Calcio2000 n.246

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Bimestrale

Calcio

nov

243

Edizione speciale con le figurine di fifa 365 2020

2OOO diretto da Fabrizio Ponciroli

dic

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

prima immissione 01/09/2019

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reportage ESCLUSIVA

MONZA

Brocchi, tra sogni e certezze Giovani alla ribalta ESCLUSIVA

Alla scoperta di Lucas Rosa della J23

UNA VITA DA

10

Giganti del calcio ESCLUSIVA

Sergej Alejnikov Il russo della Juventus

Speciale Calcio Russo

Poco pubblicizzato ma affascinante

EROI PER UN GIORNO

Ezequiel Schelotto e il guizzo nel Derby

Grandi Allenatori

Gustavo Giagnoni, il tecnico col colbacco


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FP

QUEL NUMERO CHE SA DI CALCIO…

D

a bambino, quando mi sono innamorato, perdutamente, del gioco del calcio, mi sono lasciato rapire dalla magica maglia numero 10. Erano i primi anni ’80 e l’Italia era la patria dei fuoriclasse che sfoggiavano la 10. Impazzivo per Maradona, andavo fuori di testa per Platini, stravedevo per Zico. Dire chi sia stato il migliore è impossibile. C’è chi sarebbe pronto a giocarsi tutto per Pelé, altri non vogliono sentir parlare di nessuno all’infuori di Maradona e poi ci sono i fedeli di San Messi o coloro che rimpiangono Sivori… Credo che ogni tifoso di calcio, abbia il suo 10 preferito e ritengo che sia corretto così! Per celebrare al meglio un numero che ha sempre esaltato milioni di appassionati, abbiamo pensato ad uno speciale in cui, il protagonista, è il mitico N.10… Sono certo che un pizzico di nostalgia vi attanaglierà. Ultimamente, per i numeri 10, quelli veri, c’è meno spazio. Messi è l’eccezione che conferma la regola. Forse è una specie in via d’estinzione. Forse è un numero destinato a diventare “normale” o, forse, è solo una questione di “era calcistica”. Io, nella magia del 10, ci ho sempre creduto e continuerò a farlo. La mia infanzia, calcisticamente parlando, è ruotata attorno ai Grandi 10 e ne

aspetto di nuovi per continuare a divertirmi con quel numero che amo in maniera viscerale… Probabilmente, quando si comincia ad avere tante primavere sulle spalle, si guarda al passato con più dolcezza. Ho l’impressione che il calcio “dei miei tempi” sia stato tremendamente emozionante e zeppo di campionissimi. Potrebbe essere anche solo una personale suggestione ma, guardando a chi ha fatto la storia del 10, sono felice di avere tante primavere sulle spalle e, di conseguenza, di essermeli gustati dal vivo, al massimo del loro splendore. Ovviamente, sul nuovo numero della vostra/ nostra rivista c’è tanto altro. Ho fatto due chiacchiere con Lucas Rosa, giovane promessa della Juventus che, vado sul sicuro, farà tanto parlare di sé (carattere da vincente). Vi consiglio l’intervista ad Alejnikov (nostalgia sempre più protagonista). Parlare con il “russo che approdò alla Juventus per aiutare Zavarov” è stato illuminante. Siamo stati alla “prima” dell’Atalanta a San Siro in Champions League e pure al nuovo stadio del Tottenham… Bellissimo lo speciale dedicato al calcio russo e un occhio al passato per celebrare uno statuario Giagnoni. Il resto lo lascio a voi… Buona lettura, Cari Amici!

editoriale

Ponciroli Fabrizio

Fare agevolmente ciò che riesce difficile agli altri, ecco il talento; fare ciò che riesce impossibile al talento, ecco il genio.

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SOMMARIO

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Calcio2OOO

Anno 22 n. 8 novembre/dicembre 2019 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli scoperta 8 alla del numero 10 SPECIALE

di Daniele Perticari e Sergio Stanco

58 ATALANTA-SHAKTHAR REPORTAGE di Sergio Stanco

62 MANTOVA SPECIALE SERIE D di Fabrizio Ponciroli

ALEJNIKOV 64 SERGEJ GIGANTI DEL CALCIO di Fabrizio Ponciroli

SCHELOTTO 72 EZEQUIEL EROI PER UN GIORNO di Patrick Iannarelli

18 MONZA FOCUS ON di Sergio Stanco

ROSA 24 LUCAS GIOVANI ALLA RIBALTA di Fabrizio Ponciroli

30 TOTTENHAM REPORTAGE di Luca Manes

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CALCIO RUSSO SPECIALE

AMETRANO 76 RAFFAELE DOVE SONO FINITI? di Thomas Saccani

80

GUSTAVO GIAGNONI GRANDI ALLENATORI di Alessandro Guerrieri

CISSè 86 DIJBRIL L’ALFABETO DEI BIDONI di Thomas Saccani

90 FIORENTINA-GENOA GARE DA RICORDARE di Stefano Borgi

di Michael Braga

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Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/11/2019 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto. Hanno collaborato Sergio Stanco, Daniele Perticari Luca Manes, Michael Braga, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Cesare Catà, Patrick Iannarelli, Thomas Saccani, Alessandro Guerrieri, Stefano Borgi, Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000

XAVI LEGGENDE DEL CALCIO

Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it

di Luca Gandini

Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688

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Calcio2000 è parte del Network

di Gianfranco Giordano

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 gennaio 2020 Numero chiuso il 27 ottobre 2019



bocca del leone

la

CR700 EPPURE… Direttore, sono un tifoso bianconero. Seguo sempre la Juventus allo stadio e sono grato agli Agnelli per aver creato una squadra così forte. Però sono stanco di sentire parlare solo di Cristiano Ronaldo. La Juventus è una squadra di campionissimi, non c’è solo lui. Ha fatto ora 700 gol in carriera e sembra che sia solo lui quello che sa giocare a pallone. Non è giusto. Marco, mail firmata

MILAN, CHE DELUSIONE… Caro Direttore, la seguo e mi piace come parla di calcio. Sono d’accordo con lei sul Milan. Hanno sbagliato sin dall’inizio ma mi chiedo chi abbia pensato che Giampaolo potesse risolvere tutti i problemi con la bacchetta magica. Serviva uno come Gattuso a questa squadra, non uno come Giampaolo che è abituato a lavorare con giocatori ambiziosi e che lo

Marco, per fortuna sei tifoso della Juventus… A parte le battute, credo sia normale tutta questa attenzione mediatica attorno a Cristiano Ronaldo. Stiamo parlando di uno dei più grandi giocatori della storia del calcio. Ogni record che raggiunge, viene incensato perché lui è CR7. Anzi CR700… Comunque hai ragione, alla Juventus ci sono tanti altri campioni. Solo che il portoghese ha più fascino…

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seguono in tutto. Al Milan non funziona così. A quando un’intervista a Leao? è l’unico buono che abbiamo… Stefano, mail firmata Mi spiace averci preso su Giampaolo… Davvero… Speravo di sbagliarmi ma, con quella rosa, ero abbastanza certo che avrebbe avuto dei problemi. Resta un grande allenatore ma non era il posto adatto per lui, anzi, non


di Fabrizio Ponciroli

MA PARLANDO DI ZICO… Direttore, lo sa che la invidio? Zico è il mio idolo da quando ero un ragazzino e avrei dato qualsiasi cosa per essere con lei ad intervistarlo. Ma è davvero così tranquillo come dicono? Io lo volevo all’Inter ma almeno l’ho visto giocare con l’udinese. Mi sono fatto portare da mio padre che ora non c’è più a vederlo a Udine. Un’emozione che non dimenticherò mai. Grazie, è stato bello leggere il suo pezzo. Cordiali saluti Enzo, mail firmata

Enzo, grazie delle belle parole. è stato un onore anche per me poter stare qualche minuto, da solo, con un monumento del calcio italiano. Ti confermo che è una persona umilissima, molto disponibile. Un uomo straordinario, oltre che un calciatore sublime. Io, dal vivo, l’ho visto una sola volta, a Milano e, come è accaduto a lei, mi

» consigli per la lettura

»

erano i giocatori adatti per lui. Concordo con te: uno come Gattuso avrebbe avuto più senso. Speriamo in Pioli…

LA GRANDE STORIA DEL CALCIO ITALIANO STAGIONE 1990/91 Anno Pubblicazione 2019 - Pagine 360 Nell’opera troverete la storia della stagione 1990/91, vinta dalla Sampdoria, con i tabellini di tutte le partite di Serie A e B, le tabelle riepilogative di tutte le protagoniste, i tabellini delle Coppe Europee e della Coppa Italia. In più le carriere di tutti i protagonisti di A e cadetteria che hanno messo piede in campo anche per un solo minuto. Ad arricchire il volume le foto di tutte le squadre e di tanti protagonisti, rigorosamente a colori. Prefazione di Stefano Olivari. Il volume, scritto da Alessandro Guerrieri, giornalista de il “Tirreno” e conduttore Tv presso l’emittente regionale “Telecentro” di Livorno, è disponibile anche su Amazon, digitando La Grande Storia del Calcio Italiano – Stagione 1990/91 nella barra delle ricerche.

ALMANACCO UDINESE CALCIO Anno di pubblicazione 2019 – Pagine 640 Riconosciuto dall’Udinese Calcio, l’almanacco ripercorre oltre 122 anni di storia mediante la lettura di tutti i tabellini completi delle partite ufficiali disputate dalla formazione friulana nelle varie competizioni. Campionati, coppe nazionali ed europee a cominciare dal 1896! I dati statistici di tutti i giocatori con almeno 1 presenza con la maglia bianconera, presidenti, allenatori ed altri quadri societari completano la parte statistica. Innumerevoli fotografie testimoniano il passare degli anni fino alla stagione 2018-2019. Ben 640 pagine, oltre 2000 illustrazioni, libro storico/statistico dedicato all’Udinese, alla sua storia e al suo splendido tifo.

è rimasto nel cuore. Leggenda. EROI PER UN GIORNO… Ponciroli, complimenti per la rubrica sugli eroi per un giorno. Da tifoso della Roma, mi sono divertito un sacco a leggere di Yanga-

Mbiwa. C’ero al gol nel Derby e ho esultato come non mai ma ti assicuro che era una pippa vera. Gerardo, mail firmata Non ho nulla da aggiungere… La tua chiosa è impeccabile!

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Speciale

Alla scoperta del 10 di Daniele Perticari

1+0=CALCIO

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Fino all’era delle personalizzazioni, è stata la maglia del “più forte”. Ed ha accompagnato, facendolo ancora, generazioni di sogni dei bambini amanti di questo sport.

“è

una maglia che deve essere indossata, non ritirata. Perché è bello sapere che i bambini possano sognare di giocare con quel numero sulle spalle”. C’è un momento in cui parlare del numero 10 nel gioco del calcio può diventare stucchevole, poco interessante, a tratti delirante: è quello in cui si sceglie la strada di romanzare un qualcosa che è già di per sé mistico, emozionale, religioso, determinante. E sforzandoci non abbiamo saputo trovare di meglio, perché a nostro avviso non c’è di meglio, rispetto alle parole con cui Alessandro Del Piero ha sposato la scelta della Juventus - la squadra più seguita d’Italia - di non ritirare il numero che lo ha accompagnato per quasi tutta la sua esperienza in bianconero: il dieci. “è la fantasia che trasforma in pianeti i sassi”. Tutto vero. E si potrebbe attivare una specie di miccia emozionale-filosofico-tattica da non uscirne più per mesi. Immaginatevi di essere in qualsiasi piazza del popolo del nostro paese. Di mettervi nel mezzo e di urlare con un megafono: “Chi è il tuo numero 10 preferito?”. Parteciperebbero tutti. Dal ragazzino che sfreccia in bici, all’anziano che si sottrae

al controllo dei cantieri, dal barista, alla commessa del negozio di intimo all’angolo. Oltre, ovviamente, all’esercito di uomini che ogni giorno della loro vita (come noi, d’altronde) hanno il tracciato dell’elettrocardiogramma che dipende, un po’, abbastanza o totalmente, da quello che accade sul campo della propria squadra del cuore. E sarebbe una baraonda. Totale. Perché il numero 10 sul campo di calcio è sogno, è idea, è politica, è fatica, è talento. Nelle Marche, e più nello specifico nella zona degli ex patron della Fiorentina Della Valle, un posto dove collina, montagna, spiaggia, fabbrica e bar dello sport sono raggiungibili in neanche un’ora, dovunque voi siate, da un paio di decenni è nota la leggenda (per quel che ci riguarda mai verificata, ma ci accontentiamo della vox populi) del numero 10 locale Gionatha Proculo che, durante un’amichevole contro la Sampdoria, piazzò un doppio tunnel all’attuale CT della Nazionale Roberto Mancini. “Tu sei un grande e giochi in serie A. Io no, ma solo perché non ho voglia”. Gli disse. E a Casette d’Ete e nel raggio di 50km è diventato leggenda. Ecco, in quel frammento, vero o ipotetico che sia, c’è tutta la magia del numero 10. Esse-

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Speciale

Alla scoperta del 10 re, per un momento, qualcosa in più di un chiunque altro, sul campo di calcio. Più rapido, furbo, scaltro, efficace, intelligente, potente, carismatico, freddo. Insomma, essere quello, sul prato, che nel momento esatto cui serve la perfezione, questa viene servita. E ne ha fatta, o dovuta fare, di strada, quel numero sulle spalle degli uomini (e delle donne, perché no) da quando era semplicemente la maglia destinata alla mezzala sinistra. “La storia non ha nascondigli, la storia non passa la mano”, dice Francesco De Gregori e non possiamo che dargli ragione. È nella storia del calcio che quel numero ha rappresentato spazi geometrici diversi, tutti con un unico obiettivo: far sognare i popoli. Ecco quindi che il calcio disordinato, sublime, rapido di mente e gambe di Puskas e Sivori, fantasia e tabellini al potere come quello di “O Rei” Pelè lasciano agli eredi solo i numeri (inequivocabili) e qualche racconto dei nonni, o magari di qualche video di Youtube dove rinverdire fa-

Roberto Baggio, dieci italiano

C’è anche il geniale Mazzola nella Grande Inter che vince tutto

sti di un tipo di calcio che si sviluppa in tutte le latitudini e longitudini del campo. In cui il “diez” o “dez” o “dieci” può, anzi deve, fare quello che vuole, quando vuole e come vuole. Senza che nessun allenatore o compagno gli

di Cesare Catà

La mistica della maglia numero “10” nasce dalla fascinazione dell’idea che la fantasia possa essere, per alcuni istanti, in grado di sovvertire l’ordine cosmico costituito. In questo senso, Roberto Baggio è forse il numero 10 per antonomasia. La grandezza di Baggio come giocatore sta in una combinazione, quasi unica, tra una tecnica altissima e un’inventiva inaudita; il suo modo di giocare a pallone non può essere descritto come un gesto atletico finalizzato alla realizzazione del goal, quanto come una reinvenzione del gioco stesso attraverso forme, schemi, idee, gestualità e geometrie che erano inconcepibili prima che lui li realizzasse. Una giocata di Baggio confutava il grigiore del mondo con un tocco di genio inclassificabile. Ed è esattamente quello che ti aspetti da un 10. Osvaldo Soriano ha detto una volta che il calcio è una fiaba per adulti disincantati. Un’epica dei rozzi, mi piace aggiungere. In quest’epica, i 10 – Baggio, in modo particolare – interpretano il ruolo degli eroi perché il loro talento non è definibile, prevedibile, domabile. Nell’era del calcio come riproducibilità atletico-tattica, Baggio ha incarnato quel surplus di tecnica che spetta, quasi teofanicamente, a pochissimi talenti – con ciò, è come se avesse preservato l’aura mitico-fiabesca del calcio che la modernità sta inesorabilmente rodendo via da questo gioco. Ma c’è anche dell’altro a trasformare Baggio nel 10 per antonomasia. È stato un eroe wagneriano, nel senso che è stato contro tutti: contro il destino che gli ha spezzato troppe volte le gambe, così come contro allenatori tremanti che troppe volte vollero fuori squadra il più fulgido talento che il calcio italiano abbia mai accolto; eppure, al contempo, è stato anche un mite

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chieda alcunché in fase di non possesso. George Best era un “7” perché la tradizione al Man Utd era quella di assegnare tale numero al talento. Ma siamo sinceri: è lui, è stato lui, un altro degli apostoli di questo tipo di calcio. Torniamo a casa nostra e arriviamo anche a Rivera, Mazzola e De Sisti. C’è un aspetto meraviglioso, parlando di questa maglia, la “DIECIDELLANAZIONALE” che è da brividi appena lo ritrovi sotto la polvere. La sera di giugno in cui i nostri padri hanno festeggiato, nel 1968, l’unico campionato Europeo vinto, a Roma, mentre i tifosi dell’Olimpico sventolavano torce create accartocciando i quotidiani e accendendo la parte superiore degli stessi, l’uomo in dieci (e fascetta) non era uno di quelli di cui sopra. No. Era un gigante. Una statua vivente. Pensare che sì, tra i vari giocatori della nazionale che hanno sollevato uno dei trofei magici con la maglia numero 10 ci sia davvero stato Giacinto Facchetti è poetico e statistico. Ed è giusto che sia stato

così. Dieci, anche partendo dalla difesa. Anche se un giorno, qualche anno dopo, quella maglia sarebbe stata di Dossena al Mundial ’82, poco sfruttata se consideriamo che il vero “diez” della squadra era Giancarlo Antognoni, costretto al 9 da centravanti per motivi di ordine alfabetico “per ruolo”. Già, perché i numeri che Bearzot assegnò per il mondiale spagnolo furono stabiliti dividendo i giocatori in gruppi di ruolo e poi scegliendo i progressivi per chiudere il cerchio, fatta ovviamente eccezione per i portieri. E allora, come non tornare su Alex Del Piero. Perché forse per la seconda volta nella storia del calcio di casa nostra, con l’unica differenza che loro hanno vinto, quelli di prima purtroppo no, siamo andati a giocarci il titolo mondiale con due dieci in squadra ma con solo uno dei due con quel numero sulla maglia. In campo, Francesco Totti e “Pinturicchio”, avevano ruoli e attitudini diverse, anche per scelta di Marcello Lippi, ma non menzionarli come due dei “dieci” più

e schivo anti-vip, quasi ieraticamente conchiuso nella sua aura di serena malinconia. Un’aura che forse gli viene dalla consapevolezza di quello che la tradizione buddista chiama in sanscrito anicca: l’essenziale impermanenza di ogni ente dell’universo. Questo ha contribuito a farne il giocatore

più amato del calcio italiano su scala nazionale – nella nazione più campanilistica d’Europa (un campanilismo che diventa furioso quando parliamo di calcio), trattasi quasi di un miracolo. Infine: certo che doveva sbagliarlo quel rigore. Ci aveva portato lui in finale a Pasadena. Avremmo perso lo stesso. Con quel gesto l’eroe, come in tanti miti, si fa carico da solo della sconfitta. Per l’unica volta in tutta la sua carriera, Roberto Baggio tira un rigore sopra la traversa. E ci dice che, se li tiri, i rigori puoi sbagliarli. Perché per un 10 non conta (solo) il risultato. Ciò che conta è aver inventato, aver tentato, aver dato il massimo; aver giocato con gioia e foga; aver ascoltato ogni segnale dei compagni, liberandoli nell’istante in cui si smarcano; aver creato lampi di inspiegabile bellezza.

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Speciale

Alla scoperta del 10 importanti della storia del nostro calcio equivarrebbe ad una bestemmia. E noi, quando si parla di questi temi, siamo impeccabili fedeli. Ci scusiamo, perché vi abbiamo costretto a capriole temporali lasciando indietro un bel po’. Anzi, probabilmente, dato che si parla di numeri 10, abbiamo volontariamente tenuta aperta una parentesi che nella storia del gioco ha tracciato una linea indelebile. I nomi? Semplici e non serve raccontare alcunché. Arthur Zico, Michel Platini, Diegoarmandomaradona (tutto attaccato, letto senza respirare), gente che ha scritto la storia del calcio mondiale. In Italia e con la maglia delle rispettive nazionali. Spaziando, andando a cercare mattonelle per se stessi e per gli altri dove fisica, fantasia, religione potessero convergere e far trovare calcio. Sarebbe da ritiro del patentino di giornalisti inquadrarli, specie l’ultimo, in dati o descrizioni. Bastano due

indizi: al “diez” è già dedicato uno stadio, a Villa General, dove scende in campo il “suo” Argentinos Juniors, e a Napoli, oltre che nei vari presepe o nelle edicole sacre che (sì, è vero), qualcuno conserva in casa, Jorit lo ha dipinto sul costone di un palazzo permettendo ai napoletani di salutare ogni giorno l’idolo di tre generazioni (bambini, adulti, anziani) degli anni 90 e di tutti quelli che sono succeduti e che lo hanno adottato come tale sulla fiducia dei racconti e delle leggende sul suo conto. Torneremo negli anni di Maradona e Platini perché mai come in quel segmento temporale il numero 10 ha avuto il valore di incontenibile ed irripetibile uomo che, appunto, prendeva un sasso e lo trasformava in pianeta. In città, in provincia, in quartiere. Ecco perché proprio mentre la luce di Maradona e Platini iniziava a scendere verso il tramonto, un altro sole, probabilmente quello più abba-

Se si pensa al 10, il nome di Maradona si materializza in maniera automatica

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Due enormi talenti che hanno spesso flirtato con la posizione del 10

gliante per un’intera generazione di italiani, irrompeva nelle case, nei cuori e nell’impossibilità di rendere razionale, in un mondo che lo stava diventando, il sentimento verso un calciatore. In due parole: Roberto Baggio. Il numero 10 dell’Italia, anzitutto. Osservare Baggio e la sua vita in campo è una specie di dettame tattico di come la vita del “number ten” si sia evoluta. Lui, scacciando i fantasmi del pregiudizio e del dolore fisico, ha saputo adattarvisi e giocare ad uno sport diverso pur vestendo le stesse uniformi, calcando gli stessi campi, rispettando le stesse regole di compagni ed avversari. Per quindici anni, Roberto Baggio è stato seconda punta rapida (con Dertycia o Borgonovo), fantasista dietro alle due punte (Schillaci, Moeller e Casiraghi), spaziando anche da esterno in un tridente (con Ravanelli e Vialli, oltre al primo Del Piero), rifinitore “in società” (con Savicevic alle spalle di Weah), trequartista dietro al centravanti (Kennet Andersson o Kolyvanov), di nuo-

vo rifinitore dietro le due punte (innescando Ronaldo, Zamorano, Ventola, Kallon) e poi, magnificamente, tuttocampista con Mazzone a Brescia, dove ha realizzato a nostro avviso il gol più bello di un’intera era calcistica, quello del Delle Alpi contro la Juventus su lancio di Pirlo. Lo rivediamo duecentosettanta volte. Non basta. Non basterà mai. Ci potrebbero essere migliaia di modi per descrivere ad un alieno cosa significhi essere “numero 10 del gioco del calcio”. Ecco, noi sceglieremmo solo di premere play e fargli osservare, pardon divorare con gli occhi, quel gol. Dopo Baggio ed anzi, mentre Baggio inizia i suoi ultimi giri del gran premio, ecco l’avvento delle maglie personalizzate e dei numeri fissi. Così il dieci diventa meno pesante. Perché addirittura c’è chi, come il Napoli, decide di toglierlo in onore di Diego, del “diez”. Cambiandone anche i connotati tecnici, perché non esiste più la possibilità di dare il pallone ad un individuo, in un campo di Serie A

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Speciale

Alla scoperta del 10

Pelé, uno che si è legato al 10 per tutta la sua vita

e dirgli: “fanne quello che ti pare”. Il calcio diventa più fisico e di conseguenza, richiede organizzazione. Difficilmente, come accadeva a cavallo degli anni ottanta e novanta, troveremo ancora talento sopraffino grattugiato in tutte le pietanze da Torino a Palermo come accadeva in quei periodi. Prendiamo qualche esempio disordinato: Mancini nella Sampdoria, Matteoli a Cagliari, Gazza Gaiscogne a Roma, Brady tra Genova sponda blucerchiata ed Ascoli, Beccalossi e Matthaus nell’Inter, Zola (un gigante, che meriterebbe un capitolo a parte) tra Napoli, Parma e Cagliari, “Il Principe” Giannini della Roma, Martin Vasquez ed Abedì Pelè nel Toro, Hagi a Brescia e altri decine di immarcabili uomini con calcio in testa (prima) e nelle gambe (poi) che hanno rappresentato, in un periodo, solo ed esclusivamente la capacità di rendere fantastico qualcosa di fisico. Fino all’arrivo di Carlo Ancelotti

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e del suo “Albero di Natale”, dove per poter collocare la tua pallina dovevi essere anzitutto numero 10 nell’anima e nei piedi, poi si discuteva del numero di maglia. Mettendo assieme, in quel Milan, gente come Pirlo, Seedorf, Kakà, Rui Costa, anche se non sempre tutti assieme, tutti con i poster di Gullit e del genio Savicevic incollati a Milanello. Non è un caso che quella sia stata, exploit dell’Inter del Triplete a parte (a proposito, numero 10 Wesley Sneijder), l’ultima squadra italiana dominante in Europa e nel Mondo. Il mondo, appunto. Se siete in viaggio e siete nel posto più sperduto possibile, fermatevi a guardare i bambini che giocano a calcio. E osservate le loro spalle. Con la maglia di Messi o con una casacca di fortuna e il pennarello, abbiamo pochi dubbi di quale siano i caratteri stampati, incisi, tatuati. Uno e zero. Vicini. Per sempre.


Intervista a Beppe Iachini, ex di Ascoli, Verona, Fiorentina (e molte altre). Oggi il suo mestiere è quello di allenatore, ma una volta la sua missione era quella di annullare il numero 10 avversario.

l’anti 10 Q

uando la numerazione sulle maglie andava dall’1 all’11, il 4 era destinato a non dormire la notte alla vigilia delle partite. Soprattutto negli Anni ’80-’90. Il perché è presto detto: toccava a lui marcare il miglior giocatore avversario. Che in quegli anni aveva solo un numero sulla maglia: il 10. Solo che, spesso, in quelle squadre, di 10 ce n’erano più di uno: giusto per fare qualche esempio, nella Fiorentina Antognoni e Baggio, nella Juve Platini e Laudrup. Nella Roma Giannini e Boniek. Nella Samp Cerezo e Mancini. Ok, non erano proprio tutti 10, ma c’era talmente tanta qualità da farti girare la testa. E non solo nelle cosiddette big: al Brescia Beccalossi, al Como Notaristefano, all’Ascoli Brady, al Verona Di Gennaro, al Toro Dossena, all’Atalanta Stromberg, Magrin e Prandelli, all’Udinese un certo Zico. E poi c’era lui: un numero 1 che vestiva il 10. Diego Armando Maradona. Pronunciato così, tutto d’un fiato, quello che ti faceva perdere a rincorrerlo. Spesso senza riuscire a scalfirlo. Ma non sempre. Già, perché Beppe Iachini stava a Maradona come la criptonite a Superman. L’ex allenatore di Palermo, Sassuolo ed Empoli (solo per citare alcune delle esperienze più recenti), era quel 4 dedicato a spegnere la fantasia della squadra avversaria. E in quegli anni si è “divertito” molto: “Guarda, devo dire che non mi annoiavo di certo – ci

di Sergio Stanco

racconta sorridendo Beppe Iachini in esclusiva – Perché ogni domenica mi toccava un fenomeno. A quei tempi c’era una classe pazzesca in campo. Ricordo bene le notti insonni prima di incontrare il Napoli, ma io li ho marcati davvero tutti: Maradona, Platini, Zico, ma poi anche Matthaus, Baggio, Zola, tanto per citarne altri. Qualcuno l’ho anche difeso quando ci giocavo insieme, come lo stesso Baggio o Recoba. Posso dire che il 10 alla fine è stata la mia vita, il

il 10 che non t’aspetti “Era un vero rompi(bip)…”, così Beppe Iachini ci ha parlato scherzosamente di Francesco Della Monica. Uno che ha marcato Maradona, Zico, Platini e tanti altri, che ricorda come un incubo le volte che era costretto a fronteggiare il trequartista dell’Empoli. Classe ’60, Francesco Della Monica è arrivato a Torino da Vietri sul Mare: settore giovanile della Juve prima di tanto girovagare nelle serie inferiori. A farsi le ossa, si diceva una volta. Nell’86 la promozione in A con l’Empoli e la possibilità di confrontarsi con i grandi 10. Il tempo di farsi rincorrere dal mastino Beppe Iachini, e di segnare un gol in 42 presenze, prima di ricominciare il giro nelle serie inferiori. Ha finito in C2 nella Turris nel 1992.

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Speciale

Alla scoperta del 10 numero del destino: sono stato un mediano, mi toccava l’arduo compito di annullare il fantasista avversario, eppure oggi, da allenatore, se posso, gioco col trequartista (sorride, n.d.r.)”. Inutile chiedere di stilare classifiche, perché a quei tempi c’era un extraterrestre che danzava in campo: “Maradona è stato sicuramente il più forte di tutti, affrontarlo era sempre una preoccupazione, ma anche un orgoglio. Sapevi che dovevi tenere l’attenzione non alta, di più, perché ogni pallone che toccava poteva inventare qualcosa. Eppure, paradossalmente, mi riusciva quasi più “facile” confrontarmi con lui, forse proprio perché era uno stimolo eccezionale fermare il numero uno al mondo. Alla fine, ci siamo incontrati talmente tante volte che ormai in campo ci scherzavamo su: lui era un avversario molto leale, nonostante tutte le “attenzioni” –

contento della mia carriera, anche perché successivamente ho avuto la fortuna di giocare con un certo Roberto Baggio, un altro fenomeno: mi chiedo spesso cosa avrebbe potuto fare Roby senza infortuni. E nonostante l’ostracismo di quei tempi per il numero 10, che spesso veniva relegato sulla fascia, ha fatto vedere cose eccezionali. Lui e Maradona sono quei giocatori che vorrei sempre avere nella mia squadra. Anche se un altro che mi faceva parecchio impazzire quando lo marcavo era Michel Platini, perché era intelligentissimo: sapeva che spostandosi dieci metri più avanti, avrei dovuto mollarlo. E allora giocava da attaccante, poi veniva indietro e si inseriva. Mi faceva venire il mal di testa (sorride, n.d.r.). Un altro difficilmente marcabile era Paulo Roberto Falcao, perché non sapevi mai se andarlo a prendere o aspettarlo. Comunque,

10 domande al 10 Una volta il numero 10 era definito il “fantasista”, perché era quello che doveva inventare, fare magie, elargire spettacolo e far divertire il pubblico. Negli anni recenti, probabilmente nessuno ha interpretato il copione meglio di un certo Ronaldinho: i suoi sombreri, colpi di tacco, filtranti no look e le sue giocate da funambolo, hanno incantato una generazione di tifosi del calcio inteso come show. Abbiamo avuto la fortuna di potergli porre dieci domande (ovviamente 10 non a caso) a risposta secca, anzi secchissima. Come i suoi fendenti dal limite e le sue punizioni imparabili. Cosa rappresenta per te il numero 10? “È amore, il numero del mio cuore”. Cosa ti ha fatto innamorare del 10? “Il mio idolo di quando ero ragazzino. Lo guardavo giocare e sognavo di diventare come lui”. E chi era il tuo idolo da ragazzino? “Il più forte: Diego Armando Maradona, ovviamente”.

chiamiamole così – portava un gran rispetto. Alla fine, si era creata stima reciproca e lui consigliò al Napoli di acquistarmi: era quasi tutto fatto, col Napoli avevo già l’accordo, ma a quei tempi il giocatore non aveva tanta voce in capitolo e l’Ascoli preferì mandarmi a Verona”. C’è l’orgoglio di aver fermato forse il giocatore più forte di tutti i tempi, ma non il rimpianto di non averci giocato insieme: “È andata così, ma sono

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se devo dirla tutta, il giocatore che soffrivo di più in assoluto in quegli anni era il trequartista dell’Empoli Della Monica: un giocatore rapidissimo, che non stava mai fermo, di grande tecnica. Sembra incredibile, ma lo pativo tantissimo, più di tanti altri campioni di valore assoluto”. Tanta abbondanza in quegli anni, quanta penuria ai giorni nostri: “È inevitabile, perché se nei settori giovanili insegni ai ragazzini a gioca-


Ronaldinhio con Maradona e Totti, un tris da sogno

E comunque con Pirlo e Seedorf componeva un centrocampo in grado anche di difendere. Tuttavia, quel Milan è stato veramente eccezionale per qualità e organizzazione tattica. Merito di Carlo. Il ruolo dell’allenatore è quello di imparare a conoscere velocemente i propri giocatori e capire come farli rendere al massimo. Quando sono arrivato a Palermo ho avuto la fortuna di incrociare Dybala: aveva 18 anni e non si sapeva bene cosa fosse, alcuni dicevano dovesse fare l’esterno, altri il trequartista, altri ancora la seconda punta. Io mi son detto: uno così deve semplicemente stare il più possibile vicino alla porta. L’ho schierato centravanti e ci ha trascinati. E da lì la sua carriera è cambiata. Oggi, forse, 10 puri in giro non ce ne sono, ci sono giocatori fortissimi come Messi o Cristiano Ronaldo, che però sono più attaccanti,

Se dovessi dare un consiglio ad un ragazzo di oggi che sogna di diventare un 10 come te, cosa gli diresti? “Di credere sempre in quello che fa, di non arrendersi mai, perché i sacrifici alla fine pagano sempre”. Qual è il numero 10 più forte che hai incontrato nella tua carriera? “Ce ne sono stati tanti: Messi, Del Piero, Totti…” E chi è, oggi, il 10 più forte in circolazione? “Sicuramente Messi”. Quali sono le caratteristiche che un 10 deve

assolutamente avere? “Tanta fantasia e grande velocità di esecuzione”. Chi è stato, per te, il miglior 10 italiano? “Ce ne sono stati tanti, ma se devo sceglierne uno dico Del Piero. Anche se Totti e Baggio non sono stati certamente inferiori”. Perché, dunque, Del Piero è il tuo preferito? “Mi piaceva soprattutto la sua imprevedibilità. E, poi, ha fatto una grandissima carriera”. Chi è stato il miglior numero 10 della storia a parte Ronaldinho? “A parte Ronaldinho (ride, n.d.r.), naturalmente Maradona. Nessuno come lui”.

oltre alla tattica collettiva va promossa anche la tecnica individuale. Poi, ovvio, ci vuole il sacrificio da parte di tutti: non è come una volta che il 10 poteva fare quello che voleva, ma non si può neanche confinare i giocatori più talentuosi ai margini. Il Milan di Ancelotti schierava Pirlo, Seedorf, Kakà e Rui Costa contemporaneamente in campo, ma se non c’era Gattuso a correre dappertutto, non avrebbe vinto nulla.

soprattutto il portoghese. Gli ultimi 10 in Italia, secondo me, sono stati Totti e Del Piero. Oggi se devo pensare ad uno che ha le potenzialità per diventarlo, dico Sensi: a Sassuolo l’ho arretrato davanti alla difesa alla Pirlo, ma uno con le sue qualità e la sua personalità può fare davvero tutto. E credo che possa rappresentare uno dei potenziali trascinatori anche della Nazionale di Mancini”.

re a due tocchi, è normale che i ragazzi che il talento ce l’hanno, e dovrebbero essere lasciati liberi di esprimerlo, vengano repressi. L’organizzazione tattica è chiaramente un principio fondamentale per le squadre di successo, ma

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focus on Monza

di Sergio Stanco

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Monza grandi firme

(e grandi obiettivi) Intervista a Christian Brocchi, ex (tra le altre) di Milan, Lazio e Fiorentina (nonché ex allenatore di Milan e Brescia), attuale tecnico di un Monza che aspira alla Serie B (e poi alla A).

S

e arrivano Silvio Berlusconi come Presidente, e Adriano Galliani come Amministratore Delegato, è inevitabile che la Serie C cominci a starti un po’ stretta. L’asticella a Monza si è alzata. E parecchio. L’obiettivo, neanche troppo celato, è quello di arrivare presto in Serie B, per poi provare la storica scalata alla Serie A. E per farlo Berlusconi e Galliani si sono affidati ad una loro vecchia conoscenza, quel Christian Brocchi che era già stato calciatore del Milan dei “miracoli” ancelottiani e allenatore delle giovanili, prima, e della prima squadra, poi (seppur meno del previsto). Il “tridente” si è ricongiunto a Monza e, con le dovute proporzioni, proverà a compiere un

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FOCUS ON Monza

altro “miracolo”. Christian, ci racconti la telefonata di Galliani nella quale ti ha proposto la panchina del Monza? Quanto ci hai messo per accettare? “Quanto ci ho messo, zero. Devo essere onesto, sinceramente non era nei miei piani ricominciare dalla Serie C. Non per arroganza, semplicemente pensavo di poter ambire a qualcosa di diverso. Ci sono offerte che, però, non si possono rifiutare. Questa era una di quelle. Il tutto è successo in maniera molto naturale, come sempre d’altronde: il Dottor Galliani mi ha chiamato, mi ha prospettato questa possibilità e abbiamo iniziato quest’altra avventura insieme”. Tu sei stato calciatore del Milan, poi allenatore delle giovanili e sei subentrato a Mihajlovic nel finale della stagione 2016: sei un po’ l’uomo del Presidente e del Dottor Galliani. Da dove nasce questo rapporto di fiducia? “Nasce dal lavoro, molto semplicemen-

Il Monza è stato costruito con grandi firme e tanta qualità

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te. Nel mondo del calcio spesso si dicono grandi cattiverie. Per qualcuno sono il loro “cocco”, ma pensate veramente che due imprenditori di questo spessore affiderebbero il progetto a qualcuno solo per “simpatia”? Io ho sempre dato tutto, da calciatore prima e allenatore poi. E questo evidentemente è stato apprezzato. Poi, senza falsa modestia, evidentemente credono in me anche come allenatore, altrimenti non mi avrebbero richiamato, no?”. Ti ricordi le parole di Galliani quando ti ha proposto di lavorare nelle giovanili del Milan? “Certo che me le ricordo: giocavo nella Lazio (stagione 2013, n.d.r.), mi ero appena infortunato e mi sono presentato a San Siro per Milan-Lazio con le stampelle. Il Dottore si è avvicinato e mi ha detto: “So che probabilmente smetterai, nel caso sappi che la porta del Milan per te è sempre aperta”. Da lì a poco mi ha proposto di entrare a lavorare


Non solo Formula 1 “Adriano Galliani è un vulcano, un vero tifoso del Monza. Non c’è business, la sua è vera passione. Da quando è arrivato ha portato una carica di adrenalina incredibile”. Le parole sono di Filippo Antonelli, Direttore Sportivo della società brianzola. Lui al Monza c’era già prima che questo tornado travolgesse tutti: “Quando sono arrivati il Dottor Galliani e il Presidente Berlusconi ce ne siamo accorti subito – sorride – c’è stata un’impennata di popolarità e di visibilità incredibile. Dal punto di vista sportivo, prima Monza era conosciuta solo per l’autodromo, ora non è più così. Anzi, la volontà è quella di farci conoscere anche per il calcio. La società ha fatto investimenti importanti e non si è mai nascosta: con le operazioni fatte dal punto di vista tecnico e di infrastrutture, l’obiettivo è chiaramente quello di arrivare in Serie A per la prima volta nella storia di questo club. Un obiettivo importante che - però - va conquistato sul campo. Adesso tutti credono sia tutto dovuto, ma non è così”. Il cambiamento di prospettiva, però, c’è e non si può, né si vuole negare: “Nella prima sessione di mercato (quella invernale di gennaio 2019, n.d.r.) abbiamo fatto 30 operazioni in pochi giorni! È stato a dir poco elettrizzante. Quello che dico sempre è che, adesso, lavorando col Dottor Galliani, sto facendo un master accelerato (sorride, n.d.r.). L’anno scorso abbiamo provato ad abbattere i tempi e saltare uno step, purtroppo non ce l’abbiamo fatta. Oggi stiamo consolidando l’enorme lavoro cominciato nella scorsa stagione”. E nel frattempo il club cresce: “Abbiamo riorganizzato il centro sportivo, costruito campi sintetici per gli allenamenti della prima squadra e delle giovanili, inaugurato la mensa, riaperto il bar e stiamo ristrutturando lo stadio per renderlo più moderno e fruibile. La società sta lavorando benissimo anche a livello di marketing, per coltivare il rapporto con il territorio: l’iniziativa di regalare migliaia di diari del Monza Calcio ai bambini della provincia il primo giorno di scuola, va in questa direzione. Insomma, è una grande rivoluzione e si respira tantissimo entusiasmo. Il più entusiasta è proprio il Dottor Galliani: lui dice che è un monzese andato in prestito al Milan per 31 anni e che ora è tornato a casa. Una delle cose di cui va più orgoglioso, è essere riuscito a riportare allo stadio, e a far nuovamente emozionare, il Presidente Berlusconi. Ripeto, dietro c’è tantissima passione. Pensate che quando siamo andati in D e poi siamo riusciti immediatamente a tornare in C, il primo a chiamare il Presidente Colombo per congratularsi è stato proprio il Dottor Galliani”. E chissà che a fine anno non tocchi all’ex Presidente Colombo ricambiare la cortesia…

nel settore giovanile. Per me è stato un orgoglio, ma anche un grande onore. Non ce n’era bisogno, ma è stata anche l’ennesima dimostrazione che quel Milan era prima di tutto una grande famiglia”. L’esperienza nelle giovanili è stata ottima, non altrettanto si può dire di quella fugace della prima squadra… “È andata così, non ne faccio una malattia. Non era il momento giusto. Probabilmente lo sapevo già allora, ma - come ho detto anche in precedenza - ci sono occasioni nelle quali non si può dire di no. L’anno succes-

sivo sarei dovuto partire dall’inizio, poi c’è stato l’esonero di Mihajlovic e son salito in corsa. Col senno di poi sarebbe stato meglio aspettare, ma non sempre si può decidere il momento giusto. In ogni caso, la stima – reciproca – è rimasta inalterata, come dimostra il fatto che io oggi sia qui a guidare il Monza”. Giustappunto: che situazione hai trovato quando sei arrivato? “Dico sempre che siamo partiti non da zero, ma da meno uno (sorride, n.d.r.). Abbiamo dovuto ricostruire un po’ tutto, dovendo al

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FOCUS ON Monza

contempo reggere alle pressioni che inevitabilmente si sono concentrate su di noi. Nonostante tutto siamo arrivati in finale di Coppa Italia, persa all’ultimo minuto, e siamo stati eliminati dai play-off dopo un doppio 3-1. È andata così, purtroppo, e quest’anno abbiamo cercato di cancellare la delusione, resettare tutto e ripartire dalle cose buone”. Dunque, non c’è il rammarico di aver perso un’occasione? “Non abbiamo perso un’occasione, ma certamente c’è rammarico per come sia andata, perché con un pizzico di buona sorte in più a quest’ora saremmo in un’altra categoria”. Questa stagione è partita alla grande: quali devono essere gli obiettivi? “Dobbiamo rimanere con i piedi saldamente piantati a terra, perché la pressione c’è e le aspettative sono alte. In più tante squadre ci usano come alibi o come motivazione: se perdono contro di noi è tutto normale, se vincono hanno fatto un’impresa. Io dico che è sempre meglio giocare per vincere, piuttosto che per non perdere, basta però riuscire a saper reggere la pressione”. La società però non ha mai nascosto le sue ambizioni… “Ed è normale che sia così, anche io sono ambizioso. La società è certamente da Serie A, ma poi le promozioni bisogna guadagnarsele sul campo, un passo alla volta, punto dopo punto. Ed è questa la cosa più difficile in assoluto, tenere alta la tensione senza farsi sopraffare dalle aspettative”. Tra i tuoi ex mister, chi era il più bravo nel gestire queste situazioni? “Ne ho avuti tanti, ma nessuno che sapesse guidare lo spogliatoio come Carlo Ancelotti. Era bravissimo a livello caratteriale, ad entrare in sintonia con i calciatori, a capire i momenti e cosa dire per accendere la scintilla. In quel Milan avevo tre mostri sacri davanti (Pirlo, Gattuso e Seedorf), eppure mi teneva in grande considerazione. La stima era – ed è tuttora – reciproca. Non ci

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“Galliani mi ha proposto di entrare a lavorare nel settore giovanile. Per me è stato un orgoglio, ma anche un grande onore. Non ce n’era bisogno, ma è stata anche l’ennesima dimostrazione che quel Milan era prima di tutto una grande famiglia”

Il tecnico Brocchi vuole portare il Monza in Serie B


Un’istantanea della sfida sul campo del Como

sentiamo spesso perché non sono uno che “rompe”, ma ogni volta che vengo citato, lui parla bene di me e viceversa. Significa che c’è rispetto”. Altri mister che ti hanno insegnato il mestiere? “A livello tattico ho imparato molto da Cesare Prandelli, anche con lui mi sono trovato molto bene. Un altro molto bravo nel gestire spogliatoio e situazioni difficili è Reja, grande mister anche lui. Sono tutti allenatori da cui ho imparato che non serve urlare per farsi ascoltare: se urli sempre, poi diventa la normalità. Preferisco spiegare, cerco di farmi ascoltare e, lato mio, di ascoltare anche i giocatori. Poi, chiaro, ci sta di “sbroccare” ogni tanto, ma non può diventare la regola”. Abbiamo parlato del tuo Milan: tanti tuoi ex compagni sono diventati allenatori. Ti sorprende? “Assolutamente no, perché era una squa-

dra piena di calciatori e uomini intelligenti. E quando sei intelligente, puoi fare tutto. Poi c’era una grande mentalità singola e di gruppo, che sicuramente sta aiutando tutti noi in questa nuova avventura. Mi fa effetto, e mi piace vedere, qualche ex compagno in questa altra veste: penso a Nesta, ad esempio, che quando giocava era talmente bravo che non sudava nemmeno (sorride, n.d.r.). Gli veniva tutto naturale. Ora si vede quanta passione e quanto impegno ci mette”. Tornando ad oggi: si può dire che il tuo obiettivo è tornare in Serie A e che Monza è la piazza giusta per farlo? “Non sono uno abituato a guardare oltre quello che devo fare oggi. E oggi sono assolutamente concentrato sull’obiettivo, che è quello di conquistare la Serie B. Per arrivare in A, da lì si deve passare, quindi uno step alla volta. Il calcio è un mondo brutto, si deve vivere alla giornata (sorride, n.d.r.)”.

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l a b i r a l l a giovani Lucas Rosa

di Fabrizio Ponciroli

LUCAS ROSA

CORRE (VELOCE)… 24Credit Foto: Ghiotto Domenico - Agenzia Blitz


Talento purissimo, classe 2000, sogna di giocare con CR7 e gli altri campionissimi bianconeri…

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ucas Rosa è un giovane di grandissime prospettive. Classe 2000, gioca nella Juventus U23, agli ordini di Pecchia. Esterno destro di difesa, ha enormi doti, sia tecniche che atletiche. Soprattutto, è un ragazzo che sta facendo tanti sacrifici per raggiungere i suoi sogni. Il sentiero è stato tracciato e Lucas Rosa va di fretta… Lo abbiamo incontrato a Vinovo, al centro d’allenamento della Juventus U23… Lucas, chi ti ha trasmesso la passione per il gioco del calcio? “Credo di essere nato con già l’amore per il calcio. Mio padre mi ha regalato un pallone

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ibalta

la r giovani al Lucas Rosa

da calcio quando ero piccolissimo e ci gioco ancora oggi. Mi ricordo che mi portava a vedere tante partite di calcio e a me piaceva moltissimo”. Che squadra ti portava a vedere? “Andavo spesso a vedere giocare il San Paolo. C’erano tanti giocatori come Hernanes, Luis Fabiano e tanti altri…”. Chi sono i tuoi modelli? “A me sono sempre piaciuti quei campioni che hanno fatto del lavoro la loro forza. Penso a Michael Jordan che si è sempre impegnato per migliorarsi, anno dopo anno, o Ayrton Senna. Un mito per noi brasiliani, un grandissimo campione che non ha mai smesso di lavorare per crescere sempre di più. Ho avuto la possibilità di lavorare con Nuno Cobra, il suo preparatore fisico. è stata un’esperienza fantastica che mi ha insegnato moltissimo e che mi ha fatto capire molte cose su Ayrton Senna. E direi anche Cristiano Ronaldo, un altro che cerca la perfezione, sempre”. Cosa hai provato la prima volta che hai incontrato CR7 qui alla Juventus? “È stata una grande emozione. La prima volta che l’ho visto, mi sembrava un player del videogame. Ha tantissimo carisma. Poi, quando lo conosci, capisci che è una persona normale”. Ti ha dato dei consigli? “Certo, parliamo la stessa lingua, quindi è stato anche facile. Mi ha dato consigli preziosi, non solo sul calcio. E, qualche volta, mi ha chiamato, dopo gli allenamenti, a calciare in porta insieme a lui. è qualcosa di speciale per me”. Lucas, quando hai cominciato a capire che il calcio sarebbe potuto diventare la tua professione? “Direi da quando ero bambino. Ho sempre voluto fare il calciatore professionista. Onestamente, non pensavo di arrivare alla Juventus in tempi così rapidi. Mi pongo degli obiettivi e cerco di raggiungerli, uno alla volta”. Quando hai mosso i primi passi al Palmei-

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Lucas Rosa durante l’intervista con il Direttore Fabrizio Ponciroli

ras, hai conosciuto un certo Gabriel Jesus… “Sì, ci siamo allenati insieme al Palmeiras. Non lo conosco benissimo ma sicuramente si tratta di un grande attaccante”. Ti è pesato lasciare il Brasile da giovanissimo? “No, è sempre stato il mio obiettivo quello di arrivare in Europa. Sono andato via da casa mia a 14 anni ed ero già convinto di venire in Europa. Poi, se ti chiama la Juventus…”. Come è nata l’opportunità di giocare alla Juventus? “Credo sia merito del mio impegno, giornaliero, dei miei genitori, delle mie prestazioni e del mio procuratore Raiola e di tutto il suo staff. Ho giocato anche a Rieti con il Palmeiras, magari mi hanno notato lì (Ride, n.d.r.)”. Mi racconti il tuo primo giorno a Torino… “Diciamo che ho capito qualcosa a partire dal secondo giorno, visto che arrivavo da un viaggio aereo di 20 ore (Ride, n.d.r.). Ho trovato una società molto organizzata. Una struttura fantastica, un grande staff. Mi è piaciuta molto anche la città”. Sei allenato da Pecchia, di cui si dice un gran bene… “Mi piace il suo modo di fare calcio. è un grande allenatore, credo che ci stia aiutando moltissimo. è molto preparato, sa quello che vuole da noi”. Siamo al secondo anno per quanto riguarda


L’ESPERIMENTO JUVENTUS U23 La Juventus U23 è la seconda squadra della Juventus. Istituita nel 2018, è al suo secondo anno di vita. Milita in LegaPro, terza divisione del calcio italiano. Il club bianconero, quando è stata formalizzata l’introduzione delle “seconde squadre” è stata prontissima ad abbracciare il progetto. Dopo il 12° posto della sua prima stagione in LegaPro, la JuventusU23, inserita nel Gruppo A, punta ad un piazzamento decisamente più prestigioso. A guidarla c’è Pecchia (arrivato al posto di Zironelli), ex giocatore, tra le altre, di Juventus, Napoli, Sampdoria e Torino. La seconda squadra bianconera gioca le gare casalinghe al Moccagatta di Alessandria. Tanti i talenti presenti in rosa. Da Muratore a Mota Carvalho, a prospetti di grande avvenire come Beruatto, Clemenza, Olivieri e tanti altri, oltre a Lucas Rosa, l’uomo della fascia destra.

la Juventus U23. Dove potete arrivare? “Già lo scorso anno ho fatto qualche partita con l’U23. Credo che ci siano le condizioni per fare bene. Penso che possiamo fare una grande stagione. Incontriamo squadre con giocatori più esperti ma siamo un gruppo forte che vuole crescere e con tanti giocatori che hanno tanta voglia di far bene con la Juventus”. Fare bene con l’U23 per poi arrivare in Prima squadra… “è chiaro, è l’obiettivo mio, come di tutti i miei compagni. Lavoriamo tutti i giorni, proprio per questo. Sarebbe bellissimo, ad esempio, essere convocato, un giorno, con la Prima squadra”. E quali altri obiettivi hai? “Beh, un giorno mi piacerebbe giocare in nazionale”. Tanto calcio, ma hai altri passatempi? Videogame? “Ci gioco con mio fratello, online. Solitamen-

te mi straccia sempre. Ha 14 anni, si trova in Brasile, ed è fortissimo ai videogame. Sia a calcio che ad altri titoli, solitamente di azione/sparatutto, mi batte sempre”. Sei appassionati di serie TV? “Certo, guardo tanti programmi su Netflix. Mi piace molto la serie TV Prison Break”. E con il cinema, come andiamo? “Se è un bel film, lo guardo sicuramente. Non c’è un genere che preferisco, deve essere un bel film”. A livello musicale, come sei messo? “Musica brasiliana ma sto iniziando ad ascoltare anche tanta musica italiana. C’è un brano che ascolto spesso, anche perché nello spogliatoio va tanto. È Giovane Fuoriclasse, del rapper Capo Plaza. Il primo giorno che sono arrivato, era la canzone del momento e quindi mi è entrata in testa. Ho scoperto anche il genere raggaeton che mi diverte molto”. Ma come è una tua giornata tipo? “Al mattino, solitamente, faccio allenamento. Poi, nel pomeriggio, mi riposo e magari faccio un giro in centro città, visto che abito vicino. Magari esco con mia mamma che, quando può, viene a stare da me per qualche giorno, prima di tornare in Brasile. Quando è qui con me, è tutto ancora più bello”.

“CR7 mi ha dato consigli preziosi, non solo sul calcio. E, qualche volta, mi ha chiamato, dopo gli allenamenti, a calciare in porta insieme a lui” Hai già scoperto le delizie della cucina italiana? “In Brasile conosciamo benissimo il cibo italiano ma, devo ammetterlo, qui è tutto più buono. Pizza, pasta, ci sono tanti piatti fantastici”. C’è una città che vorresti visitare?

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la r giovani al Lucas Rosa

“Tutta l’Italia. Se devo dire una città in particolare, direi che sarebbe bello poter visitare Venezia. E’ una città che mi affascina molto, spero di poter avere l’occasione di conoscerla meglio”. C’è un personaggio pubblico che ti piacerebbe conoscere? “Potrà sembrare strano ma io vorrei tanto conoscere Terry Crews. Sai di chi si tratta?”. Onestamente mi sfugge… “È famoso in Brasile per la serie TV Everybody Hate Chris. Ha fatto anche diversi film, come The Expendables (I Mercenari, n.d.r.). Mi fa tanto ridere, mi piacerebbe avere la possibilità, un giorno, di conoscerlo personalmente. So che fa anche tanta beneficenza, aiuta molto il prossimo e questo lo rende ancor più speciale”. Torniamo al calcio… Sei un esterno di difesa, hai giocato sempre in quel ruolo? “No, quando ero piccolo, giocavo da centrocampista. Poi, un giorno, l’allenatore di allora mi ha messo come terzino destro, perché mancava il titolare della fascia. Ho segnato due gol e, soprattutto, mi sono divertito tantissimo perché avevo tutta la fascia a mia disposizione e potevo attaccare tanto e correre. Mi è piaciuto talmente tanto quel ruolo che ci

Eccezionale l’apporto dell’allenatore Pecchia alla formazione dei giovani bianconeri

“Mio padre mi ha regalato un pallone da calcio quando ero piccolissimo e ci gioco ancora oggi. Mi ricordo che mi portava a vedere tante partite di calcio e a me piaceva moltissimo” gioco ancora oggi”. Ultima domanda: come ti vedi tra 10 anni? “La mia speranza è di diventare un giocatore professionista di grande livello. Lavoro tutti i giorni per questo obiettivo”. Che dire, per essere un ragazzo di 19 anni, Lucas Rosa dimostra, sia sul campo che, soprattutto, fuori dal campo di avere le carte in regola per sfondare nel mondo del calcio. Sempre sorridente, risposte decisamen-

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te non banali e quella “cattiveria agonistica” che lo rende speciale. Nessun grillo per la testa, tanta sostanza e voglia di arrivare. Un certo Goethe diceva: “Non è abbastanza fare dei passi che un giorno ci porteranno ad uno scopo, ogni passo deve essere lui stesso uno scopo, nello stesso tempo in cui ci porta avanti”. Una filosofia che ben si sposa con il modo di essere e pensare del giovane talento bianconero Lucas Rosa…


29 Credit Foto: Ghiotto Domenico - Agenzia Blitz


reportage tottenham di Luca Manes Foto di Luca Manes

New White Hart Lane Abbiamo visitato il Nuovo avveniristico impianto del Tottenham, un’esperienza che ci ha proiettati nel futuro‌

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er tanti è la prima volta. Si capisce dall’espressione dei loro volti, così piacevolmente colpiti ed entusiasti da ricordare i bimbetti che entrano nel tempio dei giocattoli di Hemley’s, al centro di Londra. Siamo nel profondo nord della capitale londinese e l’effetto sorpresa lo provoca il nuovo stadio del Tottenham. Un’astronave costata un miliardo di euro, che ha impiegato quattro anni per “atterrare” – se calcoliamo solo il periodo dei lavori, altrimenti per i permessi tocca tornare indietro fino al 2012 – ma che ora è giustamente il fiore all’occhiello dei vice-campioni d’Europa. Tra i club londinesi, gli Spurs possono vantare l’impianto più capiente – 62.062 contro i 60mila dell’Emirates e del London Stadium –, secondo solo all’Old Trafford (75mila unità), tra quelli di club in tutto il Paese (Wem-

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reportage tottenham

bley vanta 90mila posti, ma è usato solo per i match di coppa e quelli della nazionale). Noi abbiamo visitato il Tottenham Stadium – “titolo” provvisorio, in attesa di sviluppi sul fronte degli immancabili naming rights – in occasione del match di Champions Cup tra i padroni di casa e l’Inter, in una calda ma non troppo soleggiata domenica di inizio agosto. Visti i prezzi molto abbordabili e l’assenza di canali preferenziali per abbonati e possessori di membership card, la gara, poi vinta ai rigori dai nerazzurri, ha rappresentato una

preziosa occasione per tanti supporter che non erano ancora riusciti a visitare la scintillante casa degli Spurs per “saggiare” le nuove gradinate. Inaugurato lo scorso aprile nella gara di Premier vinta 2-0 contro il Crystal Palace, con ben otto mesi di ritardo sulla tabella di marcia originale, l’impianto ha già ospitato match entrati di diritto nella storia del Tottenham, come i quarti e le semifinali di Champions League con il Manchester City e l’Ajax. Per chi ha frequentato il compianto Whi-

IL VECCHIO WHITE HART LANE Il vecchio White Hart Lane è l’ultimo degli storici impianti londinesi sacrificati sull’altare del progresso. Come il Boleyn Ground del West Ham, dell’impianto su cui mise mano lo storico architetto di stadi Archibald Leitch non rimane più nulla, mentre le due principali di Highbury hanno cambiato destinazione d’uso e quanto meno le sue splendide facciate si possono ancora ammirare. Tra le perle del passato resiste il Craven Cottage, mentre a fine 2019-20 toccherà dire addio al mitico Griffin Park del Brenford – quello famoso per i quattro pub a ogni angolo – che chiuderà i battenti per far posto a una struttura più capiente e al passo con i tempi. Mentre da noi passano anni anche solo per un ok definitivo – vedi il caso della saga del “nuovo stadio della Roma” - a Londra si costruisce senza sosta. Per il defunto White Hart Lane forse proveranno un po’ di nostalgia anche i tifosi dell’Arsenal, visto che in quell’impianto i Gunners vinsero i titoli nel 1971 e nel 2004. È datato 1961, invece, l’ultimo campionato appannaggio degli Spurs. Quella stagione al The Lane i supporter del Tottenham poterono godersi una delle squadre più forti e spettacolari mai comparsa su suolo inglese.

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te Hart Lane, ma basta anche aver visto un po’ di partite in televisione per essersi fatti un’idea, la differenza è addirittura eclatante. Gloriosa quanto vetusta, compatta quanto scomoda e non troppo capiente (nell’ultima periodo della sua esistenza poteva accomodare “solo” 36mila supporter), la vecchia arena è lontana anni luce dal colosso di vetro e acciaio realizzato su progetto dello studio di architetti Populous. Compagnia statunitense ma ormai con sedi in tutto il mondo, la Populous ha una lunga storia legata agli impianti sportivi. In Inghilterra ha progettato il nuovo Wembley, l’Emirates e l’Olimpico, ora London Stadium. Da fuori l’eccessiva modernità delle linee può essere quasi destabilizzante, almeno per dei vecchi romantici del calcio inglese come noi, però bisogna ammettere che all’interno il Tottenham Stadium è un vero e proprio gioiello, in cui spicca la Park Lane End, anche detta South Stand. Ovvero un’unica immensa gradinata dove nascono i cori della Yid Army, in primis il bellissimo “When the Spurs go marching in”. Ha una capienza di 17.500 posti, tanti per gli standard moderni, ma molti meno rispetto alla vecchia Kop di Anfield (27mila unità) o alla Holte End del Villa Park (28mila)

in era pre-Taylor Report. Chissà, se in futuro il safe standing (settori con i posti in piedi) sarà adottato anche in Premier, la Park End Lane si potrebbe avvicinare a quei numeri così rilevanti. Forse potrebbe raggiungere i 24mila e passa del “muro giallo” del Westfalenstadion del Borussia Dortmund, a cui è dichiaratamente ispirata la End degli Spurs. A dire il vero in occasione dell’incontro di Champions Cup l’atmosfera era fin troppo sonnacchiosa e silente, nulla di nemmeno lontanamente paragonabile alla bolgia dantesca della Gelbe Wand del Borussia. Ma forse c’era d’aspettarsi questa sorta di letargo, vista la posta in gioco, o meglio la sua assenza. Si badi bene, per la gioia del cassiere si è comunque registrato il tutto esaurito, sia nel “muro bianco” che nelle altre tre tribune, divise in altrettanti anelli. Si sprecavano le bandiere coreane in onore del velocissimo Son, idolo anche di alcune inglesissime fanciulle sedute nella fila dietro la nostra, che però hanno fatto fatica a riconoscere la vecchia gloria Graham Roberts, intervistato al centro del campo nel corso dell’intervallo. Roberts c’era e segnò anche un goal poi rivelatosi decisivo quando gli Spurs alzarono la Coppa Uefa nel 1984, dopo una finale

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reportage tottenham NON SOLO FOOTBALL La nuova casa del Tottenham è stata pensata per ospitare anche incontri della NFL. Il marchio della potentissima e ricchissima lega professionistica di football americano a stelle e strisce fa capolino presso l’immenso club shop, dove insieme alle maglie di Kane e Alli, compare anche il merchandising griffato NFL. Proprio il bomber degli Spurs è un grandissimo appassionato di football americano – tifa per i New England Patriots del fenomeno Tom Brady – e sarà stato ben felice di sapere che il suo club ha siglato un accordo della durata di 10 anni per ospitare almeno due incontri a stagione. In calendario per il 2019 Oakland Raiders v Chicago Bears, seguito dai Carolina Panthers opposti ai Tampa Bay Buccaneers. Per sviluppare questa sinergia con la NFL ci si è inventati il “doppio campo”. Sotto quello da calcio, infatti, si trova quello da football. Retrattile e di ultima generazione, il campo fa la sua comparsa nel giro di 25 minuti, il tempo necessario per effettuare il cambio. È notizia delle ultime settimane che al Tottenham Stadium si potranno recare anche i fanatici del rugby. Oltre alle finali delle coppe europee nel 2020, per 5 anni nel nuovo White Hart Lane si disputerà il derby tra Saracens e Harlequins. Un’altra preziosa occasione per fare cassa e rientrare del miliardo di euro speso per il nuovo impianto.

molto tesa ed equilibrata contro l’Anderlecht. Da allora la bacheca non accoglie più trofei continentali, ma, visto il trend positivo degli ultimi anni e lo scontato aumento degli introiti grazie allo stadio nuovo di zecca, la compagine del nord di Londra farà di tutto per rimediare a questa mancanza. Nel frattempo, la dirigenza e i tifosi si godono una “magione” sontuosa e iper-moderna.

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Gli spalti sono attaccati al campo e con visuale perfetta dovunque, compresi gli anelli superiori, anche grazie a una pendenza di 35 gradi, la massima prevista per legge. Questo lo possiamo confermare di persona, visto che avevamo trovato posto proprio nella “piccionaia” del Tottenham Stadium. Così come possiamo confermare che un minimo di disagio e incertezza ancora si nota per


quel che riguarda l’accesso al complicato sistema di scale e ascensori e numerazione dei settori. Lo confessiamo, a un certo punto ci siamo persi – e come noi altri 4-5 supporter – però abbiamo avuto la fortuna di imbatterci in uno steward che, impietositosi, per raggiungere il nostro agognato posto ci ha fatto salire su un’ascensore che non avrebbe sfigurato nei grattacieli della City. Il “dietro le quinte” è altrettanto da applausi. Se avete fame o sete vi ritroverete a disposizione oltre 60 punti di ristoro con prezzi nemmeno troppo esorbitanti – almeno per gli standard londinesi. Ciliegina sulla torta, la micro-birreria, per nostra fortuna non lontana dal nostro settore, e che quindi da grandi appassionati della bevanda al luppolo abbiamo potuto ammirare con la dovuta attenzione. Innovativo pure il modo di spillare le pinte, dal momento che il fiotto di birra viene “sparato” nel bicchiere dal basso verso l’alto tramite un’apposita valvola. Una vera chicca! Come ormai accaduto anche negli altri impianti più giovani, si sprecano i riferimenti al passato, tra gigantografie di foto, programmi d’epoca e memorabilia vari. Sulla Park Lane End svetta una riproduzione del cockerel (galletto) dorato – l’originale che abitava al White Hart Lane fa bella mostra di sé negli uffici attaccati allo stadio – con tanto di riproduzione di un’ammaccatura provocata da una famosa pallonata di quel mattacchione di Gazza Gascoigne. Curioso come però il New White Hart Lane, questo l’appellativo datogli dai tifosi, abbia rischiato di non vedere mai la luce, perché la dirigenza del Tottenham aveva provato ad accasarsi presso l’impianto destinato alle Olimpiadi del 2012. Il

tira e molla con il West Ham è stato a tratti molto aspro, ma il successo degli Irons in questo derby fuori dal campo ha evitato che gli Spurs sbarcassero nell’East End, ripetendo una mossa simile a quella rinfacciata ai grandi rivali dell’Arsenal. I Gunners, infatti, nel 1913 traslocarono dal sud al nord di Londra sud, proprio sullo zerbino di casa del club che invece dalla sua fondazione nel 1882 bazzica le propaggini settentrionali della metropoli inglese. Da quando nel 1899 fu inaugurato il White Hart Lane, gli Spurs sono di casa nel quartiere di Haringey. Un luogo dove la vita è tutt’altro che facile. Lì nell’agosto del 2011 scoppiarono i riots che poi si propagarono a macchia d’olio in tutto il Paese. Il palazzo che andò a fuoco in quei terribili giorni, poi divenuto simbolo della rivolta, è a due passi dallo stadio. Le cose sono cambiate ben poco negli ultimi anni. La povertà e la disoccupazione sono sempre oltre i livelli di guardia, frutto di un lento ma inesorabile declino cominciato già negli anni Settanta. Il fiume di denaro che è scorso per Londra all’epoca delle Olimpiadi del 2012 non ha toccato nemmeno di striscio quest’area. Nei piani del club e dell’amministrazione locale, il lusso e l’eleganza del nuovo White Hart Lane vanno a braccetto con piani di rigenerazione e di sviluppo edilizio di questa parte di Londra. Un massiccio intervento di cosmesi è in corso anche presso la stazione dei treni di White Hart Lane, a soli 200 metri dallo stadio. Dal centro la cosa migliore per arrivare in zona è scendere a Northumberland Park all’andata, mentre al ritorno, per evitare file, l’ideale è farsi una trentina di minuti di camminata fino alla fermata del Tube di Seven Sisters. Insomma, forse non sarà l’arena londinese più facile da raggiungere, ma vi consigliamo caldamente di andarvi a vedere una partita o quando meno di fare il tour guidato di questa ennesima meraviglia della “Città del Football”.

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Speciale

Calcio Russo di Michael Braga

TRASCURATO MA AFFASCINANTE…

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Viaggio alla scoperta dei segreti del calcio russo, tra storia e futuro…

I

l movimento calcistico russo è uno dei più affascinanti, intriganti e controversi dell’intero panorama internazionale. Allo stesso tempo, però, viene inspiegabilmente trascurato dai media più importanti e, nonostante un elevato livello certificato anche dal ranking Uefa per federazioni, gli addetti ai lavori e gli appassionati lo tengono scarsamente in considerazione. Le ragioni di questo scarso interesse verso il calcio russo sono spesso incomprensibili da individuare, soprattutto perché gli ostacoli dettati dalla lingua e dalla cultura non giustificano affatto la situazione attuale, che vede un torneo in continua crescita e dotato di uno streaming ufficiale gratuito ancora trattato in maniera troppo superficiale. Eppure, la Russia è un Paese eterogeneo, ricco di spunti, e il suo calcio non fa altro che rispecchiarsi in questi crismi variegati che esaltano atteggiamenti e idee sì controverse, ma anche uniche nel loro genere. Il campionato russo, infatti, possiede caratteristiche intrinseche ed inimitabili, le quali rendono questo torneo totalmente diverso rispetto alle altre leghe nazionali e ampliano i campi d’analisi possibili. In questo quadro d’insieme va aggiunta una componente ulteriore, che sta un po’ scemando negli altri tornei equivalenti, ovvero l’equilibrio. Negli ultimi quattro anni si sono alternati quattro campioni diversi. La Russia, poi, è una nazione che vive di calcio: lo testimonia il recente Mondiale, organizzato alla perfezione,

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Speciale

Calcio Russo ma basta conoscere un po’ di storia del Novecento per individuare il ruolo preponderante di questo gioco in tutti gli ambiti della vita quotidiana dagli ultimi anni di vita dell’Impero Russo fino ai giorni nostri, passando ovviamente per tutto il periodo sovietico, nel quale il calcio è stato utilizzato come elemento di propaganda dai regimi ma anche in qualità di collante tra la popolazione. Gli episodi della famosa “Partita della morte” e le partite disputate a Leningrado e a Stalingrado ne sono l’esempio più evidente. Le peculiarità del calcio russo Il movimento calcistico russo è lo specchio della nazione nella quale si sviluppa. Far convivere in uno stesso torneo realtà opposte non è facile, ma tale integrazione può generare un risultato unico. E allora ci si trova a vedere sfide tra città separata da decine di migliaia

Smolov, nazionale russo e della della Lokomotiv Mosca, due volte capocannoniere della Prem’er-Liga

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di chilometri, oppure partite che tra andata e ritorno fronteggiano un’escursione termica di oltre cinquanta gradi. Il tutto in un crogiolo di religioni, etnie e tradizioni. Il clima, poi, non agevola lo svolgimento della competizione, costretta a fermarsi per tre mesi in inverno: una situazione che di fatto spezza in due la stagione, dato che dal 2012 con un lunghissimo campionato di “transizione” si è passati dall’anno solare al calendario occidentale, con il vincitore proclamato non più in autunno ma in primavera. Una decisione che tutt’ora scatena delle polemiche, soprattutto perché non si sono visti vantaggi concreti e, sebbene i dirigenti dovrebbero essere ormai a conoscenza di alcune criticità, continuano a presentarsi dei qui pro quo per certi versi tragicomici. Basti pensare alla scorsa stagione, quando l’Akhmat è volato a Krasnojarsk, in Siberia, a dicembre, mentre la gara d’andata, nella torrida Cecenia, si è disputata ad agosto. Queste situazioni controverse non sono isolate in Russia, anzi rappresentano quasi un carattere distintivo che ripercorre alcuni celebri versi del poeta Fedor Tjutcev (la Russia non è comprensibile con la mente, tantomeno è misurabile con il comune metro. Ha una natura propria, nella Russia si può solo credere). Si riferiva all’intera nazione e lo faceva duecento anni fa, ma tali parole possono essere trasportate senza problemi nella nostra analisi, perché l’essenza dell’ideologia russa è ancora la medesima. Il limite sugli stranieri Da oltre un decennio nel campionato russo vige una normativa molto stringente che regola l’utilizzo dei calciatori stranieri. O meglio, l’assunto di tale provvedimento è posto nel senso inverso: ogni squadra è obbligata ad avere sempre in campo un numero minimo (negli anni è spaziato tra quattro e cinque) di giocatori russi. Una decisione presa in ottica nazionale per preparare al meglio lo storico appuntamento del Mondiale casalingo e per cercare di aiutare una generazione probabilmente meno


SQUADRE CAMPIONI IN RUSSIA Club Spartak Mosca CSKA Mosca Zenit S. Pietroburgo Lokomotiv Mosca Rubin Kazan’ Alanija Vladikavkaz

Titoli Stagione 10 1992, 1993, 1994, 1996, 1997, 1998, 1999, 2000, 2001, 2016-2017 6 2003, 2005, 2006, 2012-2013, 2013-2014, 2015-2016 5 2007, 2010, 2011-2012, 2014-2015, 2018-2019 3 2002, 2004, 2017-2018 2 2008, 2009 1 1995

L’organizzazione del Mondiale del 2018 in Russia è stata sublime

ricca di talenti rispetto a quella che nel 2008 ha guadagnato la medaglia di bronzo agli Europei. Ovviamente questa regola ha fatto molto discutere, poiché diversi specialisti hanno contestato (a ragion veduta, peraltro) l’immotivata corsia preferenziale consegnati agli atleti autoctoni, i quali invece di sgomitare e cercare di migliorarsi si sono trovati automaticamente un posto in squadra. Eliminando la concorrenza buona parte dei giovani non ha più dovuto sudare per garantirsi un contratto e i club si sono trovati ad intasare il mercato locale, pro-

vocando l’indebolimento delle compagini medie e, parallelamente, l’impossibilità per le società più forti di competere senza zavorre con le altre d’Europa, sgravate da questo tipo di paletti. Dati oggettivi sentenziano che il limite, tranne in sparuti casi, non solo non ha fruttato i risultati sperati, bensì si è rivelato patologico e dannoso per l’intero movimento. Purtroppo, durante le ultime sedute la federazione calcistica russa ha pensato bene di accentuare questo limite, considerando non più semplicemente il rettangolo di gioco ma l’intera rosa, la

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Speciale

Calcio Russo quale potrà avere al massimo dieci “legionari”, come vengono definiti in Russia. Tra i più aspri contestatori figura Andrè Villas Boas, il quale nel 2015 si è trovato costretto a privarsi di Salomon Rondon, capocannoniere del campionato precedente. Non solo, in quell’anno ci fu addirittura una riforma a pochissimi giorni dal via, la quale inasprì l’obbligo a cinque russi (come peraltro agli albori della sua introduzione) e cancellò di fatto alcune trattative già ben intavolate con atleti di fama internazionale. C’è ancora lo Zenit di mezzo quando si ricorda un altro episodio connesso a questa normativa: nel 2009 durante una partita in casa del Lokomotiv il tecnico olandese Dick Advocaat

corsie preferenziali, anzi, per crescere servono la concorrenza e il confronto. Una piccola tutela può essere giusta, però non deve foraggiare lo sviluppo di una generazione apatica, per la quale tutto sia dovuto. Una regolamentazione dei tesserati secondo la provenienza, inoltre, risulta un poco anacronistica rispetto al mondo dei giorni nostri e va contro i principi meritocratici che dovrebbero essere alla base delle scelte di ogni allenatore. Il movimento ha bisogno di investimenti sulle infrastrutture (soprattutto in Russia, dove per molti mesi la temperatura è troppo rigida per giocare all’aperto), non di garantire in maniera aprioristico un posto in prima squadra, un mero palliati-

Tifosi del CSKA Mosca, club che ha vinto sei volte il titolo russo

scelse di sostituire Pavel Pogrebnyak con Fatih Tekke. Pochi minuti più tardi, ecco un altro cambio, stavolta tatticamente meno comprensibile, con Širokov al posto di Krizanac. Per qualche istante lo Zenit giocò con uno straniero di troppo, ma riuscì a scamparla, venendo punito soltanto con una multa. I sostenitori del limite affermano che, senza questa regola, le squadre sarebbero piene di stranieri mediocri che arricchirebbero agenti e procuratori. La realtà è che un calciatore non ha bisogno di

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vo che nel lungo termine porta soltanto effetti negativi. Non è un caso che le altre federazioni che negli anni hanno adottato provvedimenti simili, Ucraina e Turchia, non abbiano tratto alcun beneficio. Mosca, fulcro di un movimento in espansione Nonostante un piccolo calo negli ultimi anni, dovuto soprattutto alla crescita di altre piazze calcistiche di rilievo, come ad esempio Kazan


(tutt’ora però in declino inesorabile), Krasnodar, Rostov e la stessa San Pietroburgo, Mosca ha rappresentato la guida per la diffusione del calcio in Russia. Negli anni Venti e Trenta la rivalità tra la Dinamo, controllata dal ministero dell’Interno, e lo Spartak, di fondazione popolare, ha animato intere folle, tanto da convincere Stalin ad organizzare una partita in Piazza Rossa per conoscere questo nuovo tipo di intrattenimento che cresceva a dismisura. La capitale vanta diversi altri club storici, basti pensare ai noti CSKA e Lokomotiv, oppure alla Torpedo, che sta risalendo per l’ennesima volta ed è alla ricerca di un’immediata doppia promozione verso la massima serie. Mosca,

però, è una città che non aspetta nessuno e capita che alcune società falliscano in breve tempo, fagocitate dalla metropoli che non presta attenzione al numero in più o in meno. È il caso dell’Fc Mosca, capace di qualificarsi anche in Europa League e scomparso nel 2010, ma anche del Saturn, squadra della periferia della capitale. Gli ultimi tre campionati prima della stagione scorsa, vinti rispettivamente da CSKA, Spartak, Lokomotiv hanno riportato la città ai fasti del passato, sottolineando un’a-

scesa eterogenea, con più squadre che si dividono la posta in palio. In attesa del ritorno a buoni livelli della Dinamo il prossimo campionato potrebbe, nella migliore delle ipotesi, avere cinque moscovite, con l’aggiunta, magari, di una tra Khimki e Chertanovo, che fanno sempre parte della regione. Una situazione quasi normale, considerando le dimensioni e l’importanza di questa città, ma impensabile un lustro fa, quando la Dinamo retrocesse per la prima volta nella storia lasciando in RPL soltanto tre rappresentanti della capitale. San Pietroburgo vuole l’Europa La cosiddetta città degli Zar è forse la più occidentale di tutte. D’altronde Pietro il Grande, all’inizio del diciottesimo secolo, decise di bonificare l’allora zona paludosa sulle rive della Neva per farci “una finestra sull’Europa”, come racconta Aleksandr Pushkin nel poema in versi Evgenij Onegin. Rispetto a Mosca, qui c’è soltanto una squadra, tifata all’unisono da tutti gli abitanti, lo Zenit. Persa definitivamente la risibile rivalità con la locale Dinamo, che ha ceduto il titolo a Sochi, lo Zenit dopo aver vinto la coppa Uefa con un forte ceppo russo ha sempre guardato verso ovest per provare a crescere: tanti tecnici stranieri, investimenti nel mercato e voglia di affermarsi tra le big d’Europa. È andato tutto bene fino al 2016, quando l’addio di Villas Boas ha sfaldato un organico di assoluto rispetto, costringendo poi Lucescu nella difficile creazione di un nuovo ciclo. Il romeno non riuscì a imporsi, Roberto Mancini riuscì a fare ancora peggio e allora è toccato, quasi in controtendenza, a un tecnico locale, Sergey Semak. Un giovane, ma con esperienza, che ha chiuso la carriera da calciatore proprio a San Pietroburgo. L’uomo giusto per ritrovare l’amalgama corretta per correre verso nuovi successi. Non è un caso che al primo tentativo abbia subito vinto il campionato, riportando lo Zenit dopo tre anni di assenza nel luogo che gli compete, la Champions League.

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Speciale

Calcio Russo Krasnodar alla ribalta In Europa occidentale è molto diffusa una visione stereotipata del magnate russo, secondo la quale il possedere ingenti capitali corrisponderebbe a spenderli senza alcuna logica sportivoaziendale. Credenze già di per sé traballanti che evaporano completamente quando si parla di Sergej Galickij, che nel giro di una decina d’anni ha avuto un ruolo di prim’ordine sia nello sviluppo del calcio a Krasnodar sia in quello della città stessa. Non è avventato affermare che l’attuale presidente dell’Fk Krasnodar abbia rivoluzionato il movimento russo, poiché a partire dal 2008 non ha fondato semplicemente un club, bensì ha dato luogo a un progetto graduale che ha coinvolto ogni aspetto della quotidianità degli abitanti di uno dei principali centri affacciati sul mar Nero. In pochi anni ha spodestato il dominio locale dello storico Kuban, imponendosi anche a livello europeo, poi ha messo a punto una delle accademie migliori di tutto il continente. E ha continuato a investire, costruendo un nuovo stadio capace di creare un’atmosfera unica e un gigantesco parco che ha letteralmente cambiato le abitudini di tante persone, anche di quelle non appassionate al calcio. L’accademia, luogo di accoglienza e crescita “L’importanza di ciò che ha fatto Galickij esula dalla mera sfera calcistica. Ha offerto un’opportunità a tanti ragazzi che, al contrario, sarebbero potuti finire per strada, prendendo percorsi sbagliati”. Andrej Aršavin definisce in maniera ineccepibile i caratteri dell’accademia. Impianti all’avanguardia, ma anche corsi scolastici, maestri specializzati e sale per giocare a scacchi, sport fondamentale per la crescita umana e psicologica. Dieci anni dopo il modello Krasnodar è totalmente collaudato e autonomo, con tante filiali sparse per il Paese e tre formazioni nelle prime tre categorie nazionali. Un’isola felice finanziata con soldi privati, tutt’altro che una consuetudine nel calcio che conta.

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I problemi dell’estremo Oriente Tutti gli appassionati di calcio, anche quelli che non seguono assiduamente quello russo, almeno una volta nella vita hanno fatto una piccola ricerca sulle società, affiliate alla UEFA, del lontano Oriente. “Vuoi mettere se si qualificano in Europa League? Magari contro una squadra portoghese!”. Il Luch Vladivostok non ci è andato tanto lontano, raggiungendo un prestigioso settimo posto in campionato nel 2006 e otto anni la semifinale nella seconda competizione nazionale. Fino ad ora le coppe europee si sono spinte al massimo fino a Novosibirsk, maggiore centro abitativo della Siberia e leggermente più a est rispetto a Nur Sultan e a Almaty: in quell’occasione, nel 2010, il Sibir giunse in finale in coppa di Russia, riuscendo poi a superare un turno contro i ciprioti dell’Apollon e a ben figurare contro gli olandesi del PSV, nonostante la goleada subita nella gara di ritorno. Fare calcio in questa zona del globo non è così facile, soprattutto quando si supera questo alone fiabesco ed esotico che come un piccolo velo copre a stento la situazione reale. Le due squadre principali hanno sede in città altrettanto importanti e possono contare su sponsor abbastanza solidi. A Vladivostok il Luch, dopo diversi anni nella massima serie, da oltre un decennio ristagna nella mediocrità, salvandosi in maniera tutt’altro che tranquilla (un anno ha dovuto ricorrere addirittura al ripescaggio, in virtù del fatto che il neopromosso Chita non aveva i requisiti necessari per il salto). Discorso leggermente diverso per lo SKA Khabarovsk, che dopo la comparsata in Russian Premier League del 2017 ha fallito l’assalto alle zone alte della classifica nella scorsa stagione. D’altronde entrambi i club hanno questioni logistiche impossibili da risolvere in maniera definitiva, come ad esempio i costi delle trasferte e i loro effetti sulle prestazioni, ma anche la campagna acquisti ne risente, perché non è così scontato convincere i giocatori ad intraprendere questa esperienza, nemmeno proponendo contratti più che


sapeva già che non avrebbe effettuato il saldiscreti. Tutto ciò costringe queste due squato per questioni economiche, probabilmente dre ad ottenere molto dalle partite casalinghe, consci delle difficoltà affrontate nell’unica stache rappresentano sì un punto di forza ma allo gione spesa in tale serie un lustro fa (tra cui la stesso tempo possono incidere in maniera detrasferta più lunga di sempre in un campionaleteria sulla classifica: si gioca con maggiore to nazionale, in quel di Kaliningrad). Non che a pressione e l’obbligo di vincere condiziona più Omsk l’abbiano pensata diversamente. di quanto si possa credere. Con il passare degli La geografia attuale del gironcino orientale anni, ovviamente, questi collettivi hanno avuto è abbastanza triste. Lo Smena Komsomol’sk modo di gestire opportunamente le proprie na Amure, che vantava una risorse e calendarizzare al media spettatori vicina alle meglio la programmazione, seimila unità, e qualche staè altrettanto vero che alcune gione fa diede filo da torcere difficoltà potranno soltanto allo Spartak di Carrera nei essere smussate, mai risolte sedicesimi di coppa di Rusal cento per cento. sia ha chiuso i battenti dopo Proviamo a trasportare queaver rifiutato la richiesta di sto quadro generale a un ligiocare in Siberia le proprie vello sì professionistico, ma partite casalinghe, mentre ancora più basso. La PFL, la quest’anno al posto del Siseconda serie russa, consta bir 2 c’è la versione “uno”, di cinque gironi compilati su reduce dall’incredibile retrobase geografica. Quello decessione che ha completanominato “Vostok” racchiuto nel peggiore dei modi un de soltanto sei squadre che progetto a lungo termine con si affrontano quattro volte, vista massima serie. A comper un totale di venti giornapletare il torneo ci sono poi te. Non che godano di grandissima salute i corrispettivi Villas Boas, ai tempi dello Zenit, ha criticato le siberiane Dinamo Barnaul la regola legata agli stranieri e Zenit Irkutsk, che testimoomologhi della categoria, niano il fallimento del tentativo di riforma che ma tutti possiedono almeno il doppio delle voleva due sotto gironi a Est, uno appunto sisquadre, con tante realtà locali decisamente beriano (almeno otto squadre) e uno orientarilevanti (nel Sud i nomi di blasone si sprecano, le (minimo sei). A fatica se n’è fatto uno, nel vedi Vladikavkaz, Krasnodar, Nalchik, Rostov e quale è difficile individuare un club realmente Makhachkala). In Oriente, invece, il calcio sta dell’estremo Oriente. Trovare una soluzione vivendo un lento e inesorabile declino, alla non è così immediata, ma l’impressione è che stregua di un paziente in coma irreversibile. a nessuno importi più di tanto. In verità uno dei Sono tanti i club che scompaiono e, soprattutpunti di forza del calcio russo è dato proprio to, manca la competitività: dal 2015, quando a dalle sue mille sfaccettature, culturali, geovincere è stato il Bajkal Irkutsk, nessuna prigrafiche e sociali. Un’eventuale scomparsa ma classificata l’anno successivo ha giocato in definitiva del calcio in queste lande andrebbe FNL. Il Sakhalin, che ormai ha base a Tomsk, decisamente oltre il dispiacere del curioso apin Siberia (a 3.759 km! Per la gioia dei tifosi passionato occasionale, sarebbe come perdelocali), ha vinto nel 2018 e lo scorso anno ha di re un arto per l’intero movimento. Forse anche fatto lasciato passare l’Irtysh all’ultimo turno, qualcosa di più. perché ancor prima del termine della stagione

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di Luca Gandini

del

LEGGENDE calcio Xavi

XAVI,

UN REGISTA DA COLOSSAL 44

È nato campione ed è divenuto fuoriclasse. Xavi accende la luce sul calcio del nuovo millennio.


F

u lui il primo a mettere in chiaro le cose fin dal momento stesso in cui esordì con la maglia del Barcellona. Era il 18 agosto 1998, una calda sera d’estate che vedeva i catalani impegnati nella gara d’andata della Supercoppa spagnola in casa del Maiorca. Nonostante la giovanissima età, 18 anni appena, Xavier Hernández Creus detto Xavi (con la X da pronunciare rigorosamente alla catalana, cioè con il suono “sh” di show) diede subito una superba e personalissima interpretazione del ruolo di regista arretrato, distribuendo palloni col contagiri ai compagni, facendosi trovare puntualmente smarcato dall’alto di una già spiccata intelligenza tattica e sorprendendo gli avversari con pericolose puntate offensive. Come quando, dopo soli 16 minuti, trovò un gran gol con un destro potente e preciso sotto l’incrocio dei pali. Ecco: è come se in quella primissima apparizione Xavi avesse già concentrato tutte le doti che ne avrebbero caratterizzato la carriera negli anni a venire: personalità, classe, intelligenza e umiltà. Mancò solo la ciliegina, a lui e al Barcellona, visto che il Maiorca andò a prendersi un po’ a sorpresa quella Supercoppa, ma al popolo blaugrana restò la convinzione di aver trovato l’erede del più celebre omologo Pep Guardiola. FURIA ROJA Non dovette attendere molto, comunque, Xavi, per gustare i primi successi. Già nel 1998/99 vinse, e neanche tanto da comparsa, il 16° titolo nazionale della storia del Barcellona. All’epoca si divideva tra il Barcellona ed il Barcellona “B”, ovvero la filiale del club blaugrana che militava in seconda divisione, tuttavia l’autentico capolavoro lo realizzò nell’aprile del 1999, quando da vero “caudillo” trascinò la Spagna Under-20 alla vittoria nel Mondiale di categoria in Nigeria. Fu un gustoso antipasto in vista di quanto sarebbe avvenuto molti anni dopo, sempre in Africa, ma con la Nazionale maggiore. Nel frattem-

po, il suo percorso di crescita proseguiva con le prime sfortunate apparizioni in Champions League e con la brillante partecipazione ai Giochi Olimpici di Sydney, persi solo in finale contro il Camerun del futuro compagno di mille battaglie, il bomber Samuel Eto’o. Solo con l’addio di Guardiola, nell’estate del 2001, Xavi divenne finalmente un punto fermo nel centrocampo del Barcellona, anche se, per un motivo o per l’altro, tanto in Spagna quanto in Europa, la stella blaugrana fu spesso offuscata dalle grandi rivali dell’epoca: il solito Real Madrid di Raúl, Zinédine Zidane, Roberto Carlos e Luís Figo, la Juventus di Gigi Buffon, Alessandro Del Piero, Pavel Nedvěd e David Trezeguet, persino l’ambizioso Valencia di Rafa Benítez. Per tornare grande, il Barcellona ebbe bisogno delle idee di un giovane tecnico olandese, Frank Rijkaard, e, soprattutto, della qualità di due formidabili campioni assetati di gloria come il fantasista brasiliano Ronaldinho e il già citato Eto’o. Nel 2004/05, a sei anni dall’ultimo titolo, il Barça tornò sul trono di Spagna con la ferma volontà di aprire un ciclo finalmente vincente anche in Europa. E difatti, nella stagione successiva, ai catalani non sfuggì la doppietta Liga-Champions League. Imprese a cui Xavi non poté però dare un contributo tangibile, visto che un brutto infortunio ai legamenti del ginocchio destro lo mise fuori causa per buona parte della stagione. Lo ritrovammo tra i grandi protagonisti due anni dopo, in occasione del Campionato Europeo in Austria e Svizzera. Ormai nel pieno della maturità, il regista catalano fu il perfetto direttore d’orchestra di una Spagna brillante e nello stesso tempo tremendamente efficace. La Roja non vinceva nulla dal 1964, guarda caso un altro Europeo in cui fece la parte del leone quel Luisito Suárez metronomo della Grande Inter. Ecco, dopo tanti anni, la Spagna aveva di nuovo trovato nel cuore del gioco l’uomo capace di accendere la luce con preziose intuizioni al servizio di un esercito di

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del

LEGGENDE calcio Xavi

campioni in cui svettavano gli attaccanti David Villa e Fernando Torres, i difensori Sergio Ramos e Carles Puyol e centrocampisti abituati a dare del tu al pallone come Xabi Alonso, Cesc Fàbregas ed Andrés Iniesta. Grazie al raffinato fraseggio palla a terra dei suoi interpreti, il celebre tiki-taka, la Nazionale di Luis Aragonés si issò prepotentemente sul trono d’Europa e Xavi fu inevitabilmente eletto miglior giocatore del torneo. L’ARTE DEL TIKI-TAKA Proprio quell’estate del 2008 fu foriera di novità anche per il Barcellona, con l’approdo in panchina di un giovane allenatore destinato a esaltare ancora di più le qualità dei tanti assi che in quel periodo vestivano la maglia

LA Carriera di XAVI Stagione Squadra Totale Pres Reti 1998-1999 Barcellona 1999-2000 Barcellona 2000-2001 Barcellona 2001-2002 Barcellona 2002-2003 Barcellona 2003-2004 Barcellona 2004-2005 Barcellona 2005-2006 Barcellona 2006-2007 Barcellona 2007-2008 Barcellona 2008-2009 Barcellona 2009-2010 Barcellona 2010-2011 Barcellona 2011-2012 Barcellona 2012-2013 Barcellona 2013-2014 Barcellona 2014-2015 Barcellona 2015-2016 Al-Sadd 30 2016-2017 Al-Sadd 32 2017-2018 Al-Sadd 30 2018-2019 Al-Sadd 21 Totale carriera

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26 38 36 52 44 49 45 22 54 54 54 53 50 51 48 47 44 3 10 7 5 938

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blaugrana. L’impatto di Pep Guardiola nella storia del Barça e di conseguenza del calcio europeo fu certamente strabiliante, ma forse nemmeno i principi pur lodevolmente enunciati da Pep sarebbero stati altrettanto efficaci se a metterli in pratica fossero stati interpreti diversi da Xavi e compagni. Già, perché oltre al nostro regista, sempre più determinante, e oltre ad Andrés Iniesta, sua spalla anche nel centrocampo della Nazionale, si stava affermando anche il travolgente talento di un ragazzo venuto dall’Argentina e micidiale finalizzatore del tiki-taka guardiolano: Lionel Messi. Se a loro aggiungiamo poi due gendarmi d’area come Gerard Piqué e Carles Puyol, un inesauribile terzino quale Dani Alves, un bomber implacabile del calibro di Samuel Eto’o, la diga di centrocampo Yaya Touré e un anziano ma ancora prezioso Thierry Henry, ecco prendere forma una macchina da calcio destinata a macinare record. Nell’anno solare 2009, infatti, il Barça realizzò il Sextete, unico club nella storia a vincere Campionato, Coppa e Supercoppa nazionali, più Champions League, Supercoppa Europea e Coppa del Mondo per Club. Con questo biglietto da visita, Xavi si presentò dunque al Mondiale ancora più consapevole delle potenzialità sue e della Spagna. Partì male, la Roja, con una brutta sconfitta in apertura contro la Svizzera, ma poi pian piano venne fuori, magari senza incantare come aveva fatto all’Europeo due anni prima, ma scoprendosi più solida e spietata. Xavi non dimenticò però di essere un raffinato fuoriclasse quando, negli ottavi, servì un pregevole assist di tacco a David Villa per il gol decisivo contro il Portogallo. In finale, poi, con sei giocatori del Barcellona in campo, toccò al suo gemello Iniesta firmare la rete che tagliò le gambe all’Olanda e che diede alla Roja il suo primo titolo mundial. Il giusto premio per una generazione di talenti che anche senza Guardiola e Messi aveva saputo imporsi nel più prestigioso dei palcoscenici.


Xavi e Messi, un duo che ha fatto la fortuna del club blaugrana

LE LEZIONI EUROPEE Una volta rientrato dal Sudafrica, Xavi non perse tempo e si rimise la casacca del Barcellona deciso a puntare a nuovi traguardi. Va detto che il Barça era leggermente cambiato rispetto alla squadra che si era laureata campione d’Europa nel 2009. Eto’o, Yaya Touré ed Henry avevano salutato ed erano stati sostituiti da David Villa, Javier Mascherano e dal canterano Pedro, tuttavia la filosofia rimaneva la stessa: dominio del gioco attraverso un possesso palla avvolgente, fulminei inserimenti a turno dei centrocampisti o dei terzini, pressione asfissiante da parte di due o anche tre uomini sul portatore di palla avversario. Un modulo di gioco certamente dispendioso ma di grande presa spettacolare e soprattutto vincente. Nel 2010/11 il Barça di Guardiola, Xavi, Iniesta, Messi e compagnia andò a prendersi Liga e Champions League dopo duelli memorabili con il Real Madrid di José Mourinho, Sergio Ramos e Cristiano Ronaldo. A dicem-

bre, altra spettacolare prova di forza contro il Santos dell’astro nascente Neymar nella Coppa del Mondo per Club, con Xavi autore del secondo dei 4 gol che diedero ai catalani l’ennesimo trionfo. Non tutto girò invece nel verso giusto in primavera, con la Champions vista sfumare in semifinale contro un ostico (e fortunato) Chelsea e con la Liga finita ai grandi rivali Blancos. Xavi si rimboccò allora le maniche in vista dell’Europeo in Ucraina e Polonia, deciso a regalare ai suoi fan un’altra indimenticabile esibizione di arte applicata al fútbol. Il destino aveva voluto che la Spagna trovasse sulla sua strada l’Italia di Andrea Pirlo, l’esperto trascinatore azzurro che proprio in quel periodo si contendeva con Xavi e con il croato Luka Modrić il titolo di miglior regista in circolazione. Non è un caso che Xavi abbia spesso espresso parole di apprezzamento nei confronti dell’omologo bresciano, segno che si può essere grandi e umili al di là di ogni rivalità. Ebbene, quella finale di Kiev segnò l’en-

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del

LEGGENDE calcio Xavi

nesimo trionfo della Spagna, che ci batté 4-0 dominando dal primo all’ultimo minuto. Xavi salì di nuovo in cattedra servendo due assist al bacio a Jordi Alba e a Fernando Torres, tuttavia fu Iniesta a conquistare sia il premio di “Man of the Match” che quello di miglior giocatore della manifestazione. I due piccoli giganti del Barça avevano colpito ancora, e il valore di quella Selección era ormai consegnato alla leggenda. INSEGUENDO PEP? L’estate del 2012 fu anche quella dell’addio di Pep Guardiola al Barcellona. Dopo sole 4 stagioni coronate da 14 titoli, il tecnico catalano decise di prendersi un anno sabbatico prima di tuffarsi nell’avventura in Bundesliga. I blaugrana, trascinati da un monumentale Messi (46 gol in campionato) tornarono comunque sul trono di Spagna, ma furono travolti dal Bayern

Con la Spagna ha trionfato alla Coppa del Mondo del 2010

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Monaco in semifinale di Champions League. Andò molto peggio la stagione successiva. Nonostante l’acquisto boom di Neymar, la Liga finì all’Atlético Madrid e la Coppa del Re e la Champions ai grandi rivali del Real. A completare l’annus horribilis per Xavi e la Spagna arrivò anche la pessima avventura al Mondiale in Brasile, con l’eliminazione già al primo turno. A quel punto la dirigenza del Barcellona intervenne radicalmente sul mercato, sacrificando due pezzi da novanta come l’attaccante cileno Alexis Sánchez e il centrocampista Cesc Fàbregas e rimpiazzandoli con il bomber uruguayano Luis Suárez, prelevato dal Liverpool per 81 milioni di euro, e con il regista croato Ivan Rakitić, acquistato dal Siviglia per soli 18 milioni. Affidata a Luis Enrique, la squadra giocava ora un calcio diverso rispetto all’epoca guardiolana: meno tiki-taka e più ricerca della profondità in funzione del magico tridente Messi-Suárez-Neymar. Xavi, ormai alla soglia dei 35 anni, fu un po’ il jolly di lusso dei catalani: non più protagonista come in passato, ma sempre pronto a mettere la sua esperienza al servizio della causa comune. Come ogni storia con il lieto fine, quel 2014/15 rappresentò il degno epilogo della sua epopea in blaugrana, con uno sfavillante Triplete il cui fiore all’occhiello fu la Champions League sollevata a Berlino con al braccio la fascia da capitano. Poteva ora andare a godersi gli ultimi spiccioli di carriera (e i petrodollari...) in Qatar, coltivando dentro di sé l’idea di trasmettere alle giovani generazioni parte del suo immenso sapere calcistico. È storia di queste settimane, infatti, l’inizio della sua avventura quale allenatore dell’Al Sadd. Ed è inevitabile che laggiù, al sole del deserto, inizi ad affiorare la nostalgia dei palcoscenici più prestigiosi e, di conseguenza, delle ramblas della terra natia. Che stia per nascere un nuovo grande romanzo scandito dai ritmi del tiki-taka e dall’inconfondibile orizzonte blaugrana? Sono in molti a chiederselo e a sperarlo. In primis proprio lui, Xavier Hernández Creus, in arte Xavi.


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Alla scoperta dell’Ajax, un club storico, come la sua maglia…

LA FABBRICA DI DIAMANTI

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egli ultimi anni del XIX secolo il calcio arriva ad Amsterdam, nel 1893 un gruppo di amici tra cui Han Dade, Carel Reeser e Floris Stempel, fondarono una squadra di calcio (Dade era il proprietario di un pallone). La squadra venne inizialmente denominata Union, ma dopo poco cambiò denominazione in Footh-

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Ball Club Ajax, scritto proprio così. La squadra aveva sede a Nieuwer Amstel, municipalità al tempo al di fuori di Amsterdam, si giocavano partite amichevoli contro concittadini oppure squadre di paesi vicini, nel 1896 il sodalizio cessò l’attività. Quattro anni più tardi i tre amici ci riprovarono, fecero circolare una lettera tra amici e conoscenti e il


18 marzo 1900 presso il locale del Cafe OostIndie di Kalverstraat 2 ad Amsterdam si tenne la riunione che diede vita al Football Club Ajax, questa volta senza errori di ortografia. Il nome era un omaggio ad Ajace Telamonio, guerriero della mitologia greca, uno dei personaggi cari a Omero e cugino di Achille. Vennero scelti i colori rosso e nero della città, la prima fotografia ufficiale della squadra, scattata nel 1900, immortala i giocatori con maglia nera adornata da una sciarpa rossa, pantaloni e calzettoni neri. Il club trovò un campo nella zona settentrionale della città e si affiliò subito alla Amsterdamsche Voetbal Bond (AVB). Due giorni dopo la fondazione l’Ajax giocò la sua prima partita amichevole, una sconfitta 1-6 sul campo dell’Amsterdamsche Football Club, sodalizio attivo dal 1895. Nel 1900 l’Ajax giocò nel secondo livello della AVB, arrivando al secondo posto in classifica. L’anno successivo il club cambiò colori sociali adottando una camicia a strisce verticali bianche e rosse con collo a camicia, i colori del primo Ajax, rimanevano neri pantaloni e calzettoni, nella stagione 1901/02 la squadra giocò al primo livello della AVB, per passare in successione alla Terza Divisione nazionale e poi alla Seconda Divisione nazionale. Nel 1907 il club deve traslocare sul campo di Middenweg nel comune di Watergraafsmeer, il nuovo campo denominato Houten Stadion era sprovvisto di tribune e spogliatoi, ma era ben servito da una linea tramviaria che collegava lo stesso al centro città, dall’altra parte della strada c’era un caffè che veniva usato come spogliatoio. Nel 1908 l’Ajax assorbì un al club di Terza Divisione, l’Holland, da questa fusione la rosa del club divenne più forte. Nella stagione 1910/11 l’Ajax ottiene la promozione, (grazie anche al suo primo allenatore professionista, l’irlandese John Kirwan) vincendo il suo campionato e successivamente gli spareggi. Le regole della federazione olandese del tempo proibivano che due squadre

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avessero la stessa divisa, considerando che già lo Sparta Rotterdam indossava maglia biancorossa a strisce verticali con pantaloncini e calzettoni neri, toccò alla squadra di Amsterdam cambiare divisa in vista del suo esordio in Prima Divisione, 1911/12. In quel periodo il VVV (Veni Vidi Vici) decise di chiudere la sezione calcio, l’Ajax rilevò le casacche bianche con ampia fascia centrale rossa con collo a camicia rosso chiuso da bottoni del VVV, contestualmente alcuni giocatori del club si trasferirono all’Ajax. Nasceva così quella che diventerà una delle divise più originali, ammirate e copiate della storia del calcio. La promozione in massima serie comportò anche una lieve modifica nella denominazione, il club diventò Amsterdamsche Football Club Ajax, per distinguersi dal Leids Ajax. In previsione della nuova stagione in Prima Divisione, nel 1911 venne ampliato lo stadio, finalmente dotato di tribune in legno, spogliatoi e acqua corrente, ovviamente fredda. Nel 1913/14 i Biancorossi vengono retrocessi, questa è l’unica retrocessione subita dal club, ma nel 1916/17 sotto la guida di Jack Raynolds (allenatore inglese che trasformò la squadra dandole organizzazione e disciplina) l’Ajax ritorna in Prima Divisione e vince la Coppa nazionale battendo il VSV per 5-0. Nella stagione 1917/18 gli Ajacidi vincono il loro primo campionato nazionale, il 9 giugno un treno scarica a Tilburg 2000 tifosi che

accompagnano la squadra pronta ad affrontare il Willem II, purtroppo mancavano Wim Gupffert e Jan de Natris che avevano perso il treno privando la squadra di due dei giocatori migliori, al tempo questa non era una situazione rara in quanto i giocatori provvedevano da sé a raggiungere il campo dove si giocava. L’Ajax in maglia bianca vinse la partita 3-0, alla fine invasione festosa di campo e poi giocatori e tifosi tornarono insieme ad Amsterdam sullo stesso treno. La stagione seguente i Biancorossi si ripetono rimanendo imbattuti con 25 punti di vantaggio sulla seconda in classifica, in questa stagione lieve cambio stilistico nella maglia, il collo sempre a camicia è chiuso da laccetti. Negli anni ‘20 l’Ajax vinse quattro titoli regionali senza mai riuscire ad imporsi nelle finali nazionali, gli anni ‘30 invece vedono i ragazzi di Amsterdam dominare il calcio nazionale vincendo otto titoli regionali e cinque nazionali. I successi ottenuti sul campo rendono lo stadio troppo piccolo e costringono il club a costruire un nuovo impianto, il 9 dicembre 1934 viene inaugurato il famoso De Meer che ospiterà l’Ajax fino al 1996, anche se le partite più importanti e le partite delle coppe europee vengono giocate allo Stadio Olimpico, più grande e dotato di impianto di illuminazione artificiale. Alla ripresa dell’attività agonistica dopo la Seconda guerra mondiale, l’Ajax si trovava in grosse difficoltà finan-


ziarie e non aveva i soldi per comprare le maglie e i palloni per giocare. A questo punto entra in gioco Gerrit Keizer, portiere della squadra che, all’inizio degli anni ‘30 aveva giocato una stagione nell’Arsenal (altre tappe in Inghilterra Margate, Charlton e QPR). Keizer vola a Londra dai suoi vecchi amici dell’Arsenal che gli regalano un gioco di maglie e dei palloni, così l’Ajax gioca con una maglia rossa con collo a camicia bianco chiuso da bottoni e maniche bianche. Keizer effettua diversi viaggi tra Londra e Amsterdam per recuperare materiale calcistico per la sua squadra fino a quando, alla fine del 1947, la dogana olandese non scoprì una quantità di banconote inglesi nascoste all’interno di un pallone, all’epoca era proibito introdurre valuta straniera. Keizer venne condannato a sei mesi di prigione e a una multa di 30.000 Fiorini, contestualmente finì anche la sua carriera di calciatore. L’Ajax continuò a indossare le casacche dei Gunners fino a quando, a causa dei numerosi lavaggi, queste divennero indecorose. Si ritornò alla maglia con la fascia verticale rossa e collo a camicia chiuso da bottoni nella stagione 1948/49, pantaloncini bianchi e calzettoni neri con risvolto biancorosso. Nella stagione 1945/46 fa il suo esordio in prima squadra un promettente giovane attaccante, si tratta di Rinus Michels una delle figure più emblematiche del calcio mondiale. Nella seconda metà degli anni 50 l’Ajax torna a vincere il campionato, sono gli anni in cui, precisamente nel 1955, viene introdotto il professionismo nel calcio olandese. Arrivano i meravigliosi anni ‘60 e la maglia diventa più moderna con un collo a girocollo, il 15 novembre 1964 l’allenatore inglese Vic Buckingham fa esordire sul campo del Groningen un ragazzino di 17 anni, si tratta di Johan Cruijff, il futuro Profeta del gol la settimana successiva realizzò il suo primo gol in maglia biancorossa contro il PSV, in questa stagione piccola variazione nella divisa con i

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calzettoni che diventano bianchi con risvolto rosso. Per la stagione 1965/66 la squadra viene affidata a Rinus Michels, l’Ajax vince il campionato e si comincia ad intravedere quella che sarà la squadra che dominerà il calcio europeo entro pochi anni e che rivoluzionerà il calcio mondiale. Nella stagione 1968/69 gli Ajacidi raggiungono la loro prima finale di Coppa dei Campioni, ma vengono battuti dal Milan di Rocco, l’Europa cominciava ad accorgersi dei ragazzi di Amsterdam. Nel 1970/71 arriva il primo successo europeo, il 2 giugno 1971 a Londra gli olandesi battono il Panathinaikos 2-0, Michels in panchina e un manipolo di campioni in erba guidati da Cruijff, Neeskens, Haan e Keizer tra gli altri stupirono gli appassionati con un calcio arioso, votato all’attacco. In questa stagione la maglia presenta un collo a girocollo bianco sopra la tradizionale striscia verticale rossa.

Michels abbandona il club e viene sostituito dal rumeno Kovács, la squadra si rafforza ulteriormente con Krol e vince il titolo europeo ancora per due anni consecutivi, contro Inter e Juventus. Nel 1972/73 compaiono sulle maglie per la prima volta lo stemma sociale, Aiace non abbandonerà più la maglia, e il logo del fornitore di abbigliamento francese Le Coq Sportif, fino alla stagione precedente il fornitore era l’inglese Bukta. Dopo le tre vittorie in Coppa Campioni Cruijff raggiungerà Michels a Barcellona successivamente arriverà in Catalogna anche Neeskens. Nasce in questi anni il soprannome, usato solo in Italia, di Lancieri, un giornalista utilizzò uno slogan pubblicitario della famosa ditta di detersivi che faceva riferimento a un lanciere bianco che combatteva lo sporco per far trionfare il pulito. Nell’autunno del 1973 l’epopea europea dell’Ajax ter-


minerà contro il CSKA di Sofia, ormai era cominciato il declino del club olandese. Nella stagione 1977/78 e in quella seguente il fornitore è la Puma, che mantiene immutata la divisa. Cambio di stile, ma solo per il collo a camicia chiuso da un triangolo davanti, nella stagione 1979/80 e dalla stagione seguente ritorna la francese Le Coq Sportif che mantiene lo stile della divisa inalterato. Per la stagione 1982/83 la federazione olandese da il via libera alle sponsorizzazioni sulle maglie, il primo sponsor dell’Ajax sarà la TDK. A partire dalla stagione 1985/86 la fornitura del materiale passa alla torinese Kappa, ma l’evento più importante è il ritorno al club di Cruijff questa volta in veste di allenatore, in campo comincia a farsi notare un giovane Marco Van Basten. Il 13 maggio 1987 gli Ajacidi tornano alla gloria europea battendo, in quel di Atene, gli oriental tedeschi del Lokomotive Lipsia. La Kappa vestirà l’Ajax per quattro stagioni, nelle prime due la maglia presenterà un collo a V rosso, nelle successive, collo a camicia rosso chiuso davanti da un bordino bianco a girocollo. Dalla stagione 1989/90 i Biancorossi vestono Umbro, maglie classiche quasi sempre con il collo a camicia bianco, eccezioni per il primo biennio e per il biennio 1993/95 con collo rosso. A partire dalla stagione 1991/92 (in questa stagione l’Ajax vince l’unica Coppa UEFA della sua storia completando il grande slam di coppe per club) lo sponsor commerciale è il colosso bancario ABN AMRO, la curiosità è che la scritta sulla maglia è verticale invece di orizzontale a seguire la striscia della maglia. In questo decennio l’Ajax raggiunge due volte la finale di Coppa dei Campioni, vittoria contro il Milan nel 1995 e sconfitta contro la Juventus l’anno seguente. Il 14 agosto 1996 viene inaugurata l’Amsterdam ArenA, la partita inaugurale venne giocata e persa contro il Milan in amichevole, il 25 aprile 2017 lo stadio venne intitolato a Johann Cruijff. Nell’aprile del 1999 la Umbro

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SCENDE IN CAMPO ICAM Come da tradizione, ICAM è pronta a regalare a tutti i tifosi di calcio una serie di prodotti da urlo!!! Tantissime le novità griffate ICAM!!! Si parte con l’Astuccio dei Campioni!!! Bellissimi e coloratissimi astucci in latta, ideali per la scuola e il tempo libero!!! Ogni astuccio, ovviamente prodotto ufficiale, oltre a riprodurre temi e marchio della propria squadra del cuore, contiene due buonissimi snack, da 30 grammi, di cioccolato al latte e riso soffiato!!!

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viene rilevata dalla Doughty Hanson & Co, la nuova proprietà decide di rescindere il contratto di fornitura con il club olandese siglato pochi mesi prima. Dopo una vertenza giudiziaria con la Umbro, dal 2000 lo sponsor tecnico è la Adidas, ogni anno una nuova divisa, ma il fornitore francese ha continuato a proporre divise classiche sfogando la fantasia per le seconde e terze maglie. Il primo ottobre 1975 il Glentoran si presenta ad Amsterdam per la partita di ritorno dei sedicesimi di Coppa Uefa, incredibilmente i giocatori di Belfast dimenticano le divise a casa e tocca all’Ajax fornire il kit di riserva completamente blu, non basta agli ospiti travestirsi da Ajax per evitare una pesante sconfitta per 8-0. La seconda divisa dell’Ajax nei primi decenni era una semplice camicia bianca, a partire dagli anni 30 la maglia è diventata rossa con il collo bianco, a metà anni 60 è arrivata la divisa completamente rossa. A metà anni Settanta la divisa da trasferta è completamente blu e successivamente celeste. Alla fine degli anni 80 la Umbro propone una maglia molto particolare blu bianca e rossa, ancora oggi quando la vedi pensi subito all’Ajax. Dagli anni 90 si sono viste maglie davvero di tutti i colori. La maglia dei portieri dell’Ajax è stata perlopiù gialla, verde o azzurra, nel secondo dopo guerra fino agli anni 60 grande uso di maglie nere. Lo stemma compare sulla maglia a partire dalla stagione 1972/73, il volto di Ajace accompagnato dalla scritta Ajax. Nella stagione 1991/92 compare un logo più moderno, il volto stilizzato dell’eroe greco composto da undici tratti che rappresentano i giocatori in campo e la scritta Ajax Amsterdam, dalla stagione 2011/12 lo stemma è sormontato da tre stelle a rappresentare i 30 campionati nazionali vinti. Nel catalogo HW del Subbuteo il Barcellona è il numero 56, la divisa classica bianca con fa striscia verticale rossa, pantaloncini bianchi e calzettoni neri con risvolti in tinta.

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reportage atalanta-sHAKTHAR DONETSK di Sergio Stanco

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L’Atalanta all’appuntamento con la storia. Non è stata una favola a lieto fine, ma l’esperienza resterà indimenticabile per i tifosi nerazzurri al seguito…

on doveva finire così, non è giusto, non ci meritavamo una beffa del genere”. Diciamo che abbiamo un po’ edulcorato i concetti e vi abbiamo risparmiato le imprecazioni, ma questo era lo stato d’animo di tutti i tifosi bergamaschi dopo la gara contro lo Shakhtar Donetsk. A rappresentare la categoria, Alessandro e Paolo, due bergamaschi DOC e tifosi da sempre, ovviamente. Perché chi è bergamasco, è atalantino. Punto. Non ci sono cuori divisi a metà, non ci sono ballottaggi, non ci sono dubbi. E, questo, per un forte e naturale legame con il territorio, alimentato – però – anche da una sagace politica del club, partita dalla mini-maglietta dell’Atalanta regalata ad ogni nuovo nato nella Provincia e culminato con l’acquisto e la ristrutturazione del nuovo stadio. E forse il segreto del successo di questa Atalanta è proprio questo: la passione di tifosi straordinari, coltivata e ripagata da una società lungimirante. Ma torniamo a noi. Anzi, torniamo ad Alessandro e Paolo, due ragazzi non di “primo pelo”, diciamo così, cresciuti a pane e Atalanta. Solito percorso: curva, parterre (qui i più giovani si perderanno, ma una volta erano i posti in piedi a bordo campo), fino alla tribuna. L’Atalanta ha scandito la loro vita e li ha visti crescere: ragazzini anche un po’ turbolenti, universitari, imprenditori e papà. Forse solo più invecchiati, sicuramente non meno tifosi. E le ultime stagioni, unite alla crescita del club e all’orgoglio di tutti i suoi tifosi, hanno riacceso l’entusiasmo: è (ri)scattato l’abbonamento alla pay-tv, pri-

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reportage ATALANTA - SHAKTHAR DONETSK ma, e allo stadio, dopo. Naturalmente, dopo aver seguito la cavalcata in Europa League a Reggio Emilia dello scorso anno, non poteva certamente mancare il mini-abbonamento alla Champions League. A San Siro, poi. L’Atalanta alla Scala del Calcio. E non da invitata, ma da Star. La favola è troppo bella per non essere raccontata. E non è detto che le favole senza lieto fine siano più brutte. Anche perché, il lieto fine, è semplicemente un punto di vista. Tutto comincia lunedì sera. Squilla il telefono. Sul display compare Alessandro Bergamo, l’ho salvato proprio così: “Sergio, ma dove si parcheggia a San Siro? Io l’ultima volta che son venuto mi ci ha scortato la polizia (ride, n.d.r.)”. “E io: aspetta, ma se ti venissi a prendere e ci andassimo insieme?”. Così, alle 16, ci ritroviamo all’uscita di Bergamo. Ovviamente Ale e Paolo non avevano problemi d’orario: “Ma sei matto? Abbiamo preso ferie oggi, come tutta la città di Bergamo d’altronde. Tanto, anche se andavamo in ufficio, non ci avremmo capito nulla. Ma hai presente la tensione? Non ho neanche dormito stanotte. Va come sudo…”. Si suda, ma la sciarpa al collo ovviamente non manca. E il fatto che sia vintage aggiunge una spruzzata di romanticismo. L’A4 da Bergamo fino all’uscita Certosa è colorata di nerazzurro. Una carovana di pullman, macchine e finanche motorini in pellegrinaggio. Si strombazza, si ride, si scherza, si mostrano i vessilli. Insomma, una sorta di scampagnata, tipo Pasquetta per intenderci. Ma quando si fa sosta all’Autogrill per il “birrino” di rito, e la discussione scivola sulla partita, il clima torna serio: “Quella di Zagabria non era mica l’Atalanta. Eh, ci siamo fatti prendere dall’emozione e siamo crollati di nervi. Ci hanno sovrastato fisicamente e tatticamente, ma noi non siamo scesi in campo. La squadra però ha reagito dopo la batosta e sono convinto che stasera sarà un’altra storia”. C’è tensione, sì, ma anche grande fiducia nei confronti del Papu, di Zapatone, di Josip. Li chiamano così, perché alla fine sono gente

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di famiglia. Camminando per Bergamo alta li puoi incontrare serenamente a passeggio con la famiglia, dar loro una pacca sulla spalla, farti un selfie e pure offrire da bere ai tavolini di Piazza Vecchia. Perché a Bergamo è tutto più rilassato, a misura d’uomo. E questo soprattutto da quando da quelle parti sono arrivati Mister Gasperini e il suo calcio champagne. È stato praticamente amore a prima vista: “Quando quest’estate si diceva che il Mister potesse andare via, ero davvero preoccupato. Più di Zapata, Ilicic e compagnia. Perché alla fine noi siamo abituati a vedere andar via i calciatori, è anche un vanto, ma alla società e agli allenatori, soprattutto a quelli bravi e che si integrano con la città, siamo affezionati. Qui Delio Rossi è ancora osannato, anche se poi alla fine con lui siamo retrocessi. Noi non chiediamo vittorie, ma sacrificio. Lottare è nel nostro DNA. Se

ATALANTA- SHAKTHAR DONETSK 1-2 Stadio San Siro – Milano – 01/10/2019 ATALANTA (3-4-1-2): Gollini; Toloi, Palomino, Masiello (24’ st Muriel); Hateboer, De Roon, Pasalic, Castagne (13’ st Gosens); Gomez; Ilicic (13’ st Malinovskyi), Zapata. A disposizione: Sportiello, Kjaer, Freuler, Djimsiti. Allenatore: Gasperini SHAKTHAR DONETSK (4-2-3-1): Pyatov; Bolbat (48’ st Dodo), Kryvtsov, Matviienko, Ismaily; Stepanenko, Patrick (24’ st Solomon); Marlos (40’ st Konoplyanka), Kovalenko, Taison; Moraes. A disposizione: Shevchenko, Bondar, Marcos, Dentinho. Allenatore: Castro ARBITRO: Stieler (Ger) MARCATORI: 28’ pt Zapata (A), 41’ pt Moraes (S), 50’ st Solomon (S) NOTE: Pyatov (S) ha parato un rigore a Ilicic (A) al 16’ pt. Ammoniti: Ilicic, De Roon, Toloi, Malinovskyi (A); Kryvtsov, Stepanenko, Moraes, Bolbat (S). Recupero: 2’ e 4’. Calci d’angolo: 4-4 Spettatori: 26.022 per un incasso di 1.181.215 euro


non lo fai con noi, non sei uno di noi”. E Gasperini è uno che lotta duro e che i suoi li fa trottare. Si gioca calcio a tutto campo, si morde dappertutto, si scappa e si rincorre. Ininterrottamente, dal 1’, al 100’ minuto. Pure negli spogliatoi. E forse è per questo che tra Giampiero da Grugliasco e il popolo di Bergamo è scoppiato l’amore. Reciproco. Ma non divaghiamo. Si arriva a San Siro con largo anticipo, pit-stop al “baracchino” (“Mai vendute tante birre come stasera”, ci racconta il proprietario), poi si entra. È presto, non c’è ancora quasi nessuno dentro, ma bisogna gustarsi il momento. Si fa qualche foto-ricordo come si fosse al santuario, la si manda agli amici che rosicano davanti alla TV, si prega, perché la tensione sta salendo e i sorrisi cominciano a sparire. L’Atalanta parte forte, col solito ritmo, quello balbettante di Zagabria è solo un lontano e spiacevole ricordo. Al cospetto di uno Shakhtar maturo e consapevole, sono i nerazzurri a menare le danze. Al 16’ la grande occasione: rigore! San Siro si zittisce, impallidisce dalla paura. Ale si gira e se lo fa raccontare da Paolo. Ma in realtà gli basta vedere la faccia del “collega” sullo scalino superiore per capire quello che è successo, ancor prima del brusio di delusione che sale dalle viscere del Meazza. Non è da un rigore che si giudica un giocatore, però. E nemmeno una squadra. Soprattutto se questa squadra è l’Atalanta. E infatti il Papu suona la carica e Zapata colpisce. È 1-0. E un tripudio. Ora tutta Bergamo ride e sogna. Prima dell’intervallo, però, Mo-

raes riporta tutti con i piedi per terra. Quando il Signor Stieler manda i giocatori negli spogliatoi per il tradizionale tè caldo, sugli spalti crolla la tensione. C’è gente letteralmente svuotata. Paolo sbuffa: “Mamma che stress, non so se arrivo al 90’ se continuiamo così. È sempre una sofferenza”. Nel secondo tempo, come d’abitudine, i ragazzi di Gasperini danno l’anima in campo, ci lasciano il cuore e ogni stilla di sudore, ma non basta. Al 96’ arriva addirittura la beffa: Solomon trasforma in una clamorosa (e ingiusta) sconfitta, una gara che l’Atalanta avrebbe meritato di vincere. La delusione è di quelle da lutto. Le lacrime scorrono inarrestabili. Gli applausi, però, si sprecano. E l’orgoglio, se possibile, aumenta. Fuori dallo stadio, di fronte ad un panino “ignorante” e ad un’altra birra alla spina, gli occhi sono ancora lucidi. Ale scuote la testa incredulo: “Che botta ragazzi, non so se mi riprendo. A Zagabria se non altro non abbiamo giocato, ma qui no. Qui se c’era una squadra che meritava, questa era l’Atalanta. Han perso tempo tutto il secondo tempo, puntavano al pareggio e hanno addirittura vinto. Una roba mai vista. Ancora non ci credo. Così fa male”. In ogni caso, la fiducia resta immutata: “Abbiamo fatto una grande partita, questa è un’ottima squadra, quando la vedo giocare mi trascina, mi entusiasma, volo. Lo so che non è finita. E, comunque andrà, sarò orgoglioso di loro”. Perché, si sa, non c’è sconfitta nel cuore di chi lotta. Per questo l’Atalanta di Gasperini non perde mai.

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ERIE S E L A I C E P S

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Mantova

di Fabrizio Ponciroli

Mantova, si sogna in grande La Serie D sta stretta ai virgiliani che puntano a tornare nel calcio che conta…

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o scorso 10 ottobre, il Mantova ha ricordato, con un evento speciale, al quale ha partecipato anche Paolo Pulici, il grande Gustavo Giagnoni, mito assoluto per il club virgiliano. La storia del Mantova racconta di momenti meravigliosi e indimenticabili. Oggi, il club, dopo tante vicissitudini, sta rialzando la testa (l’attuale assetto societario, con Ettore Masiello nel ruolo di presidente, è stato costituito nel 2018). Lo scorso anno, la Serie C è sfumata per un soffio ma, in questa

TEA RGIA ENEORTA TI P RIBUNA IN T FARE A TI OI I TU PIONI! CAM

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stagione, tutti sono concentrati per agguantare la promozione, a partire da Gianluca Pecchini, vicepresidente e socio del club. Lo abbiamo sentito per saperne di più su questa storica società, pronta a rientrare nel calcio che conta… Pecchini, lo scorso anno siete arrivati ad un passo dal grande sogno. Cosa è mancato? “È mancato quel briciolo di fortuna. A cinque partite dalla fine, eravamo primi in classifica. Abbiamo perso una gara chiave a Rezzato, società con la quale c’era una rivalità accesa, e, purtroppo, il Como ci ha superato. Un vero peccato, comunque onore al Como per la promozione. Tutti tifavamo per uno spareggio finale tra noi e loro ma non è accaduto”. Ci riproverete quest’anno? “Certo, il nostro obiettivo è salire di categoria, non ci sono dubbi. Siamo in un girone nuovo dove non sembra esserci il Como di turno, anche se le rivali sono importanti, visto che parliamo di società come il Fanfulla o Crema. Riteniamo che, anche grazie alla fiducia di 1750 abbonati, ci siano tutti i presupposti per una stagione da protagonisti”. L’inizio di campionato è stato incoraggiante… “Si, abbiamo cominciato alla grande ma l’importante è arrivare all’obiettivo finale che è quello di centrare la promozione”. Che ci può dire di quelli che sono ormai chiamati i “tre tenori”? “Che sono forti… È il nostro tridente. Parliamo di Scotto, Guccione e Altinier, i tre tenori che stanno facendo ottime cose con la casacca del Mantova”.

Il presidente Ettore Masiello insieme al vicepresidente Gianluca Pecchini

Il Mantova può contare sulla bellezza di 1750 abbonati

Tutti guidati dall’eccellente tecnico Brando… “Si tratta di un allenatore ambizioso e preparatissimo. Ha tanta voglia di far bene e lo si vede. Sa come far rendere al meglio i giocatori che ha a disposizione”. Insomma, c’è voglia di grande Mantova… “Stiamo cercando di ricostruire, dalle basi, una società solida e sana. Per noi è molto importante il settore giovanile, come confermano gli accordi con bacini di grande valore come Sant’Egidio e San Pio X. Si pensi che, in Prima squadra, ci sono già quattro giocatori che arrivano dal settore giovanile. Vogliamo realizzare anche delle strutture all’avanguardia, come dimostra il progetto del centro sportivo Mantovanello”. Non volete proprio perdere tempo… “Ci siamo dati tre anni per arrivare in Serie C, questo è il nostro terzo anno, quindi dobbiamo, per forza, centrare il risultato che ci siamo prefissati proprio in questa stagione”. Come considera la Serie D come movimento calcistico? “Credo che la Serie D sia un purgatorio. Ti ritrovi società importanti come Palermo, Foggia e, appunto, il Mantova. Quando ti ritrovi in questa categoria, devi rimboccarti le maniche e batterti per farti largo e purgare le tue colpe il prima possibile”. Il Mantova ha idee chiare. I vertici societari lavorano, in sintonia, per regalare alla città, molto vicina alla squadra, più gioie possibili. Il passato non va scordato ma il presente fa ben sperare per un futuro decisamente roseo.

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C L A C L E D I T GIGAN Sergej Alejnikov di Fabrizio Ponciroli

L’UOMO DI MINSK Nel 1989, dall’allora URSS, arriva alla Juventus un centrocampista di nome Alejnikov…

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el 1988, l’Unione Sovietica, raggiunge la finalissima dei Campionati Europei. A spuntarla è l’Olanda di Van Basten e Gullit, ma la squadra allenata dal Colonnello Lobanovski entusiasma tutti. Tanti club italiani si interessano ai talenti sovietici. La Juventus è la prima a crederci. A Torino, al termine di Euro 1988, sbarca Oleksandr Zavarov. Il suo impatto sul calcio italiano non è dei migliori così, nell’estate successiva, la dirigenza bianconera soffia al Genoa tale Sergej Alejnikov, centrocampista tutto fare della Dinamo Minsk e colonna della nazionale sovietica. A distanza di tanti anni, lo abbiamo incontrato per saperne di più sulla sua esperienza italiana e non solo… Ci diamo appuntamento a Novara. “Ti aspetto alla stazione alle 14.00”, mi scrive su WhatsApp. Alle 13.50 arrivo nel luogo dell’incontro e me lo trovo già lì ad aspettarmi, in compagnia della moglie. Ci infiliamo in un bar. A 58 anni, Sergej ha ancora un fisico asciutto e atletico, proprio come ai tempi in cui giocava a calcio. “Se mi chiedi di correre, ti dico di no, ma se mi dici di giocare a pallone, anche adesso, allora ti dico di sì”, mi rivela in un perfetto italiano. Eh sì, Sergej, dopo i tre anni italiani (uno alla Juventus e due al Lecce), si è innamorato del Bel Paese a tal punto da restarci. “A casa, in Russia, ci torna più mia moglie. Io non ho particolari interessi per tornarci, quindi rimango spesso qui, a Lecce”. Mentre gli faccio autografare la maglia dell’URSS dei Mondiali del 1986, omaggiata da Retrofootballclub, mi parla della sua nazionale: “Eravamo un gruppo forte. Nel 1988 siamo andati ad un passo dal vincere gli Europei. Purtroppo, abbiamo pagato molto la semifinale contro l’Italia. Abbiamo avuto un giorno in meno per riposare rispetto all’Olanda e poi, in quel periodo, Van Basten segnava qualsiasi pallone gli capitava vicino”. Sergej racconta, con orgoglio, i suoi anni con la casacca della nazionale sovietica: “Eravamo

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CA GIGANTI DEL Sergej Alejnikov

sempre in viaggio, ho visto tanti Paesi. Era tutto nuovo per noi. Ci siamo fatti notare e poi, grazie a Lobanovski, siamo anche riusciti a giocare in altri campionati. Peccato non aver vinto un trofeo. Ne parlo ancora con il mio amico Rats (difensore, n.d.r.). Davvero un peccato…”. Il tempo di finire le bibite (succo ai mirtilli per Sergej) e l’intervista inizia davvero, anche se tanto ci siamo già detti… Come nasce il tuo amore per il pallone? “Il calcio è sempre stato l’unico gioco che potevamo fare a Minsk. È sempre stato il mio giocattolo, l’unico che avevo. Quando mi hanno preso alla Dinamo, è diventato un vero e proprio mestiere…”. Alla Dinamo Minsk sei stato per nove anni… “Sì, è stata la mia squadra. Nel 1982, abbiamo vinto il campionato. Li mi sono formato, eravamo una grande squadra”. Nel 1989 arrivi in Italia. Ma non dovevi andare alla Juventus… “No, avrei dovuto giocare con il Genoa. Mentre stavo per raggiungere la città di Genova, mi hanno detto che sarei andato alla Juventus e così è stato”. In quegli anni, non era affatto semplice, per un giocatore sovietico, lasciare l’URSS… “È verissimo. Nel 1988, il nostro grande mister Lobanovski ha iniziato la sua personale battaglia con il sistema per permetterci di giocare all’estero. È stato lui a darci la possibilità di fare delle esperienze all’estero. Se sono arrivato in Italia, lo devo principalmente a lui”. Chi ti ha aiutato maggiormente al tuo arrivo alla Juventus… “Il grandissimo Gaetano Scirea. Sono stato un mese intero con

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lui, sua moglie Mariella e il loro figlio Riccardo. Mi hanno aiutato tantissimo. La Juventus era in tournée negli Stati Uniti, io stavo da loro che mi hanno dato tanti utili consigli di vita. Li ringrazierò per sempre”. Come è stato l’impatto con il calcio italiano? “Noi, in Unione Sovietica, ci allenavamo due volte al giorno. Quando sono arrivato in Italia, mi sembrava, quasi, di non allenarmi. Pensa, quando ero allo Dinamo Minsk, non vedevo mai la famiglia. Ero sempre sul campo, in ritiro o in viaggio con la squadra di club o la nazionale. In Italia, dopo una seduta di allenamento, ero a casa… Però, parlando con Brio, ho capito tutto. Lui si lamentava degli allenamenti duri, io gli ho raccontato di come ci allenavamo noi in URSS. Mi ha guardato e mi ha detto: ‘Sì, vi allenavate tanto, ma cosa avete vinto?’. Nel tuo unico anno alla Juventus, hai vinto Coppa Italia e Coppa Uefa… A quale sei legato maggiormente? “Un trofeo è sempre importante. Non puoi scegliere. Io sono felice di averli vinti entrambi”. Come mai, secondo te, Zavarov non è riuscito a lasciare il segno alla Juventus? “Zavarov aveva tante qualità ma i motivi per cui non è riuscito a far bene alla Juventus devi chiederli a lui. Io non posso aiutarti. Non mi piace parlare degli altri, rischi di non essere obiettivo. Sicuramente, Zavarov aveva grandi numeri ma, a volte, non basta una super tecnica per fare la differenza”. Secondo te, chi è stato il giocatore più forte della tua era? “Il più forte non lo so ma, indubbiamente, il più completo è stato

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini


LA SUA CARRIERA Sergej Alejnikov nasce a Minsk, l’attuale capitale della Bielorussia, il 7 novembre del 1961. Nel 1980, fa già parte della prima squadra della Dinamo Minsk, la squadra di calcio più rappresentativa della sua città. Ci resta per nove anni, vincendo il campionato nel 1982. Si laurea in educazione fisica e diventa anche tenente. Nel 1988 perde la finale di Euro 1988 contro l’Olanda (0-2 il finale, reti di Gullit e Van Basten). Nell’estate del 1989, dopo essere stato ad un passo dal Genoa di Spinelli, si accorda con la Juventus. Viene soprannominato “Il ragazzo di Gorky Park” (riferimento alla pellicola cinematografica del 1983, ambientato in Unione Sovietica). Dopo un inizio difficile, a causa di una condizione fisica non ottimale, inizia a trovare il suo spazio, anche grazie alla fiducia di Zoff, l’allenatore di quella Juventus. Si toglie lo sfizio di segnare tre gol in campionato, tutti decisivi per la vittoria. Infila Genoa, Sampdoria e Atalanta. Zoff lo impiega, spesso, anche come libero, nonostante sia un centrocampista. A fine stagione, colleziona 50 presenze totali, conquistando, Coppa Uefa e Coppa Italia. Nonostante un contratto triennale, dopo un solo anno in bianconero, deve fare le valigie: “Mi hanno detto che non servivo più, che Maifredi aveva altri giocatori in mente e così ho dovuto fare le valigie”, ricorda lo stesso Alejnikov. Va al Lecce, dove resta per due stagioni, prima di volare in Giappone. Indossa la casacca del Gamba Osaka per quattro stagioni poi, a 35 anni, vola in Svezia, firmando con l’Oddevold. Chiude la sua carriera da calciatore in Italia, al Corigliano (stagione 1997/98). Nazionale per ben 81 volte (sei reti totali), intraprende poi la carriera da allenatore. Pontedera, FK Mosca, Copertino, Allievi della Juventus, Kras e Dainava alcune squadre che ha allenato. In attesa della prossima chiamata…

La maglia dell’URSS 1986, griffata Retrofootballclub, firmata da Alejnikov

Van Basten. Era incredibile, in quel periodo gli riusciva tutto in campo. Peccato che la sua carriera è finita troppo presto”. Come mai sei rimasto un solo anno alla Juventus… “Semplice, è arrivato Maifredi”. Spiegaci meglio… “È arrivato un nuovo allenatore che non mi voleva e quindi sono dovuto andare via, non c’è molto altro da aggiungere”. Sei comunque rimasto in Italia… “Sì, sono andato al Lecce dove vivo ancora oggi. Era tutto diverso, passare dalla Juventus, dove giochi per vincere trofei importanti, a lottare per la salvezza non è stato facile”. Poi, nel 1992, decidi di emigrare in Giappone… “Stavano arrivano le pay-tv, in Giappone c’era tanta voglia di calcio. Siamo andati in tanti a giocare lì. Penso a Zico, Littbarski o Schillaci che, in Giappone, è diventato un idolo. A volte penso come è cambiato il calcio. In Giappo-

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CA GIGANTI DEL Sergej Alejnikov

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“A volte penso come è cambiato il calcio. In Giappone, hanno cominciato a giocare, seriamente, a calcio negli anni ‘90. Oggi, tanti giocatori giapponesi, sono titolari in squadre europee importanti. In Russia, giochiamo a calcio da sempre e, oggi, non ci sono grandi giocatori in giro per l’Europa”

IN ALTO: La più grande delusione per Alejnikov, la sconfitta, con l’Olanda, ad Euro 1988 - Liverani A LATO: Alejnikov in azione con la casacca della Juventus - Liverani

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Sergej Alejnikov insieme al Direttore Fabrizio Ponciroli

ne, hanno cominciato a giocare, seriamente, a calcio negli anni ‘90. Oggi, tanti giocatori giapponesi, sono titolari in squadre europee importanti. In Russia, giochiamo a calcio da sempre e, oggi, non ci sono grandi giocatori in giro per l’Europa”. Riflessioni corretta, quale è, secondo te, il vero motivo? “In Giappone hanno creato le strutture per far crescere il fenomeno calcio. Tanta attenzione ai giovani, in Russia no”. Sergej, il calcio è cambiato molto. Che idea ti sei fatto dei campioni di oggi? “Ti dico solo una cosa. Sei un professionista, ben pagato, come puoi non giocare bene? Anche se giochi, uno o due volte alla settimana, non puoi sbagliare delle partite. Non puoi dire: ‘Non era la mia giornata’… Io mi aspetto che un professionista, in campo, dia sempre il 100%. È giusto così, non ti stai divertendo, stai lavorando e sei anche ben pagato. Io, quando giocavo, mi preparavo ad ogni gara in maniera super professionale. Non sentivo la pressione, perché era il mio lavoro e dovevo farlo bene. È anche una forma di rispetto ver-

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so i tifosi. Pensa a Gattuso. Non aveva grandi doti tecniche ma, quando scendeva in campo, dava tutto e, per questo, è sempre stato rispettato e applaudito dai suoi tifosi. Ecco, bisogna essere sempre professionisti, soprattutto nel calcio d’oggi”. Parliamo del campionato italiano. Chi vince lo Scudetto? “La Juventus è sempre favorita. Napoli e Inter sono migliorate ma credo che la Juventus abbia la rosa più forte. Poi, come dico sempre, il verdetto arriva sempre dal campo”. Juventus che punta anche la Champions League… “Normale che la Juventus voglia la Champions League. Quando hai tanti campioni, non puoi non puntare al top, soprattutto se sei la Juventus. L’importante è che ci provino tutti insieme. Devi essere una squadra unita per arrivare fino in fondo”. Il tempo a nostra disposizione sta per finire. Siamo ai tempi supplementari e c’è spazio per qualche altra chicca: “Ai miei tempi, c’erano solo tre stranieri per squadra. I club li sceglievano con cura, dovevano migliorare la squadra, non potevi rischiare di sbagliarti. Oggi, fai fatica a trovare, penso alle squadre della Serie A, giocatori italiani in rosa. Credo che questo abbia peggiorato il livello generale e, in particolare, dei giocatori italiani. Ai miei tempi, c’erano tantissimi campioni italiani, oggi li conti sulle dita di una mano”. Ci si sofferma su Buffon. “Grandissimo, per anni è stato il numero uno. Io ho giocato con Dasayev, un portiere diverso da tutti gli altri. Era tranquillissimo, non come Tacconi che, quando l’ho conosciuto alla Juventus, era davvero fuori di testa”. Parlare di calcio con Sergej è uno spasso. Si vede che è ancora innamorato pazzo del pallone: “Ho il patentino da allenatore - ci confida -. Ho già allenato, sia in Italia che all’estero. Spero di avere presto una nuova occasione. Mi piace allenare, insegnare quello che so”. E, ve lo assicuro, Sergej Alejnikov è uno che di calcio ne sa tanto…


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Ben 50 le presenze di Alejnikov nel suo unico anno in bianconero - Liverani


O N R O I G N U EROI PER Ezequiel Schelotto di Patrick Iannarelli

IL LAMPO DI EZEQUIEL

A Milano, sponda nerazzurra, se lo ricordano per un guizzo nel Derby‌

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uando si parla di Buenos Aires è difficile dare una collocazione geografica e socio-politica ben precisa. Abitanti in quantità indefinita, un soprannome che spesso si fa fatica ad accostare all’Europa, ma la Parigi del Sudamerica ha il suo fascino nascosto. Il classico barrio, una definizione di quartiere che esula da quella che conosciamo qui in Italia. Ma le due terre, come ben sappiamo, sono più vicine di quanto si pensi: in ogni nazionale albiceleste ci sono almeno cinque o sei cognomi tutti italiani, persone che hanno

abbandonato la loro terra per trovare fortuna altrove. Storie viste e riviste, come quella di Ezequiel Schelotto. Il bisnonno partì da Genova per arrivare in terra argentina, un lungo viaggio fatto di sogni e di speranze. Come quelle del nipote, il quale ha mosso i suoi primi passi da professionista nel Velez, per poi trasferirsi al Banfield. Stessa area metropolitana, nomi differenti, ma la stessa voglia di arrivare fino alla fine. Classe 1989, esterno tutta corsa e non molta tecnica, ma in Argentina e in Italia il giocatore non passa per nulla inosservato. Un esterno longilineo in grado di poter utilizzare destro e sinistro senza problemi: Schelotto piace e può adattarsi al calcio italiano senza nessun dubbio. Inoltre fa parte di una categoria che nel mondo del calcio è mancata tantissimo, quella classe degli ‘89 dimenticata da tutti, non solo dal Dio pallone. I 30enni attuali che sono eterni giovani, ma che poi non trovano lavoro perché da dietro spingono con insistenza. Lo sa bene Ezequiel, un altro di quegli anni lì che fa tutta la gavetta e più poi che prima si ritrova direttamente nell’Inter post triplete. Non sappiamo se esista qualcuno in grado di poter tirare i fili del destino. Nonostante il calcio sia una retta che spesso si interseca con il mondo metafisico, c’è la realtà dei fatti che fa la differenza. Fai parte spesso di una minoranza, bistrattata dai più ed etichettata con mille inglesismi che cozzano clamorosamente con la cultura italiana, che poi fondamentalmente è come quella argentina. Destino o meno, capita l’occasione anche a chi per anni ha corso e ha macinato chilometri, senza ottenere nulla. Un lampo, un episodio: a volte non ti cambia la vita, ma può ispirare la storia di un personaggio di un buffo romanzo ambientato in una sola notte, quella del 24 febbraio 2013. La storia inizia però qualche tempo prima, in una squadra svuotata dal triplete e con poche convinzioni. Troppa poca la voglia di imporsi nuovamente, l’Inter sta cambiando e sta cercando di ritornare in alto immediatamente,

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RNO

GIO EROI PER UN

Ezequiel Schelotto da una convocazione in nazionale maggiore, dopo un periodo in cui sono arrivate poche sodscendendo in campo il 15 agosto a Berna, nella disfazioni. È appena passata l’era dei tre allenasfida contro l’Inghilterra. tori, ovvero Gasperini, Ranieri e Stramaccioni. Il Nella stagione successiva non gioca molto neltecnico della Primavera è stato riconfermato e le prime gare, da novembre inanella però una la vittoria dello Stadium sembrava aver spianaserie di presenze, poi a gennaio vede davvero to la strada ad uno degli allenatori più prometpoco il campo. Il suo esordio con l’Inter avvietenti del panorama nostrano. Mai profezia fu ne contro il Siena, nella sconfitta per 3-1: gioca così sbagliata, ma questa è tutta un’altra storia. soltanto 45’ e incassa pochissimo minutaggio. Quella partita diede inizio ad un declino lento, In tre partite sono 64’ i minuti effettivi, l’avveniniziato con alti e bassi già nella prima parte tura con la maglia dei nerazzurri di Milano non di stagione. Serviva un netto cambio di passo, inizia nel migliore dei modi. mancavano molti uomini protagonisti nelle anNon è un momento facile per Schelotto, le crinate precedenti. Coutinho, promessa mai mantiche arrivano da tutte le parti. Non solo per via tenuta, faceva davvero fatica ad imporsi in quella delle prestazioni poco convincenti, le proteste squadra. Alvarez, non era all’altezza di Sneijder, sono nei conmentre Milito era fronti di una sola brutta copia cietà che fatica a di quello visto riprendersi dopo durante la stala caduta. Quegione 2009/2010. sta pazza Inter Mancava molto non si rialza, le un trascinatore, prestazioni da qualcuno in gradimenticare sudo di caricarsi perano di gran la squadra sulle lunga quelle da spalle per poricordare. In più ter rompere la il 24 febbraio armaledizione. La riva il Milan, un sessione inver- Il momento più dolce della carriera di Schelotto, la rete al Diavolo derby tutto da nale di mercato vivere visto che i rossoneri hanno ancora ambiera attesa da tutti, ma alla fine arrivarono Roczioni scudetto. Serve una vittoria, o comunque chi, Kuzmanovic, Schelotto, Kovacic e Carrizo, una prestazione che possa far dimenticare la con la partenza definitiva di uno degli eroi del batosta di Firenze. Dopo Siena, infatti, arriva il triplete, l’olandese Sneijder. C’erano molti dubpoker sul terreno del Franchi con le doppiette bi, troppi su una squadra che non riusciva più di Ljajic e Jovetic, con l’inutile rete di Antonio ad esprimersi sui livelli visti qualche anno priCassano nel finale. ma. C’era la necessità di fare qualcosa, un colI nerazzurri sono criticati aspramente da tutto po imprevedibile che alla lunga avrebbe portato il tifo, nel mirino finisce anche Ezequiel Schei suoi frutti. lotto. In una recente intervista l’esterno italoEzequiel Schelotto arriva con le aspettative del argentino ha confessato che quello fu uno dei caso, né troppe né poche per un giocatore delperiodi peggiori della sua vita, visto che più di la sua caratura. Con L’Atalanta aveva trovato la qualcuno si era avvicinato a lui soltanto per pogiusta continuità, segnando due reti (Novara e ter sfruttare la sua fama. Gente sbagliata, moFiorentina). Non un giocatore di primo piano e menti personali da dimenticare. Troppo spesdal nome pesante, ma comunque arriva anche

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IL TABELLINO DELLA PARTITA INTER-MILAN 1-1 (0-1) INTER (4-2-3-1): Handanovic; Nagatomo (32’st Chivu), Ranocchia, Juan Jesus, Zanetti; Gargano, Cambiasso (24’st Schelotto); Guarin, Palacio, Alvarez (29’st Kuzmanovic); Cassano Allenatore: Stramaccioni MILAN (4-3-3): Abbiati; Abate, Zapata, Mexes, De Sciglio; Nocerino, Montolivo, Muntari (46’st Ambrosini); Boateng (36’st Niang), Balotelli, El Shaarawy (42’st Bojan). Allenatore: Allegri ARBITRO: Mazzoleni di Bergamo RETI: 21’pt El Shaarawy; 26’st Schelotto NOTE: Espulso al 30’st il viceallenatore del Milan Tassotti. Ammoniti: Mexes, Muntari, Ranocchia, Juan Jesus, Montolivo, Zapata.

so i demoni hanno invaso la vita professionale di una persona, figuriamoci se sei un giovane calciatore dell’Inter e hai tutto da dimostrare nella tua carriera. La mente, come ormai ben sappiamo, muove tutto il corpo. Se quest’ultima è imballata, rischi di avere un blocco fisico non indifferente. Anche perché San Siro vestito a festa con un bel pubblico rischia di essere un pugno nello stomaco, anche per chi dovrebbe essere abituato a certe emozioni. Le belle storie non iniziano quasi mai con un momento felice per il protagonista. Bisogna prima toccare il fondo, poi si può pensare a risalire. Nel calcio poi, vige una regola non scritta: chi è in forma prima del derby non riesce quasi mai a vincere. Superstizioni o meno, lo scontro tra Davide e Golia è alle porte e in casa Inter non ci sono molte speranze di portare a casa punti. Stramaccioni manda in campo un 4-2-3-1 con Nagatomo, Ranocchia, Juan Jesus e Zanetti a protezione di Handanovic, Gargano e Cambiasso in cabina di regia e un’inedita trequarti composta da Guarin, Palacio e Alvarez, con Cassano unica punta. Allegri risponde con un 4-3-3 formato Champions, con Boateng ed

El Shaarawy a supporto di Mario Balotelli, l’ex tanto atteso. La partita si sblocca subito, con El Shaarawy che al 21’ trova la rete. Non si mette assolutamente bene per l’Inter, che deve recuperare l’ennesima partita. La sfida scivola via senza tantissime emozioni, con i rossoneri che cercano di chiudere i conti. Balotelli prova a chiuderla con un gran colpo di testa, ma Handanovic si inventa un paio di parate pazzesche, poi il numero 45 ci prova su calcio di punizione ma lo sloveno risponde ancora presente. Nella ripresa Stramaccioni manda in campo Schelotto al posto di Cambiasso e dopo due minuti l’eroe per un giorno raccoglie un cross apparentemente innocuo: Mexes salta a vuoto, il numero 7 dell’Inter nemmeno salta e batte Abbiati. Punteggio sull’1-1 e lacrime di gioia, di liberazione. Inutili gli assalti finali della banda di Allegri, ormai il romanzo è stato scritto. Per come si era messa la sfida e per le premesse della vigilia, è più una vittoria che un pareggio. Un successo personale di Ezequiel, che per una notte ha riavuto indietro tutto. Quel gol, però, non ha portato ad una sua riconferma in nerazzurro al termine della stagione, sono iniziati i prestiti e il girovagare per l’Italia che lo hanno allontanato sempre di più dai colori nerazzurri. Non sempre i bei romanzi hanno un lieto fine: la realtà, nella maggior parte dei casi, trasforma i sogni in incubi.

Schelotto ha appena segnato il gol nel derby di Milano

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TI I N I F O N O S DOVE Raffaele Ametrano

di Thomas Saccani

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Credit Foto: Liverani


IL RACCATTAPALLE DI MARADONA Ha giocato in grandi piazze, lasciando sempre un bel ricordo. Due chiacchiere con Raffaele Ametrano

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a carriera di Raffaele Ametrano è stata lunghissima e, considerato che ha deciso di cimentarsi nel mestiere di allenatore, non si è ancora conclusa. Ha giocato in piazze prestigiose e si è sempre distinto per la grande professionalità. Tutto è partito da Castellamare di Stabia. Era un ragazzino e faceva il raccattapalle, al San Paolo, quando Sua Maestà Diego faceva impazzire i tifosi del Napoli… Un centrocampista arretrato, una vera e propria diga in mezzo al campo. Oggi è un allenatore rampante, voglioso di imparare e trasmettere la sua grande esperienza da calciatore… Raffaele, come nasce la tua passione per il calcio? “È iniziato tutto a Castellammare di Stabia. Il pallone mi è sempre piaciuto. A 13 anni sono stato scelto dal Napoli. E, in quel momento, è cominciato tutto. Devo dire che non

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DOVE SONO

FINITI?

Raffaele Ametrano è stato semplice. Lasciare casa, mettersi in gioco a certi livelli ma ne è valsa la pena”. È vero che facevi il raccattapalle al San Paolo quando regnava il grande Diego Maradona? “Sì, è vero. È stato un onore. Poter vedere Diego da vicino è stato qualcosa di magico. Lo vedevo anche in palestra, quando si preparava per le partite. Sono stati momenti davvero significativi. Li ricordo con grande piacere. Se poi penso che, a Napoli, ci sono pure tornato e ci ho giocato con quella maglia…”. Sei diventato grande all’Udinese, dove sei rimasto per tre anni… “Bellissimo triennio. L’Udinese mi ha dato una grande occasione, dopo avermi visto giocare con la Rappresentativa nazionale della Lega Pro (allora Ametrano giocava ad Ischia, n.d.r.). Abbiamo fatto benissimo. Ho

Ametrano ha giocato con tantissimi campioni, compreso un certo Zidane

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giocato con grandi compagni, come Carnevale, Pinzi, Calori, Rossitto, Bertotto, Poggi, solo in Serie B, poi in Serie A gente del livello di Bierhoff, Helveg, Calori. Gente che mi ha insegnato moltissimo”. Nel 1996 finisci alla Juventus… “Alla Juventus non puoi dire di no, anche se avevo preso casa a Udine e pensavo di restarci. È stata un’esperienza positiva, anche se ho giocato poco, avendo davanti giocatori

SEMPRE DI CORSA Raffaele Ametrano è stato un centrocampista dinamico, di quelli che non si fermano mai. Uno alla Bonacina (nome non a caso, Ametrano l’ha indicato come il suo incubo peggiore, tra gli avversari che ha affrontato in carriera). Nato a Castellammare di Stabia il 15 febbraio del 1973, a 13 anni viene “chiamato” dal Napoli. Si fa le ossa ad Ischia (due anni), in Serie C, poi passa, nel 1994, all’Udinese, dove resta per tre stagioni, collezionando 61 presenze, con due reti all’attivo): “Non dimenticherò mai la prima rete in Serie A. Giocavo nell’Udinese e ho fatto gol contro il Padova. È stata una gioia immensa, non capivo più nulla, ero solo felice”, racconta, a distanza di tanti anni. Nel 1996 va alla Juventus con la quale partecipa alla finale di Coppa Intercontinentale vinta contro il River Plate. Si trasferisce al Verone e, nel 1997, torna alla Juventus ma sempre per pochissimo tempo. Piccola curiosità: indossa quattro volte la casacca della Juventus, una in campionato (Juventus-Inter) e tre volte in Coppa Italia. Seguono le esperienze a Empoli, Genoa, Salernitana, Cagliari, Crotone, Napoli, Messina, Avellino Potenza e, infine, alla Juve Stabia, la squadra della sua città, società con cui chiude con il calcio giocato a 37 anni. Si rimette subito in pista, nel ruolo di allenatore. Dal 2014 al 2018 allena a Udine (giovanili), ora è il secondo di Sullo al Padova. Siamo solo all’inizio…


nell’allora Coppa Uefa e, nel di una classe immensa. Forcampionato italiano, il livello se sono arrivato un po’ troppo era altissimo. Ora non è più presto ma, ripeto, è stata una così ma io mi auguro che si grandissima esperienza che possa tornare a quei livelli il mi ha dato tantissimo. Quando prima possibile. Hai citato alarrivi alla Juventus, ti senti in cuni giocatori, con cui ho gioparadiso. Parliamo di un club cato, fantastici. Penso anche a al top, il sogno di qualsiasi gioFabio Cannavaro, un altro top catore. Non importa se non ho player o a Fabian O’Neill, uno avuto spazio. Ripeto, alla Juche, se fosse stato più fortuventus non puoi dire di no”. nato, avrebbe potuto fare tanto Hai giocato poco ma ti sei tolto ma tanto di più Ripeto, allora la soddisfazione di partecipare c’era un livello qualitativo alalla finale di Coppa Intercontitissimo in Italia”. nentale del 1996, quella decisa Hai smesso di giocare nel da una magia di Del Piero con2010, a Castellammare di Statro il River Plate… bia, la tua città natale, come “È stato fantastico. Primo anno mai? che non c’erano le trombette… “L’avevo promesso a mio pa(Ride, n.d.r.). Quella Juventus dre e ho mantenuto la parola. era fortissima. Il River Plate ci È stato bellissimo, ho chiuso ha fatto soffrire ma l’abbiamo Si ringrazia Panini per la gentile con una promozione. Ci tenevo portata a casa”. concessione delle immagini a chiudere davanti ai miei conSo che hai sempre avuto un cittadini, è stato meraviglioso. debole per Roby Baggio… Era il momento giusto per smettere, l’ho “Vero, è sempre stato un mio idolo. Quando, deciso io e l’ho fatto nel posto che volevo”. con l’Udinese, ci ho giocato contro, quando E ora sei dall’altra parte, ti sei dato al lui giocava al Milan, gli ho chiesto la maglia. ruolo di allenatore… Pensa che la conservo, gelosamente, anco“Era meglio fare il giocatore (Ride, n.d.r.). ra oggi”. A parte le battute, io volevo restare nel Udinese, Juventus, Napoli, Genoa, Verona, mondo del calcio, on ho mai avuto dubbi in Cagliari… Hai avuto la fortuna di giocare in proposito. Devo ringraziare l’Udinese che grandi piazze… mi ha permesso di cimentarmi con i giova“ Sì, non mi sono fatto mancare nulla, dire ni e ora a Mister Sullo, al quale faccio da che ho fatto un bel giro dell’Italia del pallosecondo a Padova. Un’esperienza che mi ne. E’ stato bellissimo vestire maglie così sta gratificando moltissimo”. prestigiose e vivere in città tanto affasciChe ne pensi dei giovani d’oggi? Sono nanti. Ne vado orgoglioso”. molto cambiati rispetto a quando eri tu Hai giocato nell’Under 21 con Totti, hai una giovane promessa… giocato con Del Piero, Zidane e tanti al“È vero… Oggi si presentano con le cuffie, tri… In quegli anni, il calcio italiano era con i cellulari. C’è meno vissuto nello spodavvero al top? gliatoio ma è il mondo che è cambiato, non “Certamente. Lo si capiva anche in Europa solo il calcio. Bisogna adeguarsi ai tempi, dove vincevamo spesso. Avevamo squadre non c’è altra via”. capaci di vincere in Champions League e

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i r o t a n e l l grandi a Gustavo Giagnoni di Alessandro Guerrieri

L’UOMO CON IL COLBACCO Un mito della storia del calcio, un personaggio dalle mille sfaccettature e con solidi principi‌

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dicembre 1973, uno dei tanti derby della Mole, ai tempi in cui il Toro faceva… spesso granata i bianconeri, segna Cuccureddu ed al “Barone” Franco Causio viene la bella idea di sghignazzare in faccia alla panchina granata; mal gliene incorre, l’allenatore del Toro è un sardo dal carattere di ferro, di quelli che si spezzano ma non si piegano, si chiama Gustavo Giagnoni. Gli parte l’embolo, e Causio si becca un “cartone” sulla faccia; l’episodio costa il rosso al tecnico, ma lo fa entrare per sempre nell’epica granata. È il gesto che rappresenta la ribellione del popolo al padrone, dell’operaio che esce dalla catena di montaggio. Poco importa che Giagnoni si vergognasse di quel gesto, era ormai un simbolo, ed i simboli non si cambiano, restano, indelebili nella storia. Quell’episodio diventa l’icona della sua carriera, assieme a quel colbacco, con il quale spesso si presentava in panchina, tanto che la storia del calcio lo ricorda come l’allenatore col colbacco. Un controsenso, anzi due, - perché Gustavo era tutto fuorché un violento ed un vanitoso - che hanno fatto passare sotto traccia la sua bravura da allenatore. Vero che nella massima serie non ha vinto nulla, ma il secondo posto raggiunto con il Torino nel 1971, vale come e più di uno scudetto. Arriva sotto la Mole in uno dei tanti momenti neri della compagine granata, l’ambiente è depresso ed i tifosi inferociti contro la squadra. Ebbene, il sardo capisce il momento, capisce l’elettricità che circonda l’ambiente, riuscendo a incanalarla in senso positivo; assume un atteggiamento aggressivo, lontano anni luce dal suo essere, diviene un capopopolo, il punto di riferimento della

squadra, disposta a buttarsi nel fuoco per lei, e della tifoseria. I risultati arrivano copiosi: 17 vittorie, 8 pari e sole cinque sconfitte e scudetto evaporato soltanto nella volata finale. Un capolavoro, con il titolo perso per un punto, complice un maledetto pareggio a Verona nella terzultima giornata. Un capolavoro con una squadra buona, ma niente più, che l’anno precedente era arrivata ottava, racimolando appena 26 punti, allenatore Giancarlo Cadè. Giagnoni di fatto ha in mano la stessa squadra – in estate erano arrivati soltanto Quadri, di ritorno dal prestito al Monza, ed il pupillo Toschi, che Giagnoni conosceva bene per averlo apprezzato nella comune esperienza di Mantova – ma di punti ne incarta 42, 14 in più dell’anno precedente, e la vittoria valeva ancora 2 punti. Lo scudetto non arriva, ma è comunque un risultato epico: la rosa è buona, ma non eccezionale, se paragonata a quella poi che un’altra icona del calcio granata – Gigi Radice – condurrà allo scudetto. In attacco c’è già Paolo Pulici, non ancora “Puliciclone” – solo 5 reti per lui -, affiancato a Bui; a centrocampo Agroppi e Ferrini regalano dinamismo, Rampanti e Claudio Sala fantasia, in difesa ci sono gli onesti mestieranti Zecchini, Fossati e Cereser. Alla fine, ne esce un secondo posto, ad un solo punto dalla Vecchia Signora, comunque battuta 2-1 nel derby di ritorno. È il 25 marzo, a far esplodere il “Comunale” i centri di Claudio Sala e della bandiera Aldo Agroppi, uno che in seguito diverrà l’anti Juve per eccellenza, bravi a ribaltare l’iniziale vantaggio di “Pietruzzo” Anastasi. Prete mancato, giocatore grintoso La sua nobiltà d’animo, intrinseca in lui, si era alimentata negli studi in seminario; già perché i suoi genitori lo volevano sacerdote, per loro la massima realizzazione per l’amato figlio era la celebrazione della messa domenicale. Ma Gustavo la domenica pomeriggio all’ostia ed al vino consacrato preferiva le laiche liturgie di un pallone rotolante su un ver-

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tori

ena grandi all Gustavo Giagnoni

de, non sempre, prato erboso. A cambiargli la carriera, e la vita, fu un’icona del calcio italiano, l’indimenticato Gino Colaussi, campione del mondo nel 1938 con l’Italia di Vittorio Pozzo. Gino lo nota all’oratorio, stravede per lui e lo veste del bianco della squadra della sua città natale, l’Olbia. Centrocampista più di lotta che di governo, sul tappeto verde si mette a disposizione sempre della squadra, sempre

“Appende gli scarpini che ha 36 anni, collezionando 141 presenze nella massima serie. L’ultima con i tacchetti è datata 12 maggio ’68” pronto ad aiutare i compagni e a scegliere la soluzione giusta. Una sorta di allenatore in campo, indizio di quello che poi diventerà. Dopo i bianchi sardi, ecco la Reggiana in Serie D, e poi la chiave di volta della sua carriera, l’arrivo nella brumosa Mantova. Brumosa sì, ma non in campo; a guidare i “virgiliani” in panchina c’è un visionario, uno che vede il calcio in modo futuristico, e trasforma una compagine di provincia in un piccolo Brasile. L’uomo è piccolo di statura, ma ha grandi idee: si chiama Edmondo Fabbri ed arriverà fino alla nazionale dove un dentista coreano, l’indimenticato Pak Doo Ik, gli stroncherà la carriera, ai mondiali cileni del 1972. Quel Mantova milita in Serie D, dagli spelacchiati campetti polverosi della provincia italiana inizia un’escalation incredibile; Fabbri è il “conducator” in panchina, Giagnoni in campo, in quattro anni i biancorossi volano fino alla Serie A, ennesima bella favola del nostro calcio. Appende gli scarpini che ha 36 anni, collezionando 141 presenze nella massima serie, esordio, scherzi del destino, contro la Juve, e 130 in cadetteria, torneo vinto due volte, sem-

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pre con i virgiliani. L’ultima con i tacchetti è datata 12 maggio ’68, sconfitta a Bologna, per un gol del grande Marino Perani. Da allenatore A fine carriera c’è una vita davanti, i dirigenti, il presidente Zenesini in primis, del Mantova, gente dall’occhio lungo, gli propongono di allenare. La gavetta nelle giovanili dura poco, pochissimo; i virgiliani vanno male, malissimo, l’epopea della massima serie sembra lontana anni luce, lo spettro del ritorno in Serie C attualissimo. In panchina c’è il livornese Umberto Mannocci, uno che ha guidato anche la Lazio nella massima serie. I risultati, però, non arrivano, conseguente il siluro; per salvare il salvabile la società cerca il jolly, e lo trova. È lui, Gustavo Giagnoni da Olbia; prima una miracolosa salvezza, poi un quarto po-

Indimenticabile il suo increscioso episodio con Causio


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

sto, distante una sola lunghezza da quella promozione, poi conquistata l’anno successivo, nella stagione 1970/71. Un triennio stupendo, caratterizzato non solo dai risultati: il suo Mantova gioca da squadra di rango, più che una provinciale di lusso sembra una big del nostro calcio, e proprio grazie agli insegnamenti del “suo” Gustavo. Un triennio che gli vale le attenzioni del Torino; i granata vengono da un’annata fallimentare, chiusa ad un grigio ottavo posto; soldi non ce ne sono, ed allora la dirigenza, manco fossimo all’epico “Rischiatutto” di Mike Bongiorno, pesca il Jolly. In testa non ha il cappello multicolore da giullare, ma uno strano cappello di pelo, simbolo distintivo che farà di lui, per sempre, l’“allenatore col colbacco”, al secolo Gustavo Giagnoni. Il triennio granata Nonostante una campagna acquisti non certo da tramandare ai posteri, la prima stagione rasenta la perfezione; i granata lottano fino all’ultima giornata per lo scudetto contro i cugini bianconeri. Alla fine, la spunta la Juventus, per un solo punto, ed a Giagnoni non va proprio giù, tanto che se esce con “una Juventus iperfavorita dagli arbitri c’è poco da fare. È sempre così, ogni tanto giocano in dodici”. Dichiarazioni che, unite alla grinta mostrata in panchina, ne fanno un idolo dei tifosi granata. Non è un caso che, decenni dopo, Gianni De Biasi, al momento di sedersi sulla panchina del Toro se ne uscirà con un “nel mio lavoro mi ispiro a Gustavo Giagnoni”. Chapeau. Sembra l’inizio di un ciclo, ed invece rimarrà la classica rondine che non fa primavera. I primi balbettii iniziano nella stagione successiva – 1972/73 -; già a settembre arriva la grande delusione, in Coppa Uefa. Al primo turno i granata battono agevolmente gli spagnoli del Las Palmas, 2-0 con doppietta di Toschi, ma al ritorno nella Canarie ne prendono quattro salutando la

manifestazione. Anche in campionato i risultati sono altalenanti, i granata chiudono sesti, con ben quattordici punti di ritardo dalla Juventus, un netto passo indietro rispetto alla stagione precedente. Le cose, però, precipitano nel campionato seguente: le sole 5 vittorie in 19 giornate costano l’inevitabile allontanamento, a beneficio, ironia della sorte, di quel “Mondino” Fabbri che lo aveva lanciato a Mantova. Il canto del cigno arriva al “Meazza”, con il Toro messo ko da una tripletta di Roberto Boninsegna. Finisce così l’esperienza in granata, tre stagioni altalenanti che però gli consegnano, sarà per quel pugno a Franco Causio nel derby…, l’imperituro amore della tifoseria granata. Giramondo L’allenatore col colbacco però non rimane a guardare, le belle cose mostrate a Torino gli valgono una panchina più importante, ancor più importante di quella granata. Lo chiama Albino Buticchi, presidente del Milan; la società è ambiziosa e consegna a Gustavo una rosa niente male, rinforzata in estate da Albertosi, forse il miglior portiere italiano, i difensori Bet e Zecchini, come Giagnoni ex Toro, e gli attaccanti Bui, altro ex granata, e Calloni, già proprio colui che diventerà lo “sciagurato Egidio”. Il Diavolo chiude al quinto posto, trascinato dai 10 gol di Calloni e dai ghirigori di Gianni Rivera. Giagnoni viene confermato anche per la stagione successiva, ma ha la malaugurata idea di entrare in contrasto con il “Golden boy”; in quel periodo la parola dell’“abatino” è legge, il destino di Giagnoni segnato, tanto che l’esonero arriva puntuale. A salvarlo non bastano neanche le tre vittorie, su quattro, in Coppa Italia ed il superamento del primo turno in Coppa Uefa, contro gli ostici inglesi dell’Everton. Al suo posto arriva Giovanni Trapattoni, uno che, guarda caso, di Rivera è stato compagno sul campo. Il siluro rossonero segna la

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Giagnoni mentre discute con l’allenatore della Juventus Vycpalek - Liverani

fine della sua carriera ad altissimo livello, ma il suo colbacco continua a frequentare per tanti anni i verdi prati della massima serie. Nel 1976 gli concede fiducia il Bologna, condotto ad una felice salvezza che però non gli vale la conferma sulla panchina petroniana. Poco, male, in lui crede la Roma: 12° posto nel 1978, esonero nella stagione successiva a beneficio di Ferruccio Valcareggi. È l’inizio della parabola discendente: brutta retrocessione a Pescara, 10° posto a Udine, in A, 6° a Perugia in cadetteria prima del ritorno nella natia Sardegna, a Cagliari. Tre campionati, intervallati dall’esonero di Palermo, con una retrocessione in B,

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una salvezza conquistata in cadetteria subentrando a Renzo Ulivieri ed una retrocessione nell’inferno della Serie C. Sembra l’episodio conclusivo di una carriera altalenante, invece ci sarà spazio per un ultimo ruggito. Il canto del cigno In avvio degli anni ’90, il “colbacco” di Giagnoni se ne sta pigramente rinchiuso in un armadio, quando al tecnico sardo pensa il patron della Cremonese, l’indimenticato Luzzara. I suoi grigiorossi, guidati da Tarcisio Burgnich, si sono inceppati, conquistando appena due punti in cinque partite; “Roccia” viene esone-


rato, proprio a beneficio di Giagnoni. La Cremonese è ottava, lontana quattro lunghezze dalla zona promozione, margine non certo facile da colmare a sole 15 partite dalla fine. Il tecnico sardo compie il miracolo: 5 vittorie e 10 pareggi scaraventano i lombardi al terzo posto, con annesso ritorno nella massima serie. È la Cremonese di Michelangelo Rampulla, uno dei pochi portieri ad aver realizzato una rete, di Verdelli, dell’oggetto misterioso Neffa, dell’argentino Dezotti, 11 centri per lui. È una squadra che segna poco, solo 28 centri, ma che vanta una difesa di ferro. Nel regno Giagnoni la rete grigiorossa si

gonfia appena 6 volte in 15 partite, architrave di un trionfo che pochi mesi prima sembrava chimera. La conferma arriva doverosa, ma la Serie A è osso troppo duro per una squadra debole come quella grigiorossa, la retrocessione inevitabile, nonostante le alchimie del tecnico sardo. Il saluto alla panchina arriva a “Marassi” il 24 maggio 1992; ultima di campionato, finisce 2-2 per i biancorossi segnano Vialli, uno che ha la Cremonese dentro, e Pari, per i lombardi replicano Gualco e Marcolin. È l’ultima delle 591 panchine di Giagnoni, l’“allenatore col colbacco” che mai verrà dimenticato.

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n o d i b i e d o Alfabet Djibril Cissé

di Thomas Saccani

CISSÉ…I? Solo sei mesi alla Lazio, eppure il potenziale dell’attaccante francese era enorme…

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o scorso 12 agosto, anche la Lazio, via social network, gli ha fatto gli auguri. Un atto dovuto? No, semplice rispetto per un attaccante di valore assoluto. Djibril Cissé era e resta un nome altisonante nel mondo del calcio, nonostante la sua sfortunata parentesi italiana con la casacca biancoceleste. Ma andiamo per gradi… Nativo di Arles, cittadina francese, nel 1998, a soli 17 anni, fa già parte della Prima squadra dell’Auxerre. Il suo feeling con il gol è fenomenale. In sei stagioni con i biancazzurri, segna 90 reti. Viene notato da diversi top club europei. Se lo aggiudica il Liverpool. Fa subito notizia, acquistando una tenuta a Frodsham, nella contea di Cheshire. Diventa Lord of the Manor di Frodsham ma ha qualche problema con i concittadini. Il motivo? Vieta la caccia alla volpe nei nove acri di sua proprietà, ribellandosi ad una consuetudine tradizionale locale secolare. Il francese ha personalità. Lo si capisce anche in maglia Reds. Un brutto infortunio (tibia e perone fanno crack), lo tiene ai box per buona parte della sua prima stagione inglese. Si ripresenta in campo in tempo per aiutare la squadra a portarsi a casa la Champions League (è uno dei rigoristi che va a segno contro il Milan nella storica finale di Istanbul): “Quella partita è stato il momento clou della mia carriera. È ancora un mistero come siamo rientrati in partita (da 0-3, n.d.r.) ma quando hai Steven Gerrard come capitano, i miracoli possono capitare”, ricorderà anni dopo lo

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doni

ei bi Alfabeto d Djibril Cissé

stesso Cissé. Nel suo secondo anno ai Reds, segna gol pesanti e si rende protagonista anche di querelle che fanno discutere. Nella sfida con il CSKA Sofia, viene insultato per il colore della pelle. Interviene l’UEFA che multa il club bulgaro. Dopo due stagioni in Premier League, torna in Ligue 1. Indossa la casacca dell’O. Marsiglia. Il suo carattere da leone indomabile si lega perfettamente con il tifo, acceso, dell’OM. Segna grappoli di gol, soprattutto al fianco di Mamadou Niang. Tuttavia, dopo due anni, rientra in Premier League, questa volta al Sunderland. Una stagione di alti e bassi, con 10 gol in 35 presenze. Nell’estate del 2009, accetta la corte del Panathinaikos. Vince titolo e coppa di lega greca, laureandosi anche capocannoniere del campionato (23 reti in 29 gare) e alzando al cielo anche il premio di Miglior Giocatore della stagione ellenica. Tutto va alla grande. L’anno seguente si conferma re del gol ma, già a febbraio, finisce su tutti i media ellenici: non vuole più giocare in Grecia a causa della scarsezza degli arbitri. Accontentato. Il 12 luglio 2011, la Lazio del patron Lotito, lo porta a Roma, sponda biancoceleste. Firma un contratto di quattro anni. A 30 anni suonati, si sente pronto per lasciare il segno in Serie A. Arriva nella capitale in pompa magna, insieme ad un altro grande nome, ossia Miro Klose. Due bomber straordinari (470 gol in due) che fanno sognare i tifosi della Lazio. Ad accoglierlo a Fiumicino ci sono oltre 300 laziali: “Olé, olé, Cissé, Cissé”, gridano a squarcia gola. “Scudetto? Perché no? La qualità di questo gruppo, individuale e collettiva, non ha nulla da invidiare agli altri team”, le parole del francese nel giorno della presentazione ufficiale alla stampa. L’inizio è roboante. All’esordio, in Europa League, contro un’impronunciabile squadra macedone, segna una doppietta. Fa ancora meglio alla “prima” in campionato, andando a segno, a San Siro, contro i campioni in carica del Milan (2-2 finale). Il tecnico Reja

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Nonostante le buone qualità, Cissè non ha lasciato il segno in Italia

si frega le mani, pensando a cosa potranno fare, insieme, Cissè e Klose. Ma c’è un problema. Un problema di natura tattica. Klose è una prima punta, proprio come vorrebbe essere Cissé ma, la Lazio, è costruita su un solido 4-2-3-1. Alla fine, tocca al francese “spostarsi” e diventare un attaccante esterno. Non segna più (paradossalmente, il suo secondo e ultimo gol in Italia sarà ancora contro il Milan, questa volta in Coppa Italia), perde fiducia e si smarrisce. È anche sfortunato. Nel Derby del 16 ottobre del 2011, colpisce un palo clamoroso che, a distanza di tanti anni, non ha ancora dimenticato: “Tutti i derby ti danno un’adrenalina più forte e io ho avuto la fortuna di segnare in tutti, tranne che in quello romano. Il palo proprio nel Derby è stato il mio rimpianto più grande. Se quel tiro al volo fosse entrato, sicuramente


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

sarebbe stato il gol più importante e bello della mia carriera”, confiderà a France Football diversi anni dopo. Durante il mercato di gennaio, il suo nome è molto chiacchierato e, alla fine, decide di fare ritorno in Premier League, al Queens Park Rangers. Anche grazie ad una preziosa rete contro il Liverpool, aiuta i londinesi a salvarsi. Qualche buona prestazione non lo salvano dall’ennesimo cambio di maglia. Nel gennaio del 2013 vola in Qatar, all’Al-Gharafa. Seguono le esperienze con il Kuban, in Russia, Bastia e Saint-Pierrose. Nel 2015 dice basta con il calcio giocato ma, con uno come Cissé, non si può mai sapere. Infatti, circa due anni dopo essersi ritirato, torna in campo in Svizzera, con lo Yverdon. In realtà ha anche l’occasione di tornare in Italia. Brice Dejardins, l’imprenditore francese che fonda l’AC Vicenza 1902 (società nata dalle ceneri del Vicenza), lo mette sotto contratto. Sembra l’inizio di una nuova avventura ma c’è un problema: il neonato club non è iscritto a nessun campionato, di fatto si tratta di una società fantasma, così come i contratti firmati che, legalmente, non hanno valore. “Ho vinto la Champions League, Dejardins l’ho visto due volte, è un bugiardo”, chiosa Cissé a sofoot.com. Un finale amaro, sempre che sia il finale dell’incredibile e spumeggiante carriera di un giocatore capace di tutto e del contrario di tutto… UNA VITA AL MASSIMO Djibril Cissé non è mai stato un “tipo tranquillo”. Ultimo di sette figli, ha ereditato la passione per il calcio dal padre Mangue Cissé Djibrila (difensore della nazionale ivoriana). Sempre pronto a stupire, si è sposato, nel giugno del 2005, in abito rosso (in onore del Liverpool, la squadra in cui giocava in quel periodo). Dalla moglie Jude, ha avuto tre figli (ai quali va aggiunta Ilona, avuta

da una precedente relazione). La scelta dei nomi non poteva essere banale: Cassius Clay, Prince Kobe e Marley Jackson. Finisce spesso sui tabloid inglesi. Nel 2006 per aver aggredito la moglie incinta, nel 2009 per l’arresto conseguente ad un’aggressione, sempre nei confronti di una donna, in un locale di lap dance a Newcastle. È stato attore (lo si vede nel film Taxxi 4) e ha pure lanciato un suo, personalissimo, profumo, griffato Lenoir. È finito anche sotto inchiesta per la nota vicenda legata al tentativo di estorsione ai danni del calciatore Valbuena. Famoso per le sue “capigliature variopinte”, è sempre stato un grande appassionato di pesca. Una spiccata personalità, tanti eccessi, eppure, da calciatore, è sempre stato un esempio: “Chi scrive male di me non ha parlato con i miei compagni. Ovunque sono stato, mi sono sempre comportato da giocatore professionista, anche quando non scendevo in campo”. Tutto vero!

Contro il Milan, il suo unico gol nel massimo campionato italiano

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e r a d r o c i r Gare da Fiorentina - Genoa di Stefano Borgi

E PER TRENTA SECONDI IL CUORE DI FIRENZE SMISE DI BATTERE...

90 Credit Foto: Liverani


Fiorentina-Genoa del novembre ‘81 vuol dire uno dei più grossi drammi sportivi... mancati. Lancio di Bertoni, Antognoni colpisce di testa, Martina che lo travolge. Ad un tratto il buio... poi la luce.

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arafrasando Ornella Vanoni, il 22 novembre 1981 è uno di quei giorni che... ti prende la malinconia. Il 22 novembre 1981 è uno di quei giorni che rivedi tutta la tua vita, che tu non hai conosciuto mai. E come chiosa il testo di Giorgio Calabrese... beato te, si beato te. Probabilmente neppure Giancarlo Antognoni, uno di quei giorni lì, vorrebbe averlo mai conosciuto. Sopratutto rivedendo l’immagine di quello scontro. Ma, che ci volete fare... È un po’ come il pianto di Ronaldo, la disperazione di Maradona, il volto tumefatto di Battiston... colpito da una ginocchiata del portiere tedesco Schumacher a Spagna ‘82. Un episodio simile (troppo simile) a quello di Martina su Antognoni. Ed è proprio in quei momenti che pensi a quello che poteva essere, e non è stato. Ad un’altra carriera, uno scudetto mancato. Poi tutto è bene quel che finisce bene, e come disse qualcuno... l’ultimo chiuda la porta. L’ANTEFATTO Noi invece la porta la vogliamo aprire, addirittura spalancare, su un momento storico del calcio italiano. È la Fiorentina del bell’Antonio, alias Giancarlo Antognoni: mezzala, trequartista, un todocampista moderno. Sempre

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corda GARE DA ri Fiorentina - Genoa

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

al posto giusto nel momento giusto. Meno che quella volta. Un suo ex compagno di squadra, nonché capitano viola del secondo scudetto, siede in panchina: Giancarlo De Sisti, detto “picchio”, che era subentrato a Carosi nel gennaio dell’anno prima. Presidente è Flavio Calisto Pontello, detto il “conte”, che dalla Juventus acquista Antonello Cuccureddu. Tito Corsi, d.s. viola, soffia Pietro Vierchowod a Boniperti mentre prima, dal Torino, arrivano Eraldo Pecci, elegante spalla di Antognoni, e in attacco un altro granata: “Ciccio” Graziani. A far coppia con l’argentino Bertoni. Dal Monza, sempre in coppia, arrivano la punta Monelli e l’incursore Massaro. In porta Giovanni Galli. Il libero è Galbiati. A mordere gli attaccanti avversari ci pensano (oltre a Vierchowod) Contratto a destra e Ferroni a sinistra. Insomma, grandi interpreti per un grande calcio, a volte un po’ sparagnino, ma estremamente pratico e funzionale. Il tutto orchestrato da Giancarlo Antognoni. Eh già perché, nel 1981 Giancarlo Antognoni aveva “solo” 27 anni, ed era nel pieno della carriera. Lottava finalmente con le “grandi”, lottava per lo scudetto. E nonostante non portasse una maglia a strisce, era considerato da tutti il miglior calciatore italiano. Forse europeo. Eppure, quel 22 novembre c’era un’aria strana in campo: 15 giorni prima la Fiorentina aveva perso a Cesena, e nella sosta successiva la nazionale di Enzo Bearzot aveva pareggiato 1-1 con la Grecia a Torino. Guadagnandosi la qualificazione a Spagna ‘82. In quell’occasione Antognoni (sostituito al 66’ da Oriali) era stato criticato aspramente dalla stampa del nord e, dobbiamo riconoscerlo, con un fondo di veri-

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tà. Però quel tipo di critiche preconcette Giancarlo le conosceva bene e non era più disposto ad accettarle. Risultato? Antognoni disputò i primi 55 minuti di quel Fiorentina-Genoa in un modo mai visto, mosso da rabbia devastante e sete di vendetta che sfociarono in giocate fantastiche, assist mirabolanti (bellissimo quello per l’1-0 di Daniel Bertoni al 24’), prodezze tecniche di inarrivabile maestria. Un Antognoni praticamente perfetto. ATTRAZIONE FATALE Inizia il secondo tempo e per un fallo su Graziani in area, Casarin decreta il rigore. Siamo sotto la curva Ferrovia, destro del capitano e gol. 2-1 dopo 52’. Ma il destino è dietro l’angolo, compreso un falso rimbalzo che modifica la traiettoria di quel pallone maledetto. Tre minuti dopo Antognoni scatta su un lancio di Bertoni, colpisce di testa il pallone per anticipare Martina, che per tutta risposta lo investe con il ginocchio destro proteso, che va a stamparsi sulla tempia sinistra... fracassandola. Uno scontro terribile: Antognoni rimane a terra, si capisce subito che è successo qualcosa di grave. Il capitano del Genoa Claudio Onofri è il primo a rendersi conto dell’accaduto, si allontana con le mani al capo, e va verso la panchina del Genoa facendo ampi segni: « È morto - grida - è morto». Il medico del Genoa, dott. Pier Luigi Gatto, attraversa il campo di corsa per i primi soccorsi. Non respira, ha la bava alla bocca. Gli occhi roteano e le gambe sono rannicchiate in modo innaturale. Capisce che la cosa è molto grave, gravissima. Il polso non batte e inizia il massaggio cardiaco, non c’è un secondo da perdere.


Il grave incidente diede vita anche ad un processo - Liverani

TRENTA MINUTI PER LA VITA A quel punto inizia la mezzora più lunga e drammatica della storia calcistica di Firenze. Ennio Raveggi, massaggiatore viola, arriva di corsa, tra lui e Gatto fanno a gara per praticare la respirazione bocca a bocca. Antognoni intanto è immobile al suolo e circondato dai fotografi. Sono trenta secondi, terribili, nei quali il cuore di Giancarlo si ferma. Raveggi si accorge che Antognoni ha la lingua rovesciata in gola, con un dito gliela estrae e riprende a praticargli la respirazione. Il cuore di Antognoni riprende a battere. Entrano le barelle, il giocatore è trasportato ai bordi

del campo. Mentre passano sotto la tribuna c’è nuovo allarme, serve ancora un massaggio cardiaco, mentre Antognoni si solleva un poco ed un fotografo segnala con un balzo di gioia lo scampato pericolo. Finalmente, circa 30 minuti dopo l’accaduto, l’altoparlante dello stadio dà la notizia che tutti aspettano: Antognoni si è ripreso. Segue un applauso lunghissimo, liberatorio, la grande paura è passata. Intanto la partita va avanti: Casarin (in confusione totale) non assegna il rigore alla Fiorentina e dà il calcio d’angolo. Che però gli stessi giocatori del Genoa si rifiutano di battere perché... non c’era. Al 71’ Graziani firma

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il 3-1 per i viola, all’82’ Pasquale Iachini accorcia per il Genoa. Finisce 3-2 e quel giorno la Fiorentina si attesta al quarto posto, alle spalle di Inter e Roma, a soli due punti dalla capolista Juventus. È opinione comune che il campionato della Fiorentina finisca lì, troppo pesante l’assenza del Capitano che (si pensava) sarebbe stata lunghissima. In realtà Antognoni rientrerà dopo sole 14 partite e troverà una Fiorentina... allo stesso punto nel quale l’aveva lasciata. Anzi, meglio. Seconda dietro la Juventus ad una sola lunghezza. De Sisti aveva compiuto il suo capolavoro: si era inventato un carneade di nome Luciano Miani che, ignaro della responsabilità enorme che gravava su di lui (la maglia numero 10 è tanta roba), se la cava alla grande. Assicurando qualità e sostanza al centrocampo viola. Il campionato finirà tra le polemiche con Fiorentina e Juventus alla pari fino ad un quarto d’ora dalla fine, quando Brady segna il rigore vincente per la Juve a Catanzaro ed i viola non riescono ad andare oltre lo 0-0 a Cagliari. Di certo resta il dubbio: e se Antognoni non si fosse fatto male? La Fiorentina avrebbe vinto il suo terzo scudetto? Soprattutto, con la classe e la fantasia del capitano viola, alcuni “pareggini” (ricordiamo Como, Ascoli, con lo stesso Genoa a Marassi) si sarebbero trasformati in vittorie? Chi può dirlo... THE DAY AFTER... All’ospedale nel frattempo Antognoni si è risvegliato e può anche ricevere brevi visite. Naturalmente gli è accanto la moglie Rita, che non lo lascerà un attimo. Arrivano l’arbitro Casarin, che gli regala il pallo-

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ne dell’incontro, e Onofri, capitano dei rossoblù. È Antognoni stesso a rassicurarli: «sto abbastanza bene, ma non mi ricordo assolutamente nulla di quanto è successo in campo». Una prima diagnosi riferisce di trauma cranico alla zona temporale sinistra e di probabile trauma toraco-addominale. In realtà Antognoni riporta due fratture: una temporale sinistra e l’altra frontale lineare. La prognosi è ovviamente riservata. Ciò nonostante, già pochi giorni dopo rilascia interviste ai giornalisti che, naturalmente, gli chiedono le responsabilità di Martina: «Il portiere non ha colpa, e stato un incidente di gioco. La sfortuna e stata che col ginocchio mi ha preso nella tempia, altrimenti non sarebbe successo niente e sarebbe stato uno scontro come tanti altri. Escludo che Martina volesse farmi male, ne sono convinto. Se mi fossi accorto del contrario, avrei cercato di ripararmi la testa con le mani. Invece, quando ho visto che stava uscendo, ho cercato di mandare il pallone sulla destra per poi aggirarlo dalla parte opposta». Lo stesso Martina, oggi, racconta così l’accaduto: “Ovviamente non è una circostanza che ricordo con piacere. Furono attimi di paura per tutti. Per fortuna è passato un sacco di tempo, e quel momento è soltanto un ricordo sbiadito. Quel che posso dire è che, anche se quell’esperienza era meglio non viverla, comunque ho avuto la fortuna di conoscere Giancarlo Antognoni. Un grande calciatore, e soprattutto un grande uomo. Ricordo quando, prima della partita di ritorno, mi venne incontro e mi strinse la mano. Per me fu un momento di grande sollievo. In pratica voleva dire che non mi portava rancore e che l’incidente si chiudeva lì”.


IL RICORDO DI CLAUDIO ONOFRI Il capitano del Genoa fu il primo ad accorgersi dell’accaduto, e (scherzando) rivendica una parte di merito... Onofri, partiamo dalla fine. Lei afferma che se Antognoni se l’è cavata... “È anche per merito mio, certo. A parte gli scherzi, cominciamo col dire che su quel lancio di Bertoni, come libero, ci dovevo essere io. Ma eravamo in svantaggio e dovevamo recuperare. Ed eravamo un po’ sbilanciati. Fatto sta che su quel pallone si trovarono di fronte Antognoni e Martina. La cosa strana è che il nostro portiere era in vantaggio, ed avrebbe spazzato l’area con una ginocchiata al pallone, poi ad un tratto la traiettoria rallenta (forse per un rimbalzo falso) ed Antognoni lo anticipa. Con le conseguenze che sappiamo...” Ed il suo merito, mi scusi, dove sta? “Sta nel fatto che, quando mi accorsi che Giancarlo aveva gli occhi all’indietro, la lingua a contrasto con la bocca, soprattutto le gambe rannicchiate in modo innaturale, mi impaurii tantissimo. E corsi con le mani tra i capelli verso la nostra panchina. Se urlai: “È morto, è morto?” Forse, può darsi, non ricordo. Di una cosa sono certo, bastava qualche secondo in più e Giancarlo non ce l’avrebbe fatta. Diciamo che la mia disperazione fece capire a tutti la gravità del momento. Il nostro medico sociale, il professor Gatto, entrò subito in campo senza neppure aspettare l’autorizzazione dell’arbitro. Subito seguito dal massaggiatore della Fiorentina (Ennio Raveggi n.d.r.) ed insieme, uno col massaggio cardiaco, l’altro con la respirazione bocca a bocca, praticamente gli hanno salvato la vita. Oltre a me, ovviamente... (ride ancora n.d.r.) Come furono i giorni successivi? Intendo per la squadra, per Martina soprattutto... “Tutto sommato tranquilli. Sapemmo fin da subito che l’infortunio era stato grave e che il decorso sarebbe stato lungo, ma sapevamo anche che Antognoni ne sarebbe uscito. Io, come capitano del Genoa, andai subito a trovarlo in ospedale. Ricordo che con lui c’era la moglie Rita, e che nonostante l’aspetto sofferente, riuscì a parlargli e stringergli la mano”. Poi ci fu anche un processo... “Si, ma fu una sorta di proforma. Andai anch’io a testimoniare, come capitano della squadra. Eravamo assistiti dall’avvocato Biondi, un nome molto conosciuto a livello nazionale (Biondi entrò anche in politica, famose le sue intemerate su Ilona Staller n.d.r.) ma Silvano Martina era assolutamente innocente. L’impatto fu molto violento, è vero, ma non c’era nessuna volontà di far male. Assolutamente. Però mi faccia aggiungere una cosa su Giancarlo...” Prego... “Nel 1972 io ero nella primavera del Torino ed Antognoni, che giocava ad Asti in serie D, fece un provino da noi. Subito si vide che era di un’altra categoria. Pianelli lo avrebbe preso subito, poi credo per un problema di soldi il presidente dell’Astimacobi Cavallo tergiversò, per poi cederlo alla Fiorentina per 400 milioni di lire. Una cifra altissima, all’epoca, per un ragazzo di neppure 18 anni. Però, come ha dimostrato la storia, li valeva tutti. Ecco, se da una parte ho assistito al momento più tragico della sua vita, dall’altra ho accompagnato Giancarlo in uno dei passaggi decisivi per la sua carriera”.

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IL PROCESSO Nei mesi a venire ebbe luogo anche il processo, istruito d’ufficio. Silvano Martina ed il Genoa vennero difesi dall’avvocato Biondi (famoso anche per essere entrato in politica e per le sue intemerate contro Ilona Staller). Fu sentito anche il capitano del Genoa Claudio Onofri che ovviamente scagionò del tutto il portiere rossoblù. Anche in questo caso ci fu un nulla di fatto. E NON CI LASCEREMO MAI... Cosa aggiungere ancora su un dramma sfiorato che poteva dividere Antognoni e Firenze, e che invece rafforzò un’unione già indissolubile? C’è un’altra immagine che resterà indelebile... oltre a quella dello scontro: il silenzio assordante dell’allora stadio Comunale di Firenze. 45.000 persone che assistono silenti ad uno spettacolo surreale, il cuore di Giancarlo Antognoni che si ferma per una manciata di secondi, e con lui si ferma anche il cuore di Firenze. Non è retorica, né enfasi: tutte quelle persone in religioso silenzio quasi per non disturbare, per non intralciare le operazioni di soccorso. Oppure per non rendere pub-

IL TABELLINO DELLA PARTITA Serie A – Firenze – domenica 22 novembre 1981

FIORENTINA-GENOA 3-2 (1-1) FIORENTINA: Galli G., Contratto, Miani, Casagrande, (78’ Sacchetti) Vierchowod, Galbiati, Bertoni D., Pecci, Graziani, Antognoni, (58’ Ferroni A.) Massaro. All. De Sisti. In panchina: Paradisi, Bartolini, Monelli. GENOA: Martina, Gorin II, Testoni, (70’ C. Sala), Romano II, Onofri, Gentile, Vandereycken, Faccenda, Briaschi, P. Iachini, Manfrin, (53’ Boito). All. Simoni. In panchina: Favaro, Corti, Russo. GOL: 24’ Bertoni, 36’ Gorin II, 52’ rig. Antognoni, 71’ Graziani, 82’ P. Iachini ARBITRO: Paolo Casarin di Milano.

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Giancarlo Antognoni è, oggi, un elemento cardine della Fiorentina di Commisso

blico un dramma privato, e viceversa... Più probabilmente per vivere personalmente una tragedia che faceva parte di ognuno di loro. Giancarlo Antognoni si fa fatica oramai a definirlo solo un campione, un fuoriclasse, per Firenze ed i Fiorentini è stato (e lo è tuttora) la risposta allo strapotere del nord. Voi avete coppe e scudetti, noi abbiamo Antognoni. E di questo Firenze si faceva scudo, contro tutto e contro tutti. Ecco perché nessuno potrà mai separare Antognoni e Firenze, e non poteva certo riuscirci lo stupido rimbalzo di un pallone...


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Ormai lui e Ribery a Firenze fanno coppia fissa. Eccoli anche in allenamento.

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