all’85’, brucia giornali di ogni genere ed illumina la notte romana. In attesa del fischio finale dello spagnolo Ortiz de Mendebil, e riversarsi poi nelle strade della Capitale. Persino Dino Zoff, a differenza di Spagna ‘82 quando con il povero Scirea si accompagnò ad una misera sangria, festeggia per tutta Roma trascinandosi dietro Riva, poco aduso a vino e champagne. Ha vinto l’Italia, hanno vinto gli italiani, anche se la Jugoslavia era più forte. Non sarà la prima volta, e nemmeno l’ultima.

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CONSIDERAZIONI FINALI Perché l’Italia ha avuto la meglio? Questione di gruppo, di maturità, di serietà nella maggior parte dei suoi componenti. Oltre alla panchina lunga. Eh già perché i 22 convocati da Valcareggi, tra l’altro numerati in rigoroso ordine alfabetico (Anastasi col 2, Facchetti col 10, Rivera col 18) nascono tutti tra il 1938 (Burgnich e Guarneri) ed il 1944 (Gigi Riva). Per un’età media di circa 26 anni. A quel tempo c’era la guerra, le famiglie dovevano fare i conti con le bombe, e con la fame. Insomma: “danee, ghe ne minga”, diceva la vulgata. E poi il “68” ... C’è poco da scherzare, anche se il calcio vive come in una bolla, complice la “dolce vita” e un’informazione scarsa, rarefatta. E per fortuna un intellettuale come Pasolini (forse l’unico) conferisce al calcio quel ruolo di rivalsa sociale, dai più sottovalutato. Due anni dopo ci saranno i mondiali messicani, gran parte degli “europei” tenteranno la scalata iridata, frenati dall’altura e dai brasiliani... mai così forti, mai così imbattibili. Però l’Italia del calcio era ripartita, e questo è ciò che conta. Ad maiora semper.

“Tutto il pubblico dell’Olimpico, già all’85’, brucia giornali di ogni genere ed illumina la notte romana”


IL RICORDO DI BURGNICH E DOMENGHINI Insieme, dal ‘64 al ‘69, hanno fatto grande l’Inter di Herrera. Insieme, hanno formato la catena di destra della nazionale: uno terzino, l’altro tornante. Insieme, in azzurro, hanno vinto l’Europeo. Insieme (soprattutto) hanno giocato entrambe le finali contro la Jugoslavia. Privilegio riservato a pochi... “Eh si, Valcareggi fece una bella rivoluzione – ammette Burgnich. Cambiò 5 uomini su 11, mentre la Jugoslavia appena uno. Io ed Angelo fummo tra quelli sempre presenti. Diciamo che la Jugoslavia era veramente forte, probabilmente a livello tecnico più forte di noi, ma nel calcio conta anche il gruppo e la panchina lunga. E noi, in quello, eravamo superiori”. Gli fa eco Domenghini, anzi... “Domingo”. Innanzitutto: perché quel soprannome? “Perché Domenghini era troppo lungo, e poi “domingo” aveva quel suono sudamericano che non guastava. Comunque sono d’accordo con Tarcisio, la Jugoslavia era più forte tecnicamente, ma a livello mentale noi eravamo migliori: sempre concentrati, non mollavamo mai, avevamo un grande gruppo. E poi nella vita ci vuole anche fortuna...” A proposito Tarcisio, come fu la storia di Facchetti uomo fortunato? “Ma lei se lo ricorda Giacinto? Era alto, bello, biondo, aveva una bellissima famiglia, giocava bene sia da terzino che da libero... Insomma, qualsiasi cosa facesse, la faceva bene. E allora, vuoi che non avesse fortuna anche con la monetina? Io, quando vidi che toccava a lui, fui tranquillo: vinciamo di sicuro”. Domingo conferma: “Eravamo talmente sicuri della vittoria che 5-6 di noi erano già sotto la doccia, in campo c’eravamo io e pochi altri. A volte penso che quella monetina avesse due facce uguali, e chi sceglieva per primo avrebbe vinto...” Andiamo alle due finali: lei Tarcisio veniva chiamato “roccia”, ma quella sera Džajić la roccia un po’ riuscì a scalfirla... “Altro che un po’ – ammette. Mi fece tribolare e non poco. Džajić era fortissimo palla al piede, ti puntava sempre, destro e sinistro, e poi opportunista. Si, mi mise in difficoltà...” Lei Domenghini, invece, anche nella prima finale fu l’ultimo a mollare: “Se si riferisce alla punizione vincente, fui fortunato che non c’erano né Riva né Rivera, sennò figurati se toccava a me. Però c’ero solo io, tirai una gran botta, e chi s’è visto s’è visto”. La seconda finale, invece, fu una formalità... “Ricordo una grande partita di Mazzola – racconta “roccia” Burgnich - anzi, se giocò fu merito mio e di Ferrini che lo andammo a riprendere. Sandro se ne voleva andare perché Valcareggi non lo aveva messo in campo nella prima finale. Per convincerlo mettemmo nel mezzo addirittura la moglie”. Conclude Domenghini: “Aggiungo che a Mazzola quella partita allungò la carriera, da mezzala fece ottime cose anche all’Inter. Comunque fu una grande soddisfazione: fuori c’era il “68”, la contestazione, ma noi eravamo motivatissimi e quella vittoria fu un momento di aggregazione nazionale in un momento che invece era di divisione. Questo, ancora oggi, mi rende orgoglioso...”

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n o d i b i e d o Alfabet Vikash Dhorasoo

di Patrick Innarelli

Il racconto del “politico” Vikash Dhorasoo visto con le casacche di Milan e Livorno…

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L’Étoile francese che non ha mai brillato

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i sono cose che nascono senza un perché. Di solito sono le passioni, quelle vengono dal cuore e non lasciano spazio a troppi ragionamenti. Quando poi nasci in un quartiere multietnico può avvicinarti a tantissime forme d’arte, calcio compreso. La nostra storia parte il 10 ottobre 1973, da Harfleur, comune francese di circa 8.237 anime. Qui nasce Vikash Dhorasoo. La formazione in una Francia in cui il colonialismo e l’immigrazione è inevitabilmente ampia sotto ogni punto di vista, anche se il poliedrico francese è lontano da essere uno dei giocatori più influenti, almeno su un campo da calcio. Un personaggio che si fa ammaliare dal football, ma anche da arte e politica. Difficile da collocare all’interno dello spogliatoio, soprattutto se i campioni sono tanti e se stai per vestire la maglia di uno dei club più prestigiosi d’Europa. L’inizio con i professionisti coincide con i suoi vent’anni, nel 1993 scenderà in campo

in Ligue 1 con il Le Havre: cinque stagioni in cui gioca 137 partite, non male per poter essere notato dal Lione che sta per costruire uno dei cicli vincenti più longevi del calcio d’Oltralpe. Le premesse sono tra le migliori, Dhorasoo sta per fare il salto definitivo nel calcio che conta. Nell’estate del 1998 passa al Lione, iniziando così la sua scalata in patria. Il trasferimento al Lione fu un passo importante per la sua carriera, anche perché soltanto un anno più tardi arrivò la convocazione in nazionale. Dhorasoo non era un giocatore che saltava subito all’occhio, anzi. Era un calciatore che sapeva stare in mezzo al campo e non forzava mai la giocata, quel tipo di centrocampista che può darti i tempi giusti anche durante i momenti complessi. La qualità e l’eleganza, però non mancavano mai durante le sue prestazioni. È proprio con il Lione che riesce a trovare la sua dimensione e a trovare la titolarità: con la maglia dell’OL non segna moltissimo, ma

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doni

ei bi Alfabeto d Vikash Dhorasoo

riesce comunque a catturare l’attenzione del Bordeaux. La stagione con i Girondins si chiuderà con il successo in Coppa di Lega, la seconda consecutiva per il centrocampista francese. Il ritorno a Lione, nel 2002, è immediato. Il giocatore gode di molta fiducia in Francia, anche perché dimostra parecchia continuità durante tutto l’arco della stagione. Il primo titolo con i francesi arriva già nel 2002-2003, il successo viene bissato immediatamente. Dhorasoo gioca e lo fa anche con una certa continuità: 83 presenze in due anni e 6 gol con l’OL, La nazionale, però, stenta ad arrivare. In questo preciso istante storico la Francia deve ancora riprendersi dal tonfo coreano del 2002, bisogna ritrovare le redini e non c’è spazio per fare troppi esperimenti. Ad ogni modo vive due stagioni - saranno cinque quelle con il Lione - al top e attira su di sé i riflettori di parecchie squadre. Il regista incanta tutti in Francia e attira inevitabilmente le simpatie del Milan campione d’Italia, che vuole assolutamente rinforzare il centrocampo. Non solo, Carlo Ancelotti ha espressamente bisogno di un vice-Pirlo. Un giocatore in grado di fare la differenza e che possa far rifiatare uno dei registi più talentuosi del nostro campionato. Difficile, ma Dhorasoo può essere l’ideale per questa squadra. I campioni d’Italia in carica si rafforzano tantissimo in quell’anno: dalla Lazio arriva l’olandese Jaap Stam, dal Chelsea un certo Hernan Crespo. “Presidente, ci basta un buon giocatore, intelligente, maturo e conscio di venire qui a far la riserva”: queste le parole di Carlo Ancelotti per convincere Berlusconi. Nessun problema, Galliani si affida a Marco Simone - ex attaccante rossonero e gran conoscitore del campionato francese. La scelta, viste le indicazioni, cade sul centrocampista di origini mauriziane. Ormai è fatta, Vikash Dhorasoo è un nuovo giocatore del Milan. A parametro zero, come piace ad

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Adriano Galliani. Le premesse per fare bene ci sono tutte. Il giocatore arriva a Milanello nel massimo della maturità: 32 anni circa, tanta esperienza in patria ma soprattutto mentalità vincente. I titoli, d’altronde, parlano chiaro. “Dhorasoo è un calciatore essenziale, ma è anche una bella persona, intelligente, colto, curioso di imparare cose nuove”, dirà di lui mister Ancelotti. Insomma, la fiducia c’è, il giocatore è pronto a far bene e a sostituire Andrea Pirlo, il centrocampista bresciano non può fare 60 partite stagionali, anche perché la vera ossessione del Milan è conquistare la Champions League e cancellare più in fretta possibile il tracollo di La Coruña. Nei primi allenamenti con la casacca rossonera vuole stupire tutti con colpi non richiesti, Ancelotti lo riprende e lui si limita a svolgere quanto assegnato. Il periodo di adattamento, d’altronde, non è semplice per nessuno, soprattutto in una squadra simile. Il paragone con Pirlo, però, diventa scomodo e pian piano Dhorasoo ne risente. Non è un qualcosa che accade sin da subito, ma Ancelotti gli fa capire che non avrà vita semplice. La sua avventura in rossonero inizia il 21 agosto 2004, quando il Milan scende in campo con la Lazio e vince 3-0 la Supercoppa italiana: 13’ al posto di Ambrosini. In campionato, invece, non viene convocato fino al match col Cagliari, l’esordio lo fa

Ha sfiorato il Mondiale del 2006, perso contro l’Italia


al Rigamonti col Brescia in freddo giorno di fare bene. Un’alternativa non indifferente e novembre. La scintilla manca e non scocil mese di gennaio sembra cambiare le carte ca, i 90’ in casa del Chievo non convincono in tavola: gioca col Palermo, con il Livorno e nessuno. Il tempo, d’altronde, scorre inesocon il Bologna. Ma un paio di prestazioni al rabilmente e pian piano Dhorasoo scivola di sotto delle aspettative convincono del tutindietro nelle gerarchie del tecnico rossoto Carlo Ancelotti. Non ci sarà mai un vicenero. Prima della sosta si vede col Parma Pirlo, difficile dargli torto. (circa 20’), e nel 6-0 contro la Fiorentina. In Da febbraio a maggio giocherà soltanto Champions League Ancelotti lo usa soltancon Atalanta, Lecce, Palermo e Udinese. In to con il Celtic Glasgow, nell’ultima partita Champions League si ritaglierà cinque midel girone. Il centrocampista, però, fatica ad nuti nel successo interno col Manchester. La inserirsi e non riesce quasi mai a replicare sua stagione, come la sua avventura in rosquanto affermato da Marco Simone. sonero, si chiuderà a Istanbul, in una delle L’unico lampo nella notte risale al match serate che difficilmente il popolo rossonecontro il Lecce, Ancelotti lo scero riuscirà a dimenticare. D’alglie al ritorno dalla sosta natalitronde un tipo come lui poteva zia per far tirare il fiato a Pirlo. salutare soltanto in quel modo. Con i giallorossi gioca una parDopo la sfortunata avventura in tita sontuosa, “come se avesse rossonero tornerà per altri due cuscinetti d’aria che lo elevano anni a Parigi, per poi chiudere di un paio di centimetri da terra”. la sua carriera a Livorno, senza Nel 5-2 interno con i pugliesi rimai scendere in campo. Dopo il esce a mettere in mostra tutto calcio il poker e la politica, adil repertorio: detta i tempi e gedirittura con la candidatura a stisce, ritarda e accelera come e sindaco di Parigi. Le ambizioni quando vuole. Sa muoversi tra le non sono mai mancate, ma riuSi ringrazia Panini per la linee, c’è poco da fare. Un giocascire nell’impresa è tutta un’algentile concessione delle tore così, d’altronde, è abituato a tra cosa. immagini

Vice-campione del mondo 2006

Il comunista «sgradito»

Dopo il flop con i rossoneri, Dhorasoo decise di tornare in patria al Paris Saint-Germain. Non era di certo il PSG dei giorni nostri, dunque il giocatore trovò molto spazio. Le 34 presenze nella capitale portarono Raymond Domenech, ct della Francia, a convocarlo per i mondiali del 2006. Non fu una grandissima avventura per l’ex rossonero che giocò complessivamente 10’ nella manifestazione, non partendo mai da titolare e giocando soltanto durante la fase a gironi. Era però in panchina nella finalissima contro l’Italia, dunque è a tutti gli effetti uno dei 23 vice-campione del mondo.

Sin da subito Dhorasoo non nascose il suo impegno politico e le sue ideologie di sinistra. Spesso, quando era al Milan, leggeva il quotidiano francese Libération, per poter rimanere aggiornato sul proprio paese. Alessandro Costacurta, in un paio di occasioni, gli spiegò che quel giornale, come Repubblica, era poco gradito al presidente Silvio Berlusconi. Fu una battuta? A quanto pare sì, ma più volte il fisioterapista consigliò al giocatore transalpino di mettere il giornale sotto la giacca, per non infastidire il numero uno rossonero.

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e r a d r o c i r Gare da Italia - Germania di Gianfranco Giordano

NUVOLE E MESSICO

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Credit Foto: Liverani


50° 1970

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Sono trascorsi 50 anni dalla partita del secolo: Italiagermaniaquattroatre…

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ilm, libri, ricordi, repliche, Italiagermaniaquattroatre (proprio così, tutto attaccato, tutto d’un fiato) è una partita che fa parte della storia del calcio e dell’immaginario collettivo. Non per niente è stata definita “Partido del siglo”, come da targa commemorativa allo stadio Atzeca, con buona pace per tutte le altre partite giocate, spesso anche più belle. Due anni dopo i giochi olimpici, l’attenzione degli sportivi si rivolge di nuovo verso il Messico, è la volta del Campionato Mondiale di calcio. Al torneo arrivano quasi tutte le squadre più forti,

gli inglesi detentori del torneo, gli italiani campioni d’Europa in carica, gli uruguaiani bicampioni Mondiali, i brasiliani con Pelè e i tedeschi sempre presenti nelle occasioni importanti. Mancano solo gli argentini eliminati dal Perù nelle qualificazioni, Israele (al tempo inserita nella confederazione asiatica), Marocco ed El Salvador sono esordienti nella fase finale. Il 10 maggio l’Italia gioca l’ultima amichevole prima di partire per il Messico, a Lisbona gli Azzurri vincono 2-1 senza incantare. La vigilia della partenza è complicata dall’infortunio di Anastasi, dovuto ad uno scherzo finito male con un

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corda GARE DA ri Italia - Germania

massaggiatore. Il centravanti della Juventus era il titolare designato insieme a Riva in attacco, al momento di chiamare un sostituto Valcareggi ne convoca ben due, Boninsegna e Prati, con la conseguenza di lasciare a casa il milanista Lodetti. Questa scelta scatena alcune polemiche tra Rivera e lo staff azzurro che si protrarranno per giorni. Obiettivo dichiarato degli Azzurri è il passaggio del primo turno, impresa sempre fallita nel dopoguerra, il girone che vede come avversarie Uruguay, Svezia e Israele sembra alla portata. Il 3 giugno l’Italia fa il suo esordio

in terra messicana a Puebla contro la Svezia, Valcareggi si affida al blocco del Cagliari campione d’Italia e schiera i quasi esordienti Cera e Niccolai (poi sostituito da Rosato per infortunio) al centro della difesa e consegna le chiavi della porta ad Albertosi, quest’ultimo titolare anche a Lisbona. La partita viene sbloccata da un tiro di Domenghini poco fuori area dopo 10 minuti, su azione partita da calcio d’angolo e agevolata da un goffo intervento del portiere Hellström. Tre giorni dopo sempre a Puebla gli Azzurri incontrano l’Uruguay, anche i sud

IL RICORDO DI FURINO

Giuseppe Furino, protagonista per tanti anni con la Juventus ma mai apprezzato in nazionale. Era in tributa all’Azteca il giorno della semifinale. Furino parliamo di Italia - Germania “Per me la Nazionale è una ferita aperta, non ho sono mai stato preso in considerazione, soprattutto per motivi extra calcio. Mi riferisco in particolare ai Mondiali del 1974. In Messico ero giovane, approdato in Serie A da poco e non conoscevo quasi nessuno dei giocatori della squadra, avevo un buon legame con Rosato che, pur giocando nel Milan, era torinese. In Messico ho giocato la seconda partita contro l’Uruguay, subentrato nel secondo tempo, poi Valcareggi mi ha detto “Hai avuto la tua soddisfazione, adesso stai tranquillo”. Il dualismo Rivera-Mazzola è stato uno dei cardini di quel mondiale, non potevano coesistere in campo? “Sicuramente no, far giocare Rivera e Mazzola avrebbe portato all’esclusione di De Sisti, lasciando al solo Bertini, grande mondiale il suo, il ruolo di copertura a centrocampo. Mazzola, Rivera, Domenghini, Boninsegna e Riva, grande attacco ma la difesa non avrebbe retto”. Al momento vi siete resi conto di aver giocato una partita storica? “A dir la verità nei tempi regolamentari era stata una brutta partita, poi ai supplementari sono saltati tutti gli schemi e i giocatori pensavano solo ad attaccare per fare gol e chiudere la partita. Nessuno pensava di aver giocato una partita storica”. Un aneddoto sulla partita? “Io ero in tribuna e sono rimasto colpito dai numerosi allibratori presenti sugli spalti, che raccoglievano scommesse durante la partita. Anche sul 2-1 per i tedeschi c’erano molti spettatori che scommettevano sull’Italia”. Dopo la Germania il Brasile, ci credevate in finale? “Credo che avremmo potuto vincere contro il Brasile, ma siamo arrivati stanchi al momento decisivo. Probabilmente abbiamo pagato il mancato turnover nelle partite precedenti, forse Valcareggi non credeva di arrivare in fondo, sta di fatto che hanno giocato sempre gli stessi giocatori che sono arrivati sfiancati all’ultima partita”.

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50° 1970

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IL TABELLINO DELLA PARTITA Città del Messico - Estadio Atzeca 17/06/1970

ITALIA - GERMANIA 4-3 dts (1-1) Italia: Albertosi, Burgnich, Facchetti, Cera, Rosato (Poletti 91’), Bertini, Mazzola (Rivera 46’), De Sisti, Domenghini, Boninsegna, Riva. Allenatore: Valcareggi. Germania: Maier, Vogts, Patzke (Held 66’), Schulz, Schnellinger, Beckenbauer, Overath, Grabowski, Seeler, Müller, Löhr (Libuda 52’). Allenatore: Schön MARCATORI: Boninsegna 8’, Schnellinger 90’, Müller 94’, Burgnich 98’, Riva 104’, Müller 110’, Rivera 111’ ARBITRO: Yamasaki (Messico) Per Rivera probabilmente la gara che l’ha reso una leggenda

americani hanno vinto la partita d’esordio, un pareggio può essere utile a tutte e due le squadre che offrono una scialba partita con l’unico intento di non farsi del male, risultato ovvio 0-0. L’11 giugno ultima partita del girone a Toluca contro Israele, il giorno prima la Svezia ha battuto l’Uruguay e gli Azzurri sanno che un pareggio consentirà loro di vincere il girone. L’Italia gioca comunque per vincere ma la fortuna non è dalla sua parte, nel primo tempo De Sisti coglie il palo e l’arbitro annulla una rete a Domenghini, nel secondo tempo altra rete annullata questa volta a Riva che esce dal campo furibondo. Ad inizio del secondo tempo entra in campo Rivera, il pallone d’oro fa il suo esordio mondiale sostituendo Domenghini. Il 19 giugno, ancora a Toluca, l’Italia gioca contro il Messico padrone di casa. Il primo tempo si chiude sul pareggio, vantaggio della Tricolor con González e pareggio azzurro grazie ad un’autorete su tiro di Domenghini. Nel secondo tempo entra Rivera al posto di Mazzola, l’Italia dilaga e segna tre reti, doppietta di Riva intervallata da una rete di Rivera. L’Italia approda in semifinale dove incontrerà la Germania Ovest, una partita mai banale a cominciare dalle divise delle squadre, tra le poche nazio-

C’era anche il grande Riva in campo in quella leggendaria partita

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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

nali che non indossano i colori della bandiera, azzurro dei Savoia per gli italiani e bianconero della Prussia per i tedeschi. Germania e Italia, in maniera costante i primi e più altalenanti i secondi, sono sempre state due nazionali guida del calcio europeo, conquistando numerosi titoli europei e mondiali. Dal Cile 62 a Messico 70, da Argentina 78 a Spagna 82 per finire a Germania 2006, italiani e tedeschi si sono incontrati diverse volte alla fase finale della rassegna mondiale ma i Panzer non hanno mai vinto. Ogni generazione di tifosi italiani ha avuto una sua Italia-Germania nel cuore. Torniamo ai Mondiali messicani, i tedeschi hanno battuto l’Inghilterra ai quarti, rimontando un doppio svantaggio per poi vincere la partita nei supplementari. Il 17 giugno alle 16.00 ora locale le squadre sono pronte a iniziare la partita, i capitani Facchetti e Seeler sono a centrocampo insieme all’arbitro Arturo Yamasaki, peruviano naturalizzato messicano. Sul campo la temperatura è di 50 gradi, un temporale è terminato da pochi minuti. Lo stadio e pieno e i messicani tifano ovviamente per la Germania, sugli spalti si fa notare come sempre la macchia azzurra dei tifosi italiani. Valcareggi propone lo stesso undici iniziale della partita precedente, Schön invece cambia tre elementi rispetto ai quarti. La partita comincia e l’Italia va subito in vantaggio grazie a Boninsegna, abile a sfruttare un rimpallo fortunato poco fuori area. Subito il gol Germania comincia a condurre le danze alla ricerca del pareggio, Beckenbauer è incontenibile e cade in area dopo un contatto con Facchetti,

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i tedeschi protesteranno a lungo. A metà tempo il pallone bianco viene sostituito dal nuovo modello a pentagoni neri, il primo era sgonfio. Sempre nel primo tempo la Germania ha due buone occasioni, prima Müller di testa manda fuori di poco poi è strepitoso Albertosi su tiro di Grabovski. Nel secondo tempo entra Rivera per Mazzola, l’Italia comanda il gioco per circa un quarto d’ora, buona un’occasione con Riva ma Maier para, poi la Germania prende in mano le operazioni. Le azioni più emozionanti si concentrano nella fase centrale del tempo, al 18’ traversa di Overath, due minuti dopo


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Cera abbatte Beckenbauer al limite dell’area, il tedesco si fa male alla spalla destra ma rimane stoicamente in campo, scatenando le veementi proteste dei tedeschi che vorrebbero il fallo in aerea. Passano altri 5 minuti e la Germania ha l’occasione più clamorosa, diagonale da dentro l’area di Grabowski che batte Albertosi ma Rosato si supera e ribatte in rovesciata sulla linea di porta, si avventano sulla palla Seeler e Bertini che finiscono a terra. Il capitano tedesco si lamenta per un fallo e chiede il rigore mentre il centrocampista azzurro rimedia un colpo al viso. Nei minuti finali si fa male Rosato, implacabile nell’arginare Müller, che verrà sostituito da Poletti all’inizio dei tempi supplementari. All’ultimo respiro, su un cross rasoterra

in area italiana, sbuca Schnellinger che in scivolata manda la palla in rete, unica rete segnata in nazionale dal milanista. In seguito dirà che si stava semplicemente avviando verso l’ingresso degli spogliatoi, situato dietro la porta italiana, quando gli è capitata la palla decisiva. Qui finisce la partita e comincia la leggenda. Nei trenta minuti del tempo extra succede di tutto e le due squadre si lanciano all’arrembaggio per trovare la rete decisiva, si susseguono cinque reti una più incredibile dell’altra. Beckenbauer gioca con il braccio destro bloccato al busto per limitare i danni dell’infortunio. Segnano Müller finalmente libero da Rosato, Burgnich che quasi mai oltrepassava la metà campo, Riva di potenza e ancora Müller, suscitando le ire

Credit Foto: Liverani

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di Albertosi contro Rivera. Palla al centro, passano solo 14 secondi, nessun giocatore in maglia bianca toccherà la palla, e il Golden Boy si riscatta beffando Maier e portando definitivamente gli Azzurri in vantaggio. Mancano ancora nove minuti alla fine della partita ma non succede più nulla. LE NOVITÀ DEL MONDIALE Il mondiale messicano portò nel mondo del calcio alcune novità importanti. Una prima novità, dovu-

ta alla trasmissione delle partite televisive a colori, erano i palloni, non più di cuoio scuro ma bianchi con pentagoni neri, il Telstar della Adidas. Una seconda novità ben più importante era la possibilità di fare due sostituzioni durante la partita, con cinque giocatori che sedevano in panchina. Infine per la prima volta l’arbitro fu dotato dei cartellini giallo e rosso, anche se il cartellino rosso non venne usato in Messico. La Panini confeziona la prima raccolta dedicata ai Mondiali.

IL RICORDO DI ALBERTOSI

Ricky Albertosi, portiere scudettato con il Cagliari, è al suo terzo mondiale. È stato uno dei protagonisti di questa partita. La prima immagine che viene in mente pensando a quella partita è lei che strapazza Rivera, cosa gli ha detto? “Purtroppo, le mie parole non possono essere pubblicate su una rivista (gli scappa una risata). Quando c’era un calcio d’angolo per gli avversari mettevo sempre un difensore sul palo, si avvicina Rivera e si piazza lui. Lo guardo e gli chiedo se è sicuro di stare lì, mi tranquillizza e mi dice che ci pensa lui. Sul colpo di testa di Müller, Rivera si è quasi scansato dalla palla, a quel punto non ci ho più visto e l’ho insultato a morte. Lui mi ha guardato e ha detto che poteva solo fare un gol per rimediare”. La famosa staffetta ha creato dei problemi all’interno della squadra? “No. In partenza le gerarchie erano chiare e Rivera doveva essere titolare, pochi giorni prima della partita d’esordio si è sentito male, febbre e dissenteria, ed è stato sostituito da Mazzola. Una volta ristabilito Rivera, Valcareggi ha deciso di mantenere la squadra che stava facendo bene, inserendo Rivera nel secondo tempo”. Torniamo alla semifinale, vi siete resi conto di aver giocato una partita storica? “Prima della partita i tedeschi erano favoriti, erano forti e avevano appena vinto contro l’Inghilterra. Per noi è stata una partita normale, importante come tutte le partite di un certo livello, ci siamo resi conto di aver fatto un’impresa solo al rientro in Italia. Oltretutto dopo i tempi regolamentari l’umore non era alto, solitamente l’Italia faceva fatica a reagire dopo essere stata rimontata”. Un aneddoto sulla partita? “Nulla di particolare, un’unica cosa, che però valeva per tutte le partite, i palloni offrivano ai portieri traiettorie piuttosto difficili”. Dopo la Germania il Brasile, ci credevate in finale? “Noi siamo partiti per vincere anche contro il Brasile, loro erano una squadra stratosferica con cinque attaccanti incredibili ma pensavamo di potercela fare. Siamo crollati nell’ultimo quarto di partita quando si è fatta sentire la stanchezza. Eravamo reduci dai supplementari, inoltre noi avevamo sempre giocato sopra i duemila metri con un notevole dispendio di energie mentre il Brasile aveva giocato le altre partite a quote più basse e quindi si erano stancati meno”.

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