Calcio2000 n.239

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Bimestrale

APR

diretto da Fabrizio Ponciroli

Calcio 2OOO

239

MAG

BE €8,00 | F €11,50 | PTE CONT €7,50 | E €7,50 | CHCT fch 8,50

prima immissione 01/03/2019

3,90€

INCHIESTA ESCLUSIVA

Gli stipendi della Serie A GIGANTI DEL CALCIO ESCLUSIVA

STANKOVIC

Nella leggenda col Triplete GRANDI PRESIDENTI ESCLUSIVA

João Mário

“VOGLIO RICONQUISTARE L’INTER”

FIRENZE e la famiglia Cecchi Gori

SPECIALE STRANIERI A TORINO Da Savage a Ramsey...

ALFABETO DEI BIDONI Il perugino Ahn

INTERVISTE ESCLUSIVE Parola a Giaccherini

GARE DA RICORDARE Lazio-Manchester United



FP

VOGLIA DI STUPIRE

è

il momento… Siamo nel momento clou della stagione, quando si capisce chi ha lavorato bene e chi, invece, si è impegnato poco e male. Ora tutti i nodi vengono al pettine, non c’è più modo e tempo di rimediare. Chi non ha nulla da giocarsi in questi mesi finali della stagione, di fatto è spettatore delle gioie altrui, una sensazione sempre complicata da vivere e metabolizzare. Beati invece, coloro che hanno ancora sogni realizzabili. Vincere è euforia pura, felicità assoluta, la vera motivazione che spinge, ogni sportivo, ad andare oltre il proprio limite. Lo sa bene Stankovic che, aprendo il suo libro dei ricordi, ci ha permesso di rivivere il Triplete nerazzurro. L’Inter è molto presente in questo nuovo numero della vostra/nostra rivista. In cover c’è João Mário, giocatore che sogna di riscattarsi proprio con la casacca nerazzurra. Un ragazzo schietto, determinato e con tanti, tanti sogni… Ovviamente c’è tanto altro. Sicuro che vi intrigherà la nostra inchiesta sugli stipendi della Serie A (e non solo). Un viaggio sulle montagne russe del monte salari, per fare i conti alle nostre squadre e capire come si sta evolvendo il

editoriale

Ponciroli Fabrizio

sistema calcio. Non manca la nostra bella fetta di calcio storico. Uno speciale dedicato a Florentino Perez, il padre/padrone del Real Madrid e un affresco di Ahn, colui che fece ammattire Gaucci… Oltre ad un tour nell’era viola della famiglia Cecchi Gori. Immancabile l’appuntamento con le gare da ricordare (protagonista la Lazio) e, da non perdere, lo speciale dedicato ai giocatori inglesi che hanno indossato le casacche di Torino e Juventus, in attesa di abbracciare Ramsey, nuovo gioiello bianconero. Insomma, come sempre, una proposta ricca e diversificata per cercare di accontentare tutti i palati, anche quelli più fini… Poi ci siete voi ed è doveroso ringraziarvi. Ad ogni uscita ci state al fianco, pronti a sostenerci e spingerci a fare sempre meglio… Personalmente sono onorato di poter dirigere questa vostra/ nostra rivista, la sento parte di me, forse lo è da sempre… Vi ringrazio e vi esorto a continuare a farvi sentire. Il vostro pensiero è importante, vitale e, soprattutto, sincero… Basta con le parole, vi lascio alla lettura. Un P.S. finale… Per chi ha un debole per le belle storie, vi aspetto su Radio Bianconera con Ritratti in Bianconero…

Il codardo non comincia mai, il fallito non termina mai, il vincitore non desiste mai

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SOMMARIO

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Calcio2OOO

Anno 22 n. 3 APRILE / maGGIO 2019 ISSN 1126-1056

BOCCA DEL LEONE 6 LA di Fabrizio Ponciroli Mário 8 João INTERVISTA ESCLUSIVA di Fabrizio Ponciroli

A TORINO 50 INGLESI SPECIALE di Gianfranco Giordano

56 BENFICA MAGLIE STORICHE di Gianfranco Giordano

Registrazione al Tribunale di Milano n.362 del 21/06/1997 Prima immissione: 01/03/2019 Iscritto al Registro degli Operatori di Comunicazione al n. 18246

EDITORE TC&C srl Strada Setteponti Levante 114 52028 Terranuova Bracciolini (AR) Tel +39 055 9172741 Fax +39 055 9170872 DIRETTORE RESPONSABILE Michele Criscitiello Diretto da Fabrizio Ponciroli

DEL CALCIO 16 STIPENDI INCHIESTA

‘ STANKOVIC 64 DEJAN GIGANTI DEL CALCIO

di Fabrizio Ponciroli

di Fabrizio Ponciroli

DATOLO 72 JESUS EROI PER UN GIORNO di Thomas Saccani

BAIOCCO 76 DAVIDE DOVE SONO FINITI? di Sergio Stanco

80 AUTOGOL DA 24 GLI RICORDARE SPECIALE

CECCHI GORI GRANDI PRESIDENTI di Stefano Borgi

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AHN jung-hwan L’ALFABETO DEI BIDONI

di Davide Orlando

di Thomas Saccani

PEREZ 30 FLORENTINO GRANDI PRESIDENTI

90 LAZIO-MAN.UNITED GARE DA RICORDARE

di Luca Gandini

di Luca Savarese

38 trequartisti Speciale serie b di Daniele Perticari

di Daniele Perticari

intervista esclusiva di Sergio Stanco

Hanno collaborato Thomas Saccani, Sergio Stanco, Luca Gandini, Gianfranco Giordano, Pierfrancesco Trocchi, Stefano Borgi, Giorgio Coluccia, Luca Savarese, Luca Manes, Davide Orlando, Carletto Nicoletti Realizzazione Grafica Francesca Crespi Fotografie Image Photo Agency, Agenzia Aldo Liverani, Federico De Luca, Mascolo/Photoview. Statistiche Redazione Calcio2000

Contatti per la pubblicità e-mail: media@calcio2000.it Stampa Tiber S.p.A. Via della Volta, 179 25124 Brescia (Italy) Tel. 030 3543439 - Fax. 030349805 Distribuzione Mepe S.p.A. Via Ettore Bugatti, 15 20142 Milano Tel +39 0289592.1 Fax +39 0289500688

ninkovic 42 nicola INTERVISTA ESCLUSIVA

44 emanuele giaccherini

Redazione Marco Conterio, Luca Bargellini, Gaetano Mocciaro, Chiara Biondini, Simone Bernabei, Lorenzo Marucci, Pietro Lazzerini, Tommaso Maschio, Lorenzo Di Benedetto.

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SCOVATE DA CARLETTO

Calcio2000 è parte del Network

Il prossimo numero sarà in edicola il 10 maggio 2019 Numero chiuso il 25 febbraio 2019


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AQUA

RIS X2


bocca del leone

la

UN SALUTO A GORDON BANKS Buongiorno Direttore, sono Federico, simpatizzante rossonero ma, in realtà, amante del calcio inglese. Sono un fan dei Gunners. Avendo più di 50 anni, mi ricordo benissimo di Gordon Banks e ci sono rimasto male alla notizia della sua morte. Tutti ne hanno parlato per la parata che ha fatto su Pelè ma Gordona Banks è stato tanto altro. Nel 1972, è stato il Miglior Giocatore della Premier League, ha vinto, con due maglie diverse, la Coppa di Lega inglese (Leicester e Stoke) e poi c’è il Mondiale del 1966. Mi ha dato fastidio che tutti l’hanno ricordato solo per una parata. È stato in campo per 23 anni, meritava molto di più. Complimenti per la rivista, anche se le interviste ai giocatori di oggi non mi interessano molto. Federico, mail firmata Caro Federico, si nota che hai un debole per il calcio inglese… Hai scritto più tu su Gordon Banks che tanti media italiani nel giorno della sua scomparsa. Purtroppo, quando colui che è stato indicato come il miglior portiere del calcio inglese di tutti i tempi era all’apice, non ero ancora di questo mondo. Ho visto diverse immagini ma non è la stessa cosa… Ci ragiono su e vedrai che, prima o poi, lo omaggeremo come merita. È una promessa…

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sentirsi prigioniera delle continue e ripetute richieste di rinnovo della coppia Icardi-Wanda Nara. Credo che l’errore sia stato quello di non chiarire subito questa situazione con Icardi e la sua moglie/agente. Lei non è una tesserata dell’Inter ed è libera di andare in televisione quando e come le pare ma, per rispetto all’Inter, avrebbe dovuto limitare le sue esternazioni, sia televisive che via social network… Credo che, a fine anno, Icardi cambierà squadra, non penso che sia possibile risanare questo strappo. Grazie mille per i complimenti…

ICARDI, CHE CAOS Direttore, ma perché solo all’Inter capitano queste cose?!? Non ho parole, un’altra stagione buttata via. Siamo davvero assurdi, ci eliminiamo da tutto da soli. Marotta ha fatto bene ma si è intervenuto troppo tardi e nel momento sbagliato. Mi dica lei che ne pensa. Resta Icardi? La ascolto sempre su RMC Sport, bravo e competente. Marco, mail firmata

Caro Marco, che all’Inter siano capitate e capitino situazioni grottesche è un dato di fatto ma, in questo caso specifico, mi sembra un atto che rinforza la posizione di una società, quella nerazzurra, che era stanca di

OMAGGIO A CAPITAN DE ROSSI Buongiorno, sono un tifoso della Roma e vorrei sapere due cose: 1) Quando e se uscirà la guida alla Serie A e B aggiornata con il calciomercato di gennaio. 2) Se si potesse fare un servizio su Daniele De Rossi nostro grande capitano. Grazie e complimenti Giuseppe, mail firmata

Ciao Giuseppe, due domande alle quali rispondo volentieri. Purtroppo, non ci è possibile pensare ad una Guida aggiornata ma mi sto inventando qualcosa di carino per la prossima edizione… Tu non sai quante volte ho chiesto alla Roma di poterlo intervistare (è stato già protagonista su Calcio2000 ma


di Fabrizio Ponciroli

tanti anni fa)… Comunque, vai sereno, uno speciale lo merita ampiamente. Un Capitano di questo genere è un vanto non solo per la Roma ma per tutto il calcio italiano… PASSIONE PER GLI ALBUM Direttore Ponciroli, la seguo sempre e le faccio i miei complimenti. So che è un grande collezionista di figurine. Ho trovato, insieme a Super, questo bellissimo album del Valencia. Sono 64 pagine con 340 figurine! Lo conosceva? Sergio, mail firmata

DERBY ANCHE AL CIOCCOLATO Il Derby di Milano è un appuntamento imperdibile per i tifosi delle due squadre... Grazie a Icam, ci si può sfidare anche a “colpi di cioccolato”. Come ogni anno, in vendita le uova di Pasqua ufficiali di Milan e Inter, solo con Icam!!!

Grazie Sergio, sì ne ero a conoscenza... So che sono uscite le collezioni ufficiali anche di Young Boys e Betis...

vertente anche per chi ha nostalgia dei tempi andati. Dice sempre di scrivere pensieri e consigli. Perché non fa un servizio sulla Honvéd, sarebbe carino e tanti giovani potrebbe capire che quella squadra era la più forte di tutte. Tante persone non sanno neppure che cos’era la Honvéd negli anni Cinquanta. Sarebbe un bel servizio ai lettori. Graziano, mail firmata

QUANDO LA HONVED? Direttore, mi piace come mischia storia e attualità, così è tutto più di-

della banda. Pensa, caro Graziano, che avevo come idolo, da ragazzino, Lajos Detari che, come saprai, ha militato nella Honvéd. Squadra più forte di tutti i tempi? Diciamo una delle più forti, ok? Grazie del consiglio… TONALI O ZANIOLO? Ponciroli, deve essere sincero come fa in radio. Zaniolo o Tonali, chi sarà il nostro faro azzurro per il futuro? Io vado pazzo per Tonali ma sono di Brescia e sono di parte. La prego, mi risponda. Ci sentiamo in radio Antonello, mail firmata Ti rispondo qui, sulle pagine di Calcio2000. Io li prendo tutti e due, sono decisamente compatibili, no? In questo momento, Zaniolo sembra un passo avanti a tutti ma ho visto giocare Tonali e sono ammaliato dalla sua facilità nell’accarezzare la palla. Molto dipenderà da dove andrà a giocare. La sua maturazione calcistica è appena cominciata…

Beh, caro Graziano, direi che siamo sulla stessa linea d’onda. Sicuramente parleremo della Honvéd. Io sono un fan di Sandor Kocsis e del resto

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va

i s u l c s e a t intervis Joao Mario

di Fabrizio Ponciroli

Ci sono giocatori che amano il calcio e molto altro. Il portoghese dell’Inter è uno di quelli speciali…

LA VITA è BELLA… CON JOAO MARIO Servizio fotografico di Valeria Abis/Photoviews

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A

26 anni, Joao Mario Naval da Costa Eduardo, noto come Joao Mario, è un ragazzo decisamente più maturo della sua età. La sua vita, indissolubilmente legata al calcio, è stata contraddistinta da tanti momenti di gioia ma anche da pesanti batoste. Il portoghese si è goduto le sue vittorie e ha lottato per uscire dalle sabbie mobili, trovando sempre la maniera di vedere il bicchiere mezzo pieno. Lo abbiamo incontrato al Suning Training Centre, laddove, ogni giorno, si allena per diventare un giocatore migliore… Apriamo il libro dei ricordi… Come nasce il tuo amore per il pallone da calcio?

“Avevo tre o quattro anni quando ho scoperto il pallone. A cinque anni, già giocano nelle giovanili del Porto. Lì sono stato tre anni, davvero fantastici, prima di trasferirmi a Lisbona, con la mia famiglia, e iniziare a giocare con lo Sporting Club. Devo dire che il calcio ha sempre fatto parte della mia vita. Giocavo con mio fratello Wilson Eduardo che è più grande di me di tre anni. Anche lui è diventato un calciatore professionista”. Ora sei un centrocampista offensivo, ma da giovane hai sperimentato altri ruoli in campo? “Certo, ero un difensore centrale…”. Spiegaci meglio… “Fino ai 15/16 anni ho giocato come difenso-

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INTERVISTA

ESCLUSIVA

Joao Mario

La sua CARRIERA Joao Mario nasce a Porto, il 19 gennaio del 1993. Sin da piccolo, si fa apprezzare per le sue doti calcistiche, tanto che viene immediatamente inserito nelle giovanili dell’FC Porto. Nel 2004, la famiglia si trasferisce a Lisbona, lo Sporting Club de Portugal non si fa scappare l’occasione di scippare una giovane promessa ai rivali dragoni. Il 10 febbraio 2013 fa il suo esordio nella Primeira Liga, proprio con la casacca dello Sporting Club de Portugal. Dopo aver giocato nella squadra riserve del club, va in prestito al Vitoria Setubal (da gennaio a giugno 2014), disputando 15 partite. Torna allo Sporting e diventa un perno della squadra, vincendo Coppa del Portogallo e Supercoppa del Portogallo. Si guadagna, a soli 21 anni, un posto in nazionale. Fernando Santos, Ct del Portogallo, crede ciecamente nelle sue qualità e lo porta agli Europei, dove ha un posto garantito nella formazione titolare. È uno degli assi del torneo, vinto proprio dalla Seleção das Quinas. Nell’estate del 2016, mezza Europa lo vuole. La spunta l’Inter, con un investimento pari a 40 milioni di euro (più vari bonus). La prima stagione all’Inter è discreta. Gioca 32 partite in stagione, segnando tre reti. Il primo contro il Cagliari, il 16 ottobre 2016: “C’era ancora De Boer, è stato un bel momento. Purtroppo, dopo me ne sono mangiati un po’ troppi. Sono certo che, comunque, prima o poi, ne farò di più e magari di più importanti”, ci racconta lo stesso Joao Mario. L’inizio della stagione 2017/18 è contraddistinto da pochi alti e tanti bassi. Va in prestito, a gennaio, al West Ham (14 presenze, due reti). La scorsa estate torna a Milano, sponda Inter. Sembra di passaggio ma non è così. Dopo essere rimasto a guardare gli altri a lungo, gli viene data la possibilità di redimersi e Joao Mario ne approfitta. Brilla nella vittoria contro il Genoa, segnando un gol e sfornando due assist. Ora l’obiettivo è chiaro: trovare la continuità e dimostrare di essere un giocatore da Inter: “Ormai penso di aver capito il calcio italiano, spero di riuscire a far vedere che posso essere protagonista anche qui”, chiosa il Campione d’Europa 2016…

re centrale. Anche in nazionale portoghese, nell’Under, ho giocato come difensore. Avrei anche continuato a farlo, se fossi stato più alto ma non è andata così. Quindi mi sono spostato a centrocampo, dove mi sono trovato a mio agio”. Chi erano gli idoli del giovane Joao Mario? “Guarda, a me piacevano Deco e Rui Costa. Due giocatori di grande qualità. Tuttavia, il mio preferito, è sempre stato Zidane. Davvero tanta roba”. A Lisbona, al museo dello Sporting Club, c’è uno spazio dedicato agli eroi dell’Europeo che hanno indossato la casacca dello Sporting… Tra quegli eroi, ci sei anche tu… “Quando riesci a vincere per il tuo Paese, è il massimo… Il Portogallo ha avuto tante grandi squadre, come quella che ha perso l’Europeo (2004, contro la Grecia). C’erano giocatori come

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Deco, Figo, Pauleta, un giovane Cristiano Ronaldo ma, purtroppo, non è arrivata la consacrazione finale. Noi ci siamo riusciti e questo successo resterà per sempre nella storia del Portogallo”. Ma quando, in quello splendido Europeo che avete vinto, hai iniziato a capire che si poteva anche alzare il trofeo? “Ti racconto un aneddoto. Circa un anno prima dell’Europeo, perdiamo, in casa, con Capo Verde (0-2). Una sconfitta pesantissima per noi. Io ero alle prime convocazioni in nazionale. Al termine della partita, Fernando Santos ci dice che avremmo vinto l’Europeo. Ricordo che ho pensato che fosse matto ma lui ci ha sempre creduto e, alla fine, ha avuto ragione lui”. Raccontami la notte prima della finalissima con la Francia…


“È stato difficile prendere sonno. Quella Francia faceva paura, piena di campionissimi… Ricordo che avevo mille pensieri. Sapevo che era un evento unico, magari irrepetibile. È stata una vigilia difficile…”. E quale è stato il primo pensiero quando l’arbitro Merk ha fischiato la fine del match, consacrandovi Campioni d’Europa? “Ho iniziato a correre e abbracciare tutti. È stato un momento incredibile. Pazzesco anche quando siamo tornati in Portogallo. Tutto il Paese era lì per noi… Non avrei mai pensato di vincere un trofeo così importante, soprattutto ancora così giovane. Avevo perso una finale Under 21 con il Portogallo l’anno prima, contro la Svezia, e speravo che, questa volta, andasse bene. Per fortuna è andata come sognavo, anzi meglio”. In quel Portogallo Campione d’Europa, la stella era CR7. Tutti conoscono il suo valore come giocatore ma, da compagno di squadra, che tipo è? “È un ragazzo normale, un padre di famiglia, un leader… Ha una presenza fortissima nel gruppo. Mi ricordo la mia prima partita per le qualificazioni all’Europeo. Io sono entrato attorno al 70’… Lui mi si è avvicinato e mi ha detto: ‘Stai tranquillo, segno io e vinciamo 1-0’… Quella partita l’abbiamo vinta 1-0 con rete di Cristiano nel recupero”. Che ne pensi del suo arrivo in Italia? “Credo che sia un bene per tutto il campionato. Qualcuno pensava che, in Italia, avrebbe avuto problemi a segnare ma lui è Cristiano Ronaldo”. Parliamo del tuo di approdo in Italia… Si parla forse eccessivamente del prezzo del tuo cartellino, 40 milioni di euro, e troppo poco del tuo talento… “Ho sempre pensato che tu vali quanto un club è disposto a pagare per averti. L’Inter ha deciso di spendere 40 milioni di euro per me e lo Sporting ne ha chiesti 40, ma questo non vuol dire che tu hai detto di valere 40 milioni. Basta pensare a Pogba. La Juventus ha chiesto più o meno 100 milioni e lo United ha deciso di fare

Tanta la voglia di Joao Mario di riconquistare San Siro e i tifosi dell’Inter

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INTERVISTA

ESCLUSIVA

Joao Mario

l’investimento, funziona così. Io ho sempre cercato di non pensare a quanto l’Inter ha speso per me. Nel primo anno nerazzurro (2016/17) ho fatto del mio meglio, cercando di essere utile alla squadra. Era un’Inter in fase di ricostruzione, se fossi arrivato qualche tempo più tardi, forse sarebbe stato tutto diverso”. Chi ti ha aiutato ad ambientarti all’Inter? Ti ricordi il primo giorno da nerazzurro? “Certo che me lo ricordo. Sono stato qui alla Pinetina, ho visto l’allenamento dei miei nuovi compagni. Sapevo già tanto dell’Inter, visto che c’era stato Mourinho e Quaresma… Quelli che parlavano la mia lingua, come Eder, Miranda e anche Felipe Melo”. Domanda scomoda: un anno fa hai dichiarato che non saresti più tornato all’Inter. Ti sei pen-

Campione d’Europa con il Portogallo dell’amico Cristiano Ronaldo

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tito di quelle parole? “Ovviamente mi dispiace. Ho parlato a caldo. Si impara dagli errori e questo è stato un errore. Ho capito che può accaderti di tutto ma devo rispettare una squadra come l’Inter che ha speso tantissimo per te. Sono felicissimo di aver avuto una nuova chance con l’Inter. È stato molto importante per me, anche per riscattarmi da quelle parole dette senza pensare. Devo dire che sono stati fondamentali anche i tifosi dell’Inter che mi hanno dato una seconda possibilità”. Parliamo dei tifosi dell’Inter. Passionali come pochi altri, non credi? “Io sono stato, per loro, sia un idolo che un giocatore scarso. Credo che sarebbe bellissimo trovare il giusto equilibrio, ma so anche una


caratteristica del tifoso italiano e soprattutto dei tifosi dell’Inter. Loro sono molto passionali, sono così e mi piacciono così. Sono stato in Inghilterra (al West Ham, n.d.r.) e lì sono tutti forse troppo tranquilli. Personalmente preferisco il calore dei nostri tifosi, anche se, quando le cose vanno male, te lo fanno notare subito”. Che ne pensi della Premier League? “Si va sempre di corsa, poca tattica… Lì il calcio è veloce, qui, in Italia, si va un po’ più piano, c’è più attenzione ai dettagli. Anche da noi il fisico conta ma, in Premier League, è ancora più determinante”. Che ne pensi della città di Milano? Troppo freddo? “Mi piace molto, mi trovo bene… Freddo? No, io sto tanto a casa e, quando esco, trovo sempre

Il Direttore Ponciroli durante l’intervista con Joao Mario

qualcosa di bello a Milano. Ci sono bellissimi posti, ristoranti, insomma c’è tutto. Sto benissimo qui”. E di questa Inter che mi dici? “Credo che abbiamo una buonissima rosa. Abbiamo sbagliato qualche partita di troppo ma direi che è una buonissima rosa”. Dopo aver vinto gli Europei, che titolo vorresti vincere con l’Inter? “Secondo me, il top sarebbe lo Scudetto. Sarebbe bellissimo. Certo, tutti i trofei sono importanti, ma vincere lo Scudetto sarebbe meraviglioso”. Quando accadrà? “Abbiamo bisogno di tempo, dobbiamo crescere e trovare il giusto equilibrio in tutte le cose che facciamo. Lavoriamo per vincere, questo è sicuro”. Quale è il miglior pregio di Spalletti? “Il suo miglior pregio è che è molto ma molto bravo a livello tattico. Sa mettere in campo benissimo la squadra”. Che idea ti sei fatto di Icardi? “Come lui, ho visto solo Cristiano Ronaldo in area di rigore. Ha una qualità pazzesca in area, sa sempre dove mettersi e come anticipare l’avversario. E fa gol”. Parliamo di te… Che altre passioni hai oltre al calcio?

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INTERVISTA

ESCLUSIVA

Joao Mario

“Durante l’anno, ho poco tempo. Appena ho un po’ di tempo, vado a Londra dalla mia ragazza. Mi piace molto viaggiare…”. Mare o montagna? “Mare sicuramente”. Un posto che vorresti visitare? “Mi piacerebbe andare in Thailandia”. Sei un appassionato di cinema? “Adoro il cinema e le serie televisive”. Un film nel quale ti sarebbe piaciuto essere il protagonista… “La vita è bella di Roberto Benigni… L’ho visto quando ero in Portogallo, è il mio film preferito in assoluto. Il padre del ragazzo, mi sarebbe piaciuto fare quel ruolo”. E a livello di serie tv… “Mi piacciono quelle che parlano di giustizia, avvocati, tipo House of Cards, La casa di carta, Homeland…”. Sei un fan de Il Trono di Spade? “No, ho provato a guardarlo ma non mi ha preso”. A musica come siamo messi? Qualche cantante italiano che ti piace? “La musica l’ascolto spesso… cantanti italiani? Mi piace Sfera Ebbasta… Le sue canzoni mi piacciono molto”. Auto e videogames… “Le auto non mi interessano più di tanto, videogames già dato in passato. Mi divertivo a giocare, ovviamente, con videogames sul calcio e a titoli come Call of Duty”. Al termine della carriera da calciatore, ti vedi ancora nel mondo del calcio? “No, onestamente no. Penso che sperimenterò qualcosa di diverso. Vorrei mettermi in gioco in un altro mondo, magari qualcosa di più tranquillo, che non sia per forza sotto i riflettori. Una cosa mia, più famigliare”. Se non avessi fatto il calciatore professionista, cosa ti sarebbe piaciuto fare? “Penso proprio che avrei provato a diventare un avvocato”. E siamo ai saluti… Il mancato avvocato Joao Mario ci ha regalato momenti davvero intriganti.

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LA TERZA MAGLIA “Mi piace molto la terza maglia, è davvero bella”. Parole di Joao Mario. In effetti, la terza maglia dell’Inter, stagione 2018/19, è decisamente particolare. Un design molto curato nei dettagli con un fortissimo richiamo al Duomo, simbolo della città. attraverso il caratteristico marmo su cui domina la Croce di San Giorgio. Presente anche la mappa della città di Milano. Questa fa da sfondo a una croce che ricorda la Croce di San Giorgio, altro emblema del capoluogo lombardo. Non manca neppure un chiaro riferimento alla storia della società nerazzurra, con il blu caratteristico del club. La divisa è completata dai pantaloncini grigi e dei calzettoni grigi e gialli, con la scritta Inter ovviamente in blu…

Forse sarebbe davvero opportuno dimenticarsi di quanto è stato pagato e di apprezzarlo per quello che è, sia in campo che, soprattutto, fuori dal campo. Un ragazzo così posato, umile e intelligente non può essere bollato come “quello che è costato 40 milioni di euro”. In Portogallo è già destinato a diventare una leggenda. Quell’Europeo vinto da protagonista l’ha reso immortale. La speranza è che riesca ad imporsi anche all’Inter, la squadra che, comprendendo le sue indubbie qualità, gli ha dato una seconda chance. Buona fortuna “avvocato” Joao Mario…


LA Carriera di JOAO

Stagione Squadra Totale Pres Reti 2011-2012 Sporting CP 1 0 2012-2013 Sporting CP 1 0 2012-2013 Sporting CP - B 31 1 2013-gen.2014 Sporting CP - B 13 1 gen.-giu.2014 VitĂłria SetĂşbal 16 0 2014-2015 Sporting CP 45 7 2015-2016 Sporting CP 45 7 ago. 2016 Sporting CP 1 0 ago. 2016-2017 Inter 32 3 2017-gen.2018 Inter 15 0 gen.-giu.2018 West Ham 14 2 2018-2019 Inter 16 1 * Dati aggiornati al 9/02/2018

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SPECIALE

Stipendi nel calcio di Fabrizio Ponciroli

Dai 31 milioni di euro, netti, di CR7 ai 250 mila euro di Mancini…

FACCIAMO I CONTI…

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I

l giro d’affari del calcio italiano è impressionante. La Serie A non bada a spese per restare al passo con i principali campionati europei. Grazie, soprattutto, agli introiti provenienti dai diritti televisivi, la massima lega italiana ha speso, dal 2010 al 2018, dati CIES Football Observatory, la bellezza di 6,7 miliardi a livello di calciomercato. Una cifra mostruosa, impressionante ma figlia delle nuove regole che animano il mondo del pallone di oggi. Nel 2010, la Serie A aveva investito 415 milioni di euro in affari legati al calciomercato, nel 2018 siamo giunti alla pazzesca quota di 1.197 milioni. Solo la Premier League (2.122) e la Liga (1.319) sono state più spendaccione nel corso dell’ultimo “valzer di acquisti e cessioni”. Insomma, i cartellini sono sempre più cari e, di conseguenza, anche gli stipendi sono lievitati in maniera esponenziale. Tuttavia, un dato va sottolineato prima di addentrarci nel complicato universo degli ingaggi che circolano nel calcio di casa nostra. Un dato che riguarda i top club e i loro, stratosferici, investimenti. Il Manchester City, sempre nel periodo che va dal 2010 al 2018, ha sborsato la pazzesca cifra di 1.470 milioni di euro in campagne trasferimenti. La prima squadra italiana in questa particolare classifica è la

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SPECIALE

Stipendi nel Calcio Juventus, sesta con una spesa complessiva pari 1.085 milioni di euro. Appunto, la Juventus. Quando si parla di “potenza di fuoco del calcio italiano”, la Juventus rappresenta l’arma numero uno, l’unica in grado di stare al passo delle superpotenze che dominano il calcio europeo. Di fatto, Madama è la regina assoluta del calcio italiano, sia in campo ma, soprattutto, a livello di business (generato e fatturato). Una Vecchia Signora che è in con-

I RE DEL 2018 In attesa di valutare quanto inciderà realmente, sulle tasche di Cristiano Ronaldo, il suo primo anno in bianconero, è curioso stilare la classifica dei 10 top player che hanno guadagnato di più nel corso del 2018. Beinsports ha stilato una graduatoria dei paperoni dell’ultimo anno calcistico. C’è un giovinastro di belle speranze al decimo posto di questa lussuosa graduatoria. Il suo nome è Mbappè. Tra salario, premi e sponsorizzazioni, il talento del PSG, fresco di conquista della Coppa del Mondo, ha portato a casa 21,5 milioni di dollari lo scorso anno (circa 19 milioni di euro). Al nono posto un’altra stella del PSG: Di Maria (con circa 20 milioni di euro). All’ottavo posto Aguero del City e, al settimo, Suarez del Barcellona. Non se la passa affatto male Oscar, con circa 25 milioni di euro intascati all’anno (sesto posto). Grossi calibri nei primi cinque posti della dorata classifica. Pogba si porta a casa 29,5 milioni di dollari (quinto), preceduto da Bale (Real Madrid) con 34,6 milioni. Sul gradino più basso del podio ecco Neymar che si gode 90 milioni di dollari a stagione. Si diverte pure Cristiano Ronaldo. Il 2018 gli ha portato in dote 108 milioni di dollari (ben 47 milioni da contratti pubblicitari e vari sponsor). Il più ricco? Messi, con 111 milioni di dollari (molti dei quali garantiti dal suo storico sponsor di calzature). Cifre folli? No, cifre di mercato…

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tinua e rapida ascesa, da tutti i punti di vista, compreso il dato legato agli investimenti nel calciomercato. Dei 1.085 milioni spesi (dal 2010 all’ultima finestra di mercato estiva), una buona fetta di torta è da collegare all’affare Cristiano Ronaldo. Per strapparlo al Real Madrid, la società bianconera ha dovuto mettere sul piatto 117 milioni di euro. Un bel gruzzolo ma, stando alle nuove regole del calciomercato, un esborso, tutto sommato, in linea con il valore dei top player odierni. Tuttavia, oltre all’ingente sforzo economico a livello di cartellino, c’è la componente ingaggio. Il cinque volte Pallone d’Oro percepisce, annualmente, 31 milioni di euro dalla Vecchia Signora, ovviamente netti. Uno stipendio monster che lo ha reso, immediatamente e per distacco, il calciatore più pagato della Serie A. Chiaramente, per sostenere

Salah, stella del Liverpool, incassa oltre 200 mila euro ogni sette giorni


CALCIATORI IN TOUR Ben 36 tappe per il Panini Tour Up! 2019…

Immancabile, è iniziato il Panini Tour!!! L’iniziativa promozionale per il lancio della collezione “Calciatori 2018-2019” sta invadendo tutta Italia (si concluderà il 31 prossimo marzo). Il tour Panini vede confermata anche quest’anno la partnership con il gruppo Intesa Sanpaolo, che ne caratterizza anche il nome con il riferimento al “XME Conto Up!” per gli under 18. Decine di migliaia di piccoli e grandi collezionisti possono così darsi appuntamento per scambiare le proprie doppie e per partecipare a quiz e giochi a premio. Inoltre, coloro che avranno completato interamente l’album potranno accedere all’area esclusiva del “Panini Box”, dove

riceveranno uno straordinario kit di regali e il prestigioso timbro ufficiale “Album Completato’’. Il “Panini Tour Up! 2019” segue tre percorsi, toccando oltre 30 città per un totale 36 tappe e 48 giornate evento. Innanzitutto, un coloratissimo “villaggio” girerà tutta l’Italia, da Sud a Nord, toccando le piazze di 6 grandi città (ultima tappa Brescia il 30 e 31 marzo). Previste anche due tappe speciali a Gaeta e Reggio Emilia in occasione del “Festival dei Giovani”. Per facilitare la partecipazione, è possibile registrarsi online su www. paninitourup.it. Il secondo percorso del tour si sviluppa all’interno di 24 filiali del gruppo Intesa Sanpaolo in altrettante città a partire da San Donà del Piave (Ve), Rho (Mi), Perugia e Lecce. Il terzo percorso invece ha come location importanti centri commerciali di 6 città, a partire da Udine. E’ possibile seguire le varie tappe su www.calciatoripanini.it, la pagina Facebook “Calciatori Panini”, il canale YouTube della collezione oltre al feed Twitter ed al profilo Instagram “Figurine Panini”.


SPECIALE

Stipendi nel Calcio un investimento tanto elevato, la Juventus si è organizzata al meglio, puntando enormemente sul merchandising e sperando che, dal punto di vista tecnico, l’acquisizione del portoghese possa portare quella Champions League che significherebbe quantità industriali di milioni di euro… Intanto, però, c’è da onorare la parcella di CR7. Per fortuna, la società bianconera è, dal punto di vista economico, decisamente solida. Non è affatto un caso come, nella Top 10 dei calciatori più pagati in Italia, ci siano ben sei calciatori sotto contratto con la Juventus. Detto all’inarrivabile CR7, al primo posto con 31 milioni di euro, seguono Dybala a 7,5, Pjanic a 6,5, Douglas Costa e Donnarumma a 6, Koulibaly e Bonucci a 5,5, Emre Can a 5, Insigne a 4,6 e, a chiudere la classifica dei nababbi del nostro calcio, un terzetto formato da Icardi (in odore di rinnovo), Nainggolan e Dzeko a quota 4,5 (con Alex Sandro, altro bianconero, che ha appena rinnovato, portando il suo stipendio a 5 milioni a stagione). Restando alla Juventus, basandosi sui dati di KPMG Football Benchmark, è interessante notare come la rosa attuale della Vecchia Signora abbia un valore pari a 792 milioni di euro. Un ulteriore elemento che “aiuta” a comprendere l’importante esborso, da parte della stessa società bianconera, a livello di stipendi. Il monte ingaggi della stagione 2017/18 era pari a 150,5 milioni di euro (lordi), quest’anno si è saliti, complice l’ef-

L’Empoli ha il monte ingaggio più basso della Serie A

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L’ex azzurro Pellé è il giocatore italiano più pagato al mondo

fetto CR7, a 203 milioni, con un incremento pari a circa il 30%. Osservando la rosa a disposizione di Allegri, si nota come siano ben 17 i giocatori che incassano, all’anno, non meno di 3 milioni di euro netti, tutti da raddoppiare pensando al totale degli assegni che deve staccare Madama. Un monte ingaggi sconcertante ma sostenibile grazie ad una programmazione vincente in campo e in tutto ciò che genera marketing (stadio di proprietà compreso). La Vecchia Signora, da sola, rappresenta circa il 20% dell’intero monte ingaggio della Serie A. I dati forniti da StubHub ci raccontano come la Serie A spenda, a livello di stipendi, 1,046 milioni di euro. Bene, l’11,1% del totale è rappresentato dal singolo ingaggio del solito Cristiano Ronaldo. Vincere aiuta a vincere e permette di poter investire cifre sempre più elevate. Il potere economico della Juventus è evidenziato anche dalla sua forza sul mercato. In


Italia, è l’unica società che si può permettere acquisti “alla Cristiano Ronaldo” e, soprattutto, di pagare stipendi “fuori mercato” per qualsiasi altra realtà italiana… IL CASO ATALANTA Compreso di come la Juventus cannibalizzi il calcio italiano, sia a livello di risultati sul campo, sia a livello di business, è interessante analizzare il modus operandi bianconero in relazione al resto delle squadre che militano nel massimo campionato italiano. è sufficiente un paragone per comprendere, a pieno, la differenza esistente tra la big del calcio italiano per eccellenza e le squa-

LE STERLINE INGLESI In Premier League, il giro d’affari legato al mondo del calcio è circa il doppio rispetto alla Serie A. La Premier League è il campionato europeo top, quello in cui girano più soldi. In Inghilterra si divertono a indicare gli stipendi delle proprie stelle “a settimana”. Un esempio per capirci: Salah, vecchia conoscenza del calcio italiano, sotto contratto con il Liverpool sino al giugno del 2021, percepisce 200 mila sterline a settimana. In euro, parliamo di 228,266 euro ogni sette giorni, per un totale di 10,4 milioni di sterline all’anno. E, attenzione, l’ex di Fiorentina e Roma è “solo” il settimo più pagato dell’intera Premier League. Al top abbiamo Pogba, asso del Manchester United, terzo con 290 mila sterline a settimana e, appaiati al primo posto, Sanchez, altra vecchia conoscenza del nostro calcio (ex Udinese), e Ozil, entrambi con 350.000 sterline ogni sette giorni, per un totale di 18,2 milioni di sterline all’anno, ossia circa 20,8 milioni (netti) ogni 12 mesi. Ecco perché la Premier League è il top a livello di business (e di ingaggi). Poi ci sarebbero i soldi cinesi, ma quella è un’altra storia…

dre “normali”. L’Atalanta, società virtuosa e sempre attante a far quadrare i conti, ha un monte ingaggi annuale pari a circa 14,5 milioni di euro netti, quindi 29 lordi. Il più pagato, parlando di cifre nette, è il Papu Gomez con 1,6 milioni a stagione, seguito da Zapata (1,5), Ilicic (1) e Pasalic (1). Questi sono gli unici giocatori della rosa a disposizione di Gasperini che hanno uno stipendio pari ad almeno un milione di euro. Il resto della banda ha sottoscritto contratti a cifre molto meno elevate. Mancini, oggetto del desiderio di tantissimi top club, ha uno stipendio di 250 mila euro (destinato, ovviamente, a crescere in maniera esponenziale al termine della stagione in corso). Non tengono il passo della Vecchia Signora neppure le altre big del calcio italiano. Il Milan (complice l’addio di Higuain che incideva molto con i suoi 18 milioni di euro lordi) e l’Inter vanno più o meno a braccetto, con circa 120 milioni lordi di investimento sul parco giocatori. La Roma si piazza quarta in questa classifica con 100 milioni, seguita dal Napoli a quota 94. Staccatissime tutte le altre con Torino e Fiorentina che spendono circa 40 milioni. La squadra più parsimoniosa dell’intera Serie A? L’Empoli, con un monte ingaggi che si aggira attorno ai 16 milioni annui. Un altro elemento che ci fa comprendere la forza economica della Juventus e, soprattutto, l’enorme differenza che sussiste, anche a livello di stipendi, tra chi domina il calcio italiano da anni e il resto delle partecipanti alla Serie A… E GLI ALLENATORI? Ci sono i top player e i top manager. Se CR7 è il più pagato tra i calciatori, ecco che Allegri è il più remunerato a livello di tecnici della massima serie italiana. Allegri percepisce uno stipendio pari a 7,5 milioni di euro, netti, a stagione. Alle sue spalle Ancelotti, allenatore in forza al Napoli, con 6,5 milioni. Segue Spalletti, “capo banda” dell’Inter con

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SPECIALE

Stipendi nel Calcio GIOCATORI PIù pagati in serie a Giocatore Cristiano Ronaldo Higuain Dybala Pjanic Douglas Costa G. Donnarumma Bonucci Emre Can Insigne Dzeko Icardi Nainggolan

Squadra Ruolo Stipendio Netto Juventus Att 31,0 Milan Att 9,5 Juventus Att 7,0 Juventus Cen 6,5 Juventus Att 6,0 Milan Por 6,0 Juventus Dif 5,5 Juventus Cen 5,0 Napoli Att 4,6 Roma Att 4,5 Inter Att 4,5 Inter Cen 4,5

* Dati Gazzetta dello Sport - Stagione 2018/19

I PIù PAGATI DELLA SERIE A SQUADRA per SQUADRA Squadra Giocatore Atalanta Papu Gomez Bologna Destro Cagliari Pavoletti Chievo Giaccherini, Djordjevic, Obi, Tomovic Empoli Silvestre, Antonelli, Caputo Fiorentina Chiesa Frosinone Campbell Genoa Lapadula Inter Icardi, Nainggolan Juventus Cristiano Ronaldo Lazio Immobile, Leiva Milan Donnarumma Napoli Insigne Parma Inglese Roma Dzeko Sampdoria Praet Sassuolo Berardi, Consigli, Matri Spal Petagna Torino Belotti Udinese Mandragora

Stipendio Netto 1,6 Milioni 2,0 Milioni 1,2 Milioni 0,7 Milioni 0,6 Milioni 1,7 Milioni 0,8 Milioni 1,5 Milioni 4,5 Milioni 31 Milioni 2,3 Milioni 6,0 Milioni 4,6 Milioni 1,2 Milioni 4,5 Milioni 1,4 Milioni 1,0 Milioni 1,2 Milioni 1,8 Milioni 1,2 Milioni

* Dati Gazzetta Dello Sport - Stagione 2018/19

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4,5. Di Francesco è appena sotto il podio, con 3 milioni all’anno. In quinta posizione Mazzarri del Torino, assieme a Gattuso del Milan, entrambi con 2 milioni netti. Ben sotto al milione, gente come D’Aversa (Parma), con uno stipendio di 450 mila euro, e Semplici, allenatore della Spal, a 400 mila euro. Curiosità: Filippo Inzaghi, ex tecnico del Bologna, guadagnava “solo” 600 mila euro. GLI ITALIANI ALL’ESTERO Ci sono italiani che hanno, letteralmente, fatto fortuna all’estero. Lo sanno bene Buffon e Verratti, ricoperti d’oro nella splendida Parigi. IL PSG firma un assegno annuale, all’ex numero uno bianconero, pari a 5 milioni di euro. Al centrocampista, ex Pescara, arrivano, ogni stagione, 7,8 milioni di euro. Ha fatto il botto Giovinco. La formica Atomica ha lasciato l’MLS per volare in Arabia Saudita dove l’AlHilal ne ha fatto il proprio fuoriclasse assoluto, con un investimento monster, pari a 10 milioni di euro all’anno. Ma il vero asso azzurro all’estero è Pellé. L’ex attaccante della Nazionale, protagonista ad Euro 2016, sta vivendo una carriera dorata in Cina. Grazie allo Shandong Luneng, percepisce la cifra record (per un azzurro) di 15 milioni di euro all’anno.


CI SIAMO, TEMPO DI CALCIATORI 2018-2019 La 58esima edizione, ovviamente firmata Panini, è ricca di novità… Come da tradizione, ecco l’album Calciatori Panini 2018-2019!!! La raccolta delle stelle del calcio italiano… Anche quest’anno l’album CALCIATORI è in formato MAXI, con 128 pagine, su cui incollare le 734 figurine della collezione, ricchissimo di statistiche e informazioni... solo CALCIATORI 2018-2019 può raccontarci tutto sui campioni e i club che ogni settimana ci fanno sognare sul rettangolo verde. Tantissime, come sempre, le novità custodite dalla nuova edizione dell’album più amato dagli italiani. A partire dalla copertina, che racchiude in una sola immagine 20 calciatori rappresentanti di tutte le squadre di Serie A TIM. Nuovi ed eclatanti arrivi dall’estero, trasferimenti eccellenti, uomini-simbolo e giovani dal sicuro avvenire mettono in scena un’epica invasione del proprio palcoscenico d’elezione: lo stadio, la cornice in cui è rappresentato il vero spettacolo del calcio. La collezione CALCIATORI continua a rinnovarsi anno dopo anno in tutte le sue sezioni, con importanti arricchimenti anche per la parte dedicata alle squadre della Serie A TIM - dove il divertimento e la scoperta iniziano già a partire dalle caselle destinate ad ospitare le figurine dei calciatori - e della Serie BKT che, come la massima serie, ospita nelle proprie pagine una Calciatoripedia dedicata ai portieroni che hanno fatto la storia dei rispettivi club. Le immancabili sezioni speciali dedicate alla Serie A Femminile, al Film del Cam-

pionato e al Calciomercato sono poi affiancate da una novità: “Italia 120” celebra l’anniversario della FIGC dedicando figurine speciali agli Azzurrini della Nazionale Under 21 e alle Azzurre della Nazionale Femminile che nel 2019 parteciperanno a due grandissimi eventi internazionali. Ogni bustina CALCIATORI 2018-2019 è ricchissima di sorprese: le figurine degli stemmi, delle prime maglie, degli allenatori, delle squadre schierate, degli stadi... e tante altre ancora sono realizzate su materiali e con trattamenti speciali innovativi. Ciascuna, inoltre, contiene un coupon CalcioRegali 2019 con cui tentare la fortuna e la possibilità di vincere tanti premi giornalieri, settimanali e finali! Scopri tutte le curiosità e le novità sul sito ufficiale www.calciatoripanini.it e anche sui profili ufficiali Panini di Facebook, Twitter, Instagram e YouTube.


SPECIALE Autogol

di Davide Orlando

L’AUTORETE DA RICORDARE… Ci sono autogol che hanno lasciato il segno, diventando indimenticabili…

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erché spesso si dice che il calcio non è una scienza esatta? Spesso accadono episodi impensabili, in grado di stupire anche i più scettici. Tra rovesciate sensazionali e dribbling fulminei, gli autogol fanno parte di gioie e dolori del gioco più bello del mondo. Negli anni, molte volte abbiamo assistito a clamorosi episodi (più o meno dubbi) che hanno coinvolto portieri, difensori, centrocampisti, attaccanti di tutte le squadre, big team compresi. Azioni strane, tiri casuali, tocchi fortuiti che tante volte hanno lasciato l’amaro in bocca e un pizzico di tristezza, per la comprensibile e inaspettata gioia dell’avversario che, dall’altra parte, abbiamo visto esultare forsennatamente davanti ai nostri occhi. Errori imperdonabili

rimasti impressi nella memoria che, in ogni caso, conservano sempre quel fascino magico che solo il calcio riesce ad avere. Dall’Italia alla Cina, dalla Premier League al Mondiale, in ogni Paese e in ogni competizione abbiamo assistito ad autogol incredibili e imbarazzanti, talvolta drammatici, che a volte etichettano giocatori per tutta la loro carriera. Lo sapevate, per esempio, a chi appartiene, attualmente il maggior numero di autogol nella storia della Serie A? Sono Riccardo Ferri e Franco Baresi, autori rispettivamente di otto autoreti a testa. Due vere bandiere del calcio italiano: Ferri diviso tra Inter e Sampdoria segnò sempre e solo a Walter Zenga mentre Baresi, storico capitano rossonero, riuscì nell’impresa di segnare, addirittura, due volte

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SPECIALE Autogol

nella sua stessa porta nell’arco dei novanta minuti. Precisamente in occasione di Pescara – Milan, anno 1992, dove il glorioso numero 6 rossonero fece due clamorose autoreti in una gara pirotecnica terminata 5 a 4 per il Diavolo. In compagnia di Franco Baresi ci sono anche Giuliano Giorgi, ex difensore e protagonista con due reti (al contrario) di un Fiorentina Brescia 4 a 3 del 1987 e Stefano De Agostini, autore di due autogol in Milan – Cremonese 7 a 1 nel 1996. Il primato assoluto in fatto di autoreti in una partita spetta però al difensore belga del Germinal Ekeren, Stan van den Buys, che in una sola partita fu in grado di scavalcare il proprio portiere per ben tre volte. La fama di giocatore con maggior numero di autoreti nel corso della sua carriera spetta invece a Frank Sinclair, difensore giamaicano e recordman di categoria con ben 25 reti segnate nella propria porta. Il più spettacolare? Un retropassaggio decisivo di circa 35 metri

finito in rete che portò il Leicester di qualche anno fa alla settima sconfitta consecutiva in Premier League. Qual è la partita con più autoreti nella storia del calcio? La partita con più autoreti della storia, invece? Impossibile da crederci ma nel 2002, durante una partita di campionato in Madagascar tra le squadre dell’SO de l’Emyrne e dell’AS Adema, in novanta minuti accadde l’impensabile. La storia della partita più pazza del mondo è assurda, ma vale davvero la pena raccontarla: partiamo dal risultato finale, 149 a 0. Cento quarantanove volte in cui i giocatori dell’SO de l’Emyrne (una delle due squadre protagonista di questa clamorosa vicenda) buttarono volontariamente il pallone nella loro porta, a vantaggio dell’AS Adema, squadra avversaria. Il motivo? Tutto succede a causa di un presunto torto arbitrale ai danni dell’SO de L’Emyrne

Poche luci di Kondogbia all’Inter,ci si ricorda del suo autogol contro i Blues

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che, due giorni prima, perde la possibilità di giocarsi il titolo nel successivo scontro diretto a causa di un episodio molto dubbio (accaduto praticamente a tempo scaduto), che regala un pareggio insperato alla squadra del DSA Antananarivo. Una beffa che scatena la protesta incredibile dei giocatori malgasci, i quali decisero che quella gara doveva necessariamente trasformarsi in sonora sconfitta. Una batosta memorabile ma, soprattutto, simbolica che giocatori e allenatore architettarono ad hoc per non sottostare, a quello che, loro consideravano un furto in piena regola. A causa di questa partita, però, la federazione calcistica del Madagascar squalificò per tre anni l’allenatore della squadra mentre alcuni giocatori subirono una squalifica per alcuni mesi, con buona pace dei loro avversari, increduli e stupiti di fronte a un evento di tale portata. E nel nostro campionato? La prima autorete della storia del nostro campionato risale al 1929, precisamente durante Juventus-Napoli, protagonista Biagio Zoccola, napoletano d’origine. L’allora ex centrocampista del Napoli, nel tentativo di spazzare la sua area, toccò il pallone accidentalmente con il ginocchio buttando il pallone nella propria porta causando la decisiva autorete: un evento storico per l’epoca che vide la squadra del Napoli come sfortunata protagonista e che caratterizzò il campionato italiano a girone unico del 1929. I biancazzurri dovettero, infatti, chinarsi al cospetto della Juventus che vinse la partita inaugurale del campionato per tre reti a due. Tuttavia, Biagio Zoccola e compagni conclusero degnamente il campionato, classificandosi al quinto posto e disputando complessivamente una buona stagione. In Italia, comunque, negli ultimi dieci anni, il numero di autoreti nel corso del campionato è stato più o meno sempre uguale, con una media di circa 25,6 per anno: solo la scorsa stagione, invece, la palla ha varcato la linea

Mathieu, unico ad aver segnato nella propria porta con due squadre in Champions League

di porta per ben 36 volte (numero comunque ben al di sotto dei 49 autogol registrati in Premier League nella stagione 2013/2014). Ma quali sono le autoreti… da ricordare? L’autorete più triste Segnare un’autorete è una delle cose più drammatiche che possa capitare, per un calciatore, specialmente se ciò accade con la maglia della propria nazionale e, magari, durante un incontro importante e decisivo. Nel 1994, purtroppo, la cattiva sorte si accanì contro Andrès Escobar, calciatore colombiano che, a causa del suo errore, venne ritenuto colpevole dell’eliminazione della sua nazionale al mondiale del 1994. Una storia triste resa tragica dal fatto che Escobar pagò questa sconfitta con la vita. Il due a uno con il quale gli USA spedirono a casa la Colombia ridi-

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SPECIALE Autogol

mensionò le ambizioni di una nazionale piena di talenti: nomi grandi e importanti quali Valderrama, Asprilla, Rincon e proprio Andrès Escobar, difensore affermato che però ebbe la sfortuna di trovarsi in mezzo a quell’azione decisiva. Pare che proprio a causa di questo, dieci giorni dopo, all’uscita di un ristorante, il povero Pablo venne colpito a morte da dodici colpi di arma da fuoco, sparati in seguito a una rissa verbale finita male causata, si dice, dall’errore tecnico del giocatore di Medellín, ritenuto il principale colpevole dell’eliminazione della Colombia dal mondiale USA ‘94. Una vita spezzata e un autogol finito in tragedia. L’autogol più veloce È possibile segnare un autogol dopo soli 14 secondi dall’inizio della partita? In Estonia pare proprio di sì! Accadde nella partita tra Levadia Tallin e Painte, dove i padroni di casa passarono in vantaggio dopo solo 14 secondi dal fischio di inizio. L’azione fu una di quelle di come se ne vedono tante durante una partita: retropassaggio del difensore al portiere che incredibilmente lasciò sfilare il pallone nella propria porta. Errore o rimbalzo calcolato male, poco importa. Autorete e palla al centro. Per la cronaca vinse il Levadia Tallin per tre reti a uno. L’autogol indimenticabile Come dimenticare l’autogol di Marco Materazzi in Empoli Inter? La partita del 30 aprile 2006 è sicuramente una di quelle da dimenticare per il forte difensore (nero)azzurro che, in novanta minuti poco esaltanti, si inventa un’autorete… da brividi! Non solo perché il gol risulterà decisivo per il risultato (alla fine l’Empoli vincerà la partita per uno a zero) ma anche per la spettacolarità del gesto tecnico. Siamo al 46’ del secondo tempo e, nel tentativo di effettuare un retropassaggio di controbalzo a pochi metri dal centrocampo, Materazzi si inventa un pallonetto incredibile che

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scavalcando l’incredulo Julio Cesar si infila in rete. I toscani vinceranno a sorpresa la gara e guadagneranno (quasi) inaspettatamente la salvezza. Marco Materazzi, però, si rifarà ampiamente alla fine della stagione a Berlino, alzando al cielo la Coppa del Mondo. Il “gollonzo” al contrario di Geoffrey Kondogbia Nonostante la competizione abbia poca importanza, possiamo considerare l’autogol di Geoffrey Kondogbia come degno erede della goffa autorete di Marco Materazzi in Empoli – Inter del 2006. Ripercorrendo gli autogol più incredibili, infatti, è impossibile non menzionare il “gollonzo” al contrario del centrocampista francese naturalizzato centrafricano che, ai tempi dell’Inter, durante una partita dell’International Champions Cup 2017 contro il Chelsea, fece un’autorete molto simile

Ferri è stato un grande difensore ma anche uno specialista nelle autoreti


a quella di Materazzi qualche anno prima. La dinamica fu all’incirca la stessa: l’impreciso tentativo di effettuare un retropassaggio verso il portiere da una distanza a dir poco siderale (nei pressi della metacampo) si trasformò in un pallonetto perfetto che si infilò alle spalle di Padelli, sotto l’incrocio dei pali. Un’autorete da cineteca in una calda giornata di luglio che vide comunque l’Inter aggiudicarsi la gara amichevole per due reti a uno. Gli autogol da Champions Il fascino della Champions League, si sa, è unico al mondo. Ogni anno le migliori squadre d’Europa si danno battaglia per conquistare questo trofeo molto ambito da tutti i club e da ogni calciatore. Anche un trofeo così importante può vantare, fin dalla sua nascita, alcuni tra i migliori autogol della storia del calcio. Vediamo insieme qualche curioso dato: il primo autogol della competizione, per esempio, fu di un calciatore italiano o meglio di una leggenda del calcio mondiale. Si tratta di Franco Baresi, storico capitano rossonero che, ai tempi di Milan – Ajax (anno 1994), nel tentativo di intercettare un cross, spedì, con un colpo di testa, il pallone nella propria porta. La partita finì due a zero per i lancieri e Baresi fu il primo calciatore a segnare un autogol nella prestigiosa competizione tanto cara al Milan e ai milanisti. Altro record al contrario invece appartiene a Jeremy Mathieu (difensore francese oggi in forza allo Sporting Lisbona), il quale, ad oggi, è l’unico calciatore in Champions League ad aver segnato un autogol con due squadre diverse. All’epoca del Barcellona fu autore di un autogol contro il Paris Saint Germain, mentre proprio con la maglia del suo attuale club segnò un gol nella propria porta proprio contro il club blaugrana. Un destino davvero beffardo! Rimanendo in tema di record e autoreti europee, sono ben 18 gli autogol segnati nell’edizione della Champions League 2017/2018 mentre Astana – Galatasaray del 2015 e Rangers – Unirea

Urziceni del 2009 sono le due gare, ad oggi, con il maggior numero di autoreti in una sola partita (rispettivamente tre per ogni partita). L’autogol da derby In questa speciale classifica non poteva mancare un autogol… da derby! L’autore è Paolo Negro e il derby è quello tra Lazio e Roma, giocato il 17 dicembre del 2000. Roma è Roma, il derby della capitale è LA partita, una di quelle giornate di campionato che, in un modo o nell’altro, può cambiarti il destino. Purtroppo, quel giorno il protagonista in negativo fu il difensore laziale Paolo Negro, autore di una sfortunata autorete che consegnò la vittoria in mano alla Roma e ai romanisti, i quali ancora oggi ricordano con piacere quella partita. L’azione andò più o meno così: al 70’ Cafu dopo una delle sue cavalcate buttò nel mezzo un pallone diretto a Gabriel Omar Batistuta che però mancò la sfera. Cristiano Zanetti si avventò sul pallone e lo colpì di testa verso Peruzzi che, abilmente, respinse il pallone che Alessandro Nesta cercò di allontanare in rovesciata. Il destino volle che quel pallone finì proprio sul corpo di Negro che incolpevolmente fece finire il pallone dritto in rete. Uno a zero per i giallorossi e via di sfottò che ogni tanto, ancora oggi, allo stadio e sui social si rinnovano, tra un fotomontaggio e l’altro. Un’autorete sventurata passata alla storia proprio perché decisiva e segnata in un derby, la partita delle partite, nella capitale. Nonostante questo, però, il legame tra Paolo Negro e la Lazio è rimasto, nel tempo, forte e solido: tredici anni non si dimenticano facilmente e l’ex difensore (che negli ultimi anni fu anche capitano) venne salutato con grande affetto dai tifosi della Nord. Insomma, quando l’autorete diventa un evento da ricordare, nel bene o nel male! E’ capitato in altri derby. Izzo (Genoa) ha regalato il successo alla Samp (21, 22 ottobre 2016), Comotto ha segnato, nella porta sbagliata, nel Derby della Mole dell’aprile del 2003. La lista è lunga…

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n e d i s e r P i d Gran Florentino Perez di Luca Gandini

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FLORENTINO RE DI COPPE

U Grazie alla recente affermazione del Real Madrid nella Coppa del Mondo per Club, Florentino Pérez si è assicurato il 14° trofeo internazionale della sua gestione, diventando così il presidente più titolato di tutti i tempi.

n’epopea suddivisa in due diversi periodi. Spese folli, una marea di campioni, qualche incidente di percorso. Ma, soprattutto, 14 titoli internazionali conquistati, più di qualsiasi altro presidente nella storia del calcio. Più ancora che il Real Madrid di Raúl, di Ronaldo, di Zinédine Zidane, di Cristiano Ronaldo o di Sergio Ramos, è stato ed è il Real Madrid di Florentino Pérez, il principale artefice di una rinnovata egemonia dei Blancos sull’Europa e sul mondo dopo tanti, troppi anni trascorsi a recitare un ruolo non all’altezza del blasone del club e delle aspettative dei tifosi. Con la consapevolezza che dopo ogni titolo conquistato c’è sempre una nuova montagna da scalare, un ennesimo traguardo da rincorrere, un’asticella da portare ancora più in alto, con il cielo come unico limite. È questo il destino del Real Madrid, è questa la dolce condanna di Don Florentino. LUCI E OMBRE SUI “GALÁCTICOS” Classe 1948, madrileno doc, imprenditore con interessi nel campo delle costruzioni e delle telecomunicazioni, Florentino Pérez venne eletto per la prima volta presidente del Real Madrid il 17 luglio 2000. Solo poche settimane prima, i Blancos avevano vinto la loro ottava Coppa dei Campioni ed erano già una compagine formidabile, forte, tra gli al-

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GRANDI PRESIDENTI Florentino Perez

SILVIO HA FATTO 13 Al secondo posto di questa speciale classifica dei presidenti più titolati, con un comunque sontuoso palmarès di 13 trofei internazionali conquistati in 31 anni alla guida del Milan, troviamo Silvio Berlusconi. Divenuto massimo dirigente del club rossonero il 24 marzo 1986, non impiegò molto a scalare le gerarchie del calcio europeo e mondiale. Tra il 1989 e il 1990, infatti, grazie alle idee all’avanguardia dell’allenatore Arrigo Sacchi e al valore di una squadra imperniata sul trio olandese Frank Rijkaard - Marco van Basten - Ruud Gullit, il Diavolo poté festeggiare la vittoria di 2 Coppe dei Campioni, 2 Supercoppe Europee e 2 Coppe Intercontinentali. Traguardi raggiunti attraverso la cultura dello spettacolo e la volontà di imporre il proprio gioco in qualunque campo e contro qualsiasi avversario. Meno rigido nella filosofia tattica fu invece Fabio Capello, l’allenatore che successe a Sacchi e che portò un Milan ormai privo degli olandesi, ma sempre fortissimo per via della presenza di Paolo Maldini, Franco Baresi, Mauro Tassotti, Roberto Donadoni e Dejan Savicevic, al trionfo in Champions League nella stagione 1993/94 e a quello in Supercoppa Europea nell’inverno del 1995. Dopo qualche anno non brillantissimo in Europa, il Milan tornò a fare la voce grossa con Carlo Ancelotti, già protagonista in campo dei successi dell’era-Sacchi e ora condottiero di un Diavolo deciso a rinverdire gli antichi fasti. Nel 2003 la corazzata capitanata da Maldini e nobilitata dalla qualità di Dida, Alessandro Nesta, Andrea Pirlo, Rui Costa, Clarence Seedorf, Pippo Inzaghi e Andriy Shevchenko, prima si riprese la Champions League superando in finale la Juventus e poi la Supercoppa Europea ai danni del Porto del rampante José Mourinho. Perso Shevchenko, ma trovato in Kaká il nuovo astro del firmamento rossonero, il Milan, nonostante un Berlusconi ormai completamente assorbito dagli impegni politici, seppe riconfermarsi sul trono d’Europa e del mondo nel 2007. A maggio arrivò l’affermazione in Champions League contro il Liverpool griffata dalla doppietta di Inzaghi, ad agosto il successo sul Siviglia in Supercoppa Europea ed infine a dicembre l’apoteosi del Mondiale per Club, con uno strepitoso Kaká ad annichilire gli argentini del Boca Juniors. Fu il 18° titolo internazionale del Milan, il 13° dell’era-Berlusconi. In pochi avrebbero immaginato che sarebbe stato l’ultimo. Negli anni successivi, infatti, il progressivo disimpegno del presidente portò a un ridimensionamento dei valori tecnici della rosa e al conseguente tramonto delle ambizioni di grandezza dei tempi d’oro. Benché inevitabile, l’addio di Berlusconi al club, ufficializzato il 13 aprile 2017, rappresentò la chiusura di un’epoca comunque straordinaria e forse irripetibile per il Milan e per tutto il calcio italiano.

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Speciale il rapporto con Zidane, allenatore da tre Champions League al Real

tri, del giovanissimo portiere Iker Casillas, dell’insuperabile baluardo difensivo Fernando Hierro, dell’inarrestabile laterale sinistro brasiliano Roberto Carlos e del micidiale attaccante Raúl. Giusto per non presentarsi a mani vuote, Florentino stupì subito il mondo, acquistando dai rivali del Barcellona il fantasista portoghese Luís Figo per la cifra record di 140 miliardi di vecchie Lire. Non partì però con il piede giusto la sua avventura nel grande calcio internazionale. Impegnato ad agosto in Supercoppa Europea contro i turchi del Galatasaray e a novembre in Coppa Intercontinentale contro gli argentini del Boca Juniors, il Real Madrid rimediò due inaspettate sconfitte che non scalfirono comunque i propositi di grandezza del proprio ambizioso presidente. Nell’estate del 2001, infatti, dopo aver fallito anche l’obiettivo Champions, Florentino strappò alla Juventus con un’offerta monstre (150 miliardi) il fuoriclasse francese Zinédine Zidane, già Pallone d’Oro e campione del mondo e

d’Europa con la Nazionale. E i sogni di gloria del popolo merengue tornarono ad avverarsi. Nella finale di Glasgow del 15 maggio 2002, quella della sofferta vittoria sul Bayer Leverkusen proprio grazie a un capolavoro di Zidane, Florentino poté finalmente alzare al cielo il suo primo trofeo internazionale, il più prestigioso possibile, quella Champions League che andava tra l’altro a coronare nel migliore dei modi l’anno del centenario del club. Il 30 agosto arrivò anche la Supercoppa Europea dopo un’esaltante lezione di calcio agli olandesi del Feyenoord, nelle stesse ore in cui stava per andare in porto la clamorosa trattativa per l’acquisto di Ronaldo dall’Inter. E il 3 dicembre, a Yokohama, fu proprio il Fenomeno ad aprire le marcature nel 2-0 all’Olimpia Asunción che diede al Real Madrid la terza Coppa Intercontinentale della sua storia. Dopodiché iniziò una fase piuttosto contraddittoria, per quelli che ormai erano stati ribattezzati i “Galácticos”. Sarebbe proseguita la politica degli acquisti sensa-

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GRANDI PRESIDENTI Florentino Perez

“Con Perez come presidente il Real ha vinto 5 Champions League, 1 Coppa Intercontinentale, 4 Supercoppe Europee e 4 Coppe del Mondo per Club”. zionali (quello di David Beckham nell’estate 2003, ad esempio, o quello di Michael Owen un anno più tardi), ma in Champions League Florentino e i suoi uomini raccolsero solo delusioni. Fuori in semifinale con la Juventus, fuori ai quarti con il Monaco, poi addirittura agli ottavi e sempre per mano della Juventus, infine l’eliminazione agli ottavi contro l’Arsenal, all’indomani della quale, deluso e sfiduciato, il presidente decise di rassegnare le dimissioni. Era il 27 febbraio 2006. In poco meno di sei stagioni aveva portato il club alla vittoria di 2 campionati e 2 Supercoppe di Spagna; 1 Champions League, 1 Supercoppa Europea e 1 Coppa Intercontinentale. Un bilancio soddisfacente ma probabilmente non esaltante in rapporto alla quantità di denaro investito e alla qualità dei campioni approdati al “Santiago Bernabéu”. Preferì quindi staccare la spina per un po’, senza però mai abbandonare del tutto l’idea di un eventuale ritorno e di una clamorosa rivincita. INSEGUENDO LA “DÉCIMA” Il 1° giugno 2009, eccolo infatti di nuovo eletto alla presidenza di un Real Madrid in evidente affanno. Il Milan e il Boca Juniors erano saldamente in testa alla classifica dei club più titolati al mondo con 18 trofei internazionali ciascuno, mentre i Blancos erano bloccati a quota 16 dal 3 dicembre 2002, da quella Coppa Intercontinentale vin-

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ta in Giappone di cui abbiamo già parlato. Per giunta, i grandi rivali del Barcellona di Pep Guardiola e Leo Messi avevano appena inaugurato il loro maestoso ciclo e la piazza merengue era in subbuglio. Florentino diede una doppia scossa all’ambiente portando al “Bernabéu” gli ultimi due vincitori del Pallone d’Oro. Uno era il brasiliano Kaká, 27enne fantasista a tutto campo strappato al Milan per 67,2 milioni di Euro. L’altro era il portoghese Cristiano Ronaldo, 24 anni, asso d’attacco prelevato dal Manchester United per 94 milioni. Se l’operazione Kaká si sarebbe rivelata un fiasco, CR7 avrebbe invece scritto la storia del club negli anni a venire. Ma andiamo per ordine, perché anche questo Florentino-bis non partì sotto i migliori auspici. Il primo anno l’assalto alla decima Champions si arenò agli ottavi contro il Lione, cosa che spinse il presidente a puntare

La Décima, una delle più grandi soddisfazioni nell’era Pérez


tutto sull’allenatore più famoso e carismatico in circolazione, José Mourinho, fresco di Triplete con l’Inter. Furono tre stagioni in chiaroscuro, caratterizzate dalla vittoria di 1 Liga, 1 Coppa del Re e 1 Supercoppa di Spagna, ma a cui mancò la consacrazione europea, con la Coppa dalle grandi orecchie sempre vista svanire in semifinale. Una colpa che Mourinho pagò con l’esonero nell’estate del 2013. Florentino decise allora di affidarsi a un altro specialista in fatto di Champions, il nostro Carlo Ancelotti, al quale, come regalo di benvenuto, fece recapitare un fuoriclasse in prepotente ascesa, l’ala sinistra gallese Gareth Bale. Il Real ora non aveva più scuse. Non poteva più fallire l’assalto alla “Décima”, e così con convinzione, un pizzico di fortuna e le prodezze dei suoi favolosi assi, ce la fece, nella notte di Lisbona del 24 maggio 2014. Derby infuocato con un Atlético Madrid in vantaggio fino al 93°, poi il poderoso colpo di testa di Sergio Ramos a riprendere per i capelli una situazione disperata e il colpo di reni decisivo ai supplementari: 4-1 Real e la Champions tornò a risplendere a Plaza de Cibeles. DITTATURA BLANCA Arrivarono poi anche le ciliegine. Il 12 agosto, a Cardiff, il meritato 2-0 al Siviglia firmato da Cristiano Ronaldo valse la Supercoppa Europea, mentre il 20 dicembre un identico punteggio diede ai Blancos la Coppa del Mondo per Club a spese degli argentini del San Lorenzo. Ancelotti non seppe però bissare il trionfo in Champions (fuori in semifinale con la Juventus) e ci rimise la panchina. Florentino lo sostituì con Rafa Benítez, tecnico sicuramente preparato ma mai veramente entrato in sintonia con i big dello spogliatoio e per questo prontamente esonerato e rimpiazzato dalla scommessa Zinédine Zidane, rampante allenatore del Real Madrid Castilla, subito bravo a riportare serenità e convinzione in tutto l’am-

biente. Ancora una volta abili a centrare la finale di Champions League, il 28 maggio 2016 i Blancos si ritrovarono di fronte a “San Siro” i cugini dell’Atlético. E fu di nuovo battaglia. 1-1 dopo i tempi regolamentari, poi rigori e tensione alle stelle. Il tentativo del colchonero Juanfran si stampò sul palo; subito dopo Cristiano Ronaldo non ebbe pietà e la “fiesta” fu tutta Real. Un crescendo di vittorie senza sosta, passato attraverso il conseguente successo in Supercoppa Europea, ancora ai danni del Siviglia, e la sofferta affermazione sui giapponesi del Kashima Antlers nel Mondiale per Club, con Cristiano Ronaldo mattatore con una tripletta. Anche il 2017 fu anno di Triplete internazionale. Il 3 giugno, a Cardiff, il sontuoso 4-1 alla Juventus significò dodicesima Champions; l’8 agosto, a Skopje, il convincente 2-1 nel big match con il Manchester United firmato Casemiro e Isco fruttò la Supercoppa Europea, mentre il 16 dicembre, ad Abu Dhabi, la solita zampata di CR7 regalò a Florentino anche il Mondiale per Club.

“...ma in Champions League Florentino e i suoi uomini raccolsero solo delusioni. Deluso e sfiduciato, il presidente decise di rassegnare le dimissioni. Era il 27 febbraio 2006”. Ma il Real poteva e voleva fare meglio. È storia del 2018, infatti, la cavalcata a tratti accidentata in Champions League, la Juventus e il Bayern Monaco superati tra mille polemiche ai quarti e in semifinale rispettivamente, e la finale con il Liverpool vinta anche grazie ad alcune clamorose papere del portiere dei

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GRANDI PRESIDENTI Florentino Perez

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TRIDENTE DI SUCCESSO Il terzo gradino del podio dei presidenti plurititolati a livello internazionale è occupato da tre protagonisti del grande calcio di Sudamerica, Africa ed Oceania rispettivamente, tutti a quota 10 successi. Il più noto è certamente Mauricio Macri, l’attuale Presidente della Repubblica Argentina, che in un periodo compreso tra il 13 dicembre 1995 e il 1° giugno 2008 ha portato il Boca Juniors alla conquista di 4 edizioni della Coppa Libertadores, 2 della Coppa Sudamericana, 2 della Recopa Sudamericana e, soprattutto, al doppio trionfo in Coppa Intercontinentale, il primo nel 2000 ai danni del Real Madrid di Florentino Pérez e il secondo nel 2003 a spese del Milan di Silvio Berlusconi. Hassan Hamdy, massimo dirigente del club egiziano dell’Al Ahly dal 7 maggio 2002 al 28 marzo 2014, ha invece messo la firma su 5 edizioni della Champions League Africana e altrettante della Supercoppa Africana. Curiosamente, dopo la vittoria in Supercoppa contro i tunisini del Club Sportif Sfaxien del 20 febbraio 2014, l’Al Ahly ha centrato il 19° trofeo internazionale della sua storia e ha così potuto fregiarsi del titolo di club più titolato al mondo superando Milan e Boca Juniors fermi a quota 18. Il meno famoso, ma comunque meritevole di menzione, è il neozelandese Ivan Vuksich, fondatore e attuale presidente dell’Auckland City, società che in soli 15 anni è già riuscita a imporsi in 9 edizioni della Champions League d’Oceania e in 1 edizione della meno rinomata, ma pur sempre ufficiale, Coppa del Presidente dell’OFC. D’accordo, il calcio di alto livello magari non sarà di scena laggiù, ma il grande Florentino può già iniziare a preoccuparsi: se mantiene questa media, il buon Mr. Vuksich è destinato presto a polverizzare qualsiasi record...!

Reds. Ancora una volta, al momento della verità, la proverbiale abitudine al successo e la mentalità vincente del Real Madrid fecero la differenza e agli altri non restarono che le briciole. Ad aprire le prime crepe nella perfetta macchina da calcio madridista sono invece stati, in estate, gli addii di due insostituibili compagni di baldorie in tante trionfali scorribande, “Zizou” Zidane e Cristiano Ronaldo. Il conseguente immobilismo sul mercato, le incertezze del nuovo tecnico Julen Lopetegui e una comprensibile sindrome da appagamento, sono stati alla base della brutta sconfitta di agosto in Supercoppa Europea con l’Atlético Madrid e di un cammino altalenante sia in Liga che in Champions. Tutto è invece girato per il verso giusto a dicembre, con il netto successo nel Mondiale per Club, impreziosito dalle prodezze del geniale regista croato Luka Modric, fresco di Pallone d’Oro ma che insistenti voci di mercato vor-

rebbero lontano da Madrid per la prossima stagione. Ci sarà tempo e modo di affrontare certi discorsi. Perché ora Florentino Pérez ha finalmente coronato il suo sogno: non solo ha riportato il Real Madrid in vetta alla classifica dei club più titolati al mondo con 27 trofei internazionali complessivi, ma può anche rivendicare con orgoglio il fatto che 14 di essi siano arrivati proprio durante la sua presidenza. Un record a livello mondiale. Ricapitolando: 5 Champions League, 1 Coppa Intercontinentale, 4 Supercoppe Europee e 4 Coppe del Mondo per Club. Adesso gli resta solo un obiettivo: raggiungere o magari superare il suo illustre predecessore Santiago Bernabéu, l’unico presidente ad aver vinto 6 edizioni della Coppa dei Campioni. Non sarà facile, ma quando si ha a che fare con un club del genere e con un Re Mida del calcio come Don Florentino, qualsiasi sogno può diventare realtà.

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ERIE S e l a i c e p S

B

Trequartisti di Daniele Perticari

B come‌ Fantasia

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Se in A si guarda al concreto, la serie cadetta si distingue per una riscoperta del fantasista. Sono tante le squadre che sfruttano il genio (e a volte la sregolatezza) dei giocatori più imprevedibili.

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rovate a chiudere gli occhi. Ad immaginare il prato del campo di calcio. E i tifosi. Coloro per i quali la liturgia della partita settimanale è un appuntamento che, non avendolo, mancherebbe fiato e ossigeno. La palla, l’erba. E un giocatore. Ecco, senza dubbio quel giocatore, dovunque voi siate, ha la maglia col numero “dieci” e gioca non troppo e neanche poco vicino alla porta. Il perché lo può tranquillamente spiegare Eduardo Galeano nell’enciclopedia di ogni amante del fùtbol “Splendori e miserie del gioco del calcio”. Lo spiega parlando del brasiliano Didì. Direte voi: “Ma Didì non vestì la 10 nel Brasile dei sogni!”. Appunto. Parla di Didì e “lei”, grazie ad una testimonianza raccolta da Roberto Moura. “La colpivo di tacco, di punta, le dicevo “Vieni, piccolina”. Le volevo un bene dell’anima, la trattavo con lo stesso affetto con cui tratto mia moglie. Perché lei è fuoco. Per questo ai ragazzi dico sempre: mi raccomando, rispettatela. È una ragazzina che va trattata con amore”. Parla, ovviamente, della palla. DIECI… NON DIECI Avanti le lancette del tempo, torniamo ai gior-

ni nostri. E pensiamo ai campi da gioco: nel campionato di Serie B ce ne sono a iosa (alcuni da rivedere, a dir la verità). E andiamo con la mente anche ai palloni da trattare con reverenza. Ecco, come Didì, ci sono anche ragazzi in parte giovani che stanno dimostrando proprio quella voglia di corteggiarla, la palla. Con piedi e idee da numero 10, ma senza quel numero sulla maglia. È una tendenza del tutto nuova, quella che in questo campionato ha visto diversi allenatori della serie cadetta accartocciare la vecchia convinzione che il giocatore dietro le punte sia poco funzionale rispetto a uno schieramento con densità maggiore sulle fasce laterali. E allora, se fate un giro per l’Italia della Serie B, vi accorgerete che i partiti che si contendono la supremazia politica della tattica offensiva si dividono in due opposte fazioni. Quella con le due ali (pronte magari a ripiegare come quinte di centrocampo) e il centravanti, e quella che vuole due attaccanti assortiti e un trequartista ad azionarli. Proprio su questi vogliamo concentrare la nostra attenzione, perché spesso è grazie a loro che i bambini chiedono ai loro genitori di portarli e riportarli allo stadio, per ammirare e scolpire nella loro memoria fantastica uno stop, un lancio, una punizione, un’idea, una carezza: insomma, calcio. Puro e semplice calcio. Vi diamo un’altra notizia: spesso queste idee, queste carezze, questo calcio, sono puro e semplice “Made in Italy”. Magari per diversi di questi interpreti la carta d’identità non è ancora digitale, come quelle che rilasciano oggi ai neomaggiorenni. Siete pronti per fare “Il giro d’Italia dei trequartisti della Serie B”? Allacciate le cinture, si parte! AMD - ALINO MANCINO DIVINO Partiamo dal “dieci” più dieci di tutti. Quello che ha coraggio, altruismo e fantasia. E che, proprio per associazione calcistico-etimologica ha ricevuto la dote magica sul piede “de Dios”, il sinistro. Il ritorno di Alino Diamanti (numero 20) a Livorno ha messo il timbro in-

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ERIE B

SPECIALE S Trequartisti

delebile sulla possibilità che nel campionato cadetto di oggi si possa avere un giocatore che, in un colpo solo, possa accendere e accendersi nello spazio di due metri. Perché è proprio la capacità del toscano di sapere sempre dove voler arrivare e far arrivare la sua idea di calcio, la sua forza migliore. Diamanti, ancora e come sempre, va a raccogliere la palla e non si cura se l’avversario diretto gli è davanti. Ok, la rapidità non è più la stessa di quando lasciava sul posto ogni (ripetiamo, ogni) difensore della serie A, ma le idee arrivano sempre prima del resto. Un esempio? La traversa contro il Foggia, colpita tra i due gol che hanno regalato la vittoria ai suoi. Un dribbling, un tiro forte, il portiere che non riesce neanche a smanacciarla. Ah, scusate, dimenticavamo di dirvi che il tutto è accaduto a sessanta metri dalla porta avversaria. Il tutto considerando che, oggi come sempre, c’è una mattonella di colore rosso amaranto, quella che si trova un po’ sulla destra della massima estensione della lunetta dell’area, dove è preferibile evitare, pena il gol subito, di fargli appoggiare il pallone su calcio piazzato. “NIKOLAS&SANDRO SRL”: A BRESCIA SI INVENTA CALCIO Il vento dell’est, e adesso ci spostiamo nella zona alta della classifica, ha trasformato un’ala in trottolino che, da qualche mese, ha dato in mano al suo commercialista i documenti di una “Srl” del tutto particolare. Lo spazio privato occupato per le attività imprenditoriali è principalmente quello dello stadio Rigamonti di Brescia, dove Nikolas Spalek (numero 7), brevilineo biondino dal destro di fuoco, si è associato con un altro “baciato dal Signore” come Sandro Tonali sul come occupare i metri del tappeto verde per fare impazzire gli avversari delle Rondinelle. È la prima stagione senza l’Airone Caracciolo, e il fatto che Alfredo Donnarumma sia diventato più che una semplice sentenza in zona gol, accade soprattutto perché Spalek, arrivato in Italia dallo Zilina

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Il 25enne Verre è uno degli uomini chiave del Perugia

come l’interista Skriniar, ha perfettamente oliato i meccanismi che gli consentono di macinare gioco o procurare spazi a Tonali per trasformarsi, nei periodi della gara in cui c’è bisogno di iniezione di genio davanti, in terminale offensivo. Tonali sale? Spalek si allarga a destra, facendo leva sul suo piede forte. Tonali fa il “Pirlo”? Spalek gli dà la soluzione verticale, sapendo sempre di avere una bocca di fuoco come il capocannoniere del campionato là davanti. E il Brescia di Corini va, eccome se va. Almeno fino al giro di boa. MANCOSU, IL “RE” DEL TERRA-ARIA A Lecce, invece, è stata inaugurata nel 2016 un’attività di “Produzione missili terra-aria” (calcistici, s’intende, gli unici che vogliamo esistano al mondo). Stavolta non si tratta di una società, il titolare ed unico rappresentante ha raddoppiato il numero di maglia (da 4 a 8) salendo in Serie B e si chiama Marco Mancosu. Trovate in cadetteria un giocatore capace


di mettersi sempre dove non c’è traffico e di ritagliarsi un piccolo spazio per il lancio dei suoi fendenti. Destro o sinistro non importa. È quella la specialità della casa, oltre alla capacità di far girare i giallorossi proprio come mister Liverani vuole. La doppia cifra non è utopia. VERRE, UN PASSO AVANTI VERSO LA GLORIA A proposito di “missili” bisogna rifare qualche chilometro a nord, tornando nel cuore della penisola, per ritrovare un altro che del campionato cadetto ha scritto la storia, proprio con un colpo di genio da lontano. Valerio Verre (numero 5) ha toccato la Serie A da talento top del nostro calcio. Se l’è conquistata in quella meravigliosa (per lui e per il popolo pescarese) notte di Trapani dove il suo inconscio gli ha consigliato di calciare al volo quella palla a mezz’altezza qualche metro più avanti della linea del centrocampo di Serse Cosmi. Quel

A Lecce si godono Marco Mancosu, fratello di Matteo e Marcello

gol con il Pescara di Oddo – nella finale di ritorno dei playoff di tre anni fa - resta, a furor di popolo, la gemma più bella della storia recente degli spareggi promozione ed è per questo che mister Nesta ha capito da subito che quello che inizialmente avrebbe dovuto essere uno dei suoi interni coi piedi buoni doveva avanzare fino al ruolo di “diez” alle spalle di Vido e Sadiq, o Melchiorri quando la sfortuna smetterà di perseguitarlo coi vari fastidi fisici. SCHENETTI-FALLETTI, I “DIEZ” PERFETTI C’è un trequartista silenzioso, poi, ancor più a nord. Il termine “furetto”, forse, è inflazionato. Ma lui è “Il Furetto” per antonomasia. Disegna calcio dribblando in rapidità. Arriva sempre al posto giusto nel momento giusto. Ha forza fisica nelle gambe e rapidità di pensiero. Si chiama Andrea Schenetti, veste la maglia numero 7, folleggia al Tombolato di Cittadella e, se molte delle partite della Serie B sono di alto livello tecnico, è anche grazie ai suoi movimenti e alla frequenza con cui alimenta il gioco sempre spettacolare dei veneti di Venturato. Non abbiamo concluso ancora il nostro viaggio, perché prima della fine bisogna fare una sosta a Palermo, dove Cesar Falletti (numero 20) sta buttandosi alle spalle un anno stregato come quello passato riprovando a progettare la meravigliosa autostrada che parte dalla linea laterale mancina e termina sulla linea dell’area di rigore avversaria. A Terni era sentenza: palla al piede, tocco esclusivamente di destro, difensori al bar fino al “punto G” dove scagliare il suo fendente velenoso ma forte, preciso e ad effetto. Il tutto giocando da zanzara, sempre, immancabilmente, da “diez”, senza averlo sulla maglia. Come tutti gli altri. Come Firenze o Rhoden del Crotone, Galano del Foggia o come Ninkovic dell’Ascoli, che al mercato di gennaio ha trovato in Ciciretti un delizioso alleato in bianconero. Gente che il numero 10 non ce l’ha sulle spalle, per propria scelta, gente a cui il “diez” dovrebbe essere riconosciuto honoris causa.

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ERIE S e l a i c e p S ‘ Nikola Ninkovic

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Intervista esclusiva

di Daniele Perticari

Tempesta Bianconera ‘ Intervista a Nikola Ninkovic, fantasista dell’Ascoli e prototipo del ruolo di trequartista. Foto Ascoli Calcio 1898 FC S.p.A.

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empesta Balcanica. Pasticcere di Bogatic. San Nikola, ovvero Babbo Natale. Bufera che arriva dai freddi mari. Fornitore di pelle d’oca. Ad Ascoli sono bastati pochi allenamenti agli ordini di Vincenzo Vivarini per innamorarsi, tutti, di un ragazzo che parla poco (preferibilmente nulla), sorride poco, esterna poco, ma che il Dio Eupalla ha premiato con mente e piedi da fenomeno vero. La storia di Nikola Ninković nel Piceno è infarcita di definizioni assegnategli da stampa e tifosi. E da emozioni celate che esplodono quando, con lui, ci sediamo e pronunciamo la parola chiave: “Partizan”. “E pensare che a dieci anni – ci ha detto in Esclusiva per Calcio 2000 il numero 11 biancone-

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ro, dalla testa ai piedi bianconero (scoprirete il perché) – avevamo seri dubbi che potessi continuare a giocare a calcio. I miei si sono trasferiti, imponendolo come condizione alla società di Belgrado, per starmi vicino dalla nostra piccola Bogatic (un’ora di distanza dalla capitale, n.d.r.) lasciando tutto. Lavoro, casa, affetti. E quando in un anno sono cresciuto di quindici/venti centimetri di statura le mie ginocchia hanno iniziato a farmi male, sempre di più. Il rischio che non potessi continuare il mio percorso nella scuola calcio del Partizan era grande. Un rischio mio e di tutti i miei cari”. Invece, le ginocchia hanno smesso di tormentare Nikola che un bel giorno è avvenuta la magia. “Giocavamo nella Champions League Under 17 contro lo Shakthar Donestk. Feci doppietta e assist. Fu il giorno in cui la mia vita calcistica cambiò”. Usiamo un paragone: è come se a Trigoria, dieci anni fa, fosse stato presente ad una partita degli Allievi Francesco Totti e avesse messo gli occhi su un ragazzino in giallorosso che lo aveva entusiasmato. Il “Totti” della situazione si chiama Sasa Ilic, è la leggenda e il capitano storico dei bianconeri, il quale non esitò nell’andare nell’ufficio dell’allenatore della prima squadra. “Quel ragazzinodisse - da oggi si allena con noi”. “Tutto iniziò da lì. Arrivò anche il momento dell’esordio nei preliminari di Champions. Avevo 16 anni, giocavamo fuori casa contro lo Shkëndija. Mi sono detto: se sbagli, è finita”. Com’è andata si capisce dal fatto che Nikola Ninković de-

tiene ad oggi il record di capitano più giovane dell’intera storia del Partizan, data la fascia al braccio all’età di 17 anni. E disegna calcio ad Ascoli e in tutti gli stadi della B. “So di poter giocare in serie A, magari un giorno potrei anche andare a Madrid, contro il Real e vincere proprio con la maglia del Picchio. Ma io vivo per il Partizan. La mia vita, i miei amici, il mio cuore, è per il Partizan. Ed è lì che voglio tornare anche prima dei 30 anni. Per vedere lo stadio pieno, per vincere il derby con la Stella Rossa, per fare felice la mia gente”. Intanto chi è felice, e si stropiccia gli occhi, è la gente picena. Non ha la 10, vero. Ma è “Il Trequartista”. Vede il gioco due secondi prima degli altri (“E’ una mia dote naturale, non si allena”). A volte fa il pasticcere che confeziona cioccolatini per gli attaccanti, altre lo slalomista, altre il distruttore, ma delle certezze altrui. In pratica, un predestinato.

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i s u l c s e a t intervis Emanuele Giaccherini di Sergio Stanco

L’uomo dei Sogni

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Incontriamo Emanuele Giaccherini, centrocampista del Chievo a caccia di un’altra impresa da aggiungere al suo personalissimo palmarès …

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manuele Giaccherini è uno che per “arrivare” ha sudato, e tanto. È uno di quelli a cui da piccolo dicevano “Bravo eh, ma troppo gracilino. Ci spiace”. Dunque questa è anche una storia di perseveranza, di costanza, di carattere: non mollare mai. Oggi come allora. Tutti danno il Chievo per spacciato, ma Giaccherini e compagni non hanno nessuna intenzione di alzare bandiera bianca. Anzi. “Magari non ce la faremo, ma nel caso lo sapremo solo a maggio, perché noi lotteremo fino alla fine”. È questo lo spirito che ha portato Emanuele in tre anni dall’essere ad un passo dal mollare tutto, fino alla Nazionale, a vincere scudetti, a meritarsi gli elogi dei suoi allenatori, a ritagliarsi una carriera importante. La ripercorriamo tappa per tappa grazie al suo racconto davvero appassionante… Dunque, è vera la storia che volevi mollare tutto e andare a fare l’operaio o è la classica leggenda metropolitana? “No, no, è tutto vero. Era il 2008, avevo 23 anni e tornavo al Cesena dopo l’ennesimo prestito, al Pavia. Avevo fatto bene e mi aspettavo di essere accolto in altra maniera. Invece sono finito fuori rosa. A quel punto ho chiamato mio padre e il mio procuratore, ero davvero demoralizzato e ho detto loro che non valeva la pena continuare a lottare per prendere quello che avrei potuto guadagnare facendo l’operaio, preferivo tornare a casa, giocare in promozione e andare a lavorare. Sia papà che il mio agente (Furio

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INTERVISTA

ESCLUSIVA

Emanuele Giaccherini

L’investitura Emanuele Giaccherini ha speso parole di elogio per Mehdi Leris: “È tecnico, molto bravo con il pallone tra i piedi e lo sa. Forse fin troppo bene. Deve diventare anche concreto, rendersi conto che spesso giocare semplice è molto più efficace. Non c’è dubbio, però, che abbia grandi qualità e un grande futuro davanti a lui”. Parole importanti, soprattutto se espresse da uno che di tecnica e qualità se ne intende. Leris è un classe ’98, attaccante di nazionalità francese ma di origine spagnola da parte di padre e algerina da parte di madre. Il suo idolo è sempre stato Zinedine Zidane, per questo quando la Juve lo ha chiesto in prestito al Chievo gli sarà sembrato di toccare il cielo con un dito. Dopo una stagione nella Primavera, però, i bianconeri non lo riscattano e torna a Verona, dove continua la sua crescita, fino ad esordire in Serie A ed attirare nuovamente le attenzioni delle big. Che dalle parti di Torino, per una volta, si siano sbagliati?

Valcareggi, n.d.r.) mi ripetevano di aspettare, di vedere come sarebbe andata l’estate, ma io ero insofferente, la situazione mi stava facendo impazzire. Mi voleva anche la Pistoiese, ma io avevo praticamente deciso di smettere…”. E poi cos’è successo? “Poi il destino ha deciso diversamente, a volte accadono cose imprevedibili che ti cambiano la vita. A me è successo che un compagno si è dovuto assentare per un problema familiare e mancava uno per un’amichevole. Come al parco quando sei bambino, hai presente? Ecco, hanno chiamato me. Faccio quella amichevole e finalmente mister Bisoli mi vede giocare. A quel punto guarda il suo secondo e gli dice: “Questo è forte, non va da nessuna parte, serve a noi”. E da lì è cominciata un’altra vita…”. Pagato la cena a mister Bisoli?

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“Formalmente no, ma credo di averlo ripagato: abbiamo conquistato due promozioni di fila, dalla C alla A e poi ci siamo salvati in Serie A. Emozioni che resteranno indelebili e ci legheranno per sempre”. Quando da lì a poco hai vinto lo scudetto con la Juve cosa hai pensato? Te l’avessero detto allora? “Non ci avrei mai creduto ovviamente, ma devo dire che dopo quell’episodio di Cesena la mia carriera ha avuto un’accelerazione incredibile. In tre anni mi sono ritrovato catapultato dalla C alla Juve e poi alla Nazionale, che era praticamente il sogno di quando ero bambino. È stato pazzesco. Per altro in quegli anni alla Juve ho vinto uno scudetto incredibile contro un Milan che probabilmente era più forte di noi e ho perso un Europeo con la Nazionale in finale. Come facevo ad immaginarmi una roba simile? Impossibile (sorride, n.d.r.)”.

Al Chievo, Giaccherini si trova a meraviglia


LA Carriera di Emanuele Stagione Squadra Totale Pres Reti 2004-2005 Forlì 23 2 2005-2007 Bellaria Igea M. 30 1 2007-2008 Pavia 32 11 2008-2009 Cesena 35 8 2009-2010 Cesena 34 9 2010-2011 Cesena 36 7 2011-2012 Juventus 27 3 2012-2013 Juventus 25 3 2013-2014 Sunderland 32 5 2014-2015 Sunderland 11 0 2015-2016 Bologna 28 7 2016-2017 Napoli 19 2 2017-gen. 2018 Napoli 5 0 gen.-giu. 2018 Chievo 13 3 2018-2019 Chievo 19 3 * Dati aggiornati al 02/02/2019

Torniamo all’infanzia: malato di calcio grazie a chi? “Mio papà è stato il primo a trasmettermi la passione. Lui è un grande tifoso dell’Inter e di conseguenza lo sono diventato anche io. Fin da bambino il pallone è stato il mio miglior amico, anche se a quei tempi era impossibile immaginare che sarebbe potuta diventare la mia professione”. Chi era il tuo idolo da ragazzino? “Da interista, non poteva essere che Ronaldo il fenomeno, anche se quel Ronaldo era un po’ l’idolo di tutti perché era un giocatore incredibile”. Chi, invece, dovrebbe essere l’idolo dei ragazzini di oggi? “Tutti guardano a Cristiano Ronaldo, ed è normale perché è un grandissimo campione, ma io vado controcorrente e dico Chiellini. E non perché sia un amico (sorride, n.d.r.). Negli ultimi anni è diventato un difensore meraviglioso e stagione dopo stagione si è migliorato tantissimo. Scelgo lui perché è un esempio di professionalità e dedizione: bisognerebbe far ve-

dere come si allena a tutte le scuole calcio del mondo. E nonostante tutto quello che ha vinto, continua a lavorare duro, non molla niente, ha mentalità e una concentrazione allucinanti”. A proposito di vittorie, anche tu non sei messo male: il punto più alto della tua carriera? Il momento che non dimenticherai mai, i brividi… “Gli scudetti con la Juve sono stati bellissimi, in particolare il primo perché è giunto inaspettato. Quella squadra veniva da due settimi posti consecutivi, pensare di poter finire davanti al Milan di Ibrahimovic e Thiago Silva era da pazzi. Però ci abbiamo sempre creduto, fin dal primo giorno. Tuttavia, come dicevo prima, arrivare in Nazionale per me è stato il coronamento di un sogno e, sebbene nel 2012 siamo andati ad un passo da diventare Campioni d’Europa, devo dire che le emozioni che ho vissuto in Francia nel 2016 resteranno indimenticabili. L’entusiasmo di quei giorni, la convinzione di poter riuscire a smentire tutti gli scettici, anche la delusione dopo l’eliminazione ai rigori contro la Germania, me li porterò sempre dietro. La notte sogno ancora quei momenti. Peccato per come sia andata, ero e resto convinto che se fossimo riusciti a passare contro la Germania, non ci avrebbe fermato più nessuno”. Hai giocato con Prandelli, poi con Conte, un po’ tutti gli allenatori ti hanno sempre “coccola-

La Nazionale, un sogno diventato realtà per il tuttofare Giaccherini

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INTERVISTA

ESCLUSIVA

Emanuele Giaccherini to”: che effetto ti fa sentir dire di te che sei il giocatore che tutti vorrebbero allenare? “È bello, ovviamente, perché è una cosa positiva. Il merito probabilmente è della mia disponibilità, della mia capacità di adattamento e – perché no – magari anche un po’ di quello che so fare in campo (sorride, ndr). Mi fa piacere perché nella mia carriera ne ho sentite di cotte e di crude sul mio conto, per alcuni ero il miglior dodicesimo, per altri non ero degno di vestire la maglia della Nazionale perché non giocavo nemmeno nella Juve. Per fortuna alla fine la formazione la fanno gli allenatori”. Un po’ la storia di Giaccherinho, no? Cosa hai pensato quando Conte ti definì così? “Mi ha fatto piacere, perché è un po’ la sintesi di quanto ti dicevo prima. Dopo una partita di Coppa Italia, nella quale ho fatto un gol molto bello, in conferenza stampa disse: “Se si chiamasse Giaccherinho lo considerereste in maniera diversa”. Lo disse in un’accezione molto positiva, nel senso che magari siamo un po’ troppo esterofili e a volte ci dimentichiamo che anche noi italiani sappiamo giocare bene a calcio e non abbiamo nulla da invidiare a nessuno”. Sei stato allenato da tanti grandi allenatori: in cosa Conte è unico? E cosa ha rappresentato per te? “Conte per me è stato come un padre adottivo. Quando sono arrivato alla Juve c’era grande scetticismo nei miei confronti: sai, io arrivavo dal Cesena, la Juve doveva rilanciarsi dopo due settimi posti consecutivi e non era Giaccherini l’acquisto che si aspettavano. Lo capisco, però poi le cose andarono alla grande. E il merito fu soprattutto del Mister, che mi ha letteralmente sconvolto la carriera, perché un conto è fare bene al Cesena, un altro è riuscirci alla Juve. Lui mi ha fatto crescere e diventare un giocatore vero”. Perché, invece, non è scattata la scintilla con Sarri? “Non te lo so dire, forse non gli andavo a genio come giocatore, però allora non capisco perché mi abbiano preso. Forse ero un acquisto del pre-

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Indimenticabili i successi con la casacca della Juventus

sidente? Non so, davvero, ancora oggi mi capita di chiedermelo ma non ho trovato una risposta. Forse la sua concezione di avere una rosa ristretta e fidarsi solo dei “titolari”, ma nell’arco di una stagione non puoi tenere la stessa condizione per undici mesi. Invece lui non cambiava proprio mai. E questo secondo me è stato un errore, come dimostra adesso Ancelotti: anche Maksimovic, che con Sarri non giocava mai, ora invece è uno su cui Ancelotti punta tantissimo. E infatti sta facendo molto bene”. Mai pensato: se avessi aspettato un po’ magari con Ancelotti… “No, mai, anche perché sarebbe dovuto arrivare molto prima: io avevo già chiesto la cessione a gennaio, dopo quattro mesi che ero arrivato a Napoli. Non perché stessi male, Napoli è una città bellissima con un pubblico meraviglioso, ma avevo avuto da subito la sensazione che il mio acquisto fosse stato un “errore tecnico”. Dunque ho parlato con la società e ho chiesto di essere ceduto: a quel tempo mi volevano la Roma e la Juve, ma il club non mi ha liberato. E questa è un’altra cosa che non mi spiego: perché tenere a tutti i costi un giocatore se poi non lo fai mai giocare? Quando è arrivato Ancelotti io tecnicamente ero ancora un giocatore del Napoli, ma è vero che i presidenti de Lauren-


tiis e Campedelli erano già d’accordo, io volevo restare al Chievo e loro non hanno fatto nulla per farmi ricredere. Si vede che doveva andare così”. E ora una nuova avventura al Chievo: che effetto ti ha fatto segnare proprio alla Juve la prima di campionato? “Un effetto bellissimo, un’emozione grande, perché quando segni contro la squadra più forte del campionato non puoi che essere felice. Poi non ho esultato per rispetto di un club che mi ha dato tantissimo, ma non è che non abbia gioito. Anzi”. E che Ronaldo ti abbia chiesto di fare la foto che poi hai pubblicato sui social? “Non è andata proprio così, come avrete certamente capito (sorride, n.d.r.). Beh vederlo da vicino rafforza la sensazione che sia qualcosa di unico, un giocatore con delle capacità sopra la media, ma sopra la media dei campioni. Ci sono i giocatori forti, poi ci sono i campioni e poi ci sono quelli come lui”. Che differenza c’è tra questa Juve e la tua? “Abissale. Noi per vincere siamo dovuti andare oltre i nostri limiti, questa Juve dà la sensazione di poter vincere con la sigaretta in bocca. Hanno un potenziale incredibile, se Ronaldo è in giornata storta, c’è Mandzukic, se no Douglas Costa, Dybala e tutti gli altri. Noi dovevamo lottare, sudare, lavorare, metterci un’intensità incredibile, altrimenti non andavamo da nessuna parte”. Avevate iniziato bene la stagione, contro la Juve una grande gara… poi cosa è successo? “È successo che dopo la Juve abbiamo perso 6-1 a Firenze e ci siamo un po’ disuniti, abbiamo perso le certezze e la fiducia. Poi abbiamo anche provato a cambiare modulo e forse questo ci ha confusi ancora di più, perché è stato come aver buttato via il tempo della preparazione. Poi l’arrivo di Ventura ha stravolto ancora tutto e proprio quando ci stavamo abituando, lui ha deciso di lasciare e abbiamo dovuto ricominciare da capo. Infine anche la fortuna non ci è stata amica, perché abbiamo perso partite che

non meritavamo di perdere”. Poi cos’è cambiato? “Diciamo che abbiamo ritrovato compattezza: Mister Di Carlo ha toccato poche corde ma quelle giuste. Innanzitutto ha lavorato sul morale, sulla convinzione, poi ha sistemato la difesa e ci ha ridato fiducia. E i risultati dimostrano che siamo sulla strada giusta”. Nessuno più di te che il sogno l’hai realizzato può credere nei sogni: perché credere nella salvezza? “Perché c’è lo spirito giusto, perché abbiamo tanti giocatori esperti e di qualità, perché non siamo inferiori ad altre squadre, perché abbiamo tifosi splendidi che ci sono sempre stati vicini, anche quando sembrava tutto perduto. Io ci credo e come me tutti i miei compagni. È difficile, ovviamente, ma non impossibile”. Il Chievo è un mix di esperienza e giovani: chi ti ha sorpreso di più? “Tra i più giovani, Bani e De Paoli sono quelli che stanno giocando di più e secondo me sono ottimi elementi. Forse quello con più tecnica di tutti è Mehdi Leris, che è bravo ed ha ancora ampi margini di miglioramento. Quando imparerà ad essere più concreto diventerà un giocatore completo”. Gli esempi al Chievo non mancano: tu hai già pensato cosa fare da grande o hai ancora sogni da realizzare? “No, non so ancora, perché vorrei giocare ancora tanti anni. Sto bene fisicamente e finché sarà così voglio continuare, poi non so cosa succederà. Non so se farò l’allenatore, ma nel caso mi piacerebbe riuscire a farlo in Premier League. Per tornare da calciatore mi sa che sono troppo vecchio e allora spero di farlo in altra veste. Ad ogni modo, mi piacerebbe avere ancora l’opportunità di assaporare quell’atmosfera, di vivere quell’ambiente meraviglioso: in Inghilterra sono stato benissimo e ho ricordi bellissimi di quel periodo. Un giorno, spero di riuscire a tornare”. E se in Inghilterra dovessero avere bisogno di qualcuno che realizza i sogni, sanno a chi rivolgersi…

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SPECIALE

Inglesi a Torino di Gianfranco Giordano

Da Savage a Ramsey, i britannici alla conquista di Madama‌

Il leggendario John Charles - Liverani

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DAL BIG BEN ALLA MOLE

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calciatori che hanno passato La Manica per giocare a Torino non sono stati molti, solitamente i britannici preferiscono stare a casa loro ad alternare campo e pub. I pochi arrivati erano comunque tutti buoni se non ottimi giocatori, purtroppo spesso sono arrivati troppo presto o troppo tardi e in pochi sono riusciti a dimostrare il loro talento. La maggior parte ha comunque dimostrato impegno e sono rimasti nei ricordi dei tifosi (non sempre rimembranze positive). La prima squadra fondata in Italia è il Torino Football & Cricket Club nel 1887, seguita due anni più tardi dal Nobili Torino, nel 1891 i due club si fondano dando vita all’Internazionale Torino, il club si scioglierà nel 1900, nel frattempo nel 1897 era nata la Juventus. Fin dai primi anni era ovviamente massiccia la presenza di giocatori inglesi e scozzesi nelle squadre torinesi. Nell’Internazionale che si classificò al secondo posto in campionato nel 1898 e nel 1899, metà squadra era composta da sudditi della regina Vittoria. Tra questi spiccavano Herbert Kilpin e Gordon “John” Savage, che saranno fondamentali nella storia di Milan e Juventus. Proprio Savage sarà il primo giocatore straniero a indossare la maglia del-

la Juventus, al tempo ancora rosa: nel 1901 e l’anno seguente. Sarà Savage, nel 1903, a farsi promotore dell’adozione delle casacche bianconere del Notts County. Negli anni che conducono alla Prima Guerra Mondiale sono diversi i giocatori britanni ad esibirsi a Torino, alcuni anche in entrambe le squadre. Tra questi vale la pena menzionare Arthur Rodgers che giocò per sei stagioni con il Torino. Bisogna aspettare la stagione 1948/49 per rivedere un calciatore inglese in riva al Po. La Juventus ingaggia William Jordan, mezzala del Tottenham, che dimostrò un buon controllo di palla ma scarso dinamismo e poca fantasia. Preda della malinconia per la fidanzata rimasta a Londra, spese un patrimonio in telefonate, non si ambientò mai in città e a fine stagione chiese di tornare in Inghilterra. Per lui 20 presenze e 5 reti nella sua unica stagione torinese. Nell’estate del 1957 la Juventus, reduce da un mediocre nono posto in campionato, decide di ingaggiare una coppia di attaccanti fortissimi e bene assortiti da affiancare a Boniperti. Oltre al funambolo argentino Omar Sivori, arriva a Torino il gallese John Charles, proveniente dal Leeds United. Soprannominato il Gigante Buono perché uni-

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SPECIALE

Inglesi a Torino

NEL NOME DI BAKER Tutto comincia quando Roberto, torinese di fede granata, si traferisce a Kirkclady, cittadina del Fife di circa 46.000 abitanti a 100 chilometri da Glasgow. Da buon appassionato di calcio appena arrivato nella nuova città comincia a seguire la squadra locale, il Raith Rovers FC. Lo stadio è piccolo, tutti si conoscono e ai tifosi dei Rovers si allarga il cuore quando apprendono che il nuovo amico italiano è tifoso del Torino, squadra dove avevano militato un idolo locale: Joe Baker qui aveva concluso la carriera, e Denis Law, uno dei calciatori scozzesi più famosi di sempre. In particolare, Roberto fa amicizia con David, poi ai due si unisce Elio torinista trapiantato a Glasgow. Nasce l’idea di fondare Scozia Granata, club di tifosi italo-scozzesi che si impegnano a seguire le due squadre e onorare i loro idoli del passato con bevute e tornei di calcio a cui partecipano squadre composte da tifosi di altri club. Capita spesso di andare al Grande Torino e vedere lo striscione del club oppure qualche tifoso con il kilt.

va un fisico imponente, 188 cm per 90 chili, ad una correttezza esemplare in campo, vinse il titolo di capocannoniere alla sua prima stagione italiana. Nonostante la stazza fisica riusciva ad essere elegante e coordinato nella corsa. Oltre al micidiale colpo di testa, possedeva un destro devastante ed era sempre pronto a dialogare con i compagni. In totale realizzò 105 reti in 180 presenze segnando subito all’esordio l’8 settembre 1957 contro il Verona. Dopo la Juventus, due brevi parentesi con Leeds United e Roma per poi tornare in pianta stabile in patria. Nello stesso anno la Juventus preleva Tony Marchi dal Tottenham, secondo le regole sugli oriundi non può farlo giocare e lo gira in prestito alla Lanerossi Vicenza. Dopo una sola stagione in Veneto, Marchi approda al Torino

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dove si ambienta con compagni e città ma non riesce ad adattarsi all’eccessivo difensivismo del calcio italiano. Centrocampista alto ed elegante, segna 4 reti in 29 presenze con il Torino prima di ritornare al Tottenham, dove diventa capitano della squadra. Per la stagione 1961/62 il Torino fa arrivare dal Regno Unito due talentuosi attaccanti, lo scozzese Denis Law e l’inglese Joe Baker. Law arriva dopo un’ottima stagione al Manchester City e viene pagato 110.000 sterline, al tempo cifra record per un giocatore britannico, Baker (padre inglese e madre scozzese, scelse la nazionale inglese) proviene dall’Hibernian. Entrambi giocavano nelle rispettive nazionali. Genio e sregolatezza, reti bellissime, dribbling ubriacanti e serate alcoliche, mal sopportavano le rigide regole del calcio italiano e spesso si rendevano protagonisti delle “notti brave” torinesi. Le cronache testimoniano di un gra-

Un gallese, di nome Ramsey, sta per entrare nel mondo di Madama


Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

ve incidente automobilistico avvenuto il 7 febbraio 1962, Baker che era alla guida, si ferisce seriamente e non gioca più in quella stagione, mentre Law riporta ferite lievi. L’avventura italiana dei due si conclude miseramente. Bilancio di 10 reti in 28 presenze per Law e 9 reti, di cui una nel derby, in 23 partite per Baker, poi ritorno nell’Isola rispettivamente con Manchester United, dove avrà una splendida carriera, farà parte della Santa Trinità e vincerà tra l’altro il Pallone d’Oro, e Arsenal. Dopo una stagione all’Inter, nel novembre del 1962 arriva al Torino un altro attaccante inglese, si tratta di Gerry Hitchens. Giocherà con i granata per tre stagioni segnando 37 reti in 127 partite, senza

le mattane dei due recenti predecessori. Forte fisicamente con un carattere indomabile, forgiato anche dal lavoro in miniera svolto quando era un ragazzo, preferibilmente mancino ma abile anche con il destro, Hitchens nelle tre stagioni al Filadelfia sa farsi apprezzare da tifosi e compagni: il colpo di testa e il fiuto per la rete le sue caratteristiche principali. Dopo Torino Hitchens giocherà con Atalanta e Cagliari, è il calciatore inglese con il maggior numero di reti segnate in Serie A. Passano quasi vent’anni prima di sentire nuovamente parlare inglese sotto la Mole, alla riapertura delle frontiere nell’estate del 1980, la Juventus insegue a lungo un giovane Maradona ma alla fine

Al Torino ha giocato Hart, portiere della nazionale inglese

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SPECIALE

Inglesi a Torino

Brady, l’irlandese che ha conquistato la Vecchia Signora

ingaggia l’irlandese Liam Brady dell’Arsenal. Centrocampista mancino, fisicamente normodotato, sopperiva alla scarsa velocità con un’eccellente visione di gioco e grande intelligenza tattica, gran tiro da fuori e millimetrici passaggi in profondità (il suo biglietto da visita). Dopo aver cominciato a giocare sull’out destro, si è accentrato diventando un affidabile regista e infallibile rigorista. Personaggio riservato, si adatta subito al calcio italiano e ne rispetta le regole. Nelle due stagioni con la Signora gioca 76 partite segnando 15 reti, l’ultima il 16 maggio 1982 a Catanzaro. Brady, nonostante sapesse che avrebbe lasciato la Juventus, da professionista esemplare, trasforma il rigore decisivo che assegna lo scudetto alla squadra bianconera. Dopo la Juventus Brady rimase ancora cinque stagioni in Italia (Sampdoria, Inter e Ascoli) prima di tornare in Inghilterra. Per la stagione 1987/88, una Juventus in fase di rinnovamento, punta su Ian Rush, centravanti del Liverpool e della nazionale gallese,

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LA STRANA COPPIA Uno grande, robusto e forte di testa, l’altro piccolo, scattante e con piedi formidabili. Uno disciplinato, calmo e ligio alle regole, l’altro indisciplinato, rissoso e refrattario a ogni regola. In pratica il diavolo e l’acqua santa. Stiamo parlando di Charles e Sivori, arrivati alla Juventus nel 1957 diventano subito una micidiale coppia offensiva capace di seminare terrore nelle difese avversarie e mandare in estasi i propri tifosi, insieme a Boniperti che completava il tridente offensivo. Tra i due nasce subito una grande intesa e un rapporto di stima e amicizia, spesso è Sivori a difendere il timido e troppo buono gallese, spesso è Charles a trattenere l’Argentino come quella volta che, dopo l’ennesimo cartellino rosso collezionato, rifilò una sberla al Cabezon per calmarlo ed evitargli ulteriori guai disciplinari.


uno degli attaccanti più forti e prolifici del calcio europeo. Vero animale d’area di rigore, è veloce, opportunista, capace di rubare il tempo ai difensori per colpire con il suo destro micidiale. Nonostante le aspettative e le incoraggianti parole di John Charles, fin da subito Rush fatica ad ambientarsi alla Juve e nel calcio italiano. Triste, malinconico, isolato, spesso in ritardo agli allenamenti e forse più puntuale in birreria, Rush non riesce a mantenere tutte le aspettative, rispecchiando il classico stereotipo del calciatore britannico incapace di far bene fuori dall’amato calcio inglese. Dopo 13 reti in 40 presenze, torna al Liverpool dove ritrova il sorriso e il feeling con la rete. Affidabile attaccante con le maglie di Crewe Alex e Aston Villa, David Platt arriva in Italia nel 1991 e dopo una buona stagione con la maglia del Bari, nonostante la retrocessione in Serie B, approda alla Juventus. Giocatore non dotato di un grande fisico ma veloce, opportunista e grintoso, a Torino viene impiegato a centrocampo ma non sfonda e dopo una sola stagione, 4 reti in 28 partite, viene ceduto alla Sampdoria. Il Torino nel 1997/98 tenta la risalita in Serie A e tra gli altri si affida a Tony Dorigo, terzino inglese (nato in Australia da padre italiano), proveniente dal Leeds United. Dorigo ha giocato in nazionale ed è stato uno dei difensori più forti d’Inghilterra ma ormai è in fase discendente, nonostante questo gioca una grande stagione dimostrando impegno e attaccamento alla maglia. Purtroppo, i granata falliscono la promozione perdendo lo spareggio con il Perugia ai rigori, proprio Dorigo sarà l’unico a sbagliare dal dischetto legando la sua permanenza in granata a quel negativo episodio. A fine stagione, prenderà un biglietto aereo per l’Inghilterra. Per lui 2 reti in 34

presenze con la maglia granata. A differenza di altri giocatori britannici Dorigo, forse anche per le sue origini, si è adattato benissimo in Italia anche grazie alla sua passione per il cibo. Già quando giocava in Inghilterra era solito frequentare ristoranti italiani, e durante la permanenza al Torino ha collaborato con la ditta inglese Dolmio per la realizzazione di sughi e condimenti. L’ultimo suddito di Sua Maestà a giocare nel Torino è Joe Hart. Difenderà la porta granata nella stagione 2016/17 collezionando 36 presenze e 62 reti al passivo. Dopo un promettente inizio di carriera, arriva a conquistare la maglia di titolare nella nazionale inglese ma con l’arrivo di Guardiola al Manchester City perde il posto da titolare. Il Torino lo prende in prestito per una stagione rilanciando la sua immagine e sperando di trovare un portiere quasi imbattibile, in realtà Hart alterna ottime prestazioni ad errori grossolani. Si dimostra un ottimo professionista ma non un giocatore in grado di condizionare le partite, a fine stagione ritorna a casa e imbocca un precoce viale del tramonto. Velocità, acrobazia, tiro potente e preciso, facilità di inserimento nelle difese avversarie, questo è Aaron Ramsey, ventottenne centrocampista gallese in procinto di approdare alla Juventus. Oltre alle numerose qualità tecniche che lo hanno portato ad essere uno dei migliori giocatori della Premiership, Ramsey si è imposto all’attenzione mediatica per quella che è definita la “maledizione di Ramsey”, spesso ma per fortuna non sempre, quando segna un gol nel giro di un paio di giorni muore un personaggio famoso. Qualche presenza anche in panchina per allenatori inglesi e scozzesi, senza comunque lasciare traccia nella storia dei club torinesi.

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Alla scoperta della storia della maglia del leggendario Benfica…

SER BENFIQUISTA

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a prima partita di calcio in territorio portoghese venne giocata nel 1875 a Camacha, nell’isola di Madeira, dove abitava un giovane inglese di nome Harry Hinton, che aveva portato un pallone da calcio al momento di trasferirsi nell’isola. Secondo fonti attendibili, il calcio arrivò nel Portogallo continentale nel 1888 grazie a

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due fratelli, Eduardo e Guilherme Pinto Basto, anche loro portarono con sé un pallone da calcio al ritorno in patria dall’Inghilterra. La prima partita di cui si ha traccia venne disputata a Lisbona il 22 gennaio 1889 tra una squadra di ragazzi locali e una di inglesi, vinsero i Portoghesi per 2-1. Il primo incontro ufficiale ebbe luogo ad Oporto il 2 marzo


1894, tra l’Oporto Cricket Club e una selezione di Lisbona. Alla partita presenziarono il re Carlo I e la regina Amelia. Vinsero per 1-0 gli ospiti che portarono a casa una coppa d’argento, gentilmente offerta dal re. Foot-Ball Club Lisbonense, Grupo Estrela, Grupo Pinto Basto, Foot-Ball Club Swits, Carcavelos Club, Lisbon Cricket, questi erano i club attivi a Lisbona alla fine dell’800 a cui si unì l’Internacional Football-Club nel 1902. Erano anni ruggenti in cui spesso le regole venivano improvvisate, quando c’erano, e le partite degeneravano in risse. Il 28 febbraio 1904 un gruppo di ragazzi del quartiere di Belém, quartiere aristocratico di Lisbona, si riunì nei locali della farmacia di proprietà di Pedro Augusto Franco, primo conte di Restelo e già sindaco della città, al fine di formare una squadra di calcio. Si ritrovarono 24 soci a fondare lo Sport Lisboa e tra questi Cosme Damião, che sarà giocatore, capitano, allenatore e dirigente del club per tanti anni. Il primo gennaio 1905 lo Sport Lisboa gioca la sua prima partita ufficiale vincendo 1-0 contro il Campo de Ourique, altra squadra di Lisbona, indossando una maglia rossa con un vistoso collo bianco a camicia e un altrettanto vistoso taschino bianco, pantaloni bianchi e calze nere con risvolti biancorossi. Il rosso simboleggiava la gioia, la vivacità e l’entusiasmo per la lotta sportiva, a differenza di molte squadre degli albori che provvedevano in proprio alla realizzazione delle maglie (ogni giocatore reperiva la sua maglia, con il risultato di vedere maglie diverse per tonalità e stile tra i giocatori). Lo Sport Lisboa fin dalla prima partita si è dotato di maglie di gioco, uguali per tutti, confezionato da una sartoria e pagato dai giocatori. Il primo terreno ad ospitare i giocatori dello Sport Lisboa è stato il Terras do Desembargador, vicino a un convento di Frati Salesiani a Belém, si trattava di un terreno pubblico dove poteva accedere chiunque e spesso degli intrusi entravano in campo durante la partita, inoltre quando la palla usciva dal ret-

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tangolo di gioco, si perdeva tempo per recuperarla. Molti giocatori erano aristocratici e si sentivano imbarazzati ad esibirsi davanti a estranei, altro problema importante era rappresentato dai militari che si esercitavano, anche a cavallo, sul quel terreno lasciandolo in condizioni pietose. Nella stagione 1906/07 lo Sport Lisboa partecipò al primo Campionato di Lisbona insieme a Carcavelos, Lisbon Cricket e Internacional, non esisteva ancora un campionato nazionale e le squadre portoghesi partecipavano a leghe regionali o locali. Intanto il club si trovò davanti ad una crisi finanziaria, dovuta principalmente alla mancanza di un campo di gioco recintato, la crisi venne superata grazie ad una raccolta fondi che portò nelle casse 27.000 Reis, ma non si riuscì ad impedire che otto giocatori (sette della prima squadra e uno della seconda squadra) passassero allo Sporting Clube de Portugal, sodalizio economicamente più forte, da qui nacque una forte rivalità esistente tutt’ora. Il primo dicembre 1907 andò in scena il primo derby tra Sport Lisboa e Sporting, vittoria dei Leoni per 2-1. Torniamo indietro al 26 luglio 1906 quando venne fondato il Grupo Sport Benfica, una polisportiva che vedeva come attività principali il ciclismo e l’atletica e che aveva la disponibilità di un terreno, adibito a partite di calcio ma soprattutto a feste ed eventi per le altre attività, a Quinta da Feiteira. Nel marzo 1908 il club cambiò deno-

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minazione in Sport Clube de Benfica. I dirigenti dei due sodalizi cominciarono a pensare a una fusione e il 4 settembre 1908 venne ufficializzata l’unione, lo Sport Lisboa portò in dote una squadra forte e affiatata, mentre lo Sport Clube de Benfica mise a disposizione il campo di gioco. Venne deciso di mantenere l’identità dei due club originari, così il nuovo sodalizio venne denominato Sport Lisboa e Benfica e mantenne lo status di polisportiva. Gli stemmi dei due club vennero uniti per creare un nuovo stemma sociale, venne deciso di adottare i colori rosso e bianco dello Sport Lisboa. Nel 1909/10 le Aquile vincono per la prima volta il Campionato di Lisbona, dalla stagione successiva, con la creazione dell’Associação de Futebol de Lisboa, il campionato ebbe un riconoscimento ufficiale. Nella stagione 1910/11 la maglia presenta un collo a girocollo bianco chiuso da laccetti, sempre presente il taschino bianco, pantaloncini e calzettoni rimangono invariati. Con questa divisa il 22 maggio 1911 il Benfica affronta per la prima volta una squadra straniera, ospiti di giornata i francesi dello Stade Bordelais Université che vincono la partita per 4-2, questa è l’ultima partita sul campo di Feiteira. I proprietari del campo avevano proposto al club un rinnovo dell’affitto a una cifra esorbitante, costringendo il Benfica a trasferirsi nella zona di Alcântara, nel 1913 altro trasloco nel-


la zona di Sete-Rios, ma anche qua la proprietà aumenta l’affitto e le Aquile si spostano nuovamente, questa volta in Avenida Gomes Pereira in zona di Benfica, il nuovo campo viene inaugurato l’11 novembre 1917. Il club comincia a prosperare, i soci aumentano e di conseguenza le casse si riempiono, forte di questa situazione il club chiede un prestito alla Caixa Geral de Depósitos e finalmente riesce a costruire un campo di proprietà, L’Estádio das Amoreiras, inaugurato il 13 dicembre 1925. I tempi cambiano e nella stagione 1929/30 arriva una divisa più moderna composta da maglia rossa con collo a V bianco, pantaloncini bianchi e calzettoni neri con bordi biancorossi, nella stagione 1932/33 compare per la prima volta lo stemma sulla maglia, all’interno di un ovale bianco. Nella stagione 1934/35 arriva il primo titolo a livello nazionale, le Aquile vincono il Campeonato de Portugal, torneo ad eliminazione diretta antenato della Coppa del Portogallo, battendo in finale lo Sporting per 2-1. Nella stessa stagione parte la Primeira Liga Experimental, primo campionato a livello nazionale, il Benfica si classifica al terzo posto dietro Porto e Sporting. La stagione seguente arriva il primo di tre titoli nazionali consecutivi, ormai il Benfica è una delle dominatrici del calcio lusitano. Alla fine degli anni 30 il governo portoghese decide di costruire un’autostrada ed espropria il terreno dove sorge L’Estádio das Amoreiras, risarcendo il Glorioso con una cifra enorme per comprare un nuovo terreno e costruire uno stadio. Dopo una stagione in esilio su tre campi di altre squadre, il Benfica si trasferì nello stadio di Campo Grande. Nella stagione 1943/44 i calzettoni diventano rossi con vistosi risvolti bianchi e cinque anni più tardi compaiono i numeri sulle maglie. Il 3 maggio 1949 il Benfica ospitò il Grande Torino per un’amichevole in onore del capitano Francisco Ferreira, fu l’ultima partita dei Granata che perirono a Superga il giorno seguente. Nel 1950 le Aquile vincono il loro pri-

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mo trofeo europeo, la Coppa Latina che al tempo era un trofeo molto importante. Il 14 giugno 1953 inizia la costruzione dell’Estádio da Luz, il nuovo stadio viene inaugurato il primo dicembre 1954, vittoria del Porto 3-1. Nella stagione 1954/55 compare quella che forse è la divisa più famosa del Benfica, maglia rossa con collo a camicia bianco e scollo a V, pantaloncini bianchi e calzettoni rossi, in questa stagione le Aquile fanno l’accoppiata campionato e coppa. Con questa divisa il Glorioso si affaccia agli anni 60 con una clamorosa doppietta in Coppa Campioni, il 31 maggio 1961 supera il Barcellona per 3-2 a Berna, passa un anno e il 2 maggio 1962 ad Amsterdam, in una partita spettacolare con tre reti di Puskás e due di Eusebio, si impone 5-3 sul Real Madrid. È l’apoteosi per il Benfica e per il suo allenatore Béla Guttmann, ungherese di nascita e giramondo di passaporto, che siede sulla panca delle Aquile da tre stagioni. Due giorni dopo la vittoria contro il Real Madrid Guttmann si reca nella sede del club, lo riceve il presidente António Carlos Cabral Fezas Vital, e chiede un premio per la vittoria in Coppa Campioni, ma il presidente rifiuta asserendo che nel contratto non era contemplato un extra per la vittoria di coppa. A quel punto l’Ungherese decise di abbandonare subito il Benfica ma, prima di uscire dalla sede, lanciò una maledizione che con il passare del tempo diventerà sempre più pesante “senza di me il Benfica non vincerà mai più una Coppa dei Campioni per i prossimi cento anni”. Il 22 maggio 1963 a Wembley il Benfica gioca la sua terza finale di Coppa Campioni consecutiva con il Milan, sarà la prima di una lunga serie di sconfitte in varie finali, in totale otto tra Coppa dei Campioni e Coppa UEFA, di cui due ai rigori e una ai supplementari e le sconfitte nei 90 minuti sempre con il minimo scarto, la maledizione di Guttmann aveva attaccato subito. Nella stagione 1963/64 compare una maglia rossa con collo bianco a girocollo, verrà usata nella versione a maniche lunghe

1984 1985

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affianca alla maglia con collo a camicia che verrà usata nella versione a maniche corte, queste due maglie rimarranno in auge fino alla stagione 1973/74. Nelle stagioni 1969/70 e seguente anche la francese Lacoste fornì le Aquile, si trattò del primo fornitore straniero, con un’elegante polo rossa con collo bianco. Nella stagione 1972/73 il Benfica vince il campionato senza subire sconfitte, 28 vittorie di cui 23 consecutive nelle prime 23 giornate di campionato e due soli pareggi, il Belenenses secondo in classifica è distanziato di 18 punti. Nel 1974/75 svolta stilistica, con una maglia rossa con collo a V bianco, i fornitori sono la tedesca Adidas e la portoghese Friolax, dalla stagione successiva compaiono le strisce su maniche e pantaloncini, sia per la Adidas con le famose tre strisce che per la Friolax che proponeva strisce lievemente diverse, sui calzettoni ritornano i risvolti bianchi. Nel 1982/83 cambia lo stile della maglia, collo a camicia bianco con chiusura a V e sottili strisce bianche alla base delle spalle, da due stagioni le divise sono fornite esclusiva-

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mente dalla Adidas. A partire dalla stagione 1984/85 compare il logo di uno sponsor commerciale sulla maglia delle Aquile, è la compagnia petrolifera olandese Shell. Con la stagione 1990/91 comincia la fornitura della Hummel che propone una divisa sostanzialmente simile a quella precedente, nella stagione 1992/93 il collo è più vistoso, la stagione seguente ancora una modifica al colletto. Nel 1994/95 le divise sono fornite dalla Olympic, marchio portoghese al tempo famoso nel paese che fallirà alla fine del decennio, la maglia continua a seguire lo stile degli anni precedenti, nelle due stagioni seguenti collo a camicia bianco con chiusura a bottoni rossa. Nella stagione 1997/98 torna la Adidas, contratto di fornitura ancora in essere, che fornisce ogni anno una maglia diversa cercando di mantenere un’identità stilistica, pur cedendo all’uso eccessivo del bianco in alcune stagioni. In occasione degli europei del 2004, ospitati dal Portogallo, viene ricostruito l’Estádio da Luz, il 21 marzo 2003 viene giocata l’ultima partita nel vecchio impianto e il 25 ottobre


dello stesso anno venne ufficialmente inaugurato il nuovo stadio con un’amichevole con il Nacional di Montevideo. Pochi mesi dopo forse la pagina più triste nella storia del Glorioso, il 25 gennaio 2004 muore Miklós Fehér, centrocampista ungherese di soli 24 anni. Accasciatosi sul campo nei secondi finali della partita tra Vitória Guimarães e Benfica, il giocatore morirà in tarda serata all’ospedale. La maglia numero 29 venne ritirata dal Benfica, in onore dello sfortunato giocatore ungherese. Nella stagione 2008/09 compaiono per la prima volta degli inserti neri sulla maglia, colore riproposto nella stagione 2013/14. Interessante la riproposizione della maglia storica per il centenario del club nella stagione 2004/05, stagione in cui la squadra era allenata da Trapattoni. La maglia da trasferta del Benfica per tradizione è bianca con i bordi rossi, i primi esemplari erano delle semplici camicie bianche, tradizione interrotta nella stagione 1997/98 con divisa composta da maglia nera con maniche bianche accompagnata da pantaloncini e calzettoni neri. Negli anni successivi si sono viste maglie gialle, oro, nere, blu e perfino una maglia rosa e grigia, tutte varianti poco apprezzate dai tifosi. I portieri del Benfica hanno indossato per i primi decenni maglie di colore bianco o giallo, a partire dagli anni ‘50 vennero usati il nero e il verde di preferenza, da metà anni 70 non c’è più stato un colore decisivo. Lo stemma del Benfica è l’unione degli stemmi di Grupo Sport Lisboa, uno scudo biancorosso con al centro un pallone e sormontato da un’aquila (simboleggia autorità, indipendenza e nobiltà), e di Grupo Sport Benfica, una ruota di bicicletta con al centro un pallone. Pur con qualche aggiornamento stilistico lo stemma è rimasto sostanzialmente sempre uguale. Nel catalogo HW del Subbuteo il Benfica è rappresentato dalla ref. numero 138, maglia rossa con bordi bianchi, pantaloncini bianchi e calzettoni bianchi con bordo rosso.

1998 1999

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C L A C L E D I T GIGAN Stankovic

di Fabrizio Ponciroli

BRAVEHEART DEJAN Ci sono giocatori che sono diversi dagli altri. ‘ è uno di quelli, Stankovic un vero guerriero… Servizio fotografico di Valeria Abis/Photoviews

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ejan Stanković non è mai stato banale, sia in campo che fuori. Ci accoglie in giacca e cravatta, pronto per lo shooting fotografico. Poi, appena terminato il rito delle foto, si infila pantaloni della tuta e maglietta: “Ora mi sento a mio agio”. Eroe del Triplete nerazzurro, Dejan è un guerriero vero, uno che ha sempre preso la vita di petto, dando tutto sé stesso per i suoi compagni. Non a caso, ha un debole per Mel Gibson in Braveheart… Dejan, apriamo il libro dei ricordi… Parliamo di come ti sei avvicinato al pallone… “Ho iniziato da piccolo, avevo, circa cinque anni. Scendevo in strada a giocare con mio padre. Lui giocava a calcio, così come mia madre. Il calcio era di casa… Ho iniziato ad allenarmi a otto anni. La passione era tantissima. Potevo giocare tutto il giorno con il pallone, ero sempre felice”. Sei cresciuto nel segno di qualche idolo? “Non ho mai avuto idoli. Avevo dei modelli che erano Jugović e Desailly. Io ho iniziato, da giovane, come centravanti, poi mi hanno spostato in difesa, come libero, e, alla fine, a centrocam-

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po. Ho sempre lottato tanto, facendo di tutto in campo, proprio per questo mi piacevano Jugović e Desailly, due che, ovunque li mettevi, facevano sempre benissimo”. La Jugoslavia ormai non c’è più ma tu, nel 1999, hai affrontato, con l’allora nazionale jugoslava, la nazionale croata per un posto ad Euro 2000… “Beh, di tutto quello che è accaduto, della guerra, posso solo dire che è stata una tragedia, io ero piccolo… Me le ricordo quelle due partite. Sono state storiche. Abbiamo giocato prima a Belgrado, una gara tesissima. È andata via an-

IL GOL INDIMENTICABILE Dejan Stanković ha sempre segnato tanti gol. Forse per il suo passato da centravanti o, probabilmente, per la sua facilità nel calciare, da ogni posizione. Il 5 aprile 2011, l’Inter affronta, a San Siro, lo Schalke 04 per una sfida delicatissima di Champions League. Sarà una serata da dimenticare per il popolo nerazzurro, visto che i tedeschi vinceranno 5-2. Eppure, per chi c’era, c’è stato un momento che è entrato nella storia dell’Inter, ossia il gol capolavoro di Stanković dopo pochi secondi dall’inizio del match. Su rinvio di Neuer, allora portiere dello Schalke 04, Stanković calcia, al volo, da metà campo. La palla termina in rete per la gioia di tutti i presenti: “Ne ho fatte tanti di gol ma quello è stato davvero un gran bel gol. Peccato che è arrivato in una partita finita malissimo per noi ma è stato, davvero, un grande gol. Tanta roba… Attenzione, io ce l’avevo il tiro da lontano, anche da centrocampo. Mi ricordo che, anche quando avevo la palla a centrocampo, se notavo il portiere fuori dai pali, mi veniva spesso l’idea di provarci. Ho sempre avuto un bel tiro. Ci ero già riuscito, a segnare da metà campo, anche contro il Genoa (2009, n.d.r.). Non è stato un caso il gol contro lo Schalke 04”.

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Stankovic ha appena vinto la Champions League con la sua amata Inter

che la luce per qualche istante ed è stato molto difficile restare calmi… È finita 0-0, poi siamo riusciti a pareggiare 2-2 a casa loro e ci siamo qualificati. È stata una doppia sfida con una tensione incredibile, le gambe ti sprofondavano nel terreno da quanto erano pesanti”. Parliamo del tuo periodo alla Stella Rossa… “Ho iniziato a giocare nella prima squadra della Stella Rossa a 16 anni e mezzo, a 18 anni ero già capitano e, l’anno dopo, sono andato alla Lazio. Ricordo che giocavo alla grande. Per me la partita era il giorno più importante, quello che aspettavo per tutta la settimana. Mi sono avvicinato a quello spogliatoio in maniera umile e questo mi ha aiutato. Ero già anche nel giro della nazionale, dove avevo, al fianco, mostri sacri, gente come Mijatović, Savicević, Mihajlović, Stojković e tanti altri… Ancora oggi


mi spiace non essere riuscito a fare qualcosa di importante con la mia nazionale, ci siamo andati vicino spesso”. Come sei finito alla Lazio? “Guarda, già nel 1998 c’erano tante squadre interessate a me. La Lazio? C’è sempre l’Ingegnere che orchestra il tutto (Dio, n.d.r.). In quel momento, erano interessate a me il Glasgow Rangers, il PSG e la Lazio. Devo dire che il progetto biancoceleste mi ha convinto. Le offerte economiche di Rangers e Lazio erano simili, alla fine ho scelto la Lazio ed è stata una buona decisione”. Come è stato il tuo primo impatto con l’Italia? “Mi hanno accolto tutti benissimo. Io credo che l’importante sia sempre avere rispetto degli altri. Se lo fai, anche gli altri ti rispetteranno. Anche a casa tua, se fai lo stupido, ecco che prendi gli schiaffi… Io mi sono sempre comportato bene. Per fortuna c’era anche la mia fidanzata, mia futura moglie, con me. Mi ha aiutato tanto, ci siamo aiutati a vicenda. Abbiamo fatto tanti

sacrifici insieme e siamo cresciuti insieme”. Insomma, Ana è stata fondamentale per te… “Certamente… È sempre stata vicino a me, anche adesso. Quando si dice che c’è sempre una grande donna dietro ad un grande uomo non è una frase fatta, è la verità. Siamo insieme da 21 anni, lei è il mio generale. È sempre al mio fianco, sempre”. La tua carriera è sempre stata un continuo migliorarsi. Come ci sei riuscito? “Guarda, a dire il vero ho avuto anche io delle pause. Nel 1999, quando ci sono stati i bombardamenti in Serbia, non avevo la testa libera per pensare solo al calcio. Avevo a Belgrado famigliari e amici, non è stato facile. Ero preoccupato, c’erano cose più importanti a cui pensare. Poi, dal 2000/01 sono ripartito e non mi sono più fermato (Ride, n.d.r.)”. Con la Lazio hai vinto tanto… “Vuoi la verità? Con quella squadra potevamo e dovevamo vincere di più, anche se, onestamente, ci siamo tolti delle belle soddisfazioni.

Il famoso gol di Stankovic, al volo da metà campo, contro lo Schalke 04

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È stata una bella esperienza, mi hanno preso che ero un ragazzino e lì sono cresciuto moltissimo”. Poi, nel gennaio del 2004, finisci all’Inter… “È stato strano. Un giorno prima preparavo una partita con la Lazio, il giorno dopo Zaccheroni, allora allenatore dell’Inter, mi chiedeva se me la sentivo di scendere in campo subito con l’Inter. Io, ovviamente, ho risposto che ero pronto, lo sono sempre stato. Con l’Inter è stato pazzesco. Ogni anno si migliorava, un passo alla volta ma sempre verso l’alto. Poi è arrivato Mourinho…”.

Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

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Eccoci allo Special One… “José è riuscito a tirare fuori da tutti noi davvero più di quanto pensassimo di avere. Negli ultimi due mesi di quell’incredibile anno che è stato il 2010, abbiamo giocato sempre gli stessi in 14. Una cosa che, oggi, sarebbe impossibile. Lui ci coccolava, si prendeva tante responsabilità, ci toglieva la pressione dalle spalle. È stato fantastico… Anche oggi che sembra fuori dai giochi, non c’è problema. Sono sicuro che tornerà protagonista”. Quali sono stati i momenti decisivi di quella stagione meravigliosa conclusa con il Triplete? “Guarda, gli ultimi due mesi e mezzo sono stati fuori dal mondo. C’era una pressione enorme ma noi eravamo maturi, pronti e, con José, ci sentivamo imbattibili. La partita a Londra, contro il Chelsea, è stata esemplare.


Non abbiamo mai sofferto contro una squadra fortissima. Fondamentali, restando in Champions, anche quella con la Dinamo Kiev, vinta in volata, e, a San Siro, con il Barcellona”. Quale è stato il primo pensiero quando è finita la partita con il Bayern Monaco ed hai compreso di aver vinto la Champions League? “Io ci sono rimasto male, molto male… Nella mia testa ho capito che era finita la battaglia, avevamo vinto ma si era anche concluso un percorso incredibile, emozionante, bellissimo”. Nel 2013, ecco l’addio al calcio giocato… “Non è facile, dopo 20 anni che vai a manetta, dover cambiare le tue routine, rinunciare al calcio e alla tua vita quotidiana nello spogliatoio. Guarda, quando giocavo, è come se vivessi in una bolla, una bellissima bolla ma non è reale. Poi, d’improvviso, scoppia e ti ritrovi a dover vivere la vita reale. Dico sempre tutto in positivo, attenzione, ma non è facile adattarsi e iniziare a vivere in maniera diversa. Paghi la bolletta, lavi la macchina, insomma cambia la tua vita.

Il direttore Ponciroli durante l’intervista a Stankovic

Io ci ho messo un po’ di tempo, ora è tutto normale ma, mi ricordo, quando ho smesso mi sono sentito strano”. Tu hai fatto di tutto dopo aver smesso di giocare… (Ride, n.d.r.). È vero. Sono stato secondo di Stramaccioni a Udine, ho fatto il dirigente all’Inter, ho lavorato con l’Uefa. Ancora oggi sto cercando di capire cosa voglio fare. Non mi piace essere legato, voglio sperimentare più cose possibili”.

UNA SUPER CARRIERA Quando vinci 25 trofei, tra i quali una Champions League, un Mondiale per club, una Coppa delle Coppe e sei Scudetti, non puoi non essere un gigante del calcio. Stanković è uno dei migliori giocatori mai visti in Italia. Nato a Belgrado l’11 settembre 1978, cresce nella Stella Rossa, squadra di cui diventa capitano a soli 18 anni (più giovane capitano della storia del club). Nell’estate del 1998, la Lazio batte la concorrenza e lo porta in Italia per una cifra attorno ai 24 miliardi di lire. Si presenta ai suoi nuovi tifosi con un gol al Piacenza. Resterà biancoceleste per cinque anni e mezzo, vincendo cinque trofei, tra cui lo Scudetto nel 2000: “C’era un milione di persone a festeggiare quello Scudetto, è stato qualcosa di indimenticabile”, ricorda, oggi, Stanković. Nel gennaio del 2004 passa all’Inter per “soli” quattro milioni di euro (sarà uno dei colpi di gennaio più importanti della storia del calcio). Diventa immediatamente un perno dei nerazzurri. La sua presenza in campo è fondamentale. L’anno della consacrazione è quello del Triplete, con Mourinho in panchina. Dopo aver vinto tutto con i nerazzurri, il 10 marzo 2013, contro il Bologna, gioca la sua ultima gara con la casacca dell’Inter (326 presenze totali, con 42 reti). Ha giocato con tre nazionali differenti, a causa della guerra che ha disintegrato la Jugoslavia. Dal 1998 al 2003 ha fatto parte della nazionale jugoslava, dal 2003 al 2006 della nazionale di Serbia & Montenegro e, dal 2006 al 2013 dell’attuale nazionale serba. L’11 ottobre 2013 gioca la sua ultima gara con la nazionale serba, in amichevole, contro il Giappone. Ovunque è stato, ha sempre dato tutto perché, come ripeta spesso, “prima si gioca per la maglia, poi per i tifosi e, solo alla fine, per sé stessi”. Un gigante.

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Dejan, segui ancora il calcio? “Appena ho smesso, andavo spesso a vedere i bambini ma senza farmi vedere. Sai, il cognome Stanković pesa e non poco. C’è stato un periodo in cui mi mancava tanto lo stadio e quindi preferivo non andarci a non vedere le partite. Ho San Siro a pochi metri, non era facile. Invece oggi vivo bene lo stadio, ci vado spesso, con i miei fratelli Marco (Materazzi, n.d.r.) e Cristian (Chivu, n.d.r.). Siamo un bel gruppo e ci divertiamo molto insieme”. Di quest’Inter che ne pensi? “Quando hai tanti alti e bassi non è mai facile. Credo che l’unico problema dell’Inter è a livello di testa, perché è una squadra forte. Migliorando un pochino la rosa, credo che, il prossimo anno, la mia Inter farà ancora meglio”. Che passioni ha, oggi, Dejan, oltre al calcio ovviamente…

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“Mi piace il cinema, lo adoro. Seguo poi tanti sport. Mi piace il basket. Guardo l’NBA e cerco di sostenere i miei amici Micov e Nedović all’Olimpia Milano. Mi piace la pallanuoto del mio amico Filipović… E poi mi godo la famiglia. Ho tre figli, cerco di stare più tempo con loro. Siamo stati, a Los Angeles, a vedere l’All Star Game NBA e, appena possiamo, ci sfondiamo in un 2 vs 2 a basket”. Mi dici un film che ti ha segnato la vita? “Braveheart… L’ho visto così tante volte… È il mio film preferito in assoluto. L’ho visto, per la prima volta, quando ero ancora alla Stella Rossa. Avevo 17 anni e mi è rimasto nel cuore”. Sei più per il mare o per la montagna? “Sai, io ho viaggiato tanto. Direi il mare, anche se qualche camminata in montagna non mi dispiace. Sai perché non amo la montagna? Perché non ho mai sciato e non lo faccio ancora


oggi. Quando giocavo, non sciavo per paura di farmi male e poi non ho più avuto la voglia di iniziare a farlo. Forse per questo mi piace più il mare anche se, come sa mia moglie, non posso restarci a lungo. Impazzisco a restare fermo e il troppo caldo mi dà fastidio”. Un posto che ti è rimasto nel cuore? “Nessun altro posto se non la mia Belgrado. Magari un giorno, quando i figli saranno grandi, magari ci torneremo. Non so, vedremo”. E a livello di cucina… “Qui ti racconto un aneddoto… Quando sono arrivato a Roma, da ragazzino, mangiavo penne ai quattro formaggi e una fiorentina. Mi allenavo senza problemi e, anche oggi, posso mangiare penne ai quattro formaggi in qualsiasi momento, anche alle 11 della mattina… E direi che si vede sul mio fisico (Ride, n.d.r.). Guarda, come si mangia in Italia, non si man-

gia in nessun altro posto al mondo. C’è di tutto, una qualità incredibile. Anche quando ero a Udine, come secondo di Stramaccioni, mi è salito il colesterolo e non scherzo”. Torniamo al calcio. Togliendo la Champions League, quale è il trofeo al quale sei più legato? “Impossibile rispondere. Più vinci, più vuoi vincere. Trofeo chiama trofeo. Io ho vinto 25 trofei, come posso scegliere? Ognuno di loro è stato importante, bellissimo. Certo, la Champions League è stato il massimo, anche perché per tantissimi di noi, era l’ultima chiamata. Per tanti di noi, over 30, la finale contro il Bayern Monaco era l’ultimo treno. Posso dirti che ho un rammarico: non aver fatto qualcosa di storico con la nazionale. Nel 2010 siamo stati ad un passo dal farcela, siamo usciti stupidamente…”.

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O N R O I G N U EROI PER Jesus Datolo di Thomas Saccani

NEL NOME DI

JESUS

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Ci sono imprese che diventano leggende, ci sono gol che segnano una carriera…

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er il Napoli, la trasferta in casa della Vecchia Signora, è “la partita dell’anno”. La rivalità con Madama, simbolo del Nord e manifesto del successo sportivo, è ben radicata nell’animo del popolo partenopeo. Vincere tra le mura bianconera significa imporsi sulla società che, da sempre, cannibalizza il campionato italiano. Nel corso della loro storia, gli azzurri sono riusciti a realizzare questa memorabile impresa in pochissime circostanze. Il ricordo più fresco porta al sontuoso colpo di testa di Koulibaly che, nel corso della scorsa stagione, aveva illuso Napoli di poter anche strappare lo Scudetto alla fredda Torino… Tra i successi più epici, doveroso citare il 3-1 conseguito nella stagione 1957/58, con reti di Vinicio, Novelli e Di Giacomo. Indimenticabile anche il 3-1, conquistato il 9 novembre 1986,

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RNO

GIO EROI PER UN Jesus Datolo

IL RICORDO DI JESUS Qualche tempo fa, in esclusiva a TuttoNapoli.net, Jesus Datolo è tornato a parlare di quella mitica vittoria conseguita ai danni di Madama: “Avevo grande consapevolezza delle dimensioni della sfida, quindi me ne resi conto subito. In tutta la settimana precedente alla gara i tifosi mi spiegavano ogni giorno cosa significava per loro. Ti dirò di più: quando eravamo in bus, verso lo stadio, sapevo, sentivo che sarei subentrato da protagonista, con un gol o un assist. Avevo addosso una carica pazzesca. Mi è andata bene ed è stato fantastico: una delle notti più belle della mia carriera, dopo la partita non riuscii a dormire dall’emozione. So bene quanto conta vincere un Clásico…”, le sue parole al portale. DragonBall ricorda un momento in particolare: “Sì, ricordo perfettamente il momento in cui segnai il gol del 2-2. Tutti i miei compagni mi saltarono addosso, io ero a terra incredulo e guardavo le facce, le espressioni di Buffon e Chiellini, impalati a osservarci. Che rimonta. Vincere a casa del tuo peggior rivale rimontando un 2-0 è il sogno di qualsiasi tifoso. È stato incredibile per me, per tutti noi. Meglio di così, quella gara, non poteva andare”. Insomma, anche a distanza di tanti anni, l’emozione per quello che è accaduto in quella pazzesca partita è ancora forte. Datolo ha disilluso le attese del Napoli ma, grazie alla sua spettacolare prestazione a Torino, è diventato una sorta di divinità pagana nel cuore di tanti tifosi partenopei. Forse è nato proprio per quella partita, per riuscire dove in tanti hanno fallito: vincere sul campo di Madama, il simbolo del Nord…

dalla banda azzurra guidata da Maradona. Seguito, due anni più tardi, dal roboante 5-3 con tripletta di uno strepitoso Careca. Da quel 20 novembre 1988, una sequenza di amarezze per il tifo partenopeo. Di colpo, vincere sul terreno amico dei bianconeri sembrava una “mission impossible”. Per 21 anni, tante delusioni e qualche arrabbiatura. Poi, d’improvviso, arriva Jesus… Sabato 31 ottobre 2009, il Napoli di Mazzarri fa visita alla Juventus dei vari Buffon, Chiellini, Camoranesi e Trezeguet. In panchina c’è Ferrara, uno di quelli che c’era nell’ultima impresa partenopea a Torino. La squadra azzurra non è costruita per lottare per il vertice ma crede nel miracolo. Dopo i primi 54’, il match sembra già destinato agli archivi. La Juventus guida con un comodo 2-0 (Trezeguet e Giovinco). Al 58’, Mazzarri decide di gettare nella mischia tale Jesus Datolo, numero di maglia n.15. Arriva dal Boca Juniors (dove ha vinto, nel 2007, la Copa Libertadores). Il patron De Laurentiis, per strapparlo alla concorrenza, ha investito circa 6,5 milioni di euro, con tanto di con-

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tratto quinquennale. Il 24enne argentino, dal suo arrivo a gennaio, non ha convinto. Anzi, in tanti sono certi che non abbia le qualità per fare la differenza nel calcio italiano. Non ha ancora segnato un solo gol dal suo approdo al Napoli. Da oggetto misterioso a salvatore della patria partenopea. Ci riesce in quella notte di Halloween. Entra al posto di Campagnaro e illumina il Napoli. A pochi secondi dal suo ingresso, fornisce l’assist ad Hamsik per il gol del momentaneo 2-1. Non è abbastanza, si sente in dovere di regalare alla città una serata da raccontare per l’eternità. Riesce, in mischia, a toccare il pallone che vale il 2-2. Lo festeggia con gioia, vera, autentica. Entra anche nell’azione che permette ad Hamsik (complice un clamoroso errore di Tiago) di ribaltare completamente il risultato: 3-2 a favore del Napoli. Il pubblico dell’allora Stadio Olimpico è ammutolito. Jesus Datolo, un signor nessuno, ha permesso alla squadra di Mazzarri di rimontare due gol e battere la Vecchia Signora. Incredibile. A Napoli è follia collettiva. C’è chi crede che Diego Maradona


prima palla manda in gol Hamsik, il secondo lo segna lui stesso in mischia e poi entra anche nel 3-2”. Bellissimo ma effimero. L’eroe dello Stadio Olimpico non avrà altre fiammate. La sua avventura con la casacca azzurra terminerà qualche settimana più tardi. Il 16 gennaio 2010, a causa di “divergenze” con il patron De Laurentiis, infuriato per questioni legate ai diritti d’immagine (uno shooting fotografico per una nota rivista gay argentina non concordato con la società partenopea), l’argentino viene ceduto all’Olympiakos. Per il ragazzo nativo di Carlos Spegazzini, città nei pressi di Buenos Aires, inizia un lungo girovagare in giro per il mondo… Gioca ancora (in Argentina, al Banfield) ma, rispolverando l’album dei ricordi, sa che quel gol segnato a Buffon resta il momento più esaltante della sua carriera. Eroe per un giorno ma leggenda per sempre…

A Napoli non ha incantato ma è diventato comunque un eroe per l’impresa di Torino

si sia incarnato, per una sera, nel corpo di un altro argentino di nome Jesus Datolo, soprannominato DragonBall. Nel post match, Mazzarri si gode quella sensazione, tanto speciale quanto unica, di aver azzeccato le mosse giuste. Ovviamente ringrazia, pubblicamente, l’eroe del match, ossia Datolo: “Le sostituzioni s’indovinano quando c’è la risposta di chi subentra. Datolo, per esempio, ha affondato sulla sinistra strapazzando l’avversario: ha segnato il gol del pareggio ed ha propiziato la doppietta di Hamsik. Sono contento, perché ho trovato un grande gruppo che ha sposato le mie idee. Ed i risultati si stanno vedendo”. Il giorno seguente, i giornali sono tutti per lui e per il Grande Napoli. La Gazzetta dello Sport titola: “Juve, che imbarcata. Napoli, rimonta storica”. Datolo si prende, dalla rosea, un sontuoso 8 in pagella, con questa motivazione: “Il suo ingresso cambia la partita: con la

IL TABELLINO DELL’INCONTRO Torino – Stadio Olimpico – 31 ottobre 2009 JUVENTUS-NAPOLI 2-3 (1-0) JUVENTUS (4-2-3-1): Buffon; Grygera, Cannavaro, Chiellini, Grosso; Poulsen (77’ Amauri), Felipe Melo; Camoranesi (31’ Tiago), Diego, Giovinco (85’ De Ceglie); Trezeguet. (Manninger, Legrottaglie, Molinaro, Immobile). All. Ferrara. NAPOLI (3-4-2-1): De Sanctis; Campagnaro (58’ Datolo), Cannavaro, Contini; Maggio, Gargano, Cigarini, Aronica; Hamsik, Lavezzi (87’ Pazienza); Denis (69’ Quagliarella). (Iezzo, Rinaudo, Grava, Pià). All. Mazzarri. MARCATORI: 35’ Trezeguet (J), 54’ Giovinco (J), 59’, 81’ Hamsik (N), 64’ Datolo (N)) ARBITRO: Damato di Barletta. NOTE: Terreno in buone condizioni, serata serena. Spettatori: 25 mila circa. Angoli: 8-5 per il Napoli. Espulso: 93’ Amauri (J) per scorrettezze. Ammoniti: Contini (N), Campagnaro (N), P.Cannavaro (N), Chiellini (J). Recupero: 1’ pt; 5’ st.

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TI I N I F O N O S DOVE Davide Baiocco

di Sergio Stanco

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L’evoluzione del calciatore Abbiamo fatto una bella chiacchierata con Davide Baiocco, ex centrocampista (tra le altre) di Perugia, Juve e Catania, che oggi ha scelto di lasciare il mondo del calcio per diventare imprenditore.

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i sono ex giocatori che farebbero di tutto per rimanere nel mondo del calcio, in qualsiasi veste. E sono il 99% probabilmente. Poi c’è l’altro 1%, che invece volta pagina. Tra questi, Davide Baiocco, arcigno centrocampista classe 1975 che quando la Serie A era al top, di soddisfazioni se n’è tolta più di qualcuna: nato a Perugia, ha portato il club della sua città fino in Europa: era il bellissimo e indimenticabile Perugia di Gaucci, quello di Cosmi, Grosso e di una miriade di carneadi, buttati nel tritacarne del grande calcio. Qualcuno ce l’ha fatta, altri sono finiti nel dimenticatoio. Davide Baiocco s’è ritagliato il suo spazio in quel calcio di alto livello, arrivando fino alla Juve. In quel mondo ha vissuto, prosperato e avuto successo, ma probabilmente non si è mai trovato a suo agio: “Il calcio è sempre stata la mia passione – ci racconta – e ancora adesso vedere una partita mi procura emozioni uniche, ma sinceramente non mi manca nulla, se non il fatto di sgambettare sull’erba”. E forse è per questo che Davide ha cercato di calcare i campi da gioco fino a 43 anni, finanche quando l’er-

ba curata degli stadi di Serie A si è trasformata in terra e polvere dei campetti di provincia. Poi, però, ha chiuso un capitolo: “Avrei voluto restare nel mondo del calcio, ma con le mie idee: nessuno, però, ha voluto ascoltarle. Tutte le società guardano all’oggi, non pensano a programmare, a puntare al futuro. Quelle poche che lo fanno, hanno successo, le altre si arrangiano. E io non avevo intenzione di accontentarmi. C’è chi accetterebbe qualsiasi compromesso pur di lavorare, io non sono così. Se avessi ricevuto un’offerta seria, un progetto nel quale avere carta bianca, incidere e lavorare in autonomia, probabilmente l’avrei accettata. Ma quante situazioni del genere ci sono nel calcio di oggi? Poche, pochissime. A Catania, ad esempio, lo hanno fatto: si sono fidati di un manager completo e competente come Lo Monaco e gli hanno affidato il progetto. E lui sta facendo grandi cose. A me sarebbe piaciuto poter fare lo stesso, magari come responsabile di un settore giovanile che si prendesse cura dei ragazzi al 100%, parlando loro non solo di tecnica e tattica, ma seguendo anche il loro percorso scolastico,

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DOVE SONO

FINITI?

Davide Baiocco cercando di formare prima di tutto uomini e solo successivamente calciatori. Questa è una cosa che probabilmente farò comunque, perché nella mia testa c’è ancora la volontà e l’idea di creare una mia “academy” che si fondi principalmente su questi valori, quelli della crescita e del miglioramento dell’individuo. Un po’ come fa il Barcellona, che nelle sue giovanili punta sul talento e applica un modello ben preciso per svilupparlo affinché un giorno possa contribuire al progetto “prima squadra”. Questa è una visione imprenditoriale. Il Perugia di Gaucci, per fare un altro esempio, applicava un altro modello, che si fondava principalmente sullo scouting, che è un’attività importante, ma che non può essere l’unica sulla quale basare il proprio successo. Se prendi cento giocatori, per la legge dei grandi numeri qualcuno bravo che possa sfondare lo trovi. In quel Perugia ne sono usciti tanti perché l’attività di

scouting era di livello, e perché Cosmi era un ottimo “Direttore delle Risorse Umane”, capace di tirar fuori il meglio dai suoi ragazzi, ma si faceva tanto per scoprirli, poco per coltivarli e migliorarli. Anche perché non ce n’era il tempo, visto che venivano venduti subito. Io, invece, vorrei fare proprio questo: aiutare i ragazzi a crescere giorno dopo giorno, come persone e come atleti. Perché un gruppo che cresce con principi sani, aiuterà gli altri a migliorarsi con gli stessi principi. E così si crea un circolo virtuoso”. Questi valori sono il propellente della “seconda vita” di Baiocco, che oggi di fatto è imprenditore di se stesso. Imprenditore evoluto, come lui stesso si definisce: “Il mondo di oggi va a velocità allucinante e se non ti evolvi, non stai al passo, sei fuori giri. Mi definisco evoluto perché cerco di combinare i tre valori fondamentali della vita, salute, amore e lavoro, cercando di trarne beneficio economico, ov-

Baiocco punta oggi a migliorare gli altri, proprio come faceva in campo

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viamente, perché sono sempre un imprenditore, ma anche soddisfazione personale e per gli altri. Cerco di coniugare il lavoro con il divertimento, come d’altronde sono riuscito a fare quando ero calciatore. Sul finire della carriera, però, mi sono reso conto che nel calcio non sarei mai riuscito a crescere, a migliorarmi, se non molto lentamente e dovendo in qualche modo dipendere da altri. Qualcuno paragona il ruolo di Direttore Sportivo e quello dell’allenatore a quello dell’imprenditore, ma non è così: nel calcio tutti son dipendenti e quasi nessuno ha libertà di esprimersi, dovendosi piegare alle direttive impartite dall’alto o vivendo di compromessi pur di lavorare. Un po’ la mentalità del posto fisso, che proprio non mi si addice. Fare l’imprenditore, invece, è completamente diverso: si rischia sulla propria pelle, ma almeno lo si fa con le proprie idee e non dovendo rendere conto a nessuno. In molti mi considereranno pazzo per aver lasciato una strada certa per una incerta, ma non sono uno che si accontenta, che sopravvive, se in una cosa non posso incidere come vorrei, non la faccio. In questa seconda fase della mia vita mi sono posto come obiettivo quello di migliorarmi personalmente e costantemente, per poi cercare di fare altrettanto con gli altri. Il mio campo di attività è quello della salute e del benessere, cerco di migliorare le persone facendo capire loro l’importanza di un corretto stile di vita, dell’esercizio fisico e dei risvolti positivi che tutto questo può avere sulla testa delle persone e nella loro quotidianità. Tutti noi abbiamo un potenziale infinito ancora inesplorato, basta cercarlo e avere il coraggio di cambiare. Se si vuole, si può migliorare fino ad ottant’anni. Molti, invece, si accontentano semplicemente di quello che sono riusciti a raggiungere e, per timore di perderlo, preferiscono non guardare oltre”. Non è un caso, dunque, che Davide abbia deciso di sposare il progetto “The Challenge”, che in italiano tradur-

remmo con “La Sfida”: “Chiunque abbia voglia di migliorare se stesso e gli altri, è ben accetto nella nostra impresa. Abbiamo un modello di business che si fonda sul “passaparola”, nel quale ciascuno è imprenditore di se stesso ma tutti guadagnano di più se il gruppo collabora e rema tutto nella stessa direzione. Un po’ come nel calcio. È un modello che soffre di preconcetti, perché come spesso capita qui da noi qualcuno non lo ha applicato onestamente, ma in tutto il mondo ci sono milioni di aziende che lo usano con successo, in tutti i campi. Io ho voluto applicarlo in quello della salute e del benessere, perché alla fine era quello più attinente alla mia esperienza”. Un’esperienza che Davide non rinnega ma non rimpiange neanche: “Il calcio è stata la mia vita per tanti anni e gli sarò sempre grato. Ancora mi imbambolo davanti ad una partita, di qualsiasi livello. I ricordi non me li toglierà nessuno, così come i rapporti che ho instaurato. È vero che da calciatore non avevo un bel carattere, e forse molti avversari non mi sopportavano per questo (sorride, n.d.r.), ma ora sto cercando di lavorare e migliorare anche questo aspetto. Con alcuni miei compagni sono rimasto in contatto: di recente, ad esempio, mi sono sentito con Elvis Abbruscato, che sta facendo un bellissimo percorso con le nazionali giovanili. Abbiamo condiviso le nostre idee, ci siamo confrontati e abbiamo parlato dei nostri rispettivi obiettivi. E lo faccio con tutti i miei ex compagni che abbiano piacere di farlo. Il nostro calcio andrebbe rifondato, lo dico da anni, e i risultati recenti lo confermano, ma mi chiedo: c’è davvero volontà di farlo? Io non ho questa sensazione. Non c’è programmazione, non c’è un obiettivo a lungo termine, un progetto. Si vive sull’oggi. Qual è lo scopo di un calciatore? Fare carriera e guadagnare il più possibile? I soldi non possono essere l’unico obiettivo, altrimenti vincerà sempre l’egoismo e il sistema non crescerà mai”.

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N E D I S E R P I D GRAN Cecchi Gori di Stefano Borgi

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Credit Foto: Liverani


IL DIAVOLO E L’ACQUA SANTA Mario e Vittorio, di padre in figlio. Così uguali, così diversi...

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er lungo tempo si è trattato di un nome solo: Mario e Vittorio Cecchi Gori. Pronunciato tutto d’un fiato. Padre e figlio, parte della stessa finanziaria (la Fin.Ma.Vi), proprietari di una società di calcio: l’AC Fiorentina. Addirittura, c’era chi, intervistando prima uno poi l’altro, sunteggiava dicendo: “Abbiamo con noi Mario e Vittorio Cecchi Gori”, col risultato di scatenare tra i presenti una grassa risata. Eppure, nonostante il DNA, nonostante una passione comune (il calcio), nonostante un cammino professionale condiviso, raramente abbiamo vissuto due caratteri così uguali, così diversi. Da qui il titolo: “Il diavolo e l’acqua santa”, con Mario uomo mite, deciso, ma fondamentalmente buono. Vittorio, al contrario esuberante, opportunista, fondamentalmente invidioso del successo del padre. Ma andiamo con ordine: Mario Cecchi Gori nasce a Brescia il 21 marzo 1920, ma è solo un caso. Mario vive a Firenze, cresce a Firenze, conosce Valeria (la donna della sua vita) a Firenze, e con lei va allo stadio a tifare Fiorentina. Mario, insomma, ama Firenze in tutte le sue forme e declinazioni. Vittorio, invece, nasce a Firenze il 27 aprile 1942, ma (ironia della sorte) vive a Roma, cresce a Roma, conosce la moglie Rita Rusic

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SIDE GRANDI PRE Cecchi Gori

a Roma. Ama Roma e la “dolce vita”, in tutte le sue forme e declinazioni. Mario Cecchi Gori ha un’autentica passione per il cinema, costruisce pian pianino il suo impero, lavora con Dino Risi, Federico Fellini e Mario Monicelli. Nel tempo fonda la Cecchi Gori Group, la Cecchi Gori Tiger, la Cineriz e la Titanus. Con Silvio Berlusconi crea la Medusa Film, un impero nell’impero. Insomma... Mario Cecchi Gori diventa un colosso della produzione cinematografica e per questo, al crepuscolo dell’era Pontello, il suo nome alla presidenza viola prende forma e sostanza. Vittorio, al contrario, è il classico figlio di papà. È quello che, in età adolescenziale vive di rendita, frequenta le attrici, raccoglie ed ostenta le fortune di Mario. Fino ad ac-

quisire la proprietà dell’AC Fiorentina della quale, alla pari del padre, si professa grande tifoso. L’occasione arriva a fine maggio 1990, dopo la finale di coppa Uefa (persa) contro la Juventus. Soprattutto dopo la cessione di Roberto Baggio, che Mario vorrebbe tenere a Firenze. Ma che i “poteri forti” allontanano da Firenze. I primi tempi sono difficoltosi: Mario non bada a spese, anche se i nuovi acquisti non rendono quanto dovrebbero: Lacatus, Kubik, Mazinho, Borgonovo... E poi il tecnico brasiliano, Sebastiao Lazaroni, che non convince. Dopo 6 giornate del campionato ‘91-’92 arriva Gigi Radice, scelto personalmente da Mario Cecchi Gori. E qui nascono le prime fratture tra padre e figlio, con Radice che pagherà questa scelta

GLI ACQUISTI TOP e FLOP A parte Batistuta (in assoluto l’acquisto top per eccellenza), l’era Cecchi Gori è stata contrassegnata da grandissimi calciatori, ma anche da qualche topica. Pagata comunque salatissima. È il caso di Marius Lacatus e Stefano Borgonovo, due dei primi contratti firmati da Mario. Il romeno si rivelò un fallimento fin da subito, lo sfortunato centravanti invece dette il meglio di sé quando era in prestito (1988-89, in coppia con Baggio), per poi fallire miseramente nel biennio 90-92. Sempre nello stesso periodo arrivarono Mazinho e Maiellaro, altri due salassi. Il 1992, lo abbiamo detto, fu la stagione dei grandi investimenti: Baiano, Effenberg, Laudrup, Carnasciali, Luppi e Di Mauro. Miliardi gettati in pasto agli arbitri ed alla federazione, una stagione terminata con la retrocessione in mezzo a mille polemiche. Nel biennio 93-95 si ricostruisce: arrivano Toldo, Robbiati, Cois e Rui Costa, quest’ultimo grazie all’intuizione della coppia mercato Antognoni-Cinquini. Mentre il flop è rappresentato da Marcio Santos. Il brasiliano, fresco campione del mondo, fallì su tutta la linea. Compresa la promessa e celebrata cena-incontro con Sharon Stone... che non c’è mai stata. L’anno dopo fu la volta degli acquisti mirati: magari meno roboanti ma certamente più funzionali. Nell’ordine arrivarono i baresi Amoruso e Bigica, il foggiano Padalino, lo svedese Schwarz, Michele Serena dalla Sampdoria, tutti personaggi capaci di fare gruppo fuori, allo stesso tempo di offrire grande rendimento in campo. Il 1997 è la stagione di Lulù Oliveira (brasiliano, naturalizzato belga) e di Edmundo. Lui... solo brasiliano, chiamato O’Animal, tanto pazzo quanto bravo. Con loro Domenico Morfeo e l’ucraino Kanchelskis che, sotto i colpi dell’interista Taribo West, ebbe vita breve in riva all’Arno. Fino all’ingaggio degli juventini Torricelli e Di Livio, di Enrico Chiesa e Predrag Mjatovic. Inserimenti miliardari, ben sopra le possibilità dell’impero Cecchi Gori che si stava sgretolando sotto i colpi di Vittorio. E fece scalpore (ma anche tanta paura) la frase: “La Fiorentina? Non la vendo. Piuttosto vi faccio fare la fine del Bologna, la disintegro con le mie mani”. E infatti... Nel 2001, la Fiorentina di Roberto Mancini vince la coppa Italia, per poi scomparire 12 mesi dopo nelle pieghe del fallimento. Ecco... il fallimento. Quello è stato il vero flop dell’era Cecchi Gori. Indimenticabile, ingiustificabile, per molti... imperdonabile.

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due anni dopo. Finalmente nell’estate 1992 la famiglia Cecchi Gori decide di dare una spallata al calcio italiano e costruisce una squadra (così sembra) da sogno: accanto a Batistuta (che già faceva intravedere il suo talento), arrivano Carnasciali, Di Mauro, Effenberg, Baiano e Laudrup. Viene riscattato Massimo Orlando, gioventù ed entusiasmo, esuberanza ed incoscienza, guidati dalla ventennale esperienza di Radice. Il girone d’andata è fenomenale, la Fiorentina seconda in classifica dà spettacolo (dietro al Milan degli olandesi), quando il 3 gennaio 1993 una strana sconfitta casalinga contro l’Atalanta rompe il giocattolo. Ed anche l’incantesimo. Vittorio caccia Radice, scarta De Sisti, ingaggia Agroppi (fortemente inviso al Palazzo del calcio) e firma la condanna a morte di quella Fiorentina. La famiglia Cecchi Gori accusa il colpo e promette una pronta risalita. Sembra

l’inizio di una nuova favola, con la squadra viola (sotto la guida di un giovane e rampante Claudio Ranieri) che gioca, diverte, macina punti, conquista la testa della classifica senza lasciarla più. Fino al 5 novembre 1993, quando Mario Cecchi Gori muore all’improvviso per un arresto cardiaco. Quasi come se non avesse retto all’umiliazione di vedere la “sua” Fiorentina in serie B. Da quel momento comincia un’altra storia, firmata Vittorio Cecchi Gori. E non mancheranno i colpi di scena.

Claudio Ranieri, il simbolo della presidenza Cecchi Gori

CECCHI GORI E BATISTUTA L’argentino è stato l’orgoglio di Vittorio. La bandiera di una vita, il vessillo intramontabile attraverso il quale il “figlio di Mario” vive e prospera nella memoria dei tifosi. Anche se, va detto, Batistuta arrivò quando c’era ancora Marione (così detto per la corporatura e la paciosità nei modi di fare). Il 14 giugno 1991 “La Nazione” titolava: “Colpo della Fiorentina: preso Batistuta!” In realtà fu l’acquisto di scorta per Diego Latorre, fantasista acclamato del Boca Juniors. La leggenda narra che Vittorio Cecchi Gori si accorse di lui durante la Coppa America vinta dall’Argentina in Cile nel 1991. Batistuta si laureò campione e capocannoniere con 6 gol, e la sua criniera bionda, quella forza prorompente, seppur unita ad una tecnica ancora approssimativa, non lasciò indifferente Vittorio. Che prese il telefono ed ordinò: “Insieme a Latorre, prendete anche quel ragazzone biondo, col numero 9. È fortissimo, diventerà un campione”. Non c’è che dire, un fiuto niente male. Nei nove anni di militanza viola, Gabriel sarà

“Vittorio Cecchi Gori si accorse di lui durante la Coppa America vinta dall’Argentina in Cile nel 1991”

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SIDE GRANDI PRE Cecchi Gori

Batistuta, il grande acquisto della Fiorentina di Vittorio Cecchi Gori

sempre pappa e ciccia con Vittorio, che se lo coccola come un figlio. Anche se non mancheranno gli scontri, sapientemente orchestrati dal gigantesco procuratore Settimio Aloisio. Si chiamava “ritocchino”, ed era lo zero in più che Vittorio scriveva sull’assegno di Batistuta ad ogni rinnovo di contratto. Successe nel 1993, per convincerlo a rimanere anche in serie B. Successe nel 1995, con Batistuta fresco capocannoniere e con una fortissima forza contrattuale. Successe soprattutto nel 1997, alla fine dell’era Ranieri, quando Cecchi Gori gli comunicò che il successore sarebbe stato un certo Alberto Malesani. Chi era costui? Rispose Gabriel, che si inventò anche una fantomatica crisi di nervi pur di non tornare a Firenze ed essere ceduto al Parma. In ogni caso il connubio Cecchi Gori-Batistuta ha fatto epoca, si è rivelato un capo saldo di quegli anni, una miscela esplosiva che ha prodotto una coppa

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Italia, una supercoppa ed un quasi scudetto. Rovinato da un ginocchio malconcio e dal Carnevale di Edmundo, ma questa è un’altra storia...

“La Fiorentina? Non la vendo. Piuttosto vi faccio fare la fine del Bologna, la disintegro con le mie mani”. E infatti... “ GLI ALLENATORI In principio fu il brasiliano Sebastiao Lazaroni, reduce dal mondiale di Italia ‘90, uomo scanzonato, ironico... e poco altro. Mario Cecchi Gori nel 1991, a stagione iniziata, puntò dritto su Gigi Radice. E per un anno e mezzo ebbe ragione. Poi l’esonero, la serie B con Agroppi, ed il nuovo capitolo targato Clau-


dio Ranieri, uomo simbolo della presidenza Cecchi Gori. L’allenatore romano arriva a Firenze con la squadra in serie B, instaura un rapporto di amicizia-complicità con Vittorio, che sarà la sua arma vincente. Va peggio ad Alberto Malesani, scelto personalmente da Giancarlo Antognoni, che (ahilui) mostra una personalità troppo invadente. Certamente non gradita a Vittorio. Ed infatti nel 1998 arriva Giovanni Trapattoni, per tentare la scalata definitiva al terzo scudetto. Tentativo fallito, più per sfortuna e fattori esterni, che per incapacità. L’imperatore Fatih Terim sarà l’ultima scelta improvvisata di una gestione a corrente alternata, anche se il turco riesce a plasmare una squadra capace di far innamorare tutti i fiorentini. Anche in questo caso, la figura dell’imperatore è “troppa” per Vittorio, che lo caccia, prende Mancini, vince la Coppa Italia e poi chiude baracca e bu-

Vittorio Cecchi Gori e Valeria Marini, una coppia molto chiacchierata

rattini. L’AC Fiorentina muore tra sentenze e carte bollate, l’ACF Fiorentina rinasce tra accordi politici ed imprenditoriali. Il nuovo soggetto sportivo, insomma, rinasce dalla C2, anche se tuttora Vittorio sostiene che la vera Fiorentina, quella dei due scudetti, delle sei coppe Italia, della coppa delle Coppe, della supercoppa italiana... è la sua. Tutto il resto è noia, e roba dei Della Valle. VITTORIO IN BALAUSTRA Nonostante la mancanza del lieto fine, la storia di Cecchi Gori a Firenze, è ancora oggi tema di controversie e discussioni. C’è chi la considera una favola che ha prodotto tre trofei, chi invece rimprovera (eufemismo) due retrocessioni e soprattutto il fallimento. La verità, come spesso capita, sta nel mezzo: da una parte grandi slanci, grandi investimenti, visioni oniriche e voli pindarici. Di contro errori madornali, ingenuità colossali, i classici passi più lunghi della gamba. E sullo sfondo quella dose di presunzione e protagonismo (quasi esclusivamente ad appannaggio di Vittorio) che portarono all’autodistruzione del maggio 2002. Noi vogliamo chiudere, però, mostrandovi il bicchiere mezzo pieno. E allora, nel rapporto Cecchi Gori-tifosi, ricordiamo il bagno di folla dell’estate ‘92 alla presentazione in piazza Santa Croce, i 30.000 allo stadio che aspettarono fino a notte fonda la squadra di ritorno da Bergamo con la Coppa Italia appena conquistata, Vittorio che in alcuni momenti della partita “saliva in balaustra” quasi a guidare i suoi dalla tribuna, con la madre Valeria (preoccupata per la sua incolumità) che lo tiene per la giacchetta. Infine quello striscione: “Batistuta è incedibile. Firmato il presidente”, datato maggio 1998, che in tempi di plusvalenze e bandiere ammainate, resta un’immagine indelebile negli occhi del tifoso viola. Insomma: luci ed ombre, alti e bassi, vittorie e sconfitte, morte e resurrezione. Di certo un calcio così, con presidenti così... non lo vedremo mai più.

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n o d i b i e d o Alfabet Ahn Jung-Hwan

di Thomas Saccani

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Credit foto - Liverani


L’UOMO DEL GOLDEN GOAL L’incredibile storia di Ahn, licenziato per aver fatto piangere l’intera Italia…

“Q

uel signore non deve più accostarsi alla nostra squadra. Ho già dato disposizione che venga azzerata ogni possibilità di riscatto. Sono indignato! Lui si è messo a fare il fenomeno soltanto quando si è trattato di giocare contro l’Italia. Io sono nazionalista e questo comportamento lo considero non soltanto una comprensibile ferita al mio orgoglio di italiano, ma anche un’offesa ad un Paese che due anni fa gli aveva spalancato le porte… Da noi si è sempre comportato da modesto comprimario e poi torna a casa e si mette a fare l’extraterrestre. Mi pento anche come presidente: noi lo abbiamo fatto crescere nel nostro calcio e alla fine ci accorgiamo che ci siamo rovinati con le nostre stesse mani. Io non intendo più pagare lo stipendio a uno che è stato la rovina del calcio italiano”. Con queste esatte parole, rilasciate alla Gazzetta dello Sport, Luciano Gaucci disintegra la carriera di Ahn Jung-hwan. Andiamo con ordine. Siamo nel giugno del 2002, in piena Coppa del Mondo. La rassegna iridata si disputa in Corea del Sud e Giappone. La Nazionale, pur faticando, si è qualificata alla fase ad eliminazione diretta. Negli ottavi di finale, al Daejeon World Cup Stadium, gli Azzurri, il 18 giu-

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doni

ei bi Alfabeto d Ahn Jung-Hwan

gno, se la vedono con i padroni di casa della Corea del Sud. La gara si mette bene per l’Italia che passa con Vieri. A pochi minuti dalla fine, l’allora attaccante dell’Anderlecht Seol KiHyeon pareggia i conti. Si va ai supplementari. La Nazionale del Trap è in grave difficoltà (tutti ricordano l’arbitro Moreno e l’espulsione di Totti) e, al 117’, arriva il Golden Gol sudcoreano. A firmare la rete che elimina l’Italia è un 26enne centravanti “italiano”, ossia Ahn Jung-hwan. Un colpo di testa che beffa Buffon e porta la Sud Corea ai quarti di finale per il delirio, collettivo, dell’intero Paese. Mentre in patria Ahn Jung-hwan diventa un eroe (per tutti diventa “Il Signore degli Anelli” per il suo “vizio” di baciare la fede che porta al

ATTORE E PRESENTATORE Un discreto giocatore ma un grande showman. Ahn Jung-hwan è sempre stato un “uomo copertina”. Lo si è capito quando ha sposato Lee Hye-won (nel 2001), nota per essere stata Miss Corea. Grazie alla rete rifilata a Buffon, diventa famosissimo in patria. Tante grandi aziende lo scelgono come testimonial di spot televisivi. Tra i più divertenti, uno spot pubblicitario della Canon in cui viene arrestato per aver colpito un addetto della polizia con una pallonata alla testa che lo fa rotolare per tutte le tribune dello stadio. Ma il suo vero capolavoro è la firma come presentatore di Top Gear Corea, trasmissione dedicata al mondo dei motori. Abile alla guida e attento nei giudizi. Qualcuno, ironizzando, gli ha scritto che forse avrebbe dovuto scegliere il “mestiere televisivo”, invece che giocare a pallone…

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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

dito dopo ogni gol), in Italia lo maledicono tutti, in particolare Luciano Gaucci. È il presidente che gli ha aperto, due anni prima, le porte della Serie A, l’uomo che gli ha concesso la chance di giocare con i migliori. Ora, il buon Ahn Jung-hwan è colui che l’ha ferito al cuore, rubandogli il sogno Mondiale. Il mondo si indigna. I giorni successivi alle parole del numero uno del Perugia sono carichi di tensione. Alla fine, il Perugia riscatta il giocatore ma, colpo di scena, Ahn Jung-hwan punta i piedi: “Le parole di Gaucci mi hanno fatto troppo male: mi ha offeso dicendo, tra le altre cose, che prima di venire da loro non avevo i soldi per comprare il pane. Ringrazio l’Italia, a cui sono affezionato, per come mi ha accolto, sono orgoglioso di essere stato un giocatore della Serie A, ma non voglio più giocare nel Perugia”. Tanto mistero su come siano andate, realmente, le cose. Un fatto è certo, Ahn Jung-hwan non tornerà mai ad indossare la casacca del Grifone. Quel gol alla Nazionale gli è costato caro. E dire che il sudcoreano non era affatto malaccio. Cresciuto nei Daewoo Royals, nel 2000 viene ingaggiato dal Perugia di Luciano Gaucci nel tentativo di bissare l’eccellente mossa, avvenuta due anni prima, con l’acquisto di un certo Hidetoshi Nakata. Ahn Jung-hwan ha tanta fiducia nei propri mezzi. Nel giorno della sua presentazione ufficiale, arriva a dire di poter essere meglio persino di Nakata. L’allenatore degli umbri Serse Cosmi lo utiliz-


za con parsimonia, cercando di istruirlo al calcio italiano nella maniera migliore. Nella sua prima stagione, colleziona 15 presenze, segnando quattro reti. Il suo primo exploit arriva al Curi di Perugia quando, in pieno recupero, segna la rete del definitivo 2-2 contro l’Atalanta. Si ripete la giornata seguente, segnando una delle quattro reti con cui gli umbri vincono a Bari. Il 12 maggio 2001, a Udine, arriva anche una doppietta (3-3 finale). L’anno seguente, conquistata la mitica maglia numero 10 (l’anno prima portava la 8), prova a decollare ma le presenze restano le stesse e i gol diminuiscono (una sola rete, contro l’Hellas Verona a gennaio). E arriviamo al 18 giugno del 2002, il giorno del Golden Gol all’Italia e alla fine della sua avventura italiana. La Premier League si interessa a lui. Il clamore di quanto fatto al Mondiale è enorme. Un sondaggio di una famosa rivista giapponese lo celebra come sudcoreano più conosciuto nell’intero Giappone, ancor più del connazionale Kim Dae-jung (Premio Nobel per la pace nel 2000). Tante voci ma nessun contratto. Accetta l’offerta della squadra giapponese Shimizu S-Pulse (al suo arrivo, fa visita al Monte Fuji, restandone profondamente colpito). Ci resta per una stagione (14 gol) poi passa agli Yokohama F·Marinos, altra società calcistica giapponese. Nell’estate del 2005 ha, finalmente, la possibilità di tornare in Europa. Si rimette in gioco in Francia, al Metz. Gioca poco (16 gettoni) e segna pochissimo (due reti). Dopo pochi mesi, fa le valigie per la Germania. Lo prende il Duisburg ma, anche in terra teutonica, non incanta (12 presenze, due reti). Viene comunque convocato per il Mondiale del 2006 (vinto, curiosamente, dall’Italia), dove segna un gol al Togo. Continua a girovagare: Suwon Bluewings, Busan Park e Dalian Shide. Nel 2011, dice addio al calcio giocato. Ha altro per la testa, il calcio non fa più per lui…

LE ACCUSE DI RAZZISMO Nei due anni trascorsi in Italia, Ahn Junghwan si è sentito “un emarginato”. A distanza di 10 anni dal suo periodo umbro, il sudcoreano vuota il sacco all’AFP. Forti le accuse nei confronti di Marco Materazzi, suo capitano proprio ai tempi del Perugia: “È entrato urlando verso di me davanti a tutti, dicendo che puzzavo di aglio. All’inizio non capivo cosa mi diceva, e anche il traduttore coreano è arrossito: era troppo imbarazzato per tradurre”. La moglie, sempre al fianco dell’ex attaccante, ha aggiunto che, proprio per le accuse rivolte al marito, lo stesso Ahn Jung-hwan ha smesso di mangiare aglio, ingrediente molto amato dai sudcoreani. Parole forti anche nei confronti degli altri compagni squadra: “Mi sentivo un emarginato. Raramente mi passavano la palla anche se io ero davanti alla porta e loro non avevano occasione di segnare”. Accuse alle quali Materazzi, Campione del Mondo nel 2006, risponde in maniera piccata: “Quanto ad Ahn, se uno mangia aglio come fossero mele, come faceva lui, e tu gli dici guarda, amico, ti puzza il fiato, non è certo un’offesa razzista. Lui ha tirato fuori questa storia solo per cercare un po’ di visibilità. Nessuno infatti si ricordava di lui, nemmeno in Corea”.

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ar c i t n e m i d re da non

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Lazio - Manchester United di Luca Savarese

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Credit Foto - Liverani


LAZIO REGINA DEL PRINCIPATO 27 agosto 1999, nel nobile tempio del Louis II, Lazio e Manchester United si giocano la Supercoppa europea. Marcelo Salas, entrato per un infortunio di Simone Inzaghi, firma il vantaggio. Sarà anche il gol partita.

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rent’anni in un secondo è il titolo di un film, dove due bambini, attraverso una polverina magica, passano in un baleno dall’infanzia all’inizio dell’età adulta. Vent’anni in un secondo, invece, potrebbe essere lo slogan per descrivere quello che è successo a Simone Inzaghi e Ole Gunnar Solskjaer. Ieri, anno 1999, due giovani promesse di Lazio e United, impegnati a giocarsi, nelle rispettive prime linee, la Supercoppa Europea mentre oggi sono due rampanti tecnici di gran coraggio, il primo già da qualche stagione, il secondo forse ad interim, rispettivamente sulle panchine di Lazio e United. Già allenatori in campo all’epoca della loro vita da calciatori? Quel che è certo, è che non capita tutti i giorni, di andare a riannodare i fili di una gara da

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GARE DA NON

DIMENTICARE d

Lazio - Manchester Unite

ricordare e trovare che due dei protagonisti di allora, oggi lo sono ancora, non più coi tacchetti ma con le scarpe d’ordinanza, non più in pantaloncini ma con il gessato perfetto. Simone ed Ole, certi amori non finiscono, fanno giri strani e poi ritornano. Ma, andiamo con ordine e riavvolgiamo la pellicola. Annus domini 1999, l’ultimo e poi arriva il ventunesimo secolo, si saluta la Lira e si abbraccia l’Euro. In Italia siamo presi dal primo Ronaldo, Luiz Nazario, che chiamano Fenomeno. È brasiliano e quando decide di puntarti, si salvi chi può. Una sua progressione l’anno prima è stata fermata dal malcapitato Mark Iuliano: rigore netto diranno gli interisti, semmai è Ronaldo a cercar il contatto forzato, sarà la campana bianconera. Ordalie che si scatenano, non c’era ancora il sedativo del VAR. Ma che varietà, lassù, in Italia: Juve, Inter, Milan, Lazio, Roma, Parma, Fiorentina. sette spose per sette fratelli? No, le sette sorelle, che portavano in Italia la crème della crème del futebol. Si scriveva Serie A si leggeva

IL TABELLINO DELLA PARTITA Supercoppa Europea - Principato di Monaco – 27/08/1999

S.S.LAZIO - MANCHESTER UNITED 1-0 S.S. LAZIO: Marchegiani; Negro, Nesta, Mihajlovic, Pancaro; Stankovic, Veron, Almeyda, Nedved (Simeone 21’ st); Mancini (Lombardo 39’ st), S.Inzaghi (Salas 21’ p.t.). Allenatore: Eriksson MANCHESTER UNITED: Van der Gouw; G.Neville, Stam(Curtis 11’ st), Berg, P.Neville; Beckham (Jordi Cruijff 12’ st), Keane, Scholes, Sheringham; Cole (Greening 31’ st), Solskjaer. Allenatore: Ferguson MARCATORE: 35’ Salas ARBITRO: Wojcik (Polonia) Ammoniti: Veron, Scholes. Paganti: 15.223

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regno del bengodi: Weah, Ronaldo, Zidane, Veron, Salas, Edmundo, Paulo Sergio… Se non indossavi il doppiopetto, il campionato italiano quasi non lo potevi seguire. Era la Mecca, venivano tutti, ci restavano molti. E all’estero? In Spagna, ancora lontani dal tiki taka blaugrana e dallo strapotere del Real, si assisteva ad una sana alternanza tra blancos, dove era andato ad allenare Don Fabio seguito da Panucci, e Barcellona, che con Rivaldo, Giovanni e Sony Andersonn, parlava e pensava brasiliano. La Francia non era stata ancora preda di facoltosi sceicchi ed il titolo era appannaggio ora di Nantes, Auxuerre, Monaco, Lens e Bordeaux. In Germania invece il Bayern, griffato Otmar Hitzfeld, si apprestava a portare in Baviera il suo quindicesimo Meistershale. Bayern uber alles in patria ma travolto dal rullo compressore dello United nella finale di Champions più rocambolesca e assolutamente vietata ai deboli di cuore della storia. Teatro il Camp Nou di Barcellona. Sembra che la recita sia targata Bayern quando super Mario Basler buca Peter Schmeichel. Nessuno, però, fa i conti con la forza d’urto di quel fantastico United, che nel recupero costruisce il suo fortino e mette su il suo castello dei sogni: pareggio di Teddy Sheringham al minuto 91, gol vittoria un minuto più tardi di chi? Ole Gunner Solskjaer, arrivato da Oslo per freddare il Bayern e diventare The Legend, leggenda senza tempo, lui che fu in grado di fermare il tempo, nell’Empireo United. Sir Alex centra così la sua prima coppa dalle grandi orecchie. Manchester, città di industrie, festeggia l’olio di gomito ed il labor limae di quello squadrone. Roma, invece, città di papi e imperatori, di cupolone e ponentino. Quello biancoceleste soffia forte in Europa, su quel continente fascinoso che non esiste più e che si chiamava Coppa delle Coppe. All’inizio della sua gestazione, a dir la verità, fu piuttosto snobbata quella competizione. Grossi cali-


bri come Monaco ed Atletico Madrid, addirittura si rifiutarono di prendervi parte. Le cose, cambiarono con l’annata 1960-61. In finale ecco la Fiorentina e gli scozzesi protestanti del Glasgow Rangers. Una doppietta di Milan all’andata e per i viola la gara di ritorno è più leggera. Qui Luigi Milan ed un gol dell’uccellino Kurt Hamrin, intervallati dal pari scozzese firmato Scotto, regalano alla squadra toscana ed all’Italia intera la prima Coppa delle Coppe. Il destino, quell’assistman che non si vede ma che ci vede benissimo, vorrà che anche l’ultima edizione della Coppa Coppe sia appannaggio di un club italiano: la Lazio che la ottenne superando nella finale secca di Birmingham il Maiorca. Volava forte l’aquila al tramonto degli anni ‘90, planava, con eleganza e possanza, nei cieli italiani e nei firmamenti esteri: se ti capitava di affrontarla, dovevi farti il segno della croce. Marchegiani, Nesta, Veron, Mancini, Sergio Conceicao, Nedved, Mihajlovic, Almeyda, Salas e tanti altri. Il 1998, certo vide svanire l’Uefa contro l’Inter ma portò in dote una storica doppietta: Coppa Italia contro il Milan, Supercoppa Italiana contro la Juve. Questi suonano e le suonano che è una meraviglia. Un’orchestra raffinata, note stonate poche, note azzeccate, in quantità industriale. Un estratto di quella musica viene offerto a Parma, città cara al cigno di Busseto Giuseppe Verdi. Cross di Mihajlovic tesissimo: più che un corner l’inizio di un concerto rock. Poi ecco la dolcezza, la lirica improvvisa si annida nel tacco destro di Mancini, che colpisce la palla come un soprano tocca il timpano: un giovane Buffon vede ma non prende, quella gemma travolge anche lui. Eppure, quel Parma non era una provinciale ma pensava in grande e la qualità, anche da quelle parti, si tagliava con il grissino. Era il 17 gennaio 1999. Al Tardini, finirà Parma 1 e Lazio 3. I ragazzi dell’algido Sven Goran Ericksson

confezionarono, quella sera, il manifesto della loro poetica. La prosa del campionato però, spesso indecifrabile, a volte imperscrutabile, alla fine della stagione, fece loro gettare alle ortiche diversi punti, pile scariche, Derby di ritorno perso. Stessa sentenza nella sfida con la Juve. La Lazio sembra Achille. Debole nel tallone della stagione. Ne approfitta, zitto zitto, il Milan di Alberto Zaccheroni e del primo Sheva che divenne tricolore all’ultimo respiro. Rossoneri tartaruga, partono tardi ma riescono ad arrivare primi. Per fortuna che il Mancio e compagni avevano l’autostrada della Coppa Coppe per uscire dal traffico di un campionato tante volte quasi vinto ma poi perso per davvero. Qui nessuna filosofia di Parmenide, nessu-

Solskjear, nel 1999 avversario della Lazio, è oggi l’allenatore dello United

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GARE DA NON

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Lazio - Manchester Unite

na sindrome di Achille e nemmeno nessuna tartaruga che poi fa scoppiare i sogni. Semmai una barca di quelle che descriveva Platone, di quelle che il vento accarezza e incanala, dove non è che ci sia poi tanto bisogno di remi. Losanna, Partizan Belgrado, Panionios e Lokomotiv Mosca fatte fuori

come il motoscafo sfregia lo iodio al mare. Nella Belle Époque del pallone, chi si aggiudicava la Coppa delle Coppe, avrebbe poi sfidato il vincitore della Coppa dei Campioni nella principesca e monegasca finalissima. Dopo la cavalcata dell’anno prima con trionfo in Coppa Italia, dopo aver conquistato la

IL RICORDO DI BALLOTTA Marco Ballotta con la maglia biancoceleste, nel 2007 divenne il giocatore più anziano della storia a scendere in campo in Champions. A Monaco invece era in panchina... Marco, Lazio-Manchester United, 27 agosto 1999, Principato di Monaco, quella notte ad essere principesca fu però la Lazio. Cosa ricordi di quella sfida? “Si facemmo una grande prova, fu un trofeo importante anche perché giocato in gara secca, la Lazio non aveva vinto tanto a livello internazionale, fu una situazione di pregio, per il contesto elegante, avevano una squadra all’altezza e potevamo mettere in difficoltà chiunque, è finita nella maniera migliore, sai giocare delle finali e perderle poi te le dimentichi ma giocarle e vincerle è un’altra cosa, fu una serata che si ricorda con piacere”. Era quello il Manchester United rullo compressore, eppure, riusciste a batterlo con un gol del matador Salas? “Si era un rapace d’area, sul suo gol il non fu nella circostanza impeccabile ci trovammo in vantaggio, fummo bravi a non subirne altri, merito anche di Marchegiani e della difesa, Salas mise un bel sigillo e gestimmo benone tutta la partita”. Un pregio di mister Eriksson? “Sicuramente la forte capacità di gestione del gruppo, Sai eravamo una squadra di giocatori forti, lui fu in grado di gestirci al meglio, molto spesso quando la squadra è superiore alla media, contrariamente a quanto si possa pensare, è qui che esce fuori la mano del mister, qui oltre che allenare, devi saper gestire e lui lo sapeva fare molto bene. Certo, i risultati, lo aiutarono non poco ma era un grande gestore come poi dimostrò anche quando guidò le nazionali”. Con la Lazio, qualche anno più tardi, nel novembre del 2007 all’Olimpico contro l’Olympiakos, hai avuto modo di realizzare il record di giocatore più anziano a scendere in campo in una gara di Champions. Oggi c’è uno stuolo di giovani portieri ma se un giorno, anche se sarà difficile, vorranno provare a eguagliare il tuo primato, cosa devono, sin da ora, fare? “Non è facile arrivare a giocare a 44 anni. Ci vuole anche un pizzico di fortuna ma solo alla fine, prima è indispensabile una quantità industriale di passione, un amore per la quotidianità, tante situazioni che si vanno a collimare, tu devi metterci del tuo e la squadra deve darti delle possibilità e poi capire che è necessario divertirsi dentro ogni singolo allenamento e non solo, errore che si fa spesso, pensare che ci si divertirà solo in partita”.

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Supercoppa italiana, la Lazio ha ancora una fame da lupi, anzi da aquilotti. Al Villa Park di Birmingham dopo 81’ di lotta dura senza paura è Nedved a sferrare l’acuto decisivo. Et voilà, anche la Coppa Coppe ora può prendere la strada della Roma biancoceleste. Anche l’Europa ora conosce la forza dirompente della Lazio e la rispetta, la teme. D’accordo i Red Devils erano reduci dallo scherzo al Bayern all’ultima curva della finale Champions ma la Lazio, contro la quale avrebbero gareggiato per la Supercoppa Europea, era decisamente più forte di quel Bayern. A Old Trafford, dettava legge la tecnica: il mago gallese Ryan Giggs, la stella col 7, David Beckam, la punta Cole, ma anche l’artiglieria pesante trovava sempre il modo per salire in cattedra: Roy Keane, soprannominato The Halland revenge, la rivincita Halland, per non essersi dimenticato di un duro infortunio procuratogli dal norvegese Halland nel corso di un derby con il City. Per la serie “Se ti piglio facciamo i conti”... Pensato, realizzato: quando ritrovò il norvegese durante una gara dei Red Devils contro il Leeds, la vendetta fu servita. Poi c’era Paul Scholes, che sarà stato pur asmatico, sì ma che polmoni in campo. Montecarlo è il regno del casinò e della bella vita. Un’ardua sfida quella nelle mani agli scommettitori. La pallina della roulette di Supercoppa non pendeva nettamente da una parte, come avviene ogni tanto quando uno squadrone si trova di fronte la classica sorpresa. Qui, nelle vie regali del Principato, a fine agosto ‘99, le quote laziali e quelle relative allo United, viaggiavano quasi a braccetto. Entrambe, erano sostenute da valide e contrapposte motivazioni. I capitolini non vedevano l’ora di dimenticare quell’assurdo finale di campionato, con l’incredibile remuntada del Milan. Mentre i Red Devils, erano galvanizzati dalla vittoria, in Zona Cesarini, sul Bayern. Monaco, territorio che dopo un’iniziale pre-

senza dei Fenici subì la conquista dei Greci che individuarono lì una sola zona abitata, chiamandolo Monoikos, da cui Monaco, era pronto. La squadra locale, all’epoca con giocatori del calibro di Willy Sagnol e della punta nigeriana Victor Ikpeba, aveva conseguito un quarto posto in Ligue 1 (titolo nazionale al Bordeaux). Lazio-United configurava quindi un gradevole diversivo sia per gli appassionati tifosi monegaschi e sia per chi, da quelle parti, impazziva per il circuito della Formula 1. Due monoposto fortissime erano Lazio e Manchester United. Quando i semafori diventano metaforicamente verdi, scendono in campo, tirate a lucido. Il gran premio della Supercoppa Europea può iniziare. Per i romani, ci sono Marchegiani in porta, a destra Negro, in mezzo Nesta e Mihajlovic, a sinistra Pancaro. In mezzo

Alla guida di quella meravigliosa Lazio c’era lo svedese Eriksson

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Lazio - Manchester Unite

al campo agiscono Stankovic a destra, al centro Almeyda, Veron il braccio e la mente Made in Argentina, sulla mancina Nedved, davanti Mancini a lanciare Simone Inzaghi. Lo United risponde con davanti Solskjaer e Cole, in mediana Beckam, Keane, Scholes e Sheringham, dietro ecco Gary Neville a destra, Stam e Berg centrali, il fratello di Gary, Phil a sinistra. Tutti davanti al portiere olandese Raimond Van der Gouw. Proprio il ruolo di estremo difensore, rappresentava, e la finale era pronta a confermarlo, il punto debole della squadra di Sir Alex. Dopo nove anni di onorata carriera, il portierone danese Peter Schmeichel, aveva preso la strada di Lisbona, sponda Sporting. Non fu affatto facile sostituirlo. L’olandese Raimond Van der Gouw, l’australiano Marc Bosnich ed il nostrano Massimo Taibi, in tre, non riuscirono a rimpiazzarlo. Curioso lo strano caso di Taibi. Dopo aver contribuito ad una storica salvezza con il Venezia, fu chiamato alla corte di Ferguson. Fece il suo esordio ad Anfield. Pronti via ed arrivò uno svarione, un’uscita poco ortodossa, che per Hyypia fu un gioco da ragazzi approfittarne. Durante la gara ebbe però modo di rifarsi: con parate su parate che permisero ai suoi compagni di aver la meglio sul Liverpool. Inizio di un idillio? Macché, piuttosto inizio di una fine. Gara col Southampton. Tiro non certo irresistibile di Le Tissier e paperonzola di Taibi, che perde tutti i gradi e la fiducia di Ferguson. La porta dei Red Devils se la giocheranno Bosnich, Culkin e l’olandese Van

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Si ringrazia Panini per la gentile concessione delle immagini

der Gouw, titolare a Monaco. Qui, passano venti minuti e Simone Inzaghi, attuale mister dei laziali, è costretto a dare forfait. Al suo posto dentro il matador Marcelo Salas, caldo e che al mondiale francese dell’anno prima aveva fatto vedere, con la doppietta all’Italia, di che cosa fosse capace. Quella Lazio era più forte degli imprevisti. Pancaro quando il primo tempo è passato da 34’, vola sulla sinistra. Cross tagliente, Mancini è pronto alla spizzata di testa, palla che giunge al Matador, stop di petto e giù un sinistro maligno. Non è potentissimo ma è perfido, le mani di Van der Gouw si dimostrano impreparate, la palla entra in porta. La Lazio è avanti sui sacri mostri dello United. Basterà quello scalpo cileno. Capitan Nesta può alzare la Coppa. “Sul trono più alto d’Europa c’è da ieri sera una Lazio squillante. Battuto il Manchester, sissignore. Sconfitti i maestri, antichi e nuovissimi, grondanti di medaglie sulla mitica maglia rossa. Superati di slancio con armi tattiche prima, poi con squarci di purissima tecnica, tutt’altro che la difesa e il semplice contropiede che era lecito attendersi da una squadra attualmente meno rodata” - Ebbe a scrivere in calce a quell’impresa, il “Messaggero”. Sir Alex, nel 2011, ha detto che quella sconfitta rappresenta uno dei suoi rimpianti sportivi, ammettendo che quella Lazio era il top club di quel periodo. Dopo la Coppa Coppe, ecco la Supercoppa Europea. La finale di Coppa Uefa, persa l’anno prima contro l’Inter, è dimenticata…



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