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NATURA GRANDE MAESTRA: IL MESSAGGIO DI TIZIANO TERZANI Di Gloria Germani

Chi è stato Tiziano Terzani? E’ stato un laico, formatosi in una cultura marxista, , un inviato di grandi quotidiani internazionali, un corrispondente di guerra ? Oppure è stato un saggio, vestito di bianco, con la lunga barba, che aveva fatto suo un modo di sentire e di vivere profondamente religioso e spirituale? Quando affascinava tanti giovani, all’indomani dell’11 settembre, parlando nelle assemblee, nelle scuole, era forse un ecologista, un no global, un pacifista? La linea interpretativa che ho seguito in Tiziano Terzani, la rivoluzione dentro di noi1, è stata quella – semplicissima - di leggere in progressione i nove libri a cui Terzani ha affidato la sua esperienza di uomo, corrispondente dall’Asia per 30 anni. A partire dai primi: Pelle di leopardo,Diario vietnamita di un corrispondente di guerra 1972-1973; Giai Pong, la liberazione di Saigon a la Porta proibita dedicato agli anni vissuti in Cina a Buonanotte Sig Lenin, fino a In Asia - il volume in cui Terzani ha raccolto i migliori pezzi scritti sul continente asiatico per suggellare la fine del suo rapporto con il giornalismo fino ai libri che segnano la svolta della sua visione del mondo che inizia con Un indovino mi disse, prosegue con Lettere contro la guerra, e si conclude con Un altro giro di giostra. Postuma è invece la registrazione del dialogo con il figlio Folco, quando a 2 mesi dalla morte non era più in grado fisicamente di scrivere: pubblicata con il titolo La fine è il mio inizio. Da questa semplice lettura, il suo percorso mi è apparso in maniera chiarissima come un’ evoluzione estremamente coerente. La chiave più semplice e più sintetica per capire la sua evoluzione sono forse le parole con cui Terzani presentò il 19 aprile 2004 Un altro giro di Giostra, all’emittente radiofonica fiorentina: ControRadio. Il libro era uscito a marzo, ma questa fu l’unica presentazione che rilasciò perché la sua volontà era quella di ritirarsi in solitudine nella sua piccola casa dell’Orsigna, sulle montagne pistoiesi, per aspettare serenamente la propria morte. Ai microfoni di Controradio disse: “Un altro giro di giostra” è il mio ultimo grande viaggio. È l’ultimo libro che ho scritto e che scriverò. Non voglio più scrivere niente perché il libro è la summa di tutto quello che in questa vita sono riuscito a capire. Il libro racchiude tutto il senso della mia vita ecco perché non scriverò più una riga”2. Il punto saliente del suo discorso è il seguente: “ Il grande male del nostro tempo è che abbiamo messo la materia al centro di tutto e non consideriamo niente al di là della materia. Questo si giustifica con il capitalismo, si giustifica con la ricerca esclusiva del profitto e con la nostra aspirazione ad avere piuttosto che a essere”. Dopo avere individuato il male che segna la nostra epoca e il nostro vivere, Terzani suggerisce anche una soluzione, una via di uscita. Infatti, prosegue: “Nel libro “Un altro giro di giostra” mi metto alla ricerca non di una medicina per il cancro ( che non esiste) ma per una medicina della malattia che è di tutti: la mortalità. Perché – e questo è il senso di tutto il libro - la vera medicina è la mente, il vero potere curativo è la mente” 3. 1

Milano; Longanesi 2008 a cui rimando per tutti gli approfondimenti .

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I brani sono tratti dalla sbobinatura integrale dell’intervento che è leggermente diversa dal testo che è stato pubblicato sulla rivista dell’emittente “ Rosso Fiorentino”. 3

Ibidem

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Queste parole circoscrivono il fulcro del messaggio di Terzani ed infatti intorno ad esse ho costruito i capitoli centrali del libro. Chiaramente non si tratta di riflessioni personali ma di un messaggio che ha una grande valenza per tutti noi, perché è innegabile che siamo immersi in una visione del mondo collettiva che determina in grandissima parte il nostro pensare personale, il nostro agire personale, la nostra stessa vita. Attraverso la sua esperienza diretta della storia del Vietnam, della Cambogia, della la Cina, della Russia, Terzani aveva assimilato il completo fallimento del comunismo ma aveva ugualmente afferrato il completo fallimento del capitalismo, tanto che oggi- di fronte alla crisi economica dell’Occidente - le sue parole risuonano come profetiche: “Tanto marxismo che capitalismo – scriveva -si basano sulla fondamentale nozione “scientifica” che esista un mondo materiale separato dalla mente, dalla coscienza… tutte e due sono fondati sulla stessa fiducia nella scienza e nella ragione: tutte e due sono impegnate nella dominazione del mondo esteriore senza alcun riguardo per quello interiore della gente”4. Solo se capiamo questo, afferriamo il vero nocciolo della questione. Lo sguardo di Terzani era davvero profondo perché trenta anni in Asia gli avevano conferito una prospettiva privilegiata per comprendere la nostra stessa modernità occidentale, in altre parole, il nostro modo di pensare di cui - in verità- siamo ben poco consapevoli. Terzani aveva dunque capito che tutta la nostra visione del mondo rimane ancorata al paradigma scientifico che studia il mondo come qualcosa di materiale, di oggettivo, esterno all’Io che lo studia. Dagli albori del pensiero scientifico, l’uomo moderno non ha più sperimentato se stesso come parte di un tutto, della natura, ma come una forza esterna, destinata a studiarla, dominarla e così conquistarla. Questa visione del mondo risale al Seicento: a quella grande avventura del pensiero che inizia con Galileo, Newton, Cartesio. Come ha ben dimostrato Fritjof Capra però si tratta di paradigma fallace che è stato contraddetto dagli esiti più moderni della fisica: dalla teoria della relatività e dalla fisica quantistica che, tra l’altro, presenta sorprendenti affinità, con la concezione orientale del cosmo e della vita5. Terzani ne era consapevole6. La fisica subatomica ci insegna infatti che non esiste nessun mattone fondamentale esterno, nessuna materia oggettiva, ma tutto è interrelato ed interagisce con tutto, compresa la nostra mente e la nostra coscienza. La concezione del mondo che scaturisce dalla fisica subatomica è incompatibile con l’attuale visione del mondo frammentaria e meccanicistica che invece dà forma al nostro paradigma di pensiero e al nostro attuale modo di vivere. Per questi motivi, Terzani era giunto a posizioni radicali e infatti affermava nell’intervista a ControRadio: “L’ultimo libro che ho scritto [Un altro Giro di Giostra] è un’abdicazione dalla politica. Le soluzioni ai problemi dell’umanità non verranno dalla politica. Non ce le possiamo aspettare nemmeno dalle religioni istituzionalizzate. Per cui io mi aspetto una sorta di silenziosa rivoluzione che passa a volte persino attraverso il mondo mussulmano, che passa attraverso l’Asia, l’Africa. Dai no global – che nella loro simpatica diversità nel loro pot pourri di esistenza fanno convivere la difesa delle balene con l’idea della bicicletta a cinque ruote – arriva un anelito al nuovo, al quel cercare il come. Io dico per esempio il prossimo Premio Nobel dovrà essere dato a 4

Un altro Giro di Giostra, p. 255 ( corsivo nostro) . Cfr. gli importantissimi lavori di F. Capra: Il Tao della Fisica ( 1975), Il punto di svolta ( 1982) Verso una nuova saggezza ( 1988) La rete della vita( 1996) . Su questi argomenti cfr. il cap. 5 del mio Tiziano Terzani, la rivoluzione dentro di noi, cit. 6 Terzani, Un altro giro di giostra, p. 126 “La scienza sta accettando che, contrariamente a tutto ciò che ha pensato fomora, non esiste una osservazione oggettiva, in quanto persino gli oggetti più inanimati non restano indifferenti all’essere scientificamente osservati: reagiscono!”. 5

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qualcuno che troverà un sistema economico più consono al benessere dell’uomo. Allora, piccoli passi, piccoli passi. Non possiamo aspettarci delle rivoluzioni immediate: l’assalto al palazzo d’inverno [ rivoluzione russa] l’assalto alla Bastiglia [rivoluzione francese] la vittoria a Saigon [rivoluzione vietnamita] tutte queste cose così spettacolari alla fine non hanno risolto granché. Allora aspettiamoci una rivoluzione silenziosa a lungo termine, l’umanità ha una grande storia, e forse un lungo futuro a cui lavorare”. Questo è quello che ripeteva in continuazione durante il suo pellegrinaggi di pace in seguito all’ l’11 settembre 2001: “Tutte le rivoluzioni fatte finora sono rivoluzioni esterne (la rivoluzione cinese, francese, russa, vietnamita, cambogiana…) che hanno cercato di portare giustizia, cambiare il mondo, ecc..ma non hanno fatto che spaventosi massacri. Il risultato finale: una grande miseria, sia spirituale, che materiale. Forse è il momento di pensare che la grande rivoluzione da fare non è quella fuori, ma quella dentro; che in verità le radici della guerra non sono fuori, ma dentro di noi, nelle passioni, nelle voluttà, nel nostro voler arraffare tutto, nel nostro pensare che noi possiamo controllare la natura, la conoscenza, uccidere animali, terra, mondo animale e poi rifarlo artificialmente…Se le vere ragioni della guerra non sono fuori, ma dentro di noi, cominciamo a fare la rivoluzione dentro di noi, forse è quella meno violenta, che non fa massacri e forse, alla lunga, crea quelle condizioni in cui tutti ci troveremo meglio. Prendiamo coscienza di chi siamo e incominciamo a riflettere: non siamo solo corpi, non siamo solo materia. Dobbiamo ricominciare, chi sa, a pregare, chi non sa, a fare altro. L’unica rivoluzione oggi veramente possibile è quella dentro di noi, ma ci vorrà tempo, molto tempo”7. Sia nelle interviste che negli scritti, le parole di Terzani rispecchiano una presa di coscienza puntuale e estremamente acuta. In Lettere contro la guerra, esprimeva con un altro registro lo stesso concetto: “Il grande progresso materiale non è andato di pari passo con il nostro progresso spirituale. Anzi: forse l’uomo non è mai stato tanto povero da quando è diventato così ricco. Di qui l’idea che l’uomo coscientemente inverta questa tendenza e riprenda il controllo di quello straordinario strumento che è la sua mente. Quella mente finora impiegata prevalentemente a conoscere e ad impossessarsi del mondo esterno, come se quello fosse la sola fonte della nostra sfuggente felicità, dovrebbe rivolgersi anche all’esplorazione del mondo interno, alla conoscenza di Sé. 8 All’indomani di quell’ evento cruciale della storia che è stato l’11 settembre, Terzani indirizzavò simbolicamente queste sette Lettere ( dall’Orsigna, da Firenze, da Peshawar, da Quetta, da Kabul, da Delhi, dall’Himalaya) a ciascuno di noi perché, attraverso un processo di presa di coscienza, cominciassimo a pensare ed a agire diversamente. L’ultima delle lettere si intitolava «Che fare?». Senza dubbio la sua risposta era tantissime cose, e proprio ora, adesso, ma, in sintesi, possiamo dire che Terzani ci indica tre grandi sentieri da seguire: il digiuno, una nuova educazione, una nuova economia. 1. Per prima cosa digiuniamo. Terzani riprende la pratica usata dal Mahatma Gandhi e la attualizza nel nostro mondo: il digiuno come strumento di lotta non violenta, ma non nel senso di smettere di mangiare, ma nel senso di digiunare dai desideri e dal consumismo «Oggi il mondo è pieno di cose orribili», diceva agli studenti, «pieno di cose che vogliono intrappolarvi e fare di voi dei consumatori. Consumate sciocchezze, banalità. Allora difendetevi, digiunate. Ricordatevi queste parole che io voglio mettere nel vostro subconscio… Ad ogni passo che fate, domandatevi perché lo fate? La coscienza, amici miei, la coscienza…di tutto. Ragionate, non vi fate fregare. Il mondo di fuori vi vuol fregare, 7

Intervista a Italialibri maggio-giugno 2002 (corsivi miei) 8 Terzani, Lettere contro la guerra, cit., p. 174

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vuol far di voi dei consumatori. Il modo per non farvi diventare come dei polli in batteria è non mangiare. Digiuno! Coscientemente dire: questo no, questo non lo faccio».9 In La fine è il mio inizio Terzani ripeterà che «l’unica maniera per resistere è col gandhismo, il digiuno, la rinuncia ai troppi desideri».10 E al figlio Folco racconta: «Leggevo religiosamente Gandhi per vedere di trovarci non una chiave che aiutasse l’India dei villaggi o delle mucche, ma un messaggio per la nostra civiltà… io l’ho identificato nel digiuno, nel ritorno alla semplicità».11 L’intera evoluzione dell’esperienza e del pensiero di Terzani può essere racchiusa infatti nel passaggio da Mao a Gandhi, “ due diverse soluzioni per uno stesso problema- come egli stesso le definì -, due opposte scommesse sui destini dei due più grandi popoli del mondo; due ipotesi di filosofia sociale».12 Dall’amore e dall’entusiasmo per l’utopia Maoista e per la rivoluzione cinese – che, negli anni giovanili, fu il motore che lo fece approdare in Asia– egli giunse ad una completa e radicale adesione alla posizione di Gandhi. Lettere contro la guerra, Un ‘altro giro di giostra, La fine è il mio inizio rappresentano, da questo punto di vista, un tributo di amore sempre maggiore nei confronti di Gandhi. “Quel Gandhi che - come dice Terzani, «si vestiva come un contadino, viveva di nulla e sognava un paese libero e indipendente, né capitalista né comunista, un paese che fosse l’espressione di milioni di villaggi, che per lui rappresentavano la vera, eterna, anima dell’India. Gandhi era per il piccolo, non per il grande; per l’uomo, non per la macchina; per ciò che è naturale e non artificiale. «Quando il trattore potrà essere munto, quando il suo sterco potrà essere usato come concime e come combustibile, lo preferirò alla vacca» diceva.13 Perché Gandhi, che pur aveva studiato legge a Londra e sarebbe potuto diventare un avvocato di successo, non si fece mai sedurre né dal mito del progresso comunista, né da quello del progresso capitalista? Perché Gandhi proveniva dalla visione non dualista del mondo, da una visione induista, giainista, comunque orientale, che non ha mai creduto al paradigma scientifico del mondo per cui il mondo è qualcosa di esterno che l’io prima studia e poi domina. La visione non dualista che forma il nucleo di tutta le civiltà orientali, si basa sull’annientamento dell’io - che sempre divide, separa, domina - al fine di far emergere quel Sé che è presente in ciascuno di noi, ma che al tempo stesso coincide con l’essenza indivisa del cosmo e di tutte le cose. La saggezza dell’India è il non dualismo. Terzani lo aveva colto benissimo e scriveva: «L’India, a meno di odiarla al primo impatto, induce questo senso di esaltazione: fa sentire ognuno parte del creato. In India non ci si sente mai soli, mai separati dal resto. Alcuni millenni fa i suoi saggi, i rishi, ‘coloro che vedono’ ebbero l’intuizione che la vita è una. Questa esperienza rinnovata di generazione in generazione è il nocciolo del grande contributo dell’India all’incivilimento dell’uomo e allo sviluppo della sua coscienza. Ogni vita, la mia e quella di un albero, è parte di un tutto dalle mille forme che è la vita. In India questo pensiero non ha più bisogno di esser pensato. È nel comune sentire della gente. È nell’aria che si respira». 14 Quel paradigma scientifico che da corpo alla civiltà dell’Occidente da almeno tre secoli –“ il pensiero newtoniano- cartesiano” come lo chiama Capra – non aveva dunque presa sul modo di pensare indiano e quindi di Gandhi, perché esso, da tempi immemorabili, sapeva che tutto il mondo è Uno, che tutto è collegato. Non si può capire, d’altronde, il

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Cfr. l’intervento di Terzani a Scandicci, il 21 febbraio 2002. Terzani, La fine è il mio inizio, cit., p. 442. 11 Ibid., p. 396. cfr Un altro giro di giostra, p. 245. 12 Terzani, Un indovino mi disse, cit., p. 107. 13 Terzani, Un altro giro di giostra, cit., p. 381. 14 Ibid., p. 153. 10

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vero senso della nonviolenza gandhiana se non a partire da questa incrollabile fiducia che tutto il Mondo è Uno: compresi gli altri, compresi i nostri nemici. Per Gandhi era perfettamente chiaro ciò che l’europeo Terzani aveva dovuto faticare una vita per capire: tanto il comunismo quanto il capitalismo sono ugualmente «l’espressione della moderna civiltà materialistica. La sua insensata adorazione per la materia ha dato origine ad una mentalità che guarda al progresso materiale come alla meta ultima, ed ha perso la nozione dei veri fini del vivere».15 Agli occhi di Gandhi, la visione materialista moderna nasce, alla radice, da un atteggiamento di massima indulgenza verso se stessi. La sfrenatezza degli egoismi che è stata in tal modo sancita, si propaga a dismisura in un mondo dominato sistematicamente dalla violenza e dalle guerre. Anche la religione dell’Occidente, il cristianesimo, aveva esaurito la sua funzione perché – nelle parole di Gandhi – non aveva avuto il coraggio di combattere la violenza con l’amore, e i suoi valori etici erano diventati delle verità astratte che non hanno alcuna influenza sulla vita degli individui. 16 Ma torniamo al Digiuno gandhiano che Terzani considera la nostra prima arma non violenta. Consideriamo quando i cinquanta anni che ci separano dalla morte di Gandhi abbiamo enormemente aggravato la situazione. Il marketing, la pubblicità, l’informazione e la comunicazione ci bombardano con nuovi bisogni, nuovi desideri. Immagini sfavillanti insieme ad un nuovo tipo di linguaggio - fatto sostanzialmente di ipocrisia e di palesi bugie, a cui ci siamo tristemente assuefatti - ci seducono al meccanismo di provare ogni giorno nuovi desideri, che, una volta soddisfatti, lasciano un vuoto incolmabile che cerchiamo di arginare di nuovo con nuovi desideri. In questo meccanismo inesorabile, se quelli che per i nostri padri erano dei lussi, sono diventati per noi necessità, cosa diventeranno per i nostri nipoti? Il principio del marketing è: indurre un desiderio-bisogno che prima non c’era. Rendiamoci conto di come questo principio - che regge tutta la nostra economia e che vediamo espresso ovunque nella nostra vita quotidiana -sia l’esatto contrario della seconda Nobile Verita del Buddismo. La Prima Verità annuncia «tutta la vita è sofferenza»; la Seconda che «la causa della sofferenza è il desiderio». Il Buddha quindi indica un ottuplice sentiero, un modo di vita – attraverso cui è possibile annullare il desiderio che è causa della sofferenza. . All’opposto oggi che cosa avviene? «L’industria della pubblicità e delle pubbliche relazioni - scriveva Terzani -sono ormai due sofisticatissimi sistemi di manipolazione della mente e non c’è più nulla, da Dio a un prodotto elettronico a una guerra, che non venga abilmente impacchettato e presentato in una qualche illusionistica formula di parole o in una qualche scatola lucida e colorata da lanciare sul mercato». 17 E appena arrivato dall’India, davanti ad un folto gruppo di studenti, con la sua barba ed i vestiti bianchi, ironizzava: «Sono scandalizzato dal ’progresso’ che avete fatto senza di me. Sono tornato in Italia, ho aperto il giornale ed ho visto una donna nuda seduta che sculacciava un uomo con una scarpa: la reclame di una marca di pantaloni. Poi volto pagina e si vedono due che fanno l’amore, l’uomo mi pare che sta sopra e la donna sotto, lui guarda una macchina invece che la faccia della sua partner. Ma come ? State impazzendo? Vi sta andando il cervello in acqua? Vi sta andando il cuore in acqua?»18 E Terzani si domandava: «È possibile che parte della nostra inquietudine di occidentali provenga proprio dal fatto che

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M.K. Gandhi, Satyagraha Day in Madras, 30 marzo 1919. M.K. Gandhi, Appeal to Lord Chelmsford, 20 marzo 1919. 17 Terzani, Un altro giro di giostra, cit. p. 64. 18 Cfr. l’Intervento di Terzani a Scandicci, il 21 febbraio 2002. 16

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vogliamo sempre occuparci del mondo esterno e lo rincorriamo per afferrarlo o per cambiarlo?»1920 Allora, a maggior ragione Terzani esorta: «Cominciamo con il digiuno gandhiano, smettiamo di comprare ogni giorno qualcosa che in realtà non ci serve. Se facciamo così finisce il sistema economico così come è stato impiantato. Bene! Inventiamo un altro sistema economico».21 2. E i bambini? E quegli «esserini» preziosi che mettiamo al mondo con tanto amore? Loro sì che sono davvero completamente immersi nel bombardamento di sempre nuovi desideri, di nuovi oggetti, di tanti stimoli tutti materiali!. Il problema dei bambini nel mondo, è quello delle società ricche e non di quelle povere! L’educazione dei giovani dovrebbe costituire l’impegno primario. Ogni civiltà, da quella cinese a quella greca, a quella cristiana, hanno fornito un sistema ordinato di idee con cui vivere e interpretare il mondo. Ogni educazione dovrebbe avere come scopo quello di dare alle giovani generazioni un insieme di idee – valori – di senso con cui vivere, con cui orientarsi per capire cosa fare delle proprie vite. Con tutte le nostre scienze, con tutta la nostra tecnologia, la nostra specializzazione, che cosa trasmettiamo ai nostri ragazzi, quale fiducia, quale idea d’insieme, quali valori? «È quello che oggi manca», diceva Terzani a Folco, «Ho una certa compassione, una certa commiserazione, per i giovani che oggi non hanno niente in cui credere, non hanno un ideale per il quale impegnarsi, tanto che si rivolgono al calcio, alla moda, alle motociclette, allo sport. Ora, tu puoi immaginare che l’anima di un giovane, le speranze di un giovane debbano essere legate all’amore per una squadra di calcio? C’è qualcosa che non torna».22 In questi anni abbiamo assistito ad un esorbitante aumento del disagio giovanile con casi di violenza, di disperazione, di perdita di senso sempre più frequenti. Umberto Galimberti, nel suo L’ospite Inquietante. Il nichilismo e i giovani 23 ha il merito di aver denunciato che il disagio giovanile attuale non può più essere liquidato come un disagio individuale. L’ampiezza di questo fenomeno deve costringerci a riconoscerlo come «un disagio culturale. <<Allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire»24. Sono le idee che guidano il mondo e la più grande forza è sempre la nostra mente. Terzani diceva: “Il dramma del nostro tempo è quello che ha così ben descritto Guénon. Il marxismo-leninismo ci ha messo un tetto e ci ha chiuso la via verso il cielo. La psicanalisi ed il resto ci ha aperto una botola sotto, verso l’inconscio. Certo che è interessante questa botola che ci fa entrare in quella cosa misteriosa che è nella nostra psiche, l’inconscio. Ma il cielo? Abbiamo dimenticato questa dimensione”.25 La nostra maniera di pensare e l’educazione moderna sono infatti costituite da un gruppo di idee dominanti che si sono consolidate tra Ottocento e Novecento. Ampliando l’acuta osservazione di Terzani, possiamo raggrupparle in sei idee principali: 1) L’idea di evoluzione e di progresso , cioè l’idea che esista un processo automatico che porta dalle forme inferiori a quelle superiori. Questa idea è stata applicata a tutti gli aspetti della vita; 19

Cfr. Terzani, Un altro giro di giostra, cit., pp. 161. Ancora più radicalmente, Terzani si domandava: «Che ci sia davvero una grande saggezza nel pensiero orientale secondo cui ciò che è fuori è immutabile e che la sola speranza è cambiare dentro di noi?». Ibidem,p.202 20 Terzani, Un altro giro di giostra, cit., pp. 202 sg. 21 Terzani, Intervento a «ControRadio», cit. 22 Terzani, La fine è il mio inizio, cit., p. 64. 23 Milano, Feltrinelli, 2007. 24 Cfr. Gloria Germani,” Adolescenti in marcia verso il nulla”, Il Manifesto, 22 novembre 2007. 25 Tratto dal video-intervista Tiziano Terzani: Il kamikaze della pace, a cura di Leandro Manfredini e Willy Baggi, pubblicato insieme alla riedizione di Lettere contro la guerra, Longanesi, Milano, 2002.

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2) L’idea di competizione, di selezione naturale che . spiega il processo automatico di evoluzione con l’idea della sopravvivenza del più adatto; 3) L’idea – di cui si è reso portavoce Marx – che tutte le manifestazioni superiori della vita umana, dalla religione alla filosofia, siano sovrastrutture erette per mascherare gli interessi economici e la lotta di classe; 4) L’idea freudiana che queste stesse manifestazioni siano il risultato di desideri non realizzati di incesto o comunque di frustrazioni sessuali; 5) L’idea generale del relativismo, per cui in nessun campo si possano raggiungere verità assolute; 6) L’idea del positivismo, per cui l’unica conoscenza valida può essere ottenuta attraverso i metodi delle scienze, ma anche che non è possibile alcuna conoscenza del senso e del significato complessivo della vita umana26. Queste sei idee dominanti hanno in comune il fatto di ridurre tutte le forme dell’esistenza ad un unico livello, quello materiale, negando che possano esistere livelli diversi o superiori. Inoltre, introducono l’idea che la competizione e la forza siano le uniche regole della vita.27 Queste idee dominanti, tuttavia, non sono altro che dei presupposti non dimostrati. Se è vero infatti che c’è stata un’evoluzione biologica dalla scimmia all’uomo, è altrettanto vero che tale evoluzione biologica si è arrestata cinquantamila anni fa. Da allora l’uomo è mutato secondo schemi culturali e non più per selezione naturale. Il fatto importante e da sottolineare è che le idee acquistano davvero potere quando, dopo varie generazioni, diventano parte di quella massa di schematismi che formano in maniera subcosciente la mente dei giovani, quando, cioè, non sono più tesi formulate intellettualmente, ma sono diventate strumenti con cui le nuove generazioni interpretano e filtrano l’esperienza che fanno del mondo. La conseguenza ovvia, a cui tristemente assistiamo oggi, è la distruzione di ogni possibile etica. Questi presupposti sul caso, sulla competizione e sulla forza che sarebbero l’unica legge del mondo, hanno distrutto le basi dell’etica, lasciando al suo posto soltanto un senso di spaesamento, di caos e, molto spesso, di rabbia, che si manifesta oggi nelle giovanissime generazioni nel fenomeno del «bullismo». «L’educazione dovrebbe incominciare con l’insegnare il valore della non violenza», ripete con forza Terzani.28 La non violenza o il non dualismo è un diverso atteggiamento della mente che comprende tutte le cose. Questo diverso atteggiamento ci obbliga a mettere in discussione le nostre abituali convinzioni: ci induce a pensare che la Natura non è qualcosa di esterno che possiamo sfruttare a nostro piacimento, che l’essenza dell’uomo non si colloca all’apice di una linea evolutiva, che va dai molluschi invertebrati ai primati, e che questa linea evolutiva semplicistica non giustifica lo sfruttamento indiscriminato da parte dell’uomo sugli altri esseri viventi e la natura. Imparare la non violenza significa accettare di vivere all’interno del complesso sistema dell’armonia e della convivenza naturale. «Parliamo di pace», esorta Terzani, «introduciamo una cultura di pace nell’educazione dei giovani. Perché la storia deve essere insegnata soltanto come un’infinita sequela di guerre e di massacri?». Insegniamo la storia delle civiltà, che è ricca di esempi di convivenza tra culture e della loro reciproca fecondazione. Come quella del grande imperatore indiano Ashoka, che nel 260 a.C. rinunciò alla guerra e decise che la conquista più importante è quella del cuore degli uomini. Fondò ospedali tanto per uomini e per animali e lasciò in tutta l’Asia delle

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Cfr. Nota successiva. 27 Ho ripreso ed ampliato qui le importanti considerazioni fatte da un autore gandhiano molto amato da Terzani: E.F.Schumacher, Small Is Beautiful, economics as if people mattered, Harper & Row, London, 1973, cap. II.. 28 Terzani, La fine è il mio inizio, p. 399.

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steli di pietra scolpite in sanscrito, greco, aramaico, in cui spiegava l’importanza della compassione, della convivenza e della pace.29 «Il problema è», continua Terzani, «che tutto il sistema è fatto in modo che l’uomo, senza neppure accorgersene, comincia fin da bambino a entrare in una mentalità che gli impedisce di pensare qualsiasi altra cosa. Finisce che non c’è nemmeno più bisogno della dittatura, ormai perché la dittatura è quella della scuola, della televisione, di quello che ti insegnano».30 E ancora: «Se vai in una scuola occidentale dove la prima cosa che devi fare è competere con il tuo compagno di banco, come puoi crescere con una qualche apertura mentale?»31 Dobbiamo capire che i semi più importanti non sono soltanto quelli delle varietà delle piante, bensì i nostri figli, le nuove generazioni. E la battaglia favore della biodiversità va estesa alla biodiversità dei nostri figli. Già adesso esistono alcune scuole altenative, ma il loro campo di azione andrebbe assolutamente ampliato: le scuole ispirate alla pedagogia di Rudolf Steiner e Alice Projet-Universal Education School fondata da Valentino Giacomin, pionieristico ideatore di un metodo pedagogico, basato sul non dualismo, che mira alla consapevolezza della mente, integrando le materie scolastiche con pratiche yoga e di meditazione.32 Abbiamo assolutamente bisogno di una nuova educazione, non di quella che oggi è insegnata in tutte le scuole dove i nostri figli sono bombardati – in tutte le materie, dalla storia, alla letteratura, alla tecnologia – da una quantità di nozioni senza anima, senza vita che sono frutto della visone materialista e scientifica del mondo fondata sul quel paradigma newtonino –cartesiano che si è rivelato errato e superato. 3. Con ciò arriviamo alla terza cosa da fare: inventarci una nuova economia. A partire da Un indovino mi disse Terzani ha denunciato con sempre maggior vigore il ruolo assunto nella civiltà moderna dall’economia:«Anni di sfrenato materialismo hanno marginalizzato il ruolo della morale nella vita della gente, facendo di valori come il denaro, il successo e il tornaconto personale, l’unico metro di giudizio»; «Tutto il mondo funziona ormai così: il mercato è tutto ciò che conta, la sola moralità è quella del profitto e ognuno arranca come può per sopravvivere in questa giungla» 33. Nel suo libro-testamento, La fine è il mio inizio, Terzani ci lascia con due grandi moniti: “Questa nostra civiltà moderna è una civiltà andata matta, andata matta per l’economia”34. “Questa secondo me sarà la grande battaglia del futuro: la battaglia contro l’economia che domina le nostre vite, la battaglia per il ritorno a una forma di spiritualità – che puoi chiamare anche religiosità – a cui la gente possa ricorrere…Occorrono nuovi modelli di sviluppo, non solo crescita, ma parsimonia”35. 29

Terzani ha ricordato spessissimo la grande figura dell’imperatore Askoha, pressoché sconosciuta in Occidente, cfr. Lettere contro la guerra, cit., p. 180. In questo senso si vedano gli importanti suggerimenti di Swami Veda Bharati, membro del Consiglio Mondiale dei leader religiosi presso Le Nazioni Unite , in particolare Allevare ed Educare alla Pace, conferenza del MWPS WCRL Ethiscs Initiatives, 28 gennaio 2004. 30 Terzani, La fine è il mio inizio, cit., p. 399. 31 Terzani, La fine è il mio inizio, cit., p. 400 e p. 383. 32 La pedagogia di Steiner (1861-1925) è antinozionistica, dà grande spazio alla parte immaginifica ed intuitiva del bambino, insegnando attraverso le varie materie, la bellezza e il senso del mondo. Giacomin (n. 1945), insegnante elementare, giornalista e pedagogista, partendo dalla filosofia buddista, induista e interreligiosa, ha sviluppato una metodologia basata sull’unità tra mondo interno e mondo esterno. La consapevolezza della mente e delle sue proiezioni è risvegliata attraverso pratiche di respiro e di yoga, visualizzazioni, meditazioni e conduce a una maggiore concentrazione e ad una cultura di pace. Nel 2006 ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti, tra cui quello del Dalai Lama. Per ulteriori notizie su queste scuole, si possono utilmente consultare rispettivamente i siti www.rudolfsteiner.it e www.aliceproject.org. 33 I due brani sono tratti da Lettere contro la guerra, cit., pp. 118-19; Un altro giro di giostra, cit., p. 42. 34 Ibidem, p. 409. 35 La Fine è il mio inizio, p.400.

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Terzani si richiama esplicitamente a E. Schumacher l’autore di Piccolo è Bello. L’economia quando ciò che conta sono le persone, che negli anni ‘70 riprese le indicazioni gandhiane in materia economica e ce ne mostrò tutta la validità. Occorre basarsi in massimo grado su ciò che Gandhi chiamava swadeshi, la predilezione delle cose native e la produzione su base locale. Essa dona ad ogni piccola comunità la propria autosufficienza e dignità, invece di renderla vulnerabile rispetto a mercati esterni e dipendente da trasporti non necessari che producono spreco e inquinamento. L’economia su base locale, fondata sulle risorse locali e rivolta all’uso locale, promuove lo spirito comunitario e benessere comunitario. Tale economia incoraggia l’aiuto reciproco e i membri delle comunità si prendono cura delle famiglie, dei vicini, degli animali e delle terre e di tutte le risorse naturali, per il beneficio delle generazioni presenti e future. Terzani ritorna su questi temi in La fine è il mio inizio: «Gandhi voleva prendere la via dei villaggi anziché quella delle fabbriche che riducono l’uomo a schiavo. Perché distruggere i villaggi? Villaggio vuol dire comunità, vuol dire spartire le risorse!»36 Gandhi aveva suggerito, fin dall’inizio della sua attività politica, che l’unica via di salvezza era la riscoperta dei valori tradizionali, il ripristino della economia precapitalistica. Occorreva far risorgere l’artigianato indigeno che il colonialismo aveva distrutto: «Filate e tessete il cotone indiano con le vostre mani», predicava Gandhi, «non vestitevi con i prodotti dei telai occidentali», e lui stesso dava l’esempio, filando e tessendo la tela bianca del suo kadhi. L’arcolaio che portava sempre con sé nelle sue peregrinazioni a piedi attraverso il paese, divenne un simbolo di autonomia, di dignità. Gandhi aveva un’idea chiarissima: «Il fine da perseguire è la felicità dell’uomo congiunta al suo pieno sviluppo intellettuale e morale. Questo fine può essere raggiunto con il decentramento. Il sistema dell’accentramento è incompatibile con una struttura non violenta della società».37 Terzani insite moltissimo sulla necessità di subordinare l’economia all’etica. Perché? Domandiamoci: cos’è l’economia? L’economia e il dominio economico non sono, di fatto, l’apice di quel paradigma scientifico per cui l’io domina il mondo esterno? Proprio per questo l’economia moderna si fonda su quell’impulsi che danno forma all’Io, all’’Ego e che sono il contrario di ogni etica: l’avidità, l’ invidia, l’ingordigia, il desiderio. Gandhi sosteneva: «Non traccio una linea retta e non faccio distinzione tra economia e etica […]. La civiltà, nel senso reale del termine, non consiste nella moltiplicazione, ma nella volontaria e deliberata restrizione di bisogni. Questo soltanto porta la felicità e il vero appagamento».38 Pienamente in linea con le indicazioni gandhiane, Schumacher ci dice: dobbiamo inventarci una tecnologia intermedia, una «piccola tecnologia dalla faccia umana» 39 che faccia ritorno a forme di autoproduzione e autoconsumo. Terzani parla di Schumacher ma ovviamente i rimandi oggi potrebbero essere moltiplicati ad una miriade di fermenti culturali sempre più vivaci in questi anni: l’ Ecoliteracy di F. Capra, la banca dei semi e le molteplici attività di Vandana Shiva, Petrini e il movimento di Slow Food, Pallante e soprattutto Serge Latouche con il movimento della Decrescita che non solo critica il concetto di sviluppo sostenibile ma contesta radicalmente il concetto di sviluppo stesso e arriva a smascherare “l’invenzione dell’economia” come un fenomeno del mito generale dell’occidentalizzazione del mondo. Già nel 2002 Terzani scriveva: «Tutto lo sforzo economico moderno è fondato sul concetto che lo sviluppo è crescita, crescita, crescita».40 «Per l’economia è una “buona notizia” che la gente compri di più, costruisce di più, consumi di più. Ma l’idea degli 36

Ibid., p. 397. Gandhi, Antiche come le montagne, ( a cura di S.Radhakrishnam) , Milano, Mondadori, 1987,p. 169. 38 Ibid., p. 169 e p. 149. 39 Cfr. Schumacher, Small Is Beautiful, cit., pp. 171-190. 40 Terzani, Il manager e l’arcobaleno, cit.. 37

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economisti, secondo cui solo consumando di più, producendo di più, si progredisce, è pura follia. Anche perché consumare significa, in fin dei conti, consumare le risorse della Terra. Già oggi usiamo il 120 per cento di quello che il globo produce. Ci stiamo mangiando il Capitale. Cosa resterà ai nostri nipoti? »41 «Cosa fanno gli scienziati-economisti?.. Cosa sanno dirci sull’avidità che sta distruggendo il mondo in nome di quello che loro stessi, magari, definiscono progresso.?Parole come ’ingordigia’, ’avidità’, ’egoismo’ non compaiono nei libri di economia e gli stessi economisti continuano a praticare la loro scienza come se non avesse niente a che fare col destino dell’umanità».42 Gli interrogativi sollevati da Terzani vanno alla radice del problema della civiltà moderna occidentale, perché arrivano alla radice dell’essenza del paradigma scientifico – materalista di pensare. Per questo offrono una chiave di comprensione molto ampia che abbraccia tantissimi aspetti nel nostro vivere infelice Il mito del mercato, l’invenzione dell’economia, e soprattutto un’antropologia fasulla basata esclusivamente sulla materialità che genera l’ individualismo sfrenato e aggressivo dei nostri tempi sono tutti prodotti di una determinata visione del mondo che ha origini ben precise nel pensiero occidentale del seicento-settecento, ma di cui non siamo affatto coscienti anzi che scambiamo con un processo evolutivo naturale. Il compito che ci sta di fronte è dunque quello della rivoluzione dentro di noi, di un lungo lavoro culturale sul senso della vita e sull’essere uomini che ci faccia imboccare una strada di evoluzione più spirituale, più pacifica, più in armonia con la natura.. Terzani non si stancava di affermare che la “dove si vive al ritmo della natura, il senso che la vita è una e è grande. Ogni cosa è legata, ogni parte è l’insieme. È il sentirsi separati da questo che ci rende infelici. Come il sentirsi divisi dai nostri simili».43 Ripeteva che «più ci inciviliamo, più ci allontaniamo dalla natura, compresa la nostra natura che è quella di essere parte di questo stesso tutto».44 L’unica, grande maestra è la Natura. La nostra sensibilità di occidentali moderni è oggi sempre più spaccata in due. Da una parte ci sono coloro che si potrebbero chiamare «i fuggi, fuggi in avanti»: coloro che nonostante i disastri ecologici, ma soprattutto davanti ai disastri esistenziali che leggiamo e vediamo ogni giorno, non vogliono porsi la fatica del dubbio e si ripetono: «sono problemi individuali, non possiamo stare fermi, dobbiamo andare avanti, non c’è niente di sbagliato nella civiltà e nella tecnologia moderna eccetto il fatto che è incompleta, il progresso e il futuro inventeranno tutti i correttivi necessari». Accanto a questa cultura dominante, appoggiata dai governi e dalle industrie, esistono, in Occidente, tante persone, ancora una minoranza, ma sempre più in crescita e forte nei propri convincimenti di fondo, che potremmo chiamare «coloro che vogliono tornare a casa», oppure forse anche «no global».45 Sono persone che cercano nuovi stili di vita più autentici, una vita in seno alla natura, seguendo, per esempio, le strade del biologico, del vegetarianesimo, delle medicine naturali. Soprattutto sono persone che vogliono mantenere in vita l’antica consapevolezza che tutte le forme del mondo vivente sono intimamente connesse, persone che ormai istintivamente mettono in dubbio l’idea del progresso.

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Terzani, Un altro giro di giostra, p, 245. 42 Terzani, Un altro giro di giostra, cit., p. 85. 43 Terzani, Lettere contro la guerra, cit., p. 178. 44 Terzani, Un altro giro di giostra, cit., p. 530. Cfr. inoltre il pesante giudizio espresso sull’uomo occidentale, che è diventato un nulla, lontano dalla natura, in Id., La fine è il mio inizio, cit., p. 411. 45 Questi calzanti soprannomi – forward-stampede e home-comers – sono ripresi da Schumacher in Small Is Beautiful, cit., p. 155 sgg.

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La Visione non dualista del mondo, la percezione che tutto è Uno, che tutto è interconnesso, , è l’unica prospettiva che, grazie alla sua ampiezza, può aiutarci a guarire non solo noi stessi e i nostri rapporti con gli altri, ma anche il nostro pianeta. In altre parole, questa diversa prospettiva, che riguarda essenzialmente il nostro Io, e il rapporto non di separazione, ma di inclusione, tra io e mondo, può guidarci – tanto sul piano individuale quanto su quello collettivo – verso una convivenza più spirituale e più armonica.

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22 febbraio 1984, Pechino. Lettera al « Fratello ». Caro Fratello (« fratello » perche´ se avessi un fratello cinese saresti tu, « fratello » perche´ questa e` la parola in codice che con Angela usiamo quando parliamo al telefono), quindi: Caro Fratello, questa e` una lettera difficile perche´ a differenza di quelle che ti ho scritto mentalmente durante le lunghe ore di detenzione e interrogatori, questa deve essere dattiloscritta e in qualche modo le parole scritte, con la loro inevitabile precisione, fanno violenza alle cose informi che si provano, alle espressioni non formulate che ci vagolano per la testa. Sei stato importantissimo per me perche´ ti ho tenuto costantemente presente. Eri la traccia, il punto di riferimento. Con te ho silenziosamente discusso, ti ho consultato e nella nebbia dell’abbandono che il non dormire, il non bere, il non mangiare e lo stress inducono, ho addirittura pensato di essere te, perche´ ho sempre saputo che, un giorno o l’altro, questo poteva succedere a te e sarebbe stata la fine. Invece e` successo a me. La mente e` un oceano pieno di navi colate a picco e lo stress degli interrogatori, l’altalena di minacce e promesse, i momenti quieti tra una sessione e l’altra riportano lentamente a galla i dimenticati detriti della vita: il nostro primo incontro nel settembre 1976 alla Bank of China per la cerimonia funebre di Mao; le chiacchierate sulle nostre vite e cio` che in esse era giusto e sbagliato. Piacevoli rimasugli del passato, mentre le orecchie sono riempite di una voce metallica che giunge da una bocca distorta in un sorriso sardonico: « Confessa. Non hai altro modo. Sappiamo tutto di te, vogliamo solo che confessi. Le masse ti hanno sorvegliato da lungo tempo e ci hanno informato. Cono-

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sciamo i tuoi crimini. Vogliamo solo conoscere il tuo atteggiamento. Se e` buono, il governo popolare ti trattera` con clemenza; altrimenti la punizione sara` severissima. Vogliamo aiutarti. Il nostro dovere e` di rieducarti. Confessa ». Ora dopo ora. Il mondo e` lontano. Si guardano i rami di un albero contro il cielo grigio di Pechino e si pensa a quel che fanno in quel momento tutte le persone che si conoscono. « Sei un criminale. Devi confessare i tuoi crimini. » Un po’ ero contento, un po’ dispiaciuto che finisse presto. Finalmente si era aperta per me una piccola finestra sulla Cina vera e non volevo si richiudesse troppo in fretta. Quale privilegio, poter guardare nella pancia della balena, avvicinarsi al cuore di tenebra! Ho pensato di essere un cinese e mi sono sentito disperare. Nessuna terra ferma su cui stare, nessuna legge da citare, nessun diritto da invocare. Solo da chiedere perdono: non a un Dio lontano che una volta conoscevo, ma a un altro uomo che non ha alcuna particolare verita` da spacciare, eppure e` potente grazie alle sue insinuazioni. « Ci e` stato detto che... » Si passano in rassegna gli amici e li si immaginano tutti come potenziali traditori. Nessuno regge ai dubbi e ci si trova soli con i nostri aguzzini o salvatori. « Apriti a noi. Dicci cosa pensi e ti aiuteremo a riformarti. » Quindi? Amo la Cina di meno. Al contrario, mi sento piu` vicino a essa. Ed e` per questo che mi e` stato facile essere come un cinese, vivere come un cinese, magari pensare come un cinese. Del socialismo? Davvero non saprei che dire. Con Orville Schell si parlava proprio alcune settimane fa del nostro vecchio entusiasmo per Mao, per la Rivoluzione culturale e « la rivoluzione » in generale. « Ci siamo sbagliati, ma non mi fido di quelli che hanno avuto ragione », diceva. Sono d’accordo. Ma eccoci qua, ancora intrappolati tra due errori, incapaci di immaginare una via nuova, impotenti nel plasmare una societa` che rispetti l’uomo singolo anziche´ « il popolo », lasciati senza una scelta, a parte quella di confessare e di

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ritrovare casa nell’anonima moltitudine degli altri da cui spunteranno gli accusatori del futuro. Lo sai, Fratello? Solo per un momento in quelle ore ho avuto davvero paura: quando tutto d’un tratto ho pensato che potessi essere tu il burattinaio dietro le quinte. Allora quell’idea mi e` stata insopportabile. Ancor piu` intollerabile mi e` oggi pensare che nel nome di grandi ideali vengano costruite societa` in cui questi pensieri sono possibili. Grazie di tutto il tuo sostegno, della tua amicizia e soprattutto di capire la distanza da cui ti parlo. Con affetto, Tiziano *** 5 agosto 1990, Daigo. I giorni passano. Ho perso il conto e non m’importa. Ancora 12 ore di sonno tranquillo, pieno di resti di tante cose di tanto tempo fa. Nella pace tornano a galla i resti di tanti ricordi, di tanti naufragi. Bellissima corsa all’alba con Baolı` anche lui al massimo della felicita`, sempre a caccia di topi appena annusati, sempre inteso a rispondere alla voce di quel cagnaccio lontano che e` la sua eco. Sono continuamente in compagnia di Lafcadio che ha fatto il monumento a questo Giappone che sento essere stato qui attorno e che e` scomparso. Alla curva di una strada che passa in una piccola gola cementata, qualcuno ha rizzato quel che resta di una bella statua di Buddha dalle mani alzate. All’ombra di un boschetto di bambu` spicca ancora una pietra dedicata al « dio della forza del cavallo », coi bei caratteri colorati di blu. Una poesia scomparsa di cui ancora godono questi giapponesi che mi circondano. Mi viene continuamente nella testa d’essere felice. Forse lo sono davvero. Quasi me ne vergogno a pensare ad Angela che per salvarmi e` nel mezzo dei problemi della famiglia. Ma qui e` davvero il paradiso: non sento che rumori di natura, voci di uccelli, stridii di cicale. Nessuno mi chiama, nessuno vuole niente da me, al massimo Baolı` e a quello posso dare un calcio se mi pare. Per-

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sino la vanita` e` soddisfatta: mi abbronzo, dimagrisco, mi diverto a vedere la palla tonda della nuca rapata sulla quale ora rispuntano delle stoppie bianche. Mi spalmo la crema della farmacia di Santa Maria Novella e godo al pensiero di poter fare esattamente quel che lo stesso farmacista riteneva impossibile (per questo lui stesso era calvo): darsi questa roba puzzolente (ma sanissima) per un mese senza mai lavarsi. Splendido. Lo sto facendo. Forse perche´ non la conosco come quella dell’Orsigna dove mi pare di sapere di ogni sentiero, di sentire la voce di ogni bosco, la natura qui mi intriga coi suoi suoni, col cangiare dei suoi verdi. Mi perdo ore a fissare nel bosco di cedri dinanzi a casa, ad ascoltare l’abbaiare delle cornacchie, lo sfrigolare delle cicale, il ronzare disperato delle decine di mosche, mosconi, libellule, calabroni, mosconi d’oro che si affannano a trovare un’impossibile via d’uscita dalle mie vetrate. Godo del silenzio, del telefono che non squilla, del fatto che non sento nessuno soffiarmi sulla schiena, del fatto che nessuno si aspetta nulla da me, quasi nemmeno io da me stesso. Penso al Giappone, ne parlo coi pochi amici-libri che mi son portato dietro, scrivo nell’aria il libro, ma chi sa quando nel computer? In compagnia di Fou Ts’ong, che suona il suo Chopin in sottofondo, e di Baolı` che ignora tutto e ronfa sotto il tavolo al quale non mi siedo. Sono stato a godermi il prematuro calare del sole dietro la collina davanti a casa (sono appena le 16.45), prima insopportabile agli occhi, bruciante, poi come un risplendente diamante fra le vette degli alberi che si fanno sempre piu` scuri. Si alza un leggero vento che scuote le chiome degli aceri rossi e fa cinguettare gli uccelli. Che errore e` stato allontanarsi dalla natura! Nella sua varieta`, nella sua bellezza, nella sua crudelta`, nella sua infinita, ineguagliabile grandezza c’e` tutto il senso della vita. Se mai vi viene a mancare, come mi stava succedendo, basta tornare qui, alla natura, alle origini di tutto, all’albero da cui siamo saltati giu` avant’ieri, uomini miei vestiti di boria e di gessato grigio. Risalgo le scale verso la mia cuccia pregustando i resti di altri ricordi che affioreranno col sonno.

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*** 24 settembre 1992, Bangkok-Phnom Penh. All’aeroporto. La vista di un khmer con passaporto americano che mi guarda con complicita` mi rattrista. Vestito di seta nera, si accomoda continuamente come avesse un tic il fazzolettino che gli sbuca dal taschino della giacca. Viaggia con due racchette da badminton che gli escono dalla borsa. Lo sento parlare di investimenti con il suo vicino di posto, un francese che vende materiale per ospedali. Penso sempre a scrivere un pamphlet contro l’economia. Perche´ dobbiamo essere governati da uomini d’affari? La loro logica e` quella che esclude ogni moralita`, che tiene conto solo del criterio del profitto che da qualche parte vuol dire sfruttamento di qualcuno. La Cambogia oggi e` un buon esempio: e` un paese spazzatura in cui vengono vendute medicine non testate, macchine che da altre parti vengono ritenute pericolose. Chi le vende fa dei buoni affari. Nessuno rimprovera loro di farli. Non ci sono leggi. Niente e` formalmente illegale. Torno da correre e a parte il sudore che gronda, sento addosso la paura di quei vecchi fantasmi della depressione sempre pronti a riprendermi alla gola. Capisco che all’origine avevano le loro ragioni anche nella politica. Tornare in Cambogia e` la riprova di quel che sono andato dicendo: che tutto e` inutile, che la vita non ha senso, che non c’e` grande significato nel passare da qui. L’ONU sta creando un mostro dominato dall’ingordigia e dall’ingiustizia. La citta` e` inquinata, macchine di lusso che senza targa strombazzano per le strade intasate di poveri per portare i loro grassi e protervi padroni all’appuntamento con cui creare ancora piu` ricchezza per se´ e piu` ingiustizia per i piu`. Se e` questo il nuovo ordine del mondo che ci sta davanti bisogna cominciare a combatterlo, ora. Mi ricordo quanta piu` aria di giustizia e di compassione c’era quando arrivai qui nella Cambogia occupata dai vietnamiti. C’era un senso di una vita che ricominciava, che i cattivi avevano perso. Ora di nuovo tutto e` confuso, marcio, indecifrabile, uno si sente disorientato e io sento i vecchi fantasmi in ag-

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guato. Forse debbo decidermi a lasciare l’Asia. Ma come posso, prima di aver fatto i conti? Un romanzo dovrei venire a scrivere e nient’altro. Non resta che sublimare questa roba in qualcosa che non sia l’articolino. Non trovero` il tempo? *** 12 agosto 1993, in treno a Novosibirsk (Siberia, Russia). Cullato dal treno e leggermente gassato dalle esalazioni dell’amico mongolo che mangia e beve, ma non defeca, ho dormito otto ore. Il risveglio alla prima luce e` quello di sempre negli ultimi giorni: betulle, pali della luce e rotaie. Ancora betulle, betulle, betulle. Il viaggio e` bellissimo per la sua avventura umana, ma dopo l’ingresso in Siberia il paesaggio e` monotono e poco avventuroso. Mi vien sempre di piu` da pensare a quant’e` peccato che sia toccato a questi eroici cosacchi colonizzare la Siberia: una tale bella natura sprecata a fare cose banali. Dovunque emerge il sogno materialista di mettere in piedi una societa` di beni, di ferro, di case, di acciaio, di treni, di tralicci. Forse e` stata l’influenza della guerra, forse la banalita` dei sogni di chi ha dovuto sempre combattere contro gli elementi della natura, ma il fatto e` che questa Siberia resta identica a se stessa da un capo all’altro del continente, sempre fatta di capanne di legno, che diventano casermoni prefabbricati e abitati da gente che sembra non cambiare mai di vestito, di gesti, di poverta`. Vedo una donna che mi pare il simbolo di tutto: all’alba, con una pezzola gialla in testa e un cappotto, trascina un carrettino su una stradina fangosa a passo spedito, come se oggi davvero quella sua borsa si dovesse riempire finalmente di un tesoro. Mi colpiscono a volte i gesti gentili fra coppie. Spesso li vedo a braccetto, vecchi poveri e uniti nell’accogliente fetore delle loro casupole. Sulla pensilina le scene sono piu` infernali che altrove. La folla, come una belva, si butta contro il treno, corre, ansima. Mi addormento con questa immagine del popolo russo. Una

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nazione inquieta, in corsa, insoddisfatta, irata, ma per il momento ancora timida, ancora intimorita dai manganelli di due poliziotti con un berretto a padella con striscia rossa. E domani? Non puo` della gente cosı` restare a lungo repressa, insoddisfatta, docile dinanzi alla miseria, al sopruso. E dei cinesi cosa dire, cosı` anche loro in corsa, cosı` vincenti? Cosı` tronfi di se´, ancor piu` vedendo questi miseri russi dipendere dalla loro industria per coprirsi le carni bianche, pompate di grasso e di pane poco sano? Due grandi popoli ora al centro di grande instabilita`. L’Europa ha da preoccuparsi, da ripensare. Quanti si rendono conto? Quanti politici viaggiano su questi treni, vedono queste scene? Debbo riuscire a spiegare questo fenomeno. *** 12 settembre 1996, Dharamsala. Gli eremiti. Partiamo alle dieci con la guida. Il trekking parte da lı`, ai piedi di una modesta montagna coperta di luce verde, ora che la foresta e` stata tagliata. Si passano alcune case di contadini indiani con degli enormi bufali nei cortili, dei bambini mocciosi, dei cani petulanti, e presto si arriva a una capanna di sassi ben messa sull’orlo di un pendio con una splendida vista sulla valle. Il primo « eremita » viene fuori dalla sua piccola porta di legno. Tashi, 63 anni, originario del Tibet e poi finito nel monastero di Gyuto. E` qui da 12 anni, per modo di dire. Ogni quindici giorni, quando ci sono delle lezioni a Dharamsala, va a sentire e fare provviste. La sua vita qui e` felice, dice, ci sono orsi e a volte delle tigri che sono cosı` pesanti che si sente il loro calpestio sulla terra. « Ho cominciato a morire e ora guardo avanti, alla prossima vita. » Dice che quando va giu` gli prende una certa inquietudine, si perde nel gossip su quello che fanno gli altri monaci, sulle « voci » che corrono, vede tutta la roba nei negozi e gli viene voglia di questo e di quello, vede tutto il mangiare che c’e` al mercato e gli viene voglia di rimpinzarsi.

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« Qui tutte queste tentazioni non esistono e si e` molto piu` felici, molto piu` sereni e calmi. Qui non ho ’attrazioni’ e posso dedicarmi a pulire il mio cuore. Appena comincio a salire la montagna mi sento sollevare, sono felice, perche´ mi lascio tutto dietro. » Continua a parlare delle « attractions » che prendono l’uomo nel mondo e che creano infelicita`. Lui e` diventato monaco all’eta` di nove anni. « Se riesco a pulire bene il mio cuore in questa vita, nella prossima potro` avere delle visioni. » I soldi per le provviste gli vengono dati dall’ufficio privato del Dalai Lama. Quando qualcuno muore, i monaci fanno il servizio funebre, la gente paga e quei soldi vanno a tenere in vita gli eremiti. Ce ne sono diciassette al momento sulla collina. Si alza la mattina prima del sole, fa le sue genuflessioni, legge i testi sacri che tiene avvolti in dei pezzi di stoffa rossa e gialla in una teca. La sua capanna e` magnifica, i muri esterni sono come quelli di un rifugio nella valle dell’Orsigna, sassi tenuti assieme con del fango, dalla parte della tramontana ha messo, un po’ distante dal muro, una paratia fatta di lamiere di vecchi bussolotti dell’olio. Il tetto e` di ondulina di ferro, l’interno della capanna e` piu` piacevole, le pareti fatte di fango lisciato e dipinto di un verde pisello, il letto e` sotto una piccola perfetta finestra che guarda la valle, stretto tra due legni che ne fanno come una bara. Dorme su due materassini coperti di cotone, e si avvolge con una bella coperta violetta e un cappotto dalle maniche violette, con l’interno giallo di finta pelle di pecora. Sulla parete, contro la finestra, dei calendari con immagini buddhiste, delle stampe di tanka, una foto del Dalai Lama incorniciata da un kata bianco. Dietro al letto, su una mensola, una serie di piccole ciotoline (sette o multipli di sette) in cui al mattino offrire la cosa piu` pura e di meno valore dell’acqua. Sulla terra battuta, delle lastre di pietra, sulle lastre una sorta di coperta-tappeto. Ordine e pulito. Lui e` un vecchio carino e sereno. Ci fa il te`. La cucina e` isolata dalla stanza da una porta e da una grossa coperta che pende davanti alla porta. Sul fornello, un’apertura nel tetto con un vetro da` la giusta luce. Prima usava la legna per cui tutta la cucina

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e` nera, ma ora qualcuno gli ha regalato una bombola di gas. Mi ricordo che a cena Rinpoche ha detto di voler dare agli eremiti un pannello per l’energia solare. Camminiamo ancora una mezz’ora e raggiungiamo una piccola piana con un’ultima casa di contadini, un bel bove, una donna, a pochi passi due capanne di sassi, sulla soglia di una un monaco piccolo e vecchio con l’asma, in una giacca di feltro europea con su scritto in piccolo « Patagonia ». E` il monaco che, dal 1979, ogni due anni va in Italia. Ecco allora un altro « eremita » che va avanti e indietro fra Dharamsala e l’Italia. Ha 70 anni, e` entrato a dieci nel monastero di Sera in Tibet, ci e` stato per circa vent’anni. Nel 1960 e` venuto in India, e` qui a « fare l’eremita » da vent’anni. C’e` qualcosa di falso in lui e mi irrito. Questo « eremita » non mi piace. Dice che gli italiani che vanno a sentirlo, al settanta per cento diventano credenti. Quando Folco gli chiede quali sono le piu` grandi difficolta` del vivere, risponde solo che la vita da « eremita » e` dura, bisogna aver forza. Io sbotto a dire che la vera vita dura, difficile, e` quella laggiu`, nelle citta`, con mogli e figli da nutrire, con problemi da risolvere. La sua vita di « eremita » e` facile, comoda, non ha da preoccuparsi di nulla, da fare nulla. Lo provoco ancora per vedere come reagisce, si irrita, non e` tranquillo e alla fine dopo una mezz’ora dice: « Bene, ora vi basta? » e ci caccia. Fuori piove, ma ce ne andiamo lo stesso. Facciamo pochi passi e incontriamo altri due « eremiti » che stanno salendo verso le loro capanne. Uno ha in un orecchio l’auricolare di un walkman. Ripassiamo davanti alla capanna dei contadini. La sola differenza fra loro e gli « eremiti » e` che i primi debbono lavorare per vivere. Anche Folco e` deluso, dice che forse bisogna ritornare alla scienza, che avremmo dovuto dargli uno schiaffo per mettere alla prova quanto era riuscito a raggiungere comprensione e compassione. Mi fanno di nuovo rabbia i miei colleghi. Ricordo Tim come mi aveva parlato di questa scoperta degli « eremiti »: era andato a piedi per delle ore assieme al figlio di Rinpoche per rag-

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giungere questi posti, caverne nella montagna, magnifica gente, davvero particolare... Che inventori di miti! Perche´ ne abbiamo cosı` bisogno? Al ritorno vogliamo fermarci di nuovo dal primo eremita per lasciargli dei regali, ma l’eremita questa volta non viene fuori dalla sua capanna. E` occupato a ricevere altri due « eremiti ». Gli lasciamo pacchi d’incenso e del latte fuori nel cortiletto. Il tema con Folco e` come questo posto, che dal resto del mondo e` visto come una Mecca, come la fonte di una qualche grandezza, non sia altro che una misera meta per turisti, come ci sia crisi, divisione, come molto di quel che da lontano si sogna sia qui senza tanto senso. « Mi viene da ridimensionare tutta questa storia », dice Folco, che ha appena finito di leggere Hitchens su Madre Teresa. Di tutti gli eremiti resta la conversazione col primo vecchino che bene spiega l’orrore della societa` dei consumi, che per necessita` deve vendere quel che produce, che per questo deve fare pubblicita`, il che vuol dire creare desideri che non esistono e con cio` seminare continuamente infelicita`. *** 1o novembre 1997, mezzogiorno, New York. Ems, ce la faccio appena a sedermi a scrivere due righe. Ancora una giornata dura, ma – credimi – pacifica. Comincio a capire come debbono soffrire gli altri, quelli a cui la chemio arriva nel profondo e non trovano la pace che io ho la fortuna di vedermi sempre davanti. Chi sa perche´? Ho dormito nove-dieci ore, ogni ora alzandomi, ma sempre come in trance, come ubriaco, con appena la forza di ricadere nel letto: stranissimo. Alla fine rotolo giu` dal letto, le ossa fan male, specie la` dove la gamba entra nel bacino, in gola come un boccone che sto sempre per rivomitare, la faccia gialla – mi accorgo che la pelle sotto la gola e` tutta un frinzello, piena di grinze, come quella delle vecchie di cent’anni. Non mi tocca. Il cielo e` grigio, piove leggero e fitto. Mi forzo a vestirmi, il parco e` bellissimo – fai presto per goderti ancora l’incredibile

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combinazione dei gialli, dei rossi, gli arancioni, gli ultimi verdi e i tronchi umidi e neri, fai presto a venire prima che sia tutto spoglio – anch’io, ma quasi non ne godevo. Sono andato nel profondo del bosco selvaggio, poi e` venuta una pioggia a dirotto, poi al ritorno non riuscivo ad attraversare la strada del parco: era invasa da migliaia e migliaia di maratoneti che domani parteciperanno alla grande gara che finisce proprio qui, nel mio parco, passando davanti a casa. Era strano vedere tutta quella bella, tantissima gente, sana, forte, che correva, sudava sotto la pioggia con le bandiere di tutto il mondo. Non avevo nostalgia: mi veniva in mente l’immagine di me che correvo davanti al ritratto di Mao sulla piazza Tienanmen e vedevo un vecchio cinese col cancro che da qualche parte allora mi guardava, pensando quel che penso io ora e a cui veniva in mente un’immagine di se´. Il mondo continua e gli uomini tutto sommato mi danno speranza. Gia`. Mi volto indietro e ripenso che e` da Calcutta, con la breve, magnifica, saggia e fortunata interruzione di Hong Kong, che non vivo piu` normalmente. Parigi, Bologna, mesi al Contadino, poi qui ed eccomi qui ancora per settimane. E non mi angoscia. Non ho nulla da fare, nulla da sognare, nulla da sperare. Solo la pace, il silenzio e questa magnifica giornata tranquilla che ho davanti e in cui nessuno mi cerchera`, non dovro` andare da nessuno... Stai bene, Ems. Io sto! tiz p.s. mi piace l’idea di scrivere di questo cancro guardando l’America dalla finestra. *** 14 aprile 1999, Kottakkal. Incredibile notte. Ho dormito benissimo nel costante, ininterrotto sbatacchiare di tamburi e cembali e piatti, e nel cantare monotono e ossessivo di un uomo dopo l’altro. Non capisco nulla ma ho l’impressione che nel corso di questo festival ci sia come un impegno a non interrompere per un solo secondo l’inneggiare agli dei, a impedire a qualsiasi costo l’intervenire di un solo secondo di silenzio.

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La notte passa cosı` col battere frenetico di strumenti a percussione sotto la mia finestra, finche´ il primo sole dell’alba, che fa uscire dall’ombra file e file di alberi di cocco, non mi fa alzare a godere lo strano confuso paesaggio che si apre ai miei piedi, le facciate di mattoni, alcuni camini da cui esce del fumo, e un costante odore di erbe medicinali assieme al tambureggiare e al tintinnare di sonagli. L’elefante e` sempre sul piazzale. Al tramonto, nella spianata davanti all’ospedale si addensa una bella folla di gente, famiglie con bambini, vecchi che si tengono a malapena in piedi, notabili cui viene di corsa offerta una sedia. La spianata e` coperta da un grande tendone di paglia intrecciata. Una grande troupe di suonatori e attori ha messo le tende negli edifici dietro il samadhi del vecchio fondatore dell’ospedale. Si vedono, puliti ad asciugare, dei grandi pentoloni in cui la troupe ha cucinato, le casse dei vestiti, le lampade votive, dei giovani attori che parlano, un vecchio seduto come in meditazione su un muro. All’ingresso della cappella della dea due bei tronchi di banano tagliati di fresco sono messi come stipiti alla porta con caschi di banane ancora attaccate. E` l’ora in cui dei vecchi accendono le decine di piccole lampade a olio, quelle in piccole coppe di pietra inserite nei muri, quelle nei vari ripiani delle grandi lampade d’ottone tipiche di qui. Odore di olio bruciato spazzato via da dolcissime zaffate di medicinali che vengono dalla fabbrica accanto. Il rumore dei bambini, soffocato da un insistente, ossessionante tambureggiare e sibilare di uno di quei pifferi da incantatori di serpenti, che un vecchio lezioso e vanesio suona con maestria e perdizione mentre la lettrice della mano, cacciata dalla polizia dal suo posto di ieri, si accomoda pochi metri piu` in la`. Suoni, luci, odori. Mi pare davvero di essere in un altro tempo. *** 13 dicembre 1999, Hong Kong. Mia carissima Saskia, grazie infinite del tuo messaggio. Ne avevo bisogno per sapervi tutti tornati a casa, ma anche per ricordarmi che ho an-

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cora, almeno in famiglia, delle stelle su cui orientare il mio sempre piu` confuso e labirintico cammino. Ieri mattina – una di quelle domeniche grigie, ma non fredde della Hong Kong invernale – mi son messo in cammino dall’universita`, dove sto, a piedi giu` per la collina fino al lungomare e poi al traghetto per Macao. Volevo passare due giorni a Macao e respirarne l’aria prima che questo primo lembo di sogni occidentali in Asia sia, fra una settimana, anche l’ultimo ad ammainare una bandiera cristiana sulle sponde d’Oriente. Viaggiavo con in tasca un libretto su Macao, una lettera d’amore che Philippe Pons con una generosa amicizia, che io ho difficolta` a imitare, mi ha pubblicamente dedicato con la scritta « A` Tiziano, cette ville en partage ». Mi immaginavo di leggerlo sulla veranda della Pousada, sulle panchine della Praia Grande. Mal me ne incolse! L’idrovolante, freddo come le celle frigorifere in un obitorio pieno di cadaveri non reclamati, mi ha scaricato in una citta` di cui riconoscevo solo il nome, in cui non avevo nessuno da vedere, nessuno sulla cui spalla piangere. Il solo con cui sono riuscito a discutere era padre Minella, quello che hai conosciuto anche tu, morto il 31 gennaio 1999 e sulla cui tomba, nel cimitero dietro la facciata della cattedrale, ho passato un’ora. Sono scappato a Hong Kong col primo idrovolante su cui son riuscito a salire, alle 3.45, e mi son messo a letto coprendomi bene per non farmi assaltare dai fantasmi e con una domanda in testa a cui non riesco a trovare risposta: che cosa e` una citta`? Le case? La luce? I cammini che ci si sono fatti come le linee del destino sul palmo di una mano? O la memoria che si ha delle emozioni che ci si sono avute? Forse le fantasie che il solo nome suscita ancor prima di esserci stati? Macao. Macao per me e` parte della mia vita, per me Macao e` la felicita` di quell’essere lontano, il ricordo di voi piccoli sul triscio` lungo la Praia Grande, le notti insonni passate ai vecchi tavoli da gioco, o quelle serene a dormire nei letti dalle reti sfondate nella Pousada, e poi al Bela Vista, odorosi di storia e di muffa. Tutto a Macao e` stato rifatto, ricementato. Da nessuna parte ho sentito una zaffata di quell’odore di morte che era la sua vi-

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ta. Per un giorno avrei voluto essere cieco, sordo e senza olfatto, tanto ogni sensazione mi feriva. Credo che ho raggiunto il fondo del mio viaggiare in questa Asia. Penso all’India come a una grande consolazione e ancor piu` a San Carlo che la solita fortuna dell’istinto mi ha fatto decidere di riaprire come porto sicuro per tutte le memorie. Ah... Saskia. Che cosa e` una citta`? E Firenze? Firenze che cosa rappresenta nell’immaginario di uno che ne e` fuggito ragazzo, pur tenendola in petto come faro di orientamento, termine di paragone anche per gustare tutto « l’altro »? E tu dove hai la tua stella? In quale memoria trovi il tuo orientamento? Dove la tua sicurezza? A quale immagine di citta` ricorri quando vuoi sapere chi sei? Quando vuoi trovare la forza di sentirti diversa dal montare della marea altrui? Il vantaggio di noi europei e` almeno quello di avere ancora delle citta` in cui riconoscersi, in cui non tutti i punti di riferimento sono cambiati, in cui si puo` ancora voltare un angolo e sapere che ci si para dinanzi una chiesa o una colonna, un albero o il portone sempre dello stesso colore di una vecchia casa. A Macao non c’era neppure piu` il mare a rassicurarmi col suo monotono respiro delle onde contro il muro di pietre sotto i grandi alberi. Anche il mare e` stato portato via! Ah, Firenze, Firenze! Mi chiedo se abbia ragione Theroux di cui mi scrivi. Certo che ci sono ancora delle spiagge dove andare, degli alberghi boutique in cui i ricchi potranno permettersi di stare lontani dagli aussies, ma non e` questo il punto. Il punto e` che e` finito il senso dell’avventura, il « gusto dell’altro » che ancor avant’ieri era dovunque. Nelle nostre chiacchierate da digiunatori dissennati abbiamo con Poldi deciso di rifare il mondo eliminando i passaporti, ritirando tutti quelli che esistono e lasciando che il viaggiare sia di nuovo una questione di vita o di morte... o di una raccomandazione. Ti abbraccio, mia Saskia, e grazie ancora d’aver battuto un colpo. So che ci sei da qualche parte nel mondo e quel sapere mi consola. t.

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*** 22 gennaio 2000, Binsar. Una silenziosa luna illumina le mie spalle, le fronde degli alberi, la foresta, la cresta di una collina e, dietro, quella di altre ombre di colline e montagne nel piu` limpido dei cieli. Guardo il fuoco e la luce tremula di due lampade a petrolio. Seduto per terra su una coperta di lana bianca scrivo queste righe. Sono felice. Mi pare davvero di aver fatto il primo passo di un grande viaggio, di avere la chance di una nuova, bella avventura. Il silenzio attorno e` immenso e la possibilita` di ascoltare la propria voce la piu` grande che ho mai avuto. *** 15 febbraio 2000, Binsar. Esco di casa urlando dalla gioia. Sono le sei e mezzo e la piu` incredibile alba sta avvenendo. Il sole sorge sotto uno strato di nuvole nere che diventano rosse di fuoco, le montagne escono dall’oscurita` cosmica con toni di giallo, viola, azzurro come il mare. Mi metto sopra il pigiama giallo il berretto di lana, tre coperte, ed esco a camminare quasi scalzo sulla neve gelata. E` semplicemente meraviglioso. Penso alla Saskia che ho portato ad Angkor per poterle mettere nel cuore la misura della grandezza umana, vorrei che fosse qui per sentire la grandezza del... Creatore! L’Himalaya sembra venirmi incontro con i contrafforti che si illuminano di giallo, le vette restano nell’ombra, poi una strisciata di sole come una colata d’oro sulle onde delle montagne piu` basse. Che spettacolo, questo del mondo che ogni giorno ricomincia e spazza via le paure della notte! *** 28 settembre 2000, New York al mattino. Accendo la mia tv, passo da un canale all’altro: un condannato a morte in Texas, un candidato presidenziale, poi un altro, la notizia che i teenager non dormono abbastanza. Un astronauta cinese reclamizza un sito web che aiuta anche chi non sa usare un computer a creare

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un sito di e-commerce (« Potrai da lı` vendere di tutto, dalla tua autobiografia ai tuoi balocchi in legno... »). Tutto e` pubblicita`, soldi, prodotti, lavoro... sorrisi. E tutto sembra funzionare. Sono venuto in America a curare il mio corpo, ma e` chiaro che dovevo andare in India a curare la mia anima. Forse, se avessi tempo, dovrei davvero scrivere dell’America, di questa fortissima, certo stimolante contraddizione. Apro le tende di chintz della camera e un bel sole sorge su distese di macchine parcheggiate; vedo le fusoliere scintillanti degli aerei che mi passano a pochi metri dalla testa coi carrelli gia` pronti a toccare la pista. *** 30 gennaio 2001, Binsar. Mia cara, cara Angelinchen, il Divino Artista mi ha accolto a Binsar con uno spettacolo commovente. C’era aria d’inverno, delle nuvole nere cariche di pioggia pesavano sulla foresta e le montagne erano scomparse, avvolte in grandi nebbie fredde, quando improvvisamente la` dove il sole tramonta il cielo si e` aperto, le nuvole alte si sono da sotto accese di fuoco e una stupenda, strana striscia color lapislazzuli si e` creata a fare da sfondo al ritaglio preciso dell’ultima fila di vette. Mi son rimesso la giacca e ho fatto la tua strada fino a dove il muro e` rotto e la vastita` del mondo ti appare a portata del cuore. Era bellissimo e tu eri con me. Mi sono seduto su uno dei balzi e mi sono come dimenticato. Per un attimo, in quell’incredibile silenzio nel quale solo il vento respirava lontano, m’e` parso che non c’era differenza fra la mia vita e la mia morte, fra l’esserci e il non esserci. Poi ho visto i fili gialli dell’erba tremolare e sono come tornato lı` per terra, pesante col corpo che ancora ho. *** 5 novembre 2001, Quetta. Questa guerra non e` un videogioco per quelli lontani, ne´ parte di un adventure tourism per quelli che vengono qui.

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Stiamo passando una giornata di burocrazia per avere il visto per andare nel posto di frontiera con l’Afghanistan, come facemmo dal Passo Khyber, che anche da qui, come da Peshawar, e` lontano tre ore di macchina. Forse, dopo tante chiacchiere e citazioni e sorrisi, riusciamo ad andarci domani. Altrimenti aspettiamo. Questo e` un posto interessante, anche se stravolge stare, come ho fatto ieri, in un ospedale a parlare con bambini fatti a pezzi dalle nostre bombe mentre giocavano al pallone!!! Una vergogna, questa guerra, e alla tv sento che ora anche l’Italia vuole mandare soldati ed elicotteri qui. Una vergogna. Solo per avere Berlusconi seduto a tavola a Downing Street ieri sera. Una vergogna. L’Europa dei banchieri dell’Euro e` finita, e tutti questi piccoli Gomulka e Honecker del nuovo stalinismo di Bush corrono dal padrone e dal suo rappresentante londinese. E` una vergogna. Sento il mio essere qui come una missione, ma, come capisci bene tu, difficilissima, perche´ si tratta di dire senza dire, far capire senza assordare... e senza farsi mettere sul rogo. Grazie di esserci, mio amore, tiz CONTINUA IN LIBRERIA E IN eBOOK

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DI COSA PARLA IL LIBRO:

« Cosa fa della vita che abbiamo un’avventura felice? » si chiede Tiziano Terzani in questa eccezionale opera inedita, che racconta con la consueta potenza riflessiva l’esistenza di un uomo che non ha mai smesso di dialogare con il mondo e con la coscienza di ciascuno di noi. In un continuo e appassionato procedere dalla Storia alla storia personale, viene finalmente alla luce in questi diari il Terzani uomo, il padre, il marito: una persona curiosa e straordinariamente vitale, incline piu` alle domande che alle facili risposte. Scopriamo cosı` che l’espulsione dalla Cina per « crimini controrivoluzionari », l’esperienza deludente della societa` giapponese, il passaggio professionale dalla Repubblica al Corriere della Sera, i viaggi in Thailandia, URSS, Indocina, Asia centrale, India, Pakistan non furono soltanto all’origine delle grandi opere che tutti ricordiamo. Furono anche anni fatti di dubbi, di nostalgie, di una perseverante ricerca della gioia, anni in cui dovette talvolta domare « la belva oscura » della depressione. E proprio attraverso questo continuo interrogarsi (« tutto e` gia` stato detto, eppure tutto e` da ridire »), Terzani maturava una nuova consapevolezza di se´, affidata a pagine piu` intime, meditazioni, lettere alla moglie e ai figli, appunti, tutti accuratamente raccolti e ordinati dall’autore stesso, fino al suo ultimo commovente scritto: il discorso letto in occasione del matrimonio della figlia Saskia, intriso di nostalgia per la bambina che non c’e` piu` e di amore per la vita, quella vita che inesorabilmente cambia e ci trasforma.

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