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Carlo, mio caro figlio

...ricordi, riflessioni, speranze...

Alla tua nascita, un quaderno di ricordi “Sono un bimbo, un foglio bianco su cui scrivono le stelle” e un’incisione di Bruno da Osimo raffigurante un veliero “Buona crociera pei sereni mari della vita”. Il 19 ottobre ’56 è iniziata la tua avventura umana sotto tante stelle e... a gonfie vele. La rivivo sempre, con emozione ed orgoglio, e tu ben lo sai. E ti sento vicino, con quel dolce sorriso ironico, mentre mi inviti a tacere (ma... mamma!!!). Molto avrei potuto raccontare per motivare gioie, ansie, preoccupazioni, pianti...: il tutto con emozione e orgoglio. La lettura della “parabola del buon samaritano” durante la funzione funebre, ha sottolineato il senso del 5


tuo lavoro: prendersi cura degli altri. È tutta una vita di sogni, in un cammino senza soste e sempre più in alto anche con il tuo deltaplano, per ricevere “schiaffi e dolci carezze”, come tu stesso hai scritto. E quanto hai saputo comunicare!! Vi è il bimbo che a Natale promette di essere più buono, trovo i fogli che raccontano le tante iniziative e, poi, “abbattute barriere”, il tuo lavoro e i volti incontrati e il fascino dei luoghi visitati. In tutto traspare il tuo carisma: riesci sempre a coinvolgere per condividere. In questi anni, a tanti giovani e molti ragazzi, ho parlato di te, dei tuoi sogni alimentati anche dalle letture che ti hanno fatto “crescere” e “scoprire” orizzonti lontani. I tempi sono cambiati, sottolineo sempre, ma i valori sono immutabili ed è in ognuno, giovane o meno, un desiderio infinito di PACE che, come scrive Antonino Bello, “non è un semplice vocabolo, ma un vocabolario”. E tu hai saputo leggervi parole come: amicizia, disponibilità... solidarietà. Sono passati 10 anni e sono stati scritti libri che riportano tue lettere e testimonianze di amici e colleghi. Questo volume “In volo... sul mondo che amo” apre uno scrigno, ricco anche di ricordi che avrei voluto non ripensare: sei proprio tu, con la tua personalità e la tua capacità di amare. E la lettura della grafia? Quanto mi affascina la scienza! Sono forse presuntuosa, ma tu ben sai quanto io ti conosca... più che me stessa. Grazie agli autori Suor Anna Maria e Don Mariano, sempre a me vicini, e alla dott.ssa Cervellati. A te... CIAO La tua Mamma Maria

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Introduzione

È difficile parlare di Carlo Urbani. quando è già stato detto e scritto molto, quando egli è stato raccontato dai suoi familiari ed amici, da chi l’ha conosciuto nelle situazioni “ufficiali” e da chi ha condiviso la quotidianità. Suor Anna Maria Vissani e Don Mariano Piccotti, a dieci anni dalla scomparsa, scelgono di parlarne nella rispettiva veste di specialissimi amici di viaggio; scelgono di aprire lo scrigno della relazione altrettanto speciale che da lui sono stati scelti a tessere. Ma il loro ringraziamento va anche alla Moglie e alla Mamma di Carlo che, con tanta fiducia, hanno loro aperto l’archivio di famiglia, da cui gli Autori hanno attinto vari scritti inediti, e non solo. Raccontano l’interiorità di Carlo; raccontano il bambino, l’uomo, lo sposo, il padre, il medico, il volontario, l’amico, il cristiano, spesso inoltrandosi e avviando i lettori ben oltre l’immediato, l’evidente. Lo fanno ricordando i colloqui, aprendo album e pagine del suo diario, ed offrono ai lettori la possibilità di comprendere altre numerose sfaccettature della ricca personalità di Carlo. Alessandra Cervellati, grafologa, forte del suo sapere, consentirà a Carlo di “parlare” metaforicamente, proprio attraverso l’analisi della sua scrittura e ne mostrerà l’evoluzione, dalla fanciullezza alla scomparsa, dal 1963 al 2003. Il gesto grafico, infatti, è testimonianza ampia e profonda della personalità, espressione autentica e identificativa dell’unicità dello scrivente. L’analisi della grafia di Carlo può aiutare a comprenderne l’unicità e l’intimità, ben oltre le apparenze, le parole, i ruoli e le maschere. 7


Nell’esame di una consistente campionatura di scritture – per numero, estensione temporale e varietà dei saggi – lungo i trentotto dei quarantasei anni di vita, ella guarderà con il lettore nel cammino di crescita e nei mutamenti del Nostro. Ma quale dovrebbe essere, per una persona, un buon percorso evolutivo? Quale una buona strada da percorrere? Il cammino comincia con l’infanzia, con l’essere un bambino curioso che esplora, che vuole conoscere, fare esperienza, intessere relazioni e crescere proteso nello sforzo dell’autorealizzazione sia negli affetti come nel lavoro, in qualità di uomo, sposo e genitore... per poi scoprire l’importanza e la necessità di ritrovare “il bambino” che si è in ogni età, quel bambino che incarna la semplicità, l’essenzialità, la gioia, l’autenticità. Nel seguirlo, ciascuno rivive e fa suo il monito a cercare l’unica strada, perché “chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli” (Mt 18,4). Sta tutto qui il segreto capace di rendere ogni vita gioiosa e bella: nella purezza dello sguardo che coglie la verità al di là delle apparenze, che riconosce Cristo nel volto dei fratelli, che sceglie l’essenziale e la sincerità verso se stessi e verso gli altri, accettando i propri limiti e valorizzando i propri punti di forza, fino a farne dono agli altri per il bene comune. Ed intanto si ritrova la via del Cielo, svelata nel sorriso senza tempo del proprio bambino interiore, spontaneo, semplice, sincero, curioso e fiducioso. Tutto questo è Carlo, ed il testo che ne ricostruisce la memoria vuol farlo rivivere in quanti lo amano, vuole regalarne la vicenda a chi non lo conobbe. Gli autori

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carlo urbani

La biografia

Carlo nel suo studio a Hanoi.

Le seguenti “note biografiche” sono tratte da un appunto ad uso personale, scritto dallo stesso Carlo nel 2000.

“Nato a Castelplanio il 19 ottobre 1956, si è laureato in Medici­ na nel 1981 presso l’Università di Ancona, e successivamente specializzato in malattie infettive e tropicali nell’Università di Messina. Si è qualificato in successivi corsi post laurea in pa­rassitologia tropicale. È interno nell’Istituto di malattie infetti­ve dell’Università di Ancona fino al 1985, dove ricopre incari­chi di didattica e di ricerca. Dal 1986 al 1989 è titolare di un am­bulatorio di medicina di base a Castelplanio, che lascia nel 2000, per assumere il posto di aiuto nella Unità di malattie infettive dell’ospedale di Macerata. Negli anni successivi tiene corsi di parassitologia tropicale nelle Università di Brescia, Ancona, al­l’Istituto superiore di sanità, e in vari centri ospedalieri. Dal 1993 diviene consulente della Organizzazione mondiale della sanità per il controllo della schistosomiasi e di altre malattie parassi­tarie. Con tale incarico compie numerose missioni per provve­dere supporto tecnico ai governi di Mauritania e di altri paesi dell’Africa occidentale. Negli anni 1996 e 1997 è coordinatore di un progetto di Mé­ decins sans frontières in Cambogia per il controllo di malattie parassitarie, con particolare attenzione a remote province del Nord del paese. Durante tale periodo organizza e avvia il pro­ gramma di controllo per le elmintiasi, sviluppando un approccio decentralizzato per il controllo di rilevanti malattie parassi­ tarie, e contribuisce allo sviluppo di competenze tecniche nei responsabili nazionali del programma. In aggiunta esegue ri­

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cerche in collaborazione con il Swiss Tropical Institute, per de­ finire migliori strategie di controllo. Rientrato in Italia riassume la posizione all’ospedale di Macerata, ma mantiene un’intensa attività di collaborazione sia con l’Oms sia con Médecins sans frontières. Dal settem­bre 1998 ha rapporti di consulente con l’Ufficio regionale dell’Organizzazione mondiale della sanità per il Pacifico oc­cidentale, ed effettua missioni in Vietnam, Cambogia e Fi­lippine. Di Médecins sans frontières (Msf) diventa vicepresidente nazionale nel 1998, e presidente della sezione italiana nel 1999. Membro del Consiglio internazionale di Msf dalla stessa data, fa parte della delegazione che riceve a Oslo il premio Nobel per la Pace 1999. Nel marzo 2000 coordina il corso interna­zionale Advanced Training on Tropical Medicine, frutto di una collaborazione tra Msf, la Fondazione De Carneri e l’ospeda­le di Macerata. Nell’aprile 2000 lascia definitivamente l’Italia per accetta­re la nomina di esperto regionale Oms per la regione del Pa­cifico occidentale, dislocato a Hanoi, in Vietnam. Con tale pro­filo assiste i paesi della regione nel controllo di alcune malat­tie parassitarie, che rappresentano prioritari problemi di salu­te per vasti gruppi delle popolazioni dell’area. Effettua in que­sto ruolo continue missioni in particolare in Cina, Laos, Cam­bogia e Filippine. Durante gli ultimi anni ha collaborato a progetti di ricerca sfociati in pubblicazioni di testi di letteratura medica interna­ zionale, e ha partecipato a conferenze in varie capitali, tra cui Bangkok, Tokyo, Ginevra e Roma. Parla fluentemente inglese e francese. Sposato, con tre bam­ bini, vive con la famiglia ad Hanoi, e pur non coltivando specifiche passioni, continua a sognare i cieli marchigiani che sorvolava con il suo deltaplano a motore”.

PRESENTAZIONE

Nel 2002, a dicembre torna in Italia con la famiglia per il Natale. I primi giorni di gennaio 2003 rientra a Hanoi (Vietnam), per proseguire la sua missione di esperto regionale OMS nei pae­si del Pacifico occidentale. Il 28 febbraio 2003, viene chiamato a visitare all’ospedale francese di Hanoi un paziente che nessuno sa curare e che sta infettando il personale medico. Carlo Urbani è il primo a capire immediatamente che si tratta di una nuova malattia e con sollecitudine e studio accurato allerta il mondo attraverso l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Contagiato lui stesso dalla terribile malattia (Sars) il 29 marzo 2003, all’età di 47 anni, muore all’ospedale di Bangkok.

Ci sono immagini nella memoria che con il trascorrere del tempo non scoloriscono e in un certo senso rimangono attuali. Sembra tuttavia una contraddizione coniugare memoria e attualità, intrecciare passato e presente, quasi si accavallassero. Sta di fatto che la memoria non è solo un ricordo; a me piace vederla e sentirla nel senso biblico come “presenza”, come tenere vivo un legame, come riproporre un’immagine, un fatto, riattualizzarlo e riviverlo nella sua oggettività. Sono l’ultimo a poter parlare di Carlo Urbani con le dovute capacità di analisi e di lettura, come è stato fatto ancora una volta in maniera autentica, lineare, profonda e magistrale in questo libro. Di Carlo comunque, al di là delle tante parole scambiateci un tempo e dei tanti momenti vissuti serenamente, mi piace “far memoria” di tre occasioni che mi riportano accanto la sua persona, con la sua amicizia, il suo sorriso, i suoi sguardi. La prima è quella legata ad un mazzo di fiori portomi da lui ragazzo, era il 1967, a nome della comunità di Castelplanio, insieme a delle espressioni augurali in una delle occasioni più belle della mia vita. Fiori e parole che recupero nel “cassetto” dei ricordi come grato segno ed omaggio non solo, ma come immediata allora avvertenza della sua prontezza, delle sue capacità e della sua spigliatezza che lo avrebbero poi caratterizzato per sempre. La seconda è quella connessa all’incontro “Volontariato, perché?” svoltosi a Castelplanio nel 1981. L’incontro lo aveva ideato lui, voluto e programmato con gli amici del nascente Gruppo di Solidarietà che lo avevano promosso dedicandovi il pieno dell’entusiasmo e delle loro energie giovanili. Carlo ne fece l’introduzio-

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Alle sue note uniamo le nostre:


Carlo a 11 anni dà il benvenuto a un sacerdote novello.

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ne, sottolineando il ruolo di “chi lavora come volontario gratuitamente e di chi si presta per obbedire soltanto alla sua coscienza e alla necessità di adoperarsi per gli altri, soprattutto in una società dove tutto quello che vediamo si vende e si compera e del gratuito non vi sono tracce significative”. Ed aggiungeva: “Il servizio volontario è la realtà più importante e dirompente; è il più alto segno di attenzione agli altri, [...] è la modalità di servizio più viva e vera; non è imposto; non è dettato da interessi, non è assegnato da qualcuno, ma è una scelta libera che di giorno in giorno si rinnova; è gratuito ed è proprio questa gratuità la sua caratteristica particolare”. Un’esperienza, ricca di stimoli e di meditazioni – anche negli anni immediatamente successivi – sul volontariato e sul servizio, che avrebbe portato Carlo a sentire strette le frontiere e ad andare oltre, addirittura a sentirsi “senza frontiere”. La terza non è collegata ad un solo episodio, bensì ad una serie di momenti, non secondari a mio avviso, ma sintomatici di un aspetto della personalità di Carlo: quello della convivialità. Periodicamente ci si ritrovava insieme, avevamo creato tra amici una sorta di “accademia”, si cenava avendo prima cucinato “a tema”, si condivideva il cibo, il canto, il sorriso, ma soprattutto l’amicizia, la gioia di stare insieme, i progetti, le difficoltà, pensieri e riflessioni. Ho nostalgia di quelle serate. La convivialità di una condivisione senza orpelli, di una serenità aperta, di canti all’unisono – a volte stonati! – riempiva l’entusiasmo dello spezzare insieme il tempo delle proprie esperienze e dei propri ideali. Credo che Carlo l’abbia sempre vissuta questa convivialità in momenti diversi e con modulazioni differenti a volte inconsuete, ma sempre con quell’ansia dell’attenzione e del sentirsi “con” gli altri. In seguito mi sono mancati con Carlo quei rapporti più intensi e magari quella frequentazione epistolare che altri hanno avuto, dove i suoi orizzonti spaziavano e dove la sensibilità del cuore, dell’anima e dell’in13


telligenza, avevano modo di travasarsi trovando ascolto, sintonia e comunione di intenti. Le “indagini” e le esplorazioni che vengono condotte in questa “biografia” attraverso l’analisi della sua scrittura, la trascrizione di alcune sue lettere e di altre pagine inedite e l’aver delineato il suo ruolo di educatore, arricchiscono ulteriormente la “figura” di Carlo svelandone, e magari approfondendone, aspetti non sempre forse sufficientemente percepiti, come ad esempio, la ricchezza della sua interiorità, la tensione di uno spirito in perpetua ricerca, che scruta e gode delle piccole e grandi cose, che sente l’emozione dell’amore, le certezze e i dubbi della fede, che si abbandona al cielo stellato o alle note della musica, che sa dare senso alla vita nel dono e nel servizio. Le frontiere non si addicevano a Carlo, ha voluto sognare e volare alto e provare l’ebbrezza del volo e dei sogni: ci è riuscito e ce ne ha dato l’esempio fino alla fine nella piena consapevolezza. Il volto, taciturno a volte, non lasciava intravvedere la “densità” della sua anima fino a quando aprendosi alla confidenza, al dialogo o alla conversazione e al sorriso più aperto e sincero, non ne riuscivi a percepire la gioia più intima e intensa e le convinzioni più forti e profonde. Le pagine di questo libro tentano di srotolare il volume della sua non lunga esistenza provando a sondarne le pieghe più remote e più vere, rendendo la “presenza” di Carlo ancora palpitante per quelli che l’hanno conosciuto e delineandone un ritratto non di un “eroe” ma di un uomo, debole e forte a un tempo, che ha provato tuttavia ed è riuscito con volontà e decisione a essere coerente con i suoi ideali e i suoi sogni. Come tutti dovremmo fare. Grazie, Carlo! Riccardo Ceccarelli

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L’attenzione dell’amico L’acutezza dell’Assistente spirituale

Carissimi don Mariano e suor Anna Maria, Come va? Scusate se mi indirizzo a voi nella stessa lettera, e vi assicuro non lo faccio per risparmiare sui francobolli! In realtà le giornate scivolano via strapiene, e la sera ho poca voglia di risiedermi al computer. È così che alcune lettere rimangono nel cassetto qualche settimana prima di una risposta. Allora ho pensato di parlarvi insieme, per non far passare altro tempo, e perché tutto sommato siamo abituati a parlare insieme, ed in entrambi ho sempre trovato allo stesso tempo la calda attenzione dell’amico e la dolce acutezza dell’assistente spirituale. Questi primi mesi sono letteralmente volati via, tanto che a volte ho paura di non riuscire a prendere da quest’esperienza tutto quello che mi viene offerto. Mi riempie di gioia pensare che quello che non riesce a restare impresso nel mio cuore, pre15


so come sono dal lavoro, resterà nel cuore di Tommaso, che sta vivendo con un entusiasmo ed una attenzione che non immaginavo questo lungo strano viaggio. Anche Giuliana sembra reagire bene, e sta dimostrando un coraggio inaspettato nel restare qualche giorno sola con i bambini quando devo andare in qualche villaggio lontano. Ma cerco di ridurre questi tempi, sapendo quanto loro hanno bisogno di me, e soprattutto perché trovo molto bello tutto questo tempo che possiamo passare insieme. Per noi è un’esperienza nuova passare insieme tutte le notti o tutte le domeniche. Cosa sto facendo qui della mia Fede? Beh, qualche volta, magari incollati ad un ventilatore per il caldo torrido che c’è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera, ed ogni 15 giorni partecipiamo alla messa per la comunità francofona nella missione francese. La messa è molto piacevole, semplice, sentita, ed è bello scoprire come quella famiglia di figli di Dio alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà immaginiamo sempre come un concetto astratto, in realtà esiste in carne ed ossa, ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come questo. Ma poi soprattutto nella Fede cerco in questo tempo la luce per rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio. Il primo è la fatidica questione sulla vera natura dell’uomo. Quanto vedo qui, quanto sento nei racconti dei miei colleghi provenienti dalle mille ferite di questa terra, campi di battaglia, campi profughi, la profonda povertà delle bidonvilles, le assurde lotte fratricide, e le carceri grondanti sangue di tutti i regimi dittatoriali

del mondo... tutto questo scoraggia un po’, e a volte vedere qualcosa di buono nell’altro, in chi ti è “prossimo”, diventa veramente difficile ed invita a chiudersi in se stessi. Ma i piccoli lumi che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma dolorante lasciano sperare, ed il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario di continui soprusi e guerre, per morire poi su una croce, mi fa credere che una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte. Vi so vicini, ed a volte vorrei che vedeste con i miei occhi, per fissarvi su quegli sguardi di chi ha perso tutto, la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro, o per scaldarvi il cuore alla vista di una donna che partorisce sola, in una palafitta in un remoto villaggio, lontano da tutto e da tutti, con il marito inginocchiato al fianco, un legno che arde in un braciere per scaldarla... non credo che in altre scene avreste potuto vedere meglio rappresentato il mistero della natività, di questa che ho visto a Sdau, piccolo villaggio su nel nord, due settimane fa. Spero risentirvi presto. Ricordiamoci nella preghiera. Con affetto, Carlo

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Sono alcune delle lettere scritte tra il 1997 e il 2002 da Carlo Urbani Cosa sto facendo della mia fede? Beh, qualche volta, magari incollati ad un ventilatore per il caldo torrido che c'è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera, ed ogni 15 giorni partecipiamo alla messa per la comunità francofona nella missione francese. La messa è molto piacevole, semplice, sentita, ed è bello scoprire come quella famiglia di figli di Dio alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà immaginiamo sempre come un concetto astratto, in realtà esiste in carne ed ossa, ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come questo. Ma poi soprattutto nella Fede cerco in questo tempo la luce per rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio. Il primo è la fatidica questione sulla vera natura dell'uomo. Quanto vedo qui, quanto sento nei racconti dei miei colleghi provenienti


dalle mille ferite di questa terra, campi di battaglia, campi profughi, la profonda povertà delle bidonvilles, le assurde lotte fratricide, e le carceri grondanti sangue di tutti i regimi dittatoriali del mondo... tutto questo scoraggia un po', e a volte vedere qualche cosa di buono nell'altro, in chi ti è «prossimo», diventa veramente difficile ed invita a chi udersi in se stessi. Ma i piccoli lumi che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma di dolore lasciano sperare, ed il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario di continui soprusi e guerre, per morire poi su una croce, mi fa credere che una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte. Vi so vicini, ed a volte vorrei che vedeste con i miei occhi, per fissarvi su quegli sguardi di chi ha perso tutto, la famiglia nella guerra, il raccolto nell'alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro, o per scaldarvi il cuore alla vista di una donna che partorisce sola, in una palafitta in un remoto villaggio,


lontano da tutto e da tutti, con il marito inginocchiato al fianco, un legno che arde in un braciere per scaldarla... non credo che in altre scene avreste potuto vedere meglio rappresentato il mistero della NativitĂ , di questa che ho visto a Sdau, piccolo villaggio su nel nord, due settimane fa. Mai come in questo periodo sono stato tanto preso dal lavoro. Ăˆ che sono come entrato in un vortice, dove l'amore per la professione e la scoperta che il lavoro che faccio incarna gli ideali che sempre hanno aleggiato sopra il mio cammino, sono come sirene alle quali non riesco a sottrarmi. Non credo che sia solo per brillare agli occhi degli uomini, ma è che mi sento un grande privilegiato al quale il Padre buono ha offerto una vita ricca, dove alcuni campi fertili non aspettano altro che vi semini responsabilmente i miei talenti. Ed a volte riscopro la Sua beltĂ nell'oggetto del mio lavoro, nei misteriosi fiumi che risalgo, fiumi d'acqua e fiumi di conoscenze, nei volti dei magri


bambini nati come Lui in una capanna, o nei sorrisi coraggiosi di chi condivide il mio lavoro. Credimi, è bello muovere passi in questo grande villaggio, e scoprirne le ferite e le glorie. Credo che la Sua beltà ci si manifesti in mille modi, e pur se convinto che anche nel silenzio di un monastero o nelle limitazioni della clausura sia visibile, amo troppo scoprirla in nuovi orizzonti, o dietro nuovi occhi. Senza eccessi e forzature credo che insieme possiamo aprire nuove finestre, per vivere una vita di sapore, consapevolezza, e amore. Avrei voglia di rivederti, anche per sapere di te, e della tua vita divenuta preghiera. Non che non lo fosse prima, ma ora ti immagino più tesa verso l'Altissimo che prossima agli uomini. E questa dimensione la conosco meno, a volte ho anche difficoltà ad immaginarla, e mi piacerà sentire da te cosa sia. La mia dimensione «verticale» invece credo sia sempre meno evidente. O meglio, si vede di meno ma


credo di sentirla con lo stesso calore.. A volte sussurrare una Avemaria in silenziosi tramonti mi causa leggeri brividi di emozione, e non smetto di raccomandarmi al Signore ogni volta che vedo una prova sul mio cammino. Non so se questo basti, anzi immagino che ci si aspetti di più da un «bravo cristiano»... per cui sto quasi pensando di rimuovere il «bravo» dal cristiano che sono! Ma non ho dubbi che il Padre Buono saprà sempre alzare una mano per appoggiarmi carezze sul capo... almeno spero


VIETNAM – Carlo Urbani

Se, nello stesso periodo in cui si verificava il drammatico evento angolano, ci si fosse trasferiti in Vietnam, si sarebbe riscontrata una situazione totalmente diversa: quanto ancora l’Angola era vittima delle spaventose conseguenze di quasi mezzo secolo di guerra, tanto il Vietnam mostrava i segni di una crescita economica impetuosa e di un benessere che cominciava a diffondersi in tutti gli strati sociali del paese. Eppure, anche il Vietnam non sfugge ad una epidemia di una malattia polmonare sconosciuta, altamente contagiosa, dagli esiti virulenti e quasi sempre mortali, che dal novembre 2002 era iniziata a diffondersi a partire da Guangdong in Cina, raggiungendo ben presto 37 nazioni


dell’area, assumendo quindi le caratteristiche di una pandemia. Il virus arriva in Vietnam attraverso un turista che, proveniente da Hong Kong, viene ricoverato all’Ospedale Francese di Hanoi, dove i medici, ovviamente ignari della natura del male, non riescono ad impedirne la diffusione tra il personale sanitario. Viene allertata l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) che incarica del caso un suo funzionario, il medico italiano Carlo Urbani, incaricato del settore del controllo delle malattie infettive. Coronavirus Una pediatra, Maria Bonino, assiste i bambini ricoverati nel reparto e ne è a stretto contatto giornaliero. In poco tempo contrae la malattia e muore, a causa di questa infezione, il 24 marzo 2005, a Luanda, dove era stata trasferita in osservazione e dove il suo corpo ancora giace, essendo stato


considerato troppo rischioso riportarlo in patria.Carlo Urbani visita i pazienti e si rende immediatamente conto della gravità della malattia, soprattutto in termini di potenziale diffusione della stessa all’esterno dell’ospedale. Pertanto, nonostante il parere inizialmente contrario delle autorità locali (timorose delle ricadute negativi in termini di turismo e di scambi con l’estero), riesce a porre in quarantena l’ospedale ed a mettere in pre-allarme tutte le istituzioni competenti in materia sanitaria. Grazie a questa decisione, Carlo Urbani è riuscito, di fatto, a salvare il Vietnam da una epidemia che, date anche le condizioni di affollamento in cui generalmente vive la popolazione locale, avrebbe avuto esiti devastanti. Ma i frequenti contatti avuti con i pazienti gli sono fatali. Il 29 Marzo del 2003, dopo un brevissimo decorso della malattia, Carlo Urbani muore in un ospedale di


Bangkok, dove si era auto-isolato per impedire la diffusione dell’epidemia. Il virus responsabile della sindrome venne poi identificato come appartenente alla famiglia dei coronaviridae e denominato SARS (severe acute respiratory syndrome). Due storie simili. Due medici italiani. Due continenti fra loro lontani. Due malattie virali in genere confinate al mondo animale (zoonosi). Due epidemie terribili a rapida diffusione ed elevata mortalità . Nessuna cura o vaccino per fermarle. Sono le cosidette malattie emergenti 2 sempre piÚ frequenti, spesso imprevedibili e con pochi rimedi a disposizione nell’arsenale medico.


Carlo UrbaniMi sta tenendo compagnia un avvincente libro su vita e morte di Carlo Urbani, il medico marchigiano che fu il primo a scoprire la Sars, la polmonite killer, l’ultima delle maledizioni; e per fronteggiarla faccia a faccia, evitando al mondo una spaventosa epidemia, sacrificò la propria vita: non per un gesto eroico, ma per un semplice dovere di medico. L’episodio avvenne in Vietnam un anno fa. Urbani morì poi a Bangkok, dove venne trasferito d’urgenza in un estremo tentativo di salvarlo. La storia l’ha ricostruita una giornalista di “Avvenire”, Lucia Bellaspiga. E nella copertina posteriore del libro si legge, tral’altro: “Per il contributo decisivo dato alla lotta contro il virus salutiamo Carlo Urbani come un eroe”. Firmato: Kofi A. Annan, segretario generale delle Nazioni Unite. Dovendo affrontare il tema del giornalismo solidale, sorretto da tensione morale e volto a valorizzare il “bicchiere pieno” del mondo, ho pensato quanto sarebbe bello se la storia di Carlo Urbani, il medico che rifiuta di fare il primario


nella sua città e si tuffa, tra Africa e Asia, nella povertà più crudele del mondo per denunciare i misfatti delle multinazionali farmaceutiche, per spiegarci come con pochi spiccioli si possano salvare cento o mille vita, per dedicare professione, cuore e scienza ai diseredati della Terra, sì ho pensato alla gioia di poter leggere questa straordinaria avventura umana, magari a puntate, su uno dei grandi quotidiani nazionali: come sublime esempio di un vivere felice, nel senso più completo del termine, lenendo le sofferenze degli ultimi e trascinando magari in questa “religione da frontiera”, come ha fatto Urbani, tutta la propria famiglia. Carlo non era uno qualunque. Per tanti anni militante tra i “Medici senza frontiere” era stato chiamato al vertice della Oms, la Organizzazione mondiale della sanità. Ma il suo lavoro era in prima linea, come il contagio fatale della Sars dimostra. Lavoro da oltre mezzo secolo nel giornalismo e credo di aver vissuto, in provincia e nelle metropoli, in redazione e nel mondo, esperienze di tutti i generi. Ma ogni tanto affiora in me un sogno: quello di un giornale che non esiste, un quotidiano che capovolga l’attuale rabbrividente rapporto tra brutte e buone notizie. Lo so, è difficile, forse è anche una sublime


utopia. E so anche che è impossibile nascondere il brutto che imperversa nel mondo. Ma certo si potrebbe rimpicciolirlo, valorizzando invece, con pagine intere e grandi titoli, l’opera di chi si batte per una società meno barbara e ingiusta: di uomini come Carlo Urbani o Gino Strada, di missionari religiosi o laici che vivono tra i diseredati, delle migliaia di giovani che militano nel volontariato spendendo il proprio tempo libero, del mio amico Mario Furlan che, con i suoi City Angels, passa le notti regalando coperte e bevande calde a coloro che hanno dei cartoni come casa. E chissà quante storie edificanti verrebbero fuori se ci fosse una redazione impegnata a cercarle. E chissà quanti proseliti farebbe l’esercito del “bicchiere pieno” se la buona volontà venisse convogliata e aiutata a esprimersi. Ho trascorso otto mesi a San Vittore per scrivere un libro di vita e umanità (”Libertà dietro le sbarre”) che considero una delle realtà più belle della mia vita. Ma sapete chi mi dà la gioia più grande? Le persone che, dopo averlo letto, mi chiedono: “Come si fa a diventare volontari in un carcere”. Nel libro su Carlo Urbani c’è una bellissima frase: “Lui ha cercato di raccogliere piccoli pezzi di quella giustizia umana e sociale che il mondo ha frantumato nelle valli della povertà e delle


guerre senza senso”. È in bocca a una suora, amica del medico. Mi piacerebbe conoscerla e abbracciarla. Candido Cannavò


Dichiarazione di Carlo Urbani, presidente di Medici Senza Frontiere - MSF Italia Perché un Nobel per la Pace a MSF? Cosa trasforma infermieri, medici e agguerriti logisti in strumenti di pace? Cosa trasforma il curare malattie e bendare ferite in atti dall'alta valenza politica? L'emozione per questo riconoscimento continua a crescere quando davanti ai microfoni possiamo urlare che il premio non è per noi ma per l'idea che salute e dignità sono indistinguibili nell'essere umano, che è l'impegno a restare vicini alle vittime, a tutelarne i loro diritti, lontani da ogni frontiera di discriminazione e divisione, che ha avuto un Nobel per la Pace. Abbiamo fatto un gran parlare di indipendenza… neutralità… testimonianza… parti integranti delle nostre azioni. Ora ricordiamo quei momenti in cui essere indipendenti e neutrali ci costava sacrificio, ci faceva rinunciare a scorte armate o a finanziamenti in situazioni difficili, ma ci poneva in stretto contatto con le vittime, facendoci diventare dei testimoni dell'orrore di fatti ed eventi che fanno della dignità umana un sanguinante misero fardello. E poi raccontare le privazioni dei diseredati, la lontananza degli esclusi, indicare in abusi e violenze i veri terremoti e uragani contro cui è davvero difficile, se non impossibile, costruire argini o rifugi. E' da quella vicinanza alle vittime duramente conquistata che abbiamo raccolto informazioni, abbiamo lanciato campagne di pressione nazionali o sovranazionali, ottenendo, come in Etiopia e Corea del Nord, risultati che completano il senso del distribuire farmaci o suturare, che non ci fanno sentire vani gli sforzi e i sacrifici di chi condivide paure, rabbia e delusioni con i milioni di individui che popolano villaggi dimenticati, invivibili aree metropolitane, inimmaginabili campi rifugiati. E con chi condividere questa gioia? Certamente con altri due essenziali attori dell'azione di MSF: con quanti ci sostengono finanziariamente e con quelle migliaia di local staff, per usare il nostro gergo, che non sono altro che medici, infermieri, autisti, reclutati localmente, che fiduciosi accettano di essere formati e coraggiosi condividono le nostre azioni. E voi che ci sostenete, i nostri cosiddetti donatori. Quanto vorremmo che ognuno di voi si sentisse un po' Nobel per la Pace! Per aver reso possibile la nostra indipendenza, per averci autorizzato ad una totale ingerenza negli affari di paesi dove secondo noi la vita umana non viene considerata un valore, e per averci fatto sentire forti di un folto numero di persone, circa 200.000 in Italia, che condividono le nostre ansie e le nostre speranze. Ed ora, approfittando di questa inconsueta popolarità, lasciamo che i riflettori, illuminandoci, illuminino e rendano visibili gli scenari dimenticati… affinché l'azione di domani (il Nobel non è il nostro traguardo finale!) sia ancora più efficace ed incisiva e che i benefici del premio vadano a loro, alle vittime.


Giuliana Urbani “Ha sollevato lentamente la sua mano e ha preso la mia, poi se l’è appoggiata sul cuore e mi ha guardata negli occhi. L’ho aiutato, interpretando il suo pensiero: ‘Mi vuoi bene, vero?’, lui con la testa ha fatto segno di sì, gli ho stretto di più la mano e ho annuito: ‘Lo so, lo so bene’”. Così Giuliana Urbani racconta l’ultimo saluto ricevuto dal marito Carlo, il 27 marzo 2003, in un ospedale di Bangkok, due giorni prima che Carlo morisse di Sars, la malattia che aveva scoperto e dalla quale era stato contagiato. Carlo era nato 46 anni prima a Castelplanio (Ancona) e si era dedicato anima e corpo al soccorso dei derelitti del mondo, girando l’Africa e l’Asia per conto dell’Organizzazione mondiale della sanità, di cui era diventato consulente nel 1993 e dedicando il meglio delle sue energie alle iniziative dell’associazione Medici senza frontiere. Era un cristiano consapevole e fattivo. Consapevolmente aveva corso il rischio del contagio. Della sua qualità di cristiano il mondo ebbe notizia pochi giorni dopo la morte, quando il Papa invitò Giuliana e il figlio Tommaso a portare la croce, il Venerdì Santo, al Colosseo. Ma a un anno dalla morte ne abbiamo una notizia intera anche quanti non lo conoscemmo in vita: sono stati pubblicati tre volumi con i suoi scritti e la sua storia e in essi egli appare non solo cristiano, ma un grande cristiano, nel segno di Madre Teresa, di Albert Schweitzer, di Raul Folleraul e – ultimamente – anche di Annalena Tonelli. Tra le lettere, ho scelto questa, come meglio riassuntiva della partecipazione di Carlo Urbani all’avventura cristiana: Cosa sto facendo della mia fede? Beh, qualche volta, magari incollati ad un ventilatore per il caldo torrido che c’è anche di notte, diciamo insieme qualche preghiera, ed ogni 15 giorni partecipiamo alla messa per la comunità francofona nella missione francese. La messa è molto piacevole, semplice,


sentita, ed è bello scoprire come quella famiglia di figli di Dio alla quale diciamo di appartenere, ma che in realtà immaginiamo sempre come un concetto astratto, in realtà esiste in carne ed ossa, ed è pronta ad accoglierti tra le sue braccia anche in posti lontani come questo. Ma poi soprattutto nella Fede cerco in questo tempo la luce per rispondere ad angoscianti interrogativi che mi tengono sveglio. Il primo è la fatidica questione sulla vera natura dell’uomo. Quanto vedo qui, quanto sento nei racconti dei miei colleghi provenienti dalle mille ferite di questa terra, campi di battaglia, campi profughi, la profonda povertà delle bidonvilles, le assurde lotte fratricide, e le carceri grondanti sangue di tutti i regimi dittatoriali del mondo… tutto questo scoraggia un po’, e a volte vedere qualche cosa di buono nell’altro, in chi ti è «prossimo», diventa veramente difficile ed invita a chiudersi in se stessi. Ma i piccoli lumi che brillano nei cuori di quanti si prodigano in questo magma di dolore lasciano sperare, ed il ricordo di chi ha deciso di scendere in questo scenario di continui soprusi e guerre, per morire poi su una croce, mi fa credere che una luce di pace sarà pure nascosta dietro qualche orizzonte. Vi so vicini, ed a volte vorrei che vedeste con i miei occhi, per fissarvi su quegli sguardi di chi ha perso tutto, la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la diarrea, i risparmi per un ladro, o per scaldarvi il cuore alla vista di una donna che partorisce sola, in una palafitta in un remoto villaggio, lontano da tutto e da tutti, con il marito inginocchiato al fianco, un legno che arde in un braciere per scaldarla… non credo che in altre scene avreste potuto vedere meglio rappresentato il mistero della Natività, di questa che ho visto a Sdau, piccolo villaggio su nel nord, due settimane fa. (a don Mariano Piccotti e suor Anna Maria Vissani, da Phom Penh, Cambogia, 11 febbraio 1997) Egli vede realizzata la sua vocazione nella “prossimità alle


vittime” e ne loda Dio: “Ho raggiunto la mia leggenda personale”. Come dirigente dell’Organizzazione mondiale della sanità, si trova a girare tra Cina, Thainlandia, Laos, Cambogia e Filippine: “Lì trovo l’essenza del mio lavoro, sento l’odore della povertà e della privazione che alimenta come benzina il fuoco che anima la mia passione”. E’ felice che la famiglia lo segua nell’impresa: “Godevo al vedere i miei figli dentro capanne affumicate, a curiosare tra il nulla che costituisce la vita dei poveri”. E ancora: “Ringrazio Dio per tanta generosità nei miei confronti”. Di figli Carlo ne ha tre, Tommaso, Luca e Maddalena, che hanno dai quindici ai tre anni, quando Giuliana li mette su un aereo e li fa tornare in Italia da soli, per restare con lui. Aveva voluto la famiglia con sé, quando aveva lasciato definitivamente l’Italia, nell’aprile del 2000, accettando la nomina ad esperto delle malattie parassitarie per il Pacifico occidentale, da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità. “In quei problemi – dice dei più poveri con cui viene a contatto – crescerò i miei figli, sperando di vederli consapevoli dei grandi orizzonti che li circondano”. Vive come un privilegio, un dono, un vanto, la possibilità di svolgere – quasi per professione – il ruolo del buon samaritano. Di questa vocazione così aveva scritto nel Natale del 1999 a Riccardo Grifoni, collega medico – impegnato anche lui in Medici senza frontiere – in missione in Afghanistan: “Caro Riccardo, in questi giorni ho ripetuto fino alla nausea che noi medici siamo privilegiati per l’opportunità che abbiamo di guardare e di toccare le persone… e sederci in quella posizione che è ‘accanto alle vittime’”.


Tommaso Urbani Quando - era il 1996 - arrivò la chiamata di Msf per una missione in Cambogia, mio fratello Luca aveva appena un anno. Mio padre ci propose questa «avventura». Come risponderebbe un ragazzino di 9 anni se il padre gli chiedesse: «Volete venire con me in Cambogia per un anno?». Non saprei. Ma so come risposi io. E come risponderebbe una madre con un figlio appena nato? Probabilmente e comprensibilmente con un «no». Io ero entusiasta, mia madre di meno. Ma ci fidavamo di lui. Quello che faceva mi coinvolgeva in qualche modo, anche se non losapevo ancora. Allora lo vedevo come un viaggio in un nuovo posto, una vacanza prolungata. D’altronde avevo solo 9 anni. Iniziai a seguire dei corsi di lingua, là avrei frequentato la scuola francese. La sera a casa mio padre mi interrogava, dovevo prepararmi al meglio. Ricordo ancora il giorno della partenza. Un convoglio di amici e parenti ci accompagnò in aeroporto a Falconara. E prendemmo il volo verso un nuovo mondo, una nuova vita. Il primo impatto non fu affatto facile: caldo torrido, zanzare, scarafaggi, strade dissestate, spazzatura ovunque, tanta povertà… In Cambogia erano ancora presenti i Khmer Rossi di Pol Pot, quindi la situazione non era delle più rosee. Ci trovavamo a Phnom Penh, la capitale, e inizialmente abitavamo nella casa famiglia di Msf. Non fu facile, lo ripeto. Ma posso dire, dopo diversi anni, che la mia vita quell’anno cambiò. Mio padre mi fece scoprire la povertà, quella vera, le condizioni nelle quali vivono troppi bambini. Sembrano cose scontate, risapute, ma credo che non possano essere capite se non vissute. Superato l’impatto iniziale fu tutta un’altra cosa. Dopo alcuni giorni di preparativi era arrivato il momento del colloquio con il preside della scuola francese. Mi ero preparato minuziosamente il discorso con mio padre, quindi ero pronto. Entrammo nella scuola: palazzone giallo in stile coloniale, campi da calcetto in terra, palme… poi l’ufficio. Il cuore mi batteva a mille, mio padre cercava di tranquillizzarmi senza successo (mica poteva far tutto!). Una volta dentro, il preside mi salutò e chiese come mi chiamassi. Silenzio. Quanti anni hai? Silenzio. Al terzo silenzio intervenne mio padre. Fu una tragedia. Una vergogna. Uscimmo entrambi sconvolti dalla mia debacle. Eravamo increduli. Ma fu solo un episodio, poi mi integrai alla perfezione e dopo un mese parlavo francese meglio del mio babbo! Tutto andava bene, la scuola, mi ero fatto i primi amici stranieri, mia mamma faceva volontariato in un


orfanatrofio che ogni tanto visitavamo, mio fratello imparava il khmer, e babbo era felice. Per ché era riuscito a coinvolgerci nella sua avventura. Era soddisfatto del suo lavoro, si assentava spesso per missioni sul campo, durante le quali eravamo alquanto in apprensione. I Khmer Rossi pattugliavano le periferie e le campagne, non era molto sicuro andare in giro. Ma era il suo lavoro. A Phnom Penh c’era il coprifuoco la sera, ma di giorno giravamo tranquillamente. Una delle cose che mi «eccitavano» di più erano le vacanze al mare. Partivamo in convoglio con diverse Land Rover di Msf insieme ai colleghi del mio babbo. Vivevo quei momenti quasi come un film. Ogni due settimane andavamo a messa nella comunità cattolica francese, ed è lì che feci la mia prima comunione. Ci venne a trovare anche mia nonna paterna. Fu in quell’occasione che mio padre organizzò un viaggio in macchina, in un altro paese, il Vietnam. Ero ignaro di quello che sarebbe successo poi. Quel paese pochi anni dopo sarebbe diventato la mia, la nostra casa. E lo è tuttora. Ma torniamo alla Cambogia. Un bel periodo dicevo, sì. Poi però, nel luglio 1997, scoppiò un colpo di stato. A OSLO E QUEL GIORNO SENZA STAMPA Quella mattina mio padre non c’era, era fuori città, doveva tornare in aereo ma non lo facevano atterrare. L’aeroporto era sotto assedio, e in città c’era la guerriglia. Ero a casa con mia mamma e mio fratello e sentivamo le bombe esplodere, i carri armati sparare, i proiettili volare. Uno scenario surreale, quello che sembrava essere un film era realtà. Ma in quel momento l’unico mio pensiero era rivedere mio padre: l’aereo riuscì ad atterrare e per fortuna tornò a casa. Ci rifugiammo tutti in un’abitazione vicina, insieme ai suoi colleghi che oramai erano diventati una grande famiglia, la grande famiglia di Medici senza frontiere. I primi giorni di attacchi e bombardamenti sembravano infiniti, le mura tremavano, si sentivano le urla di paura e disperazione della popolazione, le tv trasmettevano le immagini della città. Strade nelle quali camminavamo tutti i giorni ricoperte di sangue e cadaveri. Uno spettacolo macabro. Io non capivo, perché stava succedendo? E probabilmente, anzi sicuramente non mi rendevo nemmeno conto della gravità della situazione. Un giorno addirittura chiesi a mio padre di tornare nella nostra casa per prendere dei giochi che avevo dimenticato. Un suo collega mi rimproverò: «Cosa ti salta in mente? Vuoi che tuo padre si becchi un proiettile in testa per un gioco?». Ci rimasi male, ma mi aiutò a rendermi conto che non si trattava di un divertimento. Dopo qualche


giorno i combattimenti finirono, mio padre e i suoi colleghi andavano in giro per soccorrere eventuali feriti. Dopodiché ci evacuarono a Bangkok mentre la situazione tornava alla normalità. Qualcuno potrebbe pensare: «Machi è quell’incosciente che porta la sua famiglia in guerra?». Non è così. Eravamo una famiglia, lui non sarebbe partito senza di noi, e noi non gli avremmo impedito di accettare quell’incarico. Una volta in Italia si tornò alla normalità. Io a scuola a Castelplanio, mio babbo a Macerata, mio fratello all’asilo, mia mamma al lavoro. Tutto normale, forse troppo. Grazie a mio padre avevo scoperto nuovi orizzonti, quegli orizzonti che tanto aveva inseguito e raggiunto insieme a noi. Quella vita mi stava stretta. Figuratevi a lui! Dopo l’anno in Cambogia aveva capito che poteva contare su di me per queste cose, un po’ meno su mia mamma. E come darle torto, portare due figli in Cambogia non era stato di certo come fare una passeggiata sul monte. In quegli anni mio padre fu eletto presidente della sezione italiana di Medici senza frontiere. E nel 1999 l’organizzazione vinse il premio Nobel per la pace. Lui andò insieme a tutti i presidenti di Medici senza frontiere alla cerimonia di consegna, ad Oslo. Purtroppo non se ne parlò molto in Italia di quel giorno speciale per Msf. Non si parlò di quei medici che lottano per assicurare un minimo di dignità e salute alle popolazioni dimenticate. Non se ne parlò: quel giorno c’era lo sciopero della stampa. COALIZZATI... PER CONVINCERE MAMMA Un giorno il mio babbo mi chiamò nel suo studio. Aveva un libro in mano. C’era la foto di un lago con degli alberi intorno e al centro un’isoletta con un tempio. «Tommy, questo è il lago di Hoan Kiem. Si trova ad Hanoi, la capitale del Vietnam. La leggenda narra che al suo interno viva una tartaruga gigante, che durante l’invasione cinese consegnò la spada all’imperatore vietnamita che liberò il suo popolo dagli oppressori cinesi. Se ti dicessi che c’è la possibilità di andarci a vivere?». Esplosi in un misto di gioia ed emozione, non riuscivo a parlare, era tutto troppo bello per essere vero, mi sembrava di vivere un sogno. La frase successiva fu: «Però devi aiutarmi a convincere mamma». Nemmeno a farlo apposta, mia mamma era incinta di Maddalena. Tempismo perfetto! Non fu semplice, ma mio padre con il suo carisma (e il mio appoggio) riuscì nell’intento. Mancava solo l’ufficialità. Per me era una vera sofferenza non poter raccontarlo a nessuno (anche per un po’ di naturale scaramanzia). Un pomeriggio di autunno, tornando da scuola, trovai mio padre seduto nel suo studio, serissimo. «Che è successo?», chiesi. «Nonsono stato scelto


per il Vietnam». Sentivo tutta la sua delusione, che si aggiunse alla mia. Raramente lo avevo visto così, un conto era vederlo arrabbiato per qualche mio brutto voto a scuola, un altro era vederlo così. Poi la sorpresa. Un suo collega della Cambogia, suo grande amico, gli aveva voluto fare uno scherzo. In realtà ancora non s’era deciso nulla. Lo odiammo entrambi. Arrivò il 6 gennaio 2000. Il giorno dell’epifania, a Castelplanio, era usanza lanciare i palloncini dalla piazza del comune, dopo la messa. Ero lì con mia mamma e mio fratello. Mio babbo era rimasto a casa per lavorare. Ad un certo punto lo vedo arrivare in lontananza. Un sorriso a trentasei denti stampato in faccia. Capii al volo. Gli corsi incontro e gli saltai addosso. «Andiamo in Vietnam, Tommy!». Non dimenticherò mai quel giorno. Sei mesi dopo partimmo tutti insieme, con un passeggero in più, Maddalena, nata da due mesi. La partenza fu diversa rispetto alla Cambogia. Ad Hanoi mio padre aveva trovato una casa, e la situazione era completamente diversa. Noi eravamo diversi. Eravamo pronti per questo nuovo cambiamento, che sarebbe stato definitivo. Mio padre infatti, accettando l’incarico dell’Oms, si era licenziato dall’ospedale rifiutando l’incarico di primario. HANOI E L’ASILO DI MADDALENA L’arrivo in Vietnam fu magico. Odori, rumori, immagini che ho stampate in mente e nel cuore. Ogni volta che rimetto piede in quel paese mi sento a casa. E questo grazie a mio padre. Credo che in Vietnam raggiunse l’apice della sua carriera. Era molto impegnato, come sempre, anzi forse più del solito. Ma di nuovo faceva di tutto pur di farci essere felici. Non sto parlando di benessere materiale, ma interiore. Per noi era una gioia girare con lui. Non erano dei banali giri turistici. Tutt’altro. Scoprivamo la cultura, le usanze, i difetti di quel popolo (li adoro, ma i vietnamiti sono molto testardi!), ci mescolavamo tra loro, condividevamo tutto con loro. Io e mio fratello frequentavamo la scuola francese, mentre mia sorella era stata iscritta all’asilo vietnamita. Bellissimo, anche se a casa avevamo bisogno dell’interprete, dato che Maddalena parlava solo vietnamita. Mio padre era fiero di tutto ciò. Era riuscito in qualcosa di straordinario. E non sto parlando del lavoro. Ma della famiglia. Era riuscito, attraverso il suo impegno nell’aiutare gli altri, a farci capire cosa sia la vera felicità, il vero amore, la vera gratitudine. Che troppo spesso pensiamo solo a noi stessi quando in troppi soffrono perché perdono «la famiglia nella guerra, il raccolto nell’alluvione, il figlio per la


diarrea, i risparmi per un ladro», come scrisse in una lettera. Era felice di vedere mia sorella parlare vietnamita, mio fratello giocare con i vicini di casa, me che raccontavo le birre di troppo prese con gli amici. I suoi sogni si erano avverati, realizzati sia nella vita che nel lavoro. E in tutto questo era riuscito anche a crescere i suoi figli. UN UOMO, UN MEDICO (MA NON UN EROE) Tutti sanno cosa è successo il 29 marzo del 2003. Mi crollò il mondo addosso. A me, a mia madre Giuliana, a mio fratello Luca (mentre per fortuna - mia sorella Maddalena era ancora troppo piccola). A famigliari, amici, colleghi. Mio padre è stato spesso chiamato «eroe». Non sono d’accordo. Mio padre è stato un medico, un uomo che si è messo a disposizione dei più bisognosi. Ma non è l’unico. In tutto il mondo ci sono persone che rischiano la loro vita per aiutare i più deboli, i più sfortunati… questo non va dimenticato. In molti mi chiedono se, ogni tanto, rimprovero mio padre per la scelta che ha fatto. Lui mi manca. Ci manca. Ma sono convinto che, se dovesse rivivere quel periodo, mio padre farebbe esattamente le stesse scelte. Era la sua vita, la sua passione. E nessuno glielo rimprovererà. Sono passati dieci anni dalla sua morte, eppure molti dei suoi insegnamenti li colgo solo ora. Cerco di impegnarmi nel quotidiano per provare a rispettare i valori che egli ha difeso con tanta passione e amore. E, come detto all’inizio di questo ricordo, continuo ad accettare gli inviti che ricevo in Italia e nel mondo, per trasmettere il suo messaggio, per ricordare la sua figura di medico e uomo. Sono convinto che da lassù mio padre mi guardi. E probabilmente, considerando l’ironia di cui era largamente provvisto, si faccia pure due risate.


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