Antonio Tabucchi 2° pdf

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Ma con tutto questo stavo saltando di palo in frasca, come si suol dire, perché se non sbaglio ti parlavo dell'isola. Dunque: se a occhio e croce ha un diametro di non più di cinquanta chilometri, secondo me non c'è più di un abitante ogni dieci chilometri quadrati. Dunque, pochini davvero. Forse sono di più le capre, anzi, ne sono certo. L'unico bene che la terra produce, oltre ai pruni di more e ai fichi d'India, è il melone, laddove il terreno pietroso si fa sabbia, una rena giallognola dove gli abitanti coltivano meloni, solo meloni, piccoli come pompelmi, e dolcissimi. I campi di meloni sono divisi fra di loro da cespi di una vite che pare quasi selvatica e che cresce in buche scavate nella sabbia affinchè non le bruci il salmastro e nel cavo si possa raccogliere la rugiada notturna, che deve essere l'unico nutrimento per le loro radici. Dall'uva si ottiene un vino rosato scuro, di alta gradazione, credo che costituisca l'unica bevanda dell'isola, oltre agli infusi di erbe spontanee che si bevono in abbondanza anche freddi, e che sono amari ma assai profumati. Alcuni sono gialli, perché c'è una specie di croco spinoso che fiorisce tra i sassi e che assomiglia a un carciofo piatto; e quella bevanda da una forte ebbrezza, assai più del vino, ed è riservata ai malati e ai moribondi. Dopo un insolito benessere ti fa dormire a lungo, e quando ti svegli non sai quanto tempo è passato: forse qualche giorno, e non si fa nessun sogno. Sono certo che pensi che in un luogo come questo sarebbe necessario portare una tenda. Sì, ma dove piantarla: fra i sassi?, fra i meloni? E poi, lo sai, non sono mai stato un asso a piantare tende, mi venivano tutte storte, poverine, facevano pena. Invece ho trovato un posto al villaggio. Da non crederci, ma tu arrivi in un borgo bianco che non ha neppure un nome, si chiama semplicemente villaggio, e sul mulino a vento in rovina che fa da sentinella alle quattro case, dopo una salita di scalini sconquassati c'è un cartello con una freccia: Albergo, 100 mt. Ha due stanze, l'altra è disabitata. Il padrone dell'albergo è un uomo attempato e di poche parole. E' stato marinaio e conosce varie lingue, almeno per comunicare, e nell'isola è tutto: postino, farmacista, poliziotto. Ha l'occhio destro di un colore diverso da quello sinistro, non credo sia per natura, ma per un misterioso incidente che gli capitò in uno dei suoi viaggi e che ha tentato di spiegarmi con avare parole e con il gesto inequivocabile di chi indicandosi un occhio raffigura qualcosa che lo colpì. La stanza è molto bella, davvero non ce la saremmo immaginata così, né io né te. E' una grande mansarda che da sul cortile, con il soffitto che pende fino ad una terrazza poggiata sulle colonne di pietra del portico attorno alle quali si arrotola un rampicante di foglie molto verdi e robuste, un po' grasse, carico di bottoni che la notte si schiudono con un profumo intenso. Credo che quei fiori allontanino gli insetti, perché non ne ho mai visti sulle pareti, a meno che questa pulizia non sia opera dei non pochi gechi che popolano il soffitto: grassi anche loro, e assai simpatici, perché sempre immobili, almeno apparentemente. Il burbero proprietario ha una vecchia serva che la mattina mi porta in camera una colazione consistente in ciambelle di pane all'anice, miele, formaggio fresco e un bricco di una tisana che sa di menta. Quando scendo lui è sempre chino su un tavolo a fare i conti. Di che cosa, poi, vallo a sapere. Nella sua sobrietà verbale è tuttavia premuroso. Mi domanda sempre: como està su esposa? Chissà perché ha scelto di parlarmi in spagnolo, e la parola "esposa", che lui pronuncia con il dovuto rispetto, e che già di per sé è un po' ridicola, meriterebbe una bella risata come risposta. Ma che esposa e esposa, mi faccia il piacere!, e giù una bella pacca sulle spalle. E invece rispondo con la serietà che la situazione richiede: sta bene, grazie, stamattina si è svegliata molto presto, è già scesa alla spiaggia e non ha neppure fatto colazione. Povera signora, risponde lui sempre in spagnolo, a digiuno sul mare, non può essere! Batte le mani e arriva la

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vecchia. Le parla nella sua lingua e lei, svelta svelta, prepara il solito panierino affinchè tu non resti a digiuno. Ed è proprio questo che ti ho portato anche stamattina: una ciambella di pane all'anice, formaggio fresco, miele. Mi sento un po' Cappuccetto Rosso, ma tu non sei la nonna e per fortuna non c'è il lupo cattivo. C'è solo una capretta marroncina in mezzo al bianco delle rocce, l'azzurro sullo sfondo, il sentiero da percorrere fino alla spiaggetta per stendermi sull'asciugamano accanto al tuo. Ti avevo fatto un biglietto "aperto", come dicono in linguaggio tecnico le agenzie. Costano il doppio, lo so, ma ti consentono di rientrare il giorno che vuoi: e non dico tanto per il battellino asmatico che fa la spola ogni giorno fino alla cosiddetta civiltà, ma soprattutto per l'aereo dell'isola più vicina, dove c'è una pista d'atterraggio. E non per buttare via i soldi, lo sai che sono oculato sulle spese, né per farti vedere quanto sia generoso, che magari non lo sono affatto. E' che capisco i tuoi impegni: le cose che uno ha da fare, e qui e là, e avanti e indietro. Insomma: la vita. Ieri sera mi hai detto che oggi dovevi ripartire, dovevi proprio. Ebbene, guarda, riparti, il biglietto aperto serve proprio a questo. No problem, come dicono oggi. Fra l'altro il momento è favorevole, perché il mare è in risacca, e porta al largo. Ho preso il tuo biglietto, sono entrato nel mare (questa volta addirittura con i pantaloni, per mantenere il decoro dovuto ad un commiato) e l'ho depositato sulla superficie dell'acqua. L'onda l'ha avvolto, ed è scomparso alla vista. Oddìo, ho pensato per un momento con quel batticuore di quando si assiste a una partenza (le partenze causano sempre un po' d'ansia, e tu sai che in me è sempre eccessiva), finirà contro le rocce. E invece no. Ha preso la direzione giusta, galleggiando gagliardamente sulla corrente che rinfresca il piccolo golfo, ed è scomparso in un attimo. Ho cercato di sventolare l'asciugamano per dirti ciao, ma tu eri già troppo lontana. Magari non te ne sei neppure accorta.

Il fiume.

Mia Cara, lo so che ti occupi del passato: è il tuo mestiere. Ma questa è un'altra storia, credimi. Il passato è più facile da leggere: uno si volta all'indietro e, potendo, da un'occhiata. E poi, sia come sia, esso rimane sempre impigliato da qualche parte, magari a brandelli. A volte bastano soltanto l'olfatto e le papille gustative, è notorio: lo sappiamo da certi romanzi, anche belli. Oppure un ricordo, quale che sia: un oggetto visto nell'infanzia, un bottone ritrovato in un cassetto, che so, una persona che essendo un'altra te ne ricorda un'altra, un vecchio biglietto del tram. E all'improvviso sei lì, proprio su quel trammino sferragliante che andava da Porta Ticinese al Castello Sforzesco, come un niente entri nel portone del palazzo ottocentesco, lo scalone ha un corrimano di ghisa lavorata con una testa di serpente, sali due rampe, la porta si apre senza neppure che tu suoni il campanello e non te ne stupisci affatto, anche perché nell'ingresso, sopra il cassettone rococò, dietro la vecchia pendola neoclassica, vedi che lo specchio antico chiazzato di macchie brunastre è attraversato da una ferita che lo fende da un angolo all'altro, e ricordi che quel giorno mi dicesti: una persona con una malattia come la sua non può sfidare così il destino, è come chiamare disgrazie. E a quel punto capisci che la porta si è aperta da sola semplicemente perché lui, che voleva sfidare il destino, è stato fottuto come tutti quelli che vogliono sfidare il destino, chissà dove è mai sepolto, e invece lo specchio ferito è sempre lì, come quel giorno in cui tu capisti chiaramente ciò che doveva succedere.

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Oppure prendi un album di fotografie, uno qualsiasi di una persona qualsiasi, come me, come te, come tutti. E ti accorgi che la vita è lì nei diversi segmenti che stupidi rettangoli di carta rinchiudono senza lasciarla uscire dai loro stretti confini. E intanto la vita è gonfia, impaziente, vuole andare al di là di quel rettangolo, perché sa che quel bambino vestito di bianco con le mani giunte e la fascia della prima comunione al braccio, domani (dico "domani" tanto per dire un giorno qualsiasi) piangerà di nascosto perché si vergognerà di se stesso: una piccola turpitudine? Piccola o grande non ha importanza, perché essa prevede il rimorso, ed è di questo che stiamo parlando. Ma quella feroce fotografia, più severa di una governante, non lascia evadere la vera verità dai suoi pochi centimetri. La vita è prigioniera della sua rappresentazione: del giorno dopo ti ricordi solo tu. Guarda, fu così, ti ricordi?, e per ricordare non potrei neppure citare una poesia, tipo panni poveri stesi ad asciugare, che sono sempre un elemento di malinconia, parlano di vite sconosciute e modeste, e così semplici, di quella semplicità che solo i grandi poeti possono cogliere, o almeno così dicono. No: invece c'era un paesaggio maestoso, di quel bello che è troppo bello quando è perfetto, come in un affresco di Simone Martini, dove un cavallo bardato conduce un ineffabile cavaliere verso un ineffabile altrove. E io guidavo la mia automobile. Però piano, cercando di accompagnare le curve che solcano quelle colline inclinandomi con il corpo ad ognuna di esse, come si fa con la bicicletta, perché avrei voluto essere un ragazzino che percorreva le dolcezze di quel paesaggio con la bicicletta nuova fiammante che gli hanno regalato a casa per il suo compleanno. Era un borgo di quattro case, non di più, di pietra grezza, neppure imbiancata, senza nessuno, un fienile dava sulla strada, con dei mattoni traforati dai quali pendevano dei fili di paglia che fluttuavano alla brezza, inutili, abbandonati anche loro. Ci sono cose così, che succedono e non sai perché. Non c'era nessuna ragione di fermarsi in quel luogo deserto, neanche per prendere un caffè, perché non c'era proprio nulla, a parte una stradetta che sull'angolo del fienile, lasciando l'asfalto, diventava sterrata, e portava verso la campagna: un altro nulla, là sullo sfondo. E io la presi. In borghi di questo tipo c'è sempre una chiesetta o una cappella, l'avrai notato. E' che in origine erano poveri agglomerati di case contadine attorno alla villa padronale, e i contadini erano persone devote al padrone e alla messa. E proprio lì, in fondo alla strada sterrata, fra due cipressi, esattamente come nelle oleografie dell'Ottocento o nelle cartoline dove oggi c'è scritto "The Heart of Civilization", c'era una chiesetta. Abbandonata anche lei, come tutto il resto. Sulla punta del tetto spiovente, in una bifora di mattoni aperta nell'azzurro, pendevano due campane che sembravano piuttosto due campanacci per le vacche, e anch'esse inutilizzate da tempo, si capiva. Ho parcheggiato la macchina proprio lì, sotto uno dei cipressi. Subito dopo, filari di viti e cipressi che pennellavano le colline: i nostri posti, per capirci. E tutto come doveva essere. Era il maggio. Ho pisciato contro il cipresso, anche se non ne avevo necessità, forse attribuendo inconsapevolmente a quell'atto fisiologico la ragione di essermi fermato in un luogo in cui nessun motivo mi induceva a fermarmi. Il portoncino della chiesetta era chiuso, ne ho fatto il giro attraversando le erbacce che ne assediavano il perimetro, facendo attenzione a non disturbare le vipere che amano quei luoghi abbandonati. Fra gli interstizi delle vecchie pietre crescevano cespugli di capperi, con chiome fluenti che chissà perché mi hanno fatto pensare ad Elettra, e ho cercato di ricordare dei versi che una volta conoscevo, ma erano introvabili nella memoria. Ho colto un paio di capperi e li ho masticati, anche se erano acerbi, e ne ho gustato l'agrezza, quasi che quel sapore sgradito mi restituisse il senso di ciò che è accaduto, come una penitenza sommessa e necesaria che ci ricordi con il suo sapore aspro la colpa che abbiamo commesso. E ho

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pensato alla vita, che è surrettizia, e che raramente mostra in superficie le sue ragioni, e invece il suo vero percorso avviene in profondità, come un fiume carsico. Ti avevo detto: ora è finita. Ma senza dirtelo, perché anche il silenzio è carsico. Pensavi che fossi scomparso? Lo fui, restando lì, come nel nulla, sospeso e un po' vagando. Ora mi trovavo in un mio luogo qualsiasi, che era un altro rispetto a quello maestoso di cui parlavo prima: una gola fra i monti con radi olivi, e cespi selvatici che fioriscono quando è tempo. Ogni tanto pensavo alla conformazione della tua fessura, e la vedevo come se foie inserita nel paesaggio: il piccolo clitoride nascosto sotto le grandi labbra, timido come certi ometti che si affacciano sulla porta di casa con la paura del postino che ha suonato il campanello, e poi il pube ampio, disteso come un albereto fino al principio del ventre. Dunque ero lontano, in quel frattempo, e questo è fondamentale affinchè tu capisca cose incomprensibili, e la solitudine era grande, là fra i monti. Entrai in una taverna che si chiamava Antartes, che in greco vuol dire partigiano, e anch'io mi sentivo così, come uno che vive alla macchia, si nasconde e combatte, ma contro chi?, pensavo, beh, contro le cose, si sa com'è, le cose, voglio dire tutto, perché la vita a poco a poco si riempie e intumidisce senza che tu te ne accorga, ma quel gonfiore è un di troppo, come una ciste o un caos, ed a un certo punto quell'insieme di cose, di oggetti, di ricordi, di rumori, di sogni o intersogni non ti dice più niente, è solo un rumore indistinto, un groppo, un singhiozzo che non sale e non scende, e strozza. Stavo fuori, sotto il pergolato di vite, e mangiavo un piatto squisito fatto con le interiora di agnello, guardavo le gole scoscese di Creta, quelle montagne aspre macchiate dal colore degli oleandri fra il verde degli oliveti, che lì è un verde cupo e lustro, e osservavo un gruppo di capre, che l'oleandro non lo mangiano, loro che masticano persino il pruno, e pensavo: ecco, ce l'ho fatta. Un mio amico sostiene che il suicidio, per il fatto di essere una scelta radicale, paradossalmente in fondo è più facile: un gesto, e via. Ben più difficile è il silenzio. Esso presuppone pazienza, costanza, testardaggine; e soprattutto si confronta con il giorno-dopo-giorno della nostra vita, i giorni che ci restano, uno dopo l'altro, lunghi davvero nelle loro piccole ore, è come un voto, è di cristallo, un niente lo può rompere, e il suo nemico è il tempo. Come vanno le cose. E cosa le guida: un niente. Fu per caso. Entrai dentro l'androne di quella taverna per semplice curiosità: per guardare. La sala era spoglia, con delle sedie impagliate messe le une sulle altre, e i tavoli riposti in un angolo. C'erano delle fotografie alle pareti e mi misi a guardarle. In quel villaggio venerano due persone: uno è Venizelos, perché nacque da quelle parti e vi ebbe il quartiere generale durante le sue battaglie; e lo si vede in ritratti giovanili e giornali ingialliti che raffigurano in color seppia il suo amore per il popolo. L'altro è Kazantzakis, perché in questo villaggio si fermò quando una delle sue tante infelicità lo inseguivano, e qui lo accolsero. E' uno scrittore che non ho mai amato, forse perché ci assomigliamo nella superbia, solo che nei micromeandri del nostro essere le vie della superbia sono più infinite di quelle del Signore, e nel suo caso la superbia scelse la via del coraggio e dell'orgoglio di averlo. Il mio è un caso del tutto diverso, come sai bene, quando l'orgoglio può scegliere la viltà. Oltre al suo ritratto, vestito da uomo perbene (giacca, cravatta, baffi ben curati, brillantina, sguardo profondo di chi sta guardando la macchina fotografica come se guardasse negli occhi la Verità), c'era anche la fotografia della sua tomba (chiamiamola così) perché la sua Chiesa non accolse nel cimitero un uomo che le pareva blasfemo, e la sua città, Eraclion, ne sepolse i resti nella cinta muraria, e mise sulla lapide una sua frase dove lui entra tutto su misura, dalla testa ai piedi: "Non credo a niente. Non spero in niente. Sono libero". Vedi come vanno le cose, e cosa le guida: basta una frase così per distruggere il propósito di una persona come me. Il silenzio è davvero fragile.

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Scusami se cambio paesaggio, ma è proprio a causa di quella frase se quel giorno di cui ti parlavo io mi fermai con la macchina davanti alla chiesetta di un borgo abbandonato delle campagne che conosciamo così bene, e scesi. E percorsi il perimetro di quella specie di pieve campestre, quasi che cercassi lì qualcosa che si potesse opporre a quelle parole superbe che mi terrorizzavano. Lo so che sto facendo un volo pindarico, e che tutto questo non ha logica, ma certe cose, lo sai, non seguono nessuna logica, o almeno una logica che sia comprensibile per noi che siamo sempre alla ricerca della stessa logica: causa effetto, causa effetto, causa effetto, solo per dare un senso a ciò che è privo di senso. E' per questo, come direbbe il mio amico, che hanno scelto il silenzio le persone che nella vita in un modo o nell'altro hanno scelto il silenzio: perché hanno intuito che parlare, e soprattutto scrivere, è sempre un modo di venire a patti con la mancanza di senso della vita. Dunque: ora risiamo nel perimetro esterno della piccola pieve abbandonata fra gli sterpi e i sassi. E forse con qualche biscia, che i poeti ce la vogliono, anche se non ne vidi nessuna. Seppure modesta (ah, davvero modesta, mi ricordò la gobba di un sarto che cuciva i vestiti di mio padre nella mia infanzia), la chiesina aveva un'abside, con una porticina angusta per la quale ai suoi tempi, suppongo, il prete entrava per celebrare la messa domenicale ai contadini provenendo dalla sua abitazione dirimpettaia: neppure una canonica, appena un casolare. E su quella porticina bacata dal tarlo c'era una targhetta scritta a macchina e appiccicata con il nastro adesivo. Una targhetta insensata che diceva: "Scelta vita futura. Entrata libera". Logico che entrai. Tu cosa avresti fatto, tu che ti sei con centrata sul passato?, obiettivo ipocrita, tra l'altro, per chi in realtà sta pensando a ciò che può essere il domani, visto che il passato gli ha lasciato una certa amarezza. Il futuro, il futuro! E' la nostra cultura, basata su ciò che potremmo essere, compreso l'Evangelio (sia detto con il dovuto rispetto) perché di noi sarà il Regno dei Cieli, tempo futuro, insomma, l'avvenire, visto che il passato è un disastro e il presente non ci basta mai. E niente, sai, davvero niente basta, nemmeno le ginestre che fioriscono a maggio per chi sa vederle e che io guardavo senza vedere, come di solito facciamo tutti, fino a cadere nella nostalgia dell'irreversibile, che è la tomba definitiva di tutti quelli come noi. Il ricordo della tua fica (scusa l'insistenza sul crudo particolare anatomico) mi si spalancò improvvisamente davanti, se così posso dire, forse in modo empio, non lo nego, dato il luogo sacro anche se abbandonato. E al contrario di Kazantzakis capii che non ero libero. Anzi, ero prigioniero di me stesso. E soprattutto non ero più giovane, o almeno così giovane come quando ti avevo conosciuta. Ma mi sembrò di capire di più, assai di più. Strane, certe associazioni d'idee: per esempio, che quella tua fessura fosse non solo una sorta di vortice dove avrei voluto rientrare, perché essa era stata per me un luogo di piacere indicibile (troppo facile), ma davvero una possibile via di ritorno all'immemorabile, all'origine del mondo, come direbbe l'arguto pittore, su, su, su, fino ad arrivare all'origine delle origini, alla natura mononucleare, meglio, al batterio, meglio, all'amminoacido, meglio, al Verbo, che dell'amminoacido dev'essere la metafora suprema. Che stronzo, vero? A volte vengono giri d'idee che non appartengono alla nostra lingua, e ciò non ti sembri strano. O parole, che a volte il mondo sembra fatto di parole uguali fra loro anche se diverso è il modo di intenderle nella loro sostanza. Per esempio la parola anthropos. Questa parola a cui io penso, e che per ciascuno di noi sembra uguale, per ciascuno vuole dire un'altra cosa. Una parola che neppure Linneo, mia Cara, sarebbe riuscito con tutta la sua pazienza a classificare nelle sue infinite valenze. Nel mio caso, un uomo solo, caso banalissimo fino al ridicolo, visto che giornali e anagrafi, municipi ed autorità oggi lo chiamano single. Ma nel mio caso la singolarità coincideva davvero

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con la vecchia solitudine. La più assoluta solitudine, come quella del paesaggio tutt'intorno, fatto di rovi e di ginestre e cipressi sulle colline. Ed è per questo che bussai alla porticina e girai la maniglia. Di solito, in casi come questi, dovrebbe aprire una signora di una certa età, preferibilmente inglese, con i capelli grigi e magari vesti- ta di un sari, perché ha vissuto in India, una persona che ha meditato a lungo sulle filosofie dell'Oriente e che sa come cavarsela con le vite future. E invece mi aprì una vecchietta dall'aria zotica con una pezzuola nera sul capo e una peluria sul labbro superiore, con quello sguardo opaco e il volto apparentemente ottuso che hanno certi deficienti che però a loro modo sono furbi, e mi disse solo: entri e si accomodi a sedere, c'è una seggiola che l'aspetta. Mi disse proprio così: che c'era una seggiola che mi aspettava. E così entrai in una stanzetta angusta, che prima fu una sacrestia, con una finestrella inferriata, dove c'era una sorta di piccolo leggìo e solo una seggiola, uguale identica alla seggiola di Van Gogh. Non ti sto prendendo in giro, pensai addirittura che fosse stata copiata dal quadro, ma era così vecchia e sbilenca che non era possibile che l'avessero copiata, e certo non era possibile che Van Gogh fosse arrivato fino a lì, la sua era una seggiola della stanza di un povero pazzo della Provenza, in quel caffè che gli faceva da pensioncina, dove gli abitanti di Arles giocavano a biliardo, e quelli che sbagliavano buca finivano in manicomio a girare in cerchio con le casacche a righe come lui li dipinse. Mi ci sedetti, come può fare un coatto. Davanti a me non avevo niente se non quella specie di leggìo che faceva anche da tavolino. C'era un telefono del tutto fuori luogo che suonò un paio di volte, ma alla vecchia non parve il caso di rispondere. Dalle mie spalle, dalla finestrella inferriata che dava sul piazzale pieno di erbacce, arrivava un raggio di sole che batteva sulla parete di fronte dove c'era una carta dell'Universo. Esiste una carta dell'Universo? Certo che no. Il nostro, comunque, qualcuno ha tentato di disegnarlo: è in espansione, dicono, almeno per il momento, poi si vedrà. Sotto la carta dell'Universo c'era scritto un endecasillabo che mi era noto, ma per seguir virtute e conoscenza, e mi parve quasi strano che non foie scritto in inglese: a volte la modernità ci gioca brutti scherzi. Pensai a quelle che potevano essere le mie virtudi. Guardandomi indietro, nessuna. E conoscenza neppure, nonostante tutto quello che credevo di aver conosciuto. Ero nel buio completo, almeno per quel che riguardava il passato. Se ne era andato così, come sabbia fra le dita, scusa la metafora abusata, ma davvero lo capii in quel momento: perché il passato, anche lui, è fatto di momenti, e ogni momento è come un minuscolo granello che sfugge, tenerlo, in sé e per sé sarebbe facile, ma è metterlo insieme con gli altri che è impossibile. Insomma: logica, nessuna, mia Cara. L'idea di un futuro, seppure posta come ipotesi, mi parve ancora più nebbiosa. Davvero un grande banco di nebbia, tipo certi disegni che appaiono nelle trasmissioni televisive serali dove c'è una persona educata che fa profezie meteorologiche. E' stato così che sono entrato nel gioco. Niente ricerca dell'io più profondo, di quello più nascosto negli abissi della nostra coscienza, come vorrebbero certi palombari delle nostre anime. Solo una concentrazione sul ricordo più nascosto, quello che ci rese felici in passato e che vorremmo fosse la nostra vita futura, ammesso che essa esista: quel punto lì, e basta. Avevo desiderato di averti già conosciuta quando ti conobbi, e in questo, fino ad ora, è probabilmente consistito il mio desiderio più nascosto. Perché in quel punto lì sogno e desiderio coincidono, essendo la stessa cosa, almeno per coloro che immaginano anche molto vagamente una vita futura dopo che le cellule e il genoma che le tiene insieme non si siano fatti polvere. La vecchietta rispose: dipende. Scusa, ho saltato un passaggio, avevo dimenticato di dirti che la vecchietta vestita di nero si era raggomitolata in un canto come un fagotto

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dimenticato da qualcuno, e alla mia domanda se la mia vita futura dipendeva dal desiderio a cui pensavo, aveva risposto: dipende. Dipende da cosa?, replicai. Lei sorrise come chi la sa lunga e fece un cenno con la mano come per dire: vai, poi te ne accorgi. E bisbigliò: dipende da come sarai pensato mentre varchi la soglia, figliolo. La situazione era assurda, ne converrai. Il posto, la stanzetta scrostata di una sacrestia obsoleta, e quella specie di vecchia segretaria nera con la peluria sopra il labbro che mi guardava con sfrontatezza. E ciò mi fece irritare, ma soprattutto con me stesso, come quando ti cacci in una situazione idiota e capisci che è idiota, e vorresti uscirne subito, perché sai che quanto più insisterai nell'affrontarla cercando di dominarla tanto più essa diventerà idiota risucchiandoti in un'idiozia senza uscita. E io questo l'avevo capito al volo, ma come un idiota replicai: abbiate pazienza, signora, ma se io, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali, decidessi eventualmente di attraversare la soglia di quella porticina dove c'è scritto "Vita Futura", io penserei a quello che cavolo mi pare, mi spiego? La vecchietta sorrise di nuovo con il suo sorriso furbo. Si toccò fugacemente la fronte con l'indice e tacque. Voglio dire che, cercai di spiegare alla vecchia con la calma che l'irritazione a volte riesce provvidenzialmente a darci, se in quel preciso momento in cui varco la soglia con la gamba destra (dimenticavo di dirti che nel frattempo avevo leggiucchiato una specie di foglietto d'istruzioni piegato sul leggìo, una cartaccia gualcita e scritta a macchina che aveva per titolo: Consigli tecnici basilari) e porto il piede sinistro esattamente accanto al piede destro, come vogliono le vostre istruzioni, sarò libero di pensare a quel che più mi piace, buona donna, o no? La vecchia stese le braccia, aprì le mani in alto e mosse le dita come se imitasse il vento. Il pensiero è alato, disse con il suo sorrisetto ironico, figliolo, il pensiero è alato, tu credi di pensarlo, e all'improvviso, come il vento, lui arriva da dove gli pare, e tu credevi di pensarlo, ma è lui che ti pensa, e tu sei solo pensato. E mi fece di nuovo il gesto di andare, se avevo il coraggio. E questa volta era un serio gesto di sfida, lo capii. E fu per sfida, credimi, perché non volli rinunciare a quella sfida stupida, in quel luogo stupido, con quella vecchia stupida; e certo non credevo neppure un po' a quel suo trucco da baraccone fatto per spillare qualche soldo a dei gonzi di passaggio, con quel cesto pacchiano (un corbello da contadini foderato di rosso, figurati) dove c'era scritto a pennarello il prezzo per la metempsicosi. Non che non desiderassi una mia vita futura, in quel preciso momento della mia vita: e solo tu puoi sapere quanto e perché. Ma da lì ad accettare quella stupida pantomima, ce ne corre. Eppure depositai la banconota dovuta per la metempsicosi nel corbello foderato di rosso, impugnai la maniglia della porticina sulla quale era scritto "Vita Futura", chiusi gli occhi come voleva il foglietto d'istruzioni, varcai la soglia con la gamba destra e posai il piede sinistro esattamente accanto a quello che già poggiava per terra. Buonasera, disse la proprietaria, ho fatto le grenouilles a la provengale, e il Bordeaux non è niente male, è un vino di sette anni, è l'ultimo che avevo in cantina, ma non si può accompagnare con del vino giovane un piatto come questo che mi ha preso tutto il pomeriggio. Tu mi lasciasti scegliere il tavolo, come del resto facevi sempre, e poi quella sera il ristorante era praticamente deserto: due coppie di vecchi coniugi in anticipo sulla stagione: forse turisti inglesi. Scelsi un tavolo d'angolo accanto alla vetrata da dove si dominava il mare aperto sulla destra e a sinistra la scogliera con il faro. Ha bevuto anche stasera, mi sussurrasti, peccato, è una donna ancora bella, si sta buttando via. Vai a sapere quali sciagure le hanno attraversato la vita, ti risposi, la vita non è scritta sui volti delle persone, e neanche nei sorrisi con cui ci accolgono. Il mare era davvero furibondo. A volte succedeva così, in quel piccolo golfo, senza una ragione climatica apparentemente logica, perché quella sera non c'era affatto vento, per esempio. E le grenouilles a la provengale erano sublimi - come sempre, del resto. Quella sera, però, anche tu bevesti

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un po' più del solito. Dicesti: a questo vino non si può resistere. Ti dò ragione. Sull'etichetta c'era una torre panciuta e scritto in caratteri grandi "Chàteau Latour, domarne Pauillac, Bordeaux, 1975". Logico che tu non ricordi quell'etichetta. Io sì, l'ho sotto gli occhi ad ogni tappa del cerchio, come capirai più avanti. Uscendo eri allegra, e mi chiedesti una canzone sul mare. Scelsi Charles Trenet, anche se il suo è un mare tranquillo, e tu mi dicesti: che bella canzone. E io cominciai a scendere piano verso il rifugio dove avevo lasciato una luce a brillare. E continuo a scendere per quella strada, inesorabilmente, ogni volta che la mia vita arriva a quel punto. Come ad ogni altro punto che continuo ad attraversare, quelli precedenti e quelli successivi. Quella sera dunque, cioè stasera per me, dopo essere tornati al rifugio, tu mi dici: non mi sento molto bene, ho freddo, e ti avvolgi un plaid di lana sulle spalle e ti addormenti sul divano, mentre io mi metto a fumare davanti alla finestra pensando ai miei morti e ascoltando le loro voci che il mare porta. E poi, il giorno dopo, io faccio quello che ho fatto il giorno dopo, e anche tu, e poi il mese dopo faccio quello che ho fatto il mese dopo, e poi dopo e dopo e ancora dopo. Fino al giorno in cui senza dirtelo ti dissi che era finita. E lì c'è un momento indistinto, non so se breve o lungo (ma questo importa poco), che quelli della metempsicosi, nel loro codice, chiamano anàstole, con il quale tutto ricomincia perché il cerchio si chiude e si riapre immediatamente. Si tratta, ora lo so, di un minuscolo iato incolmabile, perché nel mio percorso manca il segmento della chiesetta dove mi fermai quel giorno con la macchina, durante il periodo della mia anàstole. Sai, quello è un momento non più percorribile per chi ha scelto di entrare nel cerchio, perché è quel momento speciale (loro lo chiamano "vacuo "^quando non sai esattamente chi sei, dove sei, e perché ci sei. E' come quando si ferma il moto di un pezzo di musica e tutti gli strumenti tacciono: è quel momento in cui, come sostengono loro, vieni a patti con la mancanza di senso della vita, e dunque a che vale ripeterlo?, sarebbe insensato. Le uniche varianti che mi sono concesse, nel mio rientro nel circolo, sono i diversi momenti del rientro nel circolo stesso: che può essere il primo giorno della nostra storia, il secondo, l'ultimo, o una sera qualsiasi. E' sempre così, all'infinito. E' sempre identico. Per esempio, ora sono sullo spiazzo di una casa contadina, mi sono fermato sotto un mandorlo, è una sera di fine agosto, tu ti sei affacciata alla porta perché hai capito che sono arrivato, mi vieni incontro con la calma di chi ha aspettato un ritorno più del sopportabile, e io in effetti sto tornando, dal paese vicino giunge una musica di trombe e fisarmoniche che eseguono Ciliegi rosa a primavera, che roba è?, ti chiedo. E' la festa del paese, rispondi, sai, per san Lorenzo ho passato la notte a guardare le stelle cadenti e ho espresso il desiderio che tu tornassi presto, vuoi restare a cena? E io resto a cena, naturalmente, tu hai fatto i pomodori ripieni e vi hai messo il timo che cresce sotto la pergola di casa, accanto alle belle-di-notte. E per te è normale, perché questo successe soltanto in quel momento lì, in quel preciso istante del tempo in cui i nostri corpi attraversavano quel preciso spazio che era il prato davanti alla casa rustica dove i nostri orecchi percepivano la musica di Ciliegi rosa a primavera, e tu mi dicesti: ho passato la notte di san Lorenzo a guardare le stelle cadenti, vuoi restare a cena? A un calcolo del tutto approssimativo, in questo mio momento in cui mi trovo, in questa rozza taverna cretese che ho raggiunto in un nonnulla per rientrare domani da principio nel circolo, tu ora dovresti essere una donna quasi vecchia, come lo sarei anch'io se non avessi attraversato la fragile soglia che ho attraversato. Perché la vita (la tua, voglio dire) è logica, e avanza con la giusta scansione. E probabilmente avrai dei nipoti, che anch'essi appartengono alla scansione della vita, e la tua giusta canizie, che oggi peraltro si può camuffare con un semplice cachet del coiffeur. E probabilmente avrai raggiunto quella

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pace che il tempo al quale appartieni prevede per le tappe dell'età che sono concesse agli esseri umani. E certo, nel faticoso aggiustamento con noi stessi che tutte le età prevedono, avrai capito in questa tua di ora che la vita da nomade che allora invocavi non era fatta per te, e che dunque era solo un falso dilemma. Perché la pace, nonostante tutto, trionfa sempre sull'inquietudine. Il che, nel tuo caso, non è poi così vero, e io lo so perché conosco la tua natura, che non prevederebbe il cestello con gomitoli di lana fra le gambe, poesie da farne lettura critica, e nipotini che suonano il clavicembalo: era vera l'altra, quella che non sapemmo scegliere entrambi. Ma, comecché sia stato, il tempo scorre come deve scorrere: è l'ora di cena e attorno alla tavola le persone giuste vivono con te l'ora giusta nel posto giusto, perché questo è il giusto metro del tempo, della vita e della favella. Io, al contrario, ti scrivo da un tempo rotto. Tutto è in frantumi, mia Cara, i frammenti sono volati da una parte all'altra e mi è impossibile raccoglierli se non in questo circolo forzato in cui continuo a girare fino alla nausea e all'idiozia, finché esso non si aprirà in un punto ignoto. Che però non sarà quello di un'altra vita, ma di questa. Perché non è dall'altra parte che ti sto parlando ma da questa, anche se essa appartiene insospettabilmente ad un'orbita diversa dalla tua. Se fosse il contrario sarebbe troppo facile uscirne: basterebbe vivere la vita che ci è concessa come se si vivesse in un'altra dimensione, cosa che pensatori anche sublimi hanno saputo risolvere in maniere artistiche spesso sublimi. No, il problema è assai diverso. E' che l'orbita è allo stesso tempo la stessa e un'altra, io vedo la tua e vi entro quando voglio, senza che tu possa fare lo stesso con la mia. Io ci sono senza che tu abbia bisogno di essere con me, né di saperlo, perché la tua orbita è unica e irripetibile, e invece la mia è sincronica con se stessa, e gira e gira all'infinito. E la beffa, come ti accennavo, consiste proprio in questo, che il momento dell'uscita avverrà solo nel mio Attuale, cioè in quello che io sto essendo senza esserlo: le dimensioni si sono invertite, ciò che era solo ricordo è diventato presente, e ciò che davvero sono o dovrei essere, il mio presunto ora, è diventato virtuale e lo scorgo da lontano come da un cannocchiale rovesciato, aspettando di rientrarvi all'ultimo momento, per quell'istante terminale in cui ci è dato di ripercorrere all'indietro tutta la nostra vita, che invece sono condannato a ripercorrere senza sosta. E in quell'istante concessomi avrò appena il tempo di annaspare nell'aria come un annegato, e poi: buonanotte. Sai, penso che nell'evadere da questo tempo ripetuto, che è una forma di perversa entropia, non si verificherà neppure una piccola esplosione, come quando nell'universo una massa di energia compressa esplode provocando una nuova stella. Altro che quello che affermava il filosofo matto, che si deve aggiungere ancora del caos dentro di noi per poter far nascere una stella danzante. Ma quale stella! Basterà solo un minuscolo foro, e tutta questa energia insensata se ne fuggirà come quando si buca il tubo del gas e... fssss... fssss..., tutto finirà in un attimo, in una modestissima bolla, un residuo, un niente fatto di niente, come una scorreggia del tempo. Perciò ti mando un saluto impossibile, come chi fa vani cenni da una sponda all'altra del fiume sapendo che non ci sono sponde, davvero, credimi, non ci sono sponde, c'è solo il fiume, prima non lo sapevamo, ma c'è solo il fiume, vorrei gridartelo: attenta, guarda che c'è solo il fiume!, ora lo so, che idioti, ci preoccupavamo tanto delle sponde e invece c'era solo il fiume. Ma è troppo tardi, a che serve dirtelo?

Forbidden Games. Madame, mia cara Amica, come vanno le cose. E cosa le guida: un niente. E' una frase che ho letto, e ora ci penso.

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E poi: siamo noi che cerchiamo o siamo cercati? Anche su questo bisognerebbe riflettere. Per esempio, uno vaga, la sera, per strade e caffè, vagabondando a caso, come capita a me che soffro d'insonnia. Una volta almeno c'era Bobi, gli mettevo il guinzaglio e lo portavo a spasso; era una scusa. Ora è morto, non ho neppure più quella scusa. Vado qua e là senza logica, mi attardo nei bistrot fino alla chiusura, poi mi alzo e cammino. Il medico mi ha detto: lei è il classico caso di homo melancholicus. Ma Durer ha disegnato la malinconia seduta, ho obiettato, per la malinconia ci vuole una sedia. La sua è una malinconia differente, ha sentenziato lui, è una malinconia mobile. E mi ha ordinato esercizi motori. Ieri per esempio ho preso la direzione di Porte d'Orléans. Lì per lì non me ne ero accorto, camminavo e basta. Nel boulevard Raspail i lampioni mettevano in risalto il giallo delle foglie degli alberi. E' l'inizio d'ottobre. Ho pensato al verso di una poesia: il giallo attuale che le foglie hanno. Attuale: ciò che è ora e non è più subito dopo. Ciò che trascorre. E così ho pensato al tempo e al mio trascorrere attraverso di esso. I miei passi andavano svelti, seguivo un itinerario guidato, senza rendermi conto che era guidato. Me ne sono accorto solo dopo il boulevard General Ledere, perché fra il brocanteur e il ristorantino vietnamita, una volta, c'era la bottega di un sarto. E fu lì che mi feci cucire un vestito per il matrimonio di Christine. Non avevo un soldo, o molto pochi, il sarto era un vecchietto ebreo, il negozio restava sul mio percorso quando rientravo, bussai, aveva stoffe a buon mercato, mi fece un vestito a buon mercato. Così, passando davanti a quella bottega che ora non c'è più, mi sono accorto che ero diretto senza rendermene conto al boulevard Jourdan, verso la Cité Universitaire. Facevo così, a quel tempo, rientravo a piedi, e spesso a notte fonda, perché il mètro chiudeva abbastanza presto e io restavo a guardare i film da cineclub in un piccolo cinema in Saint-Germain: L'age d'or, Un chien andalou. Cose così. Credevo nelle avanguardie. Era bello pensare che erano rivoluzionarie. Esteticamente, intendo. Lungo il boulevard Jourdan, non lontano da uno degli ingressi della Cité, c'è un caffè che a quel tempo frequentavo. Ci andavo con un gruppo di studenti giapponesi con i quali avevo fatto amicizia, poiché per un certo periodo avevo dovuto alloggiare alla Maison du Japon, visto che la Maison del mio paese subiva lavori di ristrutturazione. Nel gruppo c'erano una ragazza e un ragazzo che attirarono la mia simpatia. Lei studiava medicina e voleva specializzarsi in malattie tropicali, ma sognava di diventare cantante d'opera e prendeva lezioni da un vecchio tenore che viveva nel Marais. Puccini era la sua passione, e a volte ci cantava le arie della Butterfly. Ci sedevamo a un tavolino del caffè, all'aperto, era d'inverno, lei cantava Un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo, e dalla sua bocca uscivano nuvolette di fiato condensato. Io dicevo che erano gli ideogrammi musicali di Puccini. Si chiamava Atsuko, il nostro amico scriveva haiku e poesiole e quando ne aveva voglia ce le leggeva. Ne ricordo una che diceva così: La foglia cade nel vento d'ottobre ondeggiando leggera. Pesante è il tempo di un'estate passata lontano. Seduti in quel caffè sognavamo mondi possibili revendo jus de pamplemousse. Al mattino, nelle aule della Sorbona, un vecchio professore di filosofia di cui ignoravamo il nome nella nostra abissale ignoranza parlava con voli pindarici di Remords et Nostalgie. Non sapevamo cosa fossero, eppure ci affascinavano come mondi lontani che si

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suppongono di là dall'oceano della vita, su una sponda remota a cui mai approderai. E invece, ecco. Ieri sono arrivato con i miei passi notturni a quel piccolo caffè di una volta. E l'ho trovato uguale a quello di una volta. Gli stessi volti giovanili dei miei tempi, gli studenti della Cite che studiano in compagnia fino alle tre del mattino, quando chiude il caffè. Certo si vestono in maniera un po' diversa, la musica che ascoltano è diversa anch'essa. Eppure i volti sono gli stessi, e gli occhi, e gli sguardi. Non c'è più il juke-box dove infilavamo la moneta per ascoltare Omette Coleman, Petite fleur, Une valse a mille temps, ma un mangianastri con la musica di oggi: molta America. Accanto al frigorifero il nuovo proprietario ha sistemato un piccolo scaffale con dei nastri lasciati a disposizione degli studenti che se li possono scegliere e infilare nell'apparecchio posto sul bancone dove un cartellino dice: Libre Service. Nel ripiano inferiore dello scaffale un altro cartellino dice: From thè World - Du Monde Entier, e lì ci sono nastri di musica dei vari paesi che gli studenti si sono portati da casa o che i loro amici e familiari gli inviano. Puoi sentire musiche di danze rituali africane, musiche raga indiane, strumenti a corde d'Anatolia, i lamenti delle geishe e tutto quello che gli uomini hanno inventato nelle diverse astratte maniere di esprimere con i suo ni ciò che sentono. Nell'ultimo piano, indicato dal cartellino Section Nostalgie, ci sono le canzoni che furono dei nostri anni verdi, i più nostri, quelli del dopoguerra, canzoni tipo Le déserteur, Et e'est ainsi que les hommes vivent: insomma, le caves di Saint-Germain: donne in nero e sciarpe rosse, l'esistenzialismo da caffè, l'anarchismo musicale di Boris Vian e Leo Ferré. Ho pensato: de la musique avant toute chose. E ho ripetuto la frase a voce alta. E mi siete venuta in mente Voi, Madame. Cioè tu. Non si possono dire impunemente certe parole, perché le parole sono le cose. Ormai dovrei saperlo, alla mia età e con tutto quello che è successo. E invece l'ho detta. Senza pensare all'impunità. E Voi, Madame, siete apparsa su quel balcone in Provenza, vi ricordate? Ne sono certo, lo ricordate come me, ma solo da un altro punto di vista, perché io Vi guardavo dal basso e Voi mi guardavate dall'alto. Vogliamo abbellire i ricordi? O falsarli? La memoria è qui per questo. Diciamo che era giugno. Dolce, come deve essere in Provenza. E magari io stavo attraversando un campo di lavanda, e sul limitare di quel campo c'era una casa di pietra grezza presidiata da un mandorlo. E sotto i mandorli, a volte, come ci insegna la saggezza cinese, si possono ricordare i ricordi di un altro. Sono forse confuso? Ebbene, sono confuso. Ma Voi sapete, Madame, che tutto è confuso. Sto solo cercando di disporre tutto questo confuso in un ordine più o meno plausibile. E la plausibilità presuppone la falsità, magari involontaria. Dunque, Vi prego di comprendermi. Nel senso che a quel punto Voi siete apparsa sul balcone, quand méme. Eravate nuda, questo non potete non ricordarvelo come me lo ricordo io, ora, qui, dopo tutto il dopo. Capite? Certo che capite. Il coito fu fuori, fra la la vanda, sotto il mandorlo. Passò un trattore? Forse, ma senza falci meccaniche. Fu un abbraccio lungo, pausato, quasi immobile, e sparsi il mio seme fra la lavanda. Con un fiore violetto di lavanda inumidito di saliva, Vi asciugai il Vostro violetto più segreto. Vi sembra tellurico o semplicemente di cattivo gusto? Non importa: non ho avuto solo incubi, ma anche visioni rasserenanti, ed eiaculazioni soddisfacenti; belle, belle. Le finestre a volte non hanno imposte, si aprono su orizzonti ben più larghi di quelli reali. E' la finestra della mia testa. Non voglio buttar via niente, e tutto questo non può essere distrutto. Avrei dovuto fermarmi? Forse. Può darsi. Chissà. Ma tutto scorre e niente sta fermo, diceva quello. E l'acido poeta rincarò, attribuendo il detto a un sinistro rabbino: è vero, figliolo, hai fornicato, ma fu in un altro paese, e inoltre la ragazza è morta. E in quel preciso momento in cui stavo pensando tutto questo, cara Amica, è successo un miserabile miracolo, uno di quelli che la vita ci riserva affinchè noi possiamo intuire

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qualcosa di ciò che fu, di ciò che potrebbe essere e di ciò che potrebbe essere stato. Un suggerimento che è necessario cogliere al volo come la profezia postuma di una Sibilla superflua. Ecco, un ragazzo si alza dal tavolino. Lo guardo. E piccolo e tarchiato. E ha il gel nei capelli. Tratti somatici francesi. Sicuramente è dell'Auvergne, penso io. E se non lo è fa lo stesso. Si dirige al mobiletto delle musiche e infila un nastro. E la voce acuta di Trenet, lacrimosa, lacrimogena, eppure così struggente, canta: Que reste-t-il de nos amours, que restet-il de nos beaux jours, une photo, vieille photo de ma jeunesse. E solo allora mi accorgo che sul tavolino davanti a me c'è una cartella azzurra legata da un nastro bianco sulla quale c'è scritto Forbidden Games, e io la apro con movimenti cauti e lenti come in una cerimonia antica che mi aspettava da anni. E dentro c'è una fotografia di una donna nuda a un balcone. E quella donna non siete Voi, mia cara Amica, però lo siete, perché è Isabel, ma anche Voi siete Isabel, mia cara Amica, lo sapete. E' una cosa ineluttabile. E sul retro di quella foto una calligrafia minuta e ordinata, che riesco a decifrare, ha scritto questa lettera indirizzata al se stesso che scrive, e con lui a me, e a Voi, una lettera senza bottiglia che ha navigato in chissà quali diaframmi del mondo per approdare lì, a quel tavolino sporco di cerchi di bicchieri di quel caffè alla periferia di Parigi. E io ho capito che dovevo sostituirmi a un chirurgo toracico e aprire un petto, il mio, il Vostro, non so, ed estrarre un'essenza che desse un senso non alle aorte, ai vasi sanguigni, ai corpi cavernosi, ma a una biologia diversa, lontana dalle cellule, che fluttui in qualche altrove dove non si devono incontrare la vita e la scrittura, la biografia e la letteratura, una sorta di iper-madeleine fatta non di parole (troppo facile), non di megahertz, non di segni (per carità), ma semplicemente di vive voix, che, in quanto tale, muore appena è detta, così come l'immagine muore non appena l'obiettivo ha scattato. No, mia cara Amica, non è il senhal degli innamorati poeti provenzali, non è l'indicibile di filosofi anoressici, non è la leggerezza che vorrebbero lasciare in eredità ai posteri, se ce ne saranno, certi scrittori di questo mefìtico millennio che muore, che hanno imparato la lezione sprecando il loro talento e immaginazione scrivendo a beneficio di manuali di narratologia. Niente di tutto questo, vous comprenez sans doute. Sono le nuvole, cara Amica, nella loro accezione moderna, naturalmente. Le nuvole che sempre più coprono il volto della luna, che si allontana sempre di più, anche se vi hanno infilzato una bandierina come uno stuzzicadenti sulle olive di un cocktail. Perché è il ciclo che si abbassa sempre di più. Dunque, avec un ciel si bas qu'un canai s'est pendu, concetto anch'esso da Sezione Nostalgia - ma se i canali possono impiccarsi, i connards no, quelli purtroppo no, ci stringono d'assedio. Vi prego, non interpretate di nuovo queste mie povere farneticazioni quali dichiarazioni di poetica. Interpretatele semmai in modo esistenziale. Anzi, fe-no-me-no-lo-gi-co. Perché il poeta è un risentito, e il resto è nuvole. La Ferocia, l'Ovvio, il Politically Correct, la Plastica, il Cinismo. E come se non bastasse, gli Ologi, tutti gli Ologi possibili e immaginabili. E i pentimenti e i ripentimenti, tanto il granturco sotto le ginocchia non si usa più, un mea culpa macchiato caldo, prego. C'est chiant, Madame, mi creda. E poi la Scienza. La Scienza, grazie alla quale gli Scissori gridarono le loro eureke: Hiroshima, mon petit champignon! Ai sopravvissuti, ustioni, deformazioni genetiche irreversibili, cancri di ogni qualità, mia cara Amica. E tanti, tanti connards. E pisciafreddi a valanghe. Riassumendo: Zyklon B, radioattività e filo spinato, come ha detto uno che se ne intendeva. Che non sono mica del pistou, non Vi pare? E intanto: la leggerezza!, come un lanciatore di giavellotto che corre scalzo sul prato di Olimpia. Parbleu, quelle élégance. Oppure: la Vita, la Vita raccomandata dal Biancovestito alla sua finestra (quanti balconi e quante finestre in questa storia, avete notato, Madame?). Già, ma la vita di chi? E con quali abili accorgimenti, poi? E se ci limitassimo a spargere seme fra

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la lavanda, non sarebbe anch'esso un accorgimento, diciamo un discorso del metodo? Prendetelo come un doppio senso, una metafora di come uno come me può intendere se stesso: per esempio il senso della scrittura. E intanto Voi, mia cara Amica, che frequentavate anziani scrittori di cattiva qualità dei quali Vi sentivate complice (o loro di Voi), chissà che non impariate come funziona una storia, cosa sono le strutture narrative, ciò che Voi credete sia la letteratura. Saremo auto o etero diegetici? Si sente davvero la necessità di risolvere questa spinosa questione. Insomma, cos'è un romanzo, del quale Vi lascio un piccolo condensato in questa nonbottiglia, diciamo un romanzo ipotetico, un aggeggino del genere fatevelodasoli che anche Voi potete ottenere riempiendo lo spazio bianco fra i puntini come nei disegni di certe riviste di enigmistica che servono soprattutto per ammazzare il tempo. Faccio un passo indietro. Intanto ero uscito nell'aria fredda di Parigi. L'alba (non livida) rischiarava i giardini della Cite Universitaire. Io ero attonito, direi perplesso, e tenevo in mano questa lettera trovata in quella non-bottiglia che qui trascrivo per Voi: “Cela aurait été beau que tu gagnes la partie. Tu jouais dans la cour d'une maison pauvre, en été, tu te souviens?, ou non, plutòt a l'arrière-printemps, et ce vert, tout ce vert alentour, tu te souviens? La fontaine communale était en fonte, verte elle aussi, avec un robinet en cuivre, Anciennes Fonderies c'était encore inserii avec les armoiries royales. Un broc, une femme nue sur le balcon, elle aurait voulu te parler, si elle avait pu, mais elle était une image de toujours, et le toujours n'a pas de voix. Tu passais par là, ignare comme tous les passants. Tu traversais quelque chose sans savoir quoi. Et ainsi tu t'en allais, petit a petit, vers un ailleurs. Il devait bien y avoir un ailleurs, pensais-tu. Mais était-ce vrai? Etranger, toi aussi, dans l'ailleurs. Les nuages, les nuages, qui changent sans cesse de forme, roulent dans le ciel. Et voyagent sans boussole. Etoile polaire, Croix du Sud. Allez, suivons les nuages. Engageons la partie avec les nuages, acceptons le défi, par exemple: comment se dispute ce jeu? Nimbus, cirrus, cumulus: ce sont les joueurs que presente l'equipe adverse. Voilà le premier qui arrive. Avec lui ce fut un apre duel. Ah! Les moulinets que tu faisais avec ton sabre. Illustre cavalier qui participa a la joute, ton courage fut sans pareil, et inégalable ta bravoure, magnifique ta générosité a défendre des nobles idéaux. Tu coupas les jambes du feroce nimbus qui lancait des tonnerres et des éclairs. Tu fis tourner comme une balle folle le cumulus rond qui adaptait a tout sa rotondile. Et le grand cirrus, tellement fier de sa 'cirrité' et dont la crème chantilly masquait le néant, il prit la fuite au loin. Noble chevalier, quel combat! Et tout ce la sans armure. Puis tu t'en alias vers d'autres ailleurs, fragile mais fort, solide comme un roc et pourtant en équilibre précaire. Voyages par des sentiers qui bifurquent, chemins de Saint-Jacquesde-Compostelle, mers jamais naviguées auparavant, elle allait légère, ta pierre chancelante, chevalier sans tache et sans peur, avec toutes les peurs du monde et toutes les taches solaires. Jusqu'au moment où le voyage d'aller devint celui du retour. Cela aurait été beau que tu gagnes la partie, dit le tzigane aveugle. Mais moi, je ne chante pas le futur, sois tranquille, dans le Journal de ce matin un acteur très connu dit qu'il est vieux et s'en vante, la patrie en tant que patrie méme si elle est ingrate nous fascine et nous devons l'aimer (lettre non signée), si tu réponds a la question la plus difficile du Grand Concours et si tu maìtrises avec sùreté les événements en réussissant a devenir le point de référence de tout et de toi-mé-me, tu gagnes vingt-huit points et un voyage a Zanzibar et, en outre, du moins pour cette semaine, l'influence positive d'Uranus te rend inhabituellement prudent, en t'évitant le peri de nourrir d'inutiles illusions. Si tu veux au contraire connaìtre les prédictions de ton horoscope, je te le

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vends pour deux sous, c'est un horoscope échu, tu peux le lire a l'envers jusqu'à Fépoque où tu jouais dans la cour d'une maison pauvre. C'était en été, tu te souviens? Sur le banc d'une gare, le ballon oublié par un enfant flotte, et la femme nue au balcon a ferme la fenétre". Mia cara Amica, vorrei poter Vi dare appuntamento in un altro caffè che non fosse quello sbagliato, dove ci siamo aspettati invano. Ma non so dove si trovi. E temo che più che un comune caffè sia il Caffè con la maiuscola, la sua immagine eterna e immutabile, una specie di idea platonica di Caffè dove il caffè non lo servono. E' vero: nessuno ci potrà mai sottrarre ciò che abbiamo vissuto, soprattutto se cercavamo interstizi. Ma, mi chiedo: perché mai averli cercati tanto? Forse per trovarvi gli Enjambements del pensoso verseggiatore Aristide Dupont, intrepido continuatore della linea poetica piecarda? Via a gambe levate! Di interstizio in interstizio si finisce per arrivare alla meritata pensione di chi ha servito i Pubblici Uffici. E, in quanto a citazioni, il tempo consentito, come la vita, è passato: si era post-moderni nel secolo scorso. A questo proposito, la sera di cui Vi parlavo avrei desiderato a mia volta mettere un nastro di una canzone che mi sembrava adatta all'occasione, e il cui ritornello fa così: "Dove vai Gigolette, con il tuo Gigolò, è finita la giava che si ballava tanti anni fa". Ma non l'avevo con me, e ora il Padrone ha voglia di chiudere bottega, e i musicanti stanno riponendo gli strumenti. Ve la canto senza accompagnamento, come facevo una volta. Addio mia cara Amica, o magari arrivederci in un'altra vita che certo non sarà la nostra. Perché i giochi dell'essere, come sappiamo, sono proibiti da ciò che dovendo essere è già stato. E' il minuscolo eppure invalicabile Forbidden Game che ci impone il nostro Attuale. Nota: traduzione della lettera. Sarebbe stato bello che tu avessi vinto la partita. Giocavi nel cortile di una casa povera, d'estate, ti ricordi?, o no, forse sul finire della primavera e quel verde, tutto quel verde intorno, ti ricordi? La fontana comunale era di ghisa, verde anche lei, con un rubinetto di rame, Anaennes Fonderies c'era ancora scritto, con le insegne reali. Una brocca, una donna nuda sul balcone, avrebbe voluto parlarti se avesse potuto, ma era un'immagine di sempre e il sempre non ha voce. Passavi di là ignaro come tutti i passanti. Attraversavi qualcosa senza sapere cosa. E così te ne andavi, a poco a poco, verso un altrove. Doveva pur esserci un altrove, pensavi. Ma era vero? Straniero anche tu, nell'altrove. Le nuvole, le nuvole che cambiano forma senza sosta volteggiano nel cieclo. E viaggiano senza bussola. Stella polare, Croce del Sud. Su, seguiamo le nuvole. Facciamo la partita con le nuvole, raccogliamo la sfida, per esempio: come si fa questo gioco? Nembo, cirro, cumulo: sono questi i giocatori che schiera la squadra avversaria. Ecco il primo che arriva. Con lui fu un aspro duello. Ah, i mulinelli che facevi con la sciabola. Illustre cavaliere che partecipò alla giostra, il tuo coraggio fu senza pari, e ineguagliabile la tua bravura, magnifica la tua generosità nel difendere nobili ideali. Tagliasti le gambe del feroce nembo che lanciava tuoni e fulmini. Facesti ruotare come una palla pazza il cumulo tondeggiante che adattava a ogni cosa la sua rotondità. E il grande cirro così fiero della sua cirrità', la cui panna montata ricopriva il niente, si diede alla fuga, in lontananza. Nobile cavaliere, che battaglia! E tutto questo senza armatura. Poi te ne andasti verso altri altrove, fragile ma forte, solido come una roccia e tuttavia in equilibrio instabile. Viaggi per sentieri che si biforcano, cammini di Santiago di Compostela, mari mai prima navigati, andava leggera, la tua pietra vacillante, cavaliere

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senza macchia e senza paura, con tutte le paure del mondo e tutte le macchie solari. Fino al momento in cui il viaggio di andata diventò quello di ritorno. Sarebbe stato bello che tu avessi vinto la partita, disse lo zingaro cieco. Ma io, io non canto il futuro, stai tranquillo, sul giornale di stamattina un famoso attore dice che è vecchio e se ne vanta, la patria in quanto tale anche se è ingrata ci ammalia e noi dobbiamo amarla (lettera non firmata), se rispondi alla domanda più difficile del Grande Concorso e padroneggi con sicurezza gli eventi riuscendo a diventare il punto di riferimento di tutti e di te stesso, vinci ventotto punti e un viaggio a Zanzibar, e inoltre, almeno per questa settimana, l'influsso positivo di Urano ti rende, contrariamente al solito, prudente, evitandoti il pericolo di alimentare vane illusioni. Se invece vuoi conoscere le previsioni del tuo oroscopo, io vendo per due soldi, è un oroscopo scaduto, puoi leggerlo a ritroso fino all'epoca in cui giocavi nel cortile di una casa povera. Era estate, ti ricordi? Sulla panchina di una stazione il palloncino dimenticato da un bambino ondeggia, e la donna nuda sul balcone ha chiuso le imposte." [Traduzione di Anna Pardo] fine nota.

La circolazione del sangue. Mia amatissima Emoglobina, una buona imitazione della luna si può ottenere soltanto con un completo dissanguamento, vale a dire con un totale e definitivo salasso. Tale precetto ci viene dagli Antichi, i quali attribuirono il pallore lunare a una mancanza di sangue. Solo linfa bianca, dice un frammento presocratico, circola in lei, e cioè materia fredda. Da cui, naturalmente, Proserpina regina degli Inferi, e tutto ciò che ne consegue rispetto al concetto vita/morte. E dunque pallore e colore, luce e ombra, suono e silenzio. Perché silenziosa è la luna, e senza dittongo, lo disse chi sapeva, e quella i del dittongo mancato è una nota lunga e malinconica, quasi un lamento che fa venire i brividi. Quale privilegio, mia amatissima Emoglobina, parlare con Voi della luna. Non solo perché siete un cerusico che si occupa del sangue umano, ma perché siete il mio medico del sangue che fece battere in fretta il mio cuore e dal cui impulso na sce questa lettera che Vi invio, perché mi amate o mi amaste, perché Vi amo o Vi amai, e con Voi posso parlare della circolazione del sangue come con nessun altro. E poi, in quanto emoterapeuta, Voi conoscete bene anche i globuli bianchi, e dunque non solo il rosso che infiamma le nostre guance nei momenti di passione, ma anche il pallore che si disegna sulla nostra fronte quando Nostra-Signora-la-Luna ci investe col raggio gelido della sua malinconia. Ma come si può non amare la luna? Davvero sul suo volto è dipinto l'eterno, perché a nessuno è promesso il domani, come ci insegna l'antico Persiano, beviamo dunque al chiaro di luna, o dolce luna, perché la luna brillerà ancora per molto senza più ritrovarci. Sapete, una volta ho fatto un esame medico alla testa. Mi ci aveva deciso un'arteria troppo laboriosa che vi pompava sangue in eccesso, un'abbondanza che mi provocava malesseri, anzi dolori devastanti. Mentre con una specie di mouse mi lisciava il collo, la nuca e le tempie, il medico osservava uno schermo davanti a sé, che anch'io potevo sbirciare. E in quello schermo vidi con chiarezza ciò che la medicina non può sapere, vidi le maree provocate dalla luna, le onde di quando l'oceano della nostra testa è in burrasca, il vento freddo del Nord e il vento caldo del Sud, lo scirocco dentro il cranio, e mi sembrava di percepire l'odore salmastro mentre increspava la mia superficie marina provocando cefalee salate, quel sale che dalle tempie scende nel palato, sa di infanzie perdute, di adolescenze fatte di tedio e di amori inutili, e di vite poi vissute come venivano, cioè insensate, perché ciò che si vive così come viene è sempre insensato, se

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il senso non sai darglielo tu. Ma la pioggia che pulisce, quando arriverà mai? Acqua, quando pioverai, dunque? E tu, fulmine, quando tuonerai? Oh, difficile dirlo, mia amatissima Emoglobina. Per questo non c'è altro rimedio che regolare la propria circolazione del sangue. E come orientarsi nella circolazione del sangue, mia cara, tenera, amatissima Emoglobina? Andrea Cisalpino, lo sapete meglio di me, aveva scoperto il moto di circolazione alla metà del Cinquecento. Le sue Quaestionumperipateticarum vi sono note: le vene si riempiono sempre sotto, mai sopra il loro allacciamento. Come la vita, dunque: sempre al di sotto di ciò che avviene, sempre al di sotto di se stessa. Cisalpino insegnava all'Università di Pisa, città amata da quel lunatico sofferente di malinconia e febbri terzane e che per difendersi dal freddo dormiva fra due materassi. E fu proprio in quella città che costui capì il Cisalpino, forse senza averlo letto, e cioè che le vene riportano il sangue al cuore e non il contrario, come pensavano Galene e gli Antichi, e fu proprio per questo che in quella città il cuore di quel lunatico risorse e ricominciò a battere come ormai non batteva più da tempo, e Zefiro ravvivò l'aria inferma e sentì in lui rivivere gli inganni aperti e noti. Ma quando le illusioni non possono più rivivere, ed è un'alba livida, e sotto la tua finestra comincia a scorrere il traffico che da notturno si sta trasformando in diurno, e la strada è lucida di pioggia, e il volto della luna non si stacca dal riquadro della finestra non perché voglia tramontare ma forse perché è già sorta, sembra proprio il momento di trovare lo strattagemma per interrompere l'onesta idraulica che Cisalpino aveva scoperto e far sì che il cuore, che suppone di essere la pompa principale di ciò che si chiama vivere, cessi la sua arroganza. Per questo è necessario studiare accuratamente la circolazione del sangue. Anche se sembra poco importante, per decorare con petali di rosa, una per una, le bianche maioliche del pavimento: splif, splif, ma sarebbe più esatto dire clòffete, clòppete, perché anche le fontane malate a volte piangono di rosso. Ah, ma c'è troppa letteratura in tutto questo, e nel mondo, e nella vita, via !, atteniamoci alla Scienza, quella sì che è sicura, non fallisce di un millimetro, la Scienza è una scienza esatta, mica come la letteratura che è così vaga, fatta di vaghezza. La fontana della scienza, per esempio, al contrario di quella fatta di parole, ubbidisce alle inesorabili leggi dell'idraulica. E se tu apri il rubinetto, essendo così che il sistema circolatorio di tale fontana scorre dall'alto verso il basso o dal centro verso la periferia, il tutto con un ritorno, se tu collochi un rubinetto in basso, rispetto al deposito del liquido, puoi stare sicuro che esso liquido uscirà dalla conduttura. Ma, mia amatissima Emoglobina, a questo punto desidero por Vi una questione cruciale che è la seguente: perché mai la natura, invece di aprire altri vasi per il passaggio del sangue, ha completamente impedito tale passaggio nel feto? Mi rendo conto che la questione, posta così, viene un po' come il cavolo a merenda. Ma cercherò di spiegarmi meglio, cominciando a monte, come si suol dire. Dunque: "Così nel feto, siccome i polmoni non funzionano ed è come se non ci fossero, la natura si serve dei due ventricoli per fare circolare il sangue, e la disposizione è la stessa per i feti che hanno i polmoni ma che non ne fanno uso poiché non respirano, così come per i feti di animali inferiori senza polmoni. Ciò dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio che le contrazioni del cuore fanno circolare il sangue dalla vena cava all'aorta: le vie sono tanto ampie e il passaggio è tanto facile quanto lo sarebbero in un uomo adulto i cui due ventricoli comunicassero in seguito all'asportazione del setto. Nella maggior parte degli animali, in tutti gli animali a una certa età, queste vie di passaggio sono molto aperte e fanno circolare il sangue attraverso i ventricoli. E ora, perché dunque pensiamo che in alcuni animali a sangue caldo (l'uomo, ad esempio), raggiunta l'età adulta, questo passaggio di sangue non si fa attraverso i ventricoli, come succede invece nel feto attraverso le necessarie anastomosi, allorché i polmoni sprovvisti di ogni uso non possono essere attraversati dal

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flusso sanguigno? Come può essere preferibile (e la natura sa solo ciò che è preferibile a tutto il resto) che nell'adolescente la natura fermi questo passaggio, mentre nel feto e in tutti gli animali la comunicazione è largamente stabilita? E perché la natura, invece di aprire altri vasi per il passaggio del sangue, ha totalmente impedito questo passaggio nel feto?". Dovete capire che Vi pongo il problema non solo perché in questo momento ho assunto una posizione fetale che mi sembrava più confortevole e se così si può dire più protettrice, oltre che estremamente adatta per rientrare nel ventre terrestre dal quale uscimmo; e non per niente nella civiltà minoica si facevano sotterrare così: ginocchia contro il mento e braccia che tengono le gambe ripiegate, come una molla pronta a scattare non appena si presenta l'eternità, che bisogna affrontare con la necessaria energia, perché non è cosa da po; Vi dico questo soprattutto perché prima della mia accurata preparazione mi sono andato a cercare in biblioteca il De motu cordis che William Harvey scrisse nel milleseicentoventotto, e il cui titolo completo suona così: Exercitatio anatomica de motu cordis et sanguinis in animalibus. A Voi, carissima Emoglobina, la cosa non sembrerà stupefacente, ma io sono rimasto allibito nell' apprendere che si sia dovuto aspettare il milleseicentoventotto affinchè gli uomini potessero conoscere con esattezza attraverso quali esatti meccanismi il loro muscolo cardiaco pompava quello strano liquido rosso che circola in loro e che costituisce il nutrimento indispensabile della loro vita. Voi siete un'ematologa di chiara fama, mia amatissima Emoglobina (scusatemi se continuo a chiamarVi così, come quando eravamo studenti), ma sospetto che nel Vostro immacolato laboratorio, sotto il Vostro infallibile microscopio, sulle sterilizzate piastrine che riposano alla giusta temperatura nelle Vostre asettiche vetrine, la figura di William Harvey non sia mai entrata nella giusta considerazione. E così Ve la introduco io, in questa mia lettera, che Vi raggiungerà domani, ora che il colore di una stagione che fu infiammata in altri tempi ha probabilmente raggiunto il colore delle foglie del rampicante che circonda le finestre del Vostro bellissimo studio: passate le fiamme dell'autunno sulle chiome degli alberi, le foglie ora sono gialle e cascano a pietto. Pietto pietto, pretty pretty, ci bisbigliavamo nascosti sotto le coperte, penombra e materasso, altro che sole e acciaio! E chi ero io? Ma il partigiano Johnny, il bel partigiano. Cosa rimiri, mio bel partigiano, cosa rimiri, mio bel partigiano: io rimiro la fiiglia tua, lassù sui monti la poorterò. E via, di corsa, ma anche i partigiani invecchiano, se non muoiono giovani come il partigiano Johnny. O come Marilyn. Pensate, se Marilyn non fosse morta così giovane e bella ora sarebbe vecchia e brutta e chi mai si occuperebbe di lei? Faccio giochi di parole? Ebbene sì, faccio giochi di parole. A me piacciono i giochi di parole? Ebbene sì, a me piacciono i giochi di parole, detti anche calembour. Cala cala, caro mio, cala cala che qui tutto cola, ogni parola cola sul pavimento e si frange, spillacchera, diventa una strana stella circolare, ma che curioso perímetro ha questa parola spillaccherata sul pavimento, sembra un frattale, perché è fratta, poverina, è una frazione di noi che si frange come si frangono le onde sulla spiaggia, che del vasto mare sono fra l'altro una frazione modestissima. E monotona, soprattutto monotona, siete d'accordo? Così come è monotona questa pioggia incessante a gocce, clap clap, ora fanno così, come quando applaude Donald Duck. E che fa una goccia?, che fa una goccia? Cavat lapidem, ecco cosa fa, per questo è stata inventata la grondaia, si tratta di non farsi ba- gnare, altrimenti non ti resta altro che scrollarti la pioggia di dosso come fanno i cani. Domanda: anche la vita si può scrollare di dosso? Per esempio, ieri ho rivisto Natalino, che avrebbe dovuto essere uomo dalle fiere imprese, e che invece tutti chiamavano Talino. E lui sapeva di essere un Talino incapace di fiere imprese, era un filo d'erba al

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vento, un fuscello che tremava alla prima brezza della vita. Povero Talino!, dicevamo. E invece tu vedessi come è diventato: è davvero irriconoscibile. Ma prima ti devo dire dove l'ho trovato, cioè dove mi trovavo. Ero sdraiato sotto un albero, un albero immenso. Ed ero in un podere, probabilmente un luogo iberico, anche se lì non si possono chiamare poderi. E allora come dovrei dire, una "proprietà"? Diciamo così, forse la parola Vi piace di più. Comunque era un bel posto, tale che lo definirei idillico. Anzi, arcadico. Perché era un'estate (non Vi sembri strano, ma ieri era estate), anzi, la fine dell'estate, perché i grappoli d'uva di quelle vigne rampicanti cominciavano a essere maturelli. E con quei grappoletti si fa un vinello che non ti dico. Rosso?, verde?, verdicchio? Verdetto. Bendetto, signora, verdetto, la sentenza è giusta, signor giudice a latere. La giuria popolare approva, vada per "proprietà", anzi, sapete cosa Vi dico?, campagna. Sì, ero in una "campagna", anche se non posso dire la "mia" campagna, perché di solito è più giusto così, quando c'è un aggettivo possessivo, allora la cosiddetta campagna vuol dire che è una proprietà. Come Titiro recubavo, e mi sentivo felice, perché in fondo al prato scorreva un ruscelletto di cui avvertivo lo sciacquìo fra i canneti. Poco più in là c'era un'aia rotonda di una bella pietra grezza e liscia da quanto l'hanno lisciata per secoli i piedi scalzi di contadini e batacchi sarchiatori di pannocchie. E accanto all'aia un bel granaio con il tetto di culmo, come se ne vedono in Cantabria. E in quella pace campestre, mentre rane gracidavano e cicale frinivano, che è quello che devono fare rane e cicale, sotto quella quercia maestosa il mio corpo si è sentito invadere da una pace inusuale, ho avuto appena il tempo di dire a me stesso: ah che pace, che ho aperto e riaperto gli occhi e mi sono accorto che quell'albero possente era Natalino. Natalino !, Natalino !, ho esclamato, sei qui fatto albero, diventasti dunque pianta senza dirlo a nessuno, neanche Ovidio lo immaginerebbe, caro il mio Natalino, sono felice di saperti albero, e che albero! Natalino mi ha sorriso con complicità, come sapeva fare lui quando giocavamo a carte, che faceva un sorrisetto che non capiva nessuno, solo io, perché a briscola facevamo sempre coppia. Ma forse dovevo immaginarlo che saresti diventato una quercia, gli ho detto, dovevo averlo capito a suo tempo, non per niente esigesti una bara di legno di quercia, e come ti faceva figura addosso, quel giorno che ti accompagnammo, mentre la banda eseguiva il coro del Nabucco, qualcuno tentò di coprirti con un ombrello perché aveva cominciato a piovere e io gli dissi: lascia perdere, sciocchino, non vedi che Natalino è di quercia? E sapete, mia cara, cosa ha fatto a quel punto Natalino? Una cosa indescrivibile. Si è messo a muovere tutte le foglie, vibravano una per una come strumenti suonati da una musica ignota, e come mi pareva giusto guardarlo dal basso in alto quando tutti lo avevano sempre guardato dall'alto in basso, e vedere come tremava di amicizia e dal piacere di avermi lì, sotto la sua ombra protettrice e larga. Mi è difficile descrivervi la musica del concerto che Natalino mi ha offerto con le sue foglie, assomiglia vagamente a un giorno che andammo su quella spiaggia, in settembre, e non c'era più nessuno, ormai, c'era rimasto un maestrale leggero che faceva fremere i cannicci del capanno dove mangiammo e dove facemmo all'amore. Poi ho aperto gli occhi, e ho visto che ero qui, e che forse era sabato, un tipico sabato del villaggio, anche se fuori si agita la città, una città immensa e domani né tristezza né noia recheran l'ore, perché ho pensato alla circolazione del sangue, a come essa pulsa dentro di noi regolare, paziente, per anni e anni, e come sia necessario interrompere una buona volta questa respirazione che ci affratella tutti in un fiato cosmico, avanti, indietro, avanti, indietro, con la sua eterna monotonia che scandisce l'insensatezza. E ho risolto di prendere le necessarie misure contro il metronomo che ritma questo sempiterno balletto. Uffa. Perché, come è stato detto, l'uomo che noi siamo non è stato fatto per vivere con un cervello e i suoi organi collaterali: midollo, cuore, polmoni, cistifellea, sesso e stomaco, non è stato fatto per

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vivere con una circolazione sanguigna. Lo so che sto rompendo un patto. Non ci vediamo più, restò scritto, e in quanto a scriverci, solo in caso di estrema necessità: contratto redatto da Voi e controfirmato da entrambi. E' vero che non ho estrema necessità, perché quella estrema è già qui, e Voi non arrivereste in tempo. Ho solo l'estrema necessità di scriverVi questa lettera. Vi lascio indovinare fra tre perché. Uno: perché non mi piace partire in silenzio. Due: perché non voglio scrivere a colei alla quale dovrei scrivere. Tre: perché ho sognato Natalino. Tu quale scegli? Casta Diva. Eran rapiti i sensi, o mia donna gentile, e la sua mano, come una luna falcata, ti frugava il pelo. Abile è la sua mano: abituata a maneggiare la giugulare degli agnelli sgozzati, e con dita guantate, sottilissime come il vento, sutura, sala o affida all'Eterno. Sto solo assegnando le parti, o donna mia gentile, l'inventore di questo risibile teatro stasera mi ha nominato direttore. In quest'opera da quattro soldi, fatta di materiali di scarto, povere fantasie, elucubrazioni, nostalgie, rancori e struggimenti, tocca a me scegliere musica, scenografia, orchestra, coro e interpreti. Ti prego, non obiettare, come nessuno può obiettare niente, puoi solo rassegnarti, tu sei Norma, la Norma che voglio io. Dai, non fare così, per favore, non protestare, ti prometto che sarà un pastiche di quelli che tu prediligi. Avremo il sole rare volte e il resto è pioggia che ci bagna, perché la pioggia bagna, o mia donna gentile, infradicia le ossa, e dalle ossa arriva fino all'anima, come quell'umidità che piano piano si infiltra e insinua muffa sul- le pareti e canizie negli uomini, ma guarda, rallegrati: ora non piove. E' invece l'inverno, e nevica, e intorno al rifugio montano turbina la tempesta. Riesci a scorgere qualcosa dalla finestrella dai vetri appannati che guarda sulla valle? Io no. Il turbinìo nevoso crea una caligine spessa e grigia, angustiante. Oh, sì, certo, ti piacerebbe avere una visione chiara, luminosa, che senza possibilità d'errore ti mostrasse sulla neve le impronte di tutti i passi che hai dovuto fare in vita tua per giungere fin qui. Impossibile scorgerli, invece, ma in fondo che importa, se si sta così bene nel calduccio? E nel calduccio di un rifugio che la sorte ci offre, mentre là fuori turbina la tempesta di neve, cosa si fa? Si beve forse una ciotola di brodo bollente? No, non te lo permetto, non va bene. Sono due parole orride, e questo melodramma appena abbozzato non è ancora arrivato alle sue parti più orride, se ci saranno. Cerchiamo per ora di mantenere un minimo di eleganza: al calduccio del rifugio che la sorte ti ha offerto, mentre là fuori turbina la neve, si beve una chicchera di consommé. Così si deve dire. Dietro di te una figura è immobile nell'ombra, appoggiata a un tavolo. La veste bianca e l'aria sinistra lo fanno sospettare un Sacerdote: quel Gran Sacerdote che comanda le tribù druidiche con i suoi magici poteri: làudano, aghi, morfina. Sì, è l'uomo che fa i sacrifici sulle levigate pietre dei dolmen, incide la pancia dei capri e ne disperde le viscere al vento. Anch'egli, nella pe nombra, ha alzato la sua ciotola di brodo in una sorta di enigmatica libagione. Ma attenzione!, sta nascendo la luna, sospendiamo in aria le chicchere! Oltre quella finestrella appannata dai fiati e dall'afrore delle ascelle, la Casta Diva volge a voi il bel sembiante, senza nubi e senza vel. Il Sacerdote, dicevo, si è come bloccato. Immobile nell'ombra, il volto ombreggiato da una barba bluastra che gli è calata sulle guance come un'ala nera, dalle labbra sottili alcune gocce di brodo gli stanno gocciolando sulla bianca veste. Nel senso che si è sbrodolato. Se potessi, o Norma, ti farei cantare: "Ah, tergi il consommé! ".

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Ma è troppo anche per un'opera come questa. Per ora non tergere niente e bevi il tuo brodinò nel rifugio assediato dalla tormenta. Io, che ho istruito questa specie di opera come si istruisce un caso giudiziario demente, a questo punto non vorrei rischiare di insegnare l'abbaco alle formicole: preferisco affidare lo spettacolo a un vero regista, di quelli che lo fanno di mestiere, rotti ad ogni esperienza, che non guardano in bocca a nessuno, che ci sia brodo o che ci sia consommé. Passo, dunque, la mano e mi ritiro fra le quinte.

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"Gentilissima Signora, come Lei saprà sono stato incaricato dal direttore del teatro di dirigere quest'opera di cui Lei è l'interprete principale. Non me ne vorrà se io condurrò avanti la trama a mio piacimento, in una recita a soggetto determinata dalla situazione, dall'assedio delle circostanze e dalla morsa del tempo. La recita a soggetto, come Lei sa, si basa sull'intuizione come forma di conoscenza, sulla rapidità di comprensione, sulla supposizione e sul cortocircuito. Da Lei esigo obbedienza totale, esecuzione pronta di ogni mio ordine, sforzo di corde vocali che a Lei non mancano, velocità di movimenti corporei, immobilità assoluta quando l'immobilità è necessaria, che Lei saprà rispettare con l'ausilio delle tecniche orientali di Sua conoscenza. Si può conservare la gioventù abbracciati per il resto dei nostri giorni a una cuccetta odorosa di abete? L'allettante teoria è avanzata da 'Stella Cometa', autorevole rivista esoterica secondo la quale il bisturi deve affondare nel morto per poterlo risvegliare, ma è rischioso affondare ferri nei cadaveri: il morto è richiamato dal metallo, si risveglia, produce urla laceranti nella notte. Così dev'essere la Sua forma di canto in questo spettacolo, gentilissima Signora: come l'urlo agghiacciante di un morto che è stato risvegliato dai ferri. Lei ne ha tutte le possibilità vocali, ed è quello che Le chiedo. " L'uomo che stava scrivendo queste parole prese la bacchetta appoggiata sul leggìo e fece un gesto lieve nell'aria, come se chiamasse una musica lontana, un pianoforte segreto a suonare un notturno. E come per magia si udì il ruscellare di una tastiera in lontananza, le luci si abbassarono, e nel fondale cominciò a calare una scenografìa diversa dalla sudicia finestrella appannata da cui si scorgeva la Casta Diva. Era una tela di colore azzurrino, ma con una cornice, una specie di enorme finestra a tutto teatro, grazie alla quale, come in certi quadri di Magritte, il fuori sembrava entrare nel dentro e annullarlo. E infatti il dentro si dissolse in un attimo, la materia svanì in quell'azzurro come il fumo di una sigaretta e restò solo l'aria, un grande spazio di orizzonte circolare, il vuoto che può ospitare qualsiasi corpo, qualsiasi situazione, qualsiasi azione e movimento eseguito da ammassi di atomi e di cellule. Con la punta della bacchetta l'uomo infilzò un lembo di luna e la tirò giù, fino al centro di quell'azzurro, finestra immensa che ormai aveva risucchiato dentro di sé tutti gli altri corpi materici che ingombravano lo spazio. Che strana quella bacchetta da direttore d'orchestra che l'uomo muoveva nell'aria come una penna che si muove su una tavola magica e traccia visibilmente le sue note nello spazio! Non era un Maestro, chi muoveva quella bacchetta, forse era un illusionista, un saltimbanco di passaggio o qualcuno che con uno strano trucco riusciva a trasformare le note in segni visibili nell'aria, e a dare loro colori a suo piacimento. Toccò di nuovo la Casta Diva, che da patacca giallastra di luna appena sorta diventò livida come quando essa annuncia terremoti, maremoti ed altre sciagure per gli uomini. Tenero era il suo volto, da luttuosa Proserpina che vive solo

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negli Inferi, e con il suo pallore scialbò di calce l'allegro azzurro dell'immensa finestra, predispose il vuoto intorno a sé a qualcosa di lugubre e inatteso, e come era cambiata la musica, nel frattempo: si sentì il pianto di un oboe in lontananza che cedette il passo al lamento monotono e ossessivo di un violoncello con un intervallo di quarta. Piange, piange come piange il vento nel canneto, piange come la cicala, cantò un coro che pareva venire dalla pancia di Proserpina, che ora si era fatta gonfia come se fosse pregna. Di chi erano quelle voci dolenti, piene di pena e di paura, che davano i brividi e mormoravano: brade come biade da falci mietute? La bacchetta si mosse con un guizzo improvviso come se comandasse un andante con brio. Due guizzi, due staffilettate, due incisioni nel vuoto: e al posto del lettuccio a castello che prima occupava la scena disegnò due pietre verticali che reggevano una pietra orizzontale e liscia, un dolmen. Le voci del coro aumentarono di intensità. La bacchetta bussò velocemente nell'angolo in basso a destra di quel paesaggio di nulla, e il Sacerdote, con la sua tunica bianca, sbucò dal fondale. Cosa cercava, in quel deserto? Lo mostrò la bacchetta spostandosi rapida sul tavolone di pietra illuminato dalla rinata diva verso l'organo che era apparso sul dolmen. Erano senza dubbio interiora prive dell'involucro umano o animale che prima le aveva ospitate. Un tubo di cartilagine fragile e bianchiccia che terminava in un fagiolone rossastro, da cui si dipartivano altri condotti carichi di vasi sanguigni e di vasi linfatici. E che non portavano da nessuna parte, perché il corpo, appunto, era assente. Il Sacerdote brandiva una daga la cui lama lampeggiò sotto un raggio argentato. Si fermò un attimo, alzò un braccio verso il cielo e con le sue profonde corde vocali di basso potente, cantò: "Tintarella di luna, tintarella color latte, tu fai bianca la mia pelle, tu sei bella fra le belle! ". La bacchetta percorse in un baleno il paesaggio e si spostò nell'angolo opposto. Scrisse la sua musica nell'aria e apparve la Norma, incedente con una veletta sul capo. Recava in mano un cesto di fichi d'India, e intorno al volto, cosparso di miele, danzavano api benigne cantando: "Qual cor tradisti, qual cor perdesti, quest'ora orrenda ti manifesti, un Nume, un fato di te più forte ci volle uniti in vita e morte! ". "Norma che avanzi a fare, Norma o icché tu fai", cantò una voce isolata che si era staccata dal coro. La bacchetta si mosse sulla bocca di Norma, e lei ubbidiente cantò: "Giro giro tondo, un giro intorno al mondo, un mazzo di viole, signori, chi ne vuole?". Mosse le braccia come una marionetta, a scatti, una marionetta che ubbidisce ai fili che la guidano; e poi, prendendo più slancio dal suo robusto seno, come se qualcuno le avesse dato una spinta facendole sporgere il petto in avanti, cantò: "Fichi d'India!, chi vuol comprare fichi d'India dorati? Hanno le spine ma dorati son! ". La bacchetta si spostò verso il Sacerdote frustando l'aria. Ed egli, che era rimasto cupo nell'ombra, aprì la bocca (aveva una boccuccia rosea, quasi di bimbo, che stonava sulla sua barba bluastra) e cantò con voce possente di basso: "Miiiizzicaaaa io, li voglio! ". La bacchetta si mosse come una mano che fa cenno di avanzare con le dita. E allora vieni, disse muta come fanno le bacchette dei direttori d'orchestra che parlano in silenzio, vieni, è il tuo turno, e fai avanzare anche la pronuba, ma che rimanga nella penombra ad officiare il rito, è una montanara grassa e lentigginosa, di pelle lattea, e con gli occhiali quadrati, appartiene troppo agli anni sessanta, e ormai siamo troppo più avanti nel tempo, sarebbe terribilmente démodée in questo scenario di sacrifici umani e di lune celtiche, ma tu di quale tribù druidica sei, così vigoroso nonostante l'età? Ecco dunque come avanzò il Sacerdote: silente, con i suoi ferri in mano, e si avvicinò al tavolaccio di pietra del dolmen e... ah, i miracoli che possono fare le luci, quando l'elettricista è davvero in gamba! Il blu marino di quel fondale che fungeva da finestra sul nulla, fosse esso illusione o realtà, o coniugazione di orizzonti, quel blu marino si

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trasformò in un azzurrino lattescente come quello delle lampade delle sale chirurgiche, una luce abbagliante posta proprio sulla pietra del dolmen. E su quella pietra operatoria, più di quanto avrebbe pensato un conte maledetto che scriveva poemi orrifici, si incontrarono un tubo digerente, dei ferri chirurgici e dei fichi d'India dorati. Fichi che intanto Norma, mentre il Sacerdote eseguiva il sacrificio, andava spargendo tutt'intorno, leggiadramente danzando come le eteree fanciulle dei quadri dei preraffaelliti, indossando una tunica trasparente e celestina. E cantava: "Non mai l'aitar tremendo di vittime mancò"; e lo cantava con l'aria di una canzoncina che dice: Via, via, vieni via con me...

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O mia donna gentile, qui si dovrebbe chiudere quest'operetta demente che il regista volle inscenare a soggetto quella sera. Ma essa, in realtà, continua. Conosco il suo finale: essa evade dalle quinte di quel risibile teatro, attraversa la tela dei fondali e i poveri cartoni dipinti per l'illusione degli spettatori, attraversa lo spettacolo, la sala, lo spazio, il tempo, e prende quella direzione che quella Proserpina degli Inferi, travestita da Casta Diva, aveva loro promesso. E che importa se il Sacerdote era un cerusico, un ingegnere della seduzione o un vecchietto allegro esperto in triangoli scaleni: cambiando l'ordine dei fattori il prodotto non cambia. E tu, comunque, eri tu. Eccoli dunque salire su un mostro di metallo appoggiato dietro il dolmen, un mostro d'acciaio lucente che manda bagliori sotto i raggi della luna. Lui, con le mani ancora arrossate, sgassa con la manopola facendo rombare il motore. Lei, adagiata sul sedile posteriore, gli cinge la vita con un braccio. E via! Il mostro rombante infila un lungomare e poi il tunnel, dove il buio della notte è ancora più buio, e lei palpita, e canta: "Sì, fino all'ore estreme compagna tua m'avrai, finché il mio core a battere io senta sul tuo cor". E avvicina il seno alla schiena del centauro, affinchè egli senta bene i battiti del coraz¢n. E che fremito di carne da quella carne contro la carne! Perché ora il tronco del centauro è diventato un vero dorso di centauro, villoso come un animale selvatico che più che pelo pare vello di cinghiale. E lei urla: più forte!, più forte!, accelera, ti prego! E lui accelera, e via!, rombanti nella notte, mentre le gallerie si susseguono con rari squarci all'aperto dai quali fuggevolmente si scorgono luci lontane sul mare, e il volto di Proserpina è sempre più sorridente, sempre più seducente. E fu allora che il centauro, mentre la velocità cresceva, sentendosi accarezzare il vello della schiena, abbandonò con una mano il manubrio reggendolo ben saldo con l'altra, e le sue abili dita, come luna falcata, cercarono il pelo di Norma e lo frugarono. Fu il diapason, quel magico attimo che tanto avevano cercato. Sì, sì, sì, ti prego, così, continua, continua! Il tunnel stava finendo proprio in quel momento e nel cielo aperto il volto di Proserpina si aprì in un sorriso d'intesa mezzana, il mostro d'acciaio si staccò da terra e volò dritto verso il cielo sotterraneo, per loro che guaivano a cavalcioni su quel velivolo ormai diventato il lettone della camera nuziale, quel lettone immenso come un'arena dove si svolsero parti e abor, e mestruazioni avite e coniugali, e la libido rerum novarum. Un luogo fatto apposta per loro. L'unico testimone era un pelo, rimasto nel bidet.

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Sono passato a trovarti, ma non c'eri. Cara, carissima Cara, punto di partenza: c'era una volta un bosco. E in mezzo al bosco c'era una villa. E davanti alla villa, un giardino. En el giardino delle siepi di bosso piantate a labirinto, all'italiana, e due belle palme. E sotto le palme quattro panchine di legno messe spalliera contro spalliera, in modo che chi siede su una non possa guardare la persona che siede sull'altra. Eh, eh, hai già capito? Certo che hai capito, ma lo facevo solo per darti il punto di partenza. Perché l'altr'ieri mi ci hai portato tu in quel bel luogo affinchè ci restassi serenamente per un po', solo per poco poco, fino all'indomani, ricordo che hai detto, o al massimo all'indomani dell'indomani, perché qui ti riposi, vedrai, ti passeranno le insonnie e anche questa smania di andare da una parte all'altra, non puoi continuare così, amore mio, a vagare da una parte all'altra, con questa smania di camminare senza senso, certi tuoi amici ti chiamano il deambulante, tu non lo sai ma si prendono gioco di te, mi telefonano ma sanno già che non ci sei e mi chiedono in tono ironico: potrei parlare con il deambulante? Se almeno tu avessi accettato un colloquio con l'amico di Sylvie, cosa ti costava andare a Zurigo?, lui era disposto ad ascoltarti per pomeriggi interi, e non per professione ma davvero per amicizia, lui le persone come te le capisce bene, su casi come il tuo ha persino scritto un libro. Cara, carissima Cara, facevo per darti il punto di partenza perché ieri, o forse l'altr'ieri, sono partito da lì, proprio da lì, da una di quelle belle panchine. Ho fatto colazione, te lo assicuro e puoi stare tranquilla, anche se avrei potuto evitarlo, perché di solito al mattino bevo solo caffè. Ma, parola mia, il buffet era irresistibile. Solo perché tu ne abbia un'idea: tavolo imbandito sotto la veranda, con una tovaglia di lino ricamata a mano con motivi popolari sul marron, davvero bella. All'inizio del tavolo, tanto per cominciare, un ciotolone di yogurt. Lo yogurt è di produzione casalinga, con dentro frutti di bosco freschi colti il giorno prima: fragoline, ribes, lamponi, che se poi non ti piacciono nello yogurt li puoi anche gustare da soli, perché c'è lo yogurt puro, mentre i frutti di bosco li puoi gustare da soli conditi con un cucchiaio di zucchero o di vino di Porto, a scelta. Le coppe sono di vetro di Murano, non c'è dubbio, e non di quello dozzinale, credo cose d'epoca, degli oggetti così oggigiorno ti costerebbero una fortuna, magari può darsi persino che a Vienna costino meno, soprattutto se li trovi dal mio amico Hans (i filamenti colorati all'interno del vetro sono turchesi e disegnano delicatissime onde), ma il mio amico Hans il negozio lo tiene sempre chiuso, negli ultimi tempi, forse è morto, e ciò mi dispiacerebbe. Accanto alla ciotola con i frutti di bosco c'è un paniere di minuscole brioches che un panno di canapa mantiene tiepide. E' difficile resistere alla tentazione, ti assicuro. Su burri e marmellate preferisco sorvolare. Dico burri perché ce n'è di tre tipi, tra cui uno salato che fanno i contadini in montagna e lo portano dentro gerle di vimini foderate di alloro, con un saporino che non ti posso descrivere. Le marmellate sono come le fanno da queste parti, dense e con antiche ricette, oltre a quella di frutti di bosco, che ovviamente è la specialità, c'è quella che io prediligo, di limoni, che poi sta a metà tra la marmellata e la frutta candita, con una gelatina di zucchero nella quale indovini un sapore di kirsch, ma solo un sospetto. Insomma, questa colazione me la sono gustata perbenino, da cima a fondo, finendo con un succo d'arancia e un caffè forte. Poi due tirate di pipa sulla panchina che ti dicevo e: via!

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Gli accordi erano questi se non sbaglio, che tu ripassassi a prendermi l'indomani o al massimo l'indomani dell'indomani, che facendo i conti sarebbero tre giorni. Ebbene, io ho rispettato gli accordi, e mi è parso persino il doppio. Finché ieri mi sono detto la frase antica: se la montagna non va a Maometto, Maometto va alla montagna. Ho fatto il mio fagottinò, che del resto come sai è ben leggero, ora più che mai, e sono uscito tranquillamente. Dalla villa si può uscire in tutta libertà, perché il bellissimo cancello di ferro battuto viene chiuso soltanto la sera. E così ho cominciato il viaggio, che qui ti descrivo anche se lo conosci bene, perché all'incontrario è lo stesso che abbiamo fatto insieme quando mi hai accompagnato qui. Cammina e càmina, cammina e càmina, come si dice nelle favole, perché naturalmente ho fatto tutto a piedi, e ti devo dire, mia carissima Cara, che l'andare a piedi mi ha fatto di molto bene, perché erano troppi giorni che muovevo solo pochi passi in quello stupido giardino. Tu forse ti chiederai: ma come ha fatto a fare tutta questa strada in un giorno solo? Ebbene, è così. Potrei mentirti e fregare sul tempo, perché il percorso è davvero lungo, ma proprio lungo lungo, mia carissima Cara, ma io sono riuscito a farlo in sole ventiquattr'ore. E sfiderei un tuo vecchio amico, che si piccava di camminare più di me, a farlo come l'ho fatto io, anche se quel Leporello ora come ora non potrebbe farlo, perché ha zolle in bocca. Ma non si deve mai escludere niente, perché uno a volte si alza e cammina, è già successo. Insomma cammina e càmina, ho scelto per prima tappa una cittadina sul mare. Brutta, strabrutta, anzi orenda (la scrivo con una erre sola perché non ne merita due). Lì, per farmi riposare un po', mi hanno dato una stanzetta con una rete da pescatori sulla parete, decorata da due stelle di mare. Per gli abitanti di quel luogo ciò fa folclore, perché probabilmente ci vanno a stare d'estate tedeschi e nordici che amano il mare. Ma le stelle marine non dovevano essere del tutto stagionate e puzzavano di pesce in decomposizione. L'unico vantaggio è che quel brutto odore teneva lontano le zanzare e dunque non ho avuto problemi di ronzii e di pruriti, come ci capitò una sera (spero che te ne ricordi) in una pensioncina squalliduccia dove sostammo. Una pensioncina di ciminiera, non nel senso che avesse ciminiere, la pensioncina, ma la cittaduzza in cui si trovava, bruttina anche quella, peraltro. Comunque, se non te ne ricordi fa lo stesso, perché si trattava di un altro percorso. Sia come sia, nella stanzetta delle stelle marine ho riposato. E poi sono ripartito. L'unico problema serio è che durante quella ineffabile sosta mi è venuta una fastidiosissima irritazione sul glande. Scusa i dettagli poco eleganti: trattavasi di minuscoli punticini violetti apparsi sulla pelle all'improvviso, che provocavano bruciore e prurito, anche se il glande non lo uso e se ne sta incappucciato buono buono, come un frate in processione. Ma ad ogni modo. La seconda sosta l'ho fatta in un appartamentino qualsiasi, che sarebbe anche conveniente per il prezzo, ma con i soldi che avevo in tasca, sai, più di qualche ora non ci sono potuto restare. Ma almeno mi sono fatto un pediluvio rilassante, era un appartamento vuoto, senza neppure un mobile, non ti pare strano?, c'era solo una chitarra appoggiata alla parete, e l'ho suonata per qualche minuto, anche se non so suonare la chitarra, ma gli accordi li conosco, e così ho fatto degli accordi, perché dalla stanza accanto veniva un vagito e con qualche accordo il piccolo magari si addormentava. Ho canticchiato: come prima, più di prima, t'amerò, la mia vita, per la vita, ti darò. E il vagito è cessato. Il piccolo aveva davvero bisogno di una canzoncina, e di più non potevo fare. Oh, sì, lo so che per i piccoli si dovrebbe fare molto di più, ma io ho saputo dare soltanto una canzoncina: pensi che non basti? Ed è venuto il momento di andare via. Cammina e càmina, ti aspetteresti che ti dicessi, visto che ormai mi conosci. E invece no, mia carissima Cara. Non ti avevo detto che quell'appartamento era un po' strano?,

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ebbene esco di casa, mi chiudo la porta alle spalle e mi trovo in una specie di deserto roccioso e cinereo, con delle colline pelate che non saprei come descriverti, potrei dirti colline come elefanti bianchi, ma temo che non renda il concetto, e poi lo ha già detto qualcuno. E un sole a picco, implacabile, che ci sarebbe voluto un sombrero. Ho pensato: in questo luogo inospitale crollerò miseramente al suolo, esausto, e gli avvoltoi spolperanno le mie ossa ed esse resteranno stupidamente a biancheggiare al sole come unica testimonianza che un giorno qualcuno passò di qui. Ma la fortuna aiuta gli audaci: all'improvviso da dietro le mie spalle è arrivata la voce di una bambina, doveva essere minuscola perché non riuscivo nemmeno a vederla nel mio specchietto retrovisore, voglio dire i miei occhiali con le lenti affumicate che inclinati ad arte mi servono a questo scopo. Dunque era una bambina rasoterra, o forse non era neppure una bambina, era solo la sua voce, come il gatto del Cheshire, e cantava un motivetto alle sue capre. Forse era una pastorella invisibile o del tutto mentale, come quelle dei trovatori, che appaiono e scompaiono mentre passa il cavaliere, e questo mi ha indotto a improvvisarle una pastorella, probabilmente un po' ingenua, ma cosa ci posso fare, in poesia non sono mai stato bravo, nelle storie me la cavo, ma quelle mica ci hanno la rima, nelle storie niente rima con niente e non c'è metro che le scandisce. Avrei voglia di parlarti delle mie storie, ma forse non è il momento, capirai, ti sto scrivendo in tutta fretta da casa tua e mi sono accorto che l'architetto se ne vuole andare e gli operai mi guardano storto. Storie. O meglio: le mie storie. Che dirne? A volte ci penso e avrei voglia di parlarne, ma poi in un istante la voglia mi passa, e così non te ne ho mai parlato. Però ora, anche se di sfuggita, ti vorrei dire non tanto quello che esse sono, cosa abbastanza difficile, ma piuttosto quello che non sono. Abbi pazienza, ma come sai anche tu al negativo ci si spiega sempre meglio, o almeno io mi sono sempre spiegato meglio. Sono storie senza logica, prima di tutto. Detto fra noi, mi piacerebbe proprio trovare quello che ha inventato la logica per cantargliene quattro. E senza rime, soprattutto senza rime, dove una cosa non torna con un'altra cosa, un pezzo di storia con un altro pezzo di storia, e tutto risulta così, come è la vita, che non obbedisce a rime, e ciascuna vita ha il suo accento, che è diverso dall'accento altrui. Eventualmente qualche rima interna, ma quelle, valle a capire. Nella villa da dove sono partito l'altr'ieri, anzi ieri, c'era un ospite con il quale ho preso un po' di confidenza parlando con lui su di una panchina sotto la palma. Naturalmente ci giravamo le spalle, e questo mi ha fatto venire anche un po' di torcicollo. E' un giovane astrotìsico che è venuto qui per riposarsi, perché è naturale che il cosmo stanchi, pensa a quanto stanca alzarsi la mattina, figuriamoci l'universo. Gli ho chiesto appunto notizie dell'universo, dico: che ne è dell'universo infinito con cui lei ha

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confidenza?, e lui mi fa: mi spiace deluderla, caro signore, ma l'universo infinito non è. Lì per lì, te lo confesso, mi sono quasi indignato. Come?, ho pensato, con tutto quello che si è letto e si è pensato sull'infinito dai poeti e filosofi e teologi, e questo giovanottone qui, con l'aria di un giocatore di baseball seduto su una panchina a gambe accavallate e masticando chewin-gum, mi viene a dire che l'universo è finito? Stavo per replicare: ma come si permette, ma lui ha continuato placidamente: vede, caro signore, l'universo è cominciato con un'esplosione primordiale, diciamo che è nato così, è un insieme di energia che si sta espandendo ancora sotto l'effetto dell'esplosione primordiale, e questa energia non è infinita, ma è contenuta in un perimetro, anche se ovviamente si tratta di un perimetro del quale non si possono misurare le dimensioni. Ah, sì, ho obiettato io cercando di nascondere la stizza, ma scusi, caro scienziato, se tale universo è finito, e si espande, cioè avanza in varie direzioni, avanza verso dove?, perdoni la curiosità. Verso il nulla, ha risposto il giovanotto con naturalezza. E intanto spostava col piede i sassolini rotondi del vialetto, e calzava scarpe da tennis. Carissima Cara, capirai la mia indignazione e anche la mia perplessità: per noi è sempre stato più facile capire il concetto di infinito che di finito, riferito all'universo, ma anche ad altre cose, prova un po' a pensare se un giorno tu mi avessi detto: ti voglio un bene finito, o te lo avessi detto io. E ora, che costui mi venisse anche a parlare del nulla mi è sembrato francamente eccessivo. Senta un po', gentile scienziato, gli ho chiesto con una punta di irritazione che davvero non riuscivo a nascondere, e il nulla cosa sarebbe, secondo la sua opinione? Il giovanotto mi ha guardato con sufficienza e mi ha risposto stancamente: il nulla è solo mancanza di energia, caro signore, dove non c'è energia c'è il nulla. E così dicendo ha soffiato dalla bocca un palloncino con il suo chewin-gum e lo ha fatto gonfiare fino allo scoppio, quasi che fosse la rappresentazione dell'universo in espansione verso il nulla per un povero di spirito come me. Ti rendi conto, mia carissima Cara? Ma ti stavo parlando della mia pastorella in quel curioso deserto, davvero curioso, perché quattro passi dopo finiva nel mare. Penserai che era una spiaggia un po' larga che avevo scambiato per il deserto, e invece no, perché in quattro passi il paesaggio è cambiato come dal dire al fare, nel senso che mi sono reso conto di entrare in un altro scenario, come quando a teatro comincia il secondo tempo, e ho visto delle rocce a strapiombo sul mare, e sulle rocce c'era una casa grande e bella, aperta ai venti e allo spruzzo dell'onda, insomma, pareva fatta apposta per me, e oltretutto era disabitata, o almeno pareva, e così mi ci sono fermato. Una notte coi fiocchi, ti assicuro, la definirei principesca. Al piano di sotto saloni, vestiboli, una cucina ampia come quella di un convento con bacini di rame appesi alle pareti e una polla d'acqua che affiorava da una sorta di lavabo a forma di pesce scavato

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nella pietra del pavimento e percorreva il perimetro di tutta la cucina lungo la parete come un rigagnolo con delle rive di marmo. Era proprio il caso di prepararmi una bella cenetta, dopo il viaggio che avevo fatto, ed è stata una cenetta succulenta, visto che la dispensa traboccava di prelibatezze. Tanto perché tu abbia un'idea: come antipasto un prosciuttino stagionato di montagna, con la sua bella camicia di paprika come ormai non se ne trovano più, che ho deciso di incominciare per l'occasione, accompagnandolo con una fetta d'anguria, che detto fra noi era per la verità della pastèque perché aveva lo stesso identico sapore di quella che mangiai una sera d'estate (ora non ricordo dove) davanti a una baracchina in un viale dei Tigli con il mio amico Daniel. Potresti obiettare che tutte le angurie hanno lo stesso sapore, se sono dolci e mature, e invece no, quella aveva esattamente il sapore dell'anguria che mangiai con Daniel e che lui chiamava pastèque, sotto l'incannicciata di quella gelateria del viale, quando lui mi parlava di Molière e della sua compagnia ambulante, e dunque l'anguria che ho mangiato col prosciutto era proprio la pastèque che io mangiai quella sera con Daniel, e se non ti dispiace non la chiamo anguria, la chiamo pastèque. Guarda, Daniel te lo potrebbe confermare, ma purtroppo è morto di un colpo, e me lo telefonasti tu, non puoi non ricordartelo. Poi mi sono aperto una scatola di foie gras che quasi lo chiedeva, povera e polverosa scatola di foie gras dell'Abazia abbandonata in quella cucina aperta sul mare che con l'Alsazia non c'entrava proprio niente. E infine un'arancia tagliata a fettine con un goccio di vino dolce sopra, e sono salito al primo piano. Hanno una geometria facile, le belle case: ti ci orienti subito. Ho infilato il corridoio che l'attraversa in tutta la lunghezza, ho esaminato le varie camere e ho scelto la più spaziosa dove c'era un letto a baldacchino e una portafinestra affacciata su un terrazzo che dava sul mare e lì, splaf splaf, sentivi le onde che dolcemente accarezzavano gli scogli. Hai indovinato: ho dormito sul terrazzo, è stato impossibile resistere a quell'ammattonato ancora tiepido del sole pomeridiano e alla brezza fresca, mentre sul capo scintillava in maniera straordinaria l'universo in espansione verso il nulla. Buonanotte, signor fisico. L` unico inconveniente era il prurito sul glande, perdona il particolare poco elegante, che mi ha obbligato a vari lavaggi durante la notte e a delle medicazioni con un talco un po' vecchiotto che ho trovato sulle mensole del bagno. Ma per fortuna è stato sopportabile e mi sono riaddormentato subito. Insomma, una bella notte, piena di stelle e di sogni, che se ci penso mi sembrano otto notti, o ottanta, come qualche ciclo di luna, fino al nuovo equinozio. Negli equinozi succedono un sacco di cose strane, hanno ragione i lunatici. Non so come sia andata, davvero se te lo dovessi dire non saprei a cosa attribuire il cambiamento. E' co-

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me quando la barca segue la corrente. Il fatto è che ho sentito qualcuno che piangeva (pregava?) e doveva essere inginocchiato ai piedi del suo letto, con la testa fra le mani, invocava un nome, sai quelle invocazioni come nei romanzi delle sorelle Brontè, e doveva essere così infelice, questo qualcuno, poveretto, che mi sono sentito responsabile della sua infelicità. Non so se ti è mai successo, ma senti piangere vicino a te e ti viene voglia di dire: oddìo, è colpa mia. E mi sembrava di sentire: Leporello!, Leporello! Come un pianto soffocato che circolava nell'aria inquinandola. La luna ha sempre avuto due volti: e poi mi è venuto in mente il concorso alle Poste, per vincere il quale bisognava sapere a memoria tutti i fiumi di una certa regione, anche i fiumiciattoli, una regione qualsiasi, magari immaginaria come la metaforica Cacania di certi film americani musicali che molti nostri amici adoravano e che io trovavo odiosi. Odiosi perché? Perché scemi, ma proprio scemi scemi, mia carissima Cara, ma bisognava amarli, e possibilmente calzare scarpe da barca e mangiare avocados con gamberetti come antipasto. Oh, che tempi terribili, ne convieni? Non era possibile che non arrivasse un qualche flagello a fare un repulisti: una guerra, un massacro, una pestilenza. Qualcosa doveva pur succedere, e infatti successe, solo che voi non ve lo aspettavate. E via di nuovo, cammina e càmina. La mattina dopo esco da quella notte passata sul terrazzo, per continuare il mio viaggio fino a casa tua e vedo quella donna ferma immobile come una statua (è proprio il caso di dirlo), così immobile che io le bisbiglio pssss pssss e la guardo. E lei si gira e mi guarda, e così la vedo bene, ed è proprio bella, o almeno a me pare così e credo che anche a lei le piaccio, e lei mi dice: le porte della mia casa sono aperte, le finestre spalancate, e l'amore fluisce da essa con abbondanza e larghezza, in una sorta di immotivata fiducia e abbandono e smemoratezza. Per la verità la frase, letteralmente come te la cito, me l'avrebbe detta solo dopo che ero ripartito, ma il concetto era questo. Solo che certi concetti li capisci con chiarezza dopo, quando ti sei già rimesso in viaggio. Ad ogni modo mi fermai, di questo ne sono sicuro. La casa era vecchia, ma assai bellina. A due piani, dipinta di rosso pompeiano, con la pittura piuttosto scrostata, una scala esterna e un pergolato di glicine. E non mancava una mimosa, per la festa delle donne. I pavimenti erano a losanghe bianche e nere, come le maioliche dei primi anni del secolo, il che andava bene per l'estetica di una persona come me, nonché per la mia geometria, perché potevo persinò stare ora su una losanga nera, ora su una losanga bianca e giocare a scacchi con me stesso, fino a darmi scacco matto. Naturalmente io ero il pedone, l'unico pezzo di quella scacchiera, perché la regina era lei, e fra noi non c'erano fanti. Solo che anche lì c'era qualcuno che piangeva. Pareva essere un bambino, o un ragazzo al quale non riusciva di crescere, e

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questo da tanta pena alle donne e a tutti noi, che poi è una pena superflua, e sarebbe bene tenerne conto: i bambini che non riescono a crescere di solito diventano adulti perfetti. Il problema semmai sono i bambini felici come lo ero io, che si guastano invecchiando, e fanno il percorso all'incontrario, fino al giorno in cui, plop, scoppiano come il chewin-gum dell'universo in espansione verso il nulla. Insomma il problema è lo sfasamento dell'orario che tutti noi abbiamo, mia carissima Cara, non ti pare? Voglio dire: tu te ne stai lì, sei cresciuto al punto giusto, e c'è un bambino che piange o un vecchio molto più vecchio di te che entrano nel tuo calendario. E questo crea un notevole sfasamento nella vita delle persone. L'ideale sarebbe che tutti, ma dico tutti quanti, si avesse l'età giusta al momento giusto nel punto giusto in cui ci capita di incontrarci in questo pezzettino di universo che si espande verso il nulla, perché questo faciliterebbe assai le cose. Ma forse i biologi non sarebbero d'accordo con questa eventualità, e i demografi neppure perché secondo loro la razza umana finirebbe in men che non si dica. D'accordo, magari finirebbe, ma se tanto andiamo verso il nulla, che esso arrivi un po' prima o un po' dopo che differenza fa? Nella misurazione dell'intera faccenda, i signori come quello col quale chiacchieravo l'altr'ieri sulla panchina della villa usano delle unità assai astruse che non sono né giorni né ore né anni né millenni né chilometri né leghe, l'ho letto su un libriccino che lui portava con sé e che mi ha regalato perché mi facessi un po' di cultura: Piccolo manuale dell'astrofisica dilettante. Ma arrivando al dunque: ho deciso di lasciare quella bella casa con le finestre spalancate sul glicine e le porte spalancate all'amore perché davvero avevo bisogno di un luogo dove nessuno piangesse. Altrimenti ora non sarei qui a casa tua, dove finalmente sono arrivato. Dunque: arrivo, e la prima cosa che noto, nel sentiero che porta al giardino, ma che è una via percorribile da tutti, è un triangolo giallo con la figurina di un uomo con la pala in mano. Lo aggiro e invece del vialetto sterrato costeggiato da cespi di lavanda, trovo un vialetto lastricato di porfido con una ringhiera bianca piena di riccioli. La cosa non solo mi ha stupito, ma esteticamente parlando mi ha lasciato esterrefatto, soprattutto pensando a certe pubblicazioni di cui tu ti prendevi gioco, tipo "Le più eleganti case della Riviera" e roba di questo genere. Ad ogni modo, vado avanti. E al posto del giardino terrazzato dove fino all'altr'ieri sedevamo a guardare scendere la sera sul mare, c'era un praticello con un'erbetta di un verde eccessivo che non so come ha fatto a spuntare così alla svelta, a meno che non l'abbiano installata srotolando dei tappetini già coltivati, cosa che oggi si fa, pare. E sull'erbetta, a forma di impronte di piedi, delle piccole lastre di marmo sulle quali camminare onde raggiungere l'ingresso principale, e cioè la veranda con la pergola. Pergola che intanto non c'era

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più. Era stata sradicata, e le sue radici pendevano dal furgone di un camioncino parcheggiato accanto all'ingresso. Al posto della pergola c'era un porticato di tegole rosse, ma di un rosso proprio rosso, tinte a vernice, sorretto da due colonnette di marmo con due capitelli di tipo ionico. Ho guardato in su, tante volte tu stessi al terrazzo dove di solito mi aspetti. Il muretto di pietre grezze che circondava il terrazzo dove difesi da sguardi indiscreti stavamo nudi a prendere il sole, non c'era più. Al suo posto un'inferriata di ferro battuto piena di riccioli uguale a quella del vialetto. E le persiane verdi della portafinestra erano state sostituite con una vetrata scorrevole, come in certe case dei film americani. Mi sono fermato atterrito, e ho posato il mio zaino per terra. Sotto il portichetto c'era un signore seduto su uno sgabello che consultava enormi rotoli di carta. Era molto concentrato e non ha badato a me. Buonasera, gli ho detto, c'è qualcuno? Ci sono io, mi ha risposto, come vede ci sono io. Ah, sì, ho detto io, certo, c'è lei, è evidente, ma lei chi è, mi scusi? Come chi sono?, ha replicato lui, sono l'architetto, chi vuole che sia. Mi ha guardato con aria un po' sospettosa e credo di sapere perché: la giacca impolverata, il mio vecchio cappello di feltro, la sacca di juta da viaggio che ho sempre usato. Da dove arriva?, mi ha chiesto squadrandomi da capo a piedi. Da Villa Serena, gli ho risposto. Lui deve aver pensato che è una qualche villa delle colline vicine e ha subito cambiato tono. Desidera forse vedere la casa?, mi ha chiesto con sollecitudine. Vedere la casa, cosa voleva dire?, ho pensato fra me e me, vedere una casa che conosco da sempre e che ho lasciato l'altr'ieri. Fra un po', ho risposto come per prendere tempo, faccio un giretto sul retro. In realtà mi era venuta voglia di fare pipì, forse per l'ansia che quella situazione insolita mi stava provocando. Sono sceso fino all'orto, ma l'orto non c'era più. Niente più cespugli di salvia e rosmarino, niente più fagiolini che si arrampicavano sulle canne, niente più vasi con il basilico ed il prezzemolo. C'erano delle aiuole di pansé dai petali un po' flosci, forse per via del trapianto recente, e una piccola siepe di bosso a far finta che ci si trovava in un giardino all'italiana. Ho fatto pipì contro quegli orrori e mi è venuto in mente il tuo amico Leporello, e perché quei puntini rossi mi erano apparsi sul glande: perché quell'eczema lì ce l'aveva lui, me lo ricordo dato che una sera a casa sua era arrivata una ragazza allegra che avrebbe dovuto restare, ma lui trovò una scusa per mandarla via, e poi come per giustificarsi aprì i pantaloni e mi disse: mi è venuta questa cosa qui da un giorno all'altro, ti è mai capitato, hai idea di cosa possa essere? Vedi un po' cosa guida a capire le cose, a volte un nonnulla, solo perché stavo facendo pipì sulle pansé, e in quel momento ho capito tutto, ecco perché quella roba lì me l'ero portata addosso anch'io durante tutto il viaggio, per un motivo molto semplice, permetti che te lo dica in francese, parce que tu

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avais couché avec. Ma perché non me lo hai mai detto? Sei proprio un bel tipo, lo sai meglio di me che non me la sarei presa, certe cose nella vita possono succedere, magari per distrazione. Piuttosto quello che non ti perdono è di aver divelto salvia e rosmarino per piantare queste terribili pansé. Sono ritornato verso il portico e quel bel tipo mi fa: allora, vuole vederla o non vuole vederla? Seduto su dei mattoni c'era un operaio col cappello da imbianchino e con la camicia tutta schizzata di calce, e anche lui mi squadrava da capo a piedi. Non ho bisogno di vederla, gli ho risposto, la conosco meglio di lei. Ah sì, fa lui, e come sarebbe? Vi ho cenato l'altr'ieri con la Signora, gli ho detto. Lui si batte con una mano sulla gamba ed esclama: geniale!, e cosa avete mangiato? Gli ho descritto brevemente la cena, tanto per dargli soddisfazione. Per sua conoscenza, ho specificato, la Signora è un'eccellente cuoca, ed ha una vera passione per la gastronomia. Abbiamo mangiato una minestra vellutata di piselli con una noce di burro e una foglia di salvia, del pollo alla cacciatora e una torta di cioccolato che la Signora ha preparato con le sue stesse mani. Una cenetta succulenta, ha commentato lui, ma se ha cenato l'altr'ieri a quest'ora avrà già digerito. Infatti, ho replicato, e per caso ora ho anche un buon appetito, scusi, la Signora dov'è? Lui ha scambiato uno sguardo con l'imbianchino che mi è sembrato d'intesa. Tu che ne pensi, Peter?, ha chiesto all'imbianchino. Boh, ha risposto quello allargando le braccia. Stavo veramente cominciando a inquietarmi. E' uscita?, ho chiesto, è forse uscita? Temo proprio di sì, ha risposto quel tipo che si definiva architetto, temo proprio che sia uscita. Da molto?, ho chiesto io. Lui non ha detto niente. E' uscita da molto?, ho insistito. Quel tizio si è rivolto di nuovo all'imbianchino. Tu che ne pensi, Peter? L'imbianchino sembrava sul punto di scoppiare a ridere, ma si vedeva dalle smorfie che faceva uno sforzo per trattenersi, e alla fine ha liberato una risata fragorosa e un po' volgare. Secondo me da qualche annetto, ha farfugliato fra le sue stupide risate, almeno da prima della guerra, signor architetto! E giù di nuovo a ridere come se avesse detto una grande spiritosaggine. Mi sono accorto che mi stavo davvero irritando, e ho cercato di mantenere la calma. E non ha forse lasciato un biglietto per me?, ho chiesto. Non mi risulta, ha risposto l'architetto. Pensa che rientrerà tardi?, ho chiesto. Temo di sì, temo proprio di sì, ha detto lui, non so se le conviene aspettarla, noi comunque ora dobbiamo andare, abbia pazienza, ma ora noi chiudiamo la porta e andiamo. Io aspetto che rientri, ho detto, stasera non ho impegni, magari mi metto qui e le scrivo una lettera.

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Della difficoltà di liberarsi del filo spinato. Già: un male si è insinuato in questi versi. Lo chiamerò male del reticolato, seppure non sia il caso di ricorrere a un termine che vada o venga oltre o da oltre il filo spinato. (VITTORIO SERENI, Taccuino d'Algeria, 1944) Mia cara Amica, a volte capita di passare la serata da amici e, per puro caso, la conversazione cade su un argomento qualsiasi. L'altra sera, per esempio, ero invitato a cena da amici che abitano giusto dietro la chiesa di Saint-Germain, e chiacchierando abbiamo rammentato un libro intitolato Histoire politique du barbelédi Olivier Razac. Ti dico subito che questo autore non lo conosco e che non ho ancora terminato il suo libro, Ma l'idea del filo spinato mi ha toccato così profondamente che non ho potuto fare a meno di lasciarmi andare a certe riflessioni, come se questa lettera che ti invio fosse una seduta psicoanalitica e io fossi steso su un divano. I divani degli psicoanalisti non mi piacciono, perché sono pieni di pulci dei pazienti che vi sono stati sdraiati: pulci che mordono, che pungono, già sazie del sangue altrui. Ognuno parla con il proprio sangue, che appartiene in apparenza a dei gruppi generici: per la Croce rossa essere del gruppo zero significa essere donatore universale, cioè significa che possediamo il sangue uguale a molti altri. Ma non è vero. Il sangue è così personale da non essere trasmissibile. Perché non è fatto solo di globuli bianchi e rossi, ma è composto soprattutto di ricordi. Non molto tempo fa ho letto in una rivista specializzata che degli scienziati di chiara fama hanno cercato di stabilire il luogo in cui si trova il punto centrale e più intimo della conoscenza - che hanno chiamato "anima". L'hanno situata in una parte del cervello. Non sono d'accordo con loro: l'anima risiede nel sangue. Non in tutto il sangue, naturalmente, ma in un solo globulo che è mischiato con miliardi di altri globuli e quindi non sarà mai possibile scovarlo, quel piccolo globulo che contiene l'anima, neanche con il computer più perfetto che si avvicina a Dio (perché è a questo che tendiamo). Coloro che, nella storia dell'umanità, hanno capito e dimostrato qual è quel globulo che trasporta l'anima sono gli artisti e i mistici. Un artista sa che in uno dei suoi libri di mille pagine, per esempio la Recherche di Proust o la Divina Commedia di Dante, c'è una parola sola che è quel globulo, che trasporta la sua anima: e tutto il resto potrebbe essere buttato. Debussy sa che nel suo Après-midid''un faune, o nella sua Danza sacra e profana c'è una nota sola che racchiude la sua ani-

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ma. Leonardo da Vinci sa che nella sua Vergine delle rocce o nella Gioconda c'è una pennellata sola dove è davvero contenuta la sua anima. Lo sa, senza sapere però dove si trovi. E nessun critico e nessun esegeta potrà mai scoprirlo. Perché? Perché c'è un filo spinato che circonda questa goccia di sangue. Ci sono stati dei momenti in cui la circostanza storica, la liberalità della società, l'apparente felicità dell'essere, ci hanno fatto credere che noi conoscevamo questa piastrina, questa ineffabile e minuscola creatura dell'essere grazie alla quale è nata su questa terra la vita e l'intelligenza della vita. Furono senza alcun dubbio i momenti più belli e più felici per i Conoscitori, cioè per coloro a cui la natura aveva concesso il privilegio di capire per tutti gli altri. Ma l'illusione è sempre effimera. Quando non evapora per sua stessa natura, essa muore per l'effetto del filo spinato. Ci sono due fili spinati fondamentali che agiscono per uccidere la comprensione della nostra anima: uno è quello che ci erigono gli altri, l'altro è quello che costruiamo noi stessi. Non parlerò del primo: è tristemente noto, in questo nostro secolo che Primo Levi ha riassunto con questa formula sinistramente chimica: Zyklon B, radioattività e filo spinato. E in questa epoca di negazionismo e revisionismo secondo la quale i cadaveri delle fosse comuni dei campi di concentramento, le montagne di scarpe e di occhiali ancor oggi visibili a Auschwitz non sono altro che fumo uscito dai camini dell'immaginazione degli storici settari, parlare del filo spinato sembrerebbe sarcasticamente tautologico. Ma no. Parliamo piuttosto del filo spinato mentale che ha condotto al filo spinato di cui parlo io: fa parte del mio spirito, e fa parte del tuo spirito, o mia cara Amica. Io so perché lo so. E lo so perché, arrivato all'anno duemila e alla modesta età che ho raggiunto, questo filo spinato mi ha punto in modo da far fuoriuscire quella goccia di sangue nella quale si trova tutta intera la mia anima, e la tua - anche se non lo vuoi. Questo filo spinato, contrariamente a quello che pensi e che immagini come una prigione angusta, può anche essere la massima libertà che ci è concessa. Per esempio: è una finestra. Questa sera, qui, dai miei amici, apro una finestra e mi sporgo. Da tanto tempo desideravo rivedere un temporale estivo, e mi domando se potrà ripetersi nello stesso modo e con le stesse sensazioni che provocò in me in un passato immemorabile. Era in Toscana, era già buio e guidavo la mia automobile. Stavo scendendo la strada che da Montalcino conduce verso l'Amiata. A un certo punto, nonostante il buio, ebbi voglia di rivedere l'abbazia di Sant'Antimo. E' senz'altro la più bella chiesa romanica del mondo, non solo per la pura bellezza della costruzione, per la sua abside che assomiglia a una scorza d'arancia attaccata a un vascello per bambini, e per i ricami che addolciscono il frontone e il cornicione di tutto

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l'edificio, ma anche perché si trova in una valle che si può scorgere non appena passata la prima curva a gomito, e allora la strada scende dolcemente, come le carezze che mia nonna mi faceva sulla schiena quando ero piccino per farmi addormentare. E di fianco alla costruzione in pietra arenaria che tende al giallastro quando c'è il sole, ci sono due cipressi a forma di pennello, e nient'altro. Dopo la seconda curva c'è una grande quercia, una quercia vecchia, molto vecchia, sotto la quale mi fermai. Non c'era la luna, quella sera, ma delle nuvole nere che rendevano il cielo basso e l'aria irrespirabile. Era piena estate, faceva caldo, caldo come fa nella Toscana che ho imparato ad amare da quando vi sono disceso dal mio Nord, così caldo che il giorno chiede ristoro, un'acqua che plachi il fuoco, che lo spenga anche se solo per poco. Dietro la chiesa si disegnò un lampo livido che illuminò l'abside come in pieno giorno, e da angelica che era essa divenne diabolica. Poi apparve un altro lampo, al tramonto, sui vigneti che scendono fino alla canonica. Fui spaventato da quest'annuncio di temporale, e pensai: è meglio tornare a casa. A quell'epoca abitavo in un luogo selvaggio che non era lontano, sulle colline. Quando lo raggiunsi, il diluvio era già cominciato, e il cielo era in fiamme, come una festa di paese nella quale i santi si siano infuriati. Salii nella mia stanza e aprii la finestra. Era una grande finestra, che si affacciava su un paesaggio di macchia e di rocce bucate dalle intemperie. Ci vivevano dei cinghiali e dei conigli selvatici, che si trovavano già nelle loro tane. Nella mia stanza c'era una donna che mi disse: vieni a dormire. Se non c'era, me la immaginai, perché quando scoppia un temporale furibondo che ti minaccia fino a farti tremare le mani, bisogna sentire la voce di una donna che ti rassicura dicendoti: vieni a letto. Accesi una sigaretta e mi appoggiai al parapetto, e la brace della mia sigaretta era davvero poca cosa di fronte alle fiamme del cielo impazzito. L'elettricità nell'aria era tale che non solo trasportava i pensieri, ma anche le voci che corrono sulle onde magnetiche studiate un tempo da Marconi. E non c'era bisogno di comporre dei numeri per collegarsi. Fu così che pensai ai miei morti, e che parlai con loro. Le voci erano chiare, nitide, e non tenevano affatto conto dell'esplosione dei tuoni. Mi raccontarono la loro vita, che vita non era, e mi dissero che erano tranquilli, perché della vita che avevano avuto non avevano nessun conto da rendere. Poi mi salutarono dicendo: vai a letto a fare l'amore. E nel frattempo, io me ne stavo ancora a guardare attraverso una finestra che da sul cielo di Parigi mentre sui fornelli si cucinava da solo un piatto italiano. La serata era bella, e rare nubi correvano leggermente in un cielo che volgeva al cobalto. Poi le campane di Saint-Germain suonarono un carillon festoso. E il temporale estivo di trent'anni prima

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ritornò come per incanto, l'ho rivissuto perché le cose si possono rivivere anche in un istante fuggitivo piccolo come una goccia di pioggia che picchietta sul vetro e dilata l'universo della visione. E da questa finestra, vedevo una grande città, vedevo i tetti di Parigi, vedevo la vita di milioni di persone, vedevo il mondo. E forse sentivo le campane della chiesa di Saint-Germain. E avevo l'illusione che questo vasto orizzonte fosse la libertà che il filo spinato mi ha vietato, o ha vietato ai miei padri. E so che posso scrivere su questa libertà. E so che essa, a te che mi leggi, mia cara Amica, potrà sembrare il privilegio di una vera libertà conquistata. Ma mi tengo le mie illusioni, come te, perché per trovare davvero quel minuscolo globulo che viaggia fra milioni di globuli del mio sangue, ove si trova la mia anima, e che potrebbe passare attraverso il filo spinato, dovrei davvero attraversare questa finestra e avere il coraggio che questa piccola goccia di sangue resti impressa^ come una pennellata di un pittore sul marciapiede là sotto. E' lì che sarei davvero, e dove tu potresti davvero leggermi. Ma tu lo sai, invece, chi avrebbe il compito di leggermi? La polizia scientifica che, con i suoi strumenti, verrebbe a decifrare il mio gruppo sanguigno. E' per questo che al posto di tutto ciò ti lascio delle parole, e bisogna accontentarsi, perché tutto il resto sono parole, parole, parole...

Buone notizie da casa. Mia cara, in questo lieto giorno di festa familiare, da noi tutti desiderato per tutto l'anno, ti scrivo, dolce e cara compagna della mia vita, perché tu sappia che anche se non ti è materialmente possibile essere presente, sei qui fra noi presente più di tutti gli altri presenti. A tal punto presente che la Rosa ha addirittura apparecchiato per te al tuo solito posto (l'idea è stata sua, per essere sincero), ha messo la tovaglia di lino ricamata, quella che comprammo in quel viaggio a Malaga, e ha apparecchiato... indovina con che cosa ha apparecchiato? Hai indovinato: ha messo proprio il servizio che lo zio Enrico ci fece come regalo di nozze e che, per quanto possa sembrare strano, dopo tanti anni è ancora intatto. O meglio, ora non lo è più. Il frugoletto di Tommaso, che bisogna sempre tenergli gli occhi addosso perché traffica dappertutto, ha rotto un pezzo, anche se si tratta davvero di cosa da poco, quella ciotolina minuscola fatta a petalo di rosa di cui non abbiamo mai capito l'utilità e che io adoperavo come portacenere quando avevamo ospiti a cena. Ma poiché ho smesso di fumare non me ne dispiace, e spero non dispiaccia neppure a te se il Masino (io ho preso a chiamarlo così, come chiamavamo il nostro Tommaso quando era bambino) ha rotto

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quella stupida ciotoletta di cui non si era mai capito l'uso. O ti dispiace? No, perché guarda, se ti dispiacesse potrei capirti, anzi, sono il primo a capire, del resto so bene come ci tieni alle cose di famiglia, per te rappresentano la tradizione, i tuoi antepassati, e perfino la ciotoletta dello zio Enrico in qualche modo può simboleggiare la buonanima dello zio Enrico. Strano invece come tu non abbia mai dato importanza ai gioielli di famiglia, a parte il diadema, che ti ho obbligata a portare con te. Prendi per esempio gli orecchini di giada o il collier di ametiste della tua prozia Fenèl, hai sempre detto che erano gioielli troppo marocchini, o egiziani, o turchi, insomma, sapevano troppo d'Oriente, così come sapevano troppo d'Oriente le tue prozie, e finiva che li lasciavi sempre nel portagioie, anche se avevamo una serata importante, con la scusa che le ametiste non ti donavano. Falso. Guarda: nostra nuora, forse per far piacere a me, oggi mi ha chiesto il permesso di indossare proprio il collier di ametiste, fra l'altro ha gli occhi di un colore simile al tuo, e le stavano divinamente. Nostra nuora, sia detto di passaggio, è davvero in gamba, credo che Tommaso non avrebbe potuto trovare una moglie migliore. Oggi ha voluto cucinare lei il piatto principale (cosa che ha dato un certo fastidio alla Rosa, ma nostra nuora, che è intelligente e ha capito al volo, le ha lasciato preparare il secondo dicendo: Rosa, entro solo cinque minuti nel suo regno), una ricetta a me sconosciuta, e credo anche per te (ho il sospetto che si tratti di nouvelle cuisine anche se lei ha giurato che è un piatto tradizionale della Campania), le tagliatelle alla Positano. Lo so che il nome già ti da fastidio, perché ti immagini un gruppetto di piccoli snob di quelli che abbiamo conosciuto certe estati, quelli tipo pompelmo la mattina come prima colazione, che poi era mezzogiorno, e poi giù in spiaggia di nuovo a dormire. Niente di tutto questo. Il sugo si fa con un uovo a testa (non abbiamo contato il Masino) sbattendo chiare e tuorli, mescolati a parmigiano grattugiato, fettine di zucchine appena rilevate nell'olio, un pizzico di pepe e una noce di burro. Pare che il segreto consista nel non far cuocere l'uovo quando versi il tutto sulle tagliatelle bollenti, e lì bisogna dargli di mestolo, e se a girare si è in due è meglio. La giornata era splendida, davvero una Pasquetta come si deve. Il telegiornale, naturalmente, ha fatto vedere come prima notizia i vacanzieri che approfittando di questo "ponte" d'aprile (come sai è festa anche martedì), sono partiti in massa verso le cosiddette località di villeggiatura, come continuano a chiamarle in televisione, non sanno che la parola villeggiatura viene dalle ville, dove una volta si andava a villeggiare, ma questi poveri disgraziati che si fanno chilometri di coda sulle autostrade per rosicchiare un giorno altrove non mi sembrano dei villeggianti, piuttosto li chiamerei forzati. Ma il clou del servizio televisivo è stato quando la signora che conduce il telegiornale, una bionda vistosa

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dalla voce squillante con una scollatura vertiginosa e dalle procaci labbra carminio, con l'espressione di una che sta girando la scena di un film un po' spinto, ha annunciato agli spettatori: in un tamponamento sull'autostrada tal dei tali sono rimaste coinvolte otto macchine, tre di esse hanno preso fuoco e i passeggeri, in tutto sette persone, tra cui un bambino, sono rimasti carbonizzati, per il momento non è possibile conoscere l'identità delle vittime, anche perché le targhe si sono liquefatte sotto il calore delle fiamme, la polizia sta lavorando per risalire ai familiari attraverso il numero di matricola dei telai che tuttavia sono difficili da liberare dall'intrico dei rottami. E ora, ha aggiunto, per continuare il nostro telegiornale, vi offriamo le immagini spettacolari delle prove di un gran premio automobilistico che si sono svolte ieri negli Stati Uniti, anch'esse hanno registrato un incidente mirabolante, come potete vedere, ma per fortuna senza vittime, il pilota è uscito indenne dal veicolo facendo addirittura segno di vittoria con le dita. Così vanno le cose da queste parti, mia cara, tanto che spesso mi viene da invidiare il luogo in cui ti trovi. Viviamo davvero tempi strani. Sempre oggi, in televisione, ho visto un servizio su non so quale paese africano afflitto da un flagello, o più flagelli: si vedevano bambini scheletrici col ventre enorme e la faccina rinsecchita tutta occupata da occhi enormi, e tutti coperti di mosche. E poco più tardi, ma in un programma diverso, dove sono invitati a parlare i politici che si presentano tutti molto eleganti, uno di loro ha detto che ai primi posti del programma del suo partito c'è il problema delle adozioni: perché bisogna renderle più facili, spiegava sorridendo, da noi la burocrazia dell'adozione è troppo complicata, molti genitori desiderosi di un figlio aspettano con impazienza un figlio adottivo. Insomma: ogni anno nel mondo muore qualche milione di bambini per malattie e denutrizione, ma consolatevi, cari telespettatori, che se il mio partito vince le elezioni il prossimo anno ve ne faccio adottare un centinaio in più. Nel pomeriggio ho fatto un pisolino sulla poltrona, quella di sempre, sai che a me un quarto d'ora mi basta, poi ho giocato a scacchi con Tommaso. Non so se ti ho già detto che Tommaso non è più bugiardo, che è sempre stato il tuo cruccio, e con me si confida. Io avevo intuito che c'era qualcosa che non andava: a volte ha lo sguardo assente, a volte è allegro a sproposito, altre volte risponde fischi per fiaschi. Ho approfittato che fossimo a tu per tu e gli ho fatto la domanda a bruciapelo. Tommaso, dico, c'è un'altra donna, vero? E lui fa: sì. Come sì?, dico io, come sì? Tu me lo hai chiesto e io ti ho risposto, ha concluso lui. Tommaso per le donne ha sempre sentito un'attrazione un po' speciale, fin da quando era quasi un bambino, lo sai meglio di me. Ma con quella moglie che si ritrova, bella, buona, una compagna di prim'ordine, e poi che

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madre, tu vedessi il Masino come lo tira su, Tommaso, gli dico, con la moglie che ti ritrovi, come fai? Lui mi guarda e gli sono venute le lacrime agli occhi. E' una cosa passeggera, ha sussurrato, vedrai che è una cosa passeggera, forse è una piccola fissa, magari assomiglio un po' alla mamma, vedrai che mi passa presto. Mi ha fatto un po' di pena. Le terapie gli cominciano ad ingrigirsi, nella canizie è stato più precoce di me, che ho mantenuto i capelli neri fin dopo i cinquant'anni. Gli ho detto: Tommaso, confidati. E lui ha risposto allargando le braccia: lascia stare papà, la vita è fatta così, non si sa mai in che direzione va, vedrai che poi riprende il suo corso normale. Ti potrà sembrare strano ma mi ha rassicurato. E' curioso che un padre si senta rassicurato da un figlio quando si preoccupa proprio se le cose vanno storte al figlio. Perché io, per quanto mi riguarda, ormai mi contento. Mi sono ritirato a vita privata, come si suol dire. Il mio collega Caponi, quello che vinse il progetto per il piano urbanistico della nostra città e che all'epoca ti sembrava un pescecane, in realtà è un pesciolino, poareto. Si è comprato un terreno vicino a casa nostra, terreno costruibile, e ci si è fatto una casa per passarci gli anni della pensione. Il progetto ovviamente è suo, e la casa, ti parrà strano anche questo, è mica così brutta. Non è che come architetto sia un granché, non lo è mai stato, io ero meglio, anche in Facoltà, questo lo sapevano tutti, ma la casa almeno gli è venuta bene. C'è una grande vetrata che da sul giardino del pendio (sorge sul colle di levante) e da lì si domina tutta la valle. Come concezione spaziale assomiglia molto (troppo, direi) alla casa sulla cascata di Wright, ovviamente sul modesto, soprattutto perché non c'è cascata, tuttavia l'insieme è di gradevole aspetto, e l'interno è decorato con buon gusto. La settimana scorsa mi ha invitato a cena, e ho passato una discreta serata. Mi ha telefonato: carissimo, dice, è un secolo che non ci vediamo, ora che siamo vicini di casa mi sembra stolto che entrambi facciamo finta di niente, e poi ho davvero una gran voglia di vederti, io e mia moglie siamo qui da soli, lo sai, mio figlio ormai vive a Parigi in pianta stabile da quando si è sposato, verresti a cena da noi domani sera? Abbiamo parlato dei vecchi tempi della Facoltà, e di Tizio e Caio e Sempronio. E di certi episodi, per esempio un Consiglio di Dipartimento che io avevo totalmente cancellato dalla memoria e che invece lui ricordava nei minimi dettagli, quando il Sabatini (ti ricordi quello che insegnava estetica, con un'aria da cane San Bernardo, buono come il pane?) aveva rischiato di prendere a pugni il direttore amministrativo a causa di una borsa di studio sulla quale costui aveva fatto delle allusioni un po' pesanti. E inevitabilmente il discorso è caduto su di te, anche se ho cercato di dire il meno possibile: sì, certo, stavo bene come stavo, Tommaso e sua moglie sono molto premurosi, mi telefonano tutte le sere, se ho una nuora fantastica?, certo che ho una nuora fantastica, co-

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munque Tommaso se la meritava una persona così, Tommaso è una persona di qualità, se era vero che era diventato un magnate della finanza?, beh, ora non esageriamo, Tommaso anche a scuola in matematica era sempre stato un asso, per cifre e numeri non lo batteva nessuno, è un dono di natura, dopo la laurea in economia aveva fatto tirocinio in una grossa banca di Milano, ma il merito è soprattutto di chi insegna, anche se ci vuole l'allievo che impara, e Tommaso aveva imparato proprio bene, comunque il merito era soprattutto di quel genio della finanza che lo aveva preso a benvolere e che gli aveva insegnato tutto, comunque che Tommaso fosse un magnate della finanza forse stavano esagerando, diciamo uno che contava nel mondo finanziario, sì era vero che faceva il consigliere al ministro, ma solo consigli sporadici, quando veniva interpellato, non per professione, anche perché uno come lui non può passare le sue giornate rinchiuso in un ministero, capirete, Tommaso ha bisogno di starsene a Londra o a New York almeno una volta al mese, va lì, tasta il polso alla Borsa, non gli ci vuole mica tanto tempo, sapete, Tommaso è fatto così, sta a Wall Street tre giorni e ha già intuito che vento tirerà nei prossimi tre mesi in Europa, in queste cose è un geniaccio. E allora la moglie di Caponi fa: certo, chi lo avrebbe mai immaginato, un ragazzo così difficile come era il suo Tommaso, con un'adolescenza così tormentata. Difficile fino a un certo punto, ho attenuato io, tenendomi molto sul vago: sa, i ragazzi da ragazzi a volte possono sembrare difficili, ma poi è un momento che passa. Purtroppo non si rendono conto di quello che possono provocare, ha continuato la signora Caponi, e magari a loro passa quando l'irreparabile è già successo. Ho cercato di portare il discorso da un'altra parte, e con un po' di sforzo ce l'ho fatta, anche se la moglie di Caponi si era messa d'impegno per tirarmi fuori quello che era successo, doveva aver pensato: finalmente riusciremo a capire qualcosa di tutta questa faccenda, stasera è la volta buona. Ma non lo è stata, mia cara, te lo assicuro, sai come ho sempre tenuto a non aprire bocca sulla storia di Tommaso. Oltretutto ti devo dire - questo te lo devo proprio dire, scusami - che Tommaso ha fatto sempre il possibile per darti ragione. Ha agito inconsciamente, è evidente, questo ormai è più che chiaro visto com'è diventato, con la sua sicurezza e tutto. Ma i primi tempi si comportava in modo tale che nessuno potesse contraddirti o smentirti, cercando in ogni modo di mettere in evidenza i suoi cosiddetti "problemi", i problemi che ti ha causato, voglio dire. Insomma, una sorta di "coazione alla colpa". Guarda che non è una definizione solo di Creta, che te lo seguì per prima con tanta cura e pazienza, ma anche di un eminente clinico, uno psichiatra di Ginevra dove lo portai sei mesi dopo il fatto. Il consiglio era stato di Creta, perché non ci capiva più niente neppure lei, dopo la tua partenza spettava a me portarlo alle sedute, e un bel

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giorno Creta mi ha detto: in tutta questa storia c'è qualcosa che non mi torna, ma io da sola non ne vengo a capo, forse come psicoterapeuta non sono adeguata a un caso così complicato, qui ci vuole un altro aiuto, conosco un luminare di psichiatria infantile di cui mi piacerebbe sentire il parere. E mi ha indirizzato dal professore di Ginevra affidandomi tutte le carte con gli appunti presi durante le sedute dell'anno in cui le avevi portato Tommaso, comprese quelle in cui raccontavi tu, perché Tommaso restava a casa. Anche quel giorno a Ginevra Tommaso ha fatto di tutto per darti ragione. Il viaggio in treno è stato un inferno. Era inquieto, dava fastidio alla vicina del nostro scompartimento, è uscito nel corridoio e ha fatto uno sgambetto a una bella ragazza che stava passando, che per poco quella non lo prende a schiaffi. Invece dallo psichiatra se ne stava buono buono, angelico, guardando il soffitto. Il professore era un uomo robusto, con i polsi solidi, gli occhi azzurri e i capelli rossicci, sembrava più un operaio che un grande psichiatra, e parlava facendosi intendere: insomma, una persona che ti ispira fiducia. Preferirei che ci lasciasse soli, mi ha detto, e mi ha fatto accomodare nel salottino attiguo, mentre ordinava a Tommaso di spogliarsi e di stendersi sul lettino. E' stata una visita assai lunga, di circa un'ora. Poi mi ha fatto entrare e Tommasino era seduto su uno sgabello, rivestito, con gli occhi al soffitto. Questa volta è toccato a lui di uscire, il professore lo ha fatto accomodare nel salottino che prima occupavo io. Mi ha guardato, ha scosso il capo e si è messo a esaminare le carte inviategli da Creta. Leggeva e mormorava: questa è pazza. A un certo punto mi chiede: quanti anni ha suo figlio? Dodici, quasi tredici, ho risposto io. Lui non ha commentato e continuava a leggere borbottando: complesso di... complesso di... ecco un altro complesso... manie... turbe non individuabili... Quanti anni mi ha detto che ha suo figlio?, mi ha chiesto di nuovo. Dodici, quasi tredici, ho ripetuto. Lui mi ha restituito le carte e mi ha guardato diritto negli occhi. Caro signore, mi ha detto, per quanto riguarda la sfera genitale, e mi riferisco all'organo maschile, suo figlio potrebbe avere vent'anni, o trenta, guardi, caro signore, è esattamente come lei o come me, e forse anche qualcosina di più, non so se mi spiego. No, ho detto io, non si spiega mica tanto. Ma chi è questa pazza?, ha insistito lui. Io non ho risposto, perché non mi piaceva mettere Creta in quella situazione, oltretutto era proprio lei che mi aveva indirizzato da quel luminare. Lei è stato così precoce nella sua pubertà?, mi ha chiesto. No, ho risposto, sono stato normale. Oh beh, ha detto lui, la norma è come le statistiche, e nella sua famiglia? Che io sappia no, ho detto. Esiste una scienza che si chiama endocrinologia, ha detto il professore, studia il sistema ormonale, guardi la cosa è tutta lì, suo figlio ha un sistema ormonale un po' fuori norma rispetto alla sua età, con gli organi connessi, e non sa ovviamente che uso far-

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ne, il suo sistema ormonale lo spinge ad adoperarli per il fine per il quale li ha creati la natura, ma mi dica, lei avrebbe saputo che farsene a dodici anni?, certo che no; dunque, abbia solo un po' di pazienza, lo lasci crescere un po', si contenti di aspettare cinque o sei anni, e tutto rientrerà in quella sincronia che in questo momento un sistema ormonale un po' singolare ha leggermente sfasato, ora mi sono spiegato? Perfettamente, ho risposto io. Lui ha battuto con la sua mano sulle carte che aveva davanti e mi ha di nuovo chiesto: ma chi è questa pazza? Come puoi capire la situazione era davvero imbarazzante: se ero arrivato a quel professore che finalmente era riuscito a risolvere il problema che ci aveva tormentato tanto lo dovevo proprio a Creta, che oltre a essere una psicoterapeuta rispettabilissima è sempre stata la tua migliore amica. Sicché ho risposto: è una sua collega, professore, una psicoterapeuta di nostra fiducia, ma preferirei non farne il nome. Non mi riferisco a lei, ha continuato il professore, mi riferisco al delirio di quest'altra persona, è un vero delirio, vede spettri dappertutto, non ha neppure capito di stare così male, è questo che è preoccupante, è veramente una persona in una situazione tragica. Lo era, ho risposto io, si è suicidata sei mesi fa. E cioè?, ha chiesto lui. Sua madre, ho detto, mia moglie. Le madri a volte sono frettolose, ha detto il medico, e si preoccupano troppo dei loro figli. Mia cara, sarebbe superfluo dirti il dolore che fu per tutti quando ti gettasti nel pozzo e, come ti ho detto, Tommaso, che senza capirlo aveva capito, pur di non rinnegarti ha giocato a fare l'anormale per ancora quattro o cinque anni. Poi ha smesso, anzi è diventato normale, normalissimo, anche troppo. A me fa piacere vederlo così normale, ma ti assicuro che passare una giornata intera con lui è di una noia mortale, io non so come fa a sopportarlo sua moglie, che è una donna piena di curiosità e immaginazione, sarebbe lei che dovrebbe trovarsi un amante, e non il contrario come sta succedendo. Ma non vorrei che tu pensassi che io e Creta ci siamo messi insieme subito. Certo, il responso del professore di Ginevra ha contribuito a un'intesa, a una reciproca comprensione. Del resto, insieme insieme non siamo mai stati, mi riferisco a vivere nella stessa casa. Ci ho provato per qualche mese, ma non ce l'ho proprio fatta, e ho preferito ritornarmene nella nostra vecchia casa, dove almeno c'era la tua cara presenza. E' che Creta, poverina, con tutti i pregi che ha, è a sua volta la persona più noiosa del mondo, forse perché è la donna più normale del mondo: mai uno slancio, mai un'idea un po' folle, mai un'intuizione, mai un desiderio improvviso e capriccioso come ce li avevi tu, che sono le cose che poi danno il sapore alla vita. Arrivare la sera stanca, dopo tutte le storie dei suoi pazienti, mangiare un'insalata e una frutta e mettersi davanti al televisore: a un certo punto si preparava persino un vassoio per guardare meglio la televisione e cenava lì, era affascinata da un gior-

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nalista untuoso che intervistava tutti i politici del Paese, da non credere, e io me ne andavo a letto a leggere. Sai cosa ti dico, a un certo punto ho pensato che forse la vera pazzia è l'ovvietà, non credi? Certo è un vero peccato che tu abbia fatto quel gesto. Ormai gli anni sono passati, tanti, mia cara, davvero tanti. Eppure vedi come ancora ti ricordiamo, ti ricordo. Sei sempre con me, lo sai, mi accompagni in ogni momento della mia vita. Anche se ora essa funziona al dieci per cento. Ma quando funzionava al cento per cento come la tua, come fu bello, e come fu grande la nostra passione. Così grande che le cellule del mio corpo ne sono ancora imbevute, come una spugna che conserva l'acqua marina che la nutrì. Perché dopo, mia cara, è stata solo acqua dolce, spesso dolciastra, e che senso ha, mi chiedo, vivere ancora senza che nessun sale ravvivi il mio palato?

A cosa serve un'arpa con una corda sola? Si 'sta voce te sceta 'int'a nuttata mentre t'astrigne 'o sposo imo vicino, stalle scelata, si vuò sta scetata, ma fa' vede ca duortne, a suonno chino (Voce 'e notte, canzone napoletana di E. Nicolardi ed E. De Curtis) Amore mio, ho saputo per caso che sei ancora viva. L'ortolano della Sharia Farassa è un vecchietto nipote di italiani che insiste a voler mantenere un legame col suo paese d'origine, e così deve essersi abbonato a un quotidiano che gli arriva in bottega e che poi magari lui non legge neppure, e l'indomani ci incarta l'insalata. Una volta alla settimana ci sono delle pagine di cronaca della provincia, quella dove ci conoscemmo e che non ho dimenticato, sai?, ricordo così bene quei viali di cipressi che attraversavamo in bicicletta, e certe mattine d'autunno in cui una nebbiolina azzurra saliva dalle macchie di quercioli, e i casolari della piana, e il primo gruppo di case dove vivevano i tuoi, e il tuo sorriso, ed è davvero strano che esso ti sorrida da un giornale spiegazzato dal quale, sul tavolo della tua camera, estrai la frutta e i legumi, e vedi che è lo stesso sorriso di quarant'anni prima, di quando mi dicesti: ciao, ci vediamo domani. Come vanno le cose, e cosa le guida: un niente. Le sere d'agosto, al tramonto, i pini marittimi che ci sono dalle nostre parti si infiammano, da quel verde intenso che hanno di giorno diventano prima biondi, e poi rosati, e poi color mattone, forse è per questo che Luxorius è diventato Rossore, a

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volte le false etimologie portano alla conclusione giusta. Pensai: rossore. E pensai alla vergogna. Scesi dalla bicicletta, mi sentivo il viso in fiamme, come il colore sulla macchia di pini. Proprio a due passi, dopo il viale incorniciato da un muro tondeggiante, c'era la casa degli Ascoli. C'era rimasta solo Luciana, con il cugino più piccolo, e i loro zii non erano più tornati. E ormai erano passati tre anni da quando l'incubo era finito, tutti noi sapevamo che fine avevano fatto, e perché aspettare ancora?, e perché io non ero più andato a dir loro qualcosa: una buonasera, una sillaba? Lo so cosa mi avresti risposto: già, e allora, i tuoi zii, perché continui ad aspettare i tuoi zii?, non ne parli mai, come se fossero usciti di casa per andare a fare una gita e dovessero rientrare da un momento all'altro. Perché sì, ti avrei risposto, perché sì, perché tutto era così assurdo, così intollerabilmente assurdo che anch'io fingevo come tutti gli altri che i nostri parenti sarebbero rientrati l'indomani, eravamo riusciti persino a ridere sulle leggi di quel brutto nanerottolo travestito da imperatore e a inventarci sopra le nostre barzellette, e pensavamo: tanto non ci succede niente, questi sono dei mostriciattoli volgari col petto in fuori, noi abbiamo cultura, tradizione, e anche qualche soldo. E invece, in un attimo, erano spariti tutti. Pensai: entro, non entro, entro, non entro, come se sfogliassi una margherita. Non entrai. In quel frattempo fumai una decina di Giubek, ne schiacciai le cicche sotto la suola delle scarpe, rimontai in bicicletta e tornai a casa mia, dove non c'era nessuno ad aspettarmi e dove non aspettavo più nessuno. Amore mio, perdonami se ti chiamo ancora così come ti chiamavo allora, dopo tutti questi anni, ma non so proprio come chiamarti. Come ci si rivolge alla donna amata che ci disse ciao a domani e che si abbandonò senza neppure lasciarle un biglietto di spiegazione? Perché l'amore mio lo sei stata per tutta la mia vita, e anche la mia donna, perché le rare donne che ho avuto sono state incontri furtivi per la soddisfazione della carne, e invece ogni notte, quando cercavo di addormentarmi, abbracciando l'aria accanto a me nel mio letto solitario, ti dicevo amore mio, e il fatto di pensare di tenerti tra le braccia sempre mi è apparso un grande privilegio. Mi ricordo la prima notte di fuga, a Napoli, nella pensioncina che fu il mio primo ricovero, nel buio canticchiavo piano piano Voce 'e notte, come se con il cantare nel buio quella canzone la mia voce ti potesse raggiungere augurandoti di trovare il tuo onesto sposo, un uomo che ti volesse bene e che ti potesse abbracciare la notte e che nel suo abbraccio tu potessi dimenticare il male che ti avevo fatto, e che fosse una persona buona, e senza colpe, e un innocente, e non fosse vittima di nessuno, perché intanto, nel sentirmi vittima, io non ero più innocente, e con te mi ero reso l'ultimo dei colpevoli, e il più vile. Ma ieri ti ho rivisto sul giornale del verduraio, e tutto quel-

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lo che in questo tempo ho passato a seppellire, giorno dopo giorno, anno dopo anno, con la pazienza delle ere geologiche, come per sortilegio il mio paziente lavoro è svanito nel nulla, o meglio, è stato come se sotto i piedi mi si fosse aperta una voragine fatta di tempo e io vi sono sprofondato dentro e ti ho raggiunta, perché non ci si può opporre alla fotografia di un giornale spiegazzato macchiato dall'insalata, ho dato una spolveratina al velo di terriccio che ricopriva i tuoi occhi e lì, dove tu sei, sono tornato anch'io. Bella, è quella fotografia, perché è corretta, nel senso che rispetta tutti gli anni che sono passati e vi accoglie le generazioni che quegli anni impersonano e rappresentano. Ti ritrae di profilo, con un foglio in mano che apparentemente stai leggendo, perché ti conosco, tu hai sempre saputo cosa dire, con la tua mente chiara non hai bisogno di leggere. Accanto a te c'è tuo nipote, secondo quanto dice la didascalia, si chiama Sebastiano e suona l'organo, il che è appropriato al suo nome. E' un bel ragazzino, con gli zigomi prominenti e i capelli ricciuti, e come ti somiglia, e mi piacerebbe molto abbracciarlo, perché mi ricorda te quando eri bambina, e come vorrei che fosse anche il mio nipote, il nostro, il figlio del figlio che con te non generai. Nell'articolo, che è scritto con eleganza, si dice che ha eseguito all'organo il concerto che Carl Philipp Emanuel Bach compose nel millesettecentosessantadue e si chiama Solo per harpa, e che il pubblico si è commosso. Come sono strane le cose: forse è anche per questo che ho trovato il coraggio di scriverti: perché tuo nipote ha eseguito all'organo quell'assolo per arpa che con la mia arpa io suonai solo per te, sul prato di una casa di campagna, una sera del millenovecentoquarantotto, quando stava per sorgere la luna nuova d'agosto. E col tuo sorriso, il concerto di quella sera, con la luna che sorgeva dietro il ciliegio, risuona nell'aria, si dirige verso le colline basse, vi rimbalza, ritorna, ci sfiora di rovescio, si diluisce fra i suoni della natura insieme alla brezza che tocca le foglie. Guarda, mormori piano piano, sta arrivando un temporale, lo sento giungere dalla piana, interrompi gli accordi del tuo strumento, mio piccolo David, rispetta la potenza degli elementi. E io ripongo il mio strumento sul quale abbiamo goduto delle stesse note e ci mettiamo a guardare il fuoco che si sta scatenando all'orizzonte, aspettando che anch'esso si plachi come il sangue che dopo aver circolato troppo in fretta è esploso dentro il nostro corpo e ha bisogno di una pausa. E in questo silenzio che la foto del giornale mi rimanda osservo la platea che si intravede davanti a te. I tuoi figli e tuo marito sono seduti in prima fila, hanno l'aria felice di chi ha avuto in sorte una buona madre e una buona moglie, e dal sorriso che aleggia sui volti del pubblico si capisce che sei stata anche una buona madrina della nostra comunità, è per questo che ti prestano omaggio, per quello che hai saputo fare. E così in una fotografia di un giornale del verduraio ho capito la tua vita e ho pensato di

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farti capire la mia. Ma come raccontarla? Come si può raccontare una vita che della morte assunse le sembianze, nascondendosi dalla vita? Non è possibile, mi sono detto, forse si può solo raccontare il dove, ma mai il come e il perché. Del resto il mio come è quello che hai sempre conosciuto, un come fatto di suoni, che sono le note che ho sempre estratto dal mio strumento. E questi suoni mi erano concessi soltanto alcune sere, non tutte le sere, perché non fu facile i primi tempi, e del resto non lo è mai stato. Quell'anno in cui me ne andai, il tuo Paese, che avrei voluto considerare anche mio, credeva di rinascere a nuova vita. E quale effervescenza c'era nell'aria! E quale entusiasmo! Sarebbero andati a votare, dopo tanti anni, pensa un po', e questo li faceva sentire entusiasti e vigorosi, non pensavano di essere sopravvissuti, ma addirittura di essere rinati, che è sempre una bella illusione. Io intanto avevo raggiunto Napoli e avevo preso una stanza in una pensioncina dei vicoli. E' stato il mio primo dove, ma te lo risparmio. Ti voglio dire però che Napoli è la città più bella del mondo. Non tanto per la città in sé, che forse è bella come tante altre, ma per le persone, che sono davvero le più belle del mondo. Nella mia strada ci stavano le fruttaiole, le pescivendole e i guappi. Ma lo erano solo durante il giorno, perché quando arrivava la sera e si spengeva l'ebollizione del quartiere, dei piccoli commerci e dei piccoli malaffari, tutti smettevano di essere fruttaioli o pescivendoli o guappi e pensavano solo alla nostalgia, come se in una vita anteriore fossero state persone diverse, o come se in un'ipotetica vita futura potessero diventare persone diverse da quello che può essere un fruttaiolo, un pescivendolo o un guappo, tiravano fuori le seggiole dai bassi e guardando i vicoli e la loro sporca geometria come se fosse un orizzonte, qualcuno cominciava a canticchiare un motivo, ma piano, in gola, per esempio Voce 'e notte, e a quel qualcuno cominciavano a unirsi altre voci, ed era una specie di preghiera cantata in coro finché una voce sovrastava le altre e sentivi per esempio luntane 'e te quanta melancunia, ma quella melanconia poi non era tutta loro, era anche quella che avevano provato i loro padri o i loro nonni partiti per le Americhe, e loro la provavano al posto di qualcun altro, come se fosse un'eredità che non si può rifiutare e della quale si sente ancor di più il peso e lo struggimento. Io li accompagnavo con l'arpa, che poi la sera riponevo nella bottega di un fruttaiolo, che era quello che cantava con la voce più bella, lui era grassottello e brutto, aveva persino un occhio storto, e forse per questo la natura lo aveva compensato con la voce. Poi, il sabato, indossavo il frac e andavo a prendere il mio posto nell'orchestra del grande teatro di quella città, e davanti a me, mentre il maestro muoveva la bacchetta, vedevo un pubblico elegante, con i signori in smoking e le signore con l'abito lungo, che ascoltavano quella magia che solo la musica può dare e che

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fa dimenticare le brutture del mondo. In quel bellissimo teatro pieno di stucchi e dorature, per la cui orchestra io ero l'arpista Barucco (mi ero scelto questo nome, sono sicuro che ti piace), non ho mai eseguito un assolo. Tuttavia ho fatto la mia parte, per esempio il concertino per arpa con quartetto d'arpa e clarini di Castelnuovo-Tedesco che eseguimmo quando il teatro riaprì dopo i restauri di cui necessitava. E poi anche il quintetto per arpa, flauto, clarinetto, sassofono e chitarra di Villa-Lobos, che fu fra l'altro ciò che riuscì in qualche modo a coagularci come orchestra. Voglio dire come orchestra in formazione, perché ogni settimana arrivava un orchestrale diverso, la fame allora circolava ancora, in molti avevamo le scarpe rotte, eppure si suonava. Presi la decisione di andarmene solo quattro anni dopo. E non perché non amassi quella città, che come ti ho detto ho amato con tutto il cuore, ma perché mi venne l'idea di fare... non saprei bene come dire... ecco, come un censimento. Censimento di cosa?, mi chiederai. Così, non proprio un censimento, ma una specie di verifica, una verifica assurda come chi cerca orme sulla neve dopo che c'è stata una bufera. Un flautista mi aveva detto che l'orchestra di Salonicco cercava un flauto e un'arpa, che sono strumenti poco frequentati. Lui aveva moglie e figli a Napoli, e restò. Io andai. Salonicco è una città che assomiglia a Napoli, non è bellissima e come Napoli è piena di gente bella nell'anima. Che poi è bella anche come città, perché le sue bellezze bisogna scoprirle. Per esempio quella zona del porto quando finisce il lungomare e abbandoni i quartieri centrali dei caffè e dei ristoranti, laddove Salonicco si disfa in casupole di pescatori, nei magazzini di cordami, nei magazzini dell'olio nel quartiere di Ladadika, e dove già ti senti in bilico fra il Mediterraneo, i Balcani e l'Oriente, in una mescolanza di persone fatta di pescatori e di avventizi, di vagabondi e di occasionali dove sembra che si confondano i Mori e Fidia. Le mescolanze sono belle per questo, perché ti ci puoi confondere dentro senza che nessuno ti cerchi, ti chieda chi sei e perché ci sei. E così feci io, cambiando il mio nome in Baruckos. Avevo lasciato intendere che ero un italiano di Alessandria, e il greco non lo sapevo, anche se lo andavo imparando a poco a poco. Fu a Salonicco che per la prima volta mi fecero eseguire la sonata di Hindemith. Il maestro si chiamava Stavros, era un vecchio signore con una gamba di legno e teneva la bacchetta come si regge una forchetta per gli spaghetti, ma forse fingeva, perché fece una direzione magnifica; e quanto a me, quella sera le mie dita scivolavano sulle corde come se volassero, e non mi accorsi di star suonando, era l'arpa che suonava da sola. Fu a suo modo un successo, e credo che la signora loanna conservi ancora i ritagli dei giornali dell'epoca che uscirono con articoli quasi esaltanti, forse anche perché si trattava di un compositore osteggiato dal nazismo, che aveva passato la sua vita

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in esilio. Di modo che, la settimana seguente, dopo il grande concerto di Beethoven, il maestro mi chiese di eseguire il Concerto per arpa di Villa-Lobos. E l'entusiasmo fu così enorme che le persone si alzarono in piedi, gli applausi non finivano più, il pubblico greco è fatto così, si accalora, non mi lasciavano andar via, il maestro mi pregò di eseguire un altro pezzo a piacere, quello che io volessi, io mi ero preparato la Sonata di Casella del 1943, è un pezzo struggente, è qualcosa che sembra evocare i morti, peccato che Casella sia stato così fascista, la sua arte non lo merita, il concerto si svolgeva nella rotonda della chiesa bizantina di Aghios Gheorghios, che è uno dei luoghi straordinari di questo mondo, perché ti da il senso del sacro anche se non credi nel sacro. Ma quel pubblico sapeva cos'è il sacro: la loro guerra era finita da poco, e troppi erano i morti. E io vedevo che le persone nelle prime file, non solo le donne, ma anche degli anziani, stavano piangendo, dalla città non veniva un rumore, l'unico suono era l'arpa, e sembrava che stesse proteggendo i superstiti, e quasi senza accorgermene dagli accordi di Casella le mie dita scivolarono su una vecchia canzone greca che si chiama Thaxanarthis, che vuol dire "tornerai", e il pubblico cominciò a mormorare le parole, e non sembravano voci umane, era come se la terra e il mare e tutta la natura intorno a noi respirasse con noi e nel respirare cantasse. E poi io finii di suonare e anche il canto finì, ci alzammo tutti in silenzio, le donne si fecero il segno della croce all'uso ortodosso e uscimmo nella notte di Salonicco, ciascuno verso casa sua. La mia casa, a Salonicco, fu per tutti quegli anni la pensione Petros. Era a Ladadika, dopo i magazzini dell'olio e dei cordami che poi diventarono depositi del pesce congelato e del combustibile. Quando vi arrivai, i primi giorni di Grecia, vidi una donna che con la calce ricopriva sulla facciata i buchi delle pallottole. Aveva il nostro profilo, dei bei capelli e il volto segnato dalla vita. Le parlai in francese e non capì. Non volevo parlare italiano e come per una strana intuizione le dissi: "Est¢ buscando un lugar por dormir", e lei mi rispose in ladino, o sefarditika come lì si chiama, e mi chiese da dove venissi. Dal nulla, risposi io. E allora qui c'è una stanza per te, disse lei, io sono loanna, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti a rimettere a posto questa casa che aveva costruito il mio Petros. Dalla stanza che ho sempre occupato si vede il mare, e più avanti, sulla destra, le montagne della Calcidica che lasciano indovinare l'Oriente. Ho passato nottate intere a quella finestra, guardando i monti lontani su cui si accendono i fuochi e ripensando a un prato davanti a una casa al limitare della macchia, a una notte, alla musica che vi suonai. Il mio letto aveva una spalliera di metallo sulla quale era dipinta una scena di Arcadia, con un pastore con le caviglie fasciate di stoffa bianca che suona un piffero per un gruppo di capre. Sulla parete sopra il letto c'era la riproduzione di un Cristo bizantino che un pittore ingenuo ricopiò nel secolo scorso per i

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contadini o i pescatori di queste parti. Davanti al letto c'era un comò dove tenevo la mia biancheria e accanto un armadio rossastro di ciliegio, dove ho sempre appeso il mio frac, con uno specchio chiazzato di macchioline sabbiose nel quale ho sempre fatto il possibile per evitare la mia immagine. Non suonai soltanto a Salonicco: andammo anche a Alexandropolis, a Atene, a Patrasso, a Belgrado, in un'occasione importante, credo, per l'Europa, o almeno così dissero i giornali. Il programma non era molto impegnativo, per il mio strumento: si eseguivano musiche ovvie, di grandi musicisti, o perlomeno ovvie per me. Soltanto in certe occasioni mi furono riservate composizioni meno conosciute, come la Sonate liuthée di Migot o l'Impromptu di Paure, perché fui io che chiesi al maestro di variare. Quella sera, ricordo bene, eravamo nel teatro di Dioniso, sotto il Partenone, come pubblico avevamo dei turisti francesi scaricati da due autobus bianchi e blu, cercavano la grecità e trovarono musica decadente, e io pensai di dargli una decadenza vera, non quella artificiale fabbricata per commuovere a buon mercato, ma quella sublime, come hanno saputo fare Migot e Paure. loanna veniva a farmi visita tre volte all'anno: il giorno del suo compleanno, il giorno della Pasqua ortodossa e per l'anniversario del suo matrimonio. Socchiudeva leggermente la porta, senza bussare. Petros, stai dormendo?, mormorava nel buio. No, rispondevo, ero qui alla finestra, ho un po' d'insonnia. E a cosa sta pensando il mio Petros?, mi chiedeva infilandosi nel letto. A una casa colonica, rispondevo, alla musica di una sera quando scoppiò un temporale estivo. Il sabato mi aggiravo per la città vecchia guardando i nomi sui campanelli delle porte, ormai non erano più nomi del nostro popolo, neppure di quelli che da secoli avevano il nome greco. A volte, molto raramente, ho suonato il campanello. Per trovare chi?, mi chiederai. Già, per trovare chi: una donna sola, dei vecchi sopravvissuti, estranei che si chiedevano cosa cercassi o chi cercassi? E infatti mi chiedo: cosa cercavo?, chi cercavo?, pensavo forse di essere quel David che ebbe l'incarico di fare il censimento delle sue tribù? E che tipo di censimento era mai il mio, se così lo posso chiamare? Stavo forse raccogliendo ombre? Ma sì, in fondo ho passato vent'anni a raccogliere ombre, è questo che ho fatto a Salonicco. Mi sembrava quasi di andar raccogliendo in un cesto senza fondo le note che eseguivo le sere dei concerti. Forse che si possono raccogliere le note della musica? Non si può, svaniscono da dove sono venute, nell'aria, perché sono fatte d'aria. Quando lasciai Salonicco per Alessandria, loanna volle portarmi le valigie fino al piroscafo. Avevo protestato, perché le donne non devono servire gli uomini, ma lei aveva chiamato un taxi, da gran signora, e si era messa un cappellino con la veletta. Non so se era il cappello del giorno del suo matrimonio, ma questo non ha importanza. Mi disse: Chriso-

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stomo, ti ho amato attraverso un velo e attraverso un velo ti saluto. E poi disse nella nostra lingua: "va a la bon hora, el Dios que sé con ti". La vedo ancora in fondo al porto a farmi arnvederci con la mano, un arnvederci che poi si trasformò in due braccia stese in avanti, come chi si arrende all'evidenza della vita alla quale entrambi ci eravamo arresi da tempo. Chrisostomo mi ero chiamato quando ero arrivato in Grecia, e Chrisostomo restai sui cartelli e sul programma dell'orchestra di Alessandria. Che non era propriamente un'orchestra, perché da principio fu un quartetto: un'arpa, un flauto, un oboe e un violoncello. Ma questo venne solo più tardi. Inizialmente andai da solo, perché avevo letto in un annuncio su un giornale di Salonicco che l'Hotel Cecil cercava uno strumentista per intrattenere gli ospiti all'ora dell'aperitivo. Strumento classico e musica classica, specificava. Io avevo mandato un telegramma: arpista solista esecuzione classica. Anche il contratto si era svolto per telegramma. Alla fine degli anni cinquanta Alessandria era già la città disastrata che è ora, ma il cosiddetto "bel mondo" continuava a frequentare i due alberghi di lusso: il Windsor Palace e l'Hotel Cecil. Dopo una prova davanti al direttore, un francesetto di Marsiglia che fingeva di intendersi di musica, ci accordammo per uno stipendio ragionevole, pasti compresi. Mi offrirono anche, al piano della servitù, una camera mansardata arredata da casa di bambola dove negli anni cinquanta aveva vissuto lo chef, che pare fosse celebre. La vista era bellissima, e mi avevano fatto vedere con orgoglio le camere di Somerset Maugham e di Winston Churchill, ma ci restai solo una settimana, il tempo di cercarmi una camera in una pensione di quelle che piacciono a me, e da dove ti scrivo. Certi alberghi sono strani: ti pare che i personaggi celebri che li frequentarono vi abbiano lasciato la loro infelicità, e chi come me ha scelto di scomparire preferisce un'infelicità anonima lasciata dagli anonimi come lui che frequentarono quella stessa camera e si guardarono il viso anonimo nello stesso specchio macchiato sopra il lavandino. E insomma, anche se la Comiche di Alessandria ha una sua bellezza, seppure sfatta, io scelsi di stare fuori dal quadro. Mi trovai una pensioncina nel quartiere di Sharia-al-Nabi, proprio dietro il Tempio, che fu costruito dagli italiani, una delle rare cose buone che gli italiani hanno fatto per noi, anche se come architettura non è un granché, di quel pacchiano marmo rosa. All'Hotel Cecil rimasi a suonare per sette anni. Sette anni sono tanti, ma non fu una servitù, perché il Cecil non era Labano e io non gli facevo da pastore, tutt'altro. La sera indossavo uno smoking (il frac era per le occasioni davvero speciali) un po' liso di proprietà dell'albergo, e intrattenevo gli ospiti per tre ore, dalle diciassette e trenta alle venti e trenta, mentre essi prendevano il tè o l'aperitivo. Durante tutte quelle sere eseguii soprattutto compositori accessibili, adatti al

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pubblico e al luogo: una sonatina molto romantica di Hoffmann, la Grande étude a l'initiation de la mandoline di Parish- Alvars e l'Allegro per arpa di Ravel, che sarà anche accessibile, ma in compenso è bellissimo. E vero che mancavano i sei strumenti previsti da Ravel, ma uno fa quello che può, e il pubblico si accontentava. E poi spesso erano persone distratte che stavano lì per chiacchierare, per guardare e farsi guardare. Ogni tanto, verso le otto, quando su Alessandria cade una luce arancione che si trasforma subito in indaco, fra un pezzo classico e l'altro, arpeggiavo gli accordi di Voce 'e notte, cercando di trarne un suono sottratto il più possibile alle funzioni armoniche, e ciò creava un'atmosfera strana, come una magia indefinibile, i clienti sembravano rapiti, forse commossi, vedevo che le coppe di champagne erano ferme a mezz'aria e i camerieri posavano sui comò i vassoi di bouri infilzato a pezzettini negli stuzzicadenti. Quando fui assunto dall'orchestra sinfonica decisi di farmi scrivere nella lista degli orchestrali con il solo nome di Chrisostomo, perché era il nome che sentivo più mio. E il mio debutto fu trionfale, lo dico senza falsa modestia. Le prime volte mi erano toccati solo accordi, come succede spesso agli arpisti nella musica sinfonica, ma quella sera fu tutta per me, perché c'era in programma il Concerto per arpa, flauto e orchestra di Mozart, fra le cose più belle che siano state scritte per un arpista, e forse per tutta la musica. L'orchestra fu magnifica, il flauto era di buona levatura, ma la parte migliore Mozart l'ha riservata all'arpa, e Chrisostomo non perse l'occasione. E così sono passati gli anni. Le persone normali non se ne accorgono, ma spesso anche per loro gli anni passano così, senza che se ne accorgano. Di ricordabile da parte mia, per ciò che posso dirti, c'è un viaggio a Abu Simbel fatto con l'orchestra perché era, dissero, una giornata davvero eccezionale, dovevamo suonare per quella grande organizzazione mondiale che aveva trovato i fondi per recuperare gli antichi templi. E infatti c'erano molti personaggi importanti quella sera, seduti fra le pietre millenarie. Era una notte bellissima e c'era la luna. Avevo avuto la facoltà di eseguire i pezzi che volevo, e così cominciai con la Danza sacra e la Danza profana di Debussy. E poi, dopo un breve intervallo, eseguii il mio Solo per harpa. Forse non è un pezzo sublime, ma per me ha un significato che forse per gli altri non ha e dunque fu sublime, per me quella notte, laggiù nel deserto. Sai, nel deserto, di notte, se c'è la luna, la sabbia scintilla come il mare e pare d'argento. E pensai a casa nostra, e a te, mentre suonavo. E per la prima volta da quando ero sparito smisi di pensare quel pensiero ossessivo, quella frase che mi aveva fatto fuggire e che sempre mi era risuonata nella testa: a cosa serve un'arpa con una corda sola quando tutte le altre sono spezzate? Non so perché smisi di pensarlo, non so perché questo successe. Come vanno le cose, e cosa le guida: un niente. Era notte nel

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deserto, la sabbia scintillava sotto la luna, io suonavo la mia arpa e mi parve che al suono cominciassero a rispondere i granelli di sabbia che circondavano me, il pubblico, i templi. Come se quei granelli di sabbia, milioni e milioni, si risvegliassero da un lungo sonno e mi rispondessero: carezzavo un accordo in do minore e mi rispondevano, frusciavo un bemolle e mi rispondevano, erano vive quelle voci, quella sera, è del tutto assurdo ma è proprio così, erano resuscitate dai forni crematori nei quali le avevano annichilite. Poi non ho fatto altri viaggi, non più. Sono rimasto qui, nella mia pensione, in questa mia camera. Ormai non suono più nell'orchestra, sono troppo vecchio, solo a volte, eccezionalmente, se un arpista si ammala o se non arriva dalla capitale per qualche motivo, perché oggi gli arpisti si sono fatti difficili come delle vedettes. E' una camera spoglia, questo lo sai da te. A destra c'è uno specchio, e poi un letto dove si è sognato di amare tanto. Il giornale che ti ha riportata a me dice che presto sarai invitata in questo paese, è un omaggio che due comunità sorelle e stupidamente avversarie prestano alla tua figura di donna di pace. Ciò è bello, perché corona il sogno della tua vita, che certo ha avuto molto senso. Io non sarò fra il pubblico, ma se ci sarò sarà come se non ci fossi. Però può succedere che il senso della vita di qualcuno sia quello, insensato, di cercare delle voci scomparse, e magari un giorno di credere di trovarle, un giorno che non aspettava più, una sera che è stanco, e vecchio, e suona sotto la luna, e raccoglie tutte le voci che vengono dalla sabbia. E' un miracolo, pensa, non è, perché noi non abbiamo bisogno di miracoli, li lasciamo volentieri ad altri. E allora, pensi, forse è solo un'illusione, una miserabile illusione, che tuttavia per un attimo, finché hai suonato quella musica, è stata vera davvero. E solo per quella hai vissuto la tua vita e ti pare che questo dia un senso all'insensatezza, non credi?

Buono come sei. Alcune cose sono di nostro dominio, altre no. Appartengono al nostro dominio l'opinione, il sentimento, l'avversione. (EPITTETO, Manuale). Mia cara, "...perché così non può andare avanti, per me, forse tu non te ne sei reso conto, ma io ho il dovere di pensare a me stessa, e dunque di mettermi in salvo. Ci sono state delle notti in cui pensavo: ma io cosa sono, per lui?, un approdo, un focolare, un conforto? Ed è mai possibile che io sia posposta a tutto, ma proprio a tutto? Tu lo sai, io ti voglio bene (o forse te ne ho voluto), ma mettiti nei miei panni, tu che sei così

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bravo a metterti nei panni di coloro che soffrono, prova almeno una volta a metterti nei miei panni. Certo quello che fai è nobile, non voglio negarlo, e se c'è un paradiso te lo meriteresti, anche se forse ci credi meno di me. E capisco che tu senta sulle tue spalle la sofferenza del mondo, ma guarda, non sarai tu che potrai risolverla, il mondo ha sempre sofferto e soffrirà ancora, nonostante esistano persone come te. Prendi il tuo ultimo viaggio in Abissinia, per esempio. Partire così, in ventiquattr'ore, mentre io ero a Venezia da mia madre, solo perché la vostra Organizzazione ti aveva spedito un telegramma da Parigi con richiesta di partenza urgente. Mi hai telefonato dall'aeroporto, all'ultimo momento, mentre stavi per imbarcarti, non so se te ne rendi conto. Ti pare una maniera di fare? Mi hai detto: guarda le fotografie che mi hanno mandato da Parigi e capirai tutto, te le ho lasciate sul comò dell'ingresso. E' la prima cosa che ho fatto appena rientrata da Venezia (mi hai costretto a prendere il treno delle 16.41 che cambia a Bologna alle 18.48 e che arriva a casa alle 19.47 e tu sai che Venezia è una città lontana e che a me piace passarci la notte, per non fare delle andate e ritorno pazzesche) è stato proprio guardare quelle vostre terribili fotografie. Si vedeva una pianura arida, un suolo crepato dall'arsura, un ammasso di gente sotto dei teloni, donne con bambini fra le braccia, creature con la pancia gonfia e gli occhi strabuzzati. Posso immaginare come ti faccia sentire bene scendere dall'aereo della vostra Organizzazione mondiale, scaricare scatolette di viveri, montare l'ospedale da campo, indossare il camice e i guanti sterilizzati che ti sei portato dietro dall'Europa e sotto la luce di lampade animate da generatori esercitare le tue arti salvatrici sui poveri corpi di quei bambini. Lo posso capire, ripeto. Ma anche tu devi capire me. Ho buttato nella pattumiera quelle orrende fotografie e ho preso il primo treno per tornare da mia madre. Non potevo certo aspettarti in casa come Penelope, nelle condizioni psicologiche in cui mi trovavo. Gianni, come sai, è sempre stato gentile non solo con me, ma anche con te, anche se non ti conosce, perché ti stima come persona, e sono certa che, buono come sei, riuscirai a comprendere tutto quello che...". Guarda, sarebbe perfino inutile che tu andassi avanti, davvero, mia cara, perché lo sai, ti capisco come nessuno ti può capire, ma voglio lasciarti continuare, perché è anche vero che una spiegazione dettagliata ti farà sentire più leggera, meno colpevole, che è quello che non vorrei proprio. Sulla gentilezza di Giannischicchio non se ne discute neppure, e soprattutto sul suo senso di civiltà: è la prima cosa che ho capito. E il fatto che ti facesse una piccola telefonata al mattino e alla sera, dai non te la prendere, dai non ti scoraggiare, e altre cose così che rincuorano e ti fanno sentire una persona, è un fatto che mi commuove, perché vuol dire che qualcuno si

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prendeva cura di te, cosa di cui avevi estremamente bisogno in quel maledetto periodo. Ho capito perfettamente quando racconti di quel giorno che avevi deciso di passare il fine settimana nella nostra vecchia casa al mare, e a un certo punto ti sei fermata sul ciglio della strada, hai spento il motore della macchina e ti sei, come dici tu, "bloccata". Sai cos'è successo? Te lo spiego io. In termini psichiatrici si chiama "panico". Sei stata semplicemente colta dal panico. Non che in certi casi di panico si debbano trascurare le cause psicologiche, naturalmente: nel tuo caso, per l'appunto, il fatto che tu fossi preda di un enorme turbamento. Perché, come mi dici, il sapere che avresti trovato quella casa deserta, che io fossi lontano, come svanito nell'aria, ti dava un profondo senso di abbandono, anzi di abbattimento. E a che prò fare una cosa così, si chiede uno senza chiederselo, vale a dire a quale scopo andarsene a passare il fine settimana in una casa dove ho passato giorni felici con una persona se ora questa persona non c'è più, e tutto, i mobili, gli oggetti, persino i piatti, mi parlano di lui? Non è necessario avere la bontà che mi attribuisci per capire una cosa del genere: la capirebbero anche i sassi. Così come sono il primo a capire che Giannischicchio ti sia stato vicino. In fondo gliene sono grato, sai?, e capisco come abbia potuto costituire un punto di riferimento per te. Dunque quel giorno, mi dicevi, sei stata colta dal panico, anche se in realtà l'espressione è mia. Per fortuna c'era quel caffè, dall'altra parte della strada, che fa anche da negozio di alimentari, gestito da quel vecchietto con la gamba di legno che è un po' un'istituzione del nostro paesello marinaro. Hai lasciato la macchina sotto la vecchia casa con la lapide dove nacque il poeta trombettiere, ce l'hai fatta a entrare, hai telefonato a Giannischicchio. Pensi forse che non capisca perché hai telefonato a Giannischicchio? E a chi mai dovevi telefonare, forse a me che in quel momento ero in Abissinia? perché quel giorno ero proprio in Abissinia. Gianni è un uomo di buonsenso, e di esperienza, e soprattutto ti vuole bene (ci vuole bene). Ti ha detto quello che poteva dirti una persona che ti vuole bene, e che tu mi riferisci nella tua lettera: parole amiche, tranquillizzanti, affettuose. Quelle che avevi bisogno di sentirti dire. Perché uno, nella vita, ha sempre bisogno di sentirsi dire le parole che vuole sentirsi dire, e Gianni, grazie al cielo, ha capito perfettamente le parole che avevi bisogno di sentirti dire. E grazie alle sue parole ce l'hai fatta a riprendere la macchina e ad arrivare fino a casa nostra, che dal paese non dista più di un chilometro, hai attraversato l'oliveto (a proposito, lo hanno già divelto e trasformato in vigna, questi nuovi proprietari così avidi?) e finalmente sei entrata in casa. Hai spalancato porte e finestre e, come dici nella lettera, la casa non ti è sembrata abitata da fantasmi, il sentimento della mia assenza non ti è parso più così angosciante, ti sei fatta un tè, ti sei infilata un

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pullover, e hai capito che tutto non era così spaventoso come ti era sembrato, e che nonostante tutto la vita continua. E il resto, oltre alla frase che mi dici, me lo immagino da solo. Apprezzo comunque che tu mi dica, con grande altruismo, che a un uomo deve fare una certa impressione tornare a casa dopo un'assenza, seppure un po' lunghetta, e non trovare più la sua donna, ma al suo posto una lettera sul comò. E non nego che mi abbia fatto una certa impressione, perché in cuor mio (ma guarda un po' come sono sciocco), quel giorno, mentre rientravo con un volo massacrante, pensavo di invitarti a cena da Esiodo, sai, la vecchia trattoria dove si mangia zuppa di pane e bistecca ai ferri, ed ero sicuro che, cenando, tu mi avresti chiesto: come è andata?, come stai?, hai sofferto? E invece uno trova una lettera dove gli si dice che certamente capirà la situazione, buono com'è. E io, come ti dicevo, ho capito, anche se devi lasciare che ti dica che sulla mia bontà stai esagerando, perché non sono poi così buono come affermi, e oltretutto, forse mi sbaglio, nel tuo definirmi buono c'è sempre stato un tocco di superiorità, non oso dire disprezzo. Ad ogni modo, guarda... il resto me lo sono immaginato perfettamente, e davvero non c'era bisogno che tu me lo raccontassi. La settimana dopo Gianni ti ha regalato un telefonino (uno dei primi!) e ti ha detto: quando sei in difficoltà, chiamami. Naturalmente ti ha dato le istruzioni per chiamarlo con le dovute cautele, perché uno della sua età sposato da più di trent'anni con una seconda moglie deve pur prendere le sue cautele, e anche questo è comprensibile. Ma tanto tutti noi sappiamo che quando uno dice di essere fedelmente sposato sta parlando di monotonia, anzi diciamocelo francamente: il suo matrimonio è una rovina. E poi Gianni, nonostante l'età, è ancora un bell'uomo. E soprattutto sa fare la corte. Ma non quella corte scema come normalmente si intende fare la corte: piuttosto un'autentica attenzione affettuosa, di uno che si preoccupa davvero, che vuole sapere come sta una donna, come passa la sua giornata, come dorme. E un bel giorno - anche questo è comprensibile, e potevi risparmiarti di scriverlo - lo hai invitato a casa nostra al mare. Gli hai telefonato con il telefonino che ti aveva regalato lui e gli hai detto: Giannino, grazie a te e al tuo appoggio sono riuscita ad arrivare qui a casa fra gli ulivi, e vorrei invitarti a cena. E lui non se lo è fatto ripetere due volte. Sai, in tutta la tua lettera, che è così sincera e che ha trovato la mia più sincera comprensione, c'è una cosa che non va. Forse ti potrà sembrare strana, o un dettaglio insignificante, ma è quando tu mi dici che hai risposto a una richiesta d'affetto. O meglio, che hai risposto a una richiesta d'amore. Un amore si corrisponde quando si è innamorati, mia cara, e questo mi aspettavo che tu mi scrivessi, con la grande lealtà che ha sempre caratterizzato la nostra vita. Avresti po-

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tuto (anzi dovuto) dirmi: sai, è successo che mentre tu non c'eri io mi sia innamorata. Poco o molto non ha importanza, perché ci sono varie gradazioni nell'amore, così come nella febbre: può essere un febbrone o una febbricola, ma è comunque una salita di temperatura. E invece no, mi fai passare il tuo Giannischicchio così, come se fosse un rinfresco. Come dire: sai, tu non c'eri, e nel frattempo mi sono presa un rinfresco. A proposito, ho letto in un libro d'antropologia che sulla costa cantabrica, luogo di emigrazione storica e soprattutto con dei porti nei quali gli uomini si imbarcavano da marinai restando lontani da casa per molto tempo, una volta le donne rimaste senza il loro uomo, per non passare periodi tristi e solitari, si trovavano un brav'uomo che facesse loro compagnia, e questa figura veniva chiamata proprio così: un rinfresco. Non è che vivessero insieme, né che mettessero su nuova famiglia, niente di tutto questo, si frequentavano semplicemente finché non tornava il vero uomo della vedova bianca. Chi è quel tizio che va a spasso con quella tizia?, si chiedeva la gente. Quello?, è il "rinfresco" della Maria o della Gioacchina. Era un fatto accettato in società, e non scandalizzava nessuno. Ora, non voglio negare che i primi due o tre mesi Giannischicchio ti abbia fatto da "rinfresco". Fra l'altro deve sapere rinfrescare bene: ha avuto due mogli e tre o quattro fidanzate, e forse in vita sua non ha pensato ad altro che rinfrescare signore un po' accaldate. Ma mi concederai che se uno torna dopo sette mesi a casa sua e al posto della propria donna trova una lettera che lo aspetta sul comò, ha diritto di pensare che non si tratta semplicemente di un rinfresco. Specie se in quella lettera gli si dice che. Beh, senti, è inutile che tu continui questa tua lettera così minuziosa e così logica, è inutile che tu mi ripeta per l'ennesima volta: buono come sei non potrai non capire che dovevo riempire la mia solitudine, e che in fondo l'ho fatto per noi, perché quello con Gianni è un amore impossibile, vista la sua situazione familiare e l'età che ha: è una maniera, in fondo, di aspettarti, perché tanto questo assurdo amore con lui non potrà andare oltre, me lo dicono perfino le mie amiche che mi sono state vicine in questa storia, anche se la Lore ha detto: ma sì, intanto goditi questo amore, poi si vedrà, è un uomo affascinante, e oltretutto è così solido in termini ideologici. Buono come sono, come diresti tu, l'ho capito. L'ho capito benissimo. Capisco che due persone nella vostra situazione possano partire per le cascate dell'Iguacù. Il Brasile è un paese affascinante, lo conosco anch'io, sai che ho lavorato in Amazzonia e nel Nord-est, è un paese vergine, immenso, è l'ideale per rifarsi una vita, e anche per vedere il mondo, soprattutto per una persona come te, alla quale il mondo lo raccontavo io perché lei restava a casa. E se un bel giorno a Gianni, proprio a Gianni, che il tecnico non l'ha mai fatto in vita sua, perché pensava di essere un grande poeta erotico, se proprio a Gianni, di-

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cevo, l'Ufficio Nazionale per i Paesi in via di Sviluppo offre di dirigere i lavori di una grande opera di ingegneria in quel lontano paese, dovevi forse lasciar partire anche lui, ora che finalmente c'era qualcuno che ti portava con sé non in luoghi desertici, fra gente stremata e bambini denutriti, ma in una zona rigogliosa del pianeta, in un hotel di prima categoria proprio accanto al cantiere, con uno stipendio favoloso per lui, e te trattata come una principessa, come mai ti è capitato in vita tua? E poi, se Gianni ti avesse proposto una situazione meschina, a te che hai sempre avuto un animo da zingara, se per esempio ti avesse detto: senti, cara, ho una bella casa a Venezia, che fra l'altro è una città romantica, dove ci potremmo vedere il fine settimana, potremmo fare degli incontri davvero affettuosi, nel frattempo puoi perfino visitare tua madre, tu prendi il tuo treno, cosa ci vuole?, io lo prendo da Milano e praticamente ci impieghiamo lo stesso tempo, l'importante è che non venga a saperlo mia moglie, sai, lei ha persino quattro o cinque anni meno di te, per lei mi sono giocato il mio primo matrimonio, e tutto sommato le voglio bene, ho nipoti dalla prima moglie e figli da questa, capirai che alla mia età non me la sento di giocarmi la vita una terza volta. Senti, se ti avesse detto così avrei capito che tu lo avessi mandato a quel paese, con l'orgoglio che ti conosco, gli avresti detto senz'altro: Giannino, fai il viale della stazione in macchina di sera, troverai la donna che fa per te. E invece lui, con la situazione che si ritrova, con la bella moglie che ha, che detto fra noi non ti resta affatto indietro, con la sua posizione, si gioca il tutto per tutto grazie ad un amour fou di cui davvero non lo avrei mai creduto capace. E tu cosa avresti potuto fare, se non seguirlo a Iguacù? Sai cosa ti dico, perdonami il paradosso un po' comico, ci sarei andato anch'io. Ah, magari ci fosse stato un Giannischicchio nella mia vita. Invece ho trovato Giovanna. Che pure mi vuole bene. E anch'io gliene voglio. Ingenua è ingenua, non lo nego, ma bisogna considerare l'età che ha, in fondo rispetto a te è una ragazza, cosa che io e te, mia cara, non siamo più da tempo, e ha voluto un figlio da me e ci è riuscita, cosa che non era mai riuscita a noi due. Certo non ha le tue qualità, i tuoi scatti, la tua intraprendenza, e soprattutto il tuo atteggiamento bohémien. Nella vita è soprattutto filologa, nel senso che passa al vaglio parola per parola, situazione per situazione. Pensa che quando è arrivata in casa nostra, la prima cosa che ha detto è stata questa: qui bisogna rifare il parquet. Non è una donna complicata, il suo mondo è tutto lì, nelle belle cose che ora abbiamo, senza smanie di essere e preoccupazione di riuscire, ti assicuro che davvero la sua maggior soddisfazione è stata rifare il parquet. Ma perlomeno non smania, e se me ne vado per qualche mese non mi fa piagnistei, non si sente una povera derelitta come può capitare a certe donne che non riescono a stare senza un uomo più di una settimana.

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Proprio per caso ho saputo che tu e Gianni eravate rientrati. La diga è finita, ed era tempo che rientraste, me lo ha detto per caso il medico che si occupa di Gianni, che come sai è un mio caro amico. Anche a lui piacerebbe fare il medico per le Nazioni Unite, perché è generoso e ha un animo largo, ma la sua mogliettina lo tiene con il collare stretto, con la scusa che lei non può abbandonare la sua attività. E così non ti stupire se dopo sette anni ti ricopio la tua lettera che mi lasciasti sul comò, fra l'altro sono sicuro di farti un favore, perché certo non avesti il tempo di farne una minuta, vista la fretta con cui mi lasciavi. E' vero che il tempo è lungo, e che ti sembrerà strano ricevere ricopiata una tua lettera di sette anni fa, ma sai, la vita è fatta così, di corsi e di ricorsi. E io ho pensato: che me ne faccio oggi della sua lettera visto che il suo corso è finito, almeno quello con Gianni. Sai, ieri sono passato dal dottor Baudino, il mio caro amico il cui laboratorio si occupa di malattie tropicali. Sapevo che Gianni era rientrato con la preoccupazione di aver contratto un'ameba o una malattia consimile, ma non è che questo mi preoccupasse più di tanto. Il mio amico non c'era, pare che fosse andato a festeggiare le sue nozze d'argento con le amebe, perché ormai sono più di vent'anni che si occupa di malattie tropicali. C'era la segretaria, che è una brava ragazza ingenua. Mi fa: il dottore non c'è, lo può trovare solo domani. Non importa, dico io, mi siedo un attimo nel suo studio, dò un'occhiata alle sue carte, che in fondo sono anche le mie. Le analisi di Gianni erano in bella evidenza. E' un sarcoma, mia cara, un sarcoma alla prostata. Non so se tu sia al corrente, forse no, che il sarcoma è una forma di cancro delle più aggressive, si diffonde immediatamente, e infatti credo che Gianni sia già in metastasi. L'amico Baudino un giorno o l'altro te lo dovrà pur dire, perché è inutile che ti inganni con la scusa di una malattia tropicale, quando si tratta di ben altro. Ma magari, poverino, chissà quali problemi e rispetti umani avrà per comunicartelo, sa che tu hai sacrificato un matrimonio per Gianni, che per lui hai messo in gioco la tua vita, che per lui ti sei immolata, e che ormai non sei più giovanissima. E dunque, buono come sono, ho pensato di avvisarti io, che dopo tutto continuo ad essere un tuo amico. Quando si entra in metastasi completa, i dolori si fanno molto forti, davvero molto forti, e Gianni si lamenterà come un cane. E tu sarai terrorizzata, perché i guaiti di un ammalato così sono il peggio che si possa sentire. E in un Paese come il nostro, dove la terapia del dolore non è assolutamente presa in considerazione, te lo faranno davvero soffrire come una bestia, perché i dottori hanno paura di incorrere nei rigori della legge se ricettano dosi di morfina superiori a quelle consentite. Nel caso che questo si verificasse, come credo che si verificherà, rivolgiti pure a me, io di morfina ne ho due valigie, con le quali giro il mondo, non ho nessun problema a farti rifornimen-

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to. Magari dimmelo prima della fine di dicembre, perché poi io e Giovanna abbiamo in programma un lungo viaggio in Messico e probabilmente non torneremo fino a primavera inoltrata, facciamo tutto lo Yucatàn, chissà che non arriviamo anche in Guatemala.

Libri mai scritti, viaggi mai fatti. Allons ' whoeveryou are come travel with me ' Travehng with me youfind what never tires (WALT WHITMAN, Leaves ofGrass]. Na véspera de nào partir nunca ao menos nào ha que arrumar malas. (FERNANDO PESSOA, Poemas de Alvaro de Campos). Amore mio, ti ricordi quando non siamo andati a Samarcanda? Scegliemmo la migliore stagione dell'anno, l'inizio dell'autunno, i boschi e i cespugli intorno a Samarcanda, laddove scendono le colline aride e spunta la vegetazione, si infiammano di foglie rosse e giallo ocra, e il clima è dolce, diceva la nostra guida, ti ricordi la nostra guida?, l'avevamo comprata in una piccola libreria dell'Ile Saint-Louis, Ulysse, specializzata in libri di viaggio, perlopiù usati e spesso sottolineati o annotati dalle persone che avevano fatto quei viaggi lasciando sulle guide i loro appunti, peraltro utilissimi, tipo: "locanda raccomandabile", oppure "strada da evitare, pericolosa", oppure "in questo emporio si vendono tappeti pregiati a prezzi accessibili", oppure "attenzione, in questo ristorante truffano sul conto". A Samarcanda si può arrivare in vari modi, diceva la guida, e il più rapido è l'aereo, ma certo è anche il più banale. Per esempio potete partire da Parigi, da Roma o da Zurigo e volare direttamente su Mosca, ma qui dovete pernottare, perché non esiste una coincidenza aerea per l'Uzbekistan che vi consenta di arrivare in serata. E: ci conveniva pernottare a Mosca? Ne discutemmo a lungo una sera da Luigi, quel ristorante dei vicoli dove si mangiava buon pesce e dove c'era un gentilissimo cameriere omosessuale che ci attendeva con squisitezza. Da parte mia era un'ipotesi che non mi sentivo di escludere. Perché no, dicevo, ricordi?, pensa: la Piazza Rossa di notte vista da quel grande albergo che l'Aeroflot mette a disposizione dei turisti che devono pernottare a Mosca, è l'autunno, a Mosca fa già freddo, la piace rouge sarà vuota come nella canzone di Gilbert Bécaud, io ti chiamerò Nathalie, scenderemo da un taxi che in Unione Sovietica pare siano del-

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le limousine da capi di stato, l'ho letto da qualche parte, nel ristorante dell'albergo ci offriranno caviale di storione del Volga, forse ci sarà già un po' di nebbia intorno ai fanali, come nei romanzi di Puskin, e sarà bello, ne sono sicuro, potremo andare anche al Bolscioi dove è obbligatorio andare se siamo a Mosca, e magari vedremo il Lago dei cigni. Ma era la scelta più banale, perciò la lasciammo perdere di comune accordo. Era molto preferibile il viaggio via terra, il treno, e fu per quello che decidemmo: Orient-Express e poi o Transiberiana o via Teheran. L'Orient-Express, si sa, esercita il suo fascino anche sugli intellettuali più snob, come noi non ci consideravamo magari essendolo, ed è per questo che ci dicemmo: in treno, in treno. Ah, il treno! Sai che quando Georges Nagelmackers pensò di costruire i binari per il suo espresso di lusso, dovette negoziare con la Francia, la Baviera, l'Austria e la Romania che si sentivano tutte minacciate nella loro integrità nazionale? L'inaugurazione avvenne nel 1883, e il primo viaggio fu minuziosamente descritto da Edmond About, quel giornalista che era anche umorista e aveva scritto // naso di un notaio. Nagelmackers non ce l'avrebbe mai fatta senza l'appoggio di Leopoldo II del Belgio, che era anche suo socio. E forse ti stupirà sapere che già a quell'epoca certe locomotive superavano la velocità di centosessanta chilometri all'ora, erano delle Buddicom britanniche con un sistema di freni ad aria compressa. Vuoi sapere il menu del quattro gennaio del 1898?, me lo sono procurato. Preparati perché non è uno spuntino: come entrata ostriche, brodo di tartaruga o potage de la reine; poi trota salmonata a la Chambord, selle de chevreuil a la duchesse, beccacce, parfait de foie gras, tartufi allo champagne, frutta e dessert. E poi i wagon-lit, lo sferragliare del viaggio che durante la notte arrivava attutilo dai vetri del finestrino, mentre il treno percorreva paesi e li amava senza toccarli, così come Chardonne diceva ai suoi amici: "si vous aimez une femme, n'y touchez pas", e il wagon-lit, che ci permetteva di toccare un paese con la punta delle dita, come quel poeta che desiderava toccare il gesto della suonatrice d'arpa senza toccare la sua mano. Ti recitavo a memoria poesie sui treni, e nei bistrot vicino alla Gare d'Austerlitz declamavo Valery Larbaud: "Oh, OrientExpress, prestami la tua vibrante voce di scacciapensieri, la respirazione leggera e facile delle snelle locomotive che trainano senza sforzo quattro vagoni gialli con lettere dorate nelle solitudini montagnose della Serbia e attraverso la Bulgaria piena di rose...". Da dove si prendeva l'Orient-Express? Ma dalla Gare de Lyon, dalla Gare de Lyon! E in quella meravigliosa stazione, che cosa c'è? Ma il Train Bleu, il più affascinante ristorante di Parigi! Te lo ricordi? Certo che te lo ricordi, non puoi non ricordartelo. Il Train Bleu sono tre enormi sale con affreschi pompiers alle pareti, divanetti di velluto rosso, lampadari di

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Boemia e camerieri col giacchino e un tablier immacolato che ti dicono "Bienvenus, Messieurs Dames" con l'aria di chi non gliene frega niente. Tanto per cominciare ordinammo ostriche e champagne, perché due che non partono per Samarcanda con l'Orient-Express avranno pure il diritto di cominciare così, no? Partire è sempre un po' morire, dicevamo guardando le persone che sarebbero restate sul marciapiede a salutare parlando coi passeggeri che si sporgevano dai finestrini illuminati. Dove sarebbe andato mai quell'anziano signore calvo, con la cravatta da sera, che fumava la pipa affacciato al finestrino con la stessa disinvoltura di chi si trova nel suo salotto? E la signora che sedeva nella stessa carrozza, con un cappellino cremisi e un collo di pelliccia, era sua moglie o una sconosciuta qualsiasi? E durante il viaggio sarebbe nata una storia fra loro? Chissà, chissà, intanto cominciamo il viaggio, dicevamo; il treno dunque partiva dal binario elle, o almeno così sosteneva il cartellone dei treni in partenza, e la prima fermata sarebbe stata Venezia. Ah, Venezia, quanto avevi sognato di vedere Venezia!, il Canal Grande, San Marco, la Ca' d'Oro... Sì, cara, d'accordo, ma non credo che potrai vederla un granché, mi spiace davvero, ma il treno fa una semplice sosta notturna alla stazione di Santa Lucia, al massimo potrai vedere la laguna sulla quale scorre la ferrovia, la laguna a sinistra e il mare aperto a destra, ma non vorrei che tu dimenticassi che noi siamo diretti a Samarcanda, altrimenti ti viene voglia di fermarti in tutte le città che il treno tocca, prima Vienna, poi Istanbul, forse che ti dispiacerebbe vedere Istanbul?, pensa, il Bosforo, le moschee, i minareti, il Gran Bazaar. Insomma, il vero viaggio da non fare era Samarcanda. Io ne serbo un ricordo indimenticabile, e così nitido, così dettagliato come possono darlo solo le cose vissute davvero nell'immaginazione. Sai, leggevo un filosofo francese che ha osservato come l'immaginario obbedisca a delle leggi rigorose come quelle del reale. E l'immaginario, amore mio, non è affatto l'illusorio, che è davvero un'altra cosa. Samuel Butler era proprio un bel tipo, non solo per i fantastici romanzi che ha scritto, ma per la sua maniera di vedere la vita. Mi viene in mente una sua frase: "Posso tollerare la menzogna, ma non sopporto l'imprecisione". Amore mio, menzogne ce ne siamo dette molte nella nostra vita, e tutte le abbiamo accettate reciprocamente, perché erano così vere davvero nel nostro immaginario desiderante. Ma ce n'è stata una, o, se preferisci, una multipla intorno allo stesso fatto reale, che ci ha perduti per sempre, perché era una menzogna falsa, perché era l'illusorio, e l'illusorio è necessariamente impreciso, esiste solo nella nebbia dell'autoillusione. Nei nostri sogni avevamo sempre fatto come Don Chisciotte che spinge il suo immaginario fino in fondo, un immaginario che presuppone la follia, purché essa sia esatta: esatta nella topografia del paesaggio reale che egli attraversa con la sua immaginazione. Avevi mai pensato che il

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Don Chisciotte è un romanzo realistico? E invece, un giorno, ecco che all'improvviso da Don Chisciotte tu diventi Madame Bovary, con la sua incapacità di delineare i contorni di ciò che desiderava, di decifrare il luogo in cui si trovava, di contare i soldi che spendeva, di capire le stronzate che faceva: erano cose reali e le parevano aria, e non il contrario. Quale enorme differenza: non si può dire "andavo in una città lontana", oppure "era un premuroso signore che mi teneva compagnia", oppure "non credo fosse amore, piuttosto una specie di tenerezza". Non si possono dire cose così, amore mio, o almeno non potevi dirle a me, perché quella era la tua illusione, la tua povera patetica illusione: quella città aveva un nome preciso e non era poi così lontana, e lui solo un uomo di una certa età con cui andavi a letto. Era un tuo amante che credevi fatto d'aria, ma che era di carne. E' per questo che ti ricordo il viaggio che non facemmo a Samarcanda, perché quello sì che fu vero e nostro e pieno e vissuto. E dunque continuo il nostro gioco. Come dice quel filosofo di cui ti parlavo, la memoria rievoca il vissuto, è precisa, esatta, implacabile, ma non produce niente di nuovo: è questo il suo limite. L'immaginazione, invece, non può evocare niente, perché non può ricordare, ed è questo il suo limite: ma in compenso produce il nuovo, un qualcosa che prima non c'era, che non c'è mai stato. Perciò utilizzo queste due facoltà che possono aiutarsi mutuamente e vengo a rievocarti quel nostro viaggio a Samarcanda che non facemmo ma che immaginammo nei più esatti dettagli. I nostri compagni di viaggio furono rispettivamente una delusione e un entusiasmo. Quel signore elegantissimo che pareva tanto fine si rivelò un commerciante di basso rango, tendente al venale, non riuscimmo a capire che tipo di import-export intrattenesse con la Turchia, ma non si trattava di cose chiare, o almeno a te puzzavano di bruciato, mi strizzasti l'occhio un paio di volte, ricordi?, e quando scese a Istanbul tirasti persino un sospiro di sollievo, perché i suoi complimenti nei tuoi confronti si stavano facendo eccessivamente galanti per uno sconosciuto incontrato in treno, e non sapevi più che pesci prendere, mentre io facevo il sornione. La signora invece si rivelò molto meglio di quanto prometteva il suo aspetto. Voglio dire: aspetto cechoviano appropriato al personaggio, fu il tuo commento che mi bisbigliasti nel corridoio. E infatti, mai vista una cechoviana come quella. Cominciò con l'età della ragazzina della Voglia di dormire. Fino a che punto la necessità fisiologica del sonno può influire in un omicidio? Oh, beh, questo dipende, disquisiva con competenza l'affascinante signora; lorsignori, per esempio, hanno mai studiato il sonno, biologicamente parlando, s'intende?, ebbene, lo stato di veglia ha una soglia di sopportabilità, un po' come il dolore, e varia col variare dell'età, per esempio c'è un'età in cui il bisogno di dormire è una necessità in-

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sopprimibile, dominatrice di ogni altra sensazione e necessità, soprattutto in una persona di sesso femminile, e questo è il momento della prima pubertà, ed ecco uno dei motivi per cui la piccola servetta aveva soffocato la neonata che doveva accudire e che con il suo pianto non la lasciava dormire: perché quella notte, o al massimo la notte precedente, aveva avuto la sua prima mestruazione, ed era spossata. Ti ho fatto un riassunto frettoloso e modesto, perché la signora, come ricorderai meglio di me, aveva un lessico sceltissimo e una fantastica capacità espositiva, e la sua competenza cechoviana non si limitava certo ad aneddoti pittoreschi o eruditi come questo. Ti ricordi ad esempio il discorso che fece sulle ultime parole di Cechov? Certo che te ne ricordi, restammo entrambi strabiliati, fra l'altro né io né te avevamo mai saputo che Cechov morendo avesse detto "Ich sterbe". Già, morì in una lingua non sua. Che strano, vero? Amò sempre in russo, soffrì in russo, odiò (poco) in russo, sorrise (molto) in russo, visse sempre in russo e morì in tedesco. Fu straordinaria la spiegazione che quella sconosciuta signora forniva del fatto che Cechov fosse morto in tedesco, e quando ci salutò per scendere a una stazione sconosciuta non dimenticherò più l'espressione del tuo volto: meraviglia, stupore, e forse commozione. E come fu bello e straordinario quel giorno in cui ti vidi corrermi incontro, io ti aspettavo nel vecchio caffè di sempre, tu fendevi la folla come felice, in mano sventolavi un libriccino e gridavi: "Guarda chi era la vecchia signora!". Il libro era appena uscito e la critica non se ne era ancora accorta, ma a te non era sfuggito, a te non sfuggiva mai niente, ah, la deliziosa vecchia signora, grande e benefica voce che con i suoi frutti d'oro aveva deliziato il nostro viaggio senza rivelare la sua identità e poi era svanita nel nulla. E l'uso improprio che facemmo a Samarcanda delle ultime parole di Cechov! Naturalmente cominciai io, e poi tu cominciasti ad imitarmi, anche se all'inizio dicevi: "Sei blasfemo, sei davvero blasfemo! ". La prima volta fu in quella specie di torre di Babele chiamato Siab Bazaar: gli odori, le spezie, i copricapi, i tappeti, l'urlìo, la calca, la folla dove si mescolavano il Turkestan, l'Europa, la Russia, la Mongolia, l'Afghanistan e io mi fermai esterrefatto e gridai: "Ich sterbe! ". E "sterbere" fu da allora una parola d'ordine, un obbligo, quasi un vizio. Sterbemmo insieme davanti al mausoleo di Gur-i-Emir, quella pannocchia di ceramica adagiata sulla torre cilindrica intarsiata dai versetti coranici, l'onice dei pannelli interni, la pietra tombale di giada merlettata di arabeschi e macchiata dal giallo e dal verde delle piastrelle. Sterbemmo più che mai nella piazza del Registan, con le due "mederse" turrite davanti alle quali era prostrata una folla in preghiera. Fondamentale fu il binocolo che ci eravamo portati dietro: quello era stato un consiglio tuo, tu nelle cose pratiche a volte eri insuperabile. Senza di quello non avremmo mai decifrato i mo-

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saici di ceramica che ornano il cortile della moschea di Ulug Beg, quel motivo di fiori dai venti petali iscritto in una stella a dodici punte dalla quale si diramano motivi geometrici che finiscono in una sorta di labirinto. Sarà così la vita, chiedesti, comincia in un punto come se fosse un petalo, e poi si disperde in tutte le direzioni? Che strana domanda. Come risposta alla tua domanda pensai di portarti a guardare le stelle dall'osservatorio di Ulug Beg, con quell'astrolabio immenso, forse più di trenta metri, che permetteva di determinare la posizione delle stelle e dei pianeti osservando semplicemente come la luce diffusa da un'apertura praticata nell'edificio cadeva nel suo interno. E' speculare?, ti chiesi. Che cosa?, replicasti. Volevo dire se il cielo è speculare al concetto che hai esposto sulla vita, ti dissi, non è una risposta, ho risposto alla tua domanda con una domanda. Poi, in un mercato più lontano tu ti sentisti sterbere per un bukara color lapislazzuli, ma fu uno sterbimento che durò poco, non abbiamo i soldi sufficienti, dicesti, dovremmo saltare almeno due pasti, e poi forse a Bukara ne troviamo uno più bello e che costa meno. E invece, guarda un po', a Bukara non ci andammo. Chissà perché decidemmo di non andarci, tu te lo ricordi?, io sinceramente no. Eravamo stanchi, questo è sicuro, e poi quel viaggio era stato così intenso, e pieno di emozioni e di immagini e di volti e di paesaggi, che ci sembrò di esagerare, è come quando entri in un museo troppo grande e troppo ricco e decidi di saltare alcune sale affinchè il bello non si sovrapponga al bello già visto e diventando troppo annulli il ricordo del precedente. E poi la vita ci richiamava alla realtà, la vita quotidiana a volte concede alcune fessure, ma si richiudono subito. Mi si è riaperta solo ora, quella fessura, dopo tanti anni. E così mi sono messo a ripensare alle cose che non si sono fatte, è un bilancio difficile ma necessario, a volte può anche dare una sorta di leggerezza, come una contentezza infantile e gratuita. E per lo stesso motivo, e con la stessa contentezza infantile e gratuita, come di conseguenza mi sono messo a ripensare anche ai libri che non scrissi mai e che tuttavia ti raccontai con l'identica minuzia con la quale non facemmo il viaggio a Samarcanda. L'ultimo che non ho scritto, che è poi anche l'ultimo che ti ho raccontato, si chiamava Cercando di te e aveva come sottotitolo "Un mandala". Il sottotitolo si riferiva alla ricerca del personaggio, nel senso che il suo è un percorso concentrico, a spirale, e i personaggi, come sai, non erano miei, li avevo rubati a un altro romanzo. Sai, avevo trovato quasi insopportabile che quel romanzo disincantato e pieno di allegri fantasmi si chiudesse senza che i due protagonisti, lui e lei, riuscissero a ritrovarsi. Possibile che quel lui, nel quale un esibito sarcasmo nasconde in realtà un'incurabile malinconia, e quella lei così generosa e appassionata non potessero più incontrarsi, quasi come se l'autore avesse volu-

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to prendersi gioco di loro e godere della loro infelicità? E poi, pensavo, in realtà lei non era affatto sparita come l'autore voleva farci credere, non era affatto uscita dal paesaggio; anzi, secondo me era in bella evidenza, proprio al centro di quel quadro, e non si vedeva proprio perché era troppo in evidenza, nascosta sotto un particolare, anzi, nascosta sotto se stessa, come la lettera rubata di Poe. Ed è per questo che io facevo mettere lui alla ricerca della sua amata, e cerchio dopo cerchio, mentre i cerchi si facevano sempre più stretti, proprio come nel mandala, lui riusciva ad arrivare al centro, che poi era il significato della sua vita, e cioè ritrovarla. Era un romanzo un po' romantico, forse troppo, vero?, ma non è questo il motivo per cui non lo scrissi: in realtà quel romanzo sarebbe stato il capolavoro di tutti i miei romanzi non scritti, l'opera maestra del silenzio che avevo scelto per tutta la vita. Un piccolo capolavoro, voglio dire, niente di quei romanzoni monumentali che fanno la gioia degli editori e che non ho mai pensato neppure lontanamente di non scrivere: insomma, una piccola cosa che non superasse i dieci capitoli, per cento pagine: una misura aurea. A non scriverlo ci impiegai quattro mesi esatti, da maggio ad agosto, per la verità avrei potuto non scriverlo anche prima, se avessi avuto più tempo a disposizione, ma le mie giornate, allora, erano occupate con tutt'altre cose, purtroppo. Lo finii il dieci di agosto. Mi ricordo la data perché la notte di san Lorenzo è sempre stata una notte speciale per noi, per te soprattutto, per via dei desideri che si possono esprimere guardando le stelle cadenti di cui in quel momento è pieno il cielo. E poi io venni a trovarti proprio quella sera, te lo ricorderai, avevo passato quei quattro mesi in quella casa di campagna, con un caldo umido che soffoca la gola e infradicia le ossa, tu mi telefonavi ogni giorno e mi chiedevi: perché non vieni?; te l'ho detto, ti ripetevo, mi sono messo a non scrivere un romanzo complicato che mi sta facendo sudare sette camicie più del caldo infernale di questa campagna, guarda, sarà bello, te lo assicuro, o magari strambo, più strambo di me, una creatura strana come un coleottero sconosciuto rimasto fossilizzato su un sasso, appena arrivo te lo racconto. Te lo raccontai quella notte, al balcone della casa sul mare, guardando le stelle cadenti che lasciavano strisce bianche nel cielo notturno. Ricordo bene cosa mi dicesti quando ebbi finito, ma nonostante ciò ho voglia di ripeterti un capitolo. Ma questa volta non te lo riassumerò come feci quella notte, te lo trascriverò come se lo stessi copiando, perché naturalmente esso esiste parola per parola nella mia memoria che lo ha immaginato. In concreto non esiste da nessun'altra parte, certo. Insomma: non importa dove, purché sia da nessuna parte. E tu sai come mi costi infrangere questo patto segreto con me stesso e rendere scritte e visibili, e dunque presenti, parole che esistevano solo aeree, leggere, alate e imprendibili, e libere di

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essere non essendo, proprio come il pensiero. E come diventano perentorie qui sulla carta, e quasi volgari, e grasse, con l'irrimediabile arroganza delle cose che sono. Non importa, lo farò lo stesso: in fondo anche tu amavi le fessure fra le cose, ma poi hai scelto il pieno, e forse hai fatto bene, perché è una forma di salvezza, o comunque di accettazione di ciò che tutti siamo. Ah, que la vie est quotidienne! Cercherò di risparmiarti le descrizioni e i passaggi narrativi. Non li ho mai amati quando li scrivevo mentalmente, figuriamoci a scriverli davvero. Solo le informazioni necessarie: siamo al capitolo ottavo, e alla ricerca di lei lui arriva in uno strano posto sulle Alpi svizzere, una comunità di buddhismo zen, o qualcosa del genere, perché ha intuito che lei probabilmente si è persa in questi tipi di ricerca, che ora sembrerebbero New Age, ma tanti anni fa, quando non lo scrissi, non avevano affatto questo sapore. E in quel luogo cena e pernotta, anche lui da pellegrino che sta cercando qualcosa, il che è vero, peraltro. E durante la cena comincia a parlare con una signora che è la sua commensale. E' una donna non più giovane, una francese, l'ambiente, come ricorderai, è orientaleggiante, con musica indiana tipo raga e cibo indiano tipo gusthaba e polpette vegetali, dettagli che ti risparmio perché li trovo irritanti. E la signora a un certo punto dice una strana frase: che si trova li perché aveva perso i confini. E ora debbo virgolettare, e non sai quanto mi spiaccia. "Qui ci sono delle regole, è vero, ma le regole servono quando si sono perduti i confini, e poi c'è anche un motivo più pratico: in fondo questo è un riparo." "Cosa vuol dire quando si sono perduti i confini? Non capisco." "Capirà se continuiamo a parlare, però intanto sarebbe bene scegliere la cena, se permette le illustro il menù di stasera." [Omissis... la musica cambiò, ora si sentiva un suono di tamburelli. Omissis...] "Mi scusi ma mi piacerebbe capire cosa significa perdere i confini." "Significa che l'universo non ha confini, ed è per questo che sono qui, perché anch'io ho perduto i confini." "Cioè?" "Lei sa quante stelle ci sono nella nostra galassia?" "Non ne ho idea." "Circa quattrocento miliardi. Ma nell'universo a noi noto ci sono centinaia di miliardi di galassie, l'universo non ha confini. " [La donna accese un sigaretto indiano, di quelli profumati, fatti con una sola foglia di tabacco... Omissis...] "Molti anni fa avevo un figlio, e la vita me l'ha portato via. Lo avevo chiamato Denis, e la natura era stata matrigna con lui, eppure lui aveva una sua forma di intelligenza. E io

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la capivo." [Omissis...] "Lo amavo come si può amare un figlio. Lei sa come si può amare un figlio? Molto più di noi stessi: così si possono amare i figli." [Omissis...] "Aveva una sua forma di intelligenza, e io l'avevo studiata. Per esempio, avevamo trovato un codice, uno di quei codici che non si insegnano a scuola per i bambini come il mio Denis, ma che una madre riesce a inventare con il proprio figlio, che so, battere con un cucchiaio su un bicchiere, mi spiego?, battere con un cucchiaino su un bicchiere, tlin tlin." "Si spieghi meglio, per favore." "E' necessario studiare la frequenza e l'intensità del messaggio, e io di frequenza e di intensità me ne intendo, faceva parte della mia professione studiando le stelle all'osservatorio astronomico di Parigi, ma non fu tanto questo a guidarmi, fu perché ero sua madre e perché si ama un figlio più di noi stessi." [Omissis...] "Il nostro codice funzionava alla perfezione, avevamo studiato una lingua che gli umani non conoscono, lui sapeva come dirmi mamma ti voglio bene, io sapevo come rispondergli sei tutta la mia vita, e poi altre cose, quelle quotidiane, certi suoi bisogni, ma anche le più complesse, se ero triste, se ero allegra, se era triste, se era allegro, perché anche le persone che hanno avuto la natura matrigna sanno come noi e anche più di noi cos'è la felicità e l'infelicità, la malinconia e l'allegria, tutto quello che proviamo noi che ci consideriamo normali." [Omissis...] "Ma la vita non è solo matrigna, è anche malvagia, lei cosa avrebbe fatto?" "Non lo so. Davvero non lo so. Lei cosa fece?" " Quando mancò, durante il giorno vagavo per Parigi, guardando le vetrine, gli esseri vestiti che camminavano, che stavano seduti sulle panchine dei parchi o ai tavolini dei caffè, e pensavo al tipo d'organizzazione che avevamo dato alla vita sul pianeta Terra, le notti le passavo all'osservatorio, ma quei telescopi erano diventati insufficienti. Volevo osservare i grandi spazi interstellari, ero come un minuscolo puntino che vuole studiare i confini dell'universo, era l'unica cosa che mi interessasse, come se mi potesse dare un po' di pace. Lei cosa avrebbe fatto, al posto mio?" [Omissis...] "In Cile, sulle Ande c'è l'osservatorio più alto del mondo, e anche uno dei più equipaggiati, avevano bisogno di un astrofisico, mandai il mio curriculum, mi chiamarono e partii..." "Continui, per favore." "Mi feci mettere al radiotelescopio, per studiare le nebulose extragalattiche, lei sa cos'è la nebulosa di Andromeda?"

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"Naturalmente no." "E' un sistema a spirale simile alla Via Lattea, tuttavia è inclinata in modo tale che i bracci della spirale non sono perfettamente visibili. Fino ai primi anni del secolo non si era certi che si trovasse al di fuori della Via Lattea, solo nel 1923 uno scienziato che studiava la Costellazione del Triangolo risolse il problema: sono i confini del nostro sistema, i confini dell'universo." [Omissis...] "Al radiotelescopio si cerca di captare emissioni radiogalattiche con segnali modulati provenienti da eventuali creature intelligenti, e a nostra volta si inviano messaggi modulati..." [Omissis...] "Ah, lei non può immaginare cosa significhi stare su una delle montagne più alte del mondo, mentre fuori c'è solo neve e tempesta, e mandare messaggi verso la nebulosa di Andromeda... e una notte, una notte di bufera, con il ghiaccio che si incrostava sulle vetrate della cupola dell'osservatorio, mi venne un'idea, era un'idea assurda e non so perché gliela racconto..." "La prego, la prego davvero." "Gliel'ho detto, era un'idea folle." "La prego." "Beh, inviavo messaggi modulati e quella notte cercai una modulazione che avevo nella memoria e poi scelsi un codice, un codice che conoscevo solo io, lo tradussi nella modulazione matematica e lo inviai... è una follia, gliel'ho detto." "La prego." "Non so se lei se ne rende conto, ma per inviare un messaggio alla nebulosa di Andromeda, contando gli anni luce, ci vogliono cento anni del nostro calendario, e un altro secolo per avere un'eventuale risposta. E' assurdo, lei penserà che sono pazza." "No, non lo penso, credo che tutto possa succedere nell'universo, per favore, continui." "I cristalli di ghiaccio si condensavano sulla vetrata, era notte, io me ne stavo davanti al telescopio come qualcuno che ha commesso un'assurdità, e in quel momento arrivò la risposta da Andromeda, era un messaggio modulato, lo passai al decifratore e lo riconobbi immediatamente, la stessa frequenza, la stessa intensità: in termini matematici era un messaggio che avevo sentito per quindici anni della mia vita, quello del mio Denis. Le sembro pazza?" "No, non credo, forse l'universo lo è." "Lei cosa avrebbe fatto?" "Non so, francamente non saprei dirle." "Scoprii in un testo sacro indiano che i punti cardinali possono essere infiniti o inesistenti come in un cerchio, pensiero che mi turbò, perché lei non può togliere a un astronomo i punti cardinali. E' per questo che sono qui, perché non si può credere di arrivare ai confini dell'universo, perché l'u-

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niverso non ha confine." Lo sai, amore mio, non ti avrei scritto tutto questo se non fosse così tardi, cioè se io non fossi nel rovescio dell'estate, nei giorni di sole di un dicembre. Ma le pagine di quel romanzo che non scrissi mi hanno risvegliato quel viaggio che non facemmo, forse perché parlano di stelle, e ha tante stelle il cielo che è piccolo danno che ne cada l'una o l'altra, e noi cercammo di capirne la topografia, quel ventiquattro settembre di tanti anni fa, perché una notte intera del viaggio che non facemmo a Samarcandala passammo all'osservatorio diUlug Beg. Che sciocchezza studiare le stelle, vero? Per terra bisogna guardare, per terra, perché la vita ci obbliga sempre ad abbassare il capo. In questi ultimi tempi mi sono messo a studiare un po' di uzbeko. Ma così per scherzare, come si studiano certe lingue sul manualetto del perfetto viaggiatore, e poi ho letto che studiare le lingue a una certa età previene il morbo di Alzheimer. Ti ricordi come ci sembrava buffa questa lingua quando la sentivamo parlare? Per esempio "Arrivederci", che poi vuol dire anche addio, è una parola buffa perché sembra addirittura spagnola, si dice divido. Ma forse la formula più buffa è men olamdan ko'z yaemapman. Che tuttavia è espressione letteraria. Quella più semplice, cioè familiare, è men ko'z o'ijapman_. Sai cosa vuol dire? E' un verbo. Vuol dire "Ich sterbe", mio caro amore.

La maschera è stanca. Mia dolce Ofelia, arriva sempre il momento in cui capisci che l'illusione successiva dei giorni, o la loro musica, è giunta al suo termine. Se era illusione, è come quando, al momento dell'alba, i contorni del reale, da sfumati che erano, sono investiti dalla luce che cresce e si fanno nitidi, taglienti come lame, e senza remissione. Se era musica, è come se le note di un'orchestra, dopo il moto allegro, lo scherzoso, l'adagio e l'allegro maestoso si facessero solenni e si spengessero lentamente: le luci si abbassano e il concerto è finito. Oggi sono uscito dal nostro piccolo teatro e ho visto che nel cielo di Londra, inaspettatamente, si era accesa un'insolita luce arancione che non appartiene ai nostri tramonti, anche se si addirebbe a questo stanco settembre ove si prepara l'equinozio d'autunno. Ma è una luce che quasi trascolora, dall'arancio sfuma nel violetto e nell'indaco, come in certe città del Sud, città d'acqua e di marmi, che Turner andò a cercare a Venezia. Qui c'è pietra grigia, e d'acqua abbiamo solo questo lento Tamigi che scorre, e mi sono messo a passeggiare lungo le sue sponde. Non sono andato molto lontano, mi sono fermato alle spallette nei pressi della stazione di Embankment, e intanto pensavo, lasciando fluire i miei pensieri

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in libertà, e intanto anche il Tamigi, come i miei pensieri, scorreva nel mio senso, e pareva mi raccontasse una vecchia storia, vecchia come la nostra, quella che siamo obbligati a recitare da anni. Da quanti?, mi sono chiesto. Oh, troppi, se ci penso, davvero troppi, venti sul principio dell'anno e ormai quasi ventuno, mio dolce principe, mi risponderesti con malinconia dal tuo camerino. Mia dolce Ofelia, sono oltre vent'anni che galleggi al sapore della corrente, da vent'anni ti vedo annegare, e so di essere la causa della tua morte. Guardavo la lenta corrente del fiume e pensavo agli anni trascorsi, alle fiamme degli entusiasmi, all'accomodarsi in una sorta di abitudine che diventa una cuccia, dopo che la lenta illusione dei giorni diventa lenta illusione che il domani possa essere diverso dall'oggi. No: il domani non può essere diverso, piccola Ofelia, domani ti dirò ancora cose sconnesse, che ora ti amo e non ti amo più, che sto cacciando i topi dal mio palazzo, irriderò tuo fratello e trafiggerò tuo padre, quello stupido di York starà immobile davanti a me con il braccio teso mostrandomi una zucca e tu con il cuore rotto ti abbandonerai al sapore della corrente. E in quel momento, mentre le luci si attenuano sull'azzurro, gli attori si immobilizzano sul palco onde creare quella pausa di attesa che deve catturare il pubblico, la musica degli altoparlanti canterà Yesterday, ali my troubles seemed so far away. E come sempre ci affideremo alla voce dei Beatles per rinnovare una tragedia vecchia di secoli. Però in quegli anni la nostra colonna sonora faceva effetto, vero piccola Ofelia? Come era nuovo, come piaceva al pubblico, ai giornali, alla gente, che in un teatrino di Soho una compagnia di giovani studenti rinnovasse la tragedia di sempre vestendo pantaloni a tubo e diffondendo musica dei Beatles. Io arrivavo con la mia Mini Morris e, scendendo davanti agli ammiratori, facendo il giro della macchina e aprendoti lo sportello come se tu fossi una nobildonna davvero degna del principe Amleto ti invitavo a scendere con un inchino maestoso, il cappello me lo ero piumato e ti facevo una grande scappellata. Oh, lontana Ofelia, era la fine degli anni sessanta, noi ci sentivamo giovani come eravamo, Londra sembrava una festa, e anche la vita. Forse la trovata più geniale fu adoperare quelle due grosse marionette settecentesche per fare Rosencrantz e Guildenstern. Due pupazzi meccanici di legno e di metallo costruiti da quegli antichi artigiani che pensarono in quell'epoca di produrre l'automa, simile in tutto e per tutto alla creatura umana, che muovevano i volti tristi sui quali avevamo collocato due lacrime da Pierrot, mentre due voci dalle quinte che recitavano la loro parte producevano un effetto di straordinario turbamento. Guardate, cari spettatori, i veri attori sono questi, sono marionette meccaniche con un registratore dentro la pancia di legno, non hanno viscere, non hanno cuore, non hanno anima, hanno solo trucioli e un

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nastro magnetico che finge le loro emozioni. Fatemi il vostro teatro, dico loro, Rosencrantz si inginocchia e le sue giunture metalliche scricchiolano sinistramente nella sala. Guildenstern ha assunto una posa penosa, come di chi ha il mal di pancia. Regge in mano una lettera, e la tende a Rosencrantz, che ha in mano una lettera che tende al re di un lontano paese. Sire, dice Rosencrantz, con questa lettera dobbiamo tradire il principe di Danimarca, la prego di accettarla perché così vuole il mio compare Guildenstern. Sire, dice Guildenstern, con questa lettera dobbiamo tradire il principe di Danimarca, la prego di accettarla, perché così vuole il mio compare Rosencrantz. Sire, dicono all'unisono Rosencrantz e Guildenstern, come pegno del nostro tradimento gradisca le nostre lacrime da Pierrot. Balzo in piedi, tutto ciò mi pare intollerabile, questi due stupidi manichini di legno stanno facendo leva sui miei sentimenti, cercano di impressionarmi, di toccare la mia parte più debole e vigliacca, mi ricattano, credono forse di prendermi nella loro trappola? Ah!, non è così facile con il baldanzoso principe di Danimarca. Egli sguaina il suo spadino, li punta, li sfida, li minaccia. Mascalzoni, guitti da quattro soldi, che neppure guitti siete perché creature meccaniche, pensavate di emozionare il vasto animo di un coraggioso principe? La testa di uno di loro, mossa dal meccanismo interno che la fa girare, si è messa di sbieco, affinchè il pubblico possa ben vedere la lacrima da Pierrot che gli solca la guancia, e il faretto dell'elettricista, come una punta di coltello, trafìgge quella lacrima, il cristallo di una chincaglieria che una volta fece da orecchino a una dama di basso rango e che abbiamo comprato al mercato delle pulci per appiccicarla su una guancia di questo finto attore. E come luccica, quella lacrima, falsa più di ogni altra cosa falsa, affinchè il pubblico possa piangere lacrime vere, per l'illusione che al prezzo di un biglietto gli vendiamo ogni sera. Ma il principe di Danimarca non permette che il pubblico pianga per un attore che non sia lui: avvicina lo spadino al collo del compagno di quel simulatore che finge di piangere, e gli chiede: piange?, chi è Ecuba per lui? Turbato, davvero turbato è quel giovane principe che gli spettri non fanno riposare, e tormentate sono le sue notti, perché sa che la nefanda regina giace con l'amante irridendo la memoria del padre. Si prende il capo fra le mani, si rivolge alla luna, è assediato dalla più cupa malinconia, ha l'animo nero di fuliggine. Povera piccola Ofelia, ti illudi di poter lenire le sue pene con le tue ingenue parole d'amore? Così passano gli anni, e si invecchia, attaccati alla maschera che ci è stata imposta, anche se la si è scelta noi stessi. Gli articoli sui giornali si fanno più rari, finché un giorno la stampa ti ignora. Il giovane pubblico entusiasta che un giorno ti sedeva davanti, ora porta con sé dei ragazzini: sono i figli che possono vedere già storicamente come una compagnia d'a-

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vanguardia degli anni sessanta seppe interpretare Shakespeare negli anni sessanta, ora che siamo alla fine del secolo. E in questo modo anche la tua morte è storicizzabile, mia piccola Ofelia, il tuo suicidio per un principe lunatico, la tua inconsolabile disperazione, il tuo fluttuare in un laghetto di plastica con una minigonna di Mary Quant. Senza accorgermene ero arrivato a Russell Square, poi sono entrato al Covent Garden e ho preso il biglietto per il Theatre Museum. E così mi sono messo a girare per le sale, finalmente come colui che guarda, non è guardato. E mi sono soffermato nelle stanze dove delle maquettes illustrano l'evoluzione della sala degli spettacoli da Shakespeare fino ad oggi, e poi le stanze dove sono appesi i manifesti, i programmi e i costumi delle messe in scena più celebri di ciò che per oltre vent'anni abbiamo rappresentato. Ed è stata per me una sorpresa venata d'angoscia vedere come tutto invecchia nel teatro meno che lo spirito del teatro stesso. L'antica, immutabile tragedia del bizzarro principe di Danimarca e della sua infelice innamorata restava identica in ogni epoca, e invece come erano brutti e fuori tempo i volti e i costumi degli attori, e le scenografie. Era tutto vecchio, e fuori moda, perché anche nel tentativo di copiare l'antico ogni epoca lasciava indelebilmente impressa nelle vesti e nei volti degli attori se stessa e il tempo che portava con sé. E ho pensato che fra non molto ci saremo stati anche noi, fra quei manifesti e quei costumi: io con i miei capelli sul colletto alla Beatles, che ormai si stanno facendo radi, e tu, povera Ofelia, che ho costretto ogni sera a suicidarsi in minigonna. E davvero un brivido mi ha preso, e una sorta di follia: le sale erano deserte, ne ho scelta una dove una celebre attrice degli anni trenta mi guardava con lo sguardo tragico e opaco da un manifesto ingiallito. E allora non so cosa mi è preso, mi ci sono inginocchiato davanti, le ho detto Pray, love, remember, e le ho parlato delle viole del pensiero e le ho detto che la lingua parla con note strane, è guizzante come quella di un serpente, scivola di traverso, e poi le ho detto: Chiuditi in un convento: vorresti diventare un'allevatrice di peccatori? Anch'io sono onesto - pressappoco -, eppure potrei accusarmi di cose tali che mia madre avrebbe fatto meglio a non mettermi al mondo. Sono orgoglioso, vendicativo, ambizioso; ho più peccati sottomano che pensieri in cui versarli. Perché gente come me deve starsene qui, a strisciare fra cielo e terra? E ho abbracciato l'aria davanti a me come se quell'essenza di Ofelia a cui mi rivolgevo fossi davvero tu, e mi è parso che per la prima volta in vita nostra avessi saputo esprimerti il mio amore, il mio eterno incommensurabile amore che tuttavia è malato, perché il Principe sta male, cara dolce Ofelia, lo rode un morbo sconosciuto che gli prosciuga l'anima e allo stesso tempo gli riempie il corpo di umori biliosi e maligni, ah, ma chi è mai costui che per tanti anni io sono stato e che an-

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cora non conosco?, chi è questa creatura tormentata da dubbi e insonnia che attende spettri e crede all'Eterno? E perché quell'essere stolto e contorto lasciava che tu, gentile Ofelia, ti affogassi tutte le sere in una vasca di plastica con una minigonna bianca di Mary Quant? Non potevo forse dirti una parola di più? Era così obbligato e immutabile il copione che dovevo seguire? No, non lo era. Mi sono buttato ai tuoi piedi e finalmente davanti alla fotografia ingiallita di quella vecchia attrice ti ho detto parole che non ho mai potuto dirti in tutti questi anni. Sono parole povere, perché io non sono quel grande drammaturgo che ci ha imprigionato a essere ciò che siamo, ho un'infanzia povera che sa di miseria e di periferia, sono solo un povero attore, e i miei accenti sono contati. Ma ti ho detto: dolce Ofelia, sai, io non volevo farti il male che ti ho fatto, io avrei voluto essere con te onesto e normale e tributario, come sono tutti gli uomini che rientrano a casa e pagano le tasse, e che sanno che la pensione gli è dovuta perché hanno fatto un onesto lavoro per tutta la loro vita, hanno archiviato le cartelle delle tasse altrui, hanno timbrato carte in qualche ufficio dello stato, hanno forato i biglietti dei passeggeri sui treni che percorrono il nostro Paese. E ti ho fatto una poesia, scusa i poveri versi, sono estrapolati come chi ricorda a sprazzi e sbalzelloni: O cosmetici del cielo, guarite la mia innamorata! Essa ha l'occhio glauco, e piange per la mia negrezza. Porto un nero mantello, e nero è il mio animo, dicono, ma io ti amo, dolce Ofelia, ho un animo candido, più bianco della tua minigonna. E come gli uomini di cui ti parlavo, gli onest'uomini che arrivano alla meritata pensione, o mia dolce Ofelia che hai sopportato la mia noiosa presenza per tutta la vita, vorrei che tu mi dicessi: Richard, è arrivato il nostro nipotino, è di là nella sua cameretta, ora vado a chiamarlo affinchè tu possa giocare con lui. E anche se noi non abbiamo un nipotino perché non abbiamo mai avuto figli e ti sei suicidata prima che ciò potesse avvenire, tu andrai leggiadramente nella camera degli ospiti con un'onesta vestaglia e delle pianelle foderate di finto raso, non con una minigonna di Mary Quant, e tornerai in salotto con un bambino per mano dicendo, Francis, dai la buonasera al nonno, che è tornato dal lavoro e ora giocherà con te. Ah, ma io sapevo che il piccolo Francis sarebbe stato nostro ospite questo week-end, non sono mica così ingenuo come tu pensi, mia piccola Ofelia, e infatti guardate un po' che sorpresa ha portato con sé il nonno? E così apro il pacchetto che recavo sotto il braccio con fare indifferente e ne estraggo un trenino in miniatura che farà la delizia del pic-

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colo Francis. Ci sono le appropriate montagne e gallerie che la locomotiva deve attraversare, un laghetto fatto di carta stagnola, due passaggi a livello e un villaggio del tutto simile a quello in cui stiamo vivendo, perché è bello vivere in campagna alla nostra età, vero Ofelia?, sai, quando tu mi chiedesti di abbandonare Londra feci un po' di resistenza, credevo che mi avrebbe preso la malinconia a vivere fra prati erbosi, greggi di pecore e come unica distrazione il pub del centro. E che felicità per il piccolo Francis che fin dall'anno scorso desiderava un giocattolo come questo. Troppo costoso, mi avevi detto lo scorso Natale, ma ora, scusami, ho davvero fatto una pazzia, sai, la buonuscita della pensione mi consente una piccola follia economica che possa rendere felice un nipote delizioso come il nostro, e come mi piace vedere che finalmente anche tu sei d'accordo, anzi, sei felice, e come ti rallegra metterti subito a giocare con il tuo nipotino, lo desideravi da tempo, vero?, ma il tuo senso dell'economia non te lo aveva permesso, e così restiamo tutti e tre affascinati, anche noi come due bambini a guardare il trenino meccanico che gira in tondo attraversando monti, valli e villaggi, mentre solo premendo un piccolo bottone il passaggio a livello si chiude lasciandolo avanzare nella sua corsa trionfale. E in quel momento un guardiano si è fatto sulla porta e mi ha scrutato con aria allibita. Che cosa sta facendo?, mi ha chiesto con tono inquisitorio. Sto recitando un monologo di Amleto a Ofelia, gentile signore, gli ho risposto. Questo non è un luogo per comizi, ha risposto con aria burbera il guardiano, per quelli c'è Hyde Park, dove ciascuno può dire ciò che vuole. E come potevo spiegargli che quello era il monologo di Amleto, il mio monologo, quello che avrei dovuto farti davvero, dolce Ofelia, invece di mormorarti quelle parole sconnesse che ti hanno condotta al suicidio ogni sera. Sono uscito all'aperto e ormai era notte. Le luci di Londra, rare, brillavano nel parco. Dietro si indovinavano i palazzi della città, la vita. Ho saputo solo ieri che abbandonerai la nostra piccola compagnia. Tu sei l'attrice più brava di tutti noi, o almeno, se noi siamo completamente dimenticati, tu sei quella che la stampa ricorda ancora. Ma non credo sia per questo che hai deciso di entrare in un altro dramma. Non è perché sei brava, è perché sei stanca: stanca delle mie parole sconnesse, stanca di morire ogni sera. E forse hai anche voglia di amare, in una forma che io non ho mai saputo darti. Conosci i rischi che il nuovo amore ti darà, ma li preferisci alla mia inconcludente follia. Sarai sedotta dal Don Giovanni, perché essere sedotta è il tuo ruolo, e sedurti il suo. Ma almeno, per il tempo che ti resta, quale novità, che boccata d'ossigeno! A me non piace Don Giovanni, e non potrei essere un buon attore per quel personaggio. Anche se non sembra è più tragico di me, seppure così educato, e apparentemente spensierato, e cortese, e con un grande senso della civiltà dei

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costumi, è molto più pazzo di me, perché è banale, anzi, forse è un vecchio idiota che intende il mondo come una femmina, e che vorrebbe copulare con esso. E' un semi-impotente, e per eccitarsi ha bisogno di esercitare le sue misere arti della seduzione. Lascerò che le eserciti su di te, e che faccia il suo ruolo, come il copione richiede, perché io non potrei mai essere lui. Ma io non voglio perderti, piccola Ofelia, non posso, per questo anch'io abbandono la compagnia e ho chiesto di darmi una parte in questa nuova rappresentazione che ci sta facendo concorrenza. Ho specificato che accetterò qualsiasi parte, anche la più meschina, anche la più insignificante, perfino travestito da donna, pur di essere sullo stesso palco in cui reciti tu. Potrei dirti come se tu fossi Mathurine: lasciatele credere quel che vorrà. O come se tu fossi Carlotta: lasciate che si culli nella sua immaginazione. O come se tu fossi di nuovo Mathurine: ogni altro sembiante è laido, comparato al vostro. O come se tu fossi di nuovo Carlotta: le altre non si tollerano, dopo che si è conosciuta una donna come Voi. No, questo non va bene, questo va bene per il tuo dongiovanni, che ti ha fatta sua nella casa di Uguccion della Faggiola e nel suo lettone di amante fatale. Questa parte non spetta a me, io non posso essere il tuo seduttore, a me spetta piuttosto una parte da spettatore, ma non colui che sta su una poltrona della platea, piuttosto di uno che ti guarda con la faccia impietrita dal tempo e dal tedio di averti tormentata per così tanti anni. E dirò, ma piano piano, con voce dolce: non si pasce di cibo mortale chi si pasce di cibo celeste: altre cure più gravi di questa, altra brama quaggiù mi guidò. No, niente di tutto questo, io sarò lo Spettro, la dama velata che fa lo Spettro, e con grave voce di profondo biasimo, dirò: a Don Giovanni non resta che un momento per profittare della misericordia celeste, e se il suo pentimento non sarà immediato, segnata è la sua perdizione. E allora quel tronfio del tuo dongiovanni risponderà: chi osa pronunciar cotali verbi?, mi par di riconoscere questa voce. Signore, è uno spettro, interloquirà quel pollastro di Sganarello, lo riconosco dal passo, Signore. E allora il tuo dongiovanni, ancora più smargiasso, griderà: spettro, fantasma o diavolo, voglio veder chi è! Ed ecco, mia dolce Ofelia diventata Elvira diventata Carlotta diventata Mathurine, che il tuo Amleto, diventato finalmente lo spettro con il quale si tormentò per tutta la vita, potrà fare la sua vera parte, e come vuole il copione alzerà il velo nero che avvolge la sua figura e rappresenterà il Tempo senza scampo e senza rimedio che con la falce recide la vita degli uomini. E il tuo dongiovanni impallidirà dal terrore, ma io non reggerò la falce, ma la piuma del mio cappello di Amleto, e con quella, come se scrivessi nell'aria, comincerò a cantare: "Querida, nào quero despedida, eu fui feito pra Voce, foi tào bom te conhecer na vida, nào tem outra saida, Ofelia cara, non posso dirti addio, fui creato per te, è stato così dol-

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ce averti nella mia vita, è una strada senza uscita", che è la canzone Feito pra Voce del Grupo Raca che mi sto imparando a memoria, sai, mi sono messo a studiare il brasiliano, è proprio una lingua fantastica, e così più amorosa della nostra, se Shakespeare fosse stato brasiliano non mi avrebbe mai fatto dire le parole che ti ho dovuto dire tutta la vita, e poi nel Grupo Raca ci sono sambisti di ogni colore, come sono i brasiliani, mi pare più attuale dei Beatles, che ormai hanno fatto il loro tempo e il nostro, e tu da dietro le quinte mi risponderai: "Foi un rio que passou na minha vida, è stato un fiume che è passato nella mia vita", che vista la fine che ti ho sempre fatto fare produce un certo effetto, e a quel punto Don Giovanni diventerà rigido come un cadavere, non ci sarà bisogno neppure del Commendatore per farlo sprofondare negli inferi che si merita, quel tardo dongiovanni di periferia, perché di pietra sarà diventato lui, anzi di sale, come una statua di sale, e tu mia dolce Ofelia, finalmente vestita da Ofelia entrerai in scena e mi griderai: mio dolce principe, non mi ero mica suicidata, ero solo andata a prendere una boccata d'aria fresca al laghetto, passeggiare di sera mi fa bene, mi restituisce il senso della realtà, ma che gioia trovarvi di buonumore. E mentre la musica del samba cresce di intensità, ci abbracceremo in mezzo al palco, intanto il sipario cala lentamente, vedrai il pubblico come si entusiasmerà, andrà in delirio, comincerà ad applaudire e a battere i piedi come nel millenovecentosessantotto, quando facevamo le prime rappresentazioni, vero, piccola Ofelia? Strana forma di vita. Erkennst du mich, Luft, du, voli noch einst meiniger Orte? (RAINER M. RILKE, I sonetti a Orfeo}. Amore mio, strana forma di vita questa, in cui una notte capita di svegliarsi nel buio, si sente cantare un gallo e ci pare di essere nella fattoria in cui si passò l'infanzia. Si fissa l'oscurità con gli occhi spalancati e si aspetta che faccia giorno, e intanto la tua infanzia è lì, presente, accanto al tuo letto, potresti quasi prenderla per mano, ma sì, prendi per mano la tua infanzia, ti dici, dai, abbi il coraggio, anche se è passato tanto tempo, anche se la vita sembra averla sepolta, essa è lì a pochi centimetri, hai l'infanzia a tua disposizione, dai, prendila per mano, coraggio. Tendi la mano nel buio e la senti, la tua infanzia. Essa ha la figura di una bambina, una bambina con la quale stai attraversando la tua infanzia dandole la mano. Ah, ma essa non è l'infanzia che tu avesti a Barcellona, passata in una casa borghese piena di mobili antichi e quadri di antenati nazionalisti - gente perbene, comunque -, banchieri, uomini danarosi con dei baffi così virili, così virili come si devono

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avere per essere un buon cittadino che pensa alla moglie, alla famiglia, alla patria, ai soldi, e un poco anche all'amante, perché l'amante viene dopo tutto, come una serva; no, non è questa infanzia, vattene via infanzia che ti spacci per vera solo perché sei la mia infanzia dell'anagrafe, sai, la vita non è anagrafica, essa è sempre e comunque altrove, l'infanzia vera è quella che ti scegli da grande, o da vecchio, e allora prendi per mano la tua falsa infanzia verissima, ed essa è una bambina con due zoccoletti di legno che saltella sulla sabbia, davanti a te c'è un'immensità di mare azzurro, ed è l'estate, e la bambina saltella e dice: così fanno i burattini, e poi continua: gironflè, gironflà, perché stiamo facendo un gioco, vuoi giocare con me, Enrique?, facciamo un girotondo in due. Oh, le dice Enrique bambino che ha preso troppo sole e gli hanno spalmato sulle gote arrossate due dita di crema: ma tu vieni forse dal quartiere Col¢n? Stupido, stupidissimo Enrique, il mondo non è solo Col¢n che scopri il Nuovo Mondo, il mondo è il mondo, contiene un quartiere Col¢n ma anche una piazza Ciro Menotti, un boulevard Jourdan, una Clot Fair, ma soprattutto guarda, piccolo Enrique stupidino, contiene questa granja, una bella e vecchia casa-fattoria, o anche albergo, o come lo vuoi chiamare tu, i nostri genitori sono andati al club a prendere il tè e a giocare a canasta, ci passeranno il pomeriggio in quella stupida Capannina di fattoria, e magari i nostri papà giocheranno anche a biliardo, che è un gioco che imita la vita perché è pieno di angoli retti, ottusi e acuti, che è il percorso che devono fare le biglie, ma noi invece gireremo in circolo, il girotondo si fa beffa degli spigoli, vero piccolo Enrique? Sì, sì, è vero, sussurri nell'oscurità alla tua compagna d'infanzia, che desideri diventi anche la tua compagna di banco, tua compagna di letto, tua compagna di sempre, e che probabilmente non lo sarà mai, ma ora questo non importa affatto al piccolo Enrique, lui ora è felice, ha dato la mano alla sua vera Infanzia, e insieme fanno il girotondo sulla mezzarancia, che è un mezzo circolo piastrellato di porfido su quel lungomare lunghissimo che avanza leggermente verso la spiaggia ed è anche un po' rialzato rispetto al resto del lungomare, e da lì si vede il mare come da nessun altro posto. E oggi non si va in spiaggia, no perché è libeccio, ed esso durerà tre giorni, è un vento caldo che porta tempesta sul mare e nervosismo nel corpo, ma Enrique e la sua Infanzia non sono nervosi, fanno il girotondo e cantano una canzoncina. Na auséncia e na distància, canta una voce per strada, e subito dopo grida: laranjas, laranjas ! E' necessario passare dall'infanzia alle categorie del presente, l'alba occhieggia alla finestra, e una venditrice ambulante ha imparato una canzone di Cesària vora: l'Africa, che il Portogallo conquistò con armi e vascelli, dove portò la civiltà di Cristo, la lingua dell'Occidente, e la schiavitù, ora ritorna come una nemesi, ri-

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torna con il suo creolo colorato che una venditrice di arance di Oporto ha imparato forse senza sapere che l'Africa si riflette in lei, e lei canticchia: mansinho, lua cheia, e cerca di imitare la pronuncia di Cesària, ma non ha i piedi scalzi come Cesària, calza mezzi stivali di gomma che l'aiutano a non scivolare sul marciapiede umido di questa giornata d'inverno sulla Ribeira di Oporto. Canta l'Africa. Africa, ah, Africa che non ho mai conosciuto, Africa madre, Africa ventre, Africa che la mia Europa ha stuprato per secoli, Africa immensa, povera, malata eppure ancora allegra nonostante il cancro che ti rode, Africa che dici nha desventura, nha crecheu come si dice amore nella tua lingua che abbiamo imbastardito e che ora canta una popolana di Oporto, crecheu crecheu crecheu, nha desventura, Africa che maledetti banditi continuano a stuprare, Africa dove la luna è enorme e rossastra come si legge nei libri esotici, nell'assenza e nella distanza che mi separa da te, Africa dove molti continuano a scrivere per servitù nella lingua che io scrivo per libertà, puristi più dei puristi, come se le bidonville di Luanda, i terreni minati degli assassini fossero la loro Real Academia, il loro Port Royal, oh Africa del nomade Kapuscinski, del magnifico Luandino, oh Africa che ora passi sotto le finestre di questa pensioncina della Ribeira di Oporto attraverso l'imitazione incerta di una venditrice di arance, Africa, per favore riportami a casa mia; la mia casa che desidero, se ho ancora una casa, ecco, ora è giorno pieno, il sole d'inverno getta un raggio sulla coperta raggrinzita in fondo al letto, è ora di alzarsi, è ora di uscire, è ora di pensare chi non sei, così ti dici in silenzio, è davvero l'ora di pensare chi non sei. Mia cara, a questo pensavo mentre mi stavo rivestendo, ora la luce invernale che viene dalla foce come un abbaglio si è fatta violenta nella stanza che riproduce i poveri pastorelli di Fatima che l'ingenuo pittore ha ritratto con l'espressione di ritardati mentali che meritano il Regno dei Cieli, come ogni ritardato mentale secondo la frase allarmante che pronunciò il Cristo. Ti rivesti e sai che è l'ora di finire il tuo viaggio il cui scopo ti era ignoto e che invece, con una chiarezza, più abbagliante della luce del giorno, hai la consapevolezza di conoscere, di possedere, di avere fatto tuo, e vorresti che questa certezza fosse accompagnata dal concerto per piano e orchestra in do maggiore di Mozart, perché ne senti la musica, ma vuoi l'allegro vivace con la cadenza Senkin eseguito dalle dita magiche di Maria Joao Pires, e vuoi l'allegro vivace perché via, Enrique, il tuo viaggio si è fatto un allegro vivace, da quando, ieri sera, prima di addormentarti, hai letto il libro misterioso che hai trovato per caso nel cassetto del comodino. E quel libro di un autore che già prevedeva tutto di te, il tuo itinerario, il tuo percorso, ti ha fatto pensare che forse stavi inseguendo il tuo futuro e allo stesso tempo ti ha fatto riacquistare il senso di ciò che smarristi; è il tuo viaggio in verticale,

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il tuo viaggio nella vera fine implacabile e inconsapevole è come se si fosse messo in orizzontale: è vero !, è vero !, tu sei mobile e il tempo ti sta attraversando, e il tuo futuro ti sta cercando, ti sta trovando, ti sta vivendo: ti ha già vissuto. Trovare un libro che parla della tua vita in un cassetto di una pensione di una città sconosciuta ti sembrerà un luogo letterario, vero, amore mio? Potresti dirmi, ma cosa mi stai scrivendo? Potrei risponderti: chi mi sta scrivendo? Giusto: chi mi sta scrivendo, e di cosa ti parlo, infine? Ti parlo di ciò che è successo, di ciò che il mio ri-futuro vuole che io sia, il percorso inverso, complementare e necessario di un libro trovato per caso nel cassetto di una pensione di Oporto. Che era una città per me sconosciuta fino a quando, ieri sera, prendendo possesso della camera di questa pensione (una camera sul retro con carta ingiallita alle pareti) ho capito senza possibilità di errore che stavo percorrendo in senso inverso il tragitto che uno scrittore sconosciuto aveva deciso per me. Mar azul, assim mansinho, ho letto quel libro, mia cara, e parlava del mio percorso: un tuffo in verticale in un mare azzurro, tranquillo, che mi inghiottiva nella sua tranquillità azzurra. Quel libro aveva preso i miei ricordi, come se li conoscesse meglio di me, i ricordi della mia giovinezza, i ricordi di quando coglievo papaveri sul bordo di una strada in una pianura di grano, i ricordi dei libri letti, delle persone conosciute, perfino di un viaggio che feci in un arcipelago che forse non esiste più, trasognato e in preda alla smemoratezza, quando la luna è più diletta e all'orizzonte è serena ogni montagna, e ancor non ti rimembra non a quanti oggi piacesti, ma a coloro che devi ancora incontrare, perché è il mio ieri, e sono già passato da qui, quel libro lo sapeva, aveva già scritto il tempo che dovevo attraversare. E diceva: "Ricordo che nel mio viaggio alle Azzorre entrai nel Peter's bar di Horta, un caffè frequentato dai balenieri, vicino al club nautico: una via di mezzo fra una taverna, un luogo di incontri, un'agenzia di informazioni e un ufficio postale. Il Peter's è finito col diventare il destinatario di messaggi precari e avventurosi che non disporrebbero altrimenti di un altro tipo di indirizzo. Dalla tavola di legno sulle pareti del Peter's pendono appelli, telegrammi, lettere in attesa che qualcuno venga a reclamarli. Su questa bacheca io trovai una misteriosa successione di note, di messaggi e di voci che sembravano avere una stretta relazione fra di essi, come se viaggiassero in una carovana immaginaria di ricordi inventati, voci portate da qualcosa, ma è impossibile dire cosa". Quel libro sapeva tutto, davvero, anche che la mia sarebbe stata una caduta libera fino al nulla del nulla. Ma non sapeva che non sarebbe stato un viaggio di andata, sarebbe stato un viaggio di ritorno. O mar, mar azul, canta la venditrice di arance, piquinino mar, e così sono sceso per strada, amore mio, ormai il giorno pieno e il sole d'inverno rifacevano un'estate lontana, e io dovevo rimembrarmi a chi ieri piacesti co-

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me se tu avessi ancora da piacergli, e mi sono chiesto il perché di questo mio viaggio che quel libro misterioso nascosto in un cassetto della mia camera descriveva soltanto in un senso. E perché dunque dovevi piacere al fantasma di Don Giovanni o James Stewart che dir si voglia, e perché lasciasti che ti piacesse quel vecchio scemo profumato di colonia, e perché dovevi piacere al fuoco fatuo di quel perverso di un Leporello, e perché lasciasti che quel perverso ti piacesse, e ho comprato delle arance e le ho mangiate andando verso il mare, o mar, mar azul, mar piquinino, ho percorso le stradette della Ribeira, scegliendo la causalità delle strade, perché le strade sono un luogo ideale per la causalità che offre la vita, guardando le barche che scorrevano nella lenta corrente del fiume. Finalmente sono arrivato alla foce, finché mi sono trovato davanti alla spiaggia. Mi sono messo a pisciare contro il mare, usufruendo del vento che proveniva dalle mie spalle. E' passato un signore vestito da accademico, con il tricorno, lì per lì mi è sembrato Marinetti, mi ha lanciato uno sguardo che mi è sembrato di disapprovazione, e gli ho detto: non si scandalizzi, signor accademico, sto aggiungendo all'oceano una goccia d'acqua, pisci anche lei contro il mare, vedrà che le farà bene, e stia attento di non farsela sulle scarpe, perché agli accademici può capitare. Mare grande, il mare è davvero immenso, amore mio, mar azul, ma la lua cheia non c'era ancora, c'era una striscia violetta sull'orizzonte che cangiava sull'arancione, forse si preparava una burrasca, ho capito davvero che stavo percorrendo all'inverso il percorso che il libro misterioso aveva tracciato per me, c'erano delle vele sul mare, e ciò lo rendeva davvero piccolino, sono rientrato verso la città, camminando lentamente. Ho attraversato di ritorno quella stradetta di periferia, cercavo la rua Fereira Borges, ma nessuno sembrava conoscerla, a un certo punto ho avuto l'impressione che mio zio Federico Mayol attraversasse una piazza sotto una pioggerellina fine che si era messa a cadere. Ho cercato la posta e ho spedito il telegramma che era necessario spedire al tuo Commendatore e al tuo Leporello: le mie più sincere condoglianze, ho scritto loro, sono certo che lei vi mancherà molto. E in quel momento ho capito che potevo davvero tornare a casa, potevo persino lasciare il mio bagaglio alla pensione, non c'è dentro niente, oltre a quattro camicie e a due libri che ho letto e riletto: uno sono i fantasmi che uno scrittore messicano incontrò in una notte di sogni, i fantasmi del signor Pàramo, l'altro è il Vangelo di quell'ottimista di Giovanni, che ho tanto amato e che credette tanto nella parola, perché in principio era la parola ed essa era la vita e la vita era la luce degli uomini. E mi sono incamminato a piedi verso casa, verso la mia casa. La Catalogna non è troppo lontana, in fondo, si può fare la strada anche a piedi. Ma tu, amore mio, ci sarai di nuovo? Avrai fatto come me il tuo viaggio di ritorno e tutto starà per incominciare di nuo-

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vo, ripartendo dal principio?

Vigilia dell'Ascensione. Mia dolce ragazza dolente, dolente ti ho resa io, lasciandoti. Ma non fu colpa mia, lo sai, anche se non ha senso parlare di colpa, e poi tu non hai mai potuto sopportare la parola "colpa". E' vero, è una parola insopportabile. Diciamo che fu per via delle galline livornesi, continuiamo a chiamarle così nel nostro vecchio codice, perché un trapianto non è uno scherzo, lo sappiamo, con tutto il resto che stava intorno a quella bella robina lì. Ma non ne parliamo più, va bene? Senti, anche ieri notte, che è la notte più bella che ho passato in questi anni, la più dolce, la più chiara, la più lunga, mentre ti tenevo di nuovo fra le braccia, ho pensato: non devo pensarci più, non dobbiamo pensarci più, è andata così, nella vita succede. E intanto sentivo suonare le campane di quel villaggio immerso fra gli ulivi che si intravede dalla finestra dell'alberguccio dove siamo andati a finire dopo esserci aggirati per le campagne durante tutto il pomeriggio. Prima la locanda del Grillo Parlante. Ci siamo detti: neanche per sogno, di grilli parlanti ne abbiamo avuti fin troppi in vita nostra. Ti ricordi Rino, per esempio? Sai che mi è venuto in mente Rino, ieri notte? Già, Rino, un delio il Filippino sbucato da una profondità di tempo. Ma che anni erano, ti ricordi? Il Settantasette, il Settantotto? Beh giù di lì: Rino, lo sputasentenze, quello che diceva che se il mondo è paradossale niente è più paradossale della vita che si sposa con la morte. Se ben ricordo a te non dispiaceva, ti pareva un uomo interessante, scriveva saggi complicatissimi su una rivista parauniversitaria che non leggeva nessuno. "La visione rende l'estasi più serena", amava dire citando a sproposito Edgar Allan Poe. Secondo me si bucava, a quel tempo si bucavano tutti, e chi non si bucava bucava gli altri con la rivoltella, bucarne uno per educarne cento, se così si può dire. Poi si scoprì che la rivista non era parauniversitaria un bel niente, faceva solo da copertura a un gruppuscolo di esagitati con finanziamenti che pare venissero da Imelda Marcos, figurarsi, quella che collezionava scarpe per sé e nodi scorsoi per i suoi concittadini. Insomma, con quello sputasentenze del Rino un piccolo flirt ce lo avesti pure, se non altro intellettuale, visto che quando lo misero dentro per motivi precauzionali, come si usa da noi, ci scambiasti una fitta corrispondenza farcita di Nietzsche e di Shakespeare, mica scherzi. Ma chissà perché ti vengo a parlare di queste cose, è perché ieri notte, davvero, ho pensato a quanti grilli parlanti ci siamo dovuti sorbire fino alla nostra età. Ma ora, finalmente, basta.

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Di grilli ne ho sentiti, ieri notte, ma con tutt'altro suono. Sono i grilli che annunciano l'estate che sta entrando e che penso di passare con te. I grilli delle nostre feste del grillo di quando eravamo bambini, quelli che durante la notte morivano su una foglia di insalata nella gabbietta in cucina, anche se questi qui erano invece grilli liberi, contenti, li sentivi da come canticchiavano, sembrava che dicessero "domani è il primo giugno, festa dell'Ascensione". Ma che festa è poi, quella dell'Ascensione, dove si ascende, e chi ascende? In casa mia non c'erano feste cattoliche, come sai, ma forse in casa tua sì, perché mi ricordo la fotografia del tuo matrimonio in cui indossi un abito bianco, hai un velo sulla testa e sei inginocchiata davanti a un prete. Però, anche se noi eravamo di un altro credo, per noi bambini era bella la festa dell'Ascensione, perché al paese facevano dei dolcetti di pasta fritta cosparsi di zucchero a velo, e una vicina li portava a casa per me e per mio fratello, a me e a Ferruccio piacevano proprio da morire, e nostra madre li nascondeva dicendo il segreto solo a noi, altrimenti nostro padre li buttava via protestando che la vicina voleva convertirci. Ho perso il filo, come al solito. Sarà perché mi è difficile continuare, ma già che sto divagando, e visto che ti parlavo del Rino, ti voglio dire che (ma forse lo sai già) è diventato un pezzo grosso di una possente casa editrice il cui proprietario è uno di quelli che ai nostri tempi si chiamavano "padroni". Il Rino le ha fatte proprio tutte, è davvero da bosco e da riviera. Ora finalmente ha la Voce del Padrone, e forse ha raggiunto la pace dei sensi. Ma guarda la memoria che hanno certe persone: il mese scorso mi ha scritto una lettera, una lettera elegante, di quelle su carta intestata. E sai cosa si ricordava, ma in maniera millimetrica, come se lo avesse registrato nel suo cervello?, si ricordava i testi che vi lessi quella sera dopo la conferenza del vecchio filosofo anarcoide, e finimmo tutti a casa sua, del Rino, e io avevo i miei appunti sotto il braccio e ve li lessi, ti ricordi?, erano appunti sugli artisti che in vita loro avevano preso droghe, l'abbozzo di un libro che avevo intitolato l'immaginazione artificiale, ricordi? Bene, quello che è davvero straordinario è che il Rino nella sua lettera specificava con minuzia quelli che non voleva. " Non mi interessano Coleridge e De Quincey," diceva, "tanto lo sanno tutti che erano oppiomani, né Gautier, né Baudelaire, né Rimbaud, né Artaud, né Michaux. Vorrei soprattutto le pagine sul Savonarola che scrisse In te Domine speravi sotto l'influsso del làudano, perché tu spiegavi bene come il Savonarola si faceva il làudano, mescolato con ruta e mirra e miele, e quali effetti mistici gli provocava. Poi mi interessa Barbey d'Aurevilly, perché tu scrivesti che all'etere mescolava acqua di colonia. E poi voglio le pagine su Nietzsche, che senza la morfina non avrebbe mai scritto lo Zarathustra, e Stevenson, che senza la morfina non avrebbe mai conosciuto Mr

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Hyde; e poi Yeats, quel misticone folclorista di Yeats che insieme a quell'altro fanfarone di Ernst Down provò fra i primi al mondo la mescalina, e senza di quella, buonanotte Rosa mistica. E poi voglio Bali, quel pazzo del cabaret Voltaire, senza il quale il Dada avrebbe fatto dodo, lui e la sua eroina inventata proprio in quegli anni; e la cocaina di Trakl, la morfina di Adamov, il lisergico di Jùnger, e soprattutto Drieu, quel povero fascistone di Drieu La Rochelle, lui e le sue siringhe, la sua valigia vuota e il suo suicidio." Ho trascritto fedelmente, sono parole sue, ho la lettera sotto gli occhi. E conclude dicendo: "Un libriccino così, scritto come da un Borges che si batte per la liberalizzazione della droga, sarebbe il best-seller dell'anno". Evviva! Ho risposto con una frase magica: preferisco di no. Sai, mia dolce ragazza dolente, "preferisco di no" è stato il mio motto più frequentato in questi ultimi anni. Il mondo è pieno di gente e tutti vogliono qualcosa. In questi miei viaggi lontani ho dato molto, lo sai, ma quasi sempre a persone che non chiedevano niente perché non si aspettavano niente dagli altri e dal mondo. Ricordo certi sentieri di certi paesi dell'America Latina per i quali raggiungevi villaggi miserabili, e non di rado incontravi un vecchietto scalzo, con la camicia a brandelli, appoggiato alla sua zappa conficcata in un terreno sterile, e ti guardava con gli occhi sereni e normali di chi ha da dirti solo buonasera: e allora sì, davo quello che avevo, anche tutto, perché in questi momenti bisogna dare tutto. Mia dolce e carissima donna, anzi, amatissima donna, perché questo è ciò che il nostro ritrovarsi ha provocato: amatissima, e non carissima. Amatissima donna, che è quanto ho cercato di rimuovere in questi anni, mentre ti scrivo immagini e parole affollano la mia mente, come quando si resta imprigionati in un sogno: le tue spalle, che ti circondo con le braccia nella semioscurità, le parole che mi sussurri all'orecchio, il contropiede che mi fai nella conversazione notturna, gli scoppi di risa simultanei, successivi e prolungati, per le tue scemenze che tanto mi piacciono, e perfino il tuo modo di stringermi la nuca scuotendola teneramente con gesto di falso rimprovero (chiorbina matta!). E queste immagini che ti descrivo, mia amatissima donna, sono di rammarico e di rimpianto, perché nessuno potrà ridarmi il tempo che ho lasciato colare fra le dita degli anni, nessuno potrà restituirci ciò che abbiamo perduto solo perché io non ho avuto la forza di non perderlo. Ma forse lo ritroveremo, questo tempo perduto, mio dolce amore, io lo so che lo ritroveremo, perché mi è bastato vedere come eravamo ancora giovani e vigorosi e appassionati per capire che il tempo perduto a volte si ritrova soltanto in poche ore, quelle ore in cui ti ho sentito gridare di piacere per tre volte di seguito, e poi all'alba, nel dormiveglia, mentre ti tenevo stretta abbracciandoti da dietro, e tu ne hai approfittato per il tuo piacere e il mio.

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Oggi sono sicuro che questo piacere continuerà per sempre. Ho il solo piccolo disappunto che domani, in questa festa dell'Ascensione che segna l'entrare del giugno non potremo vedere insieme le spighe di grano quasi mature che si vedono da questa mia finestra. Ma capisco che se devi andare a recuperare quei documenti di cui mi hai parlato tu non possa ritardare neanche un giorno. Mi hai detto che in quelle carte c'è un pezzo di storia importante di questo Paese spesso senza storia, e penso che l'archivio di stato, ma soprattutto i cittadini, te ne saranno grati. Ti aspetto dunque la sera del due giugno che in fondo per me ha più senso, visto che è la festa della Repubblica. E il biondo delle spighe non sarà certo molto più giallo di quanto non fosse ieri. Il tempo per me si è come fermato, sai?

Occhi miei chiari, miei capelli di miele. Buon topo d'altra parte, e da qualunque filosofale ipocrisia lontano, e schietto insomma e vender, quantunque ne' maneggi nutrito, e cortigiano; popolar per affetto, e da chiunque trattabil sempre e, se dir lice, umano; poco d'oro, e d'onor molto curante, e generoso, e della patria amante. (GIACOMO LEOPARDI, Paralipomeni). Occhi miei chiari, miei capelli di miele, tu sai quanto e da quando ti ho desiderata: dal primo giorno che ti ho vista. Ma allora, cent'anni fa, tu eri una giovanissima donna, anzi una ragazza nel fiore degli anni. Certo, tu non eri la piccola vergine né io il signore perverso come vuole il romanzo scandaloso di quel Russo esule anche da se stesso. Ma la nostra storia potrebbe cominciare ugualmente così, perché come in quel romanzo il tempo è fondamentale, nella nostra storia: il tempo fatto di niente, come le cose anch'esse fatte di niente: un "petit rien" che ci fa pensare che cosa guida le cose: a volte un niente. Dirti che ti ho desiderata dal primo momento che ti ho vista è un luogo comune, ma è così. Ma allora, cent'anni fa, tu eri appunto una giovanissima donna, una ragazza in fiore pronta a schiudersi a chi la cogliesse, io un austero signore dell'età di tuo padre, e quello un luogo di vacanze per famiglie. E con le famiglie abbiamo continuato a vederci ogni inverno, di solito in febbraio, che poi per te erano vacanze davvero, per me sette giorni scarsi, la cosiddetta "settimana bianca" che mi consentiva il giornale di provincia dove mi guadagnavo la vita.

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Uno stipendio non eccelso, è vero, ma molta stima, il prestigio morale e intellettuale di chi combattè per la libertà dalla parte giusta narrandolo in un memoriale stimato dalla critica che mi conferiva agli occhi di tutti voi, giovani di sinistra con famiglie di sinistra, una sorta di aureola da eroe romantico. E poi, come ammiravate la mia maniera di buttarmi sulla pista, di affrontare le discese più impervie, di uscire anche con un tempo impossibile. Io, il cinquantenne dall'aria elegante e misteriosa, ero più spericolato di voi ventenni attaccati al fuoco del caminetto non appena cadeva qualche falda di neve. Solo tu osavi tenermi testa, in quelle mie discese scapestrate: sciavi come una campionessa, e non ti faceva paura nulla. Ricordo una mattina quando per pura sfida mi seguisti sulla pista incurante del parere contrario delle tue amiche e del tuo ragazzo, che terrorizzati dalla nevicata restarono in albergo a giocare a poker. E' vero, l'albergo, seppur apparentemente modesto, era di una grande raffinatezza: dieci stanze, non di più, legni pregiati, parquet scricchiolante, tappeti artigianali: l'appellativo di pensione sotto cui si presentava non era altro che uno snobismo di cui eravamo tutti segretamente orgogliosi. Ricordo quella mattina non tanto perché la discesa fu sconsiderata (ne avevo già fatto alcune inseguito da te) ma perché quando tu mi raggiungesti ansante, con le gote in fiamme, la giacca a vento coperta di neve e la tuta aderente che disegnava le tue lunghe gambe, e per arrestare la corsa ti abbracciasti al tronco dell'abete dove mi ero fermato, scoppiammo a ridere come dei ragazzi, in parte per il nervosismo dell'impresa compiuta, ma in realtà perché tu una ragazza lo eri davvero. E ci guardammo come due compagni di scuola che hanno commesso una marachella, con complicità. E fu con quello sguardo che tutto cominciò, e io pensai: questa ragazza è mia. Perché non fui tanto io il responsabile di quell'intesa, ma come mi guardasti tu. Un uomo di quell'età capisce come lo guarda una ragazza, e io lo capii. Capii che in quello sguardo c'era desiderio, e un'ombra di malizia, e un tacito invito, e un'offerta. E pensai che se avessi voluto avrei potuto prenderti lì, subito, fra la neve farinosa, al limitare del bosco. Poi, cominciarono a passare gli anni. Ti ricordo tre anni dopo, splendida giovane moglie con il primo frutto nel ventre, e il tuo bel marito, un giovanotto educato e preoccupato per la tua maternità, timoroso che con la tua indole sportiva tu provocassi danni al tuo stato di attesa: e dunque le nostre passeggiate a quattro nel sentiero di neve dura, le nostre conversazioni con le quali la mia moglie di allora (era ancora la prima, ricordi?) ti consigliava sulla vita da condurre: riposo ma non troppo, dieta da seguire, leggera ginnastica mattutina e altre bazzecole di questo genere. Alle donne di una certa età piace dare i loro consigli in materia, tu ascoltavi con compunzione e io e tuo marito parlavamo d'altro. Ti rividi giovane madre, con un marmocchio per mano e

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già incinta per la seconda volta. Eri particolarmente eccitante, lo sai? Quell'inverno non potevi sciare, ovviamente, facevi rare passeggiate fino al villaggio e per il resto stavi vicino al caminetto giocando con il tuo bambino che stava imparando a tenersi in piedi. Ricordo che lo reggevi con una sorta di guinzaglio che gli imbrigliava il petto e lo invitavi a non avere paura, lo chiamavi "piccino" con voce dolce. Quella settimana sognai più di una volta di possederti, ti prendevo a tergo, e con le braccia ti cingevo il ventre gravido. E intanto gli inverni passavano, i tuoi bambini si stavano facendo grandi, le nostre famiglie (voglio dire io e i tuoi genitori) acquistavano un'amicizia sempre più confidenziale, io invecchiavo, e anche mia moglie, ma da parte mia con la stessa agilità nelle discese. Ho l'impressione che l'anno in cui arrivai con la mia nuova moglie, che ancora moglie non era, ma solo "fidanzata", come si diceva allora negli ambienti eleganti, tu mi guardasti con rinnovato interesse. Forse il nuovo amore mi aveva ringiovanito, chissà, mi ero tagliato i capelli quasi a spazzola, lasciando un ciuffo sulla fronte, avevo pubblicato un nuovo romanzo che aveva ottenuto un premio e una critica elogiosa su certi giornali della sinistra. La sera, a cena, se ne discuteva. Ricordo bene le tue osservazioni: allora non eri ancora la letterata che sei diventata, bazzicavi anche tu il giornalismo: su un settimanale di cultura raccontavi viaggi non fatti e recensivi libri non letti. Di Francesca ero innamoratissimo, 53 va sans dire, e lo vedevate tutti. E anche tu non potevi non notarlo. Eppure ci fu un episodio che successe nonostante questo e al di là di questo, un fatto fuggevole, che avvenne perche doveva avvenire, in modo naturale, così come sorge la luna o come nevica. L'albergo era deserto, ricordi?, erano tutti andati al vernissage di quel fesso milanese che con la mano sinistra faceva il pittore e con la destra giocava in Borsa. Io ero reduce da una discesa troppo faticosa, al rientro mi ero buttato sul letto e mi ero svegliato quasi all'ora di cena, quando tutti erano già sfollati. Tu invece no, eri rimasta per via dei bambini. Scesi di camera e ti trovai davanti all'invetriata spalancata sulla valle, mi giravi la schiena, eri come intenta ad osservare le luci lontane del paese. Fu più forte di me, mi avvicinai in punta di piedi, ti sfiorai i capelli, i capelli color del miele e ti dissi: donna sognatrice. E allora tu ti girasti e mi baciasti sulla bocca. E poi con l'indice sulle labbra che mi avevano baciato sussurrasti: sssst. Non dire una parola, John, ti prego, non è il momento, non dire niente. E io non dissi niente. Quando arrivò Lui nella tua vita, capii subito che era arrivato l'uomo che avevi sempre aspettato, un uomo di cui ti eri innamorata come mai ti era successo, né di tuo marito, questo è sicuro, né di quei due o tre amanti occasionali che avevano incrociato per caso la tua esistenza. Ti chiederai come lo capii. Ti potrei rispondere che conosco le donne e questo lo sai, e che riesco a capire una certa luce che c'è nei loro occhi quan-

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do sono innamorate, e che so cogliere uno sguardo trasognato, e un sorriso fuori luogo fatto a nessuno se non alla persona che si ha in mente; e certe altre cose, che poi sono dettagli, e i dettagli sono sempre fondamentali. E poi conosco bene la Milano di quegli anni e gli ambienti che frequentavi: i salotti intellettuali, le femministe, coloro che sognavano la Rivoluzione, le parole d'ordine per la strada, e poi la sera a casa, confortevolmente, a sentire buona musica. Lui no, non apparteneva a questa tipologia. E, soprattutto, non scriveva. Pare che dicesse che scrivere era una cosa che involgariva il pensiero, e che con le persone era sempre meglio parlare, e che i libri, semmai, si dovevano scrivere solo mentalmente. E io capii che tu lo amavi senza remissione una sera a cena in albergo, mentre mangiavamo della caccia accompagnata con una salsa di mirtilli secondo l'uso della cucina locale, e tu dicesti: conosco un racconto che si chiama Le quaglie alla Clementine, me lo ha raccontato un mio amico, è il racconto di un racconto, anzi il racconto di un ipotetico spettacolo teatrale, e comincia così: è un teatro di Parigi, in rue Saint-Lazare, e sul palco di questo teatro c'è un salotto azzurro decorato alla maniera orientale con delle finestre e delle leggere tende di mousseline bianca, e spostando le tendine delle quattro finestre si potranno vedere quattro spettacoli diversi, che poi in realtà sono diversi fino a un certo punto, perché ogni spettacolo parla della stessa vita, che è la vita di un uomo e di una donna. E non poteva certo stare a Milano, un tipo così che nessuno sapeva chi era e che pensava racconti senza pubblicarli quando tutti eravamo smaniosi di pubblicare e parlava di quaglie alla Clementine e di quattro finestre dalle quali si potevano osservare quattro punti diversi della stessa vita, come punti cardinali: uno a nord, che era il passato, uno a occidente, che in quel momento Clementine aveva scelto come il suo, uno verso quell'oriente che non avrebbe mai conosciuto, e l'ultimo a sud, che era il suo destino e che forse era la sua morte. Una morte meridiana, furono le tue parole. Ti ricordi?, era una giornata di neve intensa, forse un primo dell'anno, ma sì, era un primo dell'anno di tanti anni fa, di quanti?, diciannove, venti, stavano cominciando i cosiddetti magnifici anni ottanta, e quella sera festeggiammo insieme, famiglie e tutto, anche i tuoi ragazzi, che erano già cresciutelli, ometti con un'aranciata in mano servita in un bicchiere di champagne a brindare: auguri, auguri, auguri, buon Millenovecentoeottantuno. Sì, era il Millenovecentoeottantuno, mi ricordo bene, il Capodanno. E tu, fra un brindisi e l'altro, ridendo e scherzando, dicesti: ho conosciuto un tipo che scrive cose bellissime e non gliene frega niente di pubblicarle, a Milano non ci viene per principio e la sua passione sono le galline livornesi, ne alleva quattro perché fanno l'uovo tutti i giorni, gli facciamo un brindisi? E gli facemmo un brindisi.

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Un fessacchiotto della compagnia, un tipetto che veniva dalla "contestazione", e portava maglioncini girocollo, sentenziò con condiscendenza: ma sì, brindiamo a questo povero stronzo, lo aspettano anni difficili. E tutti risero, perché c'era davvero da ridere in quella baita di montagna riscaldata dai fiati e dallo champagne brindando a un povero stronzo che allevava galline livornesi: noi, la Sinistra, noi che eravamo "vigili", come si diceva allora, e che fra quindici giorni avremmo esercitato la nostra vigilanza presentando in una nota libreria l'ultima fatica dell'intellettuale girocollo: Rivoluzione e/o seduzione. E io pensai: ecco, si è innamorata. Tu lo sai, miei occhi chiari e miei capelli di miele, ho un sesto senso. L'ho sempre avuto, ed è ciò che mi ha guidato nella vita. Pensai: farewell my lovely, sei diretta verso galline livornesi, non ti acchiapperò mai più. Ma la vita riserva sempre grandi sorprese: basta avere la pazienza di aspettare che ce le offra. E a me la pazienza non è mancata, come vedi. Gli anni passavano, stavano passando più per me che per te. Pensavo a te ogni giorno, e i pochi giorni dell'anno in cui potevo vederti in quell'albergo montano che ormai non sopportavo più, erano quasi un tormento. E tu eri felice, nel frattempo. Perché le persone possono essere felici, nei loro frattempi. Ma il tuo è durato troppo, davvero troppo, credimi. Nel mio frattempo avevo pubblicato altri libri e ricordo il giorno in cui te li offrii con quella dedica: "A te, con la complicità che ci unisce". Una volta ti confessai che nonostante i libri che avevo scritto e con i quali ti ho corteggiata con dediche complici o futili, io non ero uno scrittore. Nel senso che essere scrittore è un fatto ontologico, aggiunsi, o lo si è o non lo si è, e non basta aver scritto qualche libro per esserlo. E tu concordasti, oh sì, certo, avevo proprio ragione, e parlavi con la prosopopea di chi si intende profondamente di letteratura. Sciocchina. La mia era una trappola: io sono davvero uno scrittore, te lo dimostra questa lettera che stai leggendo, e immagino il tuo stupore. C'è sempre qualcosa da scoprire in ritardo, la vita meriterebbe di essere vissuta fino in fondo solo per questo. Ma anch'io ho scoperto una cosa in ritardo: che sei una persona illogica, o che hai una logica tutta tua, come allorché concludendo la conversazione sulla scrittura, e come se ciò avesse qualcosa a che vedere con il libro che ti avevo dedicato con complicità, dichiarasti: mi piace il tuo ciuffo sulla fronte. Ma quale era mai la complicità che ci univa? Miei occhi chiari e miei capelli di miele, lo sai meglio di me: era semplicemente la voglia di andare a letto assieme. La tua uguale alla mia, solo che tu non potevi farlo, perché avevi nella testa il tuo bel tipetto che allevava galline livornesi. Vuoi sapere una cosa?, ebbene, te la confesso, il romanzo Tradimenti, che ti offrii con quella dedica, fu scritto pensando a te, e pensai a te perché avevo una specie di moglie con la quale ero "felicemente sposato" e nel mio noioso ménage

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avevo bisogno di inserire una terza persona davvero necessaria e speciale, e tu eri davvero necessaria e speciale perché avevo intuito che tu avresti potuto amarmi con tutti i sensi, con l'abbandono che io volevo, solo se tu, mentre ti lasciavi possedere da me, pensassi alla persona che amavi. E solo in questo modo avresti raggiunto una grande intensità nell'atto d'amore, grande e completa come l'hai sempre sognata. Ma allora, apparentemente, non capisti. E, intanto, gli anni passavano. Dolorosamente per me, e con difficoltà, perché un uomo invecchia anche se si mantiene asciutto, senza un filo di pancia, col ciuffo sulla fronte e l'aria sbarazzina. Sai dove invecchia? Nel membro, scusa la parola cruda, e so che la scusi perché le parole crude in pubblico non le tolleri, ma nell'intimità non ti dispiacciono. Ma passa un giorno, passa l'altro, finché arrivò il giorno in cui non tornò il tuo prode Anselmo, probabilmente si era messo l'elmo sulla testa per non farsi troppo male ed era partito per le sue ignote tenzoni, forse con galline di razza diversa da quelle livornesi. E dunque: dunque accadde allora, e fu così, ricordi?, come direbbe il poeta. C'erano panni stesi ad asciugare, sempre come vuole la poesia. Seguiamola, così come la seguii io, anche se fosti tu a chiamarmi. E infatti, sul piazzale erboso delimitato dai ciliegi e dai peschi, tesa fra un ramo e l'altro, c'era della biancheria stesa ad asciugare a una brezza marina che propiziava il settembre. La scusa (perché la tua era proprio una scusa) era che offrissi il mio libro alla bibliotechina municipale con una dedica d'autore, ne sarebbero stati orgogliosi, dicesti, era un comune di sinistra, e quella era stata zona partigiana. Tanto meglio. Via facendo, parlammo. Scrivo anch'io, mi dicesti, anzi ho scritto. Cosa? Poesie, ma direi piuttosto poèmes en prose, cosette così. Perché non me ne leggi uno? Se ci tieni, ma mi vergogno un po', e poi leggo malissimo. Ci mettemmo sulle sdraio sotto il ciliegio, tu non sapevi come cominciare, a volte ci si sente a disagio, specie se sappiamo come andrà a finire, e noi sapevamo entrambi come sarebbe andata a finire. Quale ti leggo? A scelta. Te ne potrei leggere uno di tipo baudelairiano, si svolge in un alberghetto di montagna e ha il vantaggio di essere lapidario. Mi piace l'idea, mi ricorda qualcosa, come si intitola? Non ha titolo, bisognerebbe che glielo trovassi. Sì, sarebbe opportuno, potrebbe diventare un titolo eponimo, i libri hanno bisogno di un titolo opportuno. Ma questi poemetti non diventeranno mai un libro, dicesti. Certo che sì, ti rassicurai, lo sai meglio di me, me ne occuperò io, leggi per favore. Quando finisti di leggere guardasti verso l'orizzonte, e avevi gli occhi umidi. Stava calando la sera e sulla piana verso il mare si accendevano le prime luci. Perché non lo chiami La gallina livornese, ti suggerii, e poi aggiunsi: dovrei trovarmi un albergo, non ho più l'età per guidare di notte, e poi il viag-

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gio è piuttosto lungo. Resta a dormire con me, dicesti, forse non mi sveglierò più a soprassalti come mi succede da mesi. Sono vecchio, ti dissi. Tu sorridesti con malizia. Oh, non è quello che pensi, specificai, sono bravo come tanti anni fa, quando ho cominciato a desiderarti, ma vedi, allora... Allora cosa? Voglio dire, una donna di vent'anni può andare con un uomo di cinquanta, ma dopo... poi la cosa è diversa, è strana, ecco, forse è solo strana, o un po' più strana. Occhi miei chiari, miei capelli di miele, i momenti d'amore che in questi cinque anni ho vissuto con te sono stati sublimi, anche se essi erano rari, scanditi da intervalli che mi parevano lunghissimi e riservati a qualche privilegiato fine settimana, a incontri che cercavamo sempre di far sembrare casuali, e in essi ho provato il godimento dell'amore fisico più alto di tutta la mia vita. Eppure, anche negli attimi di maggiore passione mi pareva che qualcosa mancasse per raggiungere quell'estasi totale che era lì, a portata di mano, e che pareva non lasciarsi cogliere nella sua compiutezza: un "petit rien" che non sapevo quale fosse, e neanche tu, forse la consapevolezza che il nostro amore era troppo segreto, e dunque troppo libero, e dunque gratuito, il che lo privava di quella punta di malizia o di senso del peccato che potesse conferire a una storia insolita come la nostra quel brivido sotterraneo, quella spezia che lo rende più raro e più febbrile. Per questo, dopo i nostri primi incontri a Milano, cominciai a invitarti nella mia casa di campagna, approfittando delle assenze di mia moglie: perché era la vera casa di famiglia, perché era lì che io ero felicemente sposato (ma cosa vuoi dire poi "felicemente sposato " ? ), in quella casa vivevo una perfetta vita coniugale, e in quel letto, in quel grande letto antico dove facevo l'amore con te, avevano partorito mia moglie e mia nuora, quel grande letto aveva una lunga storia, aveva assistito alle vite di molte persone. Il letto. Come è stupido pensare che sia un certo letto a conferire più sapore all'amore che si sta compiendo. E invece me ne sono accorto solo ieri, miei capelli di miele, e come vedi c'è sempre qualcosa da imparare nella vita, persino alla mia età. Perché questa notte trascorsa, questa sublime notte chiara e senza vento che il calendario cattolico ha scelto per una delle sue feste più belle, anche per me è stata un'ascensione, nel senso più terreno del termine, perché sono salito al settimo cielo, quello dove il piacere è più totale e assoluto. Il nostro era un appuntamento preso da tempo, e agli appuntamenti tu non sei mai mancata, E del resto mia moglie avrebbe passato il suo primo week-end in montagna e non potevamo mancare un'occasione del genere. Ma c'era qualcosa che ti allarmava, l'ho capito dalla telefonata che mi hai fatto: devo dirti una cosa, una cosa importante e definitiva, vengo solo per questo, ma solo per questo, capisci?, non per quello che pensi tu.

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Ma no, non eri venuta solo per dirmi una cosa importante e definitiva. Eri venuta per amarmi ancora, o ancora una volta, almeno. L'ho capito mentre cenavamo in veranda, avevo preparato le squisitezze di cui sei ghiotta: foie gras su foglie di lattuga, pollo freddo con maionese, lo champagne che preferisci. E tu mi guardavi nella penombra come non mi hai mai guardato in questi cinque anni, avevi gli occhi umidi, e nelle tue pupille guizzava la fiamma della candela. E io ho capito che c'era una nota di strazio in quel tardivo amore che sentivi per me e che era giunto alla fine, perché l'altro è più grande e il nostro impossibile. Ma che, allo stesso tempo, il dolore che provavi nel recarmi dolore, rendeva l'amore che hai per me più prezioso e intenso, e ad esso potevi abbandonarti come in un impeto di smemoratezza e di resa. E così non c'è stato neppure bisogno che tu mi dicessi "la cosa importante" per la quale apparentemente eri venuta. E' bastato andarcene a letto, in quel grande letto dove ci siamo amati tante volte, e mi è bastato, senza che tu dicessi niente, perché da solo capissi che lui era tornato. Perché, dopo oltre cinque anni di amore, per la prima volta, ieri notte, mi hai baciato il membro. E io, mentre tu mi regalavi quello che mai mi avevi regalato, ripensavo a una poesia di cui conservavo un vivo ricordo, una poesia che dice che tutto quello che fino ad allora ero stato e ciò che mi era stato negato ormai mi era liberamente offerto, e il tuo non era omaggio di schiava accucciata nel buio, ma regalo di regina che diventava cosa mia, mi circolava nel sangue, e il mio tempo di ragazzo e il tempo che mi restava da vivere rifiorivano mescolati insieme, perché tu mi baciavi il membro. E poi la tua passione è scoppiata con un'intensità che mai aveva avuto, e quando ti ho penetrata ti è bastato un istante, un minuscolo istante per quel suono di piacere e di liberazione e di disperazione grandiosa che mai avevo sentito uscire così alto dalla tua bocca, e ah, finalmente, anche tu avevi raggiunto il tuo "petit rien", che è il succedaneo dell'assoluto. E ora che lui è tornato, miei occhi chiari e miei capelli di miele, ora che è di nuovo tuo e non porti più nel cuore l'ombra che il suo abbandono ti aveva lasciato, ora che non c'è più in te quella stupida pena che con il mio affetto e la mia attenzione ho cercato invano di lenire in questi anni, ma al contrario provi tu pena per lui, perché sai di averlo tradito, e allo stesso tempo provi pena per me, pensando alla pena che mi darai lasciandomi, ora, finalmente, il nostro amore potrà essere pieno e assoluto, nonostante la mia età, il che ha poi un'importanza relativa, perché a te non dispiacciono gli uomini vecchi se sanno amare come so amarti io. E poi, vecchio già non sono più: sono di nuovo giovane. Davvero, sono giovane come trent'anni fa, quando ti desideravo in quelle remote vacanze d'inverno e mi era proibito farti mia.

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Te voglio, te cerco, te chiammo, te vedo, te sento, te sonno. Cara, lui arrivava quella sera da lontano ed era stanco. Stanco di sonno, perché aveva dormito a lungo. Ma quanto a lungo? Ah, molto a lungo. Si sentiva il brutto addormentato nel bosco. Bosco nel senso di foresta, ed in mezzo al cammin c'era una pietra. E non aveva saputo superarla, e per questo era rimasto a fare il brutto addormentato nel bosco. E come era brutto, in effetti, e come tale si sentiva, alla guida del suo calesse trainato da due cavalli, mentre tutti, per la strada buia, gli sfrecciavano accanto sorpassandolo. Più volte era stato tentato di fermarsi in una locanda. Certe luci lontane, sui fianchi delle colline, promettevano paeselli tranquilli, una cena saporita, un letto sicuro. Faceva già caldo, perché era entrato il maggio. E lui si diceva: alla mia età, un viaggio così, ho quasi l'età di Cicerone quando scrisse il De senectute, e intanto cercava di guidare bene i due cavalli che nelle salite lo portavano troppo sul ciglio, e poi quella ridicola pancera che indossava con la scusa del mal di schiena ma con la quale in realtà cercava di nascondere una pancetta che si stava facendo un po' troppo vistosa. Pensò: torno indietro. E poi pensò: le telefono. Si era fermato in un piazzale di sosta dove dei camionisti olandesi dormivano appoggiati al volante, e c'era un ristoro con luci al neon, si poteva telefonare con monete e mangiare una focaccia calda. Decise di telefonarle. Pensò: un uomo della mia età non può arrivare a casa di una signora senza annunciarsi, a quest'ora della sera, dopo aver dormito per tanto tempo nel bosco. E così mise delle monete nel telefono pubblico in quel locale di ristoro mentre altri camionisti olandesi ridevano alto di certe loro barzellette, e con sollievo constatò che il telefono di lei era occupato. E dunque, se era occupato, significava che era in casa e che non si era coricata. E così domandò alla cassiera: quanti chilometri mancano ad Aleppo? La città vicina non era Aleppo, certo, ma per lui era profumata come nel suo ricordo delle Mille e una notte profumava la mitica città di Aleppo; solo che lo chiese nella sua lingua, che per la cassiera era del tutto incomprensibile, e così lei capì solo la parola chilometri e rispose con le cinque dita aperte di una mano. Dunque, ancora cinque chilometri. Pensò: sono arrivato, vale la pena di provare. Risalì sul suo calesse, che ora gli pareva una slitta, perché filava più veloce in discesa giù per quelle colline, e la sua unica preoccupazione era di essere il brutto addormentato nel bosco con un po' di pancia, perché anche se lei non era più giovane (pur se assai più giovane di lui) probabilmente si era trovata un amico senza un filo di pancia, di quelli che non si addormentano nel bosco perché giocano a tennis. E questo gli procurò una fitta al fegato, che

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non era in ottime condizioni. Si chiese: quando Ivan Il'ic comincia a sentire una fitta a un fianco, è quello sinistro o quello destro? Comunque fosse, come era cambiato da prima del suo lungo sonno nel bosco, non tanto fisicamente, quanto nel modo di essere. Lo capiva dal suo vocabolario che stava usando mentalmente mentre guidava la sua slitta in discesa guardandosi sorpassare da autisti spericolati che conducevano i loro veicoli incuranti del pericolo e del prossimo. Mai, prima, avrebbe mormorato al loro indirizzo quelle parole volgari, forse anche più pesanti di quelle che adoperavano in olandese i due camionisti olandesi. E se pensava a lei, una volta, o se pensava all'amore con lei, o al sesso di lei, il suo pensiero, anche se animato da furibonda passione come lo era stato, mai avrebbe osato formulare delle espressioni con un vocabolario così crudo come quello che ora stava adoperando mentalmente. Perché c'era l'eleganza del cuore a superare l'eccesso del corpo, e quell'essere così animalesco che talvolta appartiene agli uomini sarebbe stato addomesticato da un romanticismo sottile che vela, corregge e ingentilisce. Per esempio, vedendola girare in vestaglia per casa, come ora immaginava lei stesse girando, le avrebbe detto come il poeta francese: con la vestaglia verde mi ricordi Melusina, cammini a passettini come se tu danzassi. Così le avrebbe detto una volta. E ora invece le avrebbe detto (così pensava che le avrebbe detto): che meraviglia il tuo culo, è tutto un sorriso, non è mai tragico. Se questa era una maniera di presentarsi. E se lei avesse avuto un uomo in casa? Poteva avere benissimo un uomo in casa, il suo uomo. E se per esempio sulla porta gli avesse detto: per cortesia, parla più piano, di là c'è una persona che dorme. O ancora peggio: le sarei grata se non parlasse così forte, di là c'è Alfredo che dorme. Perché avrebbe potuto perfettamente dargli del lei, dopo tanti anni di sonno, e di là ci poteva essere un Alfredo, nella vita a volte ci sono uomini che si chiamano Alfredo e che dormono nell'altra stanza, e che sono lì apposta per amare, amami Alfredo. Imboccò un vialone pieno di luci. Aleppo, mia sognata Aleppo, pensò, mi ricevi sfavillante di luci, come se fossi un Cesare trionfatore. Abbassò il finestrino e lasciò entrare l'aria fresca della notte. Profumava di tiglio, e forse di vaniglia, come doveva profumare Aleppo. Forse era quella fabbrichetta di biscotti che si vedeva sulla sinistra con una grande insegna illuminata: Biscou-Biscuit. Bello, che bel nome Biscou-Biscuit. Per esempio avrebbe potuto fare così: bussare, invece di suonare il campanello, era più fine, una scampanellata a quell'ora avrebbe fatto sobbalzare chiunque, lei apriva e lui le diceva: ciao, Biscou-Biscuit. Il semaforo in fondo al viale cominciò a lampeggiare solo col giallo, di solito i semafori fanno così dopo la mezzanotte, dunque era già mezzanotte. Tu cosa gli faresti a uno che si è addormentato nel

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bosco chissà per quanto e si presenta a casa tua dopo la mezzanotte chiamandoti Biscou-Biscuit?, si chiese. Gli sbatterei la porta in faccia, si rispose, magari in compagnia di una parolina che so io, ma detta a bassa voce, con educazione. Biscou-Biscuit, ci mancava anche questa! All'improvviso, in fondo a quel viale che attraversava i caseggiati anonimi, scorse dei platani. E all'improvviso, come in una fotografia, rivide la geografia esatta di quella città di mare che conosceva così bene e che credeva di aver dimenticato. Ecco, il viale sbucava su un lungomare dove tamerici antiche limitavano una spiaggia di ciottoli; più avanti c'era il porticciolo oltre il quale cominciava il centro storico, un intrico di stradette lastricate, una volta villaggio di pescatori. E in mezzo a quei nodi di vicoli si apriva una piazzetta con una chiesa bianca e due palme accanto, la chiesa delle due palme, e a fianco della chiesa c'era un portico sotto il quale una volta i pescatori rammendavano le reti seduti su minuscole seggiole azzurre che parevano da bambini; e sopra il porticato c'erano delle vecchie case, e in quella di sinistra,Quella con la balconata di ferro battuto, c'era lei. E ormai era andata a letto, ne era convinto, era di sicuro andata a letto. Venti minuti prima il telefono era occupato, dunque era sveglia, ma a mezzanotte e un quarto che ci fa alzata una signora da sola?, va a letto. E se c'è un Alfredo, a maggior ragione. Avevano chiuso il centro storico al traffico, ma a quell'ora non avrebbe certo incontrato un vigile urbano, non era ancora epoca di vacanze. Parcheggiò sotto una delle palme, posto riservato agli handicappati, perché^era logico che per loro il centro storico non fosse vietato. E' un posto che fa per me, pensò, viene proprio a pallino. Che remota espressione, venire a pallino, da dove emergeva?, forse dalla sua adolescenza, quando i ragazzi parlavano così: è una cosa che mi è venuta a pallino, garantito al limone. La finestra con la balconata era spenta. Cavolo di finestra, cavolo di finestra, perché sei spenta? Finestra stronza, finestra stronza, perché sei spenta? Dai, finestrella carina, dai, sii simpatica, riaccenditi, lei è solo andata in camera un momento e ha spento la luce, ma ora ritorna, riaccenditi, ha dimenticato gli occhiali in salotto, lei legge sempre prima di addormentarsi, ma senza occhiali da vicino non ci vede, è sempre stata presbite anche quando era giovane, tanto se non legge le sue due o tre pagine non si addormenta, io lo so meglio di te, riaccenditi, non fare la stupida. Si sedette sulla panchina di pietra, davanti alla chiesa. Suonare o non suonare, questo è il problema. O meglio: salire o non salire, perché il portoncino era aperto, come del resto stava sempre, perché attraverso di esso si accedeva a tre appartamenti, e nessuno si curava di chiuderlo. Pensò di accendersi una sigaretta, tanto per riflettere. Ma se ti accendi una sigaretta sei fritto, mio caro, perché è l'ultima occasione, perché

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quella si è addormentata davvero. Alla fine gli occhiali li aveva sul comodino e quante pagine ci vogliono per fumare una sigaretta?, non più di due o tre, e lei dopo due o tre pagine si addormenta col libro sul petto che certe volte le toglievi tu quando ti coricavi piano piano accanto a lei per non svegliarla. Dunque, vai, per piacere, fatti forza e vai. Già: e se poi ti apre Alfredo? Prova a pensarci, scusa, un Alfredo magari in mutande, con l'aria insonnolita e irritata che ti fa: scusi, lei chi è?, cosa vuole a quest'ora? Che gli dici: Biscou-Biscuit? Alfredo ti da un pugno che ti fa rotolare giù per le scale. Si alzò e schiacciò il mozzicone di sigaretta sotto la scarpa. Che curioso, gli parve che i passi che risuonavano sul selciato fossero quelli di un altro. Erano leggeri, come uno che ti segue. Chi lo seguiva? Ah, facile: era quello di anni fa che lo seguiva, lo stesso che non era più lo stesso. E anche le mani, pensò, anche le mani come cambiano, come sono cambiate le mie mani. Erano cambiate? Sì che erano cambiate, come se la carne che affusola le dita e il cuscinetto morbido sotto il pollice si fossero trasferiti sulla sua pancia, lasciando le mani ossute, quasi scheletriche. E con qualche macchiolina di semola. Che ora non si vedevano, perché era buio, ma di sopra, una volta salito, sotto la luce, si sarebbero viste bene, anche troppo. Si fa presto a dir "salire". E se c'era proprio un Alfredo? Salì gli scalini piano piano contando fino a sette ad ogni scalino. Le sette piaghe d'Egitto, sette anni Giacobbe a Labano fu pastore, sette anni di disgrazie, sette anni di felicità, sette anni di disgrazie, i sette peccati capitali, gli stivali dalle sette leghe, sette vite come un gatto, sette gatti sette matti, dalle cinque alle sette è l'ora degli amanti. Ma ora era mezzanotte e mezzo. Perché aveva tolto il nome dal campanello? Forse non abitava più lì. Ma si che ci abitava, era un bigliettino scritto a macchina che si era semplicemente deteriorato con l'umidità dei muri, e lo aveva buttato via. Avanti, suona, alla buonora. Non era né in vestaglia né in camicia da notte. Era vestita in modo elegante, gli parve, come se tornasse da una festa o da una cena, la intravide dalla fessura della porta che il gancio di sicurezza manteneva socchiusa. Gli chiese semplicemente: che ci fai, a quest'ora? Che sciocco, era l'unica domanda che non avrebbe mai pensato gli avrebbe fatto, la più semplice, quella che si dice a un amico che non si vede da una settimana. Sette giorni, erano passati sette giorni, si era sbagliato nel conto. Gli venne così: te voglio, te cerco, te chiammo, te vedo, te sento, te sogno, disse a bassa voce, senza cantare. Che dici? chiese lei. Cchiù luntana me staie, cchiù vicina te sento, continuò lui. Lei tolse il gancio di sicurezza e aprì la porta. Entra, disse, stavo per andare a letto, hai cenato? Lui disse sì, cioè no, cioè sì, disse, una focaccina al prosciutto, ma mi basta, la sera cerco di tenermi leggero. Ti dò un pezzo di torta, disse lei, la prendo in cucina, intanto siediti, stasera ave-

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vo ospiti e ho fatto la torta che ti piace. Il gàteau de la Reme, disse lui, hai fatto il gàteau de la Reme, non lo mangio chissà da quanto. Lei entrò con un vassoio. Perché sei scemo, disse, io lo so bene da quanto non lo mangi, tu non lo sai perché sei scemo. Gli versò un bicchierino di Porto. Ho rifatto il parquet, disse lei, ti piace? Carino, disse lui, ci fumiamo una sigaretta? Ho smesso, disse lei, abbi pazienza, fumatela in santa pace, io vado a letto, sono un po' stanca. Posso venire anch'io?, chiese lui. Dove comincia la geografia di una donna? Comincia dai capelli, si rispose. Lo sai che la geografia di una donna comincia dai capelli?, le sussurrò in un orecchio. Lei si era coricata su un fianco e gli girava le spalle. E poi continua con la nuca e le spalle, disse lui, fino a dove finisce la colonna vertebrale, questo è il terreno d'ingresso della geografia di una donna, perché lì, dopo il coccige, c'è un grumetto di grasso, o un piccolo muscolo come un petto di pollo, e lì comincia la zona più segreta, ma prima ho bisogno di accarezzarti i capelli e poi di grattarti piano piano la nuca, sono venuto soprattutto per grattarti la nuca, mi sembra che senza il tuo corpo le mie mani abbiano perduto il tatto, sono diventate brutte, secche e piene di macchioline. Lo sai che soffro il solletico, disse lei, non mi pizzicare. Allora ti massaggio, disse lui, ti accarezzo le spalle come se ti massaggiassi piano, solo con i polpastrelli. Se fai così mi fai addormentare, disse lei, mi rilassa, abbi pazienza. Dormi, disse lui, poi ti sveglio io, vuoi che ti canti un Lied piano piano? Componi ancora?, chiese lei con una voce che già stava scivolando nel sonno. A volte, disse lui, ogni tanto, ma ormai raccolgo piuttosto quanto ho composto in questi anni. Come fa quella canzoncina che mi hai detto mentre entravi?, chiese lei. Che canzoncina?, disse lui. Quella napoletana, dai, non fare finta. Continuò ad accarezzarla con la mano destra, e quando con la sinistra le scavalcò il corpo e le toccò i seni, lei dormiva già. Sentì delle piccole rughe, nell'insenatura: l'epidermide che si raggrinziva. Ma i seni erano ancora dolci, e tiepidi, e il rosone intorno ai capezzoli largo, con tanti puntini come semi che vogliono spuntare sotto la terra. Pensò com'era bella la geografia di una donna, e facile, se la si conosce e la si ama, e pensò che gli uomini sono stupidi, perché a volte credono di dimenticarla, e per questo sono stupidi, e mentre pensava così sentì che anche il suo corpo cominciava a respirare al ritmo del corpo che stava abbracciando, e pensò; devi restare cosciente, aspetta, non addormentarti proprio ora. Quando riaprì gli occhi si intravedeva l'albeggiare. A maggio albeggia presto. Nel sonno lei aveva tirato su la coperta. O forse lui, senza accorgersene. La scoprì e le carezzò le natiche. Prima con dolcezza e poi più forte, stringendole. Lei si mosse nel sonno ed emise un piccolo suono sordo. Che meraviglia il tuo culo, disse lui, è tutto un sorriso, non è mai tra-

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gico. Lei si svegliò. Che dici?, chiese. Lui ripetè e poi disse: è una poesia. Che scemo, disse lei. Con la sinistra lui le cercò il sesso. Lei strinse le gambe. Ripetimi quei versi che mi ripetevi stanotte, disse lei, mi ero addormentata. Quali?, chiese lui. Quelli napoletani, disse lei, era una canzonetta, mi pare. Non me la ricordo, disse lui. Ma sì, quella che dice te voglio, disse lei. E vabbè, disse lui, dice così: Sex contains ali, bodies delicaties, results, promulgations, Meanings, proofs, purities, thè materna! mistery, thè semi[nal milk, Ali hopes, benefactions, bestowals, ali thè passions, loves, [beauties delights of thè heart, Ali thè governments, judges, gods, follow'dpersons of thè [earth, These are contain'd in sex as parts ofitselfandjustifications [of itself. Diceva, e con la mano le accarezzava il pube. Imbroglione, disse lei, è Whitman. Te voglio, disse lui. Entra, disse lei. Faccio così, disse lui, da dietro. No, disse lei, vienimi addosso, voglio che tu mi copra. Non mi aspettavo una parola così, sulla tua bocca, disse lui. E' un termine naturale, disse lei, è un termine dell'amore naturale. E lo abbracciò. Mi piacerebbe dormire ancora un po', disse lui, è appena l'alba. Non hai dormito per quasi tutta la notte, disse lei, ti ho sentito, cosa credi?, se ti tengo abbracciato ti addormenti meglio? Lo sai che sì, disse lui. Vuoi che ti sussurri qualcosa?, chiese lei, una volta mi chiedevi sempre di parlare, ti addormentavi meglio. Quello che ti pare, disse lui. Conosco una canzoncina napoletana, disse lei, lo sai che non sono molto intonata, ma posso provare a canticchiarla, comincia con te voglio e finisce con te sonno. Dimmi: sarebbe così, se fosse?

Lettera da scrivere. A Letter is a joy of Earth It is denied thè Gods. (EMILY DICKINSON, Lettere). Mia Donna cara, vorrei proprio scriverti una lettera, un giorno, una lettera totale, una lettera vera e totale, ci penso, e penso come essa sarebbe se te la scrivessi: sarebbe scritta con parole semplici e ricorrenti, diventate usate da quante persone le hanno dette e quasi ingenue, seppure frementi della passione di un tempo. E attraversando gli oscuri strati di lava e di argilla che la vita ha sedimentato su tutto, essa ti direbbe che io sono ancora io, e che mantengo sogni, solo che mi sveglio all'alba e che a volte la mano trema a reggere la penna e il pennello. E

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che anche la casa è la stessa: il vecchio legno ha lo stesso odore e lascia che lo roda il tarlo, dalla finestra della veranda entra d'estate un fascio di luce che le foglie della vite rampicante sull'inferriata disegnano sulla parete di fronte come ombre cinesi, e allora è bello stendersi sulla poltrona di vimini, mentre fuori, nella campagna dintorno, è la calma meridiana e le cicale non tacciono un istante, e sono senza dubbio le stesse cicale, cioè differenti e uguali a quelle di sempre. E che a fine febbraio la magnolia giapponese fiorisce ancora prima di mettere le foglie e pare uno strano vaso di fiori candito nell'aria, come eterno. E con lei, più lontano nel giardino, si accompagna la mimosa che amavi tanto. E anche i bambini crescono, esattamente come allora. Caterina segue ancora la dieta, anche se con una certa riluttanza, ma era davvero troppo rotondetta, però alla sua età ha già il senso della propria dignità, come allora è già civettuola, e da grande sarà una donna affascinante. Nino, al contrario, è magro magro e a scuola va maluccio, ma è perché non si applica, perché la sua intelligenza fa già prevedere quello che è diventato. E poi ti direi che le serate sono lunghe, lunghissime, quasi infinite, e languide, ma che il mio cuore reagisce come una volta, e a volte a una musica, a un suono, a una voce che passa per strada comincia a battere all'impazzata, sembra un cavallo al galoppo. Però, se la notte mi sveglia, come sempre, per far calmare quei battiti mi alzo e vado in sala da pranzo, accendo una candela gialla, perché il giallo è bello nella penombra, e leggo Dolce e chiara è la notte e senza vento, e quelle parole mi tranquillizzano, anche se il vento là fuori agita i rami degli alberi e allora mi dico: lungi dal proprio ramo povere foglie frale, dove vai tu? Me lo chiedo e cerco di riaddormentarmi e se non ci riesco riattizzo le braci del caminetto affinchè luccichino ancora un poco, e per addormentarmi penso che ti scriverei che non sapevo che il tempo non aspetta, davvero non lo sapevo, non si pensa mai che il tempo è fatto di gocce, e basta una goccia in più perché il liquido si sparga per terra e si allarghi a macchia e si perda. E ti direi che amo, che amo ancora, anche se i sensi sembrano stanchi, perché lo sono, e quel tempo che era così rapido e impaziente, ora è lunghissimo da passare in certe ore del pomeriggio, soprattutto sul fare dell'inverno, quando se ne va l'equinozio e la sera cala a tradimento e le luci che non aspettavi si accendono nel villaggio. E ti direi anche che ho preparato le parole per la mia lapide, sono poche, perché fra la data di nascita e quella che sarà della mia morte tutti i giorni sono miei, e ho avuto l'accortezza di lasciarle all'omino che si occupa di questi caritatevoli servizi, per mestiere o per vocazione. E poi ti direi di quella volta che ti vidi, mentre tu mi mostravi il paesaggio, e che la tua figurina stagliata contro l'orizzonte mi parve la cosa più bella che il mondo avesse concepito, e io ebbi voglia di interrompere la tua sapiente descrizione abbracciandoti con

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il calore dei sensi che allora erano infiammati. E poi ti direi di certe notti in cui parlavamo, di quella casa sul mare, di certi momenti a Roma, dell'Aniene, e di altri fiumi che abbiamo guardato insieme pensando che essi scorressero soli, senza accorgerci che noi scorrevamo con loro. E ti direi anche che ti aspetto, anche se non si aspetta chi non può tornare, perché per tornare ad essere ciò che fu dovrebbe essere ciò che fu, e questo è impossibile. Ma ti direi: guarda, quello che c'è stato in tutto questo frattempo, che sembra così impossibile da perforare come quando la trivella incontra uno strato di granito, ebbene tutto questo è niente, non sarà affatto un ostacolo impossibile da superare quando leggerai la lettera che un giorno ti scriverò, vedrai, una lettera a cui ho sempre pensato, che mi ha accompagnato per tutto questo tempo, una lettera che ti devo e che scriverò davvero, puoi starne certa, te lo prometto.

Si sta facendo sempre più tardi. El candii se està apagando la alcuza no tiene aceite... No te diga que te vayas ni te diga que te quedes. (Quartina gitana dell'Andalusia). Avec lefil desjours pour umque voyage. (JACQUES BREL, Leplatpays). Gentili Signori, nonostante questa sia una lettera circolare, la nostra Agenzia desidererebbe renderla il più possibile personalizzata, non tanto nell'auspicio di un successivo rapporto con le S.V., che come capiranno non è possibile, quanto nel rispetto di quella forma di cordialità e di civiltà che pertiene ai rapporti intercorsi finora fra noi. Come è di Loro conoscenza, la nostra Agenzia vanta un'esperienza assai antica, nel corso della sua attività ha assistito alle più varie vicissitudini, la più parte di esse a tutti ignote, ed alcune note forse anche a Loro in virtù dell'eco, non di rado esagerata, che artisti di ogni tempo ne diedero. Preoccupazioni e disturbi fanno comunque parte della nostra professione: direi persino che essi talvolta possono costituire per Noi motivo di distrazione alla monotonia e alla routine cui la nostra Agenzia solitamente attende. Suppongo che tutti Loro abbiano già avuto esperienza di altre agenzie, anche più semplici della Nostra, per esempio quelle che affittano una vettura di locomozione. Esse prevedono, per con-

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tratto, incidenti coperti da un'assicurazione. Tuttavia esistono gli imprevisti che nessuna assicurazione al mondo è capace di coprire per il semplice fatto che l'imprevisto, di per sé, appartiene all'imprevedibile. Faccio un esempio banalissimo: forare una gomma. Il contratto prevede un'assistenza congrua e rapida per clausola di contratto. Ma non sempre il foro di una gomma avviene in circostanze nelle quali si possa intervenire congruamente e con solerzia. Lorsignori provino a immaginare un Cliente qualsiasi che guida una vettura su una scogliera a picco sul mare. La strada è tutta una curva, e l'imbrunire incombe. Lo sfortunato Cliente si è accorto di avere una gomma a terra proprio in una maledettissima curva a gomito, ove, se arrivasse un gippone guidato da certi giovanotti impazienti (ciò può succedere, ed è questo che egli pensa) lo travolgerebbe in men che non si dica. Il Cliente, con l'ansia che è salita di alcuni gradi, cerca nel baule posteriore il salvifico triangolo catarifrangente che gli potrebbe evitare il tamponamento fatale. Ma non lo trova. Perché? Perché qualche tecnico (si chiamano sempre così, nelle agenzie) pulendo la vettura per consegnarla al prossimo cliente, si è dimenticato di rimettere al suo posto il triangolo catarifrangente. Il Cliente, ormai ansiosissimo, alla scarsa luce della sera che sta calando, riesce a leggere a stento le istruzioni da seguire "in caso di necessità" stampate sul dépliant dell'agenzia che gli ha affittato la vettura. Per fortuna (così egli crede, il povero) esiste un numero verde per le urgenze, e sempre per fortuna egli dispone di un telefono cellulare, acquistato dietro consiglio della consorte in previsione di un viaggio all'estero. Egli compone il numero, ma esso, perdinci, risulta sempre occupato. Finché... Ah, ecco, finalmente è libero... ma purtroppo ora non risponde nessuno. Forse a Lorsignori questa storia potrà sembrare sciocca, ma posso Loro assicurare che per il disgraziato Cliente di cui parlavo questo è un momento drammatico della sua vita. Per sempre egli si ricorderà di un terribile momento in cui la notte stava calando su una scogliera sconosciuta e la sua automobile, con una gomma a terra in una curva a gomito, rischiava di venire tamponata da un gippone guidato da giovanotti sconsiderati o ancor peggio polverizzata da un Tir con alla guida un autista insonnolito e forse ubriaco. Non vorrei che Lorsignori pensassero che con questo esempio testé citato io voglia mettere sullo stesso piano l'ansia pur comprensibile del Cliente di cui sopra con le ambasce di cui Lorsignori hanno reso edotta questa Agenzia durante il lungo rapporto intercorso fra noi. I confronti fra cliente e cliente sono sempre evitati con accuratezza da questa Agenzia di cui io sono l'incaricata dello scioglimento dei contratti. Contratti di cui Lorsignori eventualmente potrebbero contestare la validità con l'obiezione di non averli sottoscritti con una firma autografa. Ahimè, il fatto è che con la loro

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sola presenza in questo mondo, Lorsignori hanno firmato un contratto che consiste nel nascere. E nel vivere. E naturalmente anche nel morire. Di confronti, dicevo, non è il caso di farne. Anche perché ciascuno a suo modo, nella sua vita, ha cercato di liberarsi da un filo, fosse esso spinato o meno. E quanti viaggi non si sono fatti in compagnia di qualcuno rendendoci conto alla fine di essere soli? Non parliamo poi di labirinti mentali nei quali credemmo di rivivere come nostro un tempo che fu nostro ma che non è già nostro. E volere insegnare a Saffo il metro d'Anacreonte è una stoltezza, mi credano. Si possono capire i baccanali, quando il sacerdote entra in estasi e la musica dei cimbali e dei tamburelli rompe ogni metro, diviene ossessiva e penetra nella cistifellea dalla quale si diffonde la nera malinconia e la visione notturna dell'universo: ma affidarsi a melodrammi che prevedono musiche degne di un triclinio imbevuto di cattivi profumi, pare a questa Agenzia cosa eccessiva e senz'altro disdicevole. Da tempo, poi, noi conosciamo come il sangue alimenta gli atomi degli uomini, e come esso può sottrar loro il suo nutrimento: ci spiace. E di lunghe passeggiate anche Noi ne facemmo, vi assicuriamo: sono giretti che possono durare anche tutta una vita, ma cosa aggiunge l'algoritmo di una vita agli algoritmi infiniti di un'Agenzia come la nostra? E ancora, la stessa cosa vista da due punti opposti: non sembra Loro un po' noiosa? Suvvia!, l'universo è fatto di punti infiniti, e due miseri punti di vista sono davvero pochi. E se davvero il silenzio è d'oro, perché mai scrivere ciò che non si era mai scritto e fare il viaggio che non si era mai fatto? Non sembra Loro una forma di pavida resa? Lorsignori sono persone dolenti, o comunque persone cui la vita dolse molto. Ciò è plausibile, e nei casi come i Loro, in cui per una scelta che non dipende dalla nostra Agenzia ma da un'ignota data che appartiene a un ufficio superiore al Nostro chiamato Scadenza, teniamo in serbo, in via del tutto eccezionale, una nostra lettera, che ci serve quasi da dépliant, di una donna che ci fu molto cara e che in certuni casi speciali inviarne ai clienti di sesso maschile come Lorsignori, non solo per lenire le Loro pene, ma anche per ricordar Loro, seppur attraverso la forma di un'altra circolare, che i destinatari, di cui Lorsignori sembrano non essersi preoccupati sinora, hanno il diritto di essere a loro volta dei mittenti. Tale lettera non è firmata, ma a Lorsignori non costerà molto sforzo capire chi la scrisse. Anche se essa non aveva titolo, io e le mie Sorelle l'abbiamo intitolata Lettera al vento. La nostra Agenzia sarebbe Loro grata se volessero prestarle l'attenzione dovuta. Lettera al vento. "Sono sbarcata in quest'isola alla fine del pomeriggio. Dal

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ferry vedevo il porticciolo avvicinarsi, con la cittadina bianca appollaiata intorno al castello veneziano e pensavo: forse è qui. E mentre percorrevo le viuzze a scalinata che arrivano fino alla torre, col mio bagaglio che ogni giorno si fa più leggero, a ogni gradino ripetevo: forse è qui. Nella piazzetta sotto il castello, un terrazzato da cui si domina il porto, c'è un ristorante popolare, con vecchi tavolini di ferro lungo un muricciolo, due aiole con due olivi e gerani molto rossi in vasi rettangolari. Dei vecchi siedono sul muricciolo e parlano basso, bambini corrono intorno al busto marmoreo di un capitano baffuto che fu un eroe delle guerre balcaniche degli anni venti. Mi sono seduta a un tavolino, ho posato il mio bagaglio per terra e ho ordinato il piatto tipico dell'isola, coniglio con cipolle profumato di cannella. Si fanno vivi i primi turisti: comincia il giugno. Stava calando la notte, una notte trasparente che ha trasformato il cobalto del cielo in un violetto acceso, e poi il buio dove è rimasto l'indaco. Sul mare brillavano le luci dei villaggi di Paros, che sembrava a due passi. Ieri a Paros ho conosciuto un medico. E' un uomo del Sud, di Creta, penso, anche se non glielo ho chiesto. E un uomo basso e robusto, con delle venuzze sul naso. Io guardavo l'orizzonte e lui mi ha domandato se stessi guardando l'orizzonte. Sto guardando l'orizzonte, gli ho risposto. Lunica linea che frange l'orizzonte è l'arcobaleno, ha detto lui, l'inganno di una riflessione ottica, una pura illusione. E abbiamo parlato di illusioni, e non volendo ho parlato di te, ho fatto il tuo nome senza farlo, e lui mi ha detto di averti conosciuto perché aveva suturato le tue vene un giorno che ti tagliasti i polsi. Non lo sapevo, e ciò mi ha commosso, e ho pensato che in lui avrei trovato un poco di te, perché aveva conosciuto il tuo sangue. Così l'ho seguito nella sua pensione, si chiamava Thalassa, era infatti sul lungomare, ed era squallida, abitata da tedeschi di classe modesta che vengono a passare le ferie in Grecia e detestano i greci. Però lui non era come i tedeschi, era gentile, si è spogliato con pudore, e aveva un membro piccolo, un po' ritorto, come certe statue di satiri delle terrecotte del museo di Atene. E non voleva tanto una donna ma soprattutto parole di conforto, perché era infelice, e io ho finto di dargliele, per umana pietà. Ti ho cercato, amore mio, in ogni atomo di te che è disperso nell'universo. Ne ho raccolti quanti mi era possibile, nella terra, nell'aria, nel mare, negli sguardi e nei gesti degli uomini. Ti ho cercato perfino nei kouroi, nella lontana montagna di una di queste isole, solo perché una volta mi dicesti che ti eri seduto sul grembo di un kouros. L'ascesa non è stata facile. La corriera mi ha lasciata a Sypouros, se così si chiama un villaggio sconosciuto anche alle mappe geografiche, e poi c'erano tre chilometri da fare a piedi, ho salito lentamente la strada sterrata a curve che più avanti scende verso una valle di olivi e cipressi. C'era un vecchio pastore lungo la strada, e gli ho solo detto l'unica parola che importava: kouros. E nei suoi occhi è

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brillata una luce di complicità come se avesse capito, come se sapesse chi ero io e chi cercavo, che cercavo te, e senza dire una parola ha steso una mano indicandomi il cammino, e io ho raccolto il suo gesto che mi ha guidato e quella luce che è brillata un attimo nei suoi occhi e li ho messi in tasca, guarda, li ho qui, potrei disparli sul tavolino di questa terrazza dove sto cenando, sono altre duepietruzze di questo affresco in brìciole che sto disperatamente raccogliendo per ricostruirti, oltre all'odore dell'uomo con cui ho passato la notte, l'arcobaleno sull'orizzonte e questo mare celeste che mi angoscia. Ma soprattutto una finestra inferriata che ho trovato a Cantorini, sulla quale si inerpicava una vite, e da dove si vedeva il vasto mare e una piazzetta. Il mare era infiniti chilometri, e la piazzetta pochi metri quadrati, e intanto mi ricordavo di poesie che parlano di mari e di piazze, un mare di tegole scintillanti che una volta vidi con te da un cimitero, e una piazzetta dove le persone che l'abitavano avevano visto il tuo volto, e così mentalmente io ti cercavo nello scintillio di quel mare perché tu l'avevi visto, e negli occhi del mereceiaio, del farmacista, del vecchietto che vendeva caffè ghiacciato in quella piazzetta, perché ti avevano visto. Anche queste cose le ho messe in tasca, in questa tasca che è me stessa e i miei occhi. Un pope è uscito sul sagrato. Sudava nelle sue vesti nere e recitava una liturgia bizantina dove il kyrie aveva un colore di te. C'è un battello all'orizzonte che lascia nell'azzurro una striscia di spuma bianca. Sarai tu anche quella? Forse. Potrei metterla nella mia tasca. Ma intanto una prematura turista straniera, prematura per la stagione, perché l'età è quasi venerabile, telefona dall'apparecchio aperto al vento e ai passanti, davanti al mare, e dice: Here thè spring is wonderful. I will remain very well. E questa è una frase tua, la riconosco anche se detta in un'altra lingua, ma in questo caso è solo l'approssimativa traduzione in inglese di ciò che tu hai già detto, lo sappiamo bene. La primavera è passata per noi, mio caro amico, mio caro amore. E l'autunno è già arrivato, con il giallo attuale delle sue foglie. Anzi, è il pieno inverno in questa precoce estate rinfrescata dalla brezza che stasera soffia sulla terrazza affacciata sul porto di Nasso. Finestre: ciò di cui abbiamo bisogno, mi disse una volta un vecchio saggio in un paese lontano, la vastità del reale è incomprensibile, per capirlo bisogna rinchiuderlo in un rettangolo, la geometria si oppone al caos, per questo gli uomini hanno inventato le finestre che sono geometriche, e ogni geometria presuppone gli angoli retti. Sarà che la nostra vita è subordinata anch'essa agli angoli retti? Sai, quei difficili itinerarì, fatti di segmenti, che tutti noi dobbiamo percorrere semplicemente per arrivare alla nostra fine, forse, ma se una donna come me ci pensa da una terrazza spalancata sul Mar Egeo, in una sera come questa, capisce che tutto ciò che pensiamo, che viviamo, che abbiamo vissuto, che immaginiamo, che desideriamo, non può essere governato dalle geometrie. E che le

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finestre sono solo una pavida forma di geometria degli uomini che temono lo sguardo circolare, dove tutto entra senza senso e senza rimedio, come quando Talete guardava le stelle, che non entrano nel riquadro della finestra. Tutto ho raccolto di te: briciole, frammenti, polvere, tracce, supposizioni, accenti restati in voci altrui, qualche grano disabbia, una conchiglia, il tuo passato immaginato da me, il nostro supposto futuro, ciò che avrei voluto da te, ciò che mi avevi promesso, i miei sogni infantili, l'innamoramento che bambina sentii per mio padre, certe sciocche rime della mia giovinezza, un papavero sul ciglio di una strada polverosa. Anche quello ho messo in tasca, sai?, la corolla di un papavero come quei papaveri che andavo a cogliere sulle colline a maggio con la mia Volkswagen, mentre tu stavi in casa gravido dei tuoi progetti, attendendo alle complicate ricette che tua madre ti aveva lasciato in un librìccino nero scritto in francese, e io ti raccoglievo papaveri che tu non sapevi capire. Non so se tu hai messo il tuo seme dentro di me o viceversa. Ma no, nessun seme di noi è mai fiorito. Ciascuno è solo se stesso, senza la trasmissione di carne futura, e io soprattutto senza qualcuno che raccoglierà la mia angoscia. Tutte le ho girate queste isole, tutte cercandoti. E questa è l'ultima, come io sono ultima. Dopo di me, basta. Chi ti potrebbe cercare ancora se non io? Non si può tradire così, tagliando tifilo. Senza neppure che io sappia dove riposa il tuo corpo. Ti sei consegnato al tuo Minosse, che credevi di aver beffato ma che alla fine ti ha inghiottito. E così ho decifrato epigrafi in tutti i possibili cimiteri, alla ricerca del tuo nome amato, dove almeno poterti piangere. Due volte mi hai tradito, e la seconda nascondendomi il tuo corpo. E ora sono qui, seduta a un tavolino di questa terrazza, guardando inutilmente il mare e mangiando coniglio insaporito di cannella. Un vecchio greco indolente canta una canzone antica per accattonaggio. Ci sono gatti, bambini, due inglesi della mia età che parlano di Virginia Woolfe un faro in lontananza di cui non si sono accorti. Io ti feci uscire da un labirinto, e tu mi ci hai fatto entrare senza che per me uscita ci sia, neanche se fosse quella estrema. Perché la mia vita è passata, e tutto mi sfugge senza possibilità di un nesso che mi riconduca a me stessa o al cosmo. Sono qui, la brezza mi accarezza i capelli e io brancolo nella notte, perché ho perso il mio filo, quello che avevo dato a te, Teseo. " il tempo a nostra disposizione, purtroppo, sta finendo.

Cloto e Lachesi hanno terminato il loro compito, e ora tocca a me. Lorsignori mi perdoneranno, ma in questo attimo, che io sto misurando su una clessidra diversa dalla Loro, è apparso per tutti Loro lo stesso anno, lo stesso mese, lo stesso giorno, la stessa ora di tagliare il filo. Ed è questo che, non senza dispiacere, mi credano, sono incaricata di fare. Adesso. Ora. Subito.

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Post scriptum. Se ben ricordo, questo romanzo in forma di lettere ha cominciato a essere scritto intorno all'equinozio d'autunno del 1995. In quel momento mi interessavo soprattutto di Sadeq Hedayat e della sua forma di suicidio parigino, della circolazione del sangue come la studiò a Pisa a metà del Cinquecento Andrea Cisalpino, della funzione della serotonina, della soglia della sopportabilità del dolore e di amicizie che credevo morte e forse non lo erano. Esso si manifestò inizialmente come scherzo della memoria con la lettera che qui titolo Forbidden Games, pubblicata come testo introduttivo, in inglese e in portoghese, a un volume d'immagini del fotografo brasiliano Màrcio Scavone, AndBetween Shadow andLight/E entre a sombra e a luz, D¢rea Books and Art, Sào Paulo 1997 e poi ripresa in italiano, con il titolo Lettera a una Signora dt Pangt, in "La rassegna lucchese", n. 2,2000. Dico "scherzo della memoria" perché fra le fotografie di Scavone, in una degli anni sessanta, una donna nuda appare a un balcone allungando le braccia verso il cielo, come per abbracciare l'aria. E quell'immagine toccò la memoria di un mio Io così lontano nel tempo (e dunque così distante dal Me che guardavo la fotografia) da farmi ritenere possibile di attribuire la memoria di quell'immagine a un Me che di me fosse solo parvenza o ectoplasma perso nel tempo. Insomma, praticamente uno sconosciuto che scriveva una lettera. La lettera è un equivoco messaggero. Tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo ricevuto una lettera che ci pareva provenisse da un universo immaginario, e che invece esisteva realmente nella mente di chi l'aveva scritta. E probabilmente di altrettali ne inviammo, forse senza renderci conto di entrare in uno spazio reale per noi ma fittizio per gli altri, e di cui essa lettera è inoltre il più onesto falsario, perché ci illude di varcare la distanza con la persona lontana. Le persone sono lontane quando ci stanno accanto, figurarsi quando sono lontane davvero. A volte ci può essere capitato di scrivere a noi stessi. E non parlo di finzioni, spesso sublimi, di cui furono capaci certi scrittori del passato: dico lettere vere, con tanto di bollo e di timbro postale. A volte ci è persino capitato di scrivere ai morti. Non succede tutti i giorni, lo ammetto, ma può succedere. E può anche darsi che i morti abbiano risposto, in una qualche forma che solo loro conoscono. Ma

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ciò che inquieta di più e che rode come un tarlo testardo infilato in una vecchia tavola e impossibile da far tacere se non con un veleno che avvelenerebbe anche noi, è la lettera che non abbiamo mai scritto. "Quella" lettera. Quella che tutti noi abbiamo sempre pensato di scrivere, in certe notti insonni, e che abbiamo sempre rimandato al giorno dopo. Se mi si chiedesse di pronunciarmi sulla natura di queste lettere fatte romanzo non escluderei di definirle lettere d'amore. In senso assai lato, così come è vasto il territorio dell'amore, che sconfina spesso in territori ignoti e apparentemente non suoi come il rancore, il risentimento, la nostalgia, il rimpianto. Che poi sono alcuni dei luoghi in cui questi personaggi, mittenti delle epistole che ho messo a scrivere, vagano come smarriti. E, se non dell'amore, qualcosa di simile ad un penoso affetto anima persino l'ultimo personaggio, unica voce femminile di questo libro che passa la sua vita a tagliare vite altrui con le cesoie. Di alcune lettere mi piacerebbe raccontare il come e il quando, forse perché ogni storia ha sempre una sua sottostoria. Improvvisamente, una certa estate, credetti di poter rivedere un temporale a cui avevo assistito diciotto anni prima. Pensare di poter rivivere l'Irripetibile è un'idea stolta, anche se le circostanze esterne ed interne, sembrandoci identiche, corroborano la nostra illusione. Di quell'evento lontano c'erano infatti gli stessi elementi costitutivi: lo stesso punto di osservazione (la finestra di una locanda isolata), lo stesso luogo osservato (un paesaggio di colline selvatiche), la stessa aria carica di elettricità che si trasmetteva al corpo e ai pensieri, la stessa luna che correva all'impazzata fra le nuvole d'inchiostro. Spalancai la finestra, mi appoggiai al parapetto e mi misi in paziente attesa. In tali circostanze è necessario accendere una sigaretta, o una candela, e pensare ai propri morti, come avevo fatto molti anni prima. Lo feci, ma il temporale non si verificò, lasciando immobile il paesaggio. Esso si scatenò invece nella mia testa alla stregua di una cefalea cosmica che gonfia le maree del sangue nel cranio. E scoppiò con la musica della Norma di Bellini, che è musica pomposa e arrogante come tutte le opere di quei bravi artigiani che si stimarono grandi artisti, adatta peraltro agli abominevoli versi del libretto di Felice Romani. Come vicario di quel temporale mancato nacque Casta Diva, al cui Io-narrante affidai la direzione d'orchestra di un'opera sconnessa e demente, come quando l'atmosfera è sconvolta dagli elementi. E poiché quell'io-narrante pretendeva di arrivare alla conoscenza di un evento reale come lo stregone che chiama la pioggia - e cioè saltando i passaggi della logica sostanziale, usando l'intuizione e l'arbitrio e riconnettendo l'evento da conoscere secondo una logica tutta sua -, ne con-

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clusi che quel personaggio si muoveva sul piano della logica del delirio. Forse egli era pazzo. Al principio di settembre, Ricardo Cruz-Filipe mi invitò nella sua casa di Lisbona per vedere i suoi ultimi dipinti. Da tempo avevo promesso a Cruz-Filipe un testo intorno alla sua pittura e non lo avevo mai scritto. Quel giorno, guardando alcuni quadri, e soprattutto le disiecta membra dei quadri "caravaggeschi", capii chiaramente che quel testo lo avevo già scritto. Era quello che qui titolo Casta Diva. E capii anche che i pazzi non sono gli stregoni che danzano affinchè il temporale si scateni, ma il falso meteorologo che annuncia che il temporale previsto per oggi potrà avvenire solo fra due giorni. E perché, poi? Semplicemente perché quel meteorologo vuole che tutto si svolga per ordine e per logica, e che il mattino arrivi a suggellare una notte serena passata fra le braccia del suo Morfeo. E dunque requiescere in pace, onde riprendere il suo tran-tran grazie al quale si sa che la vita è tutta qua, e mai altrove. La lettera intitolata Il fiume, l'avevo inizialmente intitolata Senza fine, pensando a un'indimenticabile canzone di Gino Paoli, anche perché mi pareva che parole come: "Sei un attimo senza fine, non hai ieri, non hai domani" non si possano dire impunemente a una donna: esigono uno svolgimento qualsiasi. Non escludo che a qualcuno essa possa ricordare A terceira margem do rio di Guimaraes Rosa, racconto la cui maestosità mi impressionò quanto la vista del Rio delle Amazzoni. Ma, come è stato detto, la letteratura non è un treno che corre in superficie, ma un fiume carsico che sbuca dove meglio gli pare, nel senso che il suo corso sfugge ad ogni controllo di superficie. Bisogna poi aggiungere che il fiume di Guimaraes Rosa, per quanto immenso, possedeva una terza sponda, mentre quello cui si riferisce questo racconto di sponde è orfano. Ma forse non è improbabile che entrambi i racconti abbiano bevuto alle sponde della terza Enneade di Plotino, così come ce la trasmise Porfido, dove si legge di un fiume infinito che è insieme Principio e Assenza, emanazione primordiale e impossibilità di determinazioni misurabili. Ma a pensarci meglio questo racconto attinge soprattutto alla vita del suo protagonista. Perché gli scrittori la vita dei loro personaggi la conoscono proprio bene, anche nelle polle più profonde: e non è una dichiarazione di ripicca, mi si creda. A coloro ai quali, grazie alla dimestichezza con la narratologia, questa lettera apparisse "labirintica", vorrei specificare che è stata scritta in un luogo dove il labirinto è cosa antica. Per la precisione a Hanià, a Doma, in casa di loanna e Rena Koutsoudaki. E a loanna e Rena, e al ricordo della loro ineguagliabile ospitalità, essa è affettuosamente dedicata. La lettera è anche debitrice dell'amicizia di Anteos Chrysostomidis, che una domenica di giugno, a Creta, ebbe la pa-

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zienza di raccogliere su un quaderno molte pagine che non potendo scrivere personalmente ero costretto a "scrivere" a voce. Sono passato a trovarti, ma non c'eri è stata scritta pensando alle "passeggiate" di Robert Walser, che durarono tutta la vita, e alla sua memoria è dedicata. Libri mai scritti, viaggi mai fatti è stata scritta in treno da Parigi a Ginevra, andata e ritorno. Il filosofo francese a cui si fa allusione è Clément Rosset e il libro in questione è Le réel, l'imaginaire et l'illusoire. Questo testo è dedicato a Jean-Marc, clochard di Parigi che ha viaggiato per tutto il mondo senza muoversi dal suo marciapiede. A cosa serve un'arpa con una corda sola? deve molto al ricordo di un amico che un giorno partì per un suo Altrove senza fare ritorno, a un breve incontro con la rappresentante della Comunità Ebraica di Salonicco, al pianista Sandro Ivo Bartoli, con il quale è bello parlare di musica, e a una persona che una volta mi parlò di un'Alessandria d'Egitto lontana nel tempo. Strana forma di vita prende il titolo da un vecchio fado di Amàlia Rodrigues, e può essere letta come un omaggio a Enrique Vila-Matas e alla genialità antropofagica della sua opera. Della difficoltà di liberarsi del filo spinato può essere considerata una continuazione di Forbidden Games, o una sua appendice, quasi che il mittente di quelle lettere si fosse accorto che il destinatario non aveva raccolto il suo messaggio nella bottiglia, e soprattutto che repetita non juvant. Delle altre storie non mette conto parlare: esse sono nate qua e là, a volte ascoltate, a volte immaginate, altre volte venute chissà da dove, come è loro capriccio. Voglio solo dire che la lettera nella lettera, intitolata Lettera al vento, l'ho sottratta a un mio romanzo che non ho ancora scritto. Se un giorno lo scriverò gliela restituirò. La lettera in cui è inclusa potrebbe a buon diritto essere considerata una lettera mia personale, questa sì. Perché mi pare giusto che si facciano tacere alla buonora i propri personaggi, dopo che si è avuta la pazienza di stare a sentire le loro querule storie. E' un modo di dire loro che il tempo concesso è scaduto e che non vengano più a tormentarci con la loro presenza. Via, via. A.T.

Nel momento di licenziare questo libro la mia gratitudine va a Veronica Noseda, che con affettuosa amicizia e grande pazienza ha trasformato in dattiloscritto i quaderni sui quali stava questo romanzo, e a Massimo Marianetti, che ha raccolto i primi testi.

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Antonio Tabucchi, Notturno indiano.

Copyright 1984 Sellerio editore, Palermo. Diciannovesima edizione 1995.

Un'ipotesi dell'autore - una giustificazione per un modo di raccontare cosÏ allusivo - è che questo libro potrebbe servire da guida per un amante di percorsi incongrui. E vi è certo dell'incongruo in questa ricerca di un amico disperso, ombra di un passato segnato - s'indovina - da una qualche definitiva rottura; in


quest'India conosciuta solo nelle camere d'albergo, negli ospedali, e che pure balugina attraverso i colloqui essenziali con profeti incontrati sui pullman, con gesuiti portoghesi, con gnostici di una società teosofica. Ma è un'incongruità che dall'esplicitarsi di suggerimenti, da concomitanze che si rivelano necessarie, si riordina a metodo. è il lato notturno e occulto delle cose il tema di Notturno indiano.

Antonio Tabucchi è nato a Pisa nel 1943. Ha tradotto e curato l'edizione italiana dell'opera di Fernando Pessoa. Come narratore ha pubblicato: Piazza d'Italia (Milano, 1975), Il piccolo naviglio (Milano, 1979), Il gioco del rovescio (Milano, 1981), e Donna di Porto Pim con questa casa editrice nel 1983. Suoi romanzi sono stati tradotti in varie lingue.


Le persone che dormono male sembrano essere più o meno colpevoli: che cosa fanno? Rendono la notte presente. Maurice Blanchot.

Nota.

Questo libro, oltre che un'insonnia, è un viaggio. L'insonnia appartiene a chi ha scritto il libro, il viaggio a chi lo fece. Tuttavia, dato che anche a me è capitato di percorrere gli stessi luoghi che il protagonista di questa vicenda ha percorso, mi è parso opportuno fornire di essi un breve indice. Non so bene se a ciò ha contribuito l'illusione che un repertorio topografico, con la forza che il reale possiede, potesse dare luce a questo Notturno in cui si cerca un'Ombra; oppure l'irragionevole congettura che un qualche amante di percorsi incongrui potesse un giorno utilizzarlo come guida. A. T.


Indice dei luoghi di questo libro.

1. Khajuraho Hotel. Suklaji Street, senza numero, Bombay. 2. Breach Candy Hospital. Bhulabai Desai Road, Bombay. 3. Taj Mahal Inter-Continental Hotel. Gateway of India, Bombay. 4. Railway's Retiring Rooms. Victoria Station, Central Railway, Bombay. Pernottamento con il biglietto ferroviario valido oppure con l'Indrail Pass. 5. Taj Coromandel Hotel. 5 Nungambakkam Road, Madras. 6. Theosophical Society. 12 Adyar Road, Adyar, Madras. 7. Autobus-Stop. Strada Madras-Mangalore, 50 km circa da Mangalore, localitĂ ignota. 8. Arcebispado e ColĂŠgio de S' Boaventura. Strada Calangute-Panaji, Velha Goa, Goa. 9. Zuari Hotel. Swatantrya Path, senza numero, Vasco da Gama, Goa.


10. Spiaggia di Calangute. 20 km circa da Panaji, Goa. 11. Mandovi Hotel. 28 Bandodkar Marg, Panaji, Goa. 12. Oberoi Hotel. Bogmalo Breach, Goa.

Parte prima.

I.

Il tassista aveva una barba a pizzo, una reticella sui capelli e un codino legato con un nastro bianco. Pensai che fosse un sikh, perché la mia guida li descriveva esattamente così. La mia guida si intitolava: India, a travel survival kit, l'avevo acquistata a Londra più per curiosità che per altro, perché forniva sull'India informazioni assai bizzarre e a prima vista superflue. Solo più tardi mi sarei accorto della sua


utilità. L'uomo correva troppo forte per il mio temperamento e suonava il clacson con ferocia. Mi parve che sfiorasse i pedoni di proposito, con un sorriso indefinibile che non mi piaceva. Alla mano destra portava un guanto nero, e anche questo non mi piacque. Quando imboccò Marine Drive parve calmarsi e si allineò tranquillamente in una delle file del traffico, dalla parte del mare. Con la mano guantata indicò le palme del lungomare e l'arco del golfo. "Quello è Trobay", disse, "e davanti a noi c'è l'isola di Elephanta, ma non si vede. Sono certo che vorrà visitarla, i battelli partono ogni ora dal Gateway of India". Gli chiesi perché stesse percorrendo Marine Drive. Non conoscevo Bombay, ma cercavo di seguire il suo percorso con la cartina che tenevo sulle ginocchia. I miei punti di riferimento erano Malabar Hill e il Chor, il mercato dei ladri. Il mio albergo si trovava fra quei due punti, e per raggiungerlo non bisognava percorrere Marine Drive. Stavamo andando in direzione opposta. "L'albergo che mi ha detto è in un


quartiere miserabile", disse affabilmente, "e la merce è di cattiva qualità, i turisti che vengono a Bombay per la prima volta finiscono spesso in luoghi poco raccomandabili, la porto in un albergo adatto a un signore come lei". Sputò dal finestrino e fece un ammicco. "E con merce di prima scelta". Esibì un sorriso viscido di grande complicità, e questo mi piacque ancora meno. "Si fermi qui", dissi, "subito". Lui si girò e mi guardò con aria servile. "Ma qui non posso", disse, "c'è il traffico". "Allora scendo ugualmente", dissi aprendo lo sportello e reggendolo ben saldo. Lui frenò bruscamente e cominciò una litania in una lingua che doveva essere il marathi. Aveva un'aria furibonda e credo che le parole che sibilava fra i denti non fossero delle più gentili, ma non me ne curai affatto. Avevo con me solo una piccola valigia che tenevo accanto, perciò non ci fu neanche bisogno che uscisse per darmi il bagaglio. Gli lasciai un biglietto da cento rupie e scesi sull'enorme marciapiede di Marine


Drive, sulla spiaggia c'era una festa religiosa o una fiera, chissà, con una grande folla accalcata davanti a qualcosa che non riuscii a distinguere, sul lungomare sostavano vagabondi stesi sul muretto di cinta, ragazzini che vendevano cianfrusaglie, mendicanti. C'era anche una fila di risciò motorizzati, saltai dentro a uno sgabuzzino giallo attaccato a una motoretta e gridai all'omino la via del mio albergo. Lui pigiò sul pedale della messa in moto e partì a tutto gas, infilandosi nel traffico. Il "Quartiere delle Gabbie" era molto peggio di come me lo ero immaginato. Lo conoscevo attraverso certe fotografie di un fotografo celebre e pensavo di essere preparato alla miseria umana, ma le fotografie chiudono il visibile in un rettangolo. Il visibile senza cornice è sempre un'altra cosa. E poi quel visibile aveva un odore troppo forte. Anzi, molti odori. Quando entrammo nel quartiere stava calando il crepuscolo e nel tempo di percorrere una strada, all'improvviso come avviene ai tropici, scese la notte. Una grande parte delle


costruzioni del "Quartiere delle Gabbie" sono di legno e di stuoie. Le prostitute stanno in casupole di tavole sconnesse, con la testa fuori da un pertugio. Alcune di quelle casupole erano poco più grandi della garitta di una sentinella. E poi c'erano baracche e tende di stracci, forse botteghe o altre attività commerciali, illuminate da lampade a petrolio, davanti a cui sostavano capannelli di gente. Ma l'hotel Khajuraho aveva una piccola targa illuminata e si apriva quasi sull'angolo di una via con edifici in muratura. La hall, se così si può chiamare, aveva però solo un'aria equivoca senza essere sordida. Era una piccola stanza in penombra con un banco alto come i banconi dei pubs inglesi, ad ogni lato del banco c'erano due paralumi rossi e dietro c'era una donna anziana. Aveva un sari vistoso e le unghie laccate di blu, dall'aspetto avrebbe potuto essere europea, anche se sulla fronte portava uno dei tanti segni delle donne indiane. Le mostrai il mio passaporto e dissi che avevo riservato per telegramma. Lei fece un cenno di


assenso e si mise a ricopiare i miei dati anagrafici con ostentata diligenza, poi mi girò la scheda perché la firmassi. "Con bagno o senza?", mi chiese, e mi specificò i prezzi. Presi la camera con bagno. Mi parve che la pronuncia della portiera avesse un leggero accento americano, ma non approfondii. Mi assegnò la camera e mi tese la chiave. Il portachiavi era di celluloide trasparente con dentro una decalcomania in tono con l'albergo. "Vuole cenare?", mi chiese. Mi guardava con sospetto. Capii che il luogo non era frequentato da occidentali. Certo si chiedeva cosa ci facevo io lì, con un bagaglio insignificante, dopo aver telegrafato dall'aeroporto. Dissi di sì. La cosa non mi attraeva particolarmente, ma avevo molta fame e non mi pareva il caso di mettermi a girare a quell'ora per il quartiere. "Il dining room chiude alle otto", disse, "dopo le otto serviamo solo in camera". Dissi che preferivo cenare di sotto, lei mi precedette a una tenda


dall'altra parte del vestibolo e io entrai in una saletta a volta, con le pareti dipinte di scuro, dove c'erano dei tavoli bassi. I tavoli erano quasi tutti liberi e la luce molto fioca. Il menÚ prometteva un'infinità di vivande, ma poi, chiedendo al cameriere, venni a sapere che proprio quella sera erano tutte terminate. Restava il numero quindici. Cenai velocemente con riso e pesce, bevvi una birra tiepida e ritornai nel vestibolo. La portiera era ancora sul suo scanno e pareva intenta a disporre delle pietruzze colorate su una specie di specchio. Sul divanetto dell'angolo, vicino alla porta d'ingresso, stavano seduti due giovanotti molto scuri, vestiti all'occidentale, con i pantaloni a zampa d'elefante. Sembrarono non accorgersi di me, ma io sentii immediatamente un certo disagio. Mi fermai davanti al banco e aspettai che fosse lei a parlare. Infatti parlò. Disse dei numeri con voce neutra e distaccata, io non afferrai bene il concetto e la pregai di ripetere. Era una tabella. Le uniche cifre che capii erano la prima e l'ultima: dai tredici


ai quindici anni trecento rupie, dopo i cinquanta cinque rupie. "Le donne sono nella saletta al primo piano", concluse. Trassi di tasca la lettera e le feci vedere la firma. Sapevo il nome a memoria, ma preferii farglielo vedere scritto, perché non ci fossero equivoci. "Vimala Sar", dissi. "Voglio una ragazza che si chiama Vimala Sar". Lei gettò un'occhiata rapida ai due giovanotti seduti sul divano. "Vimala Sar non lavora più qui", disse, "è andata via". "Dov'è andata?", chiesi. "Non lo so", rispose, "ma abbiamo ragazze più belle di lei". La cosa non prometteva molto bene. Con la coda dell'occhio mi parve che i due giovanotti avessero fatto un piccolo movimento, ma forse era soltanto la mia impressione. "Me la rintracci", dissi rapidamente, "io aspetto in camera". Per fortuna in tasca avevo due biglietti da venti dollari. Glieli misi fra le pietruzze colorate e raccolsi la mia valigetta. Mentre salivo le scale ebbi una piccola ispirazione dettata dalla paura. "La


mia ambasciata sa che sono qui", dissi a voce alta.

La camera sembrava pulita. Era dipinta di verdolino e sulle pareti c'erano stampe con le sculture erotiche di Khajuraho, mi parve, ma non avevo molta voglia di accertarmene. Il letto era molto basso e accanto aveva una poltrona sdrucita e un piccolo monte di cuscini colorati. Sul tavolino da notte c'erano vari oggetti dalla forma inequivocabile. Mi spogliai e presi della biancheria pulita. Il bagno era uno sgabuzzino laccato che aveva sulla porta un cartello con una bionda che cavalcava una Coca-Cola. Il cartello era ingiallito e macchiato dagli insetti, la bionda portava i capelli alla Marilyn Monroe, tipo anni Cinquanta, e questo aumentava la sua incongruenza. Alla doccia mancava la pannocchia forata, era semplicemente un tubo sporgente da cui sgorgava un getto d'acqua all'altezza della testa, ma lavarmi mi parve la cosa pi첫 voluttuosa del mondo: avevo sulle spalle otto ore di aereo, tre ore di


permanenza all'aeroporto e l'attraversamento di Bombay. Non so quanto tempo dormii. Forse due ore, forse di più. Quando mi svegliarono i colpetti sulla porta andai ad aprire macchinalmente, da principio non mi resi neppure conto di dove mi trovavo. La ragazza entrò frusciando. Era piccola e portava un sari leggiadro. Sudava, e il trucco le si stava sciogliendo agli angoli degli occhi. Disse: "Buona sera signore, io sono Vimala Sar". Rimase in piedi in mezzo alla camera, gli occhi bassi e le braccia lungo i fianchi, come se io dovessi esaminarla. "Sono un amico di Xavier", dissi. Lei alzò gli occhi e lessi un grande stupore sul suo viso. Avevo preparato la sua lettera sul comodino. Lei la guardò e cominciò a piangere. "Perché è finito in questo posto?", chiesi. "Cosa ci faceva? Dov'è ora?". Lei cominciò a singhiozzare sommessamente e io capii di aver fatto troppe domande. "Si calmi", dissi. "Quando seppe che le avevo scritto si arrabbiò molto", disse lei. "E perché mi scrisse?".


"Perché trovai il suo indirizzo sull'agenda di Xavier", disse lei, "sapevo che eravate molto amici, un tempo". "Perché si arrabbiò?". Lei si portò una mano alla bocca come per impedirsi di piangere. "Negli ultimi tempi era diventato cattivo", disse, "era malato". "Ma cosa faceva?". "Faceva dei commerci", disse lei, "non so, non mi raccontava niente, non era più buono". "Che tipo di commerci?". "Non lo so", ripeté lei, "non mi raccontava niente, a volte taceva per giorni e giorni, e poi all'improvviso era molto inquieto e scoppiava in grandi rabbie". "Quando è arrivato qui?". "L'anno scorso", disse lei, "veniva da Goa, faceva dei commerci con loro, poi si è ammalato". "Loro chi?". "Quelli di Goa", disse, "di Goa, non lo so". Si sedette sul divanetto vicino al letto, ora non piangeva più, sembrava più calma. "Prenda da bere", disse, "in quell'armadietto ci sono liquori, una bottiglia costa cinquanta


rupie". Andai all'armadietto e presi una piccola bottiglia piena di un liquido arancione, un liquore di mandarino. "Ma chi erano quelli di Goa", insistetti, "ricorda almeno il nome, qualcosa?". Lei scosse la testa e ricominciò a piangere. "Quelli di Goa", disse, "di Goa, non so. Era malato", ripeté. Fece una pausa ed emise un lungo sospiro. "A volte sembrava indifferente a tutto", disse, "anche a me. L'unica cosa che lo interessavano un poco erano le lettere di Madras, ma poi il giorno dopo ritornava uguale". "Quali lettere?". "Le lettere di Madras", disse lei con ingenuità come se fosse un'informazione sufficiente. "Ma di chi", insistetti, "chi gli scriveva?". "Non lo so", disse, "una società, non ricordo, non me le ha mai fatte leggere". "E lui rispondeva?", chiesi ancora. Vimala restò assorta. "Sì, rispondeva, credo di sì, passava molte ore a scrivere". "La prego", dissi, "cerchi di fare


uno sforzo, cosa era questa società?". "Non lo so", disse, "era una società di studio, credo, non lo so, signore". Fece un'altra pausa e poi disse: "lui era buono, la sua volontà era buona, ma la sua natura aveva un destino triste". Teneva le mani intrecciate, aveva dita lunghe e belle. Poi mi guardò con un'espressione di sollievo, come se le fosse venuto un ricordo. "Theosophical Society", disse. E per la prima volta sorrise. "Senta", dissi io, "mi racconti tutto con calma, tutto quello che ricorda, tutto quello che può dirmi". Le servii un altro bicchiere. Lei bevve e cominciò a raccontare. Fu un racconto lungo, prolisso, pieno di dettagli. Mi parlò della loro storia, delle strade di Bombay, di gite festive a Bassein e a Elephanta. E poi di pomeriggi al Victoria Garden, stesi sui prati, dei bagni a Chowpatty Beach, sotto le prime piogge del monsone. Seppi come aveva imparato a ridere Xavier, e di cosa rideva; e di come gli piacessero i tramonti sul mare d'Oman, quando passeggiavano al crepuscolo sulla riva. Era una storia


che lei aveva accuratamente mondato da bruttezze e da miserie. Era una storia d'amore. "Xavier aveva scritto tante cose", disse, "poi un giorno bruciò tutto. Era qui, in questo albergo, prese un bacile di rame e dentro ci bruciò tutto". "Perché?", chiesi. "Era malato", disse lei, "la sua natura aveva un destino triste". Quando Vimala se ne andò la notte doveva essere alla fine. Non guardai l'orologio. Tirai le tende sulla finestra e mi distesi sul letto. Prima che mi addormentassi mi giunse un grido lontano. Forse era una preghiera, o un'invocazione al nuovo giorno che stava sorgendo.

Ii.

"Come si chiamava?". "Si chiamava Xavier", risposi. "Come il missionario?", chiese lui.


E poi disse: "non è certo inglese, no?". "No", dissi, "è portoghese, ma non è venuto a fare il missionario, è un portoghese che si è perduto in India". Il medico dondolò la testa in segno affermativo. Aveva un parrucchino lustro che si spostava ogni volta che muoveva la testa, come una calotta di gomma. "In India si perde molta gente", disse, "è un paese fatto apposta per questo". Io dissi: "già". E poi lo guardai, e anche lui mi guardò con un'aria assente da preoccupazioni, come se fosse lì per caso e tutto fosse per caso, perché così dovesse essere. "Sa anche il cognome?", chiese, "a volte può essere d'aiuto". "Janata Pinto", dissi, "aveva remote origini indiane, credo che un suo antenato fosse di Goa, così almeno diceva lui". Il medico fece un cenno come se significasse: basta così; ma non era quello che intendeva dire, naturalmente. "Ci sarà pure un archivio", dissi, "voglio sperare". Lui sorrise con aria infelice e


colpevole. Aveva i denti molto bianchi e un buco nella fila superiore. "Un archivio...", mormorò. Di colpo la sua espressione si fece dura, tesa. Mi guardò con severità, quasi con disprezzo. "Questo è l'ospedale di Bombay", disse seccamente, "lasci da parte le sue categorie europee, sono un lusso superbo". Io tacqui, e anche lui restò in silenzio. Dalla tasca del camice trasse un astuccio di paglia e prese una sigaretta. Dietro il suo tavolo, sulla parete, c'era un grande orologio. Segnava le sette, era fermo. Lo guardai, e lui capì che cosa pensavo. "è tanto che è fermo", disse, "comunque è mezzanotte". "Lo so", dissi io, "la stavo aspettando dalle otto, il medico di giorno mi ha detto che lei era l'unico che forse poteva aiutarmi, dice che ha molta memoria". Lui sorrise di nuovo col suo sorriso triste e colpevole, e io capii che avevo ancora sbagliato, che non era un dono avere molta memoria, in un luogo come quello. "Era un suo amico?". "In qualche modo", dissi io, "un


tempo". "Quando è stato ricoverato?". "Quasi un anno fa, credo, alla fine del monsone". "Un anno è molto tempo", disse lui. E poi continuò: "il monsone è il periodo peggiore, ne vengono talmente tanti". "Lo immagino", risposi. Lui si prese la testa fra le mani, come se riflettesse, o come se fosse molto stanco. "Non lo immagina", disse. "Ha una sua fotografia?". Era una domanda semplice e pratica, ma io inciampai nella risposta, perché anch'io sentii il peso della memoria, e nello stesso tempo la sua inadeguatezza. Cosa si ricorda di un viso, in fondo? No, non avevo una fotografia, avevo solo il mio ricordo: e il mio ricordo era solo mio, non era descrivibile, era l'espressione che io avevo del volto di Xavier. Feci uno sforzo e dissi: "è un uomo alto quanto me, magro, con i capelli lisci, ha circa la mia età, a volte ha un'espressione come la sua, dottore, perché se sorride sembra triste". "Non è una descrizione molto precisa", disse lui, "ma tanto fa lo


stesso, non ricordo nessun Janata Pinto, almeno ora". Ci trovavamo in una stanza molto grigia, spoglia. Alla parete di fondo c'era una grossa vasca di cemento, come un lavatoio. Era piena di fogli. Accanto alla vasca c'era un tavolaccio lungo, anch'esso ingombro di carte. Il medico si alzò e andò in fondo alla stanza. Mi parve che zoppicasse. Si mise a rovistare fra le carte del tavolo. Da lontano ebbi l'impressione che fossero fogli di quaderno e pezzetti di carta marrone, da imballaggio. "è il mio archivio", disse, "sono tutti nomi". Io restai seduto di fronte al tavolino, guardando i pochi oggetti che lo occupavano. C'era una piccola palla di cristallo con l'effigie del ponte di Londra e una fotografia incorniciata con una casa che sembrava uno chalet svizzero. Mi parve assurdo. Ad una finestra dello chalet si vedeva un volto femminile, ma la fotografia era sbiadita e non aveva contorni. "Non è un drogato, no?", mi chiese dal fondo della stanza. "I drogati li rifiutiamo".


Tacqui e scossi la testa. "Forse no", risposi poi, "non lo credo, non so". "Ma come fa a sapere che è venuto in ospedale, ne è sicuro?". "Me lo ha detto una prostituta dell'hotel Khajuraho, era lì che lui alloggiava, l'anno scorso". "E lei?", chiese, "anche lei alloggia lì?". "Ci ho dormito la notte scorsa, ma domani cambierò, cerco di non restare nello stesso albergo più di una notte, quando è possibile". "Perché?", chiese lui insospettito. Aveva un fascio di carte fra le braccia e mi guardava al di sopra degli occhiali. "Perché sì", dissi. "Mi piace cambiare ogni notte, ho con me solo questa piccola valigia". "E per domani ha già deciso?". "Non ancora", dissi io. "Credo di desiderare un albergo molto confortevole, forse di lusso". "Potrebbe andare al Taj Mahal", disse lui, "è l'albergo più fastoso di tutta l'Asia". "Forse non è una cattiva idea", risposi.


Lui immerse le braccia nella vasca fra i pezzi di carta. "Quanti uomini", disse. Si era seduto sul bordo della vasca e si stava pulendo gli occhiali. Si stropicciò gli occhi col fazzoletto come se li avesse stanchi o irritati. "Polvere", disse. "La carta?", dissi io. Lui abbassò gli occhi, mi girò le spalle. "La carta", disse, "gli uomini". Da lontano venne un rimbombo cupo di ferro, come un bidone che ruzzolasse giù per le scale. "Comunque non c'è", disse lui lasciando cadere tutti i fogli, "credo che sia inutile cercarlo fra questi nomi". Istintivamente mi alzai. Era venuto il momento di accomiatarmi, credetti, era questo che mi stava dicendo: che me ne andassi. Ma lui non parve accorgersene, si diresse a un armadietto di metallo che in tempi molto remoti doveva essere stato laccato di bianco. Vi frugò dentro e prese dei medicinali che si infilò frettolosamente nelle tasche del camice, mi sembrò che li prendesse quasi a caso, senza sceglierli. "Se è


ancora qui l'unica maniera di trovarlo è andare a cercarlo", disse, "io devo fare il mio giro, se vuole può seguirmi". Si diresse alla porta e la aprì. "Farò un giro più lungo del solito, stanotte, ma può darsi che lei non ritenga opportuno venire con me". Mi alzai e lo seguii. "Lo ritengo opportuno", dissi. "Posso portare con me il mio bagaglio?". Il vestibolo sul quale si apriva la porta era un andito esagonale da ogni lato del quale partiva un corridoio. Era ingombro di panni, di sacchi, di lenzuola grigie. Alcune avevano macchie violacee e marrone. Imboccammo il primo corridoio alla nostra destra; sull'architrave c'era una placca scritta in hindi, alcune lettere erano cadute lasciando un'impronta chiara fra le lettere rosse. "Non tocchi niente", disse, "e non si avvicini troppo ai malati. Voi europei siete molto delicati". Il corridoio era molto lungo, dipinto di un celeste malinconico. Il pavimento era nero di scarafaggi che scoppiavano sotto le nostre scarpe, anche se facevamo il possibile per non calpestarli. "Li sterminiamo", disse


il medico, "ma dopo un mese rinascono, le mura sono impregnate di larve, bisognerebbe buttare giù l'ospedale". Il corridoio finiva in un nuovo vestibolo identico a quello principale, ma angusto e senza luce, coperto da una tenda. "Che cosa faceva il signor Janata Pinto?", mi chiese scostando la tenda del vestibolo. Pensai di dire: "il traduttore simultaneo", che era quello che forse dovevo dire. E invece dissi: "scriveva dei racconti". "Ah", fece lui. "Stia attento, qui c'è un gradino. Di che cosa parlavano?". "Beh", dissi io, "non saprei bene come spiegare, ecco diciamo che parlavano di cose non riuscite, di errori, uno ad esempio parlava di un uomo che passa la vita a sognare un viaggio e quando un giorno finalmente gli capita di poterlo fare, quel giorno si accorge di non avere più voglia di farlo". "Però lui è partito", disse il medico. "Così pare", dissi io, "effettivamente".


Il medico lasciò cadere la tenda dietro di noi. "Qui dentro ci sono un centinaio di persone" disse, "temo che per lei non sarà uno spettacolo gradevole, sono quelli che stanno qui da qualche tempo, il suo amico potrebbe essere fra questi, anche se mi pare improbabile". Lo seguii ed entrammo nella stanza più grande che avessi mai visto. Era grande quasi quanto un hangar, e lungo le pareti e per tre file centrali c'erano dei letti, o meglio, giacigli. Dal soffitto pendevano alcune lampadine fioche, e io mi fermai un momento perché l'odore era molto forte. Accoccolati vicino alla porta d'ingresso c'erano due uomini vestiti di miseri panni che quando entrammo si allontanarono. "Sono intoccabili", disse il medico. "Sono loro che provvedono alle necessità corporali dei malati, non c'è nessun altro che faccia questo mestiere. L'India è fatta così". Nel primo letto c'era un uomo vecchio. Era completamente nudo e molto magro. Sembrava morto, ma teneva gli occhi spalancati e ci guardò senza nessuna espressione. Aveva un pene


enorme che gli stava accartocciato sul ventre. Il medico gli si avvicinò e gli toccò la fronte. Mi parve che gli infilasse una medicina in bocca, ma non capii bene perché stavo ai piedi del giaciglio. "è un sadhu", disse il medico, "i suoi organi genitali sono consacrati al dio, una volta era adorato dalle donne sterili, ma non ha mai procreato in vita sua". Poi lui si spostò e io lo seguii. Si fermò ad ogni letto, mentre io restavo in disparte guardando il viso dell'ammalato. Presso alcuni si fermò più a lungo, mormorando alcune parole, distribuendo delle medicine. Presso qualche altro sostò brevemente solo toccandogli la fronte. Le pareti erano macchiate di rosso, per gli sputi del betel masticato, e il caldo era soffocante. O forse era l'odore troppo intenso che dava quella sensazione di soffocamento. I ventilatori sul soffitto, comunque, erano fermi. Poi il medico tornò indietro e io lo seguii in silenzio. "Non c'è", dissi, "fra questi non c'è". Lui scostò di nuovo la tenda del vestibolo con immutata cortesia e mi


cedette il passo. "Il caldo è insopportabile", dissi, "e i ventilatori sono fermi, è incredibile". "A Bombay la tensione di notte è molto bassa", mi rispose. "Eppure avete un reattore nucleare a Trobay, ho visto la ciminiera dal lungomare". Mi sorrise molto debolmente. "L'energia va quasi tutta per le fabbriche, e poi per gli alberghi di lusso e per il quartiere di Marine Drive, qui dobbiamo accontentarci". Si incamminò lungo il corridoio e prese la direzione opposta a quella da cui eravamo venuti. "Così è l'India", concluse. "Lei ha studiato qui?", chiesi. Si fermò a guardarmi, e mi parve che nei suoi occhi passasse un lampo di nostalgia. "Ho studiato a Londra", disse, "e poi mi sono specializzato a Zurigo". Tirò fuori il suo astuccio di paglia e prese una sigaretta. "Una specializzazione assurda, per l'India. Sono cardiologo, ma qui nessuno è malato di cuore, soltanto voi in Europa morite d'infarto". "Di cosa si muore, qui?", chiesi io.


"Di tutto ciò che non riguarda il cuore. Sifilide, tubercolosi, lebbra, tifo, setticemia, colera, meningite, pellagra, difterite ed altre cose. Ma a me piaceva studiare il cuore, mi piaceva capire quel muscolo che comanda alla nostra vita, così". Fece un gesto con la mano aprendo e chiudendo il pugno. "Forse credevo che vi avrei scoperto qualcosa dentro". Il corridoio sbucava in un piccolo cortile coperto, davanti a un basso padiglione di mattoni. "Lei è credente?", chiesi. "No", disse lui, "sono ateo. Essere atei è la peggiore maledizione, in India". Attraversammo il cortile e ci fermammo davanti alla porta del padiglione. "Qui dentro ci sono gli incurabili", disse, "esiste una remota possibilità che il suo amico sia fra di loro". "Che cosa hanno?", chiesi. "Tutto quello che può immaginare", disse lui, "ma forse è meglio che lei se ne vada". "Lo credo anch'io", dissi. "L'accompagno", disse lui. "No, non si disturbi, la prego,


forse posso uscire da quella porticina della cancellata, mi pare che siamo sulla strada". "Io mi chiamo Ganesh", disse, "come il dio allegro col viso d'elefante". Anch'io gli dissi il mio nome prima di allontanarmi. Il cancelletto d'uscita era a pochi passi, oltre una siepe di gelsomini. Era aperto. Quando mi girai a guardarlo egli parlò ancora. "Se lo trovassi devo dirgli qualcosa?". "No, per favore", dissi io, "non gli dica niente". Lui si tolse il parrucchino come se fosse un cappello e mi fece una lieve reverenza. Io uscii per strada. Stava albeggiando e la gente sui marciapiedi si stava svegliando. Alcuni stavano arrotolando le stuoie del riposo notturno. La strada era invasa dai corvi che saltellavano attorno allo sterco delle vacche. Vicino alla scalinata dell'ingresso c'era un taxi sgangherato con l'autista che sonnecchiava col viso appoggiato al finestrino. "Taj Mahal", dissi salendo.


Iii.

Gli unici abitanti di Bombay che non si curano del "diritto di ammissione" vigente al Taj Mahal sono i corvi. Calano lenti sulla terrazza dell'Inter-Continental, oziano sulle finestre moghul dell'edificio più antico, si appollaiano fra i rami dei manghi del giardino, saltellano sul perfetto tappeto d'erba che circonda la piscina. Andrebbero a bere sui bordi o beccherebbero la buccia d'arancia del bicchiere del martini se un compitissimo servo in livrea non li scacciasse con una mazza da cricket, come in un'assurda partita diretta da un regista strampalato. Bisogna stare attenti ai corvi, hanno il becco molto sporco. La municipalità di Bombay ha dovuto provvedere a chiudere con dei coperchi gli enormi depositi dell'acquedotto perché è già capitato che gli uccelli, che provvedono a reimmettere nel "circolo vitale" i cadaveri che i Parsi espongono sulle


Torri del Silenzio (ci sono numerose torri nella zona di Malabar Hill), abbiano lasciato cadere nell'acqua qualche boccone. Ma anche con queste misure la municipalità non ha certo risolto il problema igienico, perché poi c'è il problema dei ratti, degli insetti, delle infiltrazioni delle fogne. è meglio non bere l'acqua di Bombay. Lo si può fare al Taj Mahal, che possiede i suoi depuratori e che va orgoglioso della sua acqua. Perché il Taj non è un albergo: con le sue ottocento camere è una città dentro la città. Quando entrai in questa città fui ricevuto da un portiere travestito da principe indiano, con fusciacca e turbante rossi, che mi guidò fino alla portineria tutta ottoni dove c'erano altri impiegati anch'essi mascherati da maharaja. Probabilmente pensarono che anch'io ero mascherato, ma al contrario, che ero un riccone travestito da povero, e si dettero un gran daffare per trovarmi una stanza nell'ala nobile dell'edificio, quella con la mobilia antica e la vista sul Gateway of India. Sul momento fui tentato di dire che non ero lì per


questioni estetiche, ma solo per dormire in uno sfacciato conforto, e che potevano sistemarmi a loro piacimento in una stanza con mobilia vergognosamente moderna, anche il grattacielo Inter-Continental mi andava bene. Ma poi mi parve crudele dare loro questa delusione. La suite dei pavoni, comunque, la rifiutai. Era troppo per una persona sola, ma non era certo per una questione di prezzo, specificai per mantenere il registro stilistico che ormai avevo scelto. La camera era imponente, la mia valigetta mi aveva preceduto per vie misteriose e stava su uno sgabello di corda, la vasca era giĂ piena d'acqua e di spuma, io mi immersi e poi mi avvolsi in un asciugamano di lino, le finestre si aprivano sul mare d'Oman, era ormai quasi giorno chiaro, con una luce rosata che tingeva la spiaggia, la vita dell'India, sotto il Taj Mahal, riprendeva il suo brulicare, le pesanti tende di velluto verde scorrevano dolci e morbide come un sipario, io le feci scorrere sul paesaggio e la camera fu solo penombra e silenzio, il ronzio pigro e confortante del grande ventilatore mi


cullò, feci appena in tempo a pensare che anche quello era un lusso superfluo perchÊ nella camera c'era una climatizzazione perfetta, e arrivai subito a una vecchia cappella su un colle mediterraneo, la cappella era bianca e faceva caldo, eravamo affamati e Xavier ridendo tirava fuori da un cesto dei panini e del vino fresco, anche Isabel rideva, mentre Magda stendeva una coperta sull'erba, lontano sotto di noi c'era il celeste del mare e un asino solitario ciondolava all'ombra della cappella. Ma non era un sogno, era un ricordo vero: guardavo nel buio della camera e vedevo quella scena lontana che mi pareva un sogno perchÊ avevo dormito molte ore e il mio orologio segnava le quattro del pomeriggio. Rimasi a lungo nel letto pensando a quei tempi, ripercorsi paesaggi, volti, vite. Ricordai le gite in macchina lungo le pinete, i nomi che ci eravamo dati, la chitarra di Xavier e la voce squillante di Magda che annunciava con ironica gravità , imitando gli imbonitori delle fiere: signore e signori un po' di attenzione, abbiamo con noi l'Usignolo italiano! E io che


stavo al gioco e attaccavo vecchie canzoni napoletane, imitando i gorgheggi antiquati dei cantanti di altri tempi, mentre tutti ridevano e applaudivano. Fra noi ero Roux, e mi ero rassegnato: iniziale di Rouxinol, in portoghese usignolo. Ma detto cosÏ sembrava perfino un bel nome esotico, non c'era neppure da arrabbiarsi. E poi ripercorsi le estati successive. Magda piangente, pensai, perchÊ? Era forse giusto? E Isabel, e le sue illusioni? E quando quei ricordi assunsero contorni insopportabili, nitidi come se fossero proiettati da una macchina sulla parete, mi alzai e uscii dalla camera. Le sei di sera è un po' troppo tardi per la colazione e un po' troppo presto per la cena. Ma al Taj Mahal, diceva la mia guida, grazie ai suoi quattro ristoranti si può mangiare a qualsiasi ora. All'ultimo piano dell'Apollo Bunder c'era il Rendez-Vous, ma era davvero troppo intimo. E troppo caro. Feci una sosta all'Apollo Bar e scelsi un tavolo accanto alla vetrata della terrazza guardando le prime luci della sera, il lungomare era una ghirlanda, presi due


gin-tonic che mi misero di buonumore e scrissi una lettera a Isabel. Scrissi a lungo, di getto, con passione, e le raccontai tutto. Le parlai di quei giorni lontani, e del mio viaggio, e di come i sentimenti riaffiorano col tempo. Le dissi anche cose che non avrei mai pensato di dirle, e quando rilessi la lettera, con l'allegria incosciente di chi ha bevuto a digiuno, mi accorsi che quella lettera in fondo era per Magda, l'avevo scritta a lei, certo, anche se diceva "Cara Isabel"; e cosÏ la appallottolai e la lasciai nel portacenere, scesi al pianterreno, entrai nel Tanjore Restaurant e ordinai una cena sontuosa proprio come avrebbe fatto un principe travestito da povero. E poi quando finii di cenare era notte, il Taj si stava animando e sfavillava di luci, sul prato vicino alla piscina i servi in livrea stavano pronti a scacciare i corvi, io mi installai in un divano in mezzo a quella hall grande come un campo di calcio e mi misi a guardare il lusso. Non so chi ha detto che nella pura attività del guardare c'è sempre un po' di sadismo. Ci pensai ma non mi venne in mente, però sentii che


c'era qualcosa di vero in quella frase: e cosÏ guardai con maggiore voluttà , con la perfetta sensazione di essere solo due occhi che guardavano mentre io ero altrove, senza sapere dove. Guardai le donne e i gioielli, i turbanti, i fez, i veli, gli strascichi, i vestiti da sera, i musulmani e i milionari americani, i re del petrolio e gli inservienti candidi e silenziosi: ascoltai risate, frasi comprensibili e incomprensibili, sussurri, fruscii. E tutto questo non cessò mai durante l'intera notte, fino quasi all'alba. Poi, quando le voci si diradarono e le luci si smorzarono, appoggiai la testa ai cuscini del divano e mi addormentai. Non fu per molto, perchÊ il primo battello per Elephanta, proprio davanti al Taj, salpa alle sette: e su quel battello, oltre a una matura coppia di giapponesi con macchina fotografica al collo, c'ero anch'io.


Iv.

"Che cosa ci facciamo dentro questi corpi", disse il signore che si stava preparando a stendersi nel letto vicino al mio. La sua voce non aveva un tono interrogativo, forse non era una domanda, era solo una constatazione, a suo modo, comunque sarebbe stata una domanda alla quale non avrei potuto rispondere. La luce che veniva dalle banchine della stazione era gialla e disegnava sulle pareti scrostate la sua ombra magra che si muoveva nella stanza con leggerezza, con prudenza e discrezione, mi parve, come si muovono gli indiani. Da lontano veniva una voce lenta e monotona, forse una preghiera oppure un lamento solitario e senza speranza, come quei lamenti che esprimono solo se stessi, senza chiedere niente. Per me era impossibile decifrarlo. L'India era anche questo: un universo di suoni piatti, indifferenziati, indistinguibili. "Forse ci viaggiamo dentro", dissi io. Doveva essere passato un po' di


tempo dalla sua prima frase, mi ero perduto in considerazioni lontane: qualche minuto di sonno, forse. Ero molto stanco. Lui disse: "come ha detto?". "Mi riferivo ai corpi", dissi io, "forse sono come valigie, ci trasportiamo noi stessi". Sopra la porta c'era una veilleuse azzurra, come nei vagoni dei treni notturni. Misturandosi con la luce gialla che veniva dalla finestra creava una luce verdolina, quasi un acquario. Lo guardai e nella luce verdastra, quasi luttuosa, vidi il profilo di un volto aguzzo, con un naso leggermente aquilino, le mani sul petto. "Lei conosce Mantegna?", gli chiesi. Anche la mia era una domanda assurda, ma non meno della sua, certo. "No", disse, "è un indiano?". "è un italiano", dissi io. "Conosco solo inglesi", disse, "gli unici europei che conosco sono inglesi". Il lamento lontano riprese con maggiore intensità , ora era molto acuto, per un attimo pensai che fosse uno sciacallo.


"è un animale", dissi, "lei cosa ne pensa?". "Credevo fosse un suo amico", rispose a bassa voce. "No no", dissi, "mi riferivo alla voce che viene da fuori, Mantegna è un pittore, ma io non l'ho conosciuto, è morto da qualche secolo". L'uomo respirò profondamente. Era vestito di bianco ma non era musulmano, questo lo capii. "Io sono stato in Inghilterra", disse, "ma parlavo anche il francese, se preferisce parliamo francese". La sua voce era totalmente neutrale, come se facesse un'affermazione davanti allo sportello di un ufficio governativo; e questo, chissà perché, mi turbò. "è un jainista", disse dopo qualche secondo, "piange per la cattiveria del mondo". Io dissi: "Ah, certo", perché avevo capito che ora si riferiva al lamento che veniva da lontano. "A Bombay non ci sono molti jainisti", disse poi con il tono di chi spiega la cosa a un turista, "nel Sud sì, ancora molti. è una religione molto bella e molto stupida". Lo disse senza nessun disprezzo, sempre col suo


tono neutrale da deposizione. "Lei che cosa è?", chiesi, "la prego di scusare la mia indiscrezione". "Sono jainista", disse. L'orologio della stazione batté la mezzanotte. Il lamento lontano cessò di colpo, come se aspettasse il tempo dell'orologio. "è cominciato un altro giorno", disse l'uomo, "da questo momento è un altro giorno". Restai in silenzio, le sue affermazioni non lasciavano spazio a interlocuzioni. Passò qualche minuto, mi parve che le luci delle banchine si fossero affievolite. Il respiro del mio compagno si era fatto pausato e lento, come se dormisse. Quando parlò ancora ebbi una specie di soprassalto. "Io vado a Varanasi", disse, "lei dov'è diretto?". "A Madras", dissi io. "Madras", ripeté lui, "sì sì". "Vorrei vedere il luogo in cui si dice che l'apostolo Tommaso subì il martirio, i portoghesi ci costruirono una chiesa nel Cinquecento, non so cosa ne sia restato. E poi devo andare a Goa, vado a consultare una vecchia biblioteca, è per questo che sono venuto in India".


"è un pellegrinaggio?", chiese lui. Dissi di no. O meglio, sì, ma non nel senso religioso del termine. Semmai era un itinerario privato, come dire?, cercavo solo delle tracce. "Lei è cattolico, suppongo", disse il mio compagno. "Tutti gli europei sono cattolici, in qualche modo", dissi io. "O comunque cristiani, è praticamente la stessa cosa". L'uomo ripeté il mio avverbio come se lo assaporasse. Parlava un inglese molto elegante, con piccole pause e le congiunzioni leggermente strascicate ed esitanti, come si usa in certe università, me ne accorsi. "Practically... Actually", disse, "che parole curiose, le ho sentite tante volte in Inghilterra, voi europei usate spesso queste parole". Fece una pausa più lunga, ma capii che il suo discorso non era finito. "Non sono mai riuscito a stabilire se è per pessimismo o per ottimismo", riprese, "lei cosa ne pensa?". Gli chiesi se poteva spiegarsi meglio. "Oh", disse, "è difficile spiegarsi meglio. Ecco, a volte mi chiedo se è


una parola che indica superbia o se invece vuol dire soltanto cinismo. E anche molta paura, forse. Lei mi capisce?". "Non so", dissi io, "non è molto facile. Ma forse la parola "praticamente" non vuol dire praticamente niente". Il mio compagno rise. Era la prima volta che rideva. "Lei è molto bravo", disse, "ha avuto ragione di me e nello stesso tempo mi ha dato ragione, praticamente". Anch'io risi, e poi dissi subito: "comunque nel mio caso è praticamente paura". Tacemmo per un po', poi il mio compagno mi chiese il permesso di fumare. Frugò in una borsa che teneva vicino al letto e nella stanza si sparse l'odore di quei sigaretti indiani piccoli e profumati, fatti di una sola foglia di tabacco. "Una volta lessi i Vangeli", disse, "è un libro molto strano". "Soltanto strano?", chiesi. Ebbe un'esitazione. "Anche pieno di superbia", disse, "sia detto senza cattiveria". "Temo di non capire molto bene",


dissi io. "Mi riferivo a Cristo", disse lui. L'orologio della stazione batté la mezzanotte e mezzo. Sentivo che il sonno si stava impossessando di me. Dal parco dietro i binari arrivò il gracchiare dei corvi. "Varanasi è Benares", dissi, "è una città santa, anche lei va in pellegrinaggio?". Il mio compagno spense la sigaretta e tossì leggermente. "Vado a morire", disse, "mi restano pochi giorni di vita". Si sistemò il cuscino sotto la testa. "Ma forse è opportuno dormire", continuò, "non abbiamo molte ore di sonno, il mio treno parte alle cinque". "Il mio parte poco dopo", dissi. "Oh, non tema", disse lui, "l'inserviente verrà a svegliarla per tempo. Suppongo che non avremo più occasione di vederci secondo le sembianze sotto le quali ci siamo conosciuti, queste nostre attuali valigie. Le auguro un buon viaggio". "Buon viaggio anche a lei", risposi.


Parte seconda.

V.

La mia guida sosteneva che il migliore ristorante di Madras era il Mysore Restaurant del Coromandel, e io ero molto curioso di verificarlo. Alla boutique del pianoterra acquistai una camicia bianca, all'indiana, e un paio di pantaloni eleganti. Salii in camera e feci un lungo bagno per lavare via tutte le scorie del viaggio. Le stanze del Coromandel hanno una mobilia di uno stile coloniale rifatto, ma di buon gusto. La mia stanza dava sul retro, su di uno spiazzo giallastro circondato da una vegetazione selvatica. Era una stanza vastissima, con due letti ampi coperti da due drappi assai belli. In fondo, vicino alla finestra, c'era uno scrittoio con un cassetto centrale e tre da ogni lato. Fu un puro caso se scelsi l'ultimo cassetto di destra per riporvi le mie carte. Finii per scendere molto pi첫 tardi di quello che avrei voluto, ma tanto


il Mysore restava aperto fino a mezzanotte. Era un ristorante a vetrate sulla piscina, con tavoli rotondi e separé di bambù laccato di verde. I paralumi dei tavoli avevano luci azzurre, e c'era molta atmosfera. Un suonatore, su una pedana foderata di rosso, intratteneva i commensali con una musica molto discreta. Il cameriere mi guidò fra i tavoli e fu molto premuroso nel consigliarmi le vivande. Mi concessi tre piatti e bevvi succo di mango fresco. I clienti erano quasi tutti indiani, ma al tavolo vicino al mio c'erano due signori inglesi dall'aria professorale che parlavano di arte dravidica. Tenevano una conversazione sussiegosa e competente, e durante tutta la cena mi divertii a controllare sulla mia guida se le notizie che si fornivano reciprocamente erano esatte. Ogni tanto uno dei due faceva degli errori cronologici, ma l'altro sembrava non accorgersene. Sono curiose le conversazioni ascoltate per caso: li avrei detti vecchi colleghi d'università, e solo quando ciascuno di loro si confidò che avrebbe rinunciato al volo dell'indomani per


Colombo capii che si erano conosciuti quel giorno. Uscendo fui tentato di fermarmi all'English Bar dell'atrio, ma poi considerai che la mia stanchezza non aveva bisogno di un aiuto alcolico e salii in camera. Quando suonò il telefono mi stavo lavando i denti. Sul momento pensai che fosse la Theosophical Society, che mi aveva promesso una conferma telefonica, ma andando verso il telefono scartai l'ipotesi, data l'ora. Poi mi venne in mente che prima di cena avevo avvisato la portineria che un rubinetto del bagno funzionava male. Infatti era la portineria. "Mi scusi, signore, c'è una signora che desidera parlare con lei". "Come ha detto, prego?", risposi con lo spazzolino fra i denti. "C'è una signora che desidera parlare con lei", ripetÊ la voce del telefonista. Sentii lo scatto del commutatore e una voce femminile, bassa e ferma, disse: "sono la persona che occupava la sua stanza prima di lei, ho assoluto bisogno di parlarle, mi trovo nell'atrio". "Se mi concede cinque minuti la raggiungo all'English Bar", dissi,


"dovrebbe essere ancora aperto". "Preferisco salire io", disse senza darmi il tempo di replicare, "è una cosa della massima urgenza".

Quando bussò avevo appena finito di rivestirmi. Dissi che la porta era aperta e lei aprì sostando un attimo a guardarmi. Il corridoio era in penombra. Vidi solo che era alta e che portava un foulard sulle spalle. Entrò chiudendosi la porta dietro. Io ero seduto su una poltrona, in piena luce, e mi alzai. Non dissi niente, aspettai. E infatti parlò lei. Parlò senza avanzare nella stanza, con la stessa voce bassa e ferma che aveva al telefono. "La prego di scusarmi per questa intrusione, la mia le sembrerà una maleducazione inverosimile, purtroppo ci sono circostanze in cui non si può fare diversamente". "Senta", dissi io, "l'India è misteriosa per definizione, ma l'enigmistica non è il mio forte, mi eviti sforzi inutili". Lei mi guardò con ostentato stupore. "Ho semplicemente lasciato in camera sua alcune cose che mi appartengono",


disse con calma. "Sono venuta a riprenderle". "Immaginavo che sarebbe ritornata", dissi io, "ma francamente non l'aspettavo così presto, anzi, così tardi". La donna mi guardò con accresciuto stupore. "Cosa vuole dire?", mormorò. "Che lei è una ladra", dissi io. La donna guardò verso la finestra e si tolse il foulard dalle spalle. Era bella, mi parve, o forse era la luce schermata del paralume che dava al suo volto un'aria aristocratica e lontana. Non era più tanto giovane e il suo corpo era pieno di grazia. "Lei è molto definitivo", disse. Si passò una mano sul viso come se volesse scacciare la stanchezza, o un pensiero. Le sue spalle tremarono per un leggero brivido. "Che cosa vuol dire rubare?", chiese. Il silenzio cadde fra noi e avvertii il rubinetto che gocciolava in modo esasperante. "Ho chiamato prima di cena", dissi, "e mi hanno assicurato che lo avrebbero riparato subito. è un rumore insopportabile, temo che non mi favorirà il sonno". Lei sorrise. Si era appoggiata al


cassettone di giunco e un braccio le pendeva lungo il fianco come se fosse molto stanca. "Credo che ci si dovrà abituare", disse. "Io sono rimasta qui una settimana e ho chiesto decine di volte che lo riparassero, poi mi sono rassegnata". Fece una piccola pausa. "Lei è francese?". "No", risposi. Mi guardò con aria disfatta. "Sono venuta in taxi da Madurai", disse, "ho viaggiato tutto il giorno". Si passò il foulard sulla fronte come se fosse un fazzoletto. Per un attimo ebbe un'espressione disperata, mi parve. "L'India è orribile", disse, "e le strade sono un inferno". "Madurai è molto lontano", replicai, "perché Madurai?". "Stavo andando a Trivandrum, poi da lì sarei andata a Colombo". "Ma anche da Madras c'è un aereo per Colombo", obiettai. "Non volevo prendere quello", disse lei, "avevo le mie buone ragioni, non le sarà difficile arguirle". Fece un gesto stanco. "Comunque ormai l'ho perduto". Mi guardò con aria interrogativa e io dissi: "è tutto lì dove lo ha


lasciato, nell'ultimo cassetto di destra". Lo scrittoio era alle sue spalle, era uno scrittoio di bambù con angoli di ottone e uno specchio ampio nel quale si riflettevano le sue spalle nude. Lei aprì il cassetto e prese il mazzetto di documenti tenuti da un elastico. "è troppo stupido", disse, "uno fa una cosa di questo genere e poi dimentica tutto in un cassetto. L'ho custodito una settimana nella cassaforte dell'albergo, e poi l'ho lasciato qui mentre facevo le valigie". Mi guardò come se aspettasse il mio consenso. "Effettivamente è proprio stupido", dissi io, "il trasferimento di tutti quei soldi è un'operazione di alta truffa, e poi lei si permette una distrazione così grossolana". "Forse ero troppo nervosa", disse lei. "O troppo impegnata a vendicarsi", aggiunsi. "La sua lettera era notevole, una vendetta feroce, e lui non può farci nulla, se lei fa in tempo. è solo una questione di tempo".


I suoi occhi ebbero un lampo guardandomi nello specchio. Poi si girò di scatto, vibrante, col collo teso. "Ha letto anche la mia lettera!", esclamò con sdegno. "Ne ho anche trascritto una parte", dissi io. Lei mi guardò con stupore, o con paura, forse. "Trascritta?", mormorò, "perché?". "Solo la parte finale", dissi io, "mi dispiace, è stato più forte di me. Del resto non so neppure a chi è indirizzata, ho capito solo che è un uomo che deve averla fatta soffrire molto". "Era troppo ricco", disse lei, "credeva di poter comprare tutto, anche le persone". Poi fece un cenno nervoso, indicando se stessa, e io capii. "Senta, credo di capire vagamente com'è andata. Lei non è esistita per anni, è sempre stata solo un prestanome, finché un giorno ha deciso di dare una realtà a questo nome. E questa realtà è lei stessa. Però io di lei conosco solo il nome con cui si è firmata, è un nome molto comune e non ho intenzione di sapere altro".


"Già", fece lei, "il mondo è pieno di Margareth". Si allontanò dallo scrittoio e andò a sedersi sullo sgabello della toeletta. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese il viso fra le mani. Restò a lungo così, senza dire niente, nascondendo il viso. "Cosa pensa di fare?", chiesi. "Non lo so", rispose, "ho molta paura. Devo essere a quella banca di Colombo domani, altrimenti tutto quel denaro va in fumo". "Stia a sentire", dissi, "è notte fonda, non può andare a Trivandrum a quest'ora, e comunque non ci arriverebbe per l'aereo di domani. Domattina da qui c'è un aereo per Colombo, è fortunata perché se si presenta in tempo troverà posto, e lei da questo albergo risulta partita". Lei mi guardò come se non capisse. Mi guardò a lungo, intensamente, studiandomi. "Per quanto mi riguarda lei è partita davvero", aggiunsi, "e in questa stanza ci sono due comodi letti". Parve rilassarsi. Incrociò le gambe e abbozzò un sorriso. "Perché lo fa?",


chiese. "Non lo so", dissi io. "Forse ho simpatia per i fuggiaschi. E poi anch'io le ho rubato qualcosa". "Ho lasciato la mia valigia in portineria", disse lei. "Forse è più prudente lasciarla lì, la recupererà domattina. Posso prestarle un pigiama, siamo quasi della stessa taglia". Lei rise. "Resta solo il problema del rubinetto", disse. Risi anch'io. "Comunque lei c'è ormai abituata, mi pare. Il problema è solo mio".

Vi.

"Le corps humain pourrait bien n'ˆtre qu'une apparence", disse. "Il cache notre réalité, il s'épaissit sur notre lumière ou sur notre ombre". Alzò la mano e fece un gesto vago. Portava una casacca ampia, bianca; e la manica fluttuò sul polso magro.


"Oh, ma questo non è la teosofia che lo dice. Victor Hugo, Les Travailleurs de la Mer". Sorrise e mi versò da bere. Alzò il bicchiere pieno d'acqua come se fosse un brindisi. A che cosa?, pensai. E poi alzai il bicchiere anch'io e dissi: "alla luce e all'ombra". Egli sorrise ancora. "La prego di scusarmi per questa cena troppo frugale", disse, "ma era l'unico modo per conversare con una certa calma dopo la sua breve visita pomeridiana. Sono spiacente che i miei impegni precedenti non mi abbiano consentito di riceverla con più agio". "è un privilegio", dissi io, "lei è molto gentile, non avrei mai osato sperare tanto". "Raramente riceviamo ospiti estranei qui nella sede", proseguì nel suo tono di vaga giustificazione, "ma credo di avere capito che lei non è un semplice curioso". Mi resi conto che il mio biglietto un po' misterioso, le mie telefonate, la mia visita pomeridiana in cui avevo solo fatto riferimento a una "persona scomparsa" non potevano continuare nello stile di un cifrato allarme. Era


necessario spiegarsi con chiarezza, con esattezza. Ma cosa avevo da chiedere, dopotutto? Solo una remota notizia, una traccia ipotetica: un possibile aggancio verso Xavier. "Sto cercando una persona", dissi, "si chiama Xavier Janata Pinto, è scomparso da quasi un anno, ho avuto ultime notizie sue a Bombay, però ho buone ragioni per credere che fosse in contatto con la Theosophical Society, è questo il motivo che mi porta qui". "è un'indiscrezione chiederle quali sono i motivi che le fanno credere questo?", domandò il mio ospite. Entrò un cameriere con un vassoio e noi ci servimmo con parsimonia: io per educazione, lui certamente per abitudine. "Vorrei sapere se era membro della Theosophical Society", dissi. Il mio ospite mi guardò con intensità. "Non lo era", affermò sommessamente. "Però era in corrispondenza con voi", dissi io. "Può darsi", disse lui, "ma in tal caso si tratterebbe di una corrispondenza privata e riservata". Cominciammo a mangiare delle


polpette di vegetali accompagnate da un riso totalmente insipido. Il cameriere aspettava in disparte, con il vassoio fra le mani. A un cenno del mio ospite scomparve discretamente. "Abbiamo un archivio ma è riservato ai nostri soci. Tuttavia esso non comprende la corrispondenza privata", specificò. Io annuii in silenzio, perché mi resi conto che stava conducendo la conversazione a suo piacimento ed era inutile continuare con richieste dirette e troppo esplicite. "Lei conosce l'India?", mi chiese dopo un po'. "No", risposi, "è la prima volta che ci vengo, non mi sono ancora reso bene conto dove sono". "Non mi riferivo tanto alla geografia", specificò, "dicevo la cultura. Che libri ha letto?". "Molto pochi", risposi, "ora ne sto leggendo uno che si chiama A travel survival kit, mi risulta di una qualche utilità". "Molto divertente", disse lui gelido, "e nient'altro?". "Mah", dissi io, "alcune cose che però non ricordo bene. Confesso di


essere venuto impreparato. L'unica cosa che ricordo abbastanza bene è un libro di Schlegel, ma non quello più noto dei due, credo il fratello, si intitolava Sulla lingua e la saggezza degli indiani". Lui rifletté e disse: "dev'essere un libro vecchio". "Sì", dissi io, "è del 1808". "I tedeschi sono stati molto attratti dalla nostra cultura, spesso hanno formulato giudizi interessanti sull'India, non crede?". "Forse", dissi io, "non sono in grado di affermarlo con sicurezza". "Di Hesse cosa pensa, ad esempio?". "Hesse era svizzero", dissi io. "No, no", precisò il mio ospite, "era tedesco, prese la cittadinanza svizzera solo nel 1921". "Comunque morì svizzero", insistetti. "Non mi ha ancora detto cosa ne pensa", mi redarguì il mio ospite con tono amabile. Era la prima volta che sentivo crescere in me una forte irritazione. Quella sala greve, scura, chiusa, con i busti di bronzo lungo le pareti e le vetrine piene di libri; quell'indiano


saccente e presuntuoso che stava conducendo la conversazione a suo piacimento; il suo modo di fare, fra il condiscendente e l'astuto: tutto questo mi provocava un disagio che si stava rapidamente trasformando in collera, lo sentivo. Ero venuto per tutt'altri motivi ed egli li aveva tralasciati con disinvoltura, indifferente alla mia ansia che pure aveva capito dalle mie telefonate e dal mio biglietto. E mi stava sottoponendo a domande idiote su Hermann Hesse. Mi sentii preso in giro. "Lei conosce il rosolio?", gli chiesi, "lo ha mai assaggiato?". "Non credo", disse lui, "cos'è?". "è un liquore italiano, ora si trova raramente, lo si beveva nei salotti borghesi dell'Ottocento, è un liquore dolciastro e appiccicoso. Hermann Hesse mi fa pensare al rosolio. Quando tornerò in Italia gliene manderò una bottiglia, ammesso che se ne trovi ancora". Lui mi guardò senza capire se la mia era ingenuità o insolenza. Naturalmente era insolenza, non pensavo così di Hesse.


"Non credo che mi piacerebbe", disse seccamente. "Io sono astemio, e inoltre detesto le cose dolci". Piegò il suo tovagliolo e disse: "vogliamo accomodarci a prendere il tè?". Ci trasferimmo sulle poltrone vicino alla libreria e il servitore entrò col vassoio come se stesse aspettando dietro la tenda. "Con zucchero?", mi chiese il mio ospite versandomi il tè nella tazza. "No, grazie", risposi, "anche a me non piacciono le cose dolci". Seguì un lungo e imbarazzante silenzio. Il mio ospite stava ad occhi chiusi, immobile, per un attimo pensai che si fosse addormentato. Cercai di calcolare la sua età senza riuscirvi. Aveva un viso vecchio ma molto liscio. Mi accorsi che portava dei sandali a laccio sui piedi nudi. "Lei è gnostico?", mi chiese all'improvviso tenendo ancora gli occhi chiusi. "Non credo", dissi io. E poi aggiunsi: "no, non lo sono, ho solo qualche curiosità". Lui aprì gli occhi e mi guardò con malizia, o con ironia. "Fin dove è arrivata la sua curiosità?".


"Swedenborg", dissi io, "Schelling, Annie Besant: qualcosa di tutti". Lui parve mostrare interesse e io specificai: "ad alcuni sono arrivato per vie indirette, per esempio Annie Besant. La tradusse Fernando Pessoa, è un grande poeta portoghese, morÏ sconosciuto nel Trentacinque". "Pessoa", disse lui, "certo". "Lo conosce?", chiesi io. "Qualcosa", disse lui, "come lei degli altri". "Pessoa si professava gnostico", dissi, "era rosacroce, ha scritto una serie di poesie esoteriche intitolate Passos da Cruz". "Non le ho mai lette", disse il mio ospite, "ma conosco qualcosa della sua vita". "Sa quali furono le sue ultime parole?". "No", disse lui, "quali?". "Datemi i miei occhiali", dissi. "Era molto miope e volle entrare dall'altra parte con gli occhiali". Il mio ospite sorrise e non disse niente. "Pochi minuti prima aveva scritto un bigliettino in inglese, nelle sue note personali usava spesso l'inglese, era


la sua altra lingua, lui era cresciuto in Africa del Sud. Quel bigliettino sono riuscito a fotocopiarlo, la scrittura è molto incerta, naturalmente, Pessoa era in agonia, ma è decifrabile. Vuole che le dica cosa scrisse?". Il mio ospite dondolò la testa come fanno gli indiani quando annuiscono. "I know not what thomorrow will bring". "Che strano inglese", disse lui. "Già", dissi io, "che strano inglese". Il mio ospite si alzò lentamente, mi fece cenno di restare seduto e attraversò la stanza. "Voglia scusarmi un minuto", disse uscendo da una porta di fondo, "la prego di restare comodo". Restai seduto a guardare il soffitto. Doveva già essere molto tardi, ma il mio orologio era fermo. Il silenzio era assoluto. Mi parve di sentire il ticchettio di un orologio, in un'altra stanza, ma forse era lo scricchiolio di qualche legno o la mia immaginazione. Il servitore entrò senza dire una parola e ritirò il vassoio. Cominciavo ad avvertire un


leggero disagio che unito alla stanchezza mi provocava un senso di scomodità, come una sorta di malessere. Finalmente il mio ospite tornò e prima di sedersi mi tese una piccola busta gialla. Riconobbi immediatamente la calligrafia di Xavier. Aprii la busta e lessi questo biglietto: "Caro Maestro e Amico, le circostanze della mia vita non mi permettono che io ritorni a passeggiare lungo le rive dell'Adyar. Sono diventato un uccello notturno, e preferisco pensare che lo abbia voluto il mio destino. Mi ricordi come mi ha conosciuto. Il Suo X." La data diceva: Calangute, Goa, 23 settembre. Guardai il mio ospite con aria stupefatta. Egli si era seduto e mi scrutava con curiosità, mi parve. "Allora non è più a Bombay", dissi, "è a Goa, alla fine di settembre era a Goa". Lui fece un cenno della testa e non disse niente. "Ma perché è andato a Goa?", chiesi. "Se è al corrente di qualcosa me lo dica". Lui intrecciò le mani sulle ginocchia e mi parlò con pacatezza. "Non lo so", disse, "non conosco la


vita effettuale del suo amico, non posso aiutarla, mi dispiace. Forse i casi di quella sua vita non gli sono stati favorevoli, o forse egli stesso ha voluto così, non bisogna mai sapere troppo delle sembianze degli altri". Fece un timido sorriso e mi dette a intendere che non aveva altro da dirmi sull'argomento. "Lei si trattiene ancora a Madras?". "No", dissi, "sono rimasto tre giorni, parto questa notte, ho già il biglietto per un autobus di lungo percorso". Mi parve che nei suoi occhi passasse un'aria di disapprovazione. "è il motivo del mio viaggio", sentii il bisogno di spiegare. "Vado a consultare un archivio di Goa, devo fare uno studio. Ci sarei andato comunque, anche se la persona che cerco fosse stata altrove". "Che cosa ha visitato qui da noi?", chiese. "Sono stato a Mahabalipuram e a Kanchipuram", dissi, "ho visto tutti i templi". "Ha dormito là?". "Sì, in un alberghetto statale molto economico, è quello che ho trovato".


"Lo conosco", disse lui. E poi mi chiese: "che cosa le è piaciuto di più?". "Molte cose, ma forse il tempio di Kailasantha. Ha qualcosa di penoso e di magico". Lui scosse la testa. "è una strana definizione", disse. Poi si alzò con calma e mormorò: "credo che si sia fatto tardi, io ho ancora molte cose da scrivere questa notte, mi permetta di accompagnarla". Mi alzai e lui mi precedette nel lungo corridoio fino alla porta d'ingresso. Sostai un attimo nell'atrio e ci stringemmo la mano. Mentre uscivo lo ringraziai brevemente. Egli sorrise e non rispose niente. Poi, prima di chiudere la porta, mi disse: "la scienza cieca ara vane zolle, la fede pazza vive il sogno del suo culto, un nuovo dio è solo una parola, non credere o cercare: tutto è occulto". Io scesi i pochi gradini e feci alcuni passi nel viale di ghiaia. Poi capii all'improvviso, e mi voltai rapidamente: erano versi di una poesia di Pessoa, solo che me li aveva detti in inglese, per questo non li avevo


riconosciuti subito. La poesia si chiamava Natale. Ma la porta era giĂ chiusa e il servitore, in cima al vialetto, mi aspettava per chiudere anche il cancello.

Vii.

L'autobus attraversava una pianura deserta e rari villaggi addormentati. Dopo un tratto di strada in collina con curve a gomito che l'autista aveva affrontato con una disinvoltura che mi era parsa eccessiva, ora filavamo su rettilinei enormi, tranquilli, nella silenziosa notte indiana. Ebbi l'impressione che fosse un paesaggio di palmeti e risaie, ma il buio era troppo profondo per dirlo con sicurezza e la luce dei fari attraversava rapidamente la campagna solo durante qualche sinuositĂ della strada. Secondo i miei calcoli Mangalore non doveva essere lontana, se l'autobus aveva impiegato il tempo


previsto dall'orario di percorrenza. A Mangalore mi aspettavano due soluzioni: un'attesa di sette ore per la coincidenza con l'autobus per Goa, o una giornata in albergo e aspettare l'autobus del giorno dopo. Ero abbastanza indeciso. Durante il tragitto avevo dormito poco e male, e sentivo una certa stanchezza; ma un giorno intero a Mangalore non mi attirava particolarmente. Di Mangalore la mia guida diceva che "situata sul mare di Oman, la città non conserva praticamente niente del suo passato. è una città moderna e industriale, con un piano urbanistico razionale e un aspetto anonimo. Una delle poche città dell'India in cui non c'è proprio niente da vedere". Stavo ancora facendo le mie congetture sulla decisione da prendere, quando l'autobus si fermò. Non poteva essere Mangalore, eravamo in aperta campagna. L'autista spense il motore e alcuni passeggeri scesero. Da principio pensai che fosse una breve sosta per consentire le necessità dei viaggiatori, ma dopo una quindicina di minuti mi parve che la sosta si prolungasse insolitamente.


Inoltre l'autista si era tranquillamente abbandonato sullo schienale del sedile e sembrava addormentato. Aspettai un altro quarto d'ora. I passeggeri rimasti a bordo dormivano pacificamente. Il vecchio col turbante davanti a me aveva preso da un cesto una lunga striscia di stoffa e la stava arrotolando con pazienza, lisciando accuratamente le pieghe ad ogni giro del panno. Gli bisbigliai all'orecchio una domanda, ma lui si girò e mi guardò con un sorriso vacuo, lasciandomi intendere che non capiva. Guardai fuori dal finestrino e vidi che presso il bordo della strada, in un piazzale di sabbia, c'era una specie di capannone fiocamente illuminato. Pareva un garage fatto di tavole. Sulla porta c'era una donna, vidi qualcuno che entrava. Decisi di chiedere spiegazioni al conducente. Mi dispiaceva svegliarlo, aveva guidato per molte ore, ma forse era meglio informarsi. Era un uomo grasso che dormiva a bocca aperta, gli toccai una spalla e lui mi guardò con aria confusa. "PerchÊ siamo fermi?", chiesi.


"Questa non è Mangalore". Lui si tirò su e si lisciò i capelli. "Nossignore, non lo è". "E allora perché siamo fermi?". "è un autobus-stop", disse lui, "stiamo aspettando una coincidenza". La sosta non era prevista nel programma del mio biglietto, ma ormai ero abituato a certe sorprese dell'India. Così mi informai senza mostrare meraviglia, a puro titolo di curiosità. Era l'autobus per Mudabiri e Karkala, seppi. Tentai una replica che mi parve logica. "E i passeggeri che vanno a Mudabiri e Karkala non possono aspettare da soli, senza che noi aspettiamo con loro?". "Su quell'autobus ci sono persone che saliranno sul nostro autobus per andare a Mangalore", mi rispose l'autista con aria pacata. "è per questo che stiamo aspettando". Si allungò di nuovo sul sedile lasciandomi intendere che gli sarebbe piaciuto continuare a dormire. Gli parlai ancora col tono di chi è rassegnato. "Quanto tempo staremo fermi?". "Ottantacinque minuti", rispose con un'esattezza che non capii se era


educazione britannica o una forma di raffinata ironia. E poi continuò: "ad ogni modo, se è stanco di attendere in autobus, può scendere, qui di fianco c'è una sala d'aspetto". Decisi che forse era meglio sgranchirsi un po' le gambe per ingannare l'attesa. La notte era dolce e umida, con una forte fragranza di erbe. Feci un giro dell'autobus, fumai una sigaretta appoggiato alla scaletta posteriore e poi mi diressi verso la "sala d'aspetto". Era una baracca bassa e lunga, con un lume a petrolio appeso alla porta. Sullo stipite era attaccata l'immagine in gesso colorato di una divinità a me ignota. Nell'interno c'erano una decina di persone, sedute sulle panche lungo le pareti. Due donne, in piedi vicino all'entrata, parlavano fittamente. I pochi passeggeri scesi dall'autobus si erano sparpagliati sulla panca circolare al centro, sotto un palo di sostegno al quale erano attaccati foglietti di vari colori e un manifesto ingiallito che poteva essere un orario o un annuncio governativo. Sulla panca di fondo stava seduto un ragazzo di una decina d'anni, con dei


pantaloni corti e i sandali. Portava con sé una scimmia che gli stava attaccata sulle spalle, con la testa nascosta nei suoi capelli e le manine intrecciate sul collo del suo padrone, in un atteggiamento di affetto e di timore. Oltre alla lampada a petrolio sulla porta, c'erano due candele su una cassa da imballaggio: la luce era molto fioca e gli angoli della baracca erano al buio. Rimasi qualche attimo a guardare quella gente che non pareva badare affatto a me. Mi parve strano quel bambino solo in quel luogo con la sua scimmia, anche se in India è frequente trovare bambini soli con animali, e immediatamente pensai a un bambino che mi era caro e alla sua maniera di abbracciare un pupazzo prima di addormentarsi. Forse fu quell'associazione di idee che mi spinse verso di lui, e gli sedetti accanto. Lui mi guardò con due occhi bellissimi e mi sorrise, e anch'io gli sorrisi; e solo allora mi accorsi con ribrezzo che l'esserino che portava sulle spalle non era una scimmia ma una creatura umana. Era un mostro. Un'atrocità della natura, o una terribile infermità, avevano


rattrappito il suo corpo stravolgendone forme e dimensioni. Le sue membra erano contorte e alterate, senza altri ordini e misura se non quelli di un atroce grottesco. Anche il viso, che ora scorgevo fra i capelli del suo portatore, non era sfuggito alla devastazione della deformità . L'epidermide aspra e le rughe profonde come ferite gli davano quell'aspetto scimmiesco che insieme alle sue fattezze aveva provocato il mio equivoco. Di umano, in quel viso, restavano gli occhi: due occhi piccolissimi, acuti, intelligenti, che guizzavano inquieti da ogni parte come se fossero spiritati da un grande pericolo incombente, dalla paura. Il ragazzo mi salutò con cordialità , anch'io gli detti la buona sera e non fui capace di alzarmi e di andarmene. "Dove vai?", gli chiesi. "Andiamo a Mudabiri", disse lui sorridendo, "al tempio di Chandranath". Parlava un discreto inglese, senza inciampi. "Parli bene l'inglese", dissi, "chi te lo ha insegnato?". "L'ho imparato a scuola", disse il ragazzo orgogliosamente, "ci sono


andato tre anni". Poi fece un cenno girando leggermente la testa e fece un'espressione di scusa. "Lui non conosce l'inglese, non ha potuto andare a scuola". "Certo", dissi io, "lo capisco". Il ragazzo fece una carezza alle mani che gli si stringevano sul petto. "è mio fratello", disse con aria affettuosa, "ha vent'anni". Poi assunse di nuovo un'espressione d'orgoglio e disse: "però conosce le Scritture, le sa a memoria, è molto intelligente". Io cercai di tenere un atteggiamento noncurante, come se fossi un po' distratto e immerso in pensieri miei, per dissimulare la mancanza di coraggio di guardare la persona di cui parlava. "Che cosa andate a fare a Mudabiri?", chiesi. "Ci sono le feste", disse lui, "i jaini vengono da tutto il Kerala, ci sono molti pellegrini in questi giorni". "Anche voi siete pellegrini?". "No", disse lui, "noi giriamo per i templi, mio fratello è Arhant". "Scusa", dissi, "ma non so cosa significa".


"Arhant è un profeta jaino", spiegò il ragazzo con pazienza. "Legge il karma dei pellegrini, facciamo molti soldi". "Allora è indovino". "Sì", disse il ragazzo con candore, "vede il passato e il futuro". Poi fece un collegamento di idee professionale e mi chiese: "vuoi conoscere il tuo karma? Ci vogliono solo cinque rupie". "D'accordo", dissi io, "domandalo a tuo fratello". Il ragazzo parlò dolcemente al fratello e questi gli rispose bisbigliando, guardandomi con i suoi occhietti guizzanti. "Mio fratello chiede se può toccarti la fronte", mi riferì il ragazzo. Il mostro fece un cenno di consenso con la testa, aspettando. "Certo che può, se è necessario". L'indovino allungò la sua manina contorta e mi poggiò l'indice sulla fronte. Rimase così qualche istante, fissandomi intensamente. Poi ritirò la mano e bisbigliò delle parole all'orecchio del fratello. Ne seguì una piccola discussione concitata. L'indovino parlava fittamente,


sembrava contrariato e irritato. Quando ebbero finito di discutere il ragazzo si volse verso di me con aria afflitta. "Allora?", chiesi io, "posso saperlo?". "Mi dispiace", disse lui, "mio fratello dice che non è possibile, tu sei un altro". "Ah sì", dissi io, "chi sono?". Il ragazzo parlò di nuovo al fratello e costui gli rispose brevemente. "Questo non importa", mi riferì il ragazzo, "è solo maya". "E che cos'è maya?". "è l'apparenza del mondo", rispose il ragazzo, "ma è solo illusione, quello che conta e l'atma". Poi si consultò col fratello e mi confermò con convinzione: "quello che conta è l'atma". "E l'atma che cos'è?". Il ragazzo sorrise della mia ignoranza. "The soul", disse, "l'anima individuale". Una donna entrò e si sedette sulla panca di fronte a noi. Portava un cesto con un bambino addormentato. Io la guardai e lei mi fece un rapido cenno con le mani giunte davanti al


viso, in segno di rispetto. "Credevo che dentro di noi ci fosse solo il karma", dissi io, "la somma delle nostre azioni, di ciò che siamo stati e di ciò che saremo". Il ragazzo sorrise di nuovo e parlò al fratello. Il mostro mi guardò con i suoi occhietti acuti e fece il cenno di due con le dita. "Oh no", spiegò il ragazzo, "c'è anche l'atma, sta con il karma ma è una cosa distinta". "E allora se io sono un altro vorrei sapere dov'è il mio atma, dove si trova ora". Il ragazzo tradusse al fratello e ne seguì una fitta conversazione. "è molto difficile dirlo", mi riferì poi, "lui non è capace". "Prova a chiedergli se dieci rupie lo aiuterebbero", dissi io. Il ragazzo glielo disse e il mostro mi fissò in viso i suoi occhietti. Poi pronunciò alcune parole dirette a me, molto velocemente. "Dice che non è una questione di rupie", tradusse il ragazzo, "tu non ci sei, non può dirti dove sei". Mi fece un bel sorriso e continuò: "però se vuoi darci dieci rupie le accettiamo ugualmente". "Te le darò senz'altro", dissi io,


"ma almeno chiedigli chi sono ora". Il ragazzo fece di nuovo un sorriso indulgente e poi disse: "ma quello è solo il tuo maya, a cosa ti serve saperlo?". "Certo", dissi io, "hai ragione, non serve a niente". Poi mi venne un'idea e dissi: "chiedigli che provi a indovinare". Il ragazzo mi guardò stupito. "A indovinare che cosa?". "A indovinare dov'è il mio atma", dissi, "non hai detto che è un indovino?". Il ragazzo riferì la mia domanda e il fratello gli rispose brevemente. "Dice che può provare", tradusse, "ma non garantisce". "Non ha importanza, che provi ugualmente". Il mostro mi fissò con molta intensità, a lungo. Poi fece un cenno con la mano e io aspettai che parlasse, ma non parlò. Le sue dita si muovevano leggere nell'aria disegnando delle onde, poi fece conca con le mani come per raccogliere dell'acqua immaginaria. Bisbigliò alcune parole. "Dice che sei su una barca", mi bisbigliò a sua volta il ragazzo. Il


mostro fece un cenno con le palme in avanti e si immobilizzò. "Su una barca?", dissi io. "Chiedigli dove, presto, che barca è?". Il ragazzo poggiò l'orecchio sulla bocca bisbigliante del fratello. "Vede molte luci. Di più non vede, è inutile insistere". L'indovino aveva di nuovo assunto la sua posizione iniziale, col volto nascosto fra i capelli del fratello. Presi dieci rupie e gliele tesi. Uscii nella notte e accesi una sigaretta. Mi soffermai a guardare il cielo e l'orlo scuro della vegetazione sul bordo della strada. L'autobus di Mudabiri ormai non doveva essere lontano.

Parte terza.

Viii.

Il guardiano era un vecchietto dal viso raggrinzito e cordiale, con una


cerchia di capelli candidi che spiccavano sulla pelle olivastra. Parlava un portoghese perfetto e quando gli dissi il mio nome mi fece grandi sorrisi dondolando la testa, come se fosse molto contento di vedermi. Mi spiegò che il signor Priore stava officiando la funzione vespertina e che mi pregava di aspettarlo nella biblioteca. Mi consegnò un biglietto nel quale lessi: "Benvenuto a Goa. La raggiungo in biblioteca alle 18,30. Se ha bisogno di qualcosa Theot¢nio è a sua disposizione. Padre Pimentel." Theot¢nio mi guidò su per la scala ciarlando. Era chiacchierone e disinvolto, aveva vissuto a lungo in Portogallo, a Vila do Conde, disse, dove aveva dei parenti, gli piacevano i dolci portoghesi, specie il p„o de l¢. La scala era di legno scuro e dava su un grande ballatoio scarsamente illuminato, con un lungo tavolo e un mappamondo. Alle pareti c'erano quadri con figure a grandezza naturale, uomini barbuti e gravi scuriti dal tempo. Theot¢nio mi lasciò sulla porta della biblioteca e ridiscese


velocemente come se fosse molto indaffarato. La sala era ampia e fresca, con un forte odore di chiuso. Gli scaffali avevano riccioli barocchi e intarsi d'avorio, ma in cattivo stato, mi parve. C'erano due lunghi tavoli centrali con i gambi a torciglione e alcuni tavolini bassi accanto alle pareti, con delle panche da chiesa e vecchie poltroncine di paglia. Detti un'occhiata al primo scaffale di destra, vidi alcuni libri di patristica e alcune cronache seicentesche della Compagnia di GesÚ, presi due libri a caso e mi sedetti sulla poltrona vicino alla porta d'ingresso, sul tavolo accanto c'era un libro aperto ma non lo guardai, sfogliai uno dei libri che avevo preso, la :Rela‥„o do novo caminho que fez por Terra e por Mar, vindo da India para Portugal, o Padre Manoel Godinho da Companhia de Iesu. Il colofon diceva: :Em Lisboa, na Officina de Henrique Valente de Oliveira, Impressor del Rey N'S', Anno 1665. Manoel Godinho aveva una visione pragmatica della vita, il che non contrastava affatto con la sua professione di guardiano della fede


cattolica in quell'enclave di controriforma assediato dal pantheon induista. La sua narrazione era esatta e circostanziata, priva di cerimoniosità e di retorica. Non amava le metafore e le similitudini, quel prete; aveva un occhio strategico, divideva la terra in zone favorevoli e sfavorevoli e concepiva l'occidente cristiano come il centro del mondo. Ero arrivato alla fine del lungo preambolo dedicato al Re, quando, senza sapere da quale segnale, ebbi la sensazione di non essere solo. Forse sentii un lieve scricchiolio o un respiro; oppure, con più probabilità, avvertii semplicemente la sensazione che si prova quando uno sguardo è posato su di noi. Alzai gli occhi e scrutai l'ambiente. In una poltrona fra le due finestre, dall'altra parte della sala, la massa scura che quando ero entrato mi era parsa un vestito buttato disordinatamente sulla spalliera della sedia, si voltò lentamente, proprio come se aspettasse il momento di essere guardato, e mi fissò. Era un uomo anziano, con un lungo viso scavato e la testa ricoperta da un copricapo di una


foggia che non riuscii a distinguere. "Benvenuto a Goa", mormorò. "Lei ha fatto un'imprudenza a venire da Madras, la strada è piena di banditi". Aveva una voce molto roca, a volte un gorgoglio. Lo guardai con stupore. Mi parve singolare che usasse la parola "banditi", e ancora più singolare che conoscesse la mia provenienza. "E la sosta notturna in quel luogo orrendo non l'ha certo confortata", aggiunse. "Lei è giovane e intraprendente, ma spesso ha paura, non sarebbe un buon soldato, forse soccomberebbe alla codardia". Mi guardò con indulgenza. Non so perché provai un grande imbarazzo che mi vietò la replica. Ma come faceva a conoscere il mio viaggio?, pensai, chi lo aveva avvisato? "Non si preoccupi", disse il vecchio come se indovinasse i miei pensieri. "Ho molti informatori, io". Pronunciò la frase in tono quasi minaccioso, e questo mi fece una curiosa impressione. Parlavamo in portoghese, ricordo, e le sue parole erano fredde e spente, come se fra di esse e la sua voce ci fosse una remota


distanza. Perché parlava in quel modo?, pensai, chi poteva mai essere? La lunga stanza era in penombra ed egli si trovava all'altra estremità, lontano da me; un tavolo nascondeva in parte il suo corpo alla mia vista. Tutto questo, assieme alla sorpresa, mi aveva impedito di osservare il suo aspetto. Ma ora mi accorsi che portava un cappello triangolare di panno floscio, la barba lunga e grigia gli spazzolava il petto coperto da un corsetto trapunto di fili argentei. Le spalle erano avvolte da un mantello nero, ampio, di foggia antica, con le maniche a sbuffo. Egli lesse lo sconcerto sul mio volto, spostò la sedia e balzò in mezzo alla stanza con un'agilità che non avrei sospettato. Portava degli stivali alti rimboccati alla coscia e una spada sul fianco. Fece un gesto teatrale un po' ridicolo, disegnando un'ampia voluta col braccio destro che poi si portò al cuore, ed esclamò con voce stentorea: "sono Afonso de Albuquerque, viceré delle Indie!". Solo in quel momento capii che era pazzo. Lo capii e nello stesso tempo pensai curiosamente che egli era


proprio Afonso de Albuquerque, e tutto ciò non mi stupì: mi provocò solo un'indifferenza stanca, come se tutto fosse necessario e ineluttabile. Il vecchio mi scrutava con fare guardingo, sospettoso, gli occhietti scintillanti. Era alto, maestoso, superbo. Capii che si aspettava che io parlassi; e io parlai. Ma le parole mi uscirono da sole, prive del controllo della mia volontà. "Lei assomiglia a Ivan il Terribile", dissi, "o meglio all'attore che lo interpretava". Lui tacque e portò la mano all'orecchio. "Mi riferivo a un vecchio film", specificai, "mi è venuto in mente un vecchio film". E mentre dicevo questo sul suo viso si disegnò un bagliore, come se un fuoco divampasse in un caminetto vicino. Ma non c'era nessun caminetto, la stanza era sempre più scura, forse era stato l'ultimo raggio di sole che stava tramontando. "Che cosa è venuto a fare qui?", gridò improvvisamente. "Che cosa vuole da noi?". "Niente", dissi io, "non voglio niente. Sono venuto a fare ricerche d'archivio, è il mio mestiere, questa


biblioteca è quasi sconosciuta in Occidente. Cerco antiche cronache". Il vecchio lanciò l'ampio mantello sopra una spalla, proprio come fanno gli attori a teatro quando stanno per affrontarsi a duello. "è una menzogna!", urlò con veemenza. "Lei è venuto per un altro motivo!". La sua violenza non mi spaventava, non temevo che mi aggredisse: eppure sentii uno strano soggiogamento, come una colpa che tenevo nascosta dentro di me e che egli aveva scoperto. Abbassai gli occhi per la vergogna e vidi che il libro aperto sul tavolo era Sant'Agostino. Lessi queste parole: Quomodo praesciantur futura. Era solo una coincidenza o qualcuno voleva che io leggessi quelle parole? E chi, se non quel vecchio? Mi aveva detto di avere i suoi informatori, era stata la sua definizione, e questo mi parve lugubre e senza scampo. "Sono venuto a cercare Xavier", confessai, "è vero, lo sto cercando". Lui mi guardò trionfalmente. Ora c'era dell'ironia sul suo viso, e forse disprezzo. "E chi è Xavier?". Mi parve che quella domanda fosse un


tradimento, perché sentii che infrangeva un tacito patto, che egli "sapeva" chi era Xavier e che non avrebbe dovuto chiedermelo. E io non avrei voluto dirglielo, anche questo lo sentivo. "Xavier è mio fratello", mentii. Lui rise con ferocia e puntò l'indice verso di me. "Xavier non esiste", disse, "è solo un fantasma". Fece un gesto che abbracciò la stanza. "Siamo tutti morti, non l'ha ancora capito? Io sono morto, e questa città è morta, e le battaglie, il sudore, il sangue, la gloria e il mio potere: è tutto morto, niente è servito a niente". "No", dissi io, "qualcosa resta sempre". "Che cosa?", fece lui. "Il suo ricordo? La vostra memoria? Questi libri?". Fece un passo verso di me e io sentii un grande ribrezzo, perché sapevo già che cosa stava per fare, non so come ma lo sapevo già. Spinse con uno stivale un piccolo fagotto che stava ai suoi piedi, e io vidi che era un topo morto. Egli spostò la bestia sul pavimento e mormorò con scherno:


"oppure questo topo?". Rise ancora, e la sua risata mi gelò il sangue. "Io sono il pifferaio di Hamelin!", gridò. Poi la sua voce diventò affabile, mi chiamò professore e mi disse: "mi scusi se l'ho svegliata".

"Mi scusi se l'ho svegliata", disse Padre Pimentel. Era un uomo sui cinquant'anni, con la figura solida e l'espressione franca. Mi tese la mano e io mi alzai confuso. "Oh, la ringrazio", dissi, "stavo facendo un brutto sogno". Egli si sedette sulla poltroncina vicino alla mia e mi tranquillizzò con un gesto. "Ho ricevuto la sua lettera", disse, "l'archivio è a sua disposizione, può restare il tempo che vuole, immagino che stasera si fermerà qui, le ho fatto preparare una stanza". Theot¢nio entrò con il vassoio del tè e un dolce che mi parve il p„o de l¢. "La ringrazio", dissi, "la sua ospitalità mi conforta. Tuttavia questa sera non mi fermerò, sono diretto a Calangute e ho affittato una


macchina, vorrei cercare di sapere qualcosa su una persona. Ritornerò fra qualche giorno".

Ix.

Può anche capitare, nella vita, di dormire all'hotel Zuari. Sul momento potrà sembrare un'occasione non particolarmente fortunata; ma nel ricordo, come sempre nei ricordi, decantata dalle sensazioni fisiche immediate, dagli odori, dal colore, dalla vista di quella certa bestiolina sotto il lavabo, la circostanza assume una sua vaghezza che migliora l'immagine. La realtà passata è sempre meno peggio di quello che fu effettivamente: la memoria è una formidabile falsaria. Si fanno delle contaminazioni, anche non volendo. Alberghi così popolano già il nostro immaginario: li abbiamo già trovati nei libri di Conrad o di Maugham, in qualche film americano tratto dai


romanzi di Kipling o di Bromfield: ci sembra quasi familiare. All'hotel Zuari arrivai la sera tardi, e fu una scelta obbligata, come spesso succede in India. Vasco da Gama è una cittadina dello stato di Goa eccezionalmente brutta, buia, con vacche che vagano per le strade, gente povera vestita con abiti occidentali, eredità della permanenza portoghese, e dunque con l'aria di una miseria senza mistero. I mendicanti abbondano, ma qui non ci sono templi o luoghi sacri, e questi mendicanti non implorano in nome di Vishnù e non elargiscono benedizioni e formule religiose: sono taciturni e attoniti, come morti. Nell'atrio dell'hotel Zuari c'è un bancone semicircolare dietro al quale sta un portiere grasso che parla sempre al telefono. Vi registra parlando al telefono, vi dà la chiave parlando al telefono; e all'alba, quando la prima luce vi annuncia che potete finalmente rinunciare all'ospitalità della vostra camera, lo troverete che parla al telefono con una voce monotona, bassa, indecifrabile. Con chi parla il portiere dell'hotel Zuari?


C'è anche un vasto dining room, al primo piano dell'hotel Zuari, a dare retta alla targa sulla porta: ma quella sera era buio e senza tavoli, e io cenai nel patio, un cortiletto con buganvillea e fiori molto profumati e dei tavolini bassi con panchetti di legno e una luce assai fioca. Mangiai dei gamberoni grossi come aragoste e dolce di mango, bevvi tè e una specie di vino che sapeva di cinnamomo; il tutto per una cifra corrispondente a tremila lire, il che mi rincuorò. Lungo il patio si alzava la veranda sulla quale si affacciavano le camere, fra le pietre del cortile correva un coniglio bianco. C'era una famiglia indiana che cenava a un tavolo in fondo. Accanto al mio tavolo c'era una signora bionda dall'età indefinibile, di una sfiorita bellezza. Mangiava con tre dita, all'indiana, facendo esatte pallottoline col riso e intingendole nel sugo. Mi parve inglese, e difatti lo era. Aveva uno sguardo folle, ma solo di tanto in tanto. Poi mi raccontò una storia che non mi sembra il caso di riferire. Può anche essere stato un sogno inquieto. Del resto l'hotel Zuari non favorisce sogni


rosei.

X.

"Facevo il postino a Filadelfia, a diciott'anni già per le strade con la sacca a tracolla, sempre, tutte le mattine, d'estate quando l'asfalto è una melassa, e d'inverno quando si cade sulla neve ghiacciata. Così per dieci anni, a portare lettere. Tu non sai quante lettere ho portato, migliaia. Erano tutti signori, sulle buste. Lettere da ogni parte del mondo: Miami, Parigi, Londra, Caracas. Buongiorno signore. Buongiorno signora. Sono il postino". Alzò il braccio e indicò il gruppo di ragazzi sulla spiaggia. Il sole stava calando e l'acqua sfavillava. Dei pescatori, accanto a noi, preparavano una barca. Erano uomini seminudi con un panno sui lombi. "Qui siamo tutti uguali", disse, "non ci sono signori". Mi guardò ed ebbe


un'espressione maliziosa. "Tu sei un signore?". "Tu che ne dici?". Mi guardò dubbioso. "Più tardi ti rispondo". Poi indicò le baracchette di foglie di palma che sorgevano alla nostra sinistra, appoggiate alle dune. "Noi viviamo là, è il nostro villaggio, si chiama Sun". Tirò fuori una scatolina di legno con cartine e miscela e si arrotolò una sigaretta. "Tu fumi?". "Di solito no", dissi, "ma ora sì, se me ne offri una". Lui ne preparò una anche per me e disse: "questo fumo è buono, rende allegri, tu sei allegro?". "Senti", dissi, "mi piaceva la tua storia, continua a raccontare". "Beh", disse lui, "un giorno camminavo in una strada di Filadelfia, faceva un gran freddo, stavo consegnando la posta, era mattina, la città era piena di neve, è così brutta Filadelfia, percorrevo strade enormi, poi infilai un vicolo lungo e buio, solo una lama di sole che era riuscita a forare la caligine lo illuminava in fondo, io quel vicolo lo conoscevo, ci portavo la posta tutti i giorni, era


una strada che finiva contro il muro di cinta di un'officina di automobili. Beh, sai che vidi quel giorno?, prova a indovinare". "Non ne ho idea", dissi io. "Prova a indovinare". "Mi arrendo, è troppo difficile". "Il mare", disse lui. "Vidi il mare. In fondo al vicolo c'era un bel mare azzurro con le onde increspate di spuma e una spiaggia di sabbia e delle palme. Che ne dici, eh?". "Curioso", dissi io. "Il mare io l'avevo visto solo al cinema o sulle cartoline che venivano da Miami o dall'Avana. E quello era un mare identico, un oceano, ma senza nessuno, con la spiaggia deserta. Pensai: hanno portato il mare a Filadelfia. E poi pensai: ho un miraggio, come si legge nei libri. Tu cosa avresti pensato?". "Le stesse cose", dissi io. "Già. Ma il mare non può arrivare a Filadelfia. E i miraggi succedono nel deserto, quando c'è il sole a picco e hai una gran sete. E quel giorno faceva un freddo cane, era tutto pieno di neve sporca. Così mi avvicinai piano piano, attratto da quel mare,


con la voglia di tuffarmici dentro, anche se faceva freddo, perché quell'azzurro era un invito e le onde scintillavano, il sole le illuminava". Fece una breve pausa e tirò una boccata di fumo. Sorrideva con aria assente e lontana, rivivendo quel giorno. "Era una pittura. Avevano dipinto il mare, quei figli di cane. A Filadelfia a volte lo fanno, è un'idea degli architetti, dipingono sul cemento paesaggi, vallate, boschi e via dicendo, così ti sembra meno di vivere in una città di merda. Ero a due palmi da quel mare sul muro, con la mia sacca a tracolla, in fondo al vicolo il vento faceva mulinello e sotto la sabbia dorata giravano cartacce, foglie secche, un sacchetto di plastica. Spiaggia sporca, a Filadelfia. Lo guardai un momento e pensai: se il mare non va da Tommy, Tommy va dal mare. Che ne dici?". "Conoscevo un'altra versione", dissi io, "ma il concetto è lo stesso". Lui rise. "Proprio così", disse. "E allora sai cosa feci? Prova a indovinare". "Non ne ho idea". "Prova a indovinare".


"Mi arrendo", dissi, "è troppo difficile". "Aprii il bidone dell'immondizia e ci depositai la mia sacca. Stai lì buona, corrispondenza. Poi andai di corsa alla sede centrale e chiesi di parlare col direttore. Ho bisogno di tre mesi di stipendio anticipato, dissi, mio padre ha una malattia molto grave, è in ospedale, guardi questi certificati medici. Lui disse: prima firma questa dichiarazione. Io la firmai e presi i soldi". "Ma tuo padre era malato davvero?". "Certo che lo era, aveva un cancro. Ma tanto moriva ugualmente anche se io restavo a portare la corrispondenza ai signori di Filadelfia". "è logico", dissi io. "Portai via solo una cosa", disse lui, "prova a indovinare". "Davvero troppo difficile, è inutile, mi arrendo". "L'elenco telefonico", disse lui con soddisfazione. "L'elenco telefonico?". "Già, l'elenco telefonico di Filadelfia. Fu tutto il mio bagaglio, è quanto mi resta dell'America". "Perché?", gli chiesi. La cosa mi


stava interessando. "Scrivo cartoline. Ora sono io che scrivo ai signori di Filadelfia. Cartoline con un bel mare e la spiaggia deserta di Calangute, e dietro ci scrivo: cordiali saluti dal postino Tommy. Sono arrivato alla lettera C. Naturalmente salto i quartieri che non mi interessano e scrivo senza francobollo, la tassa la paga il destinatario". "Da quanto tempo sei qui?", gli chiesi. "Quattro anni", disse lui. "L'elenco telefonico di Filadelfia deve essere lungo". "Sì", disse lui, "è enorme. Ma tanto non ho fretta, ho tutta la vita". Il gruppo sulla spiaggia aveva acceso un grande fuoco, qualcuno cominciò a cantare. Quattro persone si staccarono dal gruppo e si avvicinarono, avevano fiori fra i capelli e ci sorrisero. Una ragazza teneva per mano una bambina di una decina di anni. "La festa sta per cominciare", disse Tommy, "sarà una grande festa, è l'equinozio". "Macché equinozio", dissi io,


"l'equinozio è il ventitrè di settembre, siamo a dicembre". "Insomma, una cosa del genere", replicò Tommy. La bambina gli diede un bacio sulla fronte e poi ripartì con gli altri. "Però non sono mica più tanto giovani", dissi io, "sembrano padri di famiglia". "Sono quelli che arrivarono per primi", disse Tommy, "i Pilgrims". Poi mi guardò e disse: "perché, tu come sei?". "Come loro", dissi io. "Lo vedi?", fece lui. Si preparò un'altra sigaretta, la divise in due e me ne dette la metà. "Come mai sei da queste parti?", chiese. "Cerco uno che si chiama Xavier, a volte poteva essere passato da queste parti". Tommy scosse la testa. "Ma lui è contento che tu lo cerchi?". "Non lo so". "Allora non lo cercare". Cercai di fornirgli una dettagliata descrizione di Xavier. "Quando sorride sembra triste", conclusi. Dal gruppo si staccò una ragazza e ci chiamò. Tommy la chiamò a sua volta


e lei venne verso di noi. "è la mia compagna", spiegò Tommy. Era una biondina slavata con gli occhi assenti e due treccine infantili raccolte sulla testa. Camminava dondolando, un po' incerta. Tommy le chiese se conosceva un tipo così e così, secondo la mia descrizione. Lei sorrise incongruamente e non rispose niente. Poi ci tese le mani con dolcezza e bisbigliò: "Hotel Mandovi". "Comincia la festa", disse Tommy, "vieni anche tu". Stavamo seduti sul bordo di una barca dalle fattezze molto primitive, con un rozzo bilanciere come i catamarani. "Forse vi raggiungo più tardi", dissi, "mi stendo un po' nella barca e faccio una dormita". Mentre si allontanavano non resistetti e gli gridai che si era dimenticato di dirmi se anch'io ero un signore. Tommy si fermò, alzò le braccia e disse: "prova a indovinare". "Mi arrendo", gridai io, "è troppo difficile". Tirai fuori la mia guida e accesi dei fiammiferi. Lo trovai quasi subito. Lo dava come a popular top range hotel, con ristorante rispettabile. Località Panaji, ex Nova


Goa, nell'interno. Mi stesi sul fondo della barca e mi misi a guardare il cielo. La notte era proprio magnifica. Seguii le costellazioni e pensai alle stelle e all'epoca in cui le studiavamo e ai pomeriggi trascorsi al planetario. D'improvviso me le ricordai come le avevo imparate, secondo la classificazione dell'intensità luminosa: Sirio, Canopo, Centauro, Vega, Capella, Arturo, Orione... E poi pensai alle stelle variabili e al libro di una cara persona. E poi alle stelle spente, la cui luce ci giunge ancora, e alle stelle a neutroni, nello stadio finale dell'evoluzione, e al flebile raggio che emettono. Dissi a bassa voce: pulsar. E quasi che fosse stata risvegliata dal mio bisbiglio, come se avessi azionato un registratore, mi arrivò la voce nasale e flemmatica del professor Stini che diceva: quando la massa di una stella agonizzante è superiore al doppio della massa solare, non esiste più stato di materia capace di arrestare la concentrazione, e questa procede all'infinito; nessuna radiazione esce più dalla stella, che si trasforma


così in un buco nero.

Xi.

Come sono buffe le cose. L'hotel Mandovi si chiama in questo modo perché è costruito proprio in riva al fiume. Il Mandovi è un fiume ampio, placido, con un lungo estuario orlato di spiagge quasi marine. A sinistra c'è il porto di Panaji, un porto fluviale per piccoli battelli, con chiatte cariche di mercanzie, due pontili sconnessi e una piattaforma arrugginita. E quando io arrivai, come se stesse sbucando dal fiume, proprio dall'orlo della piattaforma, stava sorgendo la luna. Aveva un alone giallo intorno ed era piena e sanguigna. Io pensai: luna rossa, e mi venne istintivamente di fischiare una vecchia canzone. L'idea arrivò come un corto circuito. Pensai a un nome, Roux, e subito a quelle parole di Xavier: sono diventato un uccello


notturno; e allora tutto mi parve così evidente e perfino stupido, e poi pensai: perché non ci ho pensato prima? Entrai nell'albergo e detti un'occhiata intorno. Il Mandovi è un hotel della fine degli anni Cinquanta, con un'aria già vecchia. Forse fu costruito all'epoca in cui i portoghesi erano ancora a Goa. Non so bene in che cosa, ma mi parve che conservasse una traccia del gusto fascista dell'epoca: forse per l'atrio grande come una sala d'aspetto ferroviaria, o per quella mobilia impersonale e deprimente, da ufficio postale o da ministero. Dietro al bancone c'erano due impiegati, uno aveva una casacca a righe e l'altro una giacca nera un po' frusta e l'aria importante. Mi diressi a quest'ultimo e gli mostrai il mio passaporto. "Vorrei una stanza". Lui consultò il registro e annuì. "Con terrazzo e vista sul fiume", specificai. "Sissignore", disse l'impiegato. "Lei è il direttore?", chiesi mentre riempiva la scheda di accettazione. "Nossignore", rispose, "il direttore


è assente, ma per qualsiasi cosa può rivolgersi a me". "Cerco Mister Nightingale", dissi io. "Mister Nightingale non alloggia più qui", disse con tutta naturalezza, "è un po' di tempo che è partito". "Sa dov'è andato?", chiesi cercando di mantenere anch'io un tono di naturalezza. "Normalmente va a Bangkok", disse, "Mister Nightingale viaggia molto, è un uomo d'affari". "Oh lo so", dissi io, "ma poteva darsi che fosse tornato". L'impiegato alzò gli occhi dalla scheda e mi guardò con aria perplessa. "Non saprei dirglielo, signore", rispose educatamente. "Pensavo che in albergo ci fosse qualcuno in grado di darmi un'informazione più precisa, lo cerco per un affare importante, sono venuto apposta dall'Europa". Vidi che era confuso e ne approfittai. Tirai fuori un biglietto da venti dollari e lo infilai sotto il passaporto. "Gli affari costano", dissi, "è sgradevole fare un viaggio a vuoto, capisce?". Lui prese la banconota e mi restituì


il passaporto. "Ormai Mister Nightingale viene qui molto raramente", disse. Fece un'aria contrita. "Sa", aggiunse, "il nostro è un buon albergo, ma non può competere con gli alberghi di lusso". Forse solo in quel momento si rese conto che stava parlando troppo. E si rese anche conto che io apprezzavo il suo parlare troppo. Fu un'occhiata, un istante. "Devo concludere un affare urgente con Mister Nightingale", dissi con la nitida sensazione che quel rubinetto ormai era chiuso. Difatti lo era. "Non mi occupo degli affari di Mister Nightingale", disse gentilmente ma con fermezza. Poi continuò con tono professionale: "quanti giorni si ferma, signore?". "Solo questa notte", dissi io. Mentre mi passava la chiave gli chiesi a che ora apriva il ristorante. Mi rispose con sollecitudine che apriva alle otto e mezzo, e che potevo cenare alla carta o al buffet, che sarebbe stato allestito al centro della sala. "Il buffet è solo cibo indiano", specificò. Lo ringraziai e presi la chiave. Quando ero già all'ascensore tornai indietro e gli


feci una domanda innocua. "Immagino che Mister Nightingale cenasse in albergo, quando stava qui". Lui mi guardò senza capire molto bene. "Certo", rispose orgogliosamente, "il nostro ristorante è uno dei migliori della città".

I vini in India costano molto, sono quasi tutti importati dall'Europa. Bere vino, anche in un buon ristorante, è segno di un certo prestigio. Lo diceva anche la mia guida: ordinare vino comporta l'intervento del maŒtre. Puntai sul vino. Il maŒtre era un grassoccio con le occhiaie e i capelli impomatati. La sua pronuncia dei vini francesi era disastrosa, ma ce la mise tutta per illustrare le caratteristiche di ogni marca. Ebbi l'impressione che improvvisasse un po', ma sorvolai. Lo lasciai aspettare un bel pezzo, studiando la lista. Sapevo che mi stavo rovinando, ma ormai erano gli ultimi soldi spesi a questo fine: presi una banconota da venti dollari e la posai dentro la lista, la chiusi e


gliela porsi. "è una scelta difficile", dissi, "mi porti il vino che sceglierebbe Mister Nightingale". Lui non fece una piega. Se ne andò con sussiego e ritornò con una bottiglia di Rosé de Provence. La stappò con cura e ne versò due dita perché l'assaggiassi. Io assaggiai e non mi pronunciai. Anche lui restò impassibile. Decisi che era venuto il momento di tentare la carta. Bevvi ancora un sorso e dissi: "Mister Nightingale tratta solo roba di prima qualità, ho saputo, lei cosa ne pensa?". Lui guardò la bottiglia con occhi inespressivi. "Non lo so, signore, dipende dai gusti", rispose con aria disinvolta". "Il fatto è che anche i miei gusti sono molto esigenti", dissi io, "compero solo roba di prima scelta". Feci una pausa per dare più enfasi al mio discorso, e allo stesso tempo perché sembrasse più confidenziale. Mi sentivo come in un film, e il gioco mi stava quasi piacendo. La tristezza sarebbe venuta dopo, lo sapevo. "Roba molto raffinata", dissi infine


sottolineando la parola, "e in quantità sostanziosa, non a gocce". Lui guardò di nuovo il mio bicchiere inespressivamente e continuò la schermaglia. "Deduco che il vino non sia di suo gradimento, signore". Mi dispiacque che avesse giocato al rialzo. Le mie finanze erano in via di prosciugamento, ma ormai valeva la pena arrivare fino in fondo. E poi ero certo che Padre Pimentel avrebbe potuto farmi un prestito. Dunque accettai il rialzo e dissi: "mi riporti la lista, vedrò di scegliere una marca migliore". Lui mi aprì la lista sul tavolo e io ci infilai un'altra banconota da venti dollari. Poi indicai un vino a caso e dissi: "crede che questo piacerebbe a Mister Nightingale?". "Ne sono certo", rispose lui con premura. "Sarei proprio curioso di chiederglielo personalmente", dissi io, "lei cosa mi consiglierebbe?". "Fossi come il signore cercherei un buon albergo sulla costa", disse lui. "Sulla costa ci sono molti alberghi, è difficile trovare proprio quello giusto".


"I migliori sono solo due", rispose, "è impossibile sbagliare, il Fort Aguada Beach e l'Oberoi. Hanno entrambi una situazione magnifica, con una spiaggia incantevole e palmizi che arrivano fino al mare. Sono certo che li troverà entrambi di suo gusto". Mi alzai e mi diressi verso il buffet. C'erano una decina di vassoi sugli scaldavivande ad alcol, presi del cibo a caso, spizzicando qua e là. Sostai presso la finestra aperta, col piatto in mano. La luna era già bella alta e si rifletteva nel fiume. Ora stava arrivando la malinconia, come avevo previsto. Mi accorsi che non avevo fame. Attraversai la sala e mi diressi all'uscita. Mentre uscivo il maŒtre mi fece un leggero inchino. "Il vino me lo faccia servire in camera", dissi, "preferisco berlo in terrazza".

Xii.

"Mi scuserà la banalità della frase


ma ho l'impressione che ci conosciamo", dissi. Alzai il mio bicchiere e toccai il suo posato sul banco. La ragazza rise e disse: "ho questa impressione anch'io, lei assomiglia stranamente al signore col quale stamani sono venuta in taxi da Panaji". Risi anch'io. "Ebbene, è inutile fingere, quell'uomo sono io". "Sa che dividere la corsa è stata un'idea eccellente?", aggiunse lei con fare pratico. "Le guide dicono che in India i taxi sono molto economici, e invece costano un occhio della testa". "Poi le consiglierò una guida attendibile", asserii con competenza. "Il nostro taxi ha fatto un percorso fuori città e il prezzo triplica. Io avevo una macchina a noleggio, ma ho dovuto lasciarla perché era troppo cara. Ad ogni modo il maggior vantaggio per me è stato fare il percorso in così piacevole compagnia". "Alt", disse lei, "non si approfitti della notte tropicale e di questo albergo fra le palme. Sono vulnerabile ai complimenti e mi lascerei corteggiare senza opporre resistenza, non sarebbe leale da parte sua". Alzò


il bicchiere anche lei e ridemmo ancora. La magnificenza decantata dal maŒtre del Mandovi peccava per difetto. L'Oberoi era più che magnifico. Era una costruzione bianca a mezzaluna che riprendeva esattamente la curva della spiaggia su cui sorgeva, un'insenatura protetta da un promontorio a Nord e da un banco di scogli a Sud. La sala principale era un enorme spazio aperto che continuava sulla terrazza, dalla quale la divideva solo il banco del bar che poteva essere utilizzato dalle due parti. Sulla terrazza erano apparecchiati i tavoli per la cena, ornati di fiori e di lumi. Un pianoforte, nascosto da qualche parte nel buio, suonava in sordina musiche occidentali. A pensarci bene il tutto era troppo da turismo di lusso, ma in quel momento ciò non mi dispiaceva. I primi commensali stavano già prendendo posto ai tavoli della terrazza. Dissi al cameriere di riservarci un tavolo d'angolo, in posizione discreta e un po' in penombra, poi proposi un altro aperitivo. "Purché non sia alcolico", disse la ragazza. E poi continuò col suo tono


scherzoso: "mi pare che stia correndo troppo, cosa le fa presumere che accetterò il suo invito a cena?". "Per la verità non avevo nessuna intenzione di invitarla", confessai candidamente, "io ho quasi finito le mie povere sostanze e ciascuno pagherà la sua parte. Ceniamo semplicemente allo stesso tavolo, siamo soli e ci teniamo compagnia, mi sembrava logico". Lei non disse niente e si limitò a bere il succo di frutta che il cameriere ci aveva servito. "E poi non è vero che non ci conosciamo", continuai, "ci siamo conosciuti stamani". "Non ci siamo neppure presentati", obiettò lei. "è una lacuna a cui si può rimediare facilmente", dissi, "io mi chiamo Roux". "Io mi chiamo Christine", disse lei. E poi aggiunse: "non è un nome italiano, no?". "Che differenza fa?". "Effettivamente nessuna", ammise lei. E poi sospirò: "la sua corte è veramente irresistibile". Ammisi che non avevo nessuna


intenzione di farle la corte, che ero partito col concetto di una cena sportiva, con una conversazione cameratesca e alla pari. Insomma, una cosa del genere. Lei mi guardò con aria fintamente supplichevole, sempre con quel suo tono un po' scherzoso, e protestò: "oh no, mi faccia la corte, la prego, mi dica cose gentilissime, mi parli di cose belle, ne ho un bisogno terribile". Le chiesi da dove veniva. Lei guardò il mare e disse: "da Calcutta. Ho fatto una breve sosta a Pondicherry per uno stupido servizio sui miei connazionali che vivono ancora là, ma ho lavorato un mese a Calcutta". "Che cosa faceva a Calcutta?". "Fotografavo l'abiezione", rispose Christine. "Come sarebbe?". "La miseria", disse lei, "la degradazione, l'orrore, lo chiami come preferisce". "Perché lo ha fatto?". "è il mio mestiere", disse lei, "mi pagano per questo". Fece un gesto che forse significava rassegnazione alla professione della sua vita, e poi mi chiese: "lei è mai stato a Calcutta?".


Scossi la testa. "Non ci vada", disse Christine, "non faccia mai questo errore". "Pensavo che una persona come lei pensasse che nella vita bisogna vedere il piĂš possibile". "No", disse lei convinta, "bisogna vedere il meno possibile". Il cameriere ci fece cenno che il nostro tavolo era pronto e ci precedette fino alla terrazza. Era un buon tavolo d'angolo come avevo chiesto, vicino ai cespugli del bordo, in disparte. Chiesi a Christine se potevo mettermi alla sua sinistra, cosĂŹ da poter vedere gli altri tavoli. Il cameriere era premuroso e discretissimo, come sono i camerieri di alberghi del tipo dell'Oberoi. Preferivamo cucina indiana o il barbecue? Non voleva influenzare, naturalmente, ma i pescatori di Calangute oggi avevano portato ceste di aragoste, erano tutte lĂ in fondo alla terrazza, pronte ad essere cucinate, dove si vedeva il cuoco col cappello bianco e il riverbero dei bracieri all'aperto. Approfittando del suo suggerimento percorsi con lo sguardo la terrazza, i tavolini, i


commensali. La luce era abbastanza incerta, su ogni tavolo c'erano delle candele, ma le persone erano distinguibili, con un po' di concentrazione. "Le ho detto cosa faccio io", disse Christine, "e lei cosa fa?, se ha voglia di rispondermi". "Mah, supponiamo che stia scrivendo un libro, per esempio". "Un libro come?". "Un libro". "Romanzo?", chiese Christine con gli occhi furbi. "Una cosa simile". "Allora è un romanziere", disse lei con una certa logica. "Oh no", dissi io, "sarebbe solo un'esperienza, il mio mestiere è un altro, cerco topi morti". "Come ha detto?!". "Scherzavo", dissi io. "Frugo in vecchi archivi, cerco cronache antiche, cose inghiottite dal tempo. è il mio mestiere, lo chiamo topi morti". Christine mi guardò con indulgenza, e forse con una punta di delusione. Il cameriere venne sollecito e ci portò delle ciotoline piene di salse. Ci


chiese se volevamo del vino e noi acconsentimmo. L'aragosta arrivò fumante, abbrustolita solo nel guscio, con la polpa cosparsa di burro fuso. Le salse erano piccantissime, bastava una goccia per incendiare la bocca. Ma poi il fuoco si spengeva subito e il palato si riempiva di aromi squisiti e insoliti: riconoscibile il ginepro, e poi spezie ignote. Cospargemmo accuratamente la nostra aragosta e alzammo i bicchieri. Christine confessò di sentirsi già un po' ubriaca, forse lo ero anch'io, ma non me ne stavo rendendo conto. "Mi racconti il romanzo, forza", disse lei a un certo punto, "sono curiosissima, non mi faccia stare in pena". "Ma non è un romanzo", protestai io, "è un pezzo qua e uno là, non c'è neppure una vera storia, sono solo frammenti di una storia. E poi non lo sto scrivendo, ho detto supponiamo che lo stia scrivendo". Evidentemente entrambi avevamo una fame terribile. Il guscio dell'aragosta era già vuoto e il cameriere venne sollecito. Ordinammo altre cose, a sua scelta. Cose


leggere, specificammo, e lui annuì con competenza. "Qualche anno fa ho pubblicato un libro di fotografie", disse Christine. "Era la sequenza di una pellicola, fu stampato molto bene, come piaceva a me, riproduceva anche i denti della pellicola, non aveva didascalie, solo foto. Cominciava con una fotografia che considero la cosa più riuscita della mia carriera, poi gliela manderò se mi lascia il suo indirizzo, era un ingrandimento, la foto riproduceva un giovane negro, solo il busto; una cannottiera con una scritta pubblicitaria, un corpo atletico, sul viso l'espressione di un grande sforzo, le mani alzate come in segno di vittoria: sta evidentemente tagliando il traguardo, per esempio i cento metri". Mi guardò con aria un po' misteriosa, aspettando una mia interlocuzione. "Ebbene?", chiesi io, "dov'è il mistero?". "La seconda fotografia", disse lei. "Era la fotografia per intero. Sulla sinistra c'è un poliziotto vestito da marziano, ha un casco di plexiglas sul viso, gli stivaletti alti, un


moschetto imbracciato, gli occhi feroci sotto la sua visiera feroce. Sta sparando al negro. E il negro sta scappando a braccia alzate, ma è già morto: un secondo dopo che io facessi clic era già morto". Non disse altro e continuò a mangiare. "Mi dica il resto", dissi io, "ormai completi il racconto". "Il mio libro si chiamava Sudafrica e aveva un'unica didascalia sotto la prima fotografia che le ho descritto, l'ingrandimento. La didascalia diceva: Méfiez-vous des morceaux choisis". Fece una piccola smorfia e continuò: "niente pezzi scelti, per favore, mi racconti la sostanza del suo libro, voglio sapere il concetto". Cercai di riflettere. Come avrebbe potuto essere il mio libro? è difficile dire il concetto di un libro. Christine mi guardava implacabile, era una ragazza cocciuta. "Per esempio nel libro io sarei uno che si è perso in India", dissi rapidamente, "il concetto è questo". "Eh no", disse Christine, "non basta, non se la può cavare così, la sostanza non può essere semplicemente questa".


"La sostanza è che in questo libro io sono uno che si è perso in India", ripetei, "mettiamola così. C'è un altro che mi sta cercando, ma io non ho nessuna intenzione di farmi trovare. Io l'ho visto arrivare, l'ho seguito giorno per giorno, potrei dire. Conosco le sue preferenze e le sue insofferenze, i suoi slanci e le sue diffidenze, le sue generosità e le sue paure. Lo tengo praticamente sotto controllo. Lui, al contrario, di me non sa quasi niente. Ha qualche vaga traccia: una lettera, delle testimonianze confuse o reticenti, un bigliettino molto generico: segnali, pezzetti che tenta faticosamente di appiccicare insieme". "Ma lei chi è?", chiese Christine, "voglio dire nel libro". "Questo non viene detto", risposi, "sono uno che non vuole farsi trovare, dunque non fa parte del gioco dire chi è". "E quello che la cerca e che lei sembra conoscere così bene", chiese ancora Christine, "costui la conosce?". "Una volta mi conosceva, supponiamo che siamo stati grandi amici, un


tempo. Ma questo succedeva molto tempo fa, fuori della cornice del libro". "E lui perché la sta cercando con tanta insistenza?". "Chi lo sa", dissi io, "è difficile saperlo, questo non lo so neppure io che scrivo. Forse cerca un passato, una risposta a qualcosa. Forse vorrebbe afferrare qualcosa che un tempo gli sfuggì. In qualche modo sta cercando se stesso. Voglio dire, è come se cercasse se stesso, cercando me: nei libri succede spesso così, è letteratura". Feci una pausa come se fosse un momento cruciale e dissi confidenzialmente: "sa, in realtà ci sono anche due donne". "Ah, finalmente", esclamò Christine, "ora la cosa si fa più interessante!". "Purtroppo no", continuai, "perché anche loro sono fuori cornice, non appartengono alla storia". "Uffa", disse Christine, "ma in questo libro è tutto fuori cornice? Mi sa dire cosa c'è dentro la cornice?". "C'è uno che cerca un altro, glielo ho detto, c'è qualcuno che mi cerca, il libro è il suo cercarmi". "E allora me lo racconti un po' meglio!".


"Va bene", dissi io, "comincia così, che lui arriva a Bombay, ha l'indirizzo di un albergaccio dove io stavo una volta e si mette a cercare. E lì conosce una ragazza che un tempo mi ha conosciuto e costei gli fa sapere che io mi sono ammalato, che sono andato in ospedale, e poi che avevo dei contatti con della gente del Sud dell'India. Così lui va a cercarmi in ospedale, che si rivela una falsa pista, e poi parte da Bombay e comincia un viaggio, sempre con la scusa di cercarmi, ma in realtà viaggia per i fatti suoi, il libro è principalmente questo: il suo viaggio. Fa tutta una serie di incontri, naturalmente, perché nei viaggi si incontrano persone. Arriva a Madras, gira per la città, per i templi dei dintorni, in una società di studi, trova qualche labile traccia mia. E infine arriva a Goa, dove però doveva andare comunque, per motivi suoi". Christine ora mi seguiva con concentrazione, succhiava un bastoncino di menta e mi guardava. "A Goa", disse, "proprio a Goa, interessante. E qui cosa succede?". "Qui ci sono molti altri incontri",


continuai, "lui vaga un po' qua e un po' là, e poi una sera arriva in una certa cittadina e lì capisce tutto". "Tutto cosa?". "Oh, beh", dissi io, "lui non mi trovava anche per un fatto molto semplice, perché io avevo preso un altro nome. E lui riesce a scoprirlo. In fondo non era poi impossibile scoprirlo, perché era un nome che aveva a che vedere con lui, un tempo. Solo che questo nome io lo avevo stravolto, camuffato. Non so come c'è arrivato, ma di fatto c'è arrivato, sarà stato un caso fortuito". "E qual è questo nome?". "Nightingale", dissi io. "Bel nome", disse Christine, "vada avanti". "Bene, lì riesce evidentemente a sapere dove mi trovo, facendo credere di avere un affare importante da concludere con me: qualcuno gli dice che sono in un albergo di lusso della costa, un posto tipo questo". "Oh là là", disse Christine, "qui mi deve raccontare proprio bene, siamo dentro lo scenario". "Già", dissi io, "proprio così, per scenario prendo questo. Supponiamo che


sia una sera come questa, calda e profumata, albergo molto fine, sul mare, grande terrazza con tavolini e candele, musica in sordina, camerieri che si aggirano premurosi e discreti, cibo scelto, naturalmente, con cucina internazionale. Io sono a un tavolo con una bella donna, una ragazza come lei, con aspetto da straniera, stiamo a un tavolo dalla parte opposta a quella in cui ci troviamo noi ora, la donna è rivolta verso il mare, io invece guardo verso gli altri tavoli, stiamo conversando amabilmente, la donna ride di quando in quando, si vede dalle sue spalle, esattamente come lei. A un certo punto...". Tacqui e guardai la terrazza, facendo scorrere lo sguardo sulle persone che cenavano agli altri tavoli. Christine aveva spezzato il bastoncino di menta, lo teneva a un angolo della bocca come una sigaretta, con aria attenta. "A un certo punto?", chiese. "Cosa succede a un certo punto?". "A un certo punto lo vedo. è a un tavolo di fondo, dall'altra parte della terrazza. è girato nella mia stessa posizione, siamo faccia a faccia. Anche lui è con una donna, ma


lei mi gira le spalle e io non posso sapere chi è. Forse la conosco, o credo di conoscerla, mi ricorda una persona, addirittura due persone, potrebbe essere sia l'una che l'altra. Ma così, da lontano, alla luce delle candele, è difficile stabilirlo, e poi la terrazza è molto grande, proprio come questa. Lui probabilmente dice alla donna di non voltarsi, mi guarda a lungo, senza muoversi, ha un'aria soddisfatta, quasi sorridente. Forse anche lui crede di riconoscere la donna che è con me, gli ricorda una persona, addirittura due persone, potrebbe essere sia l'una che l'altra". "Insomma l'uomo che la cercava è riuscito a trovarla", disse Christine. "Non esattamente", dissi io, "non è proprio così. Mi ha cercato tanto, e ora che mi ha trovato non ha più voglia di trovarmi, mi scusi il bisticcio ma è proprio così. E anch'io non ho voglia di essere trovato. Entrambi pensiamo esattamente la stessa cosa, ci limitiamo a guardarci". "E poi?", disse Christine, "cos'altro succede?".


"Che uno di noi due finisce di bere il suo caffè, piega il tovagliolo, si aggiusta la cravatta, supponiamo che abbia la cravatta, chiama con un cenno il cameriere, paga il conto, si alza, sposta educatamente la sedia della signora che lo accompagna e che si alza con lui, e se ne va. Basta, il libro è finito". Christine mi guardò dubbiosa. "Mi sembra una fine un po' scialba", disse posando la sua tazzina. "Già, sembra anche a me", dissi posando la tazzina anch'io, "ma non trovo altre soluzioni". "Fine del racconto, fine della cena", disse Christine, "i tempi coincidono". Accendemmo una sigaretta e io feci un cenno al cameriere. "Senta Christine", dissi, "lei mi deve scusare ma ho cambiato idea, questa cena vorrei offrirla io, credo di avere denaro sufficiente". "Niente affatto", protestò lei, "gli accordi erano espliciti, cena cameratesca e alla pari". "La prego", insistetti, "la prenda come scusa per averla annoiata troppo".


"Ma io mi sono divertita moltissimo", ribatté Christine, "insisto per dividere a metà". Il cameriere mi si avvicinò e mi bisbigliò qualcosa in confidenza, poi se ne andò con la sua andatura felpata. "è inutile discutere", dissi, "la cena è gratis, la offre un cliente dell'albergo che desidera restare anonimo". Lei mi guardò con meraviglia. "Sarà un suo ammiratore", dissi io, "qualcuno più galante di me". "Non dica stupidaggini", disse Christine. Poi fece una finta aria offesa. "Non è leale", disse, "si era già messo d'accordo col cameriere".

I corridoi che portavano alle camere avevano una tettoia di legno lustro, a pensilina, come un chiostro che dava sul buio della vegetazione che cresceva a ridosso dell'albergo. Dovevamo essere fra i primi a ritirarci, i clienti erano rimasti quasi tutti sulle sdraio della terrazza a sentire musica. Camminavamo fianco a fianco, in silenzio, in fondo alla balconata frullò per un attimo


una grossa falena. "C'è qualcosa che non mi torna nel suo libro", disse Christine, "non so bene cosa, ma non mi torna". "Lo credo anch'io", risposi. "Senta", disse Christine, "lei è sempre d'accordo con le critiche che le faccio, è insopportabile". "Ma ne sono proprio convinto", affermai, "davvero. Deve essere un po' come quella sua fotografia, l'ingrandimento falsa il contesto, bisogna vedere le cose da lontano. Méfiez-vous des morceaux choisis". "Quanto si trattiene?", mi chiese. "Parto domani". "Così presto?". "I miei topi morti mi aspettano", dissi io, "ognuno ha il suo lavoro". Cercai di imitare quel gesto di rassegnazione che lei aveva fatto parlando del suo lavoro. "Anche a me mi pagano per questo". Lei sorrise e infilò la chiave nella porta.


Sono alcuni aforismi di Antonio Tabucchi Per conoscere un luogo non è sempre necessario esserci stati. Può succedere che il senso della vita di qualcuno sia quello, insensato, di cercare delle voci scomparse, e magari un giorno di crederle di trovarle, un giorno che non aspettava più, una sera che è stanco, e vecchio, e suona sotto la luna, e raccoglie tutte le voci che vengono dalla sabbia. Siamo produttori di muri, anche invisibili, anche internamente. Che strano, pensaci un po', mio padre studiava le vite vicinissime col microscopio, mio nonno cercava quelle lontanissime col cannocchiale, entrambi con le lenti. Ma la vita si scopre a occhio nudo, né troppo lontana né troppo vicina, ad altezza d'uomo. Un inglese che come te scriveva libri disse che siamo tutti in una fogna ma che alcuni di noi guardano le stelle, e forse Tristano aveva voglia di guardare le stelle perché il suo paese era proprio una fogna. Se ti metti a guardare nelle pieghe più nascoste della società, qualsiasi essa sia, scopri la pazzia. Ma quelli che hanno avuto il coraggio di farlo erano pazzi. La vita non si racconta. La vita si vive, e mentre la vivi


è già persa, è scappata. Ora Tristano è davvero stanco, non ha più fiato, lo senti, avrebbe voglia di dormire, ma non il breve sonno di un'iniezione, a lungo, come deve essere lungo il sonno che compensi la fatica di aver vissuto. „ Sostiene Pereira di averlo conosciuto in un giorno d'estate. Una magnifica giornata d'estate, soleggiata e ventilata, e Lisbona sfavillava. Pare che Pereira stesse in redazione, non sapeva che fare, il direttore era in ferie, lui si trovava nell'imbarazzo di mettere su la pagina culturale, perché il "Lisboa" aveva ormai una pagina culturale, e l'avevano affidata a lui. E lui, Pereira, rifletteva sulla morte. È difficile avere una convinzione precisa quando si parla delle ragioni del cuore, sostiene Pereira. La vita non è in ordine alfabetico come credete voi. Appare... un po' qua e un po' là, come meglio crede, sono briciole, il problema è raccoglierle dopo, è un mucchietto di sabbia, e qual è il granello che sostiene l'altro? A volte quello che sta sul cocuzzolo e sembra sorretto da tutto il mucchietto, è proprio lui che tiene insieme tutti gli altri, perché quel mucchietto non ubbidisce alle leggi della fisica, togli il granello che credevi non sorreggesse niente e crolla tutto, la sabbia scivola, si appiattisce e non ti resta altro che farci ghirigori col dito, degli andirivieni, sentieri che non


portano da nessuna parte, e dai e dai, stai lì a tracciare andirivieni, ma dove sarà quel benedetto granello che teneva tutto insieme... e poi un giorno il dito si ferma da sé, non ce la fa più a fare ghirigori, sulla sabbia c'è un tracciato strano, un disegno senza logica e senza costrutto, e ti viene un sospetto, che il senso di tutta quella roba lì erano i ghirigori. La filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità. So sempre, anche se a volte resta vago, quando un'anima o un personaggio sta viaggiando in aria e ha bisogno di me per raccontarsi. Mi piacciono le storie. Sono anche un ottimo ascoltatore di storie. Ascoltare e raccontare, è un po' la stessa cosa. Bisogna essere disponibili, lasciare sempre l'immaginazione aperta. Le mie storie, i miei libri, li ho semplicemente accolti. Credo nelle muse. Ho un immenso affetto per i miei ospiti notturni. Li tratto come ospiti di riguardo.


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