Rimozione adattiva e sapere

375 settembre 2017

Agonismo e gioco Pier Aldo Rovatti Il paradosso dell’agonismo 3 Allegato: Friedrich Nietzsche, da “Agone omerico” 24 Beatrice Bonato Giochi di potere, giochi di libertà Allegato: Peter Sloterdijk, da “Stress e libertà” 45 Massimo Recalcati Il gioco del desiderio Allegati: Jean-Paul Sartre, da “L’essere e il nulla” e Jacques Lacan, da “Scritti” Stefano Bartezzaghi “Chi vince non sa cosa si perde” 58 Allegato: Michel Leiris, da “Carabattole” 78 Davide Zoletto La scuola come “spazio” di gioco Allegato: Roger Caillois, da “I giochi e gli uomini” Eleonora De Conciliis Il gioco scolastico e la vertigine dello smascheramento 85 Allegato: Pierre Bourdieu, testi vari Antonello Sciacchitano “Bambino, vuoi giocare con me?”

106 Allegato: John F. Nash jr, da “Giochi cooperativi” Alessandro Dal Lago Per un’archeologia del combattimento sportivo 118 Allegato: miscellanea

MAL D’ARCHIVIO

Premessa [D.N.] 134 Réné Major Il turbamento dell’archivio a partire da 136 Freud Silvano Facioni L’iperbole dell’archivio 144 Giovanni Leghissa Tra enciclopedia e archivio 158 Diana Napoli “Mio nonno non era nazista” 170

INTERVENTI Tiziano Possamai Rimozione adattiva e sapere

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Interventi Rimozione adattiva e sapere TIZIANO POSSAMAI

1.

In linea generale si può dire che di tutto l’insieme di operazioni e di processi che a diversi livelli di profondità sottostà e rende possibile lo svolgimento di una qualsiasi nostra azione – dalla più elementare, come spostare un braccio, alla più complessa e articolata, come il movimento delle dita necessario per suonare il pianoforte – possiamo essere consapevoli solo di una minima parte. Quella più superficiale e visibile, e relativa, a ben riflettere, più ai risultati di tali operazioni e processi che a tali operazioni e processi in sé (per esempio il tipo di disposizione delle dita sulla tastiera del pianoforte necessario per eseguire un determinato accordo o il tipo di posizionamento delle gambe grazie al quale riusciamo a stare in piedi in equilibrio). Questa consapevolezza di norma è massima la prima volta che compiamo una determinata azione, quando il nostro saper fare è minimo, mentre poi a forza di ripetere quella stessa azione essa si riduce fino a scomparire, ossia è minima quando il nostro saper fare è massimo.

La parte restante di quell’insieme di operazioni e processi, la meno superficiale e visibile, quantitativamente più rilevante e presumibilmente destinata ad ampliarsi in termini di percezione con l’aumentare della potenza e della precisione dei nostri strumenti di investigazione scientifica, non è accessibile alla coscienza. Lo può diventare però, in forma indiretta, nel momento in cui per qualsiasi motivo dovesse smettere di funzionare. In que186

sto caso infatti anche ogni nostra capacità di azione relativa verrebbe meno, pur non scomparendo necessariamente dalla nostra memoria, che a questo punto tuttavia da implicita tornerebbe a farsi esplicita.

In questa inversione sta il dramma di certe lesioni traumatiche e malattie degenerative o del semplice decadimento fisico a cui può condurre il processo di invecchiamento: non riuscire più a compiere non tanto le attività più complesse, quanto quelle attività di base – per esempio correre e camminare – che prima riuscivamo a svolgere senza doverci pensare, mentre adesso riusciamo solo a pensare e non più a svolgere. Viene subito in mente il fenomeno dell’arto fantasma, anche se il fantasma in questo caso non è un arto del corpo ma una sua capacità. Nella persona rimane la sensazione di possedere e di poter esprimere un’abilità che di fatto non possiede e non riesce più a esprimere. Ed è solo attraverso il ripetersi nel tempo di questa mancanza che il soggetto a un certo punto può riuscire a smettere di percepirla, ad allontanarla pur conservandola, facendo della propria condizione di sopraggiunta anomalia la propria condizione di sostanziale normalità. Il termine utilizzato comunemente per questo processo, che io chiamo rimozione adattiva, è abitudine.

Ma ritorniamo per il momento ai punti ciechi del nostro agire.

Ne avevo introdotti almeno due. Uno che accompagna da sempre ogni nostra azione e movimento, l’altro che si produce nel corso del tempo e che riguarda solo determinate azioni (le cosiddette azioni acquisite). Un conto è non percepire l’attività neuromuscolare di base coinvolta in ogni nostro movimento, dal più semplice, come spostare un dito, al più articolato, come camminare mantenendo l’equilibrio, un altro è camminare mantenendo l’equilibrio senza percepire il fatto di farlo, pensando magari a tutt’altro mentre lo facciamo, cosa che ci accade tutti i giorni e alla quale (a differenza di quando ci sforzavamo di fare i primi passi) ormai non prestiamo più attenzione, se non in condizioni eccezionali o di problematicità (per esempio quando ci troviamo a percorrere un tratto di strada particolarmente pericoloso o impegnativo o quando ci capita di avere un qualche impedimento fisico).

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Se nel primo caso non si può parlare di sapere perduto, per il semplice motivo che quel sapere non è mai stato acquisito, che da sempre opera al di fuori della coscienza (prima ancora della sua stessa formazione), nel secondo caso si tratta propriamente di un sapere perduto a livello conscio, nella misura in cui a livello inconscio è stato acquisito. Ora, diversamente dal primo, questa seconda forma di sapere tende in parte a riemergere quando nel suo abituale dispiegarsi si imbatte in qualcosa di non familiare, degli imprevisti, delle difficoltà. Basta una parola scritta con caratteri sconosciuti o di cui ignoriamo il significato e la nostra capacità di lettura automatica si inceppa, e questo suo incepparsi riporta la nostra attenzione su ciò che stiamo facendo o cercando di fare. Allo stesso modo basta un qualsiasi problema che limiti la nostra capacità di camminare per riacquisire coscienza di tale capacità (una capacità che abitualmente ignoriamo). Insomma, come dice il proverbio, la lingua batte dove il dente duole. E qui la lingua sta per pensiero cosciente, il dente per sapere non cosciente.

Un problema a questo punto si pone se la lingua batte e il dente non duole. Nel momento in cui cioè quell’attenzione dovesse permanere anche in assenza di motivi concreti – per esempio degli impedimenti o pericoli effettivi – che ne giustifichino la permanenza, come se quei pericoli o impedimenti fossero frutto dell’attività ideativa del soggetto (se la lingua batte e il dente non duole il problema si situa presumibilmente a livello della lingua e non del dente). Questa sorta di disturbo da eccesso di attenzione nei confronti di se stessi e del proprio agire può essere dovuto al fatto che tale sapere non è stato acquisito, e quindi fondamentalmente neanche perduto (cioè rimosso in senso adattivo), in maniera appropriata. La conservazione di questa attenzione, normalmente destinata a scomparire (a essere appunto rimossa), impedirebbe al soggetto di agire senza la continua sorveglianza della coscienza, anche quando per agire (e qui sta propriamente il problema) tale sorveglianza andrebbe evitata, o per meglio dire andrebbe delegata all’inconscio. Si pensi per esempio a una persona che non riesce a inghiottire una pillola per l’eccessiva atten188

zione all’atto di inghiottire, un atto che bisognerebbe saper eseguire senza pensarci.

Questo soprappiù di attenzione cosciente, dunque, non è che l’altra faccia di una carenza di attenzione non cosciente, una sorta di tentativo (perlopiù fallimentare o comunque problematico) di sopperire al cattivo funzionamento del nostro sistema di attenzione inconsapevole. Tale disturbo può assumere forme e livelli di intensità diversi. Si va da una semplice timidezza e ipocondria a un disagio molto più profondo e inabilitante. Qui Bion parlerebbe probabilmente di ipersensibilità dovuta all’incapacità di “liberare la coscienza dal peso del pensiero”.1 Il soggetto non sarebbe in grado di trasferire a livello inconscio quei dati dell’esperienza necessari per agire senza essere continuamente consapevole del suo agire. Ne deriverebbe un accumulo di pensiero cosciente che invece di facilitare l’agire del soggetto lo renderebbe più difficile, e nei casi più gravi impossibile. Il processo di “rimozione adattiva” è appunto quel processo che permette di scongiurare questo accumulo e di dare vita a quello che Bion chiama il pensiero inconscio della veglia. Da questo pensiero dipende il corretto funzionamento di buona parte del nostro agire quotidiano, quando manca o è carente il rapporto con se stessi e il mondo non può che risultare compromesso.

Se in Bion questa ipersensibilità corrisponde a una forma di grave alienazione dalla realtà, in altre circostanze e dosi essa può rivelarsi un attributo ideale per esplorare la realtà in maniera approfondita. A una certa ipersensibilità, associata a un surplus di pensiero cosciente, dobbiamo quel sentimento di stupore misto a inquietudine da cui scaturisce, secondo Aristotele, quella particolare forma di volontà di sapere che chiamiamo filosofia. L’atteggiamento filosofico, perlomeno un certo atteggiamento filosofico, si può misurare proprio dalla capacità di conservare quel surplus di attenzione cosciente che qualsiasi sapere acquisito deve invece perdere (ossia “rimuovere”, sedimentare a livello in1. Cfr. W.R. Bion, Apprendere dall’esperienza (1962), trad. di A. Armando, P. Bion-Talamo, S. Bordi, Armando, Roma 2009, p. 30.

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conscio) per potersi esprimere come tale. Ecco perché insieme alla possibilità di cogliere ciò che al non filosofo normalmente sfugge, a causa principalmente della sua disattenzione (una disattenzione che non è che una forma di assuefazione a un certo modo di vedere e di agire e che si accompagna paradossalmente a sicurezza e padronanza di sé), il filosofo tende a sperimentare il disagio che il mantenimento di quel sovrappiù di attenzione può comportare. È precisamente questo disagio (di cui il dubbio è il sintomo più noto e celebrato), insieme al realizzarsi di quella possibilità, a far dire a Socrate di se stesso: “Sono il più stravagante (atopos) degli uomini e non faccio che seminar dubbi”;2 e a spingere Nietzsche, molti anni più tardi, a fare l’elogio della sua infermità.3 E gli esempi naturalmente potrebbero continuare ed estendersi ad altri campi di ricerca, sia delle cosiddette scienze dello spirito sia delle cosiddette scienze della natura (si pensi, per esempio, in ambito letterario, all’ipersensibilità di autori come Proust, Dostoevskij, Kafka). La stessa psicoanalisi, che nasce come metodo di cura del disagio psichico, scaturisce da un sovrappiù di attenzione introspettiva di Freud (la sua famosa autoanalisi) che egli stesso non esitò a definire, in più di un’occasione,“una specie di esperienza nevrotica”.4 2. Comunque sia da intendere il rapporto tra volontà di sapere (o di non rimozione) e ciò che ho appena descritto come un disturbo da eccesso di attenzione, e quindi anche – capovolgendo i termini della questione – tra volontà di non sapere (o di rimozione) e quella che attualmente gli psicologi chiamano sindrome da deficit di attenzione, va detto che, al di là di qualsiasi ritorno di attenzione cosciente, il sapere che guida le nostre azioni non sarà mai 2. Platone, Teeteto, 149a.

3. “Per quanto riguarda la mia lunga infermità, non le devo infinitamente di più che alla mia salute? … Le devo anche la mia filosofia” (F. Nietzsche, Nietzsche contra Wagner [1895], in Opere, Adelphi, Milano 1970, vol. VI , tomo 3, Epilogo, I ).

4. Cfr. S. Freud, Lettere a Wilhelm Fliess 1887-1904 (1985-86), trad. di M.A. Massimello, Bollati Boringhieri, Torino 1990, lettera 131, p. 286.

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interamente traducibile in fattori consci. Non solo perché buona parte di esso, come già osservato, è strutturalmente inaccessibile alla coscienza, e di conseguenza sia il perdersi che il ritrovarsi esulano dalle sue possibilità, ma anche per la particolarità di quel sapere: procedurale e non dichiarativo, cioè privo di un contenuto esprimibile in forma diversa da quella del fare.

Per spiegare questo scarto alcuni studiosi ricorrono alla distinzione di Gilbert Ryle tra knowing how (a cui corrisponderebbe la memoria procedurale e il cui contenuto è inesprimibile verbalmente) e knowing that (a cui corrisponderebbe la memoria dichiarativa e il cui contenuto si esprime in forma verbale). Se riprendiamo la classica distinzione freudiana tra “processo primario” e “processo secondario”, viene naturale associare il primo (knowing how) al processo primario (o linguaggio dell’inconscio) e il secondo (knowing that) al processo secondario (o linguaggio del conscio). In effetti, benché non sovrapponibili o sovrapponibili solo in parte, le due distinzioni portano con sé un analogo problema di traducibilità dovuto alla diversa natura dei processi che le costituiscono.

Come la verità del desiderio, insomma, anche la verità dell’azione (seppure diversa dalla verità del desiderio) non può essere detta né pensata, dato che è proprio ciò che interrompe la parola e il pensiero. La verità dell’azione, in senso stretto, può essere soltanto agita. Ogni tentativo di dire e di pensare l’azione, per quanto possa avvicinarsi all’azione, per quanto possa evocarla, non potrà mai coincidere con essa né potrà mai sostituirsi a essa. Anche se nella realtà lo fa frequentemente, a conferma dello stretto rapporto che unisce questi due piani del reale. Questo rapporto può essere considerato analogo a quello che intercorre tra mappa e territorio: anche la mappa infatti non potrà mai annullare la distanza dal territorio che rappresenta né prendere il suo posto, eppure nella realtà spesso ciò accade (“fallacia della concretezza malposta”, la chiamava Alfred Whitehead). Quel che può fare una mappa, e qui ne va il senso più proprio della sua funzione, è rappresentare il territorio più o meno bene, in modo più o meno corrispondente e utile per chi dovrà farne uso.

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La relazione tra mappa e territorio può aiutarci a comprendere perché una funzione così importante per il nostro agire come l’attenzione cosciente in certi casi può rivelarsi di disturbo, anziché di aiuto, per il nostro agire. Il meglio, come si sa, è nemico del bene. Non solo poche, anche troppe informazioni possono rendere una mappa inadatta al suo scopo benché – o proprio perché – più completa e precisa. Il valore operativo di una mappa non sta nella sua capacità di riprodurre il territorio nella sua interezza, cosa evidentemente inutile oltre che impossibile, ma di restituirne una versione ridotta e trasformata, funzionale al suo impiego. La rappresentazione di tutto ciò che non ha un’attinenza significativa con la strada che dobbiamo percorrere (persone, alberi, cespugli, foglie, nuvole, case ecc.), anche se effettivamente presente nel territorio che la strada attraversa, può ostacolare il suo riconoscimento e quindi, in ultima analisi, impedirci di arrivare a destinazione, farci perdere l’orientamento. Lo stesso vale per la nostra attenzione cosciente (sia nei confronti di noi stessi che del mondo esterno), per non produrre un ingorgo informativo a causa all’esorbitante numero di stimoli a cui è incessantemente sottoposta, deve essere ridotta in termini quantitativi, circoscritta agli aspetti essenziali.

Ora, in termini di attenzione, questi aspetti essenziali sono soprattutto quelli che non rientrano nella norma, nella regolarità, e che quindi abitualmente non vengono (ed è bene che non vengano) rimossi in senso adattivo, cioè resi invisibili a livello conscio, dati per scontati. In un certo senso possiamo permetterci di perdere sul piano dell’attenzione cosciente (e al contempo acquisire sul piano dell’attenzione non cosciente) solo quegli elementi dell’esperienza che hanno a che fare con la ripetizione, non quelli che hanno a che fare con la differenza; i fenomeni la cui validità si mantiene nel tempo, non quelli la cui validità muta in base alle circostanze; le generalità di una determinata situazione ed esperienza, non le particolarità e le eccezioni.

Tutto ciò svela una caratteristica del sistema inconscio non sempre tenuta nella giusta considerazione, e cioè il fatto di essere un sistema che ha a che fare con il rispetto delle regole più di 192

quanto abbia a che fare con la loro rottura. Questa particolarità lo fa assomigliare a una rigorosa ed efficiente segretaria dell’io e non al suo esplosivo e ricalcitrante padrone, come appare invece da una certa vulgata psicoanalitica. Non solo l’io, anche l’inconscio è un’entità fortemente adattiva. Così adattiva da rendere naturale ciò che naturale non è. Lo abbiamo intravisto sopra parlando di lesioni traumatiche, ma le implicazioni di questo aspetto possono essere molto più vaste e arrivare alla messa in questione del concetto stesso di natura. Tutti i cosiddetti processi di naturalizzazione culturale di fatto passano per questa strada: la strada della rimozione adattiva. Ed è proprio perché passano per questa strada che sono così difficili da riconoscere e da combattere.

In ogni modo, la questione dell’attenzione non va intesa unicamente in termini quantitativi e di differenza tra mappa e territorio, ma anche in un’ottica qualitativa e di differenza tra mappa e mappa. Se è vero che ogni azione acquisita implica la perdita di una certa dose di attenzione cosciente, e se il ritorno di questa attenzione è in qualche misura sempre possibile, ciò non significa che sia sempre riconoscibile: a volte il ritorno non va al di là di una mera sensazione refrattaria a ogni presa di coscienza.

Non solo la mappa non è il territorio, ma di uno stesso territorio vi possono essere infinite mappe, molte delle quali del tutto irriducibili al fattore conscio. Non solo la mappa non è il territorio, spesso non è nemmeno una mappa.

Si pensi, per esempio, alla meraviglia che può suscitare in certe situazioni sentire delle persone, magari dei bambini, parlare fluentemente la loro lingua nativa, che noi conosciamo poco o non conosciamo per niente, come se all’improvviso si facesse strada in noi (in forma di emozione e non di ragionamento consapevole) la cognizione perduta (rimossa) di quanto sia strana e complessa un’attività in apparenza così agevole e ovvia come conversare. È come se all’improvviso realizzassimo (senza in realtà realizzarlo) quanto parlare una lingua e comprenderla, per alcuni (nello specifico a loro) così facile e naturale, possa risultare ad altri (nello specifico a noi) così innaturale e impraticabile.

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In fondo, fatte le dovute distinzioni (i bambini a differenza dei musicisti normalmente imparano a parlare senza alcuna fatica e applicazione), è lo stesso stupore che può provare colui che non sa suonare di fronte ai virtuosismi del musicista esperto, o colui che riesce a malapena a digitare sulla tastiera di un computer di fronte alla destrezza di un utilizzatore incallito. E anche qui gli esempi potrebbero continuare ed estendersi ad altri ambiti (si pensi in particolare a quello sportivo). In questi ultimi casi tuttavia, mancando la simmetria dal punto di vista dell’abilità, viene meno anche la simmetria dal punto di vista dell’emozione, ovvero ci possiamo stupire solo per la complessità di ciò che, senza pensarci, sa fare l’altro (suonare uno strumento musicale, digitare sulla tastiera, compiere quel determinato gesto atletico) e non, come nel primo caso, per la complessità di ciò che, senza pensarci, oltre all’altro sappiamo fare anche noi (parlare fluentemente la nostra lingua materna).

Proprio nell’autoreferenzialità di questo sovrappiù di stupore si esprime il ritorno di attenzione di cui dicevo sopra, un ritorno in ogni caso che, ed è questo il punto, perlopiù non sa di essere tale.

3. Un meccanismo di ritorno e di cecità per certi versi analogo a quello appena descritto è all’opera anche nella cosiddetta cognizione rapida o pensiero intuitivo, ossia in quel tipo di pensiero che, come sottotitola un recente saggio di Malcolm Gladwell, ha “il potere di pensare senza pensare”.5 L’episodio con cui Gladwell apre il suo saggio è un esempio virtuoso di questo fenomeno. Qui il ritorno di sapere, per quanto opaco a se stesso, è dotato di una vista particolarmente acuta. Non bisogna dimenticare tuttavia che un meccanismo di ritorno analogo è all’opera anche nelle varianti viziose del fenomeno, dove alla cecità del processo si accompagna la cecità del risultato.

5. M. Gladwell, Blink: The Power of Thinking without Thinking, Little, Brown, New York 2005; trad. di M. Parizzi, In un batter di ciglia. Il potere segreto del pensiero intuitivo, Mondadori, Milano 2005.

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Nel 1983 i curatori del Getty Museum di Los Angeles incaricarono un team di studiosi di indagare l’autenticità di una scultura, un kouros greco del VI secolo a.C., offerta al museo dall’allora mercante d’arte Gianfranco Becchina. Dato lo straordinario valore del reperto, il team svolse le ricerche in modo molto accurato, prendendosi tutto il tempo necessario e avvalendosi di tecniche scientifiche avanzate. Dopo oltre un anno di studi la statua venne giudicata autentica e quindi acquistata dal museo. L’intera operazione tuttavia fu accompagnata da forti polemiche perché nel frattempo alcuni esperti di scultura antica6 avevano messo in dubbio l’autenticità del reperto sulla base di quella che Gladwell definisce un’istintiva sensazione di rifiuto alla vista della statua.

Ora, proprio questo senso di “istintiva repulsione”, sulla quale Gladwell fonda tutto il suo fortunato saggio, si può considerare un effetto della non familiarità di cui parlavo sopra: una sorta di inceppo che interrompe la fluidità di un’altrimenti impercettibile lettura. Un po’ come quando un consumato lettore avverte al primo sguardo che qualcosa non va in una pagina (per esempio la presenza di parole scritte in modo scorretto) dalla sua forma (appunto non familiare) senza alcun bisogno di leggere né di studiare in profondità quella pagina.

La misura di questo “inceppo” è direttamente proporzionale al livello di familiarità del soggetto con la materia in questione.

Per restare all’esempio del Getty, coloro che non possiedono alcuna esperienza di scultura antica non potranno mai provare una sensazione di non familiarità e quindi di rifiuto (leggi inautenticità) di fronte a una statua del VI secolo a.C. (poco importa se originale o meno). Lo stesso vale per un analfabeta di fronte a una pagina piena di refusi. Questa sensazione, per farla breve, non è che il ritorno indiretto di una conoscenza acquisita (e quindi come tale a un altro livello perduta) attraverso una prolungata esperienza di lavoro e di studio sul campo.

Anche a livello cognitivo insomma si ripropone ciò che acca6. Uno dei primi fu Federico Zeri, che anche a causa di questi dissensi ruppe la sua collaborazione con il museo.

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de sul piano dell’azione: ogni processo di acquisizione del sapere equivale a un processo di rimozione, nella misura in cui implica un movimento di allontanamento e al tempo stesso di ritorno del sapere, uno spostamento da fuori a dentro e poi da dentro a fuori: una scomparsa del sapere a livello conscio (allontanamento) e una sua restituzione a livello inconscio (ritorno). L’effetto finale di tutto ciò è quello descritto da Gladwell nel suo saggio: so che la scultura non è autentica anche se non so dire il perché.

Sull’episodio del Getty si è discusso e scritto molto. Per ciò che interessa qui è sufficiente ricordare che con il passare degli anni le indagini degli studiosi e dei curatori del museo si mostrarono sempre più lacunose, mentre l’ipotesi che la scultura fosse un falso ottenne sempre più conferme, al punto che ormai praticamente nessuno crede ancora alla sua autenticità.

Episodi come questo confermano ciò che osservava Freud alla fine dell’Interpretazione dei sogni, e cioè che “le attività intellettuali più complesse sono possibili senza la partecipazione della coscienza”.7 Andando più in dettaglio, questa vicenda rivela in primo luogo l’esistenza di una processualità psichica che opera al di fuori della coscienza e di cui la coscienza intravede solo il risultato finale (la sensazione di rifiuto), mentre ciò che ha contribuito a produrre quel risultato (il processo) rimane nascosto, dietro le quinte. In secondo luogo questo episodio mette in luce l’estrema velocità con cui tale processualità psichica inconscia mostra di saper elaborare un’enorme e complessa quantità di dati (il tempo di uno sguardo) rispetto a quella conscia (più di un anno di indagini). In terzo e ultimo luogo, ciò che emerge è la grande efficacia di questa processualità psichica inconscia. In un batter d’occhio gli esperti mostrarono di aver compreso più di quanto avessero compreso, dopo oltre un anno di indagini, il team di studiosi e i curatori del museo.

Ora, queste tre caratteristiche (inconsapevolezza, rapidità, alta efficienza) le abbiamo incontrate parlando del suonatore di 7. S. Freud, L’interpretazione dei sogni (1900), in Opere, trad. di E. Fachinelli e H. Trettl, Boringhieri, Torino 1966, vol. III , p. 540.

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pianoforte. E continuiamo a incontrarle, a vari livelli di profondità e perlopiù senza riconoscerle, in buona parte delle nostre attività quotidiane di base, ovvero ogni volta che camminiamo, corriamo, leggiamo, scriviamo (a mano o utilizzando le tastiere dei nostri dispositivi elettronici). Ed è proprio il ripetersi quotidiano di queste attività a permetterci di svolgerle, e al tempo stesso a farci sfuggire il fatto di svolgerle, nel modo altamente efficiente in cui le svolgiamo.

4. Nell’Interpretazione dei sogni Freud a un certo punto rileva che il sogno “riesce a condensare in un brevissimo lasso di tempo un contenuto percettivo nettamente superiore al contenuto di pensiero che la nostra attività psichica è in grado di controllare durante la veglia”.8 Questa osservazione è ribadita anche nelle pagine finali del libro: “Dal punto di vista della percezione cosciente del contenuto onirico già formato, ci sembra esatto dire che il processo onirico è rapido, istantaneo”.9 Per certi aspetti è proprio questo scarto di velocità, tra sistema inconscio e sistema conscio, a fare del secondo – di sua maestà l’Io, come lo chiamava Freud – il servo del primo. Nel senso di colui che pur figurando ufficialmente come la parte agente del soggetto in realtà sta sempre un passo indietro, è continuamente costretto a inseguire l’agire anticipato del primo. La coscienza arriva sempre dopo, giunge sul far della sera, come la Nottola di Minerva di hegeliana memoria. È una forza essenzialmente reattiva, taglierebbe corto Nietzsche. Motivo per cui “ci rende tutti codardi”, fa dire Shakespeare ad Amleto.

L’estrema velocità del processo inconscio rende la questione della sua alta efficacia più complicata e ambivalente. Come ognuno di noi può facilmente verificare, la velocità non sempre si accompagna all’efficienza, né di giudizio né di azione. Per poter essere veloci infatti, sia in termini di azione che di giudizio, bisogna operare su un range ristretto di variabili in gioco, basarsi su quel8. Ivi, p. 68.

9. Ivi, p. 537.

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le che, dopo gli studi di Nalini Ambady,10 gli psicologi chiamano “fette sottili” (thin slices) di esperienza, e quindi la precisione – se non è compensata dalla qualità delle variabili selezionate – ne può risentire. Questo si mostra tanto più vero quanto il compito da svolgere è complesso.

Nella vicenda del Getty Museum la qualità delle variabili, nell’intuizione degli esperti, è stata assicurata da quel processo di incorporazione della conoscenza che io chiamo “rimozione adattiva”. È questo processo a consentire all’occhio degli esperti di percepire in un batter di ciglia non tanto gli aspetti che si ripetono (ininfluenti ai fini di un giudizio di inautenticità) quanto quelli che differiscono (decisivi in tal senso). Se il sistema inconscio in questo caso è riuscito a trasformare un meno di informazione e di tempo in un più di sapere è perché ha interiorizzato (rimosso) un più di informazione e di sapere nel tempo. Mentre il sistema conscio, che non introietta alcunché, che non è destinatario di alcuna rimozione, necessita normalmente di un più di informazione e di tempo per raggiungere un più di sapere, e a volte, come conferma la vicenda del Getty, può non bastare. L’interesse di questa storia sta proprio nel mostrare in azione entrambi i processi: quello mistificante, frutto del sistema conscio, e quello virtuoso, frutto del sistema inconscio.

Come la capacità di suonare il pianoforte, anche la capacità di riconoscere l’inautenticità di una scultura con uno sguardo è il risultato della restituzione di un sapere incorporato nel tempo. Nel caso specifico questo ritorno si manifesta mediante una sensazione (intuizione emotiva o emozione giudicante), nel caso del suonatore di pianoforte e di altre abilità motorie più comuni, come camminare, scrivere, andare in bicicletta, si esprime in forma procedurale. In tutti i casi, velocità e correttezza, dell’intuizione da una parte e dell’esecuzione dall’altra, risultano normalmente proporzionali al tempo investito in termini di ripetizione. È questo il 10. Cfr. N. Ambady, R. Rosenthal, Thin Slices of Expressive Behavior as Predictors of Interpersonal Consequences: A Meta-analysis, “Psychological Bulletin”, 2, 1992, pp. 256-274.

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lato produttivo della resistenza. Più a lungo un soggetto si esercita (ripete), più sapere introietta (rimuove), più veloce e precisa sarà la sua risposta adattiva (ritorno del rimosso), in forma procedurale, cognitiva ed emotiva. Al contrario, meno tempo il soggetto dedica all’esercizio, cioè alla ripetizione, meno sapere introietta (rimuove), più lenta e imprecisa sarà la sua risposta adattiva (ritorno del rimosso).

Se proviamo a tradurre questo discorso in termini alimentari la formula può essere all’incirca la seguente: più una persona mangia masticando a lungo e lentamente più possibilità ci sono che digerisca tutto e bene, più una persona mangia masticando poco e velocemente più possibilità ci sono che il cibo gli vada di traverso e che abbia problemi di digestione. In tal modo si potrebbe leggere anche la patogenicità del meccanismo rimovente in senso psicoanalitico tradizionale. La rapidità della rimozione, cioè, potrebbe essere uno di quegli elementi che impediscono al soggetto di utilizzare a proprio vantaggio l’esperienza rimossa. Il sapere comune sintetizza tutto ciò in vari motti e proverbi, più o meno noti, quali “il tempo aggiusta tutte le cose e fa lieto ogni dolore” o “la gatta frettolosa fa i gattini ciechi”. Di particolare interesse è anche il seguente detto francese: “Il tempo distrugge solo le cose costruite senza tempo”, vale a dire senza ripetizione.

Non bisogna naturalmente dimenticare, a questo punto, che gli effetti, positivi o negativi, di ogni processo rimovente, come di ogni sistema digestivo, non dipendono solo dai tempi di rimozione o di ingestione del cibo, ma anche e soprattutto da ciò che tale processo rimuove, dal cibo che viene introdotto nel sistema (vale qui il motto di Feuerbach, secondo il quale l’uomo è ciò che mangia). Detto nel modo più schematico possibile: se rimuoviamo-ingeriamo desiderio restituiamo (per quanto camuffato) desiderio, se rimuoviamo-ingeriamo angoscia restituiamo angoscia, se rimuoviamo-ingeriamo sapere restituiamo sapere, se rimuoviamoingeriamo ignoranza restituiamo ignoranza e così via.

Questo significa che lo stesso meccanismo che ha permesso agli esperti di intuire in un batter di ciglia (glimpse) che qualcosa non andava nel kouros acquistato dal Getty Museum può farci 199

prendere, in tempi altrettanto rapidi, delle cantonate incredibili.

Buona parte dei pregiudizi e degli stereotipi, a ben riflettere, originano da un meccanismo di rimozione e di ritorno analogo, come ha mostrato, tra gli altri, Erving Goffman nel suo lavoro sulle rappresentazioni del rapporto di genere negli annunci pubblicitari11 a cui si sono ispirati gli psicologi Nalini Ambady e Robert Rosenthal per formulare la loro teoria delle “fette sottili”.12 Uno dei vantaggi del procedere lento del sistema conscio è la possibilità di individuare e di correggere gli errori di una iniziale risposta rapida generalizzata tipica del sistema inconscio, grazie a un’analisi più dettagliata e approfondita. Essendo il mondo una realtà fondamentalmente ambigua, questa funzione di monitoraggio non può che rivelarsi utile da un punto di vista adattivo. Per capirci, è quella che ci permette di aggiustare tutta una serie di svarioni percettivi quali scambiare una corda arrotolata per una serpe. La scarto di velocità tra i due sistemi amplia le nostre possibilità di sopravvivenza, consentendoci di andare al di là della fissità dei nostri schemi di lettura del mondo e al tempo stesso di conservare tale fissità: in termini di sopravvivenza infatti continua a essere vantaggioso fuggire all’istante, senza pensare, di fronte a una corda arrotolata che restare fermi a riflettere sul da farsi di fronte a una serpe. Più in generale, reagire con rapidità a una questione che richiederebbe i tempi lenti del sistema conscio (per esempio un problema di natura finanziaria) o, viceversa, reagire con lentezza di fronte a una questione che richiederebbe i tempi veloci del sistema inconscio (per esempio di fronte a un pericolo improvviso) riduce le possibilità di successo della reazione.

Se nella vicenda del Getty la velocità di risposta del sistema inconscio si è mostrata ad alto funzionamento rispetto a quella lenta e ponderata del sistema conscio, questo non significa che sia alla portata di chiunque intuire con un’occhiata l’inautenticità di una scultura greca del VI secolo a.C. (come non è alla portata di chiunque suonare con destrezza il pianoforte). Non sempre il 11. E. Goffman Gender Advertisements (1976), Harper & Row, New York 1979.

12. N. Ambady, R. Rosenthal, Thin Slices of Expressive Behavior, cit.

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passaggio dalla sensazione al giudizio è così diretto e scontato. In certi casi può essere molto più lungo e travagliato, in altri ancora può non avvenire mai. Soprattutto non sempre le nostre sensazioni immediate implicano dei giudizi corretti. In un batter di ciglia è possibile fare centro ma anche sbagliare clamorosamente senza sapere il perché, se è cosa abituale.

5. Nella rivisitazione del suo saggio L’errore di Cartesio, Antonio Damasio cita la vicenda del Getty come un chiaro esempio dell’importanza delle emozioni per il processo decisionale. Secondo Damasio, il desiderio dei curatori di arricchire la collezione del museo con un reperto particolarmente pregiato avrebbe spinto la loro decisione nella direzione dell’autenticità; viceversa, l’immediata sensazione di rifiuto provata dagli esperti alla vista della statua avrebbe agito sulla loro valutazione in senso contrario. Scrive Damasio: “Alla formulazione di questi due giudizi divergenti, parteciparono dunque – a diversi stadi del processo di ragionamento – emozioni di segno diverso. Per alcuni si trattava del desiderio, intenso e gratificante, di autenticare la scultura; per altri c’era la sensazione viscerale, immediatamente negativa, che in essa ci fosse qualcosa di sbagliato. In nessuno dei due casi, tuttavia, la ragione operò da sola, ed è esattamente questa l’idea essenziale proposta nell’Errore di Cartesio”.13 Ora, se è vero che la ragione in entrambe le circostanze non operò da sola ma accompagnata da una emozione, lo è altrettanto che la natura dell’emozione e le dinamiche dell’accompagnamento variano a seconda dei casi. Nel primo, l’intenso desiderio dei curatori di autenticare la scultura è del tutto svincolato dalla loro competenza in materia e si lega semmai, come suggerisce giustamente Damasio, a questioni di gratificazione personale e di prestigio del museo. Nel secondo caso, invece, la sensazione di rifiuto degli esperti è strettamente dipendente dalla loro competenza in materia, ossia dalla loro familiarità con quel tipo di scultura, 13. A. Damasio, “‘L’errore di Cartesio’ rivisitato”, in L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano (1994), Adelphi, Milano 2012, p. 7.

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senza la quale, come già osservato, non avrebbero semplicemente potuto provare quel tipo di emozione.

In altre parole, se il desiderio di autenticare la scultura può aver condizionato, marcato direbbe Damasio, le ricerche del team e il giudizio dei curatori (e come tale rientra a tutti gli effetti nell’ordine delle cause), la sensazione di rifiuto degli esperti, prima di essere un marcatore somatico del loro giudizio, è il frutto indiretto della loro esperienza di lavoro e di studio sul campo (e come tale rientra innanzitutto nell’ordine degli effetti). Da una parte è l’emozione (il desiderio che la scultura fosse autentica) a porsi alle spalle della ricerca e a condizionarne il risultato, dall’altra è invece l’esperienza di ricerca a porsi alle spalle e a determinare l’emozione (la sensazione viscerale di rifiuto). Inoltre, nel primo caso il desiderio è duraturo mentre l’esperienza di ricerca è limitata nel tempo (poco più di un anno), nel secondo invece la sensazione di rifiuto è immediata mentre l’esperienza di ricerca che sta alle sue spalle è di lunga durata (gli esperti interpellati potevano dirsi tali proprio perché potevano contare, non su uno, ma su parecchi anni di lavoro e di studio sul campo).

Visto in questa luce, il giudizio positivo dei curatori del museo può apparire come il risultato di un processo di rimozione di tipo difensivo, mentre il giudizio negativo degli esperti esterni come la conseguenza di un processo di rimozione di tipo adattivo. Pur di arricchire la collezione del museo, i curatori potrebbero cioè aver utilizzato quella che Freud chiamava la tattica dello struzzo, a favore del principio di piacere (il desiderio di autenticare la scultura) e a scapito del principio di realtà (il fatto che non lo fosse).

Non a caso la realtà – come ogni rimosso verrebbe da dire – ritorna. Prima nell’intuizione degli esperti esterni e poi nel giudizio di tutti gli studiosi che successivamente ebbero modo di esaminare la scultura con minor coinvolgimento emotivo.

Se nel caso dei curatori del museo la strategia può essere equiparata a quella dello struzzo, nel caso degli esperti esterni si può pensare al lavoro di una talpa, la quale sente ma non vede, sa e rivela pur essendo quasi cieca, la cui capacità di percepire diminuisce e non aumenta alla luce del sole, in quanto proprio ciò 202

che illumina l’abbaglia, le confonde la vista. Fuor di metafora, gli esperti esterni si sarebbero avvalsi del ritorno indiretto di un sapere acquisito (dunque rimosso, depositato nell’inconscio) attraverso una lunga esperienza sul campo (ripetizione). Anche qui il rimosso ritorna, ma non in forma di realtà negata, né di sintomo, bensì in forma di emozione giudicante, di sensazione viscerale di rifiuto. Ovvero di un sapere che sa, essendo stato a livello inconscio acquisito, e allo stesso tempo non sa, essendo stato a livello conscio perduto, le ragioni del suo sapere. Motivo per cui il giudizio degli esperti, per quanto corretto, poté rimanere inizialmente inascoltato, e solo più tardi riuscì a riemergere alla luce del sole (come una vecchia talpa, per l’appunto).

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