Archeo Monografie n. 30, Aprile/Maggio 2019

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ARCHEO MONOGRAFIE FENICI

MONOGRAFIE

Un’epopea mediterranea

FENICI

di Sandro Filippo Bondì

Timeline Publishing Srl - Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c.1, LO/MI.

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N°30 Aprile/Maggio 2019 Rivista Bimestrale

RA I U CVVENT I NDE A E FN



FENICI

Un’epopea mediterranea di Sandro Filippo Bondí

6. Presentazione 8. Introduzione

88. L’urbanistica e l’architettura

Le città e i monumenti

Fenici e Cartaginesi: nuove prospettive e nuove conoscenze

92. La statuaria in pietra

32. L’ambiente geografico

98. Gli avori e i metalli

Echi d’Egitto

Tra il mare e le montagne

Tesori d’alto artigianato

36. La storia

108. Le terrecotte e la produzione minore

Nascita di una civiltà

46. L’attività commerciale Mercanti prestigiosi

56. La colonizzazione

Storie di un’onda lunga

82. Le istituzioni e la società

Degne di ammirazione

84. La vita religiosa

Astarte, Melqart e gli altri...

Quel ghigno dal sapore esotico...

114. La scrittura

La grande invenzione

118. L’eredità

Il popolo della stella

122. Il Museo Nazionale di Beirut I Fenici in vetrina di Mauro Pompili


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L’IDENTITÀ FENICIA Sin dall’antichità i Fenici suscitarono ammirazione incondizionata o malcelato disprezzo. Un’immagine ambigua, quella che abbiamo ereditato dai classici, all’origine dello stereotipo del commerciante subdolo e senza scrupoli, al contempo navigatore cosmopolita e portatore – insieme a beni di lusso – di conoscenza e cultura. L’ambivalenza del fenomeno «Fenici» è ben presente già negli autori greci: durante le gare celebrate in occasione del funerale di Patroclo, è lo stesso Achille a esaltare la magnificenza di un premio molto speciale, «un cratere d’argento sbalzato, che sei misure teneva e per bellezza vinceva ogni altro su tutta la terra e

molto, perché l’avevano fatto con arte gli esperti Sidonii; genti fenicie l’avevan portato sul mare nebbioso» (Iliade XXIII 740); Sidones polydaidaloi – Sidoni dai molteplici talenti artistici – li chiama Omero. Fenici della città di Sidone, come lo era quella donna «grande e bella, esperta d’opere d’arte» che aveva rapito il piccolo Eumeo, il fido porcaio di Ulisse: «Un giorno Fenici vennero, navigatori famosi, furfanti, cianfrusaglie infinite sulla nave nera portando» (Odissea XV 415). Un’immagine «politicamente scorretta», che conferma il tenore di un precedente passo, in cui Ulisse racconta a Eumeo di quando era incappato in G A L L I A

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Cartina della regione mediterranea con le principali città fenicie: un’ampia rete di scali e di insediamenti venne creata in ondate successive, tra l’VIII e il VII sec. a.C.

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| FENICI | 6 |

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ha definito la questione fenicia «un problema ormai sufficientemente chiarito, tale da consentire una definizione e una caratterizzazione adeguata di quel popolo». In questa sede, Sandro Filippo Bondí, già professore ordinario di archeologia fenicio-punica e collaboratore di «Archeo» sin dai primi numeri, ci guida alla conoscenza di questo universo caleidoscopico, poliforme, di certo affascinante, che ha indotto taluni a chiedersi, addirittura, se sia mai esistita un «identità fenicia»; a questo radicale interrogativo contribuiranno a rispondere, in senso positivo, le pagine che seguono… Andreas M. Steiner

un «uomo fenicio, esperto d’inganni, un ladrone che molti mali aveva fatto tra gli uomini» e che, raggirandolo «con le sue astuzie», lo aveva condotto in Fenicia. Qualche secolo piú tardi, però, Erodoto descrive con toni ben diversi, le virtú dei Fenici, i quali «introdussero fra i Greci molti e svariati insegnamenti, e fra questi le lettere dell’alfabeto che, come mi sembra, non c’erano prima fra i Greci; (...) i quali, avendo imparato, grazie all’insegnamento dei Fenici, le lettere (...) se ne servivano e usandole le chiamarono (...) ”lettere fenicie”» (Storie, V, 58). Chi erano, allora, veramente i Fenici? Uno dei loro massimi studiosi contemporanei, Sabatino Moscati,

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| FENICI | 7 |


INTRODUZIONE

FENICI E CARTAGINESI:

NUOVE PROSPETTIVE E NUOVE CONOSCENZE | FENICI | 8 |


Ras Shamra

Cipro

Monte Hermon

Mar Mediterraneo

Giordano

Lago di Galilea

Mar Morto

Negev

Arava

Delta del Nilo

Canale di Suez

Sinai

Mar Rosso

Nella pagina accanto particolare di un sarcofago fenicio raffigurante una nave, da Sidone. II sec. d.C. Beirut, Museo Nazionale. In questa pagina foto satellitare della costa orientale del Mediterraneo, dal promontorio di Ras Shamra (Ugarit), a nord, fino al Delta del Nilo. In alto, a sinistra, l’isola di Cipro; in basso, la penisola del Sinai. L’area siropalestinese è caratterizzata dalla vasta depressione che l’attraversa, da nord a sud, lungo un tracciato segnato dal fiume Giordano, dal bacino del Mar Morto prima e poi dalla valle dell’Arava, che sbocca sul Mar Rosso.

| MESOPOTAMIA | 9 |


INTRODUZIONE

L

a decisione di «Archeo» di riproporre alcuni ampi contributi sul mondo fenicio e punico permette di aggiornare il quadro storico e culturale che era stato tratteggiato con dati, problematiche e ricerche che negli ultimi anni hanno integrato in modo notevole (e in qualche caso modificato sostanzialmente) il paesaggio allora delineato. Vari temi, infatti, si sono imposti di recente agli studiosi della civiltà fenicia e cartaginese o comunque sono divenuti oggetto di nuovi approfondimenti, in taluni casi superando opinioni diffuse e autentici luoghi comuni affermatisi nel corso del tempo. Alcuni di essi, per esempio, riguardano un tema di primaria importanza quale è quello dell’identità fenicia, sia nel rapporto con le genti insediate intorno alla regione in cui la civiltà dei Fenici nacque e si affermò, sia negli specifici aspetti che tale cultura assunse nelle aree mediterranee interessate dalla sua espansione commerciale e coloniale, sia, infine, nelle relazioni che le genti fenicie intrecciarono con le popolazioni con cui interagirono nelle regioni raggiunte dalla loro irradiazione commerciale e coloniale, relazioni che mostrano elementi di profonda differenziazione nel tempo e nello spazio.

Un nuovo inquadramento cronologico Un altro aspetto di notevole rilevanza emerso dalle ricerche piú recenti è quello della cronologia: come vedremo, una nuova percezione dei tempi della diffusione delle genti fenicie si è affermata, soprattutto grazie alla conduzione di scavi archeologici che hanno dilatato il periodo di presenza dei Fenici nelle regioni mediterranee e che, in particolare, hanno spostato verso l’alto le datazioni dei loro stanziamenti (o talora solo delle loro frequentazioni) in quelle aree. I progressi verificatisi relativamente a queste problematiche, dunque, modificano e integrano, pur non contraddicendolo, il panorama delineato nei contributi di cui prima si diceva, consentendo di tracciare della civiltà fenicia e del suo sviluppo un quadro aggiornato, a cui concorrono indagini storiche, ricerche archeologiche e studi sulle credenze religiose. Biblo (Libano). I resti del tempio detto «degli Obelischi», risalente all’età del Bronzo Medio. I depositi votivi nascosti sotto la cella del santuario hanno restituito centinaia di figurine umane e animali in bronzo, risalenti al XIX-XVIII sec. a.C.

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INTRODUZIONE A taluni di questi aspetti saranno dedicate, in modo necessariamente antologico e limitato ai soli aspetti piú rappresentativi, le osservazioni che seguono.

L’identità Il tema dell’identità, attualmente assai considerato nell’insieme degli studi sulle civiltà antiche, è stato oggetto di numerosi approfondimenti. In realtà, gli studi degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso avevano tracciato i lineamenti fondamentali della «fenicità», rivendicando al popolo fenicio un’autonomia sul piano areale, linguistico, religioso e della produzione artistica che in precedenza non era stata cosí puntualmente riconosciuta. Questa impostazione, che ha guidato le ricostruzioni sul mondo dei Fenici per circa un cinquantennio, si è dovuta poi misurare con l’impatto delle nuove metodologie e dei nuovi dati che provenivano via via dagli scavi. Si è posta attenzione a verificare i modi dell’emergere della cosiddetta «identità fenicia» all’interno del quadrante orientale del Mediterraneo ed è stato approfondito il tema delle eventuali differenze tra centro e centro all’interno della Fenicia propriamente detta e, piú ancora, tra le varie regioni della diaspora mediterranea. E si è fatta poi avanti una nuova tendenza, talvolta radicalizzata in alcuni studi, che è arrivata a porre in

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In alto placca in avorio lavorata a rilievo raffigurante una sfinge, da Nimrud. Produzione fenicia. Londra, British Museum. In basso la capitale del Libano, Beirut, in una foto scattata ai primi del Novecento.


A destra tavoletta in caratteri cuneiformi Suq uq qas s Ug Uga Ug ga arit it it contenente il testo Ha Ham ama di una lettera nella Cipro Suq uq qass quale è menzionata Ha Ham ama Ant nttara arad rad do o Cipro Ara ado Amrit la città di Tiro, da Amritt Amr Ugarit. XIII sec. a.C. Simira Sim ira a Ant nttara arad rad do o Ara ado Amrit Eleutero Amritt Amr Aleppo, Museo Trip Tr pol pol olii Simira Sim ira a Nazionale. Libano ro te Eleu Bibl blo o Trip Tr pol pol olii In basso statuette in Adonis Libano terracotta policroma Mar Mediterraneo Bibl blo o Antilibano raffiguranti s Bei Be i rut ru ut t cu s Ly Adoni Mar Mediterraneo cavalieri, da tombe io p Antilibano cle Beiiru Be rut utt LycusSid fenicie scoperte ad don ne As o Dam amascco i p Akziv (Israele). e eptta cl Sare Sid don ne As Monte VI-V sec. a.C. Dam amasccoHermon Sare eptta Ti o Tir Monte Akz Ak ziv v Hermon Uga Uga Ug garit it it

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nei quali è comunque prevalente la capacità fenicia di

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Accco Atl tlit itt proporre proprie scelte culturali agli ambienti vicini). Monte gidd dd do Carmelo Accco Meg De s e rto Quando invece si volga lo sguardo all’interno del mondo Atl tlit itt Dor Do o or Monte Siro - A ra bfenicio ic o d’Oriente, gli studi recenti hanno posto l’accento Meg gidd dd doTel Carmelo D eser t o ll Mev vora akh Dor Do o or sul fatto che in esso prevalgono le distinzioni e che Sam i r ari oS Samari Sam ar riiaA r abi c o Telll Mev vora akh comunque i Fenici non ebbero mai la percezione di Gia iaff ffa fa a Samari Samari Sam arriia costituire una realtà profondamente omogenea: Ge ico Ger c co Gia iaff ffa fa a Ger erus er usa us salem le lem em mm me e conducono a questo giudizio le specificità dei pantheon Asc scal alo ona naico Ge Ger c co cittadini, la frammentazione in piccole entità istituzionali Mar Ger erus er usa us salem le lem em mm me e aza G Gaz a Morto Asc scal alo ona na differenziate, spesso protagoniste di politiche diverse e Mar Gaza Gaz a talora contrapposte riguardo ai Morto

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discussione e sostanzialmente a negare l’esistenza stessa di una civiltà fenicia definibile come tale per la specificità dei suoi tratti culturali piú significativi. Il problema dell’identità fenicia presenta varie sfaccettature a seconda che lo si esamini sotto l’angolo visuale dei rapporti di cultura tra i Fenici e le popolazioni all’intorno ovvero che lo si analizzi valutandolo con riferimento all’interno della Fenicia. Per il primo aspetto è quasi concordemente accettata la tesi che vi siano numerosi caratteri – dalla lingua a elementi della vita religiosa, dalla dimensione istituzionale alla produzione artistica – che distinguono chiaramente il mondo fenicio da quello degli Israeliti, dei Filistei o degli Aramei (fatti salvi, evidentemente, i processi di reciproche influenze,

rapporti con le grandi potenze vicinoorientali del tempo, e talune diversità della lingua fenicia che in alcuni casi si aprono all’individuazione di veri e propri dialetti locali. Tutto ciò ha indotto a considerare che, a un osservatore esterno o allo studioso moderno, i Fenici della madrepatria possono certo apparire come una

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INTRODUZIONE realtà sostanzialmente omogenea; ma tra gli abitanti di questo territorio prevalsero piuttosto le differenze. I Fenici non indicarono mai se stessi con questo nome, preferendo definirsi come Tirii, Sidonii, Gubliti, ecc., cioè come abitanti delle loro varie città, e dunque privilegiarono una concezione identitaria piú ristretta, che non giunse mai alla nozione di «nazione fenicia» quale potremmo intenderla noi e come, per esempio, fu per i Greci, coscienti di costituire una autentica unità nazionale, secondo il celebre passo di Erodoto che ne ricorda la comunanza di stirpe e di lingua, i comuni templi degli dèi, i riti e gli usi consimili. Diversa è la situazione quando si osservi il complesso mondo delle colonie fenicie nel Mediterraneo, dove vari elementi concorrono a rendere ancor piú articolato il quadro. In Sicilia un elemento caratterizzante è l’insieme

dei rapporti con il mondo greco dell’isola, responsabile di alcune scelte culturali non condivise dal resto del mondo punico. In Sardegna i problemi che piú chiaramente sono emersi dalle ricerche degli ultimi anni sono quelli dei rapporti con la componente nuragica e delle forme di penetrazione all’interno del territorio, due temi molto strettamente legati anche per le forme di coesistenza e di autentica coabitazione individuate in varie aree sarde e segnatamente nel comprensorio sud-occidentale del Sulcis. Per il Nord Africa vanno almeno citate la questione dello sviluppo dello Stato di Cartagine e l’esperienza, non condivisa altrove, della gestione di una compagine territoriale di notevole estensione, che in alcuni periodi è stata addirittura la piú ampia dell’intero bacino mediterraneo. Quanto alla Spagna i nuovi apporti dell’archeologia hanno portato alla luce il ruolo fondamentale di Cadice


nell’espansione commerciale dei Fenici di Spagna, con un orizzonte geografico che arriva, fin dal VII secolo a.C., al controllo di importanti zone della «facciata» atlantica portoghese. Né va dimenticata, anche se è un elemento noto da sempre, un’altra esperienza totalmente iberica, quella del «principato» costituito dai Barca (la famiglia di Annibale) negli anni successivi alla prima guerra contro Roma (III secolo a.C.). Pur con le differenze qui rilevate e in presenza di una documentazione ricca e articolata, la questione dell’identità fenicia continua ad alimentare un dibattito serrato, in cui non mancano tesi che potremmo definire «negazioniste». Qualche specialista è giunto a parlare di un’«invenzione dei Fenici» a opera di studiosi del nostro tempo, argomentando che molto di quanto è stato attribuito ai Fenici non si presta a definirne una specificità culturale. Ora, se è certamente vero che in passato – soprattutto intorno alla metà del secolo scorso – si è affermata una sorta di «panfenicismo» per cui ai Fenici veniva assegnata una serie di reperti, soprattutto artigianali,

che potevano ben essere differentemente valutati (per esempio vetri, avori o coppe metalliche), è indubbio che elementi specifici – quali la lingua, la religione o il fenomeno della colonizzazione mediterranea – sono tipici di queste sole genti e non condivisi dal resto del mondo vicino-orientale, sicché, pur giustamente ridimensionata, una specificità fenicia e poi punica non è assolutamente da negare.

I tempi dell’espansione Novità fondamentali sono apparse negli anni recenti a proposito dei tempi della diffusione dei Fenici nelle aree del Mediterraneo centro-occidentale. A destra idoletto fenicio in bronzo, dalla Spagna meridionale. Nella pagina accanto, in alto frammenti di ceramica greca rinvenuti negli scavi condotti a Huelva, in Spagna. IX-VIII sec. a.C. A sinistra Castillo de Doña Blanca (Andalusia, Spagna). Resti delle mura puniche.

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INTRODUZIONE

In alto veduta dell’area archeologica di Nora (Sardegna), fondata dai Fenici nell’VIII sec. a.C. su una penisola proiettata sul mare che chiude a sud-ovest il golfo di Cagliari. A sinistra stele che ricorda l’erezione di un santuario dedicato a Pumay, dio d’origine cipriota popolare anche in ambiente fenicio, da Nora. VIII sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Fino a qualche tempo fa l’avvio della colonizzazione storica fenicia, superate le posizioni di totale adesione alle tradizioni tramandate dalle fonti letterarie antiche, che ne ponevano l’inizio al XII secolo a.C., veniva collocato verso la metà dell’VIII secolo a.C., in linea con i dati provenienti dagli scavi archeologici che non superavano quel limite cronologico. I progressi della ricerca hanno portato ora a rivedere questa posizione, poiché in piú punti dell’orizzonte mediterraneo, a proposito delle prime presenze fenicie, sono stati raggiunti livelli significativamente piú antichi. Oggi è evidente che il moto d’irradiazione dei Fenici nasce nella seconda metà del IX secolo a.C., periodo ora documentato da importanti contesti archeologici del

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Nord Africa e della Spagna soprattutto. Quanto al litorale africano, la stessa Cartagine restituisce ormai testimonianze della prima metà dell’VIII secolo a.C., avvicinando sostanzialmente la data tradizionale per la fondazione della città riferita dalle fonti antiche (814 a.C.). Ancor piú antica è la documentazione riportata alla luce a Utica, che già le tradizioni letterarie classiche annoveravano tra le prime colonie fenicie: qui gli archeologi hanno potuto datare la prima stabile presenza fenicia all’820 a.C. circa, ma non mancano documenti (ceramiche greche, nuragiche e villanoviane) riferibili a un’epoca ancora piú precoce. È suggestivo richiamare a questo punto quanto narrato dal mito di fondazione di Cartagine, secondo cui gli Uticensi portarono doni ai coloni fenici appena giunti nella loro nuova sede. È un indizio interessante (e ora confermato dall’archeologia) della priorità cronologica di Utica su Cartagine, già nota agli storici antichi. Sulla piú antica presenza stabile dei Fenici in Occidente, dati di primario interesse provengono dagli scavi nell’area

di Cadice. Le ricerche nell’area del Teatro Cómico della città hanno raggiunto livelli di occupazione fenicia che sono stati datati dagli scavatori attorno all’820 a.C. e anche in questo caso si ha ora una conferma archeologica delle indicazioni delle fonti classiche che registravano un’alta antichità della colonia gaditana (anche se, come per Utica, non si raggiunge il livello del XII secolo a.C. tramandato da quelle fonti). L’importanza dell’area di Cadice per i Fenici all’alba del fenomeno coloniale, determinata dalla pescosità del mare e dalla possibilità di attingere nel retroterra alle ricche risorse minerarie gestite dall’evoluta cultura tartessica, è confermata dalla fondazione, di lí a pochi decenni, di un ulteriore importante insediamento, quello del Castillo de Doña Blanca presso l’attuale Puerto de Santa María. Ciò suggerisce una specie di «strategia di popolamento» attuata dai Fenici in questa remota zona del Mediterraneo occidentale. Collocato alla foce del fiume Guadalete, il sito poteva disporre di un facile collegamento con il retroterra, che come si è detto

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INTRODUZIONE poteva utilizzare le ricche produzioni minerarie (argento in primo luogo) e ciò ne spiega abbondantemente l’importanza e la fioritura nel corso dei secoli. Ancor piú a Occidente e sempre nel Sud della Penisola Iberica un cospicuo complesso di materiali di alta antichità è stato riportato alla luce a Huelva. Si tratta di un ampio giacimento, che include soprattutto, come a Utica, ceramiche di varia provenienza: fenicie, greche, cipriote sarde oltre a forme locali. La consistenza e la grande articolazione di questi reperti suggeriscono che Huelva fu raggiunta da movimenti commerciali che la ponevano in contatto con prodotti e forse naviganti di varia provenienza in una fase precedente allo stanziamento stabile di coloni fenici. Non a caso, per la Huelva dei primi secoli del I millennio a.C. si è utilizzata la definizione di «emporio precoloniale». Il termine «precoloniale» appare nel complesso inesatto, perché potrebbe far pensare a movimenti che preparano

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In questa pagina immagini dell’area archeologica del nuraghe Sirai (Carbonia, Sardegna). In alto, una veduta del mastio della fortezza nuragica; in basso, un settore del complesso in cui un’abitazione di forma ellittica risalente alla seconda metà dell’VIII sec. a.C. venne riutilizzata, fra il VII e il VI sec. a.C., per scopi diversi: nel settore di sinistra fu impiantata un’officina per la lavorazione del vetro, mentre quello di destra fu adibito ad area sacra.


Ricostruzione ipotetica dell’insediamento di Sulcis, fondato dai Fenici intorno al 770 a.C. nell’area in cui oggi sorge Sant’Antioco (Sardegna sud-occidentale).

intenzionalmente la creazione degli insediamenti fenici in Occidente, ma può essere utile per indicare l’esistenza di navigazioni che raggiungono varie zone del Mediterraneo prima di quella che viene definita abitualmente come colonizzazione storica. Anche la Sardegna ha offerto ultimamente una nuova documentazione in proposito, che si affianca a quanto si conosceva in passato. Si tratta delle scoperte relative al sito di Sant’Imbenia, nella baia di Porte Conte a nord di Alghero, già sede di un impianto nuragico e interessato tra il IX e l’VIII secolo a.C. da presenze sia greche sia fenicie, in un’area che peraltro non sarà successivamente interessata dalla creazione di colonie stabili di Fenici. Sant’Imbenia, analogamente a quanto accade per Huelva in Spagna, funge da collettore costiero per le risorse minerarie dell’entroterra, in prevalenza ferro e argento, e fu pertanto sfruttata da una comunità di Fenici che la frequentarono in sintonia con gli esponenti della locale comunità nuragica (sul tema delle relazioni con le genti locali torneremo piú avanti).

Città e non città Come si sarà notato, abbiamo spesso parlato nelle pagine che precedono di insediamenti e di colonie, ma

non abbiamo utilizzato il termine «città». Uno degli elementi di dibattito scaturiti dalle ricerche degli ultimi anni è infatti quello della natura degli agglomerati creati dai Fenici nel loro movimento di espansione verso Occidente. A lungo si è affermato che una delle innovazioni maggiori apportate dai Fenici nei quadranti centro-occidentali del Mediterraneo è stata quella di avervi introdotto il concetto e la realizzazione di città. Si tratta di un’affermazione alquanto generica: essa può essere valida nella misura in cui si vuole indicare l’esistenza di un abitato di dimensioni abbastanza consistenti, ma non lo è se si considera che la città, per essere davvero tale, necessita di una serie di strutture complesse (oltre agli edifici d’abitazione e pubblici templi, spazi comuni di riunione o di mercato, un circondario da cui trarre le risorse e i rifornimenti indispensabili). Non sempre la costituzione di una colonia stabile risponde a simili requisiti e l’archeologia ce ne dà esempi assai concreti. In questo senso, un caso molto rappresentativo è Nora, un centro sulla costa meridionale della Sardegna, oggetto da un venticinquennio di sistematiche campagne di scavo. La frequentazione fenicia di Nora si avvia nell’VIII secolo

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INTRODUZIONE a.C., come dimostrano abbondanti materiali ceramici e soprattutto una celebre stele, risalente allo stesso periodo, uno dei piú antichi documenti scritti noti dal Mediterraneo centro-occidentale che ricorda l’erezione di un santuario dedicato a Pumay, un dio di origine cipriota ma popolare anche in ambiente fenicio (vedi foto a p. 16). Tuttavia, gli scavi in corso mostrano che, malgrado una presenza notevole di naviganti fenici, Nora raggiunge la dignità di insediamento urbano solo molto piú tardi: il primo quartiere abitativo con strutture solide e un’organizzazione complessa risale infatti al VI secolo a.C. Un altro esempio meritevole di essere menzionato è Abul, sulla costa atlantica del Portogallo alla foce del fiume Sado. Raggiunto dai Fenici nel VII secolo a.C. soprattutto per la pescosità del mare, il sito si caratterizzava per la presenza di un grande edificio monumentale di ben 22 m di lato. La struttura ospitava magazzini, abitazioni e spazi di rappresentanza, ma l’insediamento, abitato certamente da pochissimi individui, non raggiunse mai il livello di vera e

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propria città. Si trattava infatti di un luogo di pesca e di commercio, che si animava solo con la buona stagione per le necessità delle attività economiche che vi si svolgevano. Abul mantenne questa funzione per alcuni decenni e poi venne sostanzialmente abbandonata: è un caso emblematico di un centro che, pur mostrando qualche carattere di monumentalità, non si elevò mai al rango cittadino e forse per questo ebbe vita piuttosto breve.

Incontri e convivenze L’incrocio con le piú diverse componenti etniche presenti nel bacino del Mediterraneo è stato considerato da sempre un carattere specifico della cultura fenicia, che non a caso è stata definita «civiltà dell’incontro». Questa considerazione di carattere generale è stata confermata e irrobustita da studi e scoperte effettuate di recente. Non si parlerà qui delle relazioni commerciali, che costituiscono forse la parte meno significativa del problema, ma soprattutto dei modi di compresenza sui


territori, che vorremmo valutare a partire da qualche esempio che appare maggiormente significativo. È la Sardegna la regione che ha restituito la documentazione piú interessante, nel già citato comprensorio del Sulcis. Da un lato, infatti, si sono rinvenuti a Sant’Antioco, il capoluogo di questa regione di età fenicia, reperti che hanno dimostrato come nella città – una delle piú antiche fondate dai Fenici in Sardegna (risale infatti alla prima metà dell’VIII secolo a.C.) – vivessero nuclei di indigeni a cui vanno attribuiti repertori ceramici di tradizione nuragica. Ma nello stesso comprensorio del Sulcis ancor piú interessante è quanto restituito da siti della fascia interna, a distanza di qualche decina di chilometri dalla costa. Di particolare rilevanza è il caso del nuraghe Sirai, un sito ai piedi dell’omonima collinetta, dove i Fenici si impiantarono nel VII secolo a.C. all’interno di un insediamento già abitato e gestito da una componente etnica indigena con cui convissero fino a quando, con la

Una veduta di Monte Sirai. Sulla sommità dell’altura sono visibili i resti dell’insediamento, indagato a partire dagli anni Sessanta del Novecento.

COESISTENZA PACIFICA

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ateriali ceramici di varia foggia e tipologia restituiti dagli scavi condotti nell’insediamento di Sulcis (Sant’Antioco). I reperti hanno fornito dati di notevole interesse in quanto comprendono ceramiche da mensa fenicie, che legano i primi residenti di Sulcis alla madrepatria e soprattutto a Tiro, in associazione con vasellame di tradizione indigena.

conquista cartaginese della Sardegna, nella seconda metà del VI secolo a.C., cambiarono i parametri di utilizzo e di controllo del territorio. Questa convivenza era certamente mirata allo sfruttamento congiunto delle risorse agro-pastorali, minerarie e boschive del ricco territorio circostante, in un’esperienza che dovette essere reiterata anche in altri settori della Sardegna del tempo. Che il caso del nuraghe Sirai nel medesimo circondario non fosse isolato è dimostrato dalla compresenza di Fenici e genti di cultura nuragica in altri siti della zona, tra i quali si possono citare quelli d’ambiente collinare di Tratalias e di Sirimagus, mentre una recente ricerca topografica nel Sulcis ha potuto calcolare in varie decine i siti di maggiore o minore ampiezza e perlopiú di carattere

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INTRODUZIONE rurale che presentano un’uguale situazione lungo un arco di tempo che va dagl’inizi della presenza fenicia alla fine dell’età cartaginese. Al di fuori della Sardegna, in questo stesso senso, si può citare ancora la situazione della regione andalusa, dove la presenza fenicia non solo fu assai consistente nelle numerose colonie costiere, ma lasciò tracce, anche se non esclusive, anche piú all’interno. Tale frequentazione era finalizzata allo sfruttamento delle ingenti risorse metalliche di cui la regione è ricca e che furono gestite in accordo con le classi elevate dell’evoluta civiltà tartessica ivi insediata.

Le scoperte recenti Negli ultimi anni si sono moltiplicate le imprese archeologiche aventi a oggetto il mondo dei Fenici e dei Cartaginesi. Molte di esse hanno continuato le indagini su siti già noti, in cui è stato notevolmente arricchito il dossier già disponibile: è il caso, per esempio, di Mozia in Sicilia, di Nora in Sardegna, di Cartagine in Nord

A destra resti sulla collina di Byrsa, a Cartagine, con la baia di Tunisi sullo sfondo. A sinistra figurine in terracotta provenienti da Kherayeb, insediamento situato a nord-est di Tiro, in Libano. Le statuette appartengono a una tipologia attestata in Fenicia, Palestina e a Cipro e si datano fra l’età del Ferro e l’epoca persiana.

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Africa e di Cadice, che abbiamo già citato a proposito dell’epoca iniziale della presenza fenicia. Ma è forse piú utile in questa sede accennare alle scoperte relative a siti o contesti scoperti ex novo o che hanno modificato notevolmente il panorama delle nostre conoscenze. Volendo solo ricordare i casi di maggiore importanza, andrà citata, per il Libano, la scoperta della necropoli fenicia di Al-Bass, un grande impianto sepolcrale che serví la città di Tiro tra il IX e il VI secolo a.C. e che ha restituito numerose tombe a incinerazione. I corredi, nel complesso abbastanza omogenei, suggeriscono che la


necropoli fu utilizzata da una parte della popolazione nella quale non vi erano differenze sociali particolarmente rilevanti. Sempre a Oriente, notevoli sono le scoperte effettuate a Kherayeb, una località all’interno di Tiro già nota per la presenza di un santuario di età ellenistica. Lo scavo e la prospezione topografica hanno permesso di accostarsi alla vita e alla produzione artigianale di un centro rurale posto in una zona interna del Paese e che ha conosciuto una vita assai lunga, dalla fine dell’età del Bronzo in poi. In Sicilia vanno menzionate le ricerche tuttora in atto a

Mozia, che da un lato hanno innalzato la cronologia iniziale della presenza fenicia e, dall’altro, hanno irrobustito in modo notevole la documentazione archeologica, soprattutto per quanto attiene alla zona sud dell’insediamento, ove è stato scoperto un grande santuario in precedenza del tutto sconosciuto. Per la Sardegna offrono nuove prospettive i risultati delle indagini archeologiche attualmente in corso a Pani Loriga, un sito collinare nel Sulcis già noto per una vasta necropoli e che ora mostra la fisionomia di un insediamento articolato con acropoli, opere di difesa,

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INTRODUZIONE Veduta aerea di Mozia, città fenicia che venne fondata e si sviluppò sull’isola di San Pantaleo, una delle quattro che punteggiano la laguna dello Stagnone di Marsala (Trapani).

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In alto foto aerea del piú antico insediamento fenicio, sulla sponda meridionale di Mozia. In basso vasi utilizzati come urne per i resti incinerati dei bambini sepolti nel tofet di Mozia, in gruppi raccolti attorno a stele o installazioni.

zone industriali ed edifici di culto riferibili perlopiú al VI-V secolo a.C. Anche in questo caso la funzione preminente del centro fu quella di gestione e controllo delle risorse naturali della vasta piana all’intorno. Per il Nord Africa si è già citata Utica a proposito degl’inizi della presenza fenicia sul litorale maghrebino, ma occorre ricordare, per Cartagine, la scoperta dei quartieri residenziali e industriali dell’VIII-VII secolo a.C. che hanno permesso di avvicinare sensibilmente i dati archeologici alla data tradizionale di fondazione della città (814 a.C.). Novità di particolare rilievo giungono dalla Penisola Iberica. Se gli scavi nell’area della Baia di Cadice hanno

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INTRODUZIONE

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A sinistra la collina di Pani Loriga (presso Santadi, Sardegna sud-occidentale), sede di un insediamento fenicio e punico scoperto nel 1965. In alto kotyle (coppa per bere vino), dal Vano 8 dell’Area B di Pani Loriga. Produzione corinzia, ultimo quarto del VI sec. a.C. In basso Pani Loriga. Resti di un’abitazione punica a due vani in uso tra la fine del VI e la metà circa del IV sec. a.C.

arricchito sensibilmente le nostre conoscenze su modi e tempi della presenza fenicia e punica nella zona, in altri casi le indagini hanno restituito dati integralmente nuovi che hanno dato ulteriore sostanza al tema. È il caso dell’insediamento di Cerro del Villar, nella baia di Malaga alla foce del fiume Guadalhorce: si tratta di un isolotto frequentato dai Fenici tra l’VIII e il VI secolo a.C., prima di un abbandono dovuto al peggioramento delle condizioni ambientali. Il centro era dotato di impianti produttivi connessi alla produzione peschiera e allo scambio di prodotti agricoli con l’entroterra, sicché ritorna il tema delle relazioni con le

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INTRODUZIONE

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Cerro del Villar Planimetria dell’Edificio 2 scoperto nel sito spagnolo. 1. area adibita al consumo dei pasti, all’incontro e al riposo; 2. cisterna; 3. area destinata alla preparazione degli alimenti; 4. accesso all’imbarcadero e a un possibile piano superiore; 5. cortile interno; 6. laboratorio; 7. santuario domestico.

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Nucleo originario dell’edificio Addizione posteriore Adobe Pavimentazione in calce Pavimento di conchiglie Pavimento di ciottoli Area di combustione Probabile ingresso Buco di palo A destra un settore dell’abitato di Cerro del Villar.

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popolazioni indigene installate in quei territori. Per altri quadranti della Penisola Iberica va ricordata anzitutto la scoperta della colonia fenicia di La Fonteta, alla foce del fiume Segura sulla costa orientale della Spagna, non lontano da Alicante. L’insediamento fenicio, di alta antichità (VIII secolo a.C.), riempie il precedente vuoto relativo alla presenza dei Fenici su questa parte del litorale e, soprattutto, fornisce un punto di riferimento geografico per i collegamenti tra il continente iberico e

le Baleari, di fronte a cui La Fonteta si trova. Le Baleari infatti furono un decisivo caposaldo del controllo fenicio delle rotte del Mediterraneo occidentale. Non meno notevole è l’insieme delle scoperte effettuate sul versante opposto della Penisola, sulla costa atlantica del Portogallo. Fino a qualche tempo fa, la presenza fenicia in questa zona era pressoché sconosciuta, ma le intense ricerche archeologiche in corso hanno riportato alla luce diversi stanziamenti, quali la già citata Abul, e poi Sines e Santa Olaia, finalizzati da un lato allo svolgimento delle attività di pesca e dall’altro al controllo delle vie di rifornimento delle risorse minerarie che affluivano dall’interno del Paese. In alto, a sinistra anfora di produzione fenicia. Malaga, Museo. In alto, a destra ricostruzione ipotetica di un laboratorio per la produzione di anfore e altro vasellame a Cerro del Villar. A sinistra resti della colonia fenicia di La Fonteta, alla foce del fiume Segura sulla costa orientale della Spagna, non lontano da Alicante.

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INTRODUZIONE

La questione del tofet Nell’ambito degli studi sul mondo fenicio e punico non si è fermato il dibattito, sempre vivo da circa un trentennio, circa la natura e le finalità dei tofet, i santuari adibiti alla deposizione dei resti incinerati dei fanciulli e noti archeologicamente solo da alcune regioni della diaspora

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occidentale (Nord Africa, Sicilia e Sardegna, ma v’è qualche indizio circa la presenza di un santuario di questo genere a Malta). La questione ruota attorno alla natura sacrificale o meno di tali deposizioni: fino agli anni Ottanta del secolo scorso era unanimemente accettata la tesi secondo cui esse contenevano le ceneri di individui


Cippi e stele funerarie nel tofet di Salammbô (Cartagine), in uso dall’VIII sec. fino al 146 a.C. Consacrato a Baal Hammon e Tanit, le divinità piú importanti della città, il tofet si sviluppa in un’ampia area a sud dell’abitato, non lontano dall’antico porto commerciale.

in età neonatale o perinatale, vittime di sacrifici rituali che riguardavano i primi nati di una famiglia. Successivamente questa tesi è stata posta in dubbio, in considerazione del fatto che l’alta mortalità infantile avrebbe sconsigliato una pratica demograficamente cosí costosa, per cui il tofet sarebbe stato una necropoli

infantile nella quale venivano deposti solo alcuni defunti giovani (il numero delle deposizioni non appare sufficiente perché si possa pensare a un suo utilizzo sistematico per tutti gli individui) in base a specifiche esigenze familiari o comunitarie. La discussione è andata cosí avanti anche nel corso degli ultimi anni, con prese di posizione talvolta radicali a sostegno dell’una o dell’altra tesi. Di recente vi sono stati nuovi esami dell’insieme della questione, fondati non solo sui contesti archeologici o sulle tradizioni religiose, ma anche sulla documentazione fornita dalle fonti antiche. In tal modo si è appurato che, sebbene manchino prove materiali della presenza di questo tipo di santuari in Fenicia, vi sono alcuni passi anticotestamentari che fanno riferimento alla pratica sacrificale connessa con il tofet, mentre nessuna di queste fonti fa riferimento all’eventuale natura esclusivamente sepolcrale del contesto. Il fatto che in alcuni siti i tofet costituiscano un’evidenza archeologica antica quanto la nascita stessa di tali insediamenti fa propendere per un’origine orientale del rito. Viene dunque affermata la natura votiva della pratica, legata alla devozione per le divinità di Baal Hammon e di Tanit. Quanto alle circostanze in cui tale atto sacrificale si svolgeva, si ritiene da piú parti che essa fosse attuata in caso di speciali difficoltà familiari o comunitarie. Si escludono comunque la sistematicità dell’atto e il fatto che le vittime fossero necessariamente i primogeniti di una famiglia, come si è a lungo sostenuto. Resta comunque da spiegare perché i tofet risultino assenti in una parte importante dell’ecumene fenicia (dalla Spagna, per esempio, non ne è noto nessuno), il che è comunque l’indizio di forme di differenziazione notevoli nei costumi religiosi delle varie colonie mediterranee. L’insieme dei dati raccolti, naturalmente senza pretesa di completezza e al di là della maggiore o minore rilevanza, mostra che lo studio della civiltà fenicia e cartaginese e delle sue espressioni culturali è una disciplina tuttora in forte espansione, suscettibile perciò di nuove importanti rivelazioni, che potrebbero modificare in modo anche rilevante l’attuale livello delle conoscenze.

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L’AMBIENTE GEOGRAFICO

Tra il mare e le montagne CULLA DELLA CIVILTÀ FENICIA FU IL LEVANTE MEDITERRANEO COMPRESO NEI CONFINI DELL’ODIERNO LIBANO E DEL NORD DI ISRAELE. UNA REGIONE DAL VOLTO DUPLICE, IN CUI ALLA NATURALE PROPENSIONE MARINARA FAVORITA DALLA LUNGA FASCIA COSTIERA FACEVANO DA CONTRALTARE RILIEVI MAESTOSI, AMMANTATI DALLE FORESTE DI CEDRO

A

l centro della costa orientale del Mediterraneo, una stretta regione si estende per circa 250 km tra gli antichi centri di Tell Sukas a nord e di Acco a sud. La fascia litoranea è punteggiata di insediamenti urbani di notevole consistenza, come Arado, Tripoli, Beirut, Sidone e Tiro, nei quali la presenza dell’uomo è stata continua, dalla piú remota antichità ai nostri giorni. Alle spalle dell’area costiera cosí intensamente abitata, una specie di cordone naturale isola la regione dall’entroterra piú lontano. Sono le montagne del Libano e dell’Antilibano che, correndo quasi parallele al mare per varie decine di chilometri e talora avvicinandosi piú da presso alla costa, delimitano tra il Mediterraneo e le prime propaggini montuose una striscia di terra la cui ampiezza non supera i 50 km, ma che spesso è notevolmente piú ristretta. Il clima di questa regione è mite, gl’inverni piovosi compensano la relativa secchezza delle stagioni estive e numerosi corsi d’acqua che scendono dalle alture verso il mare rendono fertile la terra e fiorente l’agricoltura. La vegetazione, con il passare dei secoli, si è decisamente impoverita, soprattutto

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nelle zone collinari; l’azione dell’uomo ha fatto scomparire quasi del tutto le ampie foreste di cedri, che nell’antichità costituirono il vanto e la maggiore risorsa delle montagne del Libano, e anche la palma da dattero, un tempo assai diffusa, s’incontra oggi con una certa difficoltà. Rimangono, a testimonianza di quello che dovette essere il paesaggio antico, le colture piú tradizionali che oggi come ieri costituiscono le ricchezze naturali del Paese: cereali, ulivi, viti e alberi da frutta. Il cambiamento delle condizioni ambientali ha avuto conseguenze anche sulla fauna: degli animali selvatici che popolavano la collina boscosa (lupi, orsi, pantere, ecc.) non v’è oggi quasi piú traccia. Sulle alture ormai brulle si trovano quasi soltanto le capre, che con i buoi, le pecore e gli asini erano anche in passato le specie domestiche piú diffuse.

Il nome dai Greci Questa terra, che gli antichi abitanti chiamarono Canaan e che ai nostri giorni corrisponde piú o meno al territorio del Libano, fu dai Greci denominata Fenicia; e fenicio fu definito il popolo che qui ebbe la sua

L’area archeologica di Biblo (Libano), l’antico tell (collinetta artificiale) situato su un promontorio affacciato sul Mediterraneo, una trentina di chilometri a nord di Beirut. Sullo sfondo, i resti del colonnato di età romana.


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L’AMBIENTE GEOGRAFICO

prima sede e da qui partí per dare luogo, attraverso il mare, a un fenomeno di espansione commerciale e coloniale che ha ben pochi confronti nell’età antica. Il fatto che gran parte della storia dei Fenici si sia svolta sul mare e che le rotte marine abbiano costituito le grandi direttrici della loro diffusione nel Mediterraneo ha fatto sí che si sia spesso parlato di «vocazione marinara» di questo popolo. In realtà, proprio l’esame dell’ambiente geografico della Fenicia mostra l’infondatezza delle teorie che, in questo come in altri casi, vogliano spiegare le vicende di una popolazione partendo da presunti caratteri innati che ne avrebbero segnato una volta per tutte il destino e lo sviluppo. Il mare costituí per i Fenici la piú grande risorsa e la piú ineluttabile necessità nello stesso tempo: la loro terra, compressa tra i monti e la costa e con caratteristiche che solo in misura assai limitata

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consentivano lo sfruttamento agricolo (ancora oggi, pur con i notevoli mezzi posti a disposizione dalle tecniche moderne, i terreni disponibili per l’agricoltura non superano un terzo dell’estensione complessiva), offriva scarse risorse ai suoi abitanti.

Il mare, fonte di vita e di ricchezza La presenza delle montagne, che talora raggiungono i 3000 m di altezza, rendeva peraltro difficili le comunicazioni per via di terra sia all’interno della Fenicia, sia con i territori limitrofi, mentre la navigazione costiera assicurava facili contatti da un lato con l’Egitto e dall’altro con la Palestina, la Siria settentrionale e l’Anatolia, e dunque con le carovaniere che puntavano in direzione della Mesopotamia e dell’entroterra asiatico. Era perciò inevitabile che il mare e le attività a esso legate avessero un peso determinante

In alto l’ingresso alla valle della Bekaa, con, sullo sfondo, i monti dell’Antilibano. Nella pagina accanto rilievo raffigurante una nave fenicia, dal Palazzo Sud-Ovest di Ninive. 705-681 a.C. Londra, British Museum.


nella storia del popolo fenicio, che in primo luogo ne trasse mezzi di sussistenza (il pesce come alimento, le conchiglie per ricavare dalla secrezione di una particolare specie la sostanza colorante su cui si fondò l’industria tipicamente fenicia della tintura dei tessuti); e in secondo luogo si assicurò, grazie ai commerci marittimi, risorse non disponibili sul posto. Quindi, allorché l’evolversi delle vicende storiche lo rese necessario, attraverso le rotte che percorrevano il Mediterraneo i Fenici raggiunsero le regioni dell’Occidente destinate a divenire sede delle fondazioni coloniali in Nord Africa, a Malta, in Sicilia, in Sardegna e nella Penisola iberica. L’ambiente, dunque, ha notevolmente condizionato lo sviluppo storico della nazione

I FENICI STABILIRONO RELAZIONI COMMERCIALI AD AMPIO RAGGIO IN TUTTA LA REGIONE MEDITERRANEA

fenicia; e se la via del mare ha costituito il naturale e quasi obbligato itinerario di espansione (commerciale prima e coloniale poi), il relativo isolamento per via di terra è stato non meno decisivo. A esso si debbono almeno in parte, come vedremo in sede storica, il diverso sviluppo rispetto alle regioni circumvicine, le trascurabili conseguenze che ebbero sulla Fenicia i grandi spostamenti etnici verificatisi nell’area levantina del Mediterraneo verso la fine del II millennio a.C., la conservazione in ambiente fenicio di elementi culturali rapidamente dissoltisi nel resto della regione siro-palestinese; e tali aspetti, in ultima analisi, segnano lo stesso apparire della nazione fenicia come elemento autonomo e in sé definito nell’antica storia mediterranea.


LA STORIA

Nascita di una civiltà LA PARABOLA DEI FENICI HA INIZIO NEL II MILLENNIO A.C. FRA I CARATTERI CHE LI DISTINGUONO SPICCA, FIN DAGLI ESORDI, LA LORO «VOCAZIONE» INTERNAZIONALE

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uando ha inizio la storia fenicia? In altri termini, da quale epoca nell’ambiente che abbiamo descritto si determina la presenza di una «nazione fenicia» che per coerenza di caratteri culturali, linguistici e religiosi costituisca un’entità omogenea, chiaramente distinguibile dalle altre componenti etniche della regione siro-palestinese? Per rispondere a tale domanda occorre partire da alcune considerazioni preliminari. Anzitutto si deve tener presente che i Fenici sono un elemento «autoctono»; benché alcune fonti antiche ne pongano l’origine in vari luoghi dell’Asia o dell’Africa (le coste del Mar Rosso secondo Erodoto; il Golfo Persico secondo Strabone), la civiltà fenicia nasce e si sviluppa esclusivamente nella sede storica della Siria costiera (fatto salvo, evidentemente, il fenomeno comunque secondario dell’espansione mediterranea). Inoltre va rilevato che l’emergere in autonomia della nazione fenicia è il risultato di un complesso fenomeno storico, che si avvia intorno al XII secolo a.C. in seguito all’apparire sulla scena del Vicino Oriente mediterraneo dei nuclei d’invasori, perlopiú di ceppo indo-europeo, noti

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Statuette di divinità, in bronzo e foglia d’oro, dal Tempio degli Obelischi di Biblo. Età del Bronzo Medio. Beirut, Museo Nazionale.


Qui sotto pettorale in oro e pietre semipreziose decorato con la doppia rappresentazione del faraone e di un falco, dalla necropoli reale di Biblo. XVIII sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale.

In basso et utem net laut facient et quam fugiae officae ruptatemqui conseque vite es sae quis deris rehenis aspiciur sincte seque con nusam fugit et qui bernate laborest, ut ut aliquam rentus magnim ullorepra serro dolum quis et volenimenis dolorib ercillit fuga. Qui sopraAccationes medaglione in oro reperiam res sa e pietre semipreziose conemolorum nis in recante il nome, scritto aliaepugeroglifici, danditatur del re Ip caratteri volore. Shemusequae Abi, dalla necropoli

In alto ascia fenestrata con decorazione zoomorfa, dal tempio degli Obelischi di Biblo. Età del Bronzo Medio. Beirut, Museo Nazionale. A sinistra figurina in oro di un avvoltoio ad ali spiegate, dal tempio degli Obelischi di Biblo. Età del Bronzo Medio. Beirut, Museo Nazionale.

Qui sotto pettorale in oro decorato con l’immagine di un falco, dalla necropoli reale di Biblo. XVIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

reale di Biblo. XVIII sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale.

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LA STORIA

come «popoli del mare», a cui si deve un ruolo decisivo nel crollo dell’impero ittita in Anatolia e nel ridimensionamento dell’espansionismo egiziano verso la Palestina e la Siria. Gli sconvolgimenti determinati dall’azione di questi nuovi protagonisti sono percepibili soprattutto nell’insediamento, nelle zone limitrofe alla Fenicia, di compagini etniche non attestatevi precedentemente in modo stabile e politicamente organizzato: le popolazioni semitiche degli Aramei a nord e degli Israeliti a sud e, come residuo stanziale dei «popoli del mare», i Filistei nella fascia costiera che da loro prese il nome di «Palestina».

Elemento di continuità Nelle tumultuose vicende di quel periodo, la Fenicia sembra non risentire di conseguenze particolarmente sfavorevoli: benché lo scrittore latino Giustino (attivo forse nel II secolo d.C.) segnali la distruzione di Sidone da parte dei Filistei di Ascalona, le città della costa non debbono aver conosciuto un periodo di particolare crisi. Appena qualche decennio dopo, la situazione politica delle città fenicie quale ci viene descritta da un’opera letteraria egiziana, il «viaggio di Wenamon», appare infatti stabile e del tutto scevra di condizionamenti esterni. Nei secoli finali del II millennio a.C., dunque, i Fenici si presentano come l’elemento di maggiore continuità sullo scenario del Levante mediterraneo; e solo allora si realizzano le condizioni ambientali e storiche per una precisa definizione della nazione fenicia, la cui enucleazione non era invece possibile nel crogiuolo indistinto

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della Siria-Palestina dell’età del Bronzo. Certo, talune caratteristiche specificamente «fenicie» si colgono anche nel periodo precedente: le piú antiche iscrizioni in lingua fenicia, e con esse l’adozione dell’alfabeto, si datano al XIII secolo a.C.; molte delle divinità piú importanti del pantheon fenicio risultano venerate prima di questa data; le strutture istituzionali dei centri fenici ripropongono quelle proprie delle città siriane del tardo Bronzo e alcuni aspetti della produzione artigianale riflettono tradizioni profondamente radicate (valgano per tutti gli esempi della lavorazione del metallo e dell’avorio). In sostanza, però, la pertinenza di queste manifestazioni culturali a un complesso etnico coerente e fortemente diversificato da quelli circostanti è un fenomeno tipico della situazione storica determinatasi sul finire del II millennio a.C. Da questo livello cronologico, dunque, sarà possibile far iniziare la storia fenicia. La prima fase di questa storia, che si prolunga fino all’VIII secolo a.C., è contrassegnata dalla vivace attività di Sidone e di Tiro, che alternativamente riescono a conseguire una posizione di sostanziale preminenza. L’egemonia di Sidone nei primi tempi della storia fenicia è testimoniata da due elementi oltremodo significativi. Il primo è costituito dal fatto che nei poemi omerici e nell’Antico Testamento il termine «Sidonii» è impiegato per esprimere una realtà etnica e istituzionale certamente piú ampia della sola città di Sidone, fino ad apparire talora come un vero e proprio sinonimo del nome Fenici. Statuetta in bronzo raffigurante un dio barbato, forse da Sidone. 2000 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.


Il secondo elemento è la notizia di Giustino, secondo il quale la fondazione di Tiro sarebbe dovuta a Sidonii fuggiti dalla propria città a seguito della già ricordata distruzione da parte degli Ascalonesi. Poiché l’esistenza della città di Tiro è archeologicamente provata assai prima di questo evento, che si data intorno al 1200 a.C., l’indicazione di Giustino va interpretata nel senso di un intervento di Sidone, teso a rivitalizzare l’area tiria non senza, probabilmente, una qualche forma di controllo politico. In ogni caso, già

In alto Medinet Habu (Egitto), tempio di Ramesse III. Rilievo raffigurante una battaglia navale contro i Popoli del Mare. In basso pugnale e fodero in oro, avorio e argento, dal Tempio degli Obelischi. Età del Bronzo Medio. Beirut, Museo Nazionale.

con l’inizio del I millennio a.C., Tiro sembra assumere una particolare rilevanza, dimostrata in specie dall’attività internazionale dei suoi sovrani. Emerge nel X secolo a.C. la figura del re Hiram (969-936 a.C.), il quale, oltre a eseguire numerose opere pubbliche nella sua città, consolida la presenza tiria a Cipro, inviando una spedizione militare contro la colonia di Kition, che aveva rifiutato di versare il tributo dovuto.

Spedizioni congiunte Ma Hiram è soprattutto ricordato per gli stretti rapporti diplomatici ed economici che intrattiene con Salomone di Gerusalemme. L’Antico Testamento riferisce che i due sovrani organizzarono spedizioni congiunte per mare alla volta di lontane regioni del Mar Rosso e che Hiram contribuí in modo decisivo, assicurando la fornitura delle materie prime e della manodopera necessarie alla costruzione del grande tempio fatto erigere da Salomone a Gerusalemme,

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LA STORIA

ma l’analisi storica piú recente avanza fondati dubbi sulla reale attendibilità della notizia. Nel IX secolo a.C. l’accresciuto impegno internazionale di Tiro è testimoniato sotto il re Ittobaal (887-856 a.C.) dal consolidamento dell’alleanza con Israele, suggellata dal

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matrimonio della figlia del sovrano con il principe Omri, e dalla notizia della fondazione di colonie tirie nel Nord della Fenicia e nell’Africa settentrionale; qui, alla fine del secolo, la stessa Tiro fonderà la piú importante e famosa delle sue colonie, Cartagine.


In alto particolare di uno dei pannelli in bronzo che rivestivano le porte del palazzo di Salmanassar III a Balawat raffigurante le truppe del re che lasciano il campo per dare l’assalto alla città di Khazazu (oggi Azaz, in Siria). 858-824 a.C. Londra, British Museum. Nella pagina accanto in basso rilievo raffigurante il trasporto via mare dei tronchi di cedro del Libano destinati alla costruzione di un edificio, dalla corte d’onore del palazzo reale di Sargon II nella città assira di DurŠarrukin (oggi Khorsabad, Iraq). Fine dell’VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

Il periodo iniziale della storia fenicia si svolge dunque in modo sostanzialmente pacifico: i piccoli Stati cittadini della costa godono di una notevole autonomia, favorita dalle difficoltà delle maggiori potenze limitrofe. L’Egitto non riesce a imporre, come nel passato, la propria egemonia. Lo mostra vividamente il racconto del viaggio di Wenamon: questo inviato egiziano, incaricato di procurarsi una fornitura di legname in Fenicia, si trova a fare i conti con le resistenze e i rifiuti del sovrano di Biblo, che afferma esplicitamente di non riconoscere alcuna autorità al faraone e ai suoi funzionari. Quanto all’Assiria, il suo interesse per le regioni del Levante mediterraneo non si concretizza ancora in una vera e propria pressione politica e militare, sicché i primi rapporti documentati tra le città fenicie e i re assiri (Tiglat pileser I intorno al 1100 a.C.; Assurnasirpal II verso l’875 a.C.) sembrano essere dovuti piú alle esigenze commerciali di questi che non a organici tentativi di sottomissione della Fenicia. I tributi che i due sovrani asseriscono di aver ricevuto dai Fenici sono in realtà acquisti di prodotti tipici della zona (metalli, legname, avori lavorati). La situazione politica, dunque, favorisce l’attività commerciale dei Fenici e con essa una sorta di egemonia culturale nella regione. La loro lingua diviene l’idioma di comunicazione internazionale tra l’Anatolia meridionale e la Palestina; l’alfabeto fenicio viene adottato dagli Aramei e dagli Ebrei e presto si diffonde

nell’Egeo, dando luogo con qualche variante e con l’aggiunta dei segni vocalici, che il fenicio non registra, all’alfabeto greco.

Richiesti dalle corti reali Con i prodotti del commercio si afferma anche quella che possiamo definire la capacità tecnologica dei Fenici: il ricorso a maestranze fenicie da parte di Salomone per l’erezione del tempio di Gerusalemme, da parte di Assurnasirpal II per il proprio palazzo di Nimrud e, in genere, da parte delle corti reali della regione per la fornitura di arredi e suppellettili pregiate mostra una capacità di affermazione che va certo al di là del collocamento di taluni prodotti particolarmente richiesti. Il quadro che emerge è piuttosto quello di un «magistero di cultura», esercitato dai Fenici sulle popolazioni contermini e senza dubbio sostenuto da un rilevante prestigio politico. Questo periodo singolarmente favorevole si conclude attorno alla metà dell’VIII secolo a.C., con l’acuirsi del confronto con l’Assiria e poi con la perdita dell’autonomia politica. Già al tempo di Salmanassar III (858-824 a.C.) le città fenicie sono costrette a unirsi con altri centri della zona per opporsi alle spedizioni militari del sovrano assiro, contribuendo all’alleanza con contingenti poco piú che simbolici; evidentemente, a causa della loro ridotta estensione territoriale, esse non sono in grado di mobilitare truppe piú numerose.

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LA STORIA

I FENICI SI AFFERMANO COME TITOLARI DI UN «MAGISTERO DI CULTURA», ESERCITATO SULLE POPOLAZIONI CONTERMINI E SOSTENUTO DA UN RILEVANTE PRESTIGIO POLITICO

La pressione assira si fa massiccia, fino a divenire irresistibile, con la metà del secolo successivo: al termine di una serie di campagne vittoriose, Tiglat pileser III (745-727 a.C.) annette tutta la parte settentrionale della Fenicia, impone propri governatori nelle maggiori città e sottomette a tributo, piú a sud, i centri di Biblo e di Tiro.

L’offensiva assira L’offensiva anti-fenicia prosegue con Sargon II (721-705 a.C.), che s’impossessa dei domini di Tiro a Cipro, e con Sennacherib (705-681 a.C.), che sbaraglia una coalizione di re siriani e fenici, impone un sovrano filo-assiro a Sidone e riesce in sostanza a sottomettere l’intera Fenicia. L’annessione è completata da Asarhaddon (681-668 a.C.): egli stronca una rivolta di Sidone (il re è ucciso, gli abitanti deportati, la città rasa al suolo) e conquista Tiro, ove insedia un re privo ormai di ogni autonomia. La situazione in cui vengono ora a trovarsi le città fenicie è chiaramente documentata dal trattato stipulato in questi anni tra Asarhaddon e il re di Tiro Baal. Ne risulta il ruolo decisivo assunto dal

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In alto particolare della decorazione di una coppa in argento raffigurante un manipolo di soldati che assedia una città, da Amatunte (Cipro). 750-600 a.C. Londra, British Museum. A destra il Prisma F in argilla cotta sul quale corre un testo che celebra le campagne militari di Assurbanipal, menzionando, fra le altre, la spedizione contro Tiro. 646 (o 645) a.C. Parigi, Museo del Louvre. Nella pagina accanto particolare di un rilievo raffigurante due suonatrici, dal Palazzo Nord di Ninive. 645-635 a.C. Londra, British Museum.


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LA STORIA

governatore assiro, a cui il sovrano fenicio è palesemente subordinato: «I messaggi che io ti manderò – impone Asarhaddon – in assenza del governatore non devi aprire». Gli Assiri, inoltre, esercitano un rigido controllo sulla stessa attività marittima dei Fenici, imponendo limiti precisi al movimento delle navi e dando cosí un duro colpo al loro già declinante commercio. Proprio nel periodo critico compreso tra i regni di Tiglat pileser III e di Asarhaddon si consolida l’impegno transmarino dei Fenici, che assume la fisionomia di grande flusso coloniale in direzione dell’Occidente mediterraneo. In tale fenomeno si deve vedere una conseguenza, quanto meno indiretta, della pressione assira: con la perdita delle proprie possibilità di autonoma iniziativa politica ed economica in patria, i Fenici sono infatti spinti a spostare il baricentro delle loro attività commerciali dall’Oriente ai quadranti centro-occidentali del Mediterraneo, a Cartagine, in Sicilia, in Sardegna e nella Penisola iberica.

La rappresaglia del re I ricorrenti tentativi di scuotere il giogo assiro non valgono a migliorare la situazione delle città della Fenicia. Le ribellioni di Tiro, Arado ed Acco sotto Assurbanipal (668-626 a.C.) vengono facilmente sedate e sulle città si abbatte la rappresaglia del sovrano assiro, con il consueto contorno di saccheggi e deportazioni. Dichiara infatti Assurbanipal: «Su questo popolo insubordinato usai la verga. Portai in

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Assiria i loro dèi e la loro gente. Battei il popolo ribelle di Acco. I loro cadaveri appesi a pali intorno alla città». La caduta dell’impero assiro nel 612 a.C. e l’avvento della dominazione babilonese non sembrano comportare modifiche di rilievo nella situazione delle città fenicie. Come in precedenza, tuttavia, si registrano tentativi di rivendicare una qualche forma di autonomia, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà della potenza dominante. Il duro confronto tra Nabucodonosor (605-562 a.C.) e l’Egitto offre cosí a Tiro l’occasione di una nuova rivolta, protrattasi per tredici anni, ma conclusasi con l’insediamento sul trono cittadino di un sovrano gradito ai Babilonesi. La difficile situazione delle città fenicie in questa fase e soprattutto la crisi delle dinastie locali, ridotte ormai a un ruolo poco piú che rappresentativo, sono dimostrate dalle successive vicende interne di Tiro, dove un ordinamento repubblicano viene per la prima volta introdotto tra il 564 e il 556 a.C. A questa esperienza mette fine però Babilonia, ponendo sul trono di Tiro un re che evidentemente può garantirle piena fedeltà. Con il crollo dell’impero babilonese e la successiva egemonia persiana le città fenicie conoscono un’epoca di rinascita politica ed economica. Un significativo rafforzamento della presenza fenicia si ha a Cipro, anche in zone interne non raggiunte durante il primo movimento d’espansione; e si riaprono alle navi fenicie le rotte verso il Mediterraneo centro-occidentale. Del


A destra vasi di produzione fenicia, da Amatunte. VIII sec. a.C. Limassol, Museo Archeologico del Distretto di Limassol.

resto le prospettive di espansione dell’impero persiano rendono particolarmente rilevante il ruolo strategico della Fenicia, base ideale per le spedizioni verso l’Egitto da un lato e verso la Grecia dall’altro. Le navi fenicie formano ora il nerbo delle flotte persiane impegnate nel Mediterraneo e gli stessi re guidano i contingenti delle rispettive città. Pur nel quadro di un’amministrazione che concede poco spazio all’autonomia dei popoli sottomessi, i sovrani fenici riescono a trarre vantaggio dai buoni rapporti intrattenuti con gl’imperatori persiani. Tiro ottiene un cospicuo allargamento dei propri territori e Sidone, sede di una residenza reale e titolare di relazioni particolarmente strette con i Persiani, riceve in dono le città palestinesi di Dor e Giaffa. Come dichiara il monarca sidonio Eshmunazar in un’iscrizione, la concessione fa seguito a importanti imprese compiute in favore del re di Persia, probabilmente un fattivo contributo alla repressione delle ribellioni egiziane all’inizio del V secolo a.C.

La conquista macedone A partire dal IV secolo a.C., quando è ormai avviato il processo di sfaldamento interno dell’impero persiano, i fermenti che percorrono le sterminate regioni dell’impero si avvertono anche in Fenicia. Vi acquista consistenza una corrente filo-greca, mentre i rapporti tra le dinastie locali e il potere centrale si fanno piú difficili. Alle prese di posizione in favore della Grecia del re sidonio Stratone, non a caso chiamato Filelleno (364 a.C.), fanno seguito, in un clima di generale rivolta delle satrapie occidentali, la ribellione di Tenne di Sidone e, dopo una dura repressione, l’imposizione di un nuovo sovrano gradito alla Persia. Siamo ormai alla vigilia della conquista macedone. Le vittorie militari di Alessandro Magno contro i Persiani inducono le città fenicie a sottometterglisi senza resistenza.

Nella pagina accanto: sarcofago antropoide in marmo pario, dalla necropoli di Amatunte (Cipro). Ultimo quarto del V sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. Sul coperchio dell’arca compare un’iscrizione i cui caratteri suggeriscono che l’autore del manufatto fosse uno scultore fenicio.

A Sidone un tentativo di opposizione del monarca filo-persiano è contrastato dalla stessa popolazione; Biblo si consegna spontaneamente; Arado accoglie il vincitore con grandi onori. Solo Tiro, dopo un iniziale atto di sottomissione, dà vita a uno sfortunato tentativo di resistenza, conclusosi con una grande strage e la distruzione della città. L’avvento dell’egemonia macedone segna la fine della storia della Fenicia come nazione autonoma. Anche se non mancano espressioni originali di cultura e ulteriori sussulti d’indipendenza nazionale, l’affermazione dell’ellenismo, rapidamente impostosi anche in questa regione, toglie ogni autentica autonomia alle esperienze storiche della Fenicia, la cui vicenda si chiude sullo sfondo di un Mediterraneo ormai pienamente greco.

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L’ATTIVITÀ COMMERCIALE

Mercanti prestigiosi FIN DAGLI ESORDI, UNO DEI CARDINI DELL’ECONOMIA FENICIA FU L’ATTIVITÀ COMMERCIALE, SVILUPPATA IN TUTTA LA REGIONE MEDITERRANEA. UN FENOMENO CAPILLARE, TESTIMONIATO DAGLI INNUMEREVOLI RITROVAMENTI DI MATERIALI PRODOTTI DAI MAESTRI ARTIGIANI E GRANDEMENTE APPREZZATI

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el panorama storico ora delineato emerge un dato di particolare rilievo: le città fenicie, pur dotate di un territorio esiguo, di una forza militare incomparabilmente minore dei grandi imperi circostanti e di una scarsa capacità di coordinamento politico, mantengono a lungo una posizione di notevole autorità e

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d’indiscusso prestigio, godono di grande benessere e influenzano tangibilmente lo sviluppo culturale dell’intero quadrante levantino del Mediterraneo. I motivi di questa situazione vanno ricercati nel ruolo fondamentale che tali centri svolgono nell’ambito dell’economia della regione, grazie alla loro capacità di gestire autonomamente


circuiti commerciali assai estesi, qualificandosi perciò come intermediari indispensabili e fornitori in esclusiva di un’ampia gamma di prodotti. Di questa funzione dei Fenici furono già consapevoli gli antichi. Sia le fonti bibliche sia gli autori classici li presentano come i commercianti per antonomasia, sottolineando l’eccezionale varietà delle merci trattate, l’abilità marinara non disgiunta da quella

spregiudicatezza che spesso rendeva il mercante simile a un avventuriero o a un pirata, le ricchezze accumulate con un’attività che si svolgeva su lunghe distanze, raggiungendo regioni normalmente escluse dagli orizzonti mercantili delle popolazioni circostanti. Il progresso delle ricerche archeologiche consente di affiancare alle notizie fornite dalle fonti antiche nuovi dati, relativi soprattutto al

In alto illustrazione ottocentesca nella quale si immagina Hiram, re di Tiro, che si reca in visita da Salomone, portandogli doni. A destra maschera funeraria in oro, da Sidone. VI sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

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L’ATTIVITÀ COMMERCIALE

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commercio fenicio in Occidente, e di tracciare cosí un quadro dell’attività mercantile fenicia assai piú preciso che in passato. Sui commerci fenici nell’area vicino-orientale le fonti letterarie piú diffuse sono quelle anticotestamentarie. Il primo Libro dei Re e quelli di Ezechiele e di Isaia si soffermano a diverso titolo sull’attività mercantile fenicia, sia che si tratti di ricordare le imprese condotte con il re d’Israele, sia che si tratti di comparare l’antico splendore di Tiro e di Sidone con la situazione assai meno favorevole in cui queste città si trovano dopo la perdita dell’indipendenza politica. Cosí si apprende dal primo Libro dei Re che Salomone si associa a Hiram, sovrano di Tiro, per compiere spedizioni commerciali nel Mar Rosso, in direzione di una regione chiamata Ofir, identificabile con l’attuale Somalia o con lo Yemen. Gli equipaggi sono forniti da Hiram e ciò indica verosimilmente la familiarità dei marinai fenici con questa rotta, percorsa alla ricerca di oro, legnami pregiati e pietre preziose. Ancora Tiro, nel Libro di Ezechiele, è protagonista di un’attività commerciale di straordinaria estensione, che tocca praticamente ogni contrada dell’Oriente mediterraneo. L’«elegia sulla distruzione di Tiro», che occupa il capitolo

Nella pagina accanto brocca d’argento con attacco dell’ansa placcato in oro facente parte del corredo della Tomba Regolini Galassi di Cerveteri. Produzione fenicia, 675-650 a.C. Città del Vaticano, Museo Gregoriano Etrusco. In basso particolare della decorazione in avorio di una cassettina forse raffigurante un gioco di tradizione egiziana, dalla tomba 58 della necropoli di Ennkomi (Cipro). 1250-1050 a.C. Londra, British Museum.

XXVII del libro, cita partitamente le regioni raggiunte dal commercio tirio nel momento della massima fioritura della città. II testo indica innanzitutto l’area egea e anatolica, menzionando Tarso, le popolazioni greche, la Cilicia, la Frigia e l’Armenia. Seguono Rodi, le «molte isole» (da localizzarsi, in base all’ordine geografico, nell’Egeo) e quindi le regioni dell’Asia anteriore: Edom, cioè la Palestina, Giuda, Israele e la Siria, di cui è citata Damasco. Un importante ruolo appare riservato ai commerci con la Penisola araba, di cui vengono ricordate Dedan al nord, Saba e Ragma al sud. Il quadro si completa infine con la Mesopotamia, per la quale si indicano le città di Haran, Canne, Eden e Assur.

Relazioni ad ampio raggio Ancora nell’elegia su Tiro, ulteriori notizie si ricavano dalla menzione degli equipaggi imbarcati sulle navi e dei materiali utilizzati per costruirle, perché degli uni e degli altri vengono indicate le regioni di provenienza. Al quadro delle relazioni commerciali tirie si possono cosí aggiungere l’Egitto, Cipro, la costa africana del Mediterraneo, la Nubia e forse la Persia. L’archeologia e l’epigrafia confermano ampiamente queste indicazioni: materiali fenici

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L’ATTIVITÀ COMMERCIALE

(sigilli, iscrizioni, ceramica) sono stati rinvenuti in quasi tutta l’area geografica in questione, dall’Anatolia all’Egitto, mentre la disponibilità di materie prime pregiate provenienti da regioni ancor piú lontane (per esempio il lapislazzuli dell’Afghanistan) mostra il controllo da parte dei Fenici dei terminali delle carovaniere che congiungono l’entroterra asiatico con la costa mediterranea. Per ciò che concerne le regioni piú occidentali citate nell’Antico Testamento, mentre la presenza dei Fenici a Cipro rimonta almeno al X secolo a.C. (e al IX secolo, comunque, si data archeologicamente la fondazione della colonia tiria di Kition, sul luogo dell’attuale Larnaca), la loro frequentazione dell’Egeo è ora chiaramente comprovata da materiali epigrafici e artigianali che risalgono oltre la metà del IX secolo a.C. e sono concentrati in specie a Creta, nell’Eubea e ad Atene. Si deve ricordare che anche Omero testimonia l’assidua presenza di navigli fenici in tutti i mari circostanti la Grecia, da Lemno a Itaca.

La collaborazione con i Micenei Legato al tema dei rapporti commerciali con il mondo greco è quello dell’attività mercantile fenicia nel Mediterraneo centrooccidentale. Rivelatesi inattendibili le teorie su una remota antichità delle prime fondazioni fenicie in Occidente (Utica, Lixus, Cadice), a cui le fonti classiche attribuivano una datazione sul finire del XII secolo a.C., con i progressi delle ricerche archeologiche è apparso evidente che le prime frequentazioni dei Fenici nel Mediterraneo centro-occidentale costituiscono un capitolo della collaborazione tra elementi egei e levantini, cioè tra Micenei e Fenici. L’analisi della fase iniziale dell’espansione fenicia in Occidente, che si definisce ormai correntemente «precoloniale» e che copre il periodo compreso tra l’XI e la prima metà dell’VIII secolo a.C., ha infatti rivelato che le prime attestazioni fenicie si accompagnano

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costantemente a testimonianze di frequentazione micenea e che anche le rotte utilizzate ripropongono itinerari già noti ai Micenei, differenziandosi invece dalle vie marittime lungo le quali si svolgerà il grande flusso coloniale fenicio di età successiva. In ogni caso, già sul finire del II millennio a.C., il commercio fenicio in Occidente raggiunge con i suoi prodotti di pregio (bronzi figurati, arredi metallici, ornamenti personali) sia la Sicilia sia la Sardegna, pur senza appoggiarsi ad alcun


insediamento coloniale di carattere permanente. In Sicilia sono state attribuite ai Fenici l’introduzione di alcuni tipi di tombe e la diffusione di fibule e di forme ceramiche presenti nelle culture preistoriche locali. In Sardegna e in Spagna si deve con ogni probabilità all’influenza culturale fenicia l’accelerazione delle attività economiche locali e l’emergere di aristocrazie indigene che, assicurandosi il controllo delle materie prime richieste, si presentano come interlocutori affidabili ai naviganti venuti dall’Oriente. Anche sul piano tecnologico i contatti tra Fenici e ambienti locali sono forieri di nuovi Sulle due pagine brocche in ceramica bicroma, da Larnaca (Cipro). Periodo Cipriota Arcaico I, 750-600 a.C. Oxford, Ashmolean Museum. I vasi potrebbero essere stati prodotti a Kition.

ANCHE OMERO TESTIMONIA L’ASSIDUA PRESENZA DI NAVIGLI FENICI IN TUTTI I MARI CIRCOSTANTI LA GRECIA

importanti sviluppi. Si può citare per la Sicilia l’introduzione del ferro, che viene attribuita proprio ai Fenici, e si può aggiungere per la Spagna l’apparire di importanti innovazioni nelle tecniche metallurgiche, in concomitanza con l’avvio dei primi sistematici contatti con essi. Stabilito cosí l’orizzonte geografico dei commerci fenici tra Oriente e Occidente, possiamo volgerci a considerarne le modalità, gli obiettivi e le connotazioni merceologiche. L’attività mercantile dei Fenici appare costantemente caratterizzata dalla compresenza di tre aspetti: la ricerca e lo smercio delle materie prime, soprattutto metalliche; la commercializzazione di prodotti di lusso, perlopiú di produzione propria; e, infine, l’attività di intermediazione, allo scopo di collocare in mercati tra loro lontani merci alla cui diffusione essi provvedono in esclusiva.

Oro, argento e ferro Quanto alle materie prime, la ricerca dei metalli costituisce la vera e propria molla dell’espansione mediterranea dei Fenici. Tutto il processo d’irradiazione commerciale e coloniale di questo popolo può essere agevolmente seguito attraverso le rotte che conducono ai giacimenti in cui è piú facile e conveniente lo sfruttamento delle risorse minerarie. Ezechiele testimonia che i traffici con le aree orientali piú remote hanno l’obiettivo di assicurare la disponibilità dei metalli: l’oro dell’Arabia, l’argento, il ferro, lo stagno e il piombo dell’Anatolia. Per l’Occidente la grande rotta utilizzata dai Fenici è quella transmediterranea, che conduce alle regioni metallifere della Sardegna e della Spagna. Le fonti letterarie antiche, in specie lo storico greco Diodoro Siculo, attestano che la scoperta dell’argento spagnolo costituí la chiave di volta del commercio dei Fenici e il fattore piú rilevante del loro arricchimento: solo dopo essersi assicurati lo sfruttamento delle miniere iberiche, dice Diodoro, essi

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L’ATTIVITÀ COMMERCIALE

provvidero a stanziarsi stabilmente nelle isole del Mediterraneo centro-occidentale e in Nord Africa. Le materie prime cosí acquisite vengono in parte cedute allo stato grezzo sui mercati orientali e in parte utilizzate per la realizzazione dei prodotti artigianali di lusso che alimentano in misura notevole il commercio fenicio. I Fenici sono i maggiori produttori di quelli che i Greci chiamano athyrmata («bigiotteria», «gingilli»), oggetti di gusto raffinato il cui possesso conferisce prestigio per la loro bellezza, la loro esoticità, il loro valore intrinseco. Tra questi athyrmata, collocati in prevalenza presso le corti reali dell’Oriente e

OLTRE CHE SMERCIARE I PROPRI PRODOTTI, I FENICI OPERANO CON SUCCESSO COME INTERMEDIARI

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presso le élite nobiliari della Grecia, dell’Italia continentale, della Sardegna o della Spagna, gli oggetti di metallo hanno un ruolo assai rilevante, accanto agli avori lavorati, ai monili in pietre semipreziose e ai tessuti di pregio. Oltre ai prodotti del proprio artigianato, i Fenici provvedono a smerciare articoli «esotici» acquisiti in


mercati sui quali i loro clienti non hanno la possibilità di rifornirsi direttamente. È significativa, in questo senso, la frequenza con cui nelle regioni raggiunte dal commercio fenicio si rinvengono sigilli e amuleti di produzione egiziana. Di questo commercio d’intermediazione si ha un’eco anche in Ezechiele: i prodotti dell’Arabia (selle, aromi, pietre preziose) o della Mesopotamia (tappeti) certo non sono importati per esclusivo uso interno e dunque debbono alimentare il commercio internazionale. Gran parte di questa attività, peraltro, deve avere avuto il suo fondamento in quelli che vengono definiti «prodotti-ombra», cioè beni e

In alto coppa fenicia in argento rinvenuta in Italia. Prima metà del VII sec. a.C. circa. Leida, Rijksmuseum van Oudheden. Nella pagina accanto ricostruzione grafica, con lo scafo in sezione, di una nave mercantile fenicia. A sinistra anfora in terracotta con iscrizione fenicia, da Cipro. VI-V sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

articoli che non lasciano tracce archeologicamente accertabili: non v’è dubbio che le derrate alimentari, le stoffe e soprattutto gli schiavi costituiscano una parte essenziale del volume dei traffici fenici, come attestano a piú riprese le fonti letterarie. Il quadro dell’attività commerciale fenicia nell’età dei grandi traffici marittimi è dunque fortemente composito e articolato. Ne emerge una capacità d’intervento su mercati non solo molto lontani tra loro, ma soprattutto situati a livelli di cultura e di organizzazione assai differenziati. Proprio la necessità di tutelare questo vasto tessuto di relazioni e con esso un settore decisivo dell’economia fenicia determina, dalla seconda metà del IX e, soprattutto, dall’VIII secolo a.C., allorché la perdita dell’autonomia politica minaccia la stessa sopravvivenza delle iniziative commerciali, il grande fenomeno dell’espansione coloniale fenicia.

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L’ATTIVITÀ COMMERCIALE

Massalia

D Roma

A

Ibiza

Sulcis Cadice

Palerm

Cartagine

1

B

M

1

C

Il contesto storico

Sulle due pagine mappa della regione mediterranea con le principali rotte commerciali fenicie e i riferimenti ad alcuni degli eventi e dei fenomeni piú salienti. A. La Penisola Iberica offriva importanti risorse, come metalli e pesce. B. A sud dell’abitato di Cartagine si sviluppò il tofet di Salammbô, santuario adibito alla deposizione dei resti incinerati di fanciulli. C. Cartagine disponeva di un ampio e ben attrezzato porto circolare. D. Nel corso della seconda guerra punica (218-202 a.C.), il generale cartaginese Annibale valicò le Alpi e scese in Italia, arrivando a minacciare Roma. E. Le vittorie di Alessandro Magno sui Persiani indussero le città della Fenicia a sottomettersi senza resistenza al Macedone. F. I Fenici trassero grandi ricchezze dalla porpora, colorante per i tessuti ricavato da un mollusco marino del genere Murex.

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2


mo

1

E

Atene

Ugarit

Malta

Biblo Beirut Sidone Tiro

Alessandria

3

F

Beni di pregio

Reperti che documentano alcune delle produzioni piĂş caratteristiche della cultura fenicia e in molti casi esportate in tutto il Mediterraneo. 1. Monili facenti parte del tesoro di Aliseda rinvenuto presso Caceres (Spagna). VII sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale. Si compone di oltre 350 manufatti in oro e argento di produzione orientale. 2. Unguentari in pasta vitrea, dal Libano. V sec. a.C. Collezione privata. 3. Maschera ghignante in terracotta di produzione punica, da San Sperate (Cagliari). VI-V sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

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LA COLONIZZAZIONE

Storie di un’onda lunga I FENICI DELLA MADREPATRIA PARTIRONO A PIÚ RIPRESE ALLA VOLTA DI NUOVE TERRE SULLE QUALI INSEDIARSI. ARTEFICI DI UNA STRAORDINARIA ESPANSIONE, FURONO A LUNGO PROTAGONISTI DELLA STORIA MEDITERRANEA

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er lungo tempo si è ritenuto (confortati dalle indicazioni dell’archeologia, che raramente risalivano in Occidente oltre gli ultimi anni dell’VIII secolo a.C.) che la causa primaria del movimento coloniale fenicio dovesse identificarsi nell’accentuazione della pressione da parte degli Assiri che stavano allora completando l’annessione della regione siro-palestinese, grazie alle imprese di sovrani quali Tiglat pileser III (745-725 a.C.), Sargon II (721-705 a.C.) e Sennacherib (705-681 a.C.), la cui opera sarà poi completata da Asarhaddon (681-668 a.C.).

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Si pensava insomma che le restrizioni imposte dagli Assiri al loro commercio (e ben rappresentate da un documento in cui lo stesso Asarhaddon fissa precisi limiti al movimento delle navi di Tiro) fossero un vincolo insopportabile per i Fenici: questi perciò avrebbero risposto con lo spostamento a Occidente del baricentro dei loro traffici, facendo perno appunto sul tessuto delle colonie rapidamente fondate sulle coste dell’Africa mediterranea, della Sicilia, della Sardegna e della Penisola Iberica. La colonizzazione mediterranea, insomma, sarebbe stata quasi una tumultuosa fuga verso nuovi lidi, sottratti all’asfissiante controllo di una potenza dominante e ostile. Oggi il quadro è sensibilmente mutato.

Il tempo delle prime colonie Le scoperte archeologiche degli ultimi decenni superano verso l’alto, in vari casi, il limite della metà dell’VIII secolo a.C., con ciò escludendo un rapporto di causa ed effetto tra l’inizio della colonizzazione e la fase di piú accentuato impegno assiro verso le città della Fenicia: gli scavi condotti a Cartagine, nella Spagna meridionale e nella zona sud-occidentale della Sardegna indicano che le piú antiche colonie impiantate dai Fenici possono agevolmente datarsi tra la fine del IX e la prima metà dell’VIII secolo a.C., in sostanziale contemporaneità con l’avvio del movimento coloniale greco (e, come

Nella pagina accanto Le rovine e il porto della città di Tiro, incisione realizzata per l’opera Quelques Merveilles et Curiosités du Monde. Losanna, 1873. In basso, sulle due pagine pannello in avorio raffigurante un soldato egiziano che conduce davanti a un re seduto in trono un gruppo di prigionieri nudi, circoncisi, di origine semitica, da Megiddo (Israele). II-I mill. a.C. Gerusalemme, Rockefeller Museum.

vedremo, non mancano espliciti indizi di cooperazione tra le due componenti sia sul suolo degli insediamenti fenici sia su quello delle prime colonie elleniche). Questo stato di cose, evidenziato grazie ai risultati della ricerca archeologica, induce ad approfondire le cause e le modalità del fenomeno coloniale fenicio, una volta che ne sia stata rimossa – come la cronologia costringe a fare – l’immagine di una fuga da una madrepatria asservita a un dominatore potente e avido. Oggi è chiaro che tale fenomeno, che suscitò risorse umane ed economiche notevolissime e impegnò a vari livelli la società fenicia per alcune generazioni, fu l’espressione di una società all’apice delle sue capacità economiche e organizzative, forte di un periodo di pace abbastanza lungo, di una già sperimentata capacità di affermazione sui mercati del Vicino Oriente e in grado di esercitare, come è stato autorevolmente sostenuto, una sorta di «magistero di cultura» sulle genti limitrofe. Osserviamo per cominciare la situazione di quel periodo nell’area orientale del Mediterraneo. Nel XII secolo a.C. la cosiddetta «invasione dei Popoli del mare», quasi in contemporanea con il crollo dei principati micenei, aveva dato la spallata finale al sistema politico regionale della Siria e della Palestina, caratterizzato dalla presenza di due grandi potenze (l’impero egiziano e quello hittita) che si fronteggiavano proprio su questo territorio

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LA COLONIZZAZIONE

cercando di imporvi la propria egemonia, che i piccoli principati della regione (spesso limitati al territorio di una città con il suo circondario immediato) erano effettivamente costretti a riconoscere. Tale invasione ebbe come conseguenza immediata, assieme al crollo del sistema delle città-stato in grande parte dell’area siro-palestinese, la fine dell’impero hittita e un consistente ridimensionamento delle mire egiziane sul quadrante siro-palestinese. Al contempo, nel vuoto lasciato su buona parte dell’area dalla fine dei sistemi politici territoriali, si imposero genti fino ad allora vissute ai margini della zona urbanizzata, gruppi seminomadi portatori di tradizioni e di culture differenti da quelle dell’area verso cui tendevano. I rappresentanti piú noti di tali genti furono gli Ebrei e gli Aramei, che si affermarono rispettivamente nella Palestina e nella Siria interna; mentre le città della Fenicia, sostanzialmente rimaste immuni dai grandi rivolgimenti dell’epoca, rimasero per piú versi eredi di quell’esperienza di alta cultura urbana che aveva caratterizzato la Siria e Palestina nell’età precedente.

Nasce l’alfabeto I centri urbani fenici rimangono organizzati politicamente come piccoli regni a base cittadina, nei quali inizialmente il palazzo costituisce non solo la sede del potere politico ma anche il ganglio fondamentale dell’economia; e insieme tali centri sono sede dell’alto artigianato specializzato che, nell’avorio come nella lavorazione del bronzo, nelle coppe in metalli preziosi come nel rilievo in pietra, si ispira alle migliori tradizioni dell’età precedente. Inoltre va sottolineato con forza che proprio da questo ambiente cittadino – e segnatamente, stando alle tradizioni letterarie, da quello della città di Biblo – muove l’esperienza della creazione dell’alfabeto, destinato ad affermarsi tra le popolazioni limitrofe e poi a ispirare quello greco. Tutti questi elementi indicano che la Fenicia, tra l’inizio del I millennio e l’VIII secolo a.C., visse una delle sue stagioni piú fiorenti,

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A sinistra moneta in argento raffigurante una nave fenicia e un ippocampo, da Biblo. 340 a.C. circa. Beirut, Museo Nazionale. Nella pagina accanto maschera funeraria in terracotta, dalla necropoli di Tiro. VII sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale.

godendo dell’indipendenza dalle potenze vicine (l’Egitto aveva perduto la sua capacità propulsiva, l’impero hittita era definitivamente tramontato e la potenza assira non si era ancora rivelata come la forza ostile e potente che avrebbe poi condizionato pesantemente la vita politica ed economica dei Fenici d’Oriente), di un riconosciuto prestigio presso le genti vicine, di una capacità straordinaria di imporre la propria presenza commerciale in un arco compreso tra l’Egeo e l’Arabia. A questa società va quindi attribuita la concezione di un diverso modo di assicurare la presenza degli elementi fenici nel Mediterraneo centro-occidentale, in modo non dissimile da quanto accadeva in pari tempo nel mondo ellenico e in qualche caso in evidente collaborazione con elementi greci. La grande capacità imprenditoriale posta a frutto nell’attività commerciale in Oriente e l’esistenza di un ceto trainante (quello degli armatori e dei commercianti) in grado di suscitare le piú varie energie all’interno della società fenicia sono altri presupposti decisivi per il buon esito del movimento; e tanto piú impressionante appare questo fatto se si considera che l’intero fenomeno coloniale nasce da un numero assai limitato di città e che una sola tra di esse, Tiro, avrà in tale ambito un ruolo assolutamente preponderante.


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LA COLONIZZAZIONE

Il lungo viaggio dell’argento

In alto una veduta del sito archeologico di Tel Dor, circa 30 km a sud di Haifa (Israele). Il tratto di costa mediterranea corrisponde alle propaggini meridionali dell’antica Fenicia. In basso i frammenti d’argento sottoposti all’analisi degli isotopi del piombo, rinvenuti a Tel Dor (a sinistra) e a Ein Hofez (a destra).

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U

na recentissima scoperta effettuata degli archeologi dell’Università di Haifa getta nuova luce sulle questioni discusse nelle pagine di questa Monografia: quali furono le ragioni che portarono i Fenici a esplorare le rotte mediterranee fino a varcare le Colonne d’Ercole? E quale fu l’orizzonte temporale di queste avventurose imprese? Gli studiosi israeliani hanno sottoposto ad analisi chimico-fisiche una serie di reperti argentei rinvenuti in tre siti archeologici della Fenicia meridionale: l’antica città portuale di Dor, Akko e Ein Hofez. Circa 10 kg di frammenti d’argento sono stati sottoposti all’analisi degli isotopi del piombo, un metodo in grado di fornire informazioni sulla provenienza geografica e sulla datazione dei reperti indagati. Per l’argento piú antico, quello rinvenuto nei siti di Dor e Akko e databile al X secolo a.C., risulta un’origine dai Monti del Tauro (Anatolia meridionale) e dalla Sardegna; mentre l’argento rinvenuto a Ein Hofez, piú «giovane» di un secolo, proviene quasi esclusivamente da miniere del Sud e del Sud-Ovest della Penisola Iberica. La scoperta rappresenta, cosí, un’ulteriore conferma di come lo sfruttamento e il commercio del prezioso metallo da parte dei Fenici fossero già in atto molto prima dell’VIII secolo a.C., data considerata, fino a tempi recenti, il limite cronologico della diffusione fenicia nel Mediterraneo centro-occidentale. Andreas M. Steiner

Statuetta in bronzo dorato raffigurante una divinità seduta, probabilmente identificabile con El, dio d’origine semitica che in Fenicia diviene Baal, da Megiddo. Età del Bronzo Tardo II, 1400-1200 a.C. Chicago, The Oriental Institute of The University of Chicago.

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LA COLONIZZAZIONE

Documenti egiziani e biblici (il «racconto di Wenamun», il Libro dei Re e quello di Ezechiele) mostrano che agl’inizi della sua storia, a cavallo tra il II e il I millennio a.C. la società fenicia è sostanzialmente suddivisa tra un settore gravitante attorno al palazzo e un altro privo di collegamenti organici con l’ambiente palatino. Progressivamente, però, essa acquisisce nuove forme di stratificazione sociale, la cui ricostruzione è particolarmente importante per un’approfondita conoscenza del fenomeno coloniale.

La testimonianza di Omero Il racconto di Wenamun e la narrazione biblica dei rapporti tra Hiram di Tiro e Salomone dipingono una società economicamente dipendente dall’entourage palatino e strutturata attorno a esso, con messaggeri, funzionari, maestranze e «servi» a costituire una scala sociale assai differenziata, ma in fondo attardata in forme tipiche dell’età precedente. Qualche secolo piú tardi, invece, si rivela completamente diverso il quadro tratteggiato da Omero a proposito dei commercianti fenici attivi tra l’Egeo, Creta, il Vicino Oriente e l’Egitto. I Fenici di cui parla Omero in vari brani dell’Iliade e dell’Odissea (Il. XXIII, 741-745; Od. XIV, 287-300; XV, 415484) partecipano di una realtà sociale differente: il modo in cui operano, la lunga durata dei loro soggiorni all’estero, il loro rango – emergente dai rapporti con i «signori del mercato» locali – e l’esistenza di solide ricchezze possedute in patria mostrano una situazione assai evoluta: al tempo di Omero questi mercanti appaiono davvero la forza nuova e trainante della società fenicia. La classe mercantile non ha piú,

Il promontorio sul quale si conservano i resti dell’antica Biblo (Libano). Il piú antico nome del sito è Gbl (Gebal o Gubal), toponimo semitico riportato in testi sumerici ed egiziani del III mill. In età greca fu trasformato in Byblos, termine che presto designa una delle principali risorse locali, il papiro e, in seguito, i rotoli di papiro su cui si scriveva, i biblia (libri).

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IL COMMERCIO FENICIO HA PER DESTINATARI PARTNER DI RANGO ELEVATO IN SENO ALLE RISPETTIVE SOCIETÀ


evidentemente, il proprio punto di riferimento economico nel palazzo: i commercianti non operano come «agenti» dell’istituzione palatina, ma per conto proprio, eventualmente consociandosi tra loro, in modo non dissimile da quanto sappiamo, per quello stesso tempo, per i mercanti greci con cui non a caso essi in vari casi collaborano. Ma v’è un altro aspetto da considerare: il

Stele che celebra il ritorno di Asarhaddon dopo la vittoria sul faraone Taharqa nel Nord dell’Egitto, da Zincirli Höyük. 670 a.C. circa. Berlino, Pergamon Museum.

commercio internazionale fenicio è palesemente rivolto a partner di rango elevato all’interno delle rispettive società, legati in qualche modo da una sorta di vincolo di appartenenza allo stesso ceto. Cosí si spiega l’affermazione ad ampio raggio tra la Grecia, l’Etruria e la Spagna del vasellame metallico, degli avori e di oggetti connessi con l’ideologia del simposio o con l’esaltazione

Dai palazzi reali

I

l processo di progressiva erosione del potere monarchico è uno degli aspetti dell’evoluzione politico-sociale percepibile all’interno della società fenicia nei secoli iniziali del I millennio a.C. I sovrani di cui abbiamo cognizione attraverso documenti da loro stessi redatti – o che li riguardino direttamente – sono infatti figure abbastanza sfuggenti, alle quali è difficile attribuire autentici poteri di guida della politica e dell’economia cittadina. Biblo ci restituisce, tra il X e il IX secolo a.C., una serie di epigrafi tracciate dai sovrani della città: ebbene in queste iscrizioni essi sono ricordati come costruttori o restauratori di templi, come persone devote agli dèi cittadini, come re «giusti e retti». I sovrani, insomma, vogliono essere ricordati per la loro opera religiosa o per la loro probità, ma nessun cenno viene fatto all’effettivo potere politico esercitato all’interno del regno. È questo, forse, il primo segnale di una crisi dell’istituto monarchico che avrà il suo culmine circa due secoli piú tardi, quando la Fenicia sarà ridotta ormai a provincia assira. In un prezioso documento che ci è stato conservato per buona parte, il cosiddetto «trattato tra Asarhaddon e Baal» (rispettivamente un sovrano assiro e un re di Tiro nella prima metà del VII secolo a.C.) redatto in accadico (la lingua degli Assiri e dei Babilonesi), il primo si rivolge al secondo definendolo «servo». Tra le clausole del trattato due soprattutto indicano che le prerogative del re fenicio sono ormai poco piú che simboliche: da un lato viene imposto a Baal di non leggere la corrispondenza inviata dal sovrano assiro se non in presenza del governatore da questi designato e dall’altro si introducono limiti tassativi alla circolazione delle navi «di Baal e della gente del Paese di Tiro» (in altre parole di quelle possedute dal sovrano o delle imbarcazioni di altri proprietari).

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LA COLONIZZAZIONE

Una leggenda rivelatrice

I

l mito di fondazione di Cartagine si lega a un personaggio, quello di Elissa, reso popolare dai versi di Virgilio, il quale, nell’Eneide, immagina che il destino della principessa (da lui chiamata Didone) abbia incrociato quello di Enea, ponendo cosí all’inizio della storia l’odio e la rivalità tra la metropoli punica e la città eterna. In realtà la versione virgiliana costituisce l’adattamento di un mito preesistente, che ci è noto nella sua forma piú completa dalle pagine di Giustino, uno scrittore latino che nel II secolo d.C. riassunse l’opera dello storico Pompeo Trogo, vissuto circa duecento anni prima. Apprendiamo cosí che Elissa, per sfuggire a suo fratello Pigmalione, re di Tiro, che aveva ucciso il di lei marito Acherbas per impossessarsi delle sue ricchezze, partí segretamente da Tiro assieme ad alcuni maggiorenti e senatori della città. La prima tappa dei fuggiaschi fu l’isola di Cipro, dove si unirono a essi il sacerdote di Zeus e ottanta fanciulle, le quali,

congiungendosi ai Tirii, avrebbero dovuto assicurare future generazioni alla nuova città che doveva sorgere. I fuggitivi raggiunsero poi l’Africa e si sistemarono davanti a un ampio golfo (nel sito in cui sarebbe nata Cartagine), chiedendo agl’indigeni di poter prendere in affitto tanto terreno quanto poteva essere delimitato da una pelle di bue. Tagliando tale pelle in sottilissime strisce, i nuovi venuti definirono uno spazio vastissimo (la leggenda tradisce un adattamento in lingua greca, nella quale la parola Byrsa, nome della collina centrale di Cartagine, vuol dire appunto «pelle di bue»), su cui poterono edificare la nuova città. Il re di una delle genti vicine, invaghitosi di Elissa, la chiese in sposa, minacciando una guerra in caso di rifiuto. La principessa, non volendo tradire la memoria del marito, né danneggiare la nuova città da lei fondata, scelse di darsi la morte tra le fiamme e fu da allora oggetto di un culto secolare da parte dei

dell’appartenenza a un’élite privilegiata; ciò inserisce a pieno titolo i mercanti fenici che ne sono portatori in quel commercio aristocratico che si va allora affermando quasi sull’intera dimensione mediterranea. Una classe di armatori e di mercanti, dunque, assume il sostanziale controllo dell’attività commerciale fenicia almeno dall’VIII secolo a.C. Non è difficile concludere che proprio tale classe sia in grado di suscitare all’interno del mondo fenicio le energie e le risorse

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Cartaginesi. Questo, a grandi linee, è l’andamento della leggenda. In essa, pur nel quadro di un racconto mitico, possono rintracciarsi vari elementi utili a una ricostruzione storica. Il primo è il clima di contrapposizione tra il potere monarchico e i promotori della fondazione, che forse adombra una contrarietà, o quanto meno un’estraneità, degli ambienti ufficiali di palazzo all’evento. Il secondo è la menzione del passaggio a Cipro, che rende ragione dei molti elementi di origine cipriota presenti nella cultura di Cartagine e delle altre colonie fenicie d’Occidente nei primi secoli di vita. Il riferimento al culto tributato a Elissa può essere determinato dalla presenza al vertice del pantheon cartaginese, a partire almeno dal V secolo a.C., di una grande divinità femminile, Tanit o Tinnit; ed è significativo che nel nome fenicio della dea appaia la radice del verbo «dare», la stessa che, in lingua greca, è contenuta nel nome di Didone.

necessarie ad alimentare il flusso coloniale, senza un organico rapporto con gli ambienti del palazzo, la cui «presa» sull’insieme della società fenicia appare in questo periodo fortemente declinante. Questo fatto ha una sua conseguenza rilevante sul piano politico: il ceto mercantile fenicio impone al tessuto delle colonie d’Occidente che ha cosí validamente contribuito a creare una veste istituzionale congeniale alle proprie esigenze, assicurandosi a Cartagine e nelle

Incisione raffigurante lo stratagemma adottato da Didone per fondare Cartagine, da un’edizione ottocentesca dell’Eneide. Fuggita da Tiro, la principessa giunse in Africa e chiese agli indigeni di


poter prendere in affitto tanto terreno quanto poteva essere delimitato da una pelle di bue. Tagliando tale pelle in sottilissime strisce, i nuovi venuti definirono uno spazio vastissimo, su cui poterono edificare la nuova città.

altre fondazioni coloniali il controllo e la gestione delle funzioni civili e militari. Non è un caso che (con l’eccezione del mito relativo alla fondazione di Cartagine da parte di Elissa/Didone) l’istituzione monarchica non sia attestata nelle colonie d’Occidente, né vi siano figure di funzionari che si richiamino esplicitamente a sovrani d’Oriente – come accade invece per Cipro, l’isola che per prima fu colonizzata dai Fenici, talmente vicina alla madrepatria da poter essere agevolmente

controllata dai sovrani tramite loro governatori. Anche l’archeologia fornisce probanti conferme di questo assunto: alcune tombe di grande ricchezza riportate alla luce in Spagna (ad Almuñécar e a Trayamar, sulle coste andaluse) documentano l’esistenza all’interno della società coloniale di un ceto straordinariamente abbiente, in grado costruirsi tombe monumentali e di procurarsi preziosi oggetti, tra cui vasi d’alabastro di fabbricazione egiziana.

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LA COLONIZZAZIONE

Rotte e paesaggi Gli itinerari per i quali i coloni fenici, lasciata la madrepatria, raggiunsero le sedi delle nuove fondazioni coloniali possono essere ricostruiti grazie all’archeologia e all’epigrafia, allo studio delle correnti e alle analisi paleoambientali. E la scoperta di nuovi insediamenti, soprattutto nella Penisola Iberica e in Sardegna, ha aiutato non soltanto a precisare le rotte della colonizzazione, ma anche a definire obiettivi e modalità del fenomeno coloniale. Il bacino del Mediterraneo, nel cui ambito l’intera vicenda coloniale si svolge, è caratterizzato dal punto di vista atmosferico, in senso «occidentale»: i venti, le correnti e le variazioni del tempo si originano generalmente nell’Atlantico e di lí si introducono verso le regioni mediterranee. Ciò comporta, almeno nel settore centro-occidentale del bacino, una sostanziale facilità lungo le rotte di ritorno verso Oriente, ma alcuni problemi, connessi appunto con la situazione meteorologica, in direzione opposta. Se a ciò si aggiunge che le imbarcazioni di cui i Fenici disponevano, in genere dotate di chiglie basse e dunque poco adatte alla navigazione d’alto mare, li costringevano a optare per percorsi di piccolo cabotaggio, poco lontani dalle coste, e che nell’antichità la stagione utilizzabile per navigare non superava i cinque/ sei mesi, tra aprile e ottobre, si comprenderà con quanti condizionamenti abbia dovuto confrontarsi l’attività marinara fenicia, peraltro circondata da un’unanime fama di efficienza e capacità tecnologica (va ricordato che i Fenici erano ritenuti gl’inventori della trireme e maestri nell’orientarsi con le stelle: la Stella Polare non a caso era chiamata «fenicia»). Nel lungo tragitto verso le regioni piú remote dell’Occidente, i Fenici privilegiarono due rotte, l’una piú settentrionale, detta anche «delle isole», e l’altra che piegava immediatamente verso sud; ma, come vedremo, questi due assi preferenziali lungo la grande traversata mediterranea avevano vari segmenti comuni. La rotta delle isole puntava dalla Fenicia direttamente su Cipro,

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LA ROTTA TRADIZIONALE

LA ROTTA «DELLE ISOLE» Alcune rotte fenicie nel Mediterraneo secondo le ricostruzioni tradizionali. La seconda cartina, in basso, riassume le ipotesi formulate sulla scorta delle scoperte piú recenti, che hanno attribuito nuova importanza al transito di Fenici a Creta.

raggiungendo poi Rodi e l’Egeo. Qui, se non occorreva sostare nell’arcipelago greco (nel qual caso le navi fenicie risalivano fino a Taso), si doppiava il Peloponneso e si raggiungeva poi la costa italiana dello Ionio, donde si proseguiva per la Sicilia. Da quest’isola si poteva passare in Sardegna e, transitando per le Baleari, arrivare nella Penisola Iberica; ovvero era possibile attraversare il Canale di Sicilia fruendo del ponte naturale costituito da Pantelleria e attraccare a Cartagine, donde, percorrendo verso Occidente il litorale nordafricano, si poteva arrivare alle coste africane dell’Atlantico (dove Lixus era la fondazione piú remota e una delle piú antiche), oppure era possibile risalire di nuovo fino alle coste dell’Andalusia. Quanto alla rotta meridionale, essa aveva come prima tappa l’Egitto e di qui proseguiva per Creta e per Malta, raggiungendo quindi la Sicilia e saldandosi cosí al percorso prima illustrato. Per la rotta di ritorno era privilegiata la via nordafricana fino a Cartagine, da dove


era possibile innestarsi alla parte orientale dei due itinerari segnalati. Emerge, in questo quadro, il ruolo fondamentale svolto proprio da Cartagine; la sua posizione al centro del Mediterraneo e allo snodo delle maggiori rotte lungo la traversata ne fa una tappa essenziale per la navigazione fenicia e un punto di riferimento imprescindibile, sulla via di andata o su quella di ritorno, per la massima parte delle colonie fenicie. Il ruolo egemone che la città eserciterà nell’ambito del mondo fenicio e la sua importanza nel quadro della politica mediterranea fino allo scontro decisivo con Roma si spiegano in larga parte con queste premesse.

Alla ricerca dei caratteri comuni Le rotte lungo la traversata, che, significativamente, hanno come terminali in Occidente le regioni mediterranee piú ricche di risorse metalliche – la Sardegna e la Penisola Iberica –, costituiscono una sorta di filo rosso lungo il quale l’archeologia ha ritrovato le

Elemento ornamentale in bronzo che raffigura una divinità. VI sec. a.C. Siviglia, Museo Archeologico.

vestigia delle decine di fondazioni coloniali create dai Fenici tra la prima metà dell’VIII e la seconda metà del VII secolo a.C. Ma, all’interno di questo ampio settore compreso tra Malta e l’Atlantico, è possibile ravvisare caratteri comuni tra i centri fondati dai Fenici? Dal punto di vista geomorfologico e topografico si è da tempo constatato che le colonie fenicie d’Occidente, seguendo in genere l’esperienza urbana della madrepatria, sorgono nel rispetto di alcuni modelli ricorrenti, che costituiscono nel loro insieme quello che è stato definito il «paesaggio fenicio»; un paesaggio, cioè, in cui sia assicurata la presenza di talune condizioni ritenute ottimali. Una tipologia assai affermata è quella dell’insediamento posto su un promontorio fortemente proteso in mare, la cui conformazione poteva consentire l’utilizzazione alternata dei due versanti per l’attracco delle navi in relazione al variare delle correnti e delle stagioni. Tale modello, già presente in Fenicia nei centri di Biblo e

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LA COLONIZZAZIONE

Sidone, è riproposto in varie colonie d’Occidente; Solunto in Sicilia, Nora e Tharros in Sardegna ne sono gli esempi piú illuminanti. Vari centri fenici d’Occidente sono ospitati in un’isoletta distante poche centinaia di metri dalla terraferma, in modo da garantire, assieme a un facile accesso al continente, condizioni di sostanziale sicurezza. È il tipo d’insediamento che i Fenici della madrepatria avevano sperimentato ad Arado e a Tiro e che ritroviamo in Occidente nella colonia siciliana di Mozia, in quella africana di Rachgoun (ora in territorio algerino), nell’isola sarda di Sant’Antioco, sede della colonia fenicia di

Sulcis, e ancora, in Spagna, al Cerro del Villar. Un caso particolarmente complesso è costituito, ancora in Spagna, da Cadice, sorta in origine addirittura su un arcipelago di tre isole ora saldate alla terraferma. Un’altra tipologia ricorrente è quella della città distesa su un ampio golfo, talora caratterizzato dalla presenza di acque basse e lagunose che rappresentano un eccellente riparo per le imbarcazioni. I casi di Palermo, Cagliari e Cartagine sono in questo senso i piú emblematici. V’è infine da ricordare il modello degli insediamenti sorti presso la foce di un fiume; a questo si richiamano una gran

A sinistra un settore dell’area archeologica di Byrsa, a Cartagine.

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In alto ricostruzione della collina di Byrsa con la città punica e il porto circolare di Annibale proposta dall’architetto Jean-Marie Gassend. L’assetto è quello che l’area doveva presentare tra la fine del IV e il II sec. a.C.

quantità di centri fenici della Spagna meridionale (tra gli altri Villaricos, Almuñécar, Toscanos, Morro de Mezquitilla), ma anche dell’Africa (Lixus, Mogador, Utica), della Sardegna (Santa Maria di Villaputzu, Cuccureddus di Villasimius, Bitia, Bosa) e delle coste atlantiche (Abul, in Portogallo). È evidente la praticità di una soluzione che unisce l’opportuna presenza di un porto fluviale alla possibilità di un rapido collegamento alle regioni interne.

Gli stanziamenti nell’entroterra Tutti gli elementi ricordati hanno evidentemente una relazione con il mare; ma non per questo la vita delle colonie si svolge necessariamente a contatto con esso. Le ricerche sul campo hanno dimostrato che in qualche caso, sfruttando insediamenti già costituiti da genti indigene, come accade a Malta, i Fenici preferiscono insediarsi in zone relativamente interne; e che altrove, come in Sardegna, la costituzione di una colonia di altura, a qualche chilometro di distanza dal mare, rappresenta una delle prime forme di contatto con il territorio già all’inizio dell’età coloniale: il centro fenicio di Monte Sirai,

fondato a 190 m d’altezza alle spalle di Sulcis, si data attorno alla metà dell’VIII secolo a.C. In molte fondazioni coloniali gli scavi hanno peraltro dimostrato che i primi quartieri abitativi si dispongono non in prossimità del porto, bensí in posizione un poco interna ed elevata di qualche diecina di metri sul livello del mare. Il dato emerge con piena evidenza a Sulcis, dove l’abitato arcaico detto del «Cronicario» si trova a mezza costa, su un declivio prospiciente il mare, ma ricorre a Cagliari, a Cuccureddus e, fuori della Sardegna, in numerosi centri andalusi. Nella stessa Cartagine i quartieri piú antichi sono stati individuati nel corso degli scavi recenti sulle pendici della collina di Byrsa, in posizione lievemente arretrata rispetto alla linea di costa. In sintesi, numerosi dati suggeriscono che il rapporto con il mare e con le attività a esso connesse non sia sufficiente a spiegare la grande complessità della colonizzazione fenicia; e altri indizi, come vedremo, indicano che un intenso popolamento, uno sfruttamento programmato delle risorse presenti nei luoghi di arrivo, un saldo radicamento nel territorio costituiscono per molte colonie obiettivi assolutamente preminenti.

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LA COLONIZZAZIONE

Le fondazioni: quando e dove Come abbiamo visto, contrariamente a una diffusa opinione, l’origine della colonizzazione non va ricercata nelle difficoltà incontrate dalle città della Fenicia nei confronti degli Assiri, ma piuttosto nelle nuove opportunità che la società fenicia è in grado di sfruttare in una favorevole situazione interna e internazionale. Il movimento cosí sorto appare di dimensioni veramente impressionanti: una città tra tutte, Tiro, si rese protagonista della creazione di un numero elevatissimo di fondazioni coloniali, diffuse su un arco cronologico straordinariamente ampio, da Cipro alle coste atlantiche della Penisola Iberica. Tralasciando per ora Cipro, dove una stabile presenza di Fenici è attestata almeno dal IX secolo a.C. (e la grande fondazione tiria di Kition, dove sorse un grande tempio di Astarte ne fu il caposaldo fondamentale), le colonie furono fondate in sostanza lungo le rotte che abbiamo prima illustrato. Un ruolo strategico di decisiva importanza, all’ingresso di quel Canale di Sicilia che costituiva uno snodo fondamentale verso le regioni del Mediterraneo centro-occidentale,

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Pendenti in pasta vitrea a testa barbata. IV-III sec. a.C. Cartagine, Musée de Carthage.

ebbe la presenza fenicia a Malta. Qui la colonizzazione assunse piuttosto le forme di un controllo delle rotte che non quelle di una stabile e cospicua presenza di coloni; e il fatto che i Fenici, come si è ricordato, si servissero degli abitati indigeni piuttosto che fondarne di nuovi lo dimostra efficacemente. Il maggiore addensamento abitativo fenicio si registra all’interno dell’isola, nelle aree di Rabat e di Medina, mentre il principale luogo di culto, cioè il santuario dedicato ad Astarte, si trova in prossimità di uno dei golfi piú ospitali dell’arcipelago, quello di Marsascirocco sulle coste sud-orientali dell’isola di Malta. Come ricorda lo storico greco Tucidide e come l’archeologia ha confermato, in Sicilia i Fenici si installano sulla cuspide occidentale dell’isola, in un settore assai vantaggioso per le comunicazioni con il Nord Africa e la Sardegna e in sostanziale contemporaneità (almeno per Mozia) con l’inizio della colonizzazione greca nella parte centroorientale. Le tre principali colonie sono Mozia, un’isoletta posta nello Stagnone di Marsala, Palermo e infine Solunto, una trentina di chilometri a oriente del capoluogo.


Una posizione ideale L’occupazione fenicia del Nord Africa ebbe il suo perno fondamentale in Cartagine, di cui abbiamo ricordato la posizione straordinariamente felice alla confluenza degl’itinerari marittimi che univano il litorale africano ai vari segmenti della «rotta delle isole». A oriente della metropoli, appartengono alla fase coloniale fenicia gl’insediamenti di Sousse e, nell’attuale territorio libico, di Sabratha e Leptis Magna. Sull’opposto versante occidentale, antica e prestigiosa fu la colonia di Utica; piú a ponente, nell’odierno territorio algerino sono le colonie di Mersa Madakh e di Rachgoun. Una frequentazione fenicia della regione di Tangeri, nell’area dello Stretto di Gibilterra, è attestata dalla presenza di numerose tombe ricche di gioielli prodotti appunto da botteghe fenicie, ma non sono noti gli abitati di riferimento. Assai maggiore è la

Kerkouane (Tunisia). Intarsio marmoreo che riproduce il simbolo della dea Tanit inserito nel pavimento di un’abitazione della città punica.

documentazione delle antiche colonie del Marocco atlantico, tra cui Lixus, Sala e Mogador furono i centri piú importanti. Quanto alla Sardegna, la colonizzazione fenicia investe soprattutto il settore sud-occidentale dell’isola, tra i golfi di Cagliari e di Oristano. Procedendo in senso orario si incontrano gl’insediamenti di Cuccureddus di Villasimius e di Cagliari nell’omonimo golfo e poi i centri costieri di Nora, Bitia, Sant’Antioco (con le altre fondazioni del comprensorio, San Giorgio di Portoscuso e, un po’ all’interno, Monte Sirai e Pani Loriga) e infine, raggiunto il Golfo di Oristano, Neapolis, Othoca e Tharros. Oltre i limiti geografici indicati, si trovano sulla costa orientale Olbia, probabilmente fondata nel VII secolo a.C., e, sul versante occidentale, Bosa, alla foce del Temo non lontano dall’attuale città di Macomer. La Spagna è la regione dove le ricerche

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Cadice: dallo scavo al museo Recenti scoperte hanno gettato nuova luce su Cadice, città fondata dai Fenici all’alba del I mill. a.C., i cui resti sono stati oggetto di un innovativo allestimento museale. 1. Bronzetto di personaggio maschile con tiara dell’Alto Egitto bordata di piume, dalle acque prospicienti l’isolotto di Sancti Petri. VIII-VII sec. a.C. 2. Terracotta di personaggio maschile con barba e folta capigliatura a riccioli (V sec. a.C.), dalle acque antistanti la Punta del Nao, dove si ipotizza fosse ubicata la grotta-santuario di Astarte. 3. Paleotopografia della Baia di Cadice elaborata sulla scorta delle indagini piú recenti. 4. Proposta di ricostruzione 3D delle abitazioni fenicie messe in luce al Teatro Cómico. 5. Bronzetto fenicio raffigurante un personaggio maschile con tiara alta e conica (lebbadé), dalle acque prospicienti l’isolotto di Sancti Petri. VIII-VII sec. a.C. 6. La musealizzazione degli scavi del sito di Cadice.

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archeologiche degli ultimi decenni hanno apportato le piú grandi novità: oggi la costa dell’Andalusia risulta punteggiata da un numero assai ampio di colonie fenicie. Da est a ovest si ricorderanno i centri di Villaricos, Chorreras, Morro de Mezquitilla, Toscanos, Cerro del Villar e, al di là delle Colonne d’Ercole, di Cadice e del Castillo de Doña Blanca. Le indagini hanno anche documentato il cospicuo allargamento dell’area interessata dalla prima colonizzazione: a est l’insediamento di La Fonteta presso Alicante ne è l’indicatore piú significativo, mentre sulla costa atlantica del Portogallo gli scavi hanno riportato alla luce antichi empori e fondazioni coloniali fenicie quali Abul o Santa Olaia. Non va dimenticato, ancora nella regione iberica, l’insediamento fenicio di Ibiza, nelle isole Baleari, di rilevanza strategica essenziale lungo la rotta che dalla Sardegna porta alle coste della penisola. La creazione di questa ampia rete coloniale,

come si diceva, fu il frutto di un impegno assai lungo, che coprí circa centocinquant’anni della storia fenicia, dalla fine del IX alla seconda metà del VII secolo a.C. Nel suo complesso, l’espansione coloniale non va vista come un flusso continuo e ordinato lungo tutto il periodo in questione: essa è piuttosto rappresentata dal susseguirsi di una serie di ondate, spesso determinate da condizioni e obiettivi differenti; e l’archeologia, precisando in modo finalmente attendibile la cronologia dei vari insediamenti, conferma questo stato di cose. Una prima fase dell’irradiazione coloniale è rispecchiata da alcune località o comprensori in cui 5 si raggiungono o si superano date attorno al 775 a.C.: Cartagine stessa, l’area di Sulcis (con San Giorgio di Portoscuso sulla terraferma antistante), gli insediamenti di Morro de Mezquitilla e del Castillo de Doña Blanca ne

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rappresentano – rispettivamente in Nord Africa, in Sardegna e nella Penisola Iberica – gli elementi piú significativi. Tali colonie costituiscono cioè la testimonianza del primo impegno sulle vie dell’Occidente, allorché la società fenicia – in una fase di forte sviluppo economico e di sostanziale autonomia politica – gode di una straordinaria capacità di movimento e di iniziativa. Il tessuto coloniale si consolida poi tra la fine dell’VIII e gl’inizi del VII secolo a.C.: è la fase a cui appartiene la maggioranza delle fondazioni occidentali, da Utica a Lixus, da Malta a Mozia, da Nora e Tharros a Toscanos e Cadice. L’archeologia registra poi l’esistenza di una serie di centri coloniali piú recenti, la cui nascita si pone nella seconda metà del VII

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secolo a.C.: è il caso di Palermo e Solunto in Sicilia, di Cagliari e Bitia in Sardegna, del centro urbano di Ibiza, di Mersa Madakh e Rachgoun in territorio algerino. Questi insediamenti (se non si tratta di sub-fondazioni a opera di piú antiche colonie, come accade per iniziativa di Cadice a Ibiza e nell’area atlantica) vanno riferiti all’ultima «ondata» d’irradiazione prima che, con la fine del VII secolo, cessi del tutto da parte dei Fenici la creazione di colonie in Occidente; e certo tale ondata può essere posta in relazione con gli ostacoli sempre maggiori che l’attività commerciale fenicia trova in madrepatria, dove la dominazione assira ha assunto ormai le vesti di un controllo soffocante, che lascia ben poco spazio alle libere dinamiche della

Nella pagina accanto Sulci (Sant’Antioco, Cagliari). Un settore del tofet, con le urne cinerarie destinate ai resti ossei di feti, neonati e bambini. In basso, sulle due pagine l’area archeologica di Nora (Pula, Cagliari), sito frequentato sin dall’età fenicia (VIII-VII sec. a.C.) e che conobbe un notevole sviluppo in epoca punica (V-III sec. a.C.).


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LA COLONIZZAZIONE

Tutti i luoghi di culto di una coppia divina

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a nascita del tessuto coloniale fenicio porta con sé la creazione di un ampio numero di santuari, che sono essi stessi, in piú casi, il primo segno del radicamento territoriale dei naviganti venuti dall’Oriente. Tali santuari assumono spesso, in mancanza di una vera e propria partecipazione diretta degli ambienti politici il suggello della presenza istituzionale da parte delle città di origine Al di là del naturale ruolo religioso, i santuari sanciscono dunque ufficialmente la

presenza della comunità politica di origine, in genere quella di Tiro, la città che nel quadro dell’espansione risulta piú presente. Non è un caso che i grandi santuari fenici d’Occidente siano in massima parte dedicati, durante la fase coloniale, alle maggiori divinità cittadine di Tiro, cioè il dio Melqart (il cui nome significa «re della città») e la dea Astarte, la massima figura femminile del pantheon cittadino. Si ritiene che tali luoghi di culto segnassero in

politica e del commercio. Nata come frutto di un organismo sociale all’apice delle sue capacità espansive, la colonizzazione si conclude nel segno di una crescente difficoltà e di una perduta autonomia, che spinge molti Fenici a cercare condizioni di vita migliori nelle regioni d’Occidente in cui tanti connazionali si erano da tempo trasferiti, promuovendo al caso la fondazione di ulteriori città. La conclusione della lunga vicenda coloniale segna di fatto, e per molti decenni, anche un sostanziale arresto delle relazioni tra Oriente e Occidente fenicio. Solo con la fine dell’egemonia assira e poi

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babilonese, al tempo della dominazione persiana, le navi fenicie torneranno a solcare le rotte dell’Occidente aperte tanti secoli prima.

La funzione degli insediamenti La complessità delle motivazioni e degli obiettivi che sono alla base della colonizzazione fenicia fa sí che, nell’esaminare la natura degl’insediamenti fondati nel Mediterraneo centro-occidentale, ci si trovi di fronte a realtà assai diverse, dal punto di vista non solo geomorfologico – come abbiamo visto – ma anche funzionale. A seconda delle finalità che si prefiggevano, della situazione

In alto, a sinistra le lamine in oro che riportano – in lingua etrusca e fenicia – una dedica alla dea fenicia Astarte, dal tempio B di Pyrgi (Santa Severa). Fine del VI sec. a.C. Roma, Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia. In alto, a destra statua in calcare


qualche modo due diversi aspetti della presenza tiria: piú «ufficiale» nel caso dei templi di Melqart, che individuano nella nuova colonia quasi un prolungamento del territorio di Tiro; piuttosto votati a facilitare le relazioni con le genti indigene delle regioni d’arrivo i santuari di Astarte, nei quali la tipica pratica della prostituzione sacra esercitata dalle adepte della dea poteva certo facilitare questo specifico aspetto. Rispondono a queste prerogative, per ciò che riguarda Melqart, i templi che, secondo le testimonianze dell’archeologia e la tradizione letteraria, gli furono dedicati a Malta, a Canopo sul delta del Nilo, a Lixus e a Cadice; e non mancano indizi di luoghi di culto consimili a Cartagine e a Tharros. Quanto ad Astarte, alla grande dea di Tiro erano consacrati luoghi di culto ancora piú numerosi e spesso dotati di una fama che andava ben oltre la dimensione fenicia. Cipro ospitò, nella colonia tiria di Kition e a Paphos, due grandi santuari a lei dedicati; e altri ne sorsero in

di Eracle/Melqart, da Idalion (Cipro). Metà del V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In alto placca in avorio con la dea Astarte come «donna alla finestra», da Arslan Tash (Siria). VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

Egitto (Erodoto parla del culto di una «Afrodite straniera» nel cosiddetto «Campo tirio» a Menfi), a Malta, nella località siciliana di Erice. Notevole è poi il culto tributato ad Astarte a Pyrgi (odierna Santa Severa, nel Lazio),

territoriale, delle relazioni con le genti indigene e con il territorio, le singole fondazioni presentano infatti caratteri differenti, che la ricerca storica e archeologica ha definito con chiarezza. Anzitutto la dimensione commerciale della colonizzazione fenicia ne è risultata meglio precisata: il legame tra la Fenicia e le regioni mediterranee ricche di quelle materie prime metalliche che costituiscono il vero e proprio filo rosso della colonizzazione ne risulta confermato; ma insieme emerge il carattere articolato del fenomeno coloniale, in cui convivono forme diverse di approccio al

che fu uno dei porti dell’etrusca Cerveteri: tale culto, per il V secolo a.C., è attestato dalle celebri lamine auree in lingua etrusca e in lingua fenicia ritrovate negli anni Sessanta nell’area sacra della città.

territorio, modi pure differenti di affrontare il problema delle relazioni con le fasce etniche locali, interessi piú o meno accentuati verso lo sfruttamento delle distinte risorse locali. In questo quadro, un primo aspetto evidente è costituito dalla differente frequenza delle colonie: vi sono regioni, come la Sicilia o il Nord Africa, in cui agl’inizi dell’età coloniale risultano presenti solo poche fondazioni, in genere abbastanza discoste l’una dall’altra, su tratti di costa anche molto lunghi. Simili situazioni suggeriscono che la funzione preminente dei centri coloniali sia quella di un controllo delle rotte marittime, con scarso

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LA COLONIZZAZIONE

interesse a un sostanziale radicamento nel territorio: in tali casi, infatti, è assai raro trovare tracce archeologiche di un allargamento dal centro di prima fondazione al comprensorio, sicché colonie come Mozia, come Nora o come anche Cartagine nei primi secoli di vita, risultano piuttosto proiettate verso il mare che interessate a relazioni organiche con i territori circostanti. Al contrario, sulle coste sud-occidentali della Sardegna, o su quelle meridionali della Penisola Iberica, si assiste a una colonizzazione che si avvale di una molteplicità di centri, fondati a breve o brevissima distanza l’uno dall’altro; il caso limite è costituito, in Spagna, da Chorreras e Morro de Mezquitilla, divise solo da un paio di chilometri. Tale fenomeno si registra in genere

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su segmenti di litorale di particolare portata strategica, su cui affluiscono i prodotti minerari estratti dai giacimenti dell’interno oppure di fondamentale importanza (come accade nell’Andalusia interna) per la tutela del tratto terminale della grande rotta transmediterranea dalla Fenicia alla Spagna.

Il rapporto con le genti indigene A questo stato di cose corrispondono modi diversi di gestire il rapporto con le genti indigene che i Fenici trovano sui luoghi di nuova fondazione: a Malta, in Sicilia e parzialmente in Nord Africa, non è raro trovare negli strati archeologici tracce di una compresenza di Fenici e componenti locali, per esempio con l’utilizzazione congiunta di importanti luoghi di culto, mentre in Sardegna

I resti del santuario di impianto punico dedicato al dio Sid Addir Babai, nella valle di Antas (Fluminimaggiore, Carbonia-Iglesias), ricostruito in età romana in onore del Sardus Pater Babai.


In basso bracciale (o diadema) in oro con scarabeo alato, palmette e fiori di loto, da Tharros. VII-VI sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

e nella Spagna la tendenza è quella di riservare ai soli Fenici l’utilizzazione degl’impianti costieri, quasi per assicurarsi un controllo in esclusiva di quelle aree di rilevante interesse strategico di cui si è detto prima: la coabitazione di Fenici e indigeni, cosí, sembra tendenzialmente assente nei grandi siti coloniali di Nora e Tharros in Sardegna, di Almuñécar, Toscanos e Cadice in Spagna. I

rapporti con le genti locali sono in questi comprensori non meno importanti; ma essi vengono, per cosí dire, affidati alle fasce di territorio alle spalle delle colonie costiere, dove infatti si trovano importazioni fenicie anche di pregio (tipici sono gli esempi della zona alle spalle di Tharros o del bacino del Guadalquivir nell’Andalusia interna) in zone in cui certo le relazioni con gl’indigeni sono essenziali per

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LA COLONIZZAZIONE

Collaborazione o concorrenza?

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uestione cruciale nella ricostruzione della prima colonizzazione fenicia sono i rapporti con quella greca. Si è a lungo ritenuto che le due ondate coloniali fossero tra loro concorrenziali e che, considerata una certa priorità della prima sulla seconda, la spartizione delle aree mediterranee fosse dovuta a una sorta di equilibrio tra potenze. Oggi, superata la convinzione di un antichissimo inizio dell’irradiazione fenicia (che le fonti classiche riportavano al XII secolo a.C., ma l’archeologia ha arrestato al IX) e dunque dimostrata la sostanziale contemporaneità dei due flussi, si è potuto ipotizzare che, in qualche caso, la fondazione di nuove colonie sia avvenuta addirittura in collaborazione tra elementi fenici e greci. Lo suggeriscono, in particolare, i materiali fenici rinvenuti nelle necropoli della piú antica colonia greca d’Occidente, l’isola di Ischia nel Golfo di Napoli, e la presenza di ceramiche euboiche sul sito di quello che è uno dei piú antichi quartieri abitativi fenici rinvenuti in Occidente, l’area del Cronicario nell’insediamento di Sulcis (Sant’Antioco). La convinzione di una precoce contrapposizione tra Fenici e Greci, insomma, è smentita dall’archeologia ed è il frutto di schemi ricostruttivi condizionati da posizioni ideologiche che riferiscono al passato realtà proprie dei nostri tempi: nessun «confronto fatale» vi fu, alle origini della colonizzazione, tra Greci e Fenici; ed è anzi del tutto probabile che nuovi ritrovamenti arricchiscano il dossier sulle forme di cooperazione che li legarono all’inizio delle rispettive esperienze coloniali.

l’acquisizione da parte dei Fenici delle ingenti risorse minerarie della zona, gestite in prima persona dai potentati locali. Un altro aspetto che scavi e prospezioni hanno chiarito in modo a volte inatteso è il tipo di relazione che si instaura con il territorio. Da quasi tutte le regioni della colonizzazione mediterranea affluiscono dati nuovi e interessanti, che negano per le fondazioni occidentali la natura di esclusivo punto di tappa lungo la traversata. Per riferirsi ai soli esempi piú significativi, a Solunto gli scavi hanno suggerito l’esistenza di fitti scambi con il retroterra, soprattutto per l’acquisizione di prodotti agricoli ai quali era destinata la produzione sul posto di anfore da trasporto. A Sulcis l’esistenza di quella che è stata definita una vera e propria «strategia di popolamento» si evince dalla fondazione quasi

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In alto veduta di Tharros, città fondata dai Fenici nella seconda metà dell’VIII sec. a.C. all’estremità meridionale della Penisola del Sinis, sul golfo di Oristano. Si affermò come importante emporio commerciale, punto nodale dei traffici e degli scambi del Mediterraneo. Nella pagina accanto vaso in stile geometrico di produzione greca. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

simultanea di tre centri (a Sant’Antioco, a San Giorgio di Portoscuso e a Monte Sirai), che controllano un’isola prossima alla costa, il litorale opposto e un comprensorio sublitoraneo ricco di risorse boschive e agropastorali. In Spagna le indagini sui resti faunistici effettuate dagli archeologi tedeschi a Toscanos documentano un’intensa attività di allevamento del bestiame (sembra tra l’altro che proprio ai Fenici si debba l’introduzione nella regione del pollame), mentre lo sfruttamento, da parte dei coloni impiantati al Cerro del Villar, di una fascia interna per usi agricoli è pure documentata dalla prospezione effettuata dagli archeologi spagnoli. Ancora, l’intenso sfruttamento delle risorse forestali nell’area interna posta alle spalle delle colonie fenicie dell’Andalusia (da Almuñécar allo stesso Cerro del Villar), legato

alla raffinazione e alla prima lavorazione dei metalli, è pure ben documentabile; e anzi la crisi e il repentino abbandono di molte di quelle fondazioni all’inizio del VI secolo a.C. sono stati messi in relazione con l’impoverimento ambientale susseguente proprio a tale sfruttamento. A ciò si aggiunga l’attività di pesca che, in parte destinata ad alimentare il commercio del pesce conservato, è per altra parte un ganglio vitale dell’economia di qualche colonia minore: non a caso per siti quali Mersa Madakh nel Nord Africa a Aljaraque in Spagna è stata coniata la definizione di «villaggi di pescatori»; senza contare il peso cospicuo che l’attività di pesca ebbe per l’economia di Cadice: i tonni divennero a tal punto simbolo della ricchezza della città da essere riprodotti nella monetazione cittadina.

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LE ISTITUZIONI E LA SOCIETÀ

«Degne di ammirazione» COSÍ I GRECI CONSIDERAVANO LE ISTITUZIONI DEI FENICI, BASATE SULLA CONDIVISIONE DELLE RESPONSABILITÀ

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n ogni fase della loro storia le città della Fenicia si presentano come Stati dotati di una base territoriale esigua, perlopiú corrispondente all’impianto urbano e all’immediato circondario, e retti da un regime monarchico. Un ordinamento repubblicano, come si è già visto, è in vigore per breve tempo (dal 564 al 556 a.C.) solo nella città di Tiro, che nella circostanza è retta da magistrati che hanno il titolo di «sufeti» (in fenicio, «giudici»). Benché eccezionale, questo dato è di peculiare interesse, perché da un lato mostra la presenza in Fenicia di una carica nota, con la medesima denominazione, nell’ambiente vicino-orientale (giudici sono infatti definiti i massimi magistrati agl’inizi della storia d’Israele) e dall’altro consente di rintracciare nella madrepatria il diretto precedente dell’aspetto istituzionale piú caratteristico delle fondazioni d’Occidente, che è appunto la presenza dei sufeti a capo dei singoli centri. La natura ereditaria dell’istituto monarchico è comprovata dalle epigrafi redatte a cura degli stessi sovrani, i quali tengono a sottolineare la propria appartenenza a stirpi di sangue reale. Anche le fonti letterarie classiche e in specie Giuseppe Flavio – uno scrittore di lingua greca che asserisce di aver tratto le liste dei re da documenti ufficiali fenici noti come «Annali di Tiro» – registrano di norma la trasmissione dinastica della potestà regia. La mancanza di tale notazione è perciò considerata generalmente la prova dell’esistenza di periodi turbolenti nelle vicende interne delle città, o almeno dell’ascesa al trono di usurpatori. Quanto alle prerogative dei monarchi fenici, esse appaiono legate soprattutto alle attività di carattere religioso: molte iscrizioni reali, infatti, sono relative all’erezione o al restauro di templi. È significativo, in proposito, il fatto che alcuni sovrani sidonii antepongano, nella loro titolatura, la qualifica di «sacerdote di Astarte» a quella di «re di Sidone». Un’analoga titolatura, peraltro, è registrata da

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La stele del re Yehaumilk, nota anche come «di Baalat Gebal» o «Signora di Biblo». 450 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre. Nell’iscrizione il re rende omaggio alla principale dea della città, raffigurata in alto a sinistra come l’egiziana dea Hathor.

Giuseppe Flavio a proposito di alcuni re di Tiro, indicati come sommi sacerdoti o sacerdoti di Astarte. Nell’esercizio del potere politico il sovrano è affiancato e talora controllato da magistrature e organismi rappresentativi di cui le fonti epigrafiche e letterarie ci hanno lasciato testimonianza. Per il periodo piú antico l’iscrizione del sarcofago del re di


Biblo Ahiram attesta l’esistenza in questa città di un governatore e di un comandante del campo. Si tratta probabilmente dei funzionari di piú alto rango, rispettivamente nell’amministrazione civile e in quella militare. Da varie fonti sono citati «gli anziani della città», una sorta di senato cittadino costituito dai rappresentanti delle famiglie nobili. Circa la presenza di organismi piú ampi, è stata supposta l’esistenza nei centri fenici di un’assemblea popolare, comprensiva dell’insieme dei cittadini liberi e analoga a quella attestata nelle colonie d’Occidente. QUASI COME UN’AZIENDA Nelle città fenicie l’aspetto istituzionale si salda a quello dell’organizzazione economica della società. I sovrani del periodo piú antico, infatti, appaiono dotati di una forte capacità d’iniziativa economica. Per esempio, il re con cui, nell’XI secolo a.C., l’egiziano Wenamon tratta la fornitura del legname di cui necessita, controlla il possesso e lo smercio della materia prima, ha al suo servizio una manodopera direttamente dipendente dal palazzo ed esercita la propria giurisdizione sulle attività del porto. Nel X secolo a.C. il re di Tiro Hiram, secondo quanto attesta l’Antico Testamento, fornisce a Salomone le materie prime, gli artigiani specializzati e gli operai necessari per l’erezione del tempio di Gerusalemme, ricevendone in pagamento derrate alimentari, e con lo stesso organizza spedizioni navali congiunte verso Paesi lontani. I re fenici sono dunque a capo di quella che si può definire un’azienda palatina, in grado di gestire una parte consistente dell’economia della città. Con l’andar del tempo, tuttavia, questa capacità di controllo si esaurisce notevolmente. Già nell’età di Omero i commercianti fenici che Placca in avorio raffigurante un dignitario siriano fra due steli di papiro, da Arslan Tash. VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

frequentano i mari della Grecia risultano completamente svincolati dal potere regio. Si tratta di mercanti di professione, che guidano vere e proprie imprese con il solo fine del massimo arricchimento. I naviganti fenici descritti da Omero sono ricchi trafficanti, che hanno case e beni in patria e che possono trattenersi all’estero anche un anno intero, battendo le rotte tra l’Egeo, Creta e l’Egitto. Tra il IX e l’VIII secolo a.C. si verifica, dunque, il progressivo emergere di un ceto imprenditoriale privato, che dapprima si affianca all’iniziativa economica dei palazzi reali (un armatore privato è già citato nel racconto di Wenamon) e poi la soppianta decisamente. Sarà tale ceto a gestire in misura notevole il grande flusso coloniale verso Occidente, trovando sbocchi di mercato alternativi a quelli, ormai impraticabili, dell’Asia anteriore e suscitando attorno alle nuove iniziative il concorso di forze cospicue e socialmente eterogenee. Proprio a questo fenomeno si deve la caratterizzazione istituzionale delle colonie d’Occidente. L’assenza di una diretta gestione palatina del movimento d’irradiazione fa sí che le colonie si organizzino secondo moduli differenti da quelli della madrepatria. Nelle città fenicie d’Occidente non v’è un re a capo dei singoli centri, come mostra anche l’archeologia, che non restituisce, in ambito coloniale, alcuna struttura edilizia interpretabile come palazzo reale. Il potere è detenuto dall’oligarchia mercantile, nell’ambito di un sistema caratterizzato dalla presenza di una suprema magistratura bicefala (il sufetato), di un senato cittadino e di un’assemblea popolare. Questo sistema, attraverso un’obiettiva identificazione degl’interessi dello Stato con quelli delle sue classi dirigenti, assicura all’Occidente fenicio e, a Cartagine, in particolare una grande prosperità e una notevole tranquillità interna. Nel IV secolo a.C. gli scrittori greci potranno dire che le istituzioni cartaginesi sono degne di ammirazione perché hanno posto lo Stato al riparo dal rischio di sedizioni e di discordie interne.

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LA VITA RELIGIOSA

Astarte, Melqart e gli altri... L’ANTICO TESTAMENTO, MA ANCHE I CLASSICI GRECI E LATINI, FORNISCONO NOTIZIE PREZIOSE SULLA RELIGIONE FENICIA E SUI PROTAGONISTI DEL SUO VARIEGATO PANTHEON

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e fonti di cui disponiamo per la conoscenza della religione fenicia sono ampie e numerose. I popoli che nell’antichità vennero a contatto con i Fenici sottolinearono spesso gli aspetti piú caratteristici della loro vita religiosa, sicché i documenti assiri, la Bibbia, gli scrittori greci e quelli latini ci forniscono un’ampia messe d’informazioni sugli dèi, i culti e i riti del mondo fenicio. Pur abbondanti dal punto di vista numerico, le notizie provenienti dall’interno dell’ambiente fenicio sono invece meno esplicite. Le molte iscrizioni votive ci offrono poco piú che nomi di divinità, a cui non è sempre agevole attribuire specifici caratteri; le figurazioni religiose, cosí diffuse nell’artigianato, non suggeriscono una diretta relazione tra iconografie e figure divine, per la tendenza dei Fenici a utilizzare le medesime immagini nella rappresentazione di piú di una divinità. Quanto alla letteratura religiosa, essa dovette essere certamente ricca di elaborazioni cosmologiche e mitologiche, ma nulla ne è conservato in forma diretta: le poche notizie giunte fino a noi sono costituite da frammenti di opere di tardi

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autori classici, da cui è arduo ricavare un quadro esauriente delle credenze e degli usi. Piú che come un complesso unitario, la religione del mondo fenicio d’Oriente si presenta, comunque, come la somma di aspetti peculiari dei singoli centri urbani. Ciascuno di essi ha infatti un suo pantheon distinto, anche se dietro le differenze dei nomi si cela spesso una comunanza di caratteri tra le varie divinità maggiori. A Tiro le figure principali sono la dea Astarte e il dio Melqart (il nome di quest’ultimo significa «re della città»). L’emergere di queste due divinità in posizione preminente è un tipico fenomeno innovativo della civiltà fenicia del I millennio a.C.: Astarte, infatti, pur essendo già attestata a Ugarit (la città siriana che ha restituito la piú cospicua raccolta di testi religiosi dell’età del Bronzo), vi ha un ruolo del tutto marginale, mentre Melqart appare per la prima volta proprio a Tiro, nel X secolo a.C. Una viva testimonianza è offerta in proposito da Giuseppe Flavio che, ricordando le imprese di Hiram, il re di Tiro contemporaneo di Salomone, spiega: «Questi, avendo abbattuto gli antichi templi, edificò nuovi quelli di Eracle [cioè di Melqart, secondo l’interpretazione greca] e di Astarte. Fu il primo a celebrare la resurrezione di Eracle».

Una devozione «internazionale» Entrambe queste divinità diverranno poi particolarmente popolari nell’Occidente fenicio, il che è tra l’altro una conferma del ruolo decisivo che la città di Tiro svolse nella promozione del movimento coloniale. I loro santuari saranno tra i piú venerati del Mediterraneo; basta ricordare in proposito l’importanza del tempio di Melqart a Cadice e dei luoghi sacri dedicati ad Astarte a Malta e a Erice, in Sicilia. Ulteriori dati sul pantheon di Tiro sono forniti dal testo del già citato trattato stipulato nel VII secolo a.C. tra il re della città, Baal, e l’imperatore assiro Asarhaddon. Quali garanti del patto

In alto statuetta in bronzo con tracce d’oro e d’argento raffigurante Baal, dio della tempesta, da Ugarit. XIV sec. a.C. circa. Nella pagina accanto stele in calcare raffigurante il dio Baal che scaglia una folgore, da Ugarit. XV-XIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

sono menzionati, per parte fenicia, Bait-ili (letteralmente «la casa del dio»), probabile divinizzazione delle pietre sacre, Anat baitili, un’entità composta dall’elemento precedente e da Anat, nome di una delle piú popolari divinità femminili dell’ambiente siriano del II millennio a.C., Eshmun, un dio guaritore particolarmente venerato a Cipro e in Occidente che i Greci assimilarono ad Asclepio, Baal-Shamim («il signore dei cieli») e altri ancora. A Sidone la figura femminile preminente è ancora Astarte e il massimo dio è Baal, una divinità comune a tutto l’ambiente semitico e già affermata a Ugarit, il cui nome significa semplicemente «signore». Del particolare rapporto che lega questi due personaggi fa fede l’appellativo «nome di Baal», che è attribuito ad Astarte nelle iscrizioni. Accanto a essi appare, in posizione rilevante, ancora Eshmun. Quanto a Biblo, una figura maschile di antica tradizione semitica, El (il cui nome significa «dio»), è affiancata al vertice del pantheon da una dea chiamata Baalat Gebal («la signora di Biblo»), probabilmente una manifestazione locale di Astarte. È poi particolarmente diffusa nella letteratura classica la testimonianza del culto di un giovane dio che muore e risorge, Adonis, la cui introduzione a Biblo risulta tuttavia pienamente provata solo in età ellenistica. Delle altre maggiori città fenicie, nessuna al momento si presta a una ricostruzione altrettanto precisa. Si può tuttavia affermare che taluni nomi divini appaiono ricorrenti e fortemente diffusi (per esempio, un Baal, una Baalat e forse un Adonis erano venerati a Berito, l’odierna Beirut), mentre altri dèi assai popolari non mostrano legami specifici con singoli centri. È il caso soprattutto delle divinità guaritrici, come Shadrapa, o di quelle che costituiscono personificazioni di doti morali, come Sydyk («la giustizia») o Misor («la rettitudine»).

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LA VITA RELIGIOSA

Un tratto particolare della religione fenicia è dato dall’accoglimento di un ampio numero di divinità egiziane, in linea con la costante influenza culturale che l’Egitto ha esercitato su questa regione. La loro diffusione è attestata da molti antroponimi nei quali compaiono in specie Osiride, Iside e Horus e, soprattutto, dalla quasi esclusiva presenza d’immagini divine egiziane nel repertorio degli amuleti, che dimostra la popolarità di tali figure a livello, forse, di una religiosità semplice e non priva di connotazioni magiche. Un caso interessante è poi costituito dalla presenza in Fenicia di Tanit, la dea che, dal V secolo a.C., diviene la massima divinità del pantheon di Cartagine. La sua diffusione in Oriente poteva già essere supposta sulla base di un’epigrafe cartaginese nella quale essa è menzionata come «Tanit del Libano» e di qualche attestazione nell’onomastica. Una scoperta archeologica ne ha fornito una prova inconfutabile: durante gli scavi di Sarepta è stata rinvenuta un’iscrizione su avorio, datata al VII secolo a.C., che menziona un’offerta «per Tanit-Astarte», con un significativo accostamento della figura di Tanit a quella dell’altra maggiore divinità femminile della religione fenicia.

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Un ampio patrimonio di elaborazioni mitologiche, oggi purtroppo quasi del tutto perduto, doveva caratterizzare, come si è detto, il pensiero religioso. Alcuni autori classici riferiscono di tradizioni sull’origine del mondo, che sarebbe sorto dal vento e dal caos, secondo una concezione diffusa anche in altri ambienti vicino-orientali. Successivamente da un uovo cosmico si sarebbero creati gli astri e le acque.

Genealogie divine Quanto agli dèi, essi sono ordinati secondo uno schema genealogico, al vertice del quale sono Eliun («l’eccelso») e Berut (forse la dea di Berito). Tra i loro discendenti, oltre alle divinità maggiori già citate, compaiono Mot, corrispondente al greco Thanatos («la morte»), Chusor, l’inventore del ferro che i Greci assimilarono al loro Efesto, e Dagon, «il grano», evidentemente connesso con le attività agricole. Dal punto di vista del culto, un aspetto tipico del mondo fenicio, che assume particolare rilevanza nelle colonie d’Occidente, è la presenza dei santuari noti con il nome di tofet e adibiti alla deposizione di resti incinerati infantili. Tali aree sacre sono state rinvenute in ampio numero in Nord Africa, in Sicilia e in

Statuette in terracotta raffiguranti la dea Astarte. X-VI sec. a.C.


di guerra sia di siccità sia di pestilenza uccidevano qualcuno dei propri cari votandolo a Saturno [cioè a Baal]. E la storia dei Fenici è piena di questo tipo di sacrifici». Un’altra pratica diffusa è quella della prostituzione sacra, connessa perlopiú ai santuari di Astarte. Anche in questo caso la documentazione è esigua, limitandosi a qualche cenno contenuto nell’Antico Testamento, ma riceve attendibili conferme sia dalla comparazione in ambito vicinoorientale sia dalle notizie fornite dalle fonti letterarie classiche per l’ambiente delle colonie d’Occidente.

Vicini all’acqua

Sarcofago in anfibolite nera di Eshmunazar, re di Sidone, dalla necropoli di Magharat Abloun della stessa Sidone. Primo quarto del V sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre.

Sardegna, ma non se ne sono ancora trovate in Fenicia. Sull’esistenza di questi luoghi di culto nella madrepatria si hanno tuttavia testimonianze probanti di fonte letteraria che affermano la natura sacrificale del rito. La piú puntuale è quella del libro biblico di Geremia, in cui si legge: «Costruiscono l’altare di Tofet nella valle del figlio di Ennom per bruciarvi i figli e le figlie loro nel fuoco; ciò che io non ho comandato mai né mai mi venne in mente (...) Hanno riempito questo luogo di sangue innocente». Filone di Biblo, dal canto suo, conferma: «I Fenici nei pericoli piú gravi sia

Altri aspetti del culto sono legati al carattere e alla posizione dei santuari. Quelli delle maggiori città sono generalmente situati su alture prossime ai centri urbani e spesso vicini a corsi d’acqua o stagni a cui si attribuisce una specifica funzione rituale. È tipico, in proposito, il caso del santuario di Afka, presso Biblo, alle sorgenti del fiume Nahr Ibrahim. Il colore rosso che le acque del fiume assumono in taluni periodi dell’anno veniva considerato il sangue del dio Adonis, venerato nel santuario. L’esistenza di un sacerdozio al servizio dei templi e delle divinità è testimoniata da innumerevoli fonti epigrafiche e letterarie; e si è già detto della funzione ragguardevole che in quest’ambito svolgevano i re. Qualche cenno, infine, va riservato alle credenze sulla vita ultraterrena: il culto dei morti, le pratiche d’imbalsamazione e i corredi deposti nelle tombe mostrano la fede dei Fenici in una prosecuzione della vita nell’aldilà. Ma sono soprattutto le iscrizioni sepolcrali a testimoniare in maniera vivida e immediata la convinzione in una sopravvivenza intesa come meritato riposo per i giusti. A titolo di esempio si può citare il testo inciso sul sarcofago del re di Sidone Tabnit, in cui si legge: «Se aprirai il mio coperchio, non ci sarà discendenza per te nella vita sotto il sole, né dimora con i defunti».

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L’URBANISTICA E L’ARCHITETTURA

Le città e i monumenti FRA I CARATTERI TIPICI DEL «PAESAGGIO FENICIO», OLTRE ALL’IMPONENZA DEGLI EDIFICI, PRIVATI E RELIGIOSI, SPICCA LA PROPENSIONE A INSEDIARSI IN PROSSIMITÀ DEL MARE

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al punto di vista topografico e urbanistico, i centri fenici presentano caratteri ricorrenti, che hanno indotto a parlare di una «cultura dell’insediamento» tipica di questa civiltà e, come suo aspetto fondamentale, di quello che si suole definire il «paesaggio fenicio». Le città, infatti, si affacciano di norma su litorali marini bassi o lagunosi e sono situate su un promontorio o su un’isoletta prospiciente la costa. Talora due settori del medesimo abitato occupano contemporaneamente una propaggine naturale e una piccola isola posta a breve distanza da essa. Arado e Tiro sono, in Oriente, gli esempi emblematici di tale tipo di stanziamento, che verrà ripetuto in molte fondazioni coloniali e che ha il vantaggio di offrire, sui due versanti del promontorio, scali portuali differenziati da usare a seconda del mutare dei venti e delle stagioni e, sulle isolette, agevoli possibilità di difesa dagli attacchi esterni. In centri di questo genere, evidentemente proiettati verso il mare, gli impianti portuali rivestono un’importanza del tutto particolare: i resti rinvenuti nei centri urbani dell’Oriente ne danno esplicita conferma. I porti di Tiro, Sidone e Arado sono strutture assai complesse, con bacini e settori di attracco differenziati, impegnative opere di protezione quali dighe e frangiflutti che irrobustiscono le difese naturali, canali di collegamento tra i vari settori degl’impianti. I centri fenici sono abitualmente cinti di mura, che le rappresentazioni sui rilievi assiri consentono di ricostruire. Si tratta di cortine dotate di merlature superiori e di una serie di porte, talora con sommità ad arco, che si aprono fra torri aggettanti. All’interno di tali

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fortificazioni le case private, nelle medesime raffigurazioni, appaiono addossate le une alle altre senza un’organica pianificazione. Esse, tuttavia, sono dotate di un aspetto assai elaborato: sono edifici a piú piani, con le porte d’ingresso inquadrate da colonne e con le finestre dei piani superiori ornate dalle caratteristiche balaustrate con elementi a volute note anche, in versione miniaturistica, dal repertorio degli avori. Una conferma dell’imponenza delle abitazioni private delle città fenicie viene, assai piú tardi, dal geografo greco Strabone, secondo il quale le case di Tiro e di Arado erano strutturate su piú piani e quelle di Tiro, in particolare, superavano in altezza quelle di Roma. Una scoperta compiuta a Sarepta suggerisce che le attività commerciali e industriali fossero ospitate in appositi settori dei centri urbani. Nel sito, infatti, è stata rinvenuta una vasta area, di 800 mq circa, riservata alla manifattura


di ceramiche, alla tintura dei tessuti, alla lavorazione dei metalli e alla produzione dell’olio, come attestano rispettivamente i forni da vasaio, i depositi di conchiglie da cui si ricavava una sostanza colorante rosso-porpora, le scorie di fusione e i frantoi.

Grandi costruttori di templi Di gran lunga piú ampia è la nostra conoscenza dell’architettura religiosa, a proposito della quale si deve anzitutto ricordare che, fuori della Fenicia, il tempio di Salomone a Gerusalemme fu costruito da artigiani di Tiro e che dunque la descrizione fornitane dall’Antico Testamento offre dati indubbiamente indicativi sulle caratteristiche dei templi fenici. Ispirandosi a una tipologia ben attestata

In alto Kition (Cipro). I resti del tempio di Astarte. Nella pagina accanto in basso restituzione grafica della rappresentazione di una città fenicia su un rilievo del palazzo di Sennacherib a Ninive, conservato a Londra, presso il British Museum. Inizi del VII sec. a.C.

nell’area siro-palestinese fin dagl’inizi del II millennio a.C., il tempio di Gerusalemme si articolava su una successione di tre vani, rispettivamente identificabili come vestibolo, aula e penetrale. Nel secondo di questi locali venivano deposte le offerte, alla cui collocazione erano destinati il cosiddetto altare d’oro e una mensa offertoria. Un altro altare e una vasca lustrale si trovavano all’esterno dell’edificio, nel grande cortile che lo precedeva. Una conferma archeologica di grande importanza è stata fornita dal ritrovamento del tempio di Astarte impiantato dai Fenici di Tiro nella loro colonia cipriota di Kition. Anche questo santuario, fondato nel IX secolo a.C. e oggetto di vari rimaneggiamenti nel corso della sua lunga storia, conserva

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L’URBANISTICA E L’ARCHITETTURA

quale elemento costante la suddivisione interna in vani che si susseguono nel senso della lunghezza e, come il tempio di Gerusalemme, presenta nella grande aula mediana tavole offertorie e banchine per la deposizione degli ex voto. Un aspetto assai monumentale doveva avere anche il grande santuario di Eshmun a Sidone, a giudicare dall’imponenza della cinta esterna (quasi 60 x 40 m), che includeva una serie di terrazze digradanti. In base alle iscrizioni e al materiale mobile rinvenuto al suo interno, il complesso può datarsi attorno al V secolo a.C. Una tipologia di luoghi di culto peculiare dell’architettura religiosa fenicia è quella dei

piccoli sacelli cubici posti all’interno dei recinti. Se ne conoscono due esempi, rispettivamente da Amrit e da Ain el-Hayat. Nel primo caso un’ampia area delimitata da un muro perimetrale di 50 m circa di lato e includente un bacino lustrale circondava una cappella eretta su un alto podio. Questa, preceduta probabilmente da due colonne, aveva un aspetto decisamente egittizzante, sottolineato dalle modanature a gola egizia dell’architrave. Il santuario dovrebbe risalire al VI secolo a.C. Nel secondo caso ancora un recinto sacro e uno stagno precedono una coppia di sacelli, pure collocati su alti basamenti, sul cui

Una tipologia variegata

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ilievi dei diversi tipi di tombe fenicie noti grazie alle necropoli indagate in vari centri fenici d’Oriente e d’Occidente: a pozzo (1-13), ovvero caratterizzate da una galleria verticale di accesso al termine della quale, sul fondo o sui lati, si aprono le camere sepolcrali; provviste di corridoio d’ingresso (dromos; 14-20); a fossa (21-24).

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In alto Amrit. I resti del santuario, con, al centro del recinto sacro, un sacello cubico. Nella pagina accanto, a sinistra Amrit. Due meghazil («fusi») mausolei a piú piani, costituiti da un tamburo inferiore, circolare o poligonale, in un caso fiancheggiato da leoni, e da una struttura superiore a cupola e a piramide.

architrave figura il motivo egiziano della fila di serpenti urei. La persistenza del modello è attestata in Occidente dal ritrovamento di un’analoga edicola a Nora, in Sardegna; ma la diffusione di questi piccoli luoghi di culto è comprovata soprattutto dalle innumerevoli stele votive su cui, in versione ridotta, sono rappresentate edicole templari dalle medesime caratteristiche. Ancora a proposito di raffigurazioni in scala ridotta, un contributo alla conoscenza dell’architettura religiosa è fornito dal modellino in terracotta di un tempio proveniente dal centro cipriota di Idalion, sede di una consistente colonia fenicia. La rappresentazione ripropone sia la tipologia del sacello cubico, sia il particolare delle due colonne ai lati dell’ingresso, noto dalle descrizioni bibliche del tempio di Gerusalemme e probabilmente presente, come si è visto, nella cappella di Amrit.

Gli «alti luoghi» della Bibbia Accanto ai santuari di maggiore impegno monumentale dovevano essere numerosi in Fenicia i luoghi di culto di struttura piú modesta, spesso costituiti da una semplice area a ciclo aperto, rozzamente delimitata da muri perimetrali e collocati in genere sulle alture prossime alle città. Sono di questo tipo

gli «alti luoghi» di cui parla ancora la Bibbia, identificandoli come sedi di un culto a Baal. Per un’altra categoria di aree a cielo aperto, quella dei tofet, si è già detto della mancanza di documentazione archeologica relativamente alla Fenicia, compensata peraltro dalle indicazioni delle fonti letterarie. Occorre comunque ricordare che la diretta documentazione su questi santuari è fornita in modo assai ampio dall’ambiente delle colonie nordafricane, siciliane e sarde. Circa l’architettura funeraria, le necropoli riportate alla luce in prossimità di Beirut, Sidone, Tiro e Akziv e nel mondo delle colonie d’Occidente presentano sia sepolture in semplici fosse scavate nel terreno e talora protette all’intorno da lastroni litici, sia tombe di maggior impegno strutturale, del tipo detto «a pozzo», caratterizzato cioè da una galleria verticale di accesso al termine della quale, sul fondo o sui lati, si aprono le camere sepolcrali. Veri e propri mausolei sono i monumenti funerari noti con il nome arabo di meghazil («fusi») e rinvenuti ad Amrit. Si tratta di imponenti costruzioni a piú piani, costituite da un tamburo inferiore, circolare o poligonale, talora fiancheggiato da leoni, e da una struttura superiore a cupola o a piramide. La datazione di questi monumenti va collocata tra l’età persiana e il primo periodo ellenistico.

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LA STATUARIA IN PIETRA

Echi d’Egitto PUR ELABORANDO UN PROPRIO E ORIGINALE LINGUAGGIO ARTISTICO, GLI SCULTORI FENICI FURONO SPESSO ISPIRATI DALLO STILE DEL PAESE DEL NILO

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n antico pregiudizio grava sull’arte fenicia: quello della mancanza di originalità, che sarebbe dovuta alla dipendenza dagli apporti esterni, soprattutto egiziani, per quasi tutta la produzione. Una simile impostazione appare troppo radicalmente negativa, se non addirittura ingiustificata. Certo l’ispirazione egittizzante costituisce un tratto tipico dell’artigianato fenicio; ma è del tutto peculiare il linguaggio in cui i motivi egiziani vi sono riproposti, con la loro costante utilizzazione in senso decorativo e ornamentale, con l’impiego ricorrente nelle piú diverse classi di materiali, con la capacità di prescindere dal significato iconologico dei motivi stessi in favore dell’armonia complessiva delle composizioni. Un’altra caratteristica propria dell’artigianato fenicio risiede nella preferenza accordata alle arti cosiddette minori, quali la gioielleria, l’intaglio delle pietre dure e dell’avorio, la bronzistica figurata. Tale preferenza è legata al fatto che la produzione, destinata in gran parte all’esportazione, privilegia di necessità le opere di dimensioni ridotte, facilmente trasportabili e di cospicuo valore intrinseco. Un’autonoma caratterizzazione dell’artigianato fenicio, dunque, esiste ed è riconoscibile nella primaria ispirazione egittizzante e nella produzione di oggetti di lusso; quanto all’originalità, basta ricordare

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che nessun altro ambiente del Vicino Oriente si specializzò in questi settori, tanto è vero che i Fenici rifornirono di tali prodotti le corti reali di tutto il quadrante levantino del Mediterraneo, dall’Assiria a Cipro. Proprio la diffusione nelle regioni limitrofe di gran parte della produzione consente oggi di ricostruire un quadro sufficientemente completo dell’artigianato fenicio, nonostante la perdita dei maggiori complessi monumentali cittadini e, con essi, della documentazione relativa alle decorazioni architettoniche e alla grande statuaria. Per quest’ultima si può comunque affermare che l’ispirazione prevalente è legata a modelli egiziani. Ne fornisce un chiaro esempio una statua acefala di personaggio maschile proveniente da Tiro e datata all’VIII secolo a.C., che rappresenta una figura vestita di corto gonnellino e ornata con un ampio pettorale sul busto nudo; il braccio sinistro è disteso lungo il fianco a reggere nella mano, chiusa a pugno, un «rotolo», secondo la moda egiziana.

Un’iconografia di successo La medesima impronta egittizzante caratterizza il cosiddetto «torso di Sarafand», del VI-V secolo a.C., in cui il personaggio rappresentato reca, oltre al consueto gonnellino, una collana e un pendente con i simboli astrali. Va notato che tale iconografia, una delle piú diffuse e stabili in ambiente fenicio, è riproposta anche nell’Occidente, sia in sculture quali la statua rinvenuta nello Stagnone di Marsala, sia in molte stele votive. L’influenza della statuaria greca è invece predominante in una serie di statue e di busti rinvenuti nel santuario di Eshmun a Sidone. Si tratta di rappresentazioni di giovani e di A sinistra statua in calcare di un personaggio maschile ornato di gioielli e con un gonnellino decorato da due urei, da Sidone. VI-V sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale. Nella pagina accanto statua colossale in calcare in stile egittizzante, da Tiro. VIII sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale. Vestito di un gonnellino, l’uomo regge nella mano sinistra un «rotolo».

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LA STATUARIA IN PIETRA

quale taluni degli esemplari possono essere direttamente attribuiti. Di nuovo a modelli egiziani s’ispirano i pochi rilievi monumentali noti dalla Fenicia. Il piú rappresentativo, proveniente da Arado e scolpito in alabastro, mostra una sfinge accosciata entro un riquadro sormontato da un pannello decorato a palmette. La destinazione religiosa di questa produzione, che si basa sull’impiego d’immagini associate a un orizzonte cultuale, è confermata dalle raffigurazioni in rilievo di divinità assise su troni fiancheggiati da sfingi, provenienti da Adlun, Beirut e Fi. L’ispirazione egittizzante è immediatamente percepibile, anche se le divinità che si volevano rappresentare erano con ogni probabilità fenicie.

Evoluzione delle stele

fanciulli, talora intenti a giocare con piccoli oggetti, talora colti nell’austera postura dell’arte arcaica greca. In queste sculture, che si datano al VI-V secolo a.C., la componente greca appare filtrata dall’ambiente cipriota, al

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Rilievo raffigurante una sfinge, da Arado (Siria). 850-750 a.C. Parigi, Museo del Louvre.

Nell’ambito del rilievo votivo un ruolo preminente spetta alle stele, soprattutto perché esse costituiscono il precedente di una produzione diffusa in modo amplissimo nel mondo coloniale d’Occidente. La relativa scarsità con cui questa classe è rappresentata in Fenicia si deve evidentemente al mancato ritrovamento dei santuari ai quali essa risulta di norma associata, cioè i tofet. La documentazione della Fenicia rivela nel tempo una certa evoluzione tipologica e stilistica. L’esemplare piú antico, che proviene da Amrit e si data attorno all’VIII secolo a.C., sembra collocarsi ancora nel solco di una tradizione siriana non priva di influenze anatoliche. Vi è rappresentato un dio armato di mazza che tiene un leone in una mano e, sovrastando un altro leone, incede su una montagna rocciosa. Il precedente piú immediato si trova nella stele del «dio della folgore» a Ugarit (vedi foto a p. 84); ma l’esemplare di Amrit si caratterizza per il piú accentuato influsso egiziano, ravvisabile nell’abbigliamento del personaggio e nella presenza del disco solare alato alla sommità della stele. Un altro gruppo di stele, che si data attorno al VI secolo a.C., testimonia invece l’affermazione della tipologia a edicola egittizzante. Appare


significativo in questo senso un esemplare da Sidone, che presenta un trono fiancheggiato da sfingi entro un’edicola sul cui architrave figurano un disco solare alato e una fila di serpenti urei. L’inquadramento qui adottato è quello che si diffonderà come modello-standard nella produzione delle colonie occidentali. Ancora nella prospettiva del raccordo con il mondo punico vanno ricordati un esemplare da Burg ash-Shemali in cui, all’interno di un analogo inquadramento, figura una coppia di betili (pilastri sacri); e una stele da Akziv, che documenta l’antecedente fenicio di un motivo aniconico largamente presente a Cartagine, cioè l’«idolo a bottiglia». Rientra invece nell’ambito di un’ispirazione che sembrerebbe limitata all’ambiente orientale la

Statua raffigurante un bambino, dal tempio di Eshmun nella località di Bostan esh-Sheikh (Sidone). V sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale. Sulla base corre un’iscrizione che riporta la dedica della scultura al dio Eshmun da parte di Baalchillem, figlio di Baana’, re dei Sidonii.

stele fatta erigere, come attesta l’iscrizione che vi è posta, dal re Yehaumilk per la massima dea della sua città, la «signora di Biblo» (vedi foto a p. 82). Al di sopra dell’epigrafe figura una scena in cui un personaggio maschile, in piedi e vestito alla moda persiana (forse lo stesso re), rende omaggio alla divinità, rappresentata al modo della egiziana Hathor. Questa è seduta in trono e tiene in mano uno scettro a forma di papiro. Influssi persiani ed egiziani si fondono dunque in questo monumento, che risale al V secolo a.C. Sempre nell’ambito del rilievo, appaiono particolarmente diffusi in ambiente fenicio i sarcofagi figurati in pietra. Anche se l’ispirazione iniziale viene dall’Egitto, l’artigianato fenicio si specializza in questo genere e lo arricchisce con apporti di diversa

QUELLA DEI SARCOFAGI FIGURATI SI AFFERMA COME UNA DELLE PRODUZIONI PIÚ TIPICHE DELL’ARTE FENICIA

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LA STATUARIA IN PIETRA

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Il sarcofago di Ahiram

Il grande sarcofago del re Ahiram venne rinvenuto nel febbraio del 1922 nella tomba V di Biblo ed è oggi esposto nel Museo Nazionale di Beirut. Su un lato, Ahiram siede in trono, con un fiore di loto nella mano sinistra, tra sfingi alate e donne disperate dal dolore. Sul lato opposto, sfila un corteo sacrificale. Sul coperchio si legge: «La bara che Ittobaal, figlio di Ahiram, re di Biblo, fece per suo padre come sede eterna. E se qualunque re, o governatore, o comandante attaccherà Biblo e aprirà questa bara, che si infranga il suo scettro del giudizio, che si rovesci il suo trono reale, e che la pace abbandoni per sempre Biblo; e quanto a lui, che venga cancellata la sua iscrizione!». A. Il lato del sarcofago con il re Ahiram in trono. B. Figure di uomini e leoni decorano il coperchio. C. Un lato breve, con quattro donne piangenti. D-E. L’iscrizione, nella quale si legge «Ahiram, re di Biblo».

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provenienza, fino a farne una delle sue produzioni maggiormente caratteristiche. Il piú antico della serie è il sarcofago del re di Biblo Ahiram, che risale al XIII-XII secolo a.C. È un’opera di altissimo livello, che illumina al meglio la varietà di suggestioni che convergono nell’arte fenicia fin dalle sue piú precoci espressioni. Il sarcofago è a forma di cassa rettangolare ed è sostenuto da leoni accovacciati. Lungo i lati maggiori si svolge una scena di offerta: al re, seduto in trono, una serie di figure presenta i propri doni. Quattro donne piangenti appaiono su ciascuno dei lati minori della cassa, sulla parte superiore della quale corre un fregio continuo di boccioli e fiori di loto. Sul coperchio sono rappresentati due personaggi che recano uno stelo di loto e, sulla parte mediana di esso, i dorsi di due leoni.

Influenze hittite Si sommano in quest’opera motivi di tradizione siriana, di origine hittita e d’ispirazione egittizzante. Se la scena della processione di offerenti è già nota da avori siriani del XV secolo a.C., rimandano all’arte hittita i leoni presenti sulla base e sul coperchio del sarcofago, mentre sono da ascrivere al repertorio egiziano l’iconografia del personaggio in trono e il fregio floreale. Con il VI secolo a.C. compaiono in Fenicia nuovi sarcofagi, di tipo antropoide, che sono importati dall’Egitto per essere posti nelle tombe dei sovrani. Due di questi esemplari, in basalto nero e di aspetto mummiforme, sono impiegati per le sepolture di Tabnit ed Eshmunazar, sovrani di Sidone. Proprio questa città si specializza successivamente nella produzione di sarcofagi antropoidi in cui all’inizio predomina la componente egiziana, ma in seguito si afferma l’influenza greca, evidente soprattutto nella fisionomia dei personaggi rappresentati sui coperchi e che caratterizza visibilmente anche la nutrita produzione dell’Occidente fenicio. Sarcofagi antropoidi sono stati infatti rinvenuti anche a Cartagine, in Sicilia, a Malta e nella Penisola iberica.

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AUGUSTO

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Tesori d’alto artigianato IL CANDORE DELL’AVORIO, LO SFAVILLIO DELL’ORO E DELL’ARGENTO... I FENICI ESALTARONO LE QUALITÀ DI QUESTI MATERIALI, CREANDO PRODOTTI APPREZZATI ANCHE AL DI FUORI DELLA MADREPATRIA

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ella produzione degli avori figurati si esprimono al meglio la maturità formale delle botteghe fenicie, la loro padronanza tecnica, la capacità di attingere con linguaggio originale a repertori figurativi fortemente differenziati nell’origine e nei contenuti. Si tratta di un patrimonio di notevole consistenza e di grande ricchezza, concepito quasi integralmente per la decorazione di residenze reali e frutto di una perizia e di una specializzazione che fecero dei Fenici gli esecutori piú ricercati e apprezzati di tutto il Vicino Oriente. Non a caso, dunque, quasi tutta la produzione fenicia di avori ci è nota dall’esterno della Fenicia propria: quelli giunti fino a noi sono i materiali commissionati dalle corti vicinoorientali della Siria, della Mesopotamia, d’Israele e di Cipro. L’intera documentazione mostra una grande coerenza interna sia nella destinazione dei prodotti (ornamenti di mobilio, incensieri, piccoli recipienti, ecc.), sia nelle tecniche compositive, con l’alternanza delle lavorazioni a giorno, a rilievo traforato (cloisonné) e a placca, sia nella scelta delle iconografie;

sicché si può dedurre che gran parte del materiale a noi noto proviene da un medesimo circolo di botteghe, attivo sul finire dell’VIII secolo a.C. Il gruppo di avori piú consistente e meglio noto è quello rinvenuto a Nimrud, sede reale assira in cui essi sarebbero stati portati, in gran parte come bottino di guerra, al tempo di Sargon II. I materiali di produzione fenicia costituiscono il lotto principale, accanto ad altri realizzati da botteghe siriane e mesopotamiche, e l’ispirazione egittizzante ne è certamente il tratto piú caratteristico quanto a scelta dei temi iconografici. Nel trattamento di tali motivi e nel ruolo puramente ornamentale che essi sono chiamati a svolgere si riconosce l’opera

Nella pagina accanto placchetta in avorio raffigurante una sfinge alata, da Nimrud. VIII sec. a.C. Londra, British Museum. A destra frammento del coperchio in avorio di una pisside raffigurante una dea fra due capridi, dalla tomba 3 di Minet el-Beida (porto di Ugarit). 1250 a.C. circa. Parigi, Museo del Louvre.

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GLI AVORI E I METALLI

originale delle maestranze fenicie, nelle cui interpretazioni le tematiche religiose sono costantemente piegate alle necessità della decorazione e della simmetria, con la vanificazione di ogni intento di raffigurazione organica dei modelli. Prevalgono dunque, nel repertorio, i simboli figurativi della religione egiziana (sfingi, alberi sacri, divinità di vario genere) e i temi animali che possono essere ricondotti al medesimo orizzonte (la vacca che allatta il vitello, allegoria di Iside e Horus; i cervi; i leoni, talora colti nell’atto di divorare un personaggio dalle fattezze negroidi). E tuttavia i significati religiosi sembrano perdersi completamente, a vantaggio di una composizione che privilegia in ogni momento l’eleganza decorativa. Cosí l’albero sacro diventa una sorta di elemento ornamentale, che ha il compito di suddividere la scena in due parti perfettamente simmetriche; i cartigli egiziani assumono la funzione di pannelli decorativi, ai cui lati si dispongono figure di chiara connotazione egittizzante; gli steli di papiro rivestono il ruolo di eleganti riempitivi in scene dominate dalla presenza di sfingi o di leoni. Anche sul piano delle scelte iconografiche non mancano, comunque, motivi riconducibili in modo piú diretto all’ambiente fenicio. È il caso del diffuso tema della «donna alla finestra», in cui va certamente riconosciuta una rappresentazione della dea Astarte, nella versione di Venus prospiciens, che tanto successo conosce nell’isola di Cipro, sede di uno specifico culto.

Temi egittizzanti Analoghe sono le caratteristiche degli avori messi in luce in un’altra residenza reale assira, Arslan Tash. Nuovamente vi s’incontrano temi perlopiú egittizzanti, quali le sfingi, gli alberi sacri, le divinità alate femminili e altri ancora. L’appartenenza di taluni dei pannelli a figurazioni piú complesse è qui suggerita dalla presenza di fregi continui di palmette o di processioni di offerenti, che evidentemente facevano parte di

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Statuetta in avorio raffigurante un uomo con una pelle di leopardo su una spalla, che tiene un orice e ha una scimmia sull’altra spalla, da Nimrud. VIII sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art. In basso placchetta in avorio raffigurante una mucca che allatta un vitello, forse da Arslan Tash. IX-VIII sec. a.C. circa. New York, The Metropolitan Museum of Art.

decorazioni notevolmente estese. La diffusione dell’artigianato eburneo fenicio nell’ambiente israelitico è testimoniata dai ritrovamenti di Samaria (residenza dei re Acab e Omri), che ripropongono, senza apprezzabili variazioni, il repertorio già illustrato. Una luce inattesa su questa produzione è invece giunta dalle scoperte effettuate dal Dipartimento delle Antichità di Cipro nella necropoli di Salamina. Qui, in una tomba principesca, è stato ritrovato un ampio gruppo di splendidi avori fenici destinati alla decorazione di mobili, che un accurato restauro ha permesso di ricostruire nelle linee essenziali. Un primo gruppo di avori decorava un trono ligneo: pannelli a rilievo traforato con rappresentazioni, rispettivamente, di sfingi e di motivi floreali ornavano i suoi fianchi. Sullo schienale altre placche d’avorio presentavano motivi a treccia, mentre un’impellicciatura, anch’essa d’avorio, copriva l’intera struttura lignea del seggio. Un secondo trono, meno elaborato, presenta una serie di dischi e una di strisce eburnee, disposte rispettivamente a scandirne la superficie e a riquadrarne lo schienale e le zampe anteriori. Non meno interessante è un altro reperto di Salamina, un letto la cui superficie lignea è interamente coperta d’avorio. Particolarmente notevole è la testata del mobile, la cui parte centrale è costituita da un pannello d’avorio formato da tre registri sovrapposti, che presentano rispettivamente una fila di figure


Placchetta in avorio raffigurante il dio Horus fanciullo su un fiore di loto, dalla Samaria. Gerusalemme, Israel Museum.

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GLI AVORI E I METALLI

Trono in legno e avorio, da una tomba principesca di Salamina di Cipro. VIII sec. a.C. Nicosia, Museo di Cipro.

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egittizzanti inginocchiate, una serie di palmette con steli intrecciati e una teoria di sfingi affrontate. Anche i montanti della testata presentano decorazioni eburnee, con un fregio di fiori di papiro. Le parti in avorio erano sovente impreziosite con applicazioni di smalto blu e soprattutto d’oro in lamina sottile. Va ancora notato che a Salamina l’avorio risulta utilizzato non solo per l’abbellimento del mobilio, ma anche per la realizzazione di singoli oggetti, come alcuni incensieri con stelo a corolle di foglie pendenti, un modello tipicamente fenicio di cui si conoscono vari esemplari in bronzo e in terracotta. A conferma del tipo di committenza a cui l’artigianato in avorio è destinato, si può rilevare che in Occidente i materiali piú cospicui sono stati rinvenuti nelle regioni raggiunte dal commercio fenicio di prodotti di lusso. Vanno citati in proposito gli avori della tomba Bernardini a Palestrina, nel Lazio (si tratta di una quindicina di placchette decorate che ripropongono il consueto repertorio egittizzante); e, soprattutto, l’ampia serie degli avori rinvenuti nelle tombe dell’area di Carmona, nella Spagna meridionale. Questi sono perlopiú oggetti «da toletta», come pettini, scodelline, cucchiaini cosmetici, in cui il patrimonio di figurazioni egittizzanti sembra talora piegato alle esigenze e alle aspettative della committenza locale. È possibile ipotizzare che questo materiale sia stato prodotto da artigiani fenici recatisi in Spagna al seguito della prima grande ondata coloniale.

Gioielli da esportazione Destinata in gran parte al collocamento sui mercati stranieri è anche la produzione di gioielleria, un settore per il quale la specializzazione dei Fenici è ampiamente registrata dalle fonti letterarie, da Omero in poi. Per queste realizzazioni l’artigianato fenicio si avvale di una tradizione locale di elevato livello, che trova a Ugarit, nel XIV-XIII secolo a.C., le sue testimonianze piú esplicite. Nella produzione fenicia è anzitutto da rilevare

A destra orecchino in oro con pendenti a falco e goccia, da Tharros. VII-VI sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale. In basso pendente in oro in forma di personaggio maschile, da Cipro. VI-IV sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

la notevole capacità tecnica, che permette agli artigiani realizzazioni a sbalzo, a granulazione, oppure l’impiego simultaneo di materiali differenziati, in genere oro e pietre preziose. Quanto alle tipologie, sono attestati in specie gli orecchini, i pendenti e le collane. L’ambiente orientale restituisce, al solito, una documentazione relativamente scarsa, nella quale fanno spicco i gioielli rinvenuti nella tomba di una nobildonna di Sidone. Sono tra questi, una collana con medaglione a testa di grifone e due altre collane in cui all’oro di alcuni pendenti e castoni si uniscono la cornalina, il turchese e l’agata usati a formare grandi elementi circolari. Soprattutto nei pendenti, la produzione fenicia ricorre ampiamente a temi egiziani: vi si trovano cosí rappresentate le divinità femminili dalla caratteristica acconciatura e le consuete figurazioni simboliche (sfingi, palmette, animali) che, come abbiamo visto anche per altri settori, costituiscono parte integrante del patrimonio iconografico delle botteghe egittizzanti fenicie. La relativa esiguità della documentazione proveniente dalla Fenicia è in parte compensata dai ritrovamenti effettuati nelle regioni dell’Occidente mediterraneo. Non v’è dubbio, infatti, che la documentazione di Ischia, della Sardegna, del Nord Africa e della Spagna rifletta almeno in parte l’attività di botteghe fenicie della madrepatria o quella di artigiani di formazione orientale dislocati in Occidente. La dispersività della documentazione e la carenza delle testimonianze relative alla madrepatria caratterizzano anche la classe delle coppe metalliche lavorate a sbalzo, una delle piú tipiche e affermate dell’artigianato fenicio. Ancora una volta, tuttavia, occorre sottolineare che si tratta di prodotti concepiti essenzialmente per l’esportazione e tesi a soddisfare una clientela di élite, sicché la mancanza di rinvenimenti in Fenicia va addebitata a una precisa scelta dei produttori.

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GLI AVORI E I METALLI

Le coppe metalliche fenicie sono state ritrovate in Assiria, in Grecia, a Cipro e nell’Italia continentale e si pongono cronologicamente tra l’VIII e il VII secolo a.C.; solo a Cipro i caratteristici prodotti locali scendono nel tempo fino a coprire buona parte del VI secolo a.C. Il fondamento di questa produzione si trova di nuovo nell’ambiente siriano del II millennio a.C., come mostrano gli splendidi esemplari aurei di Ugarit, rispettivamente con scena di caccia e con teorie di animali. In questa classe si afferma piú compiutamente che in ogni altro settore la tendenza all’impiego del patrimonio figurativo egittizzante a fini puramente

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ornamentali. All’Egitto rimanda infatti la maggior parte dei motivi iconografici, ma sarebbe difficile attribuire alle sfingi, alle immagini di faraoni, alle teorie di divinità raffigurate sulle coppe il significato simbolico che esse originariamente avevano: il decorativismo è la cifra predominante di ogni realizzazione fenicia in questo campo cosí peculiare della produzione artistica. Le coppe sono di norma caratterizzate dalla presenza di un rosone centrale, in cui trovano posto motivi geometrici o floreali a stella, a rosette, a palmette o, piú di rado, una sorta di «ombelico» rilevato. A volte il rosone ospita una scena piú complessa,

A destra particolare della decorazione di una patera in oro raffigurante una scena di caccia reale, da Ugarit. XIV-XIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso coppa cipriota in argento e oro, da Idalion. VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. Raffigura un faraone che abbatte il nemico e scene di caccia.


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GLI AVORI E I METALLI

come accade per la raffigurazione della lotta tra un eroe e un grifone in una coppa da Cipro, per quella del faraone che abbatte il nemico in esemplari da Palestrina e ancora da Cipro, o per le immagini di battaglia tra Egiziani e Asiatici in un’altra coppa da Palestrina. Attorno al rosone, la decorazione si dispone in fasce concentriche, nelle quali ricorrono fondamentalmente tre serie di motivi: le teorie di divinità egiziane, le scene cultuali e le rappresentazioni di file di animali. Si possono citare come particolarmente rappresentative in proposito alcune coppe rinvenute in Italia. L’esemplare della necropoli di Macchiabate, presso Francavilla Marittima, alterna attorno al rosone centrale teorie di animali (lepri, falchi, cervidi e tori) a una serie di personaggi con teste animalesche, chiaramente divinità di tipo egiziano. Una delle coppe di Palestrina, che nel rosone centrale ha l’immagine del faraone che abbatte il nemico, mostra nella fascia attorno a esso quattro barche di papiro che recano divinità e scarabei alati. Un intento In alto piccolo gruppo in bronzo raffigurante una coppia di divinità su un carro, dalla Fenicia. Fine del II mill. a.C. Parigi, Museo del Louvre. È stato ipotizzato che la piú grande sia Astarte. A sinistra statuetta in bronzo e oro raffigurante un personaggio divino, nota come «sacerdote di Cadice». VII sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

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autenticamente narrativo s’incontra di rado in questa produzione, ma non vi è del tutto assente. Valga l’esempio di una coppa da Cipro che, sulla fascia decorata piú esterna, presenta una scena di attacco a una città fortificata da parte di un gruppo di guerrieri, mentre altri armati salgono sulle mura aiutandosi con scale. Una scena analoga, peraltro, s’incontra in uno degli esemplari da Palestrina: qui, attorno a un’altra città turrita, si svolgono episodi di guerra e di caccia, a cui partecipano soldati a piedi e personaggi su carri.

La piccola plastica La lavorazione del metallo non è riservata solo all’artigianato di alto livello da collocare sui mercati internazionali. Una produzione sicuramente di minor pregio, ma assai significativa soprattutto per la sua destinazione religiosa, è costituita dalla piccola plastica in bronzo. Si possono ricordare anzitutto le statuette di divinità assise provenienti dall’area orientale, che si caratterizzano in genere per la


forte schematicità con cui sono rappresentati i personaggi; solo taluni attributi, quali le alte tiare coniche, li qualificano come divini. Un secondo gruppo è costituito dai bronzetti che rappresentano divinità maschili gradienti, spesso con una lancia in mano ovvero con un braccio disteso sul fianco e l’altro proteso in avanti, con la mano levata. Si tratta di una tipologia estremamente diffusa non solo in Fenicia, ma anche a Cipro, in Sardegna e in Spagna, dove appare in genere tra l’VIII e il VI secolo a.C. Un numero notevole di bronzi fenici rinvenuti in Occidente va considerato prodotto dalle botteghe della madrepatria. Tra questi vanno ricordati gli esemplari di Paulilatino, in Sardegna, con raffigurazioni di divinità, che risalgono al periodo precoloniale, e il bronzetto della Nurra, pure in Sardegna. Tali reperti sono stati rinvenuti in contesti nuragici e la loro presenza nell’isola si lega evidentemente ai primi scambi commerciali intercorsi tra i Fenici e le popolazioni indigene. In altri casi l’esportazione in Occidente appare invece legata a un’utilizzazione dei prodotti in ambiente coloniale fenicio. Si possono citare a questo proposito, per la Spagna, gli esempi della cosiddetta «Astarte di Siviglia» e del bronzetto noto come «sacerdote di Cadice», che l’analisi stilistica e talune particolarità della lavorazione (come la lamina aurea che copre il volto del secondo personaggio) fanno ritenere di produzione orientale. Va appena ricordato, al di là dei reperti direttamente ascrivibili a maestranze fenicie, che la specifica tradizione di cui queste genti sono portatrici influenza in modo decisivo l’artigianato in bronzo di alcune regioni dell’Occidente. È noto che sia la bronzistica nuragica sia quella iberica risentono ampiamente, sul piano iconografico e stilistico, delle realizzazioni fenicie, le quali appaiono dunque come le autentiche catalizzatrici delle prestigiose esperienze bronzistiche locali.

A sinistra statuetta in bronzo placcato in argento raffigurante una divinità con un’acconciatura di tipo hathorico, dalla Fenicia. VIII sec. a.C. Parigi, Museo del Louvre. In basso bronzetto raffigurante un personaggio maschile, dall’Estremadura. VIII-VII sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

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LE TERRECOTTE E LA PRODUZIONE MINORE

Quel ghigno dal sapore esotico... MASCHERE DAL SORRISO BEFFARDO, RAPPRESENTAZIONI DELLA MATERNITÀ, ELEGANTI UNGUENTARI DAI MILLE COLORI: ANCHE NELLE PRODUZIONI MINORI GLI ARTIGIANI FENICI SFOGGIANO MAESTRIA E CREATIVITÀ, FONDENDO ANCORA UNA VOLTA LE TRADIZIONI LOCALI CON I MODELLI DEL VICINO ORIENTE E DELL’EGITTO

I

l repertorio fenicio di statuette in terracotta, pur non abbondante quantitativamente, presenta motivi di cospicuo interesse, sia perché ne sono chiari gli aspetti di consonanza con piú antiche tradizioni vicino-orientali, sia perché esso costituisce la matrice ispirativa della ben piú ampia produzione dell’Occidente punico. Tra i motivi piú diffusi in questa classe artigianale si annoverano anzitutto le rappresentazioni delle divinità femminili, come la dea gravida, quella che porta le mani ai seni (entrambe simboleggianti la fecondità) o ancora la figura con disco al petto. Con l’andare del tempo anche questa produzione accoglie largamente suggestioni greche, come attestano in specie i reperti rinvenuti a Kherayeb, in Fenicia. Peculiare dell’ambiente fenicio è la produzione delle figurine in terracotta con corpo cilindrico realizzato al tornio. La documentazione della madrepatria è affiancata da quella, notevolmente piú consistente, dell’area cipriota; ma la tipologia risulta affermata soprattutto in ambiente coloniale, a Cartagine,

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Protome femminile in terracotta, da Mozia. VI sec. a.C. Mozia, Museo Whitaker.


Maschera ghignante in terracotta, da Mozia. VI sec. a.C. Mozia, Museo Whitaker.

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LE TERRECOTTE E LA PRODUZIONE MINORE

Tra i temi piú diffusi sui sigilli fenici si trovano le sfingi, le divinità alate e gli dèi Bes, Iside e Horus. Non mancano le rappresentazioni di animali (capridi, leoni, cervidi), pure ispirate a modelli egiziani, mentre tra le iconografie piú tradizionali dell’area fenicia vanno ricordate le raffigurazioni di divinità assise di fronte a un bruciaprofumi, che vantano numerose attestazioni anche in altre categorie artigianali. Una certa evoluzione, in questa classe, è legata all’accentuarsi delle influenze persiane e poi A sinistra statuette in terracotta raffiguranti donne incinte, forse identificabili con immagini di una dea della fertilità, da Akziv. VII-VI sec. a.C. Gerusalemme, Israel Museum. In basso testa in terracotta raffigurante un giovane. VII sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

Mozia, Bitia e Ibiza. Una medesima considerazione può farsi per la categoria delle maschere e delle protomi in terracotta. Anche questo materiale trova sistematica diffusione in ambiente punico, ove si specializza in tipologie assai coerenti, quali le protomi femminili egittizzanti e le maschere ghignanti maschili di negroide o di vecchio imberbe. Quanto alla produzione dell’area orientale, essa è di gran lunga meno ampia; ma i pochi esemplari conosciuti, come uno da Hazor, risalente all’età del tardo Bronzo, uno da Akziv e alcuni da Cipro, mostrano che la fioritura punica dovette fondarsi sulla nozione di modelli del Vicino Oriente e della Fenicia in specie.

Valenze puramente ornamentali Tra le categorie di artigianato minore, in larga misura concepite per la diffusione sui mercati internazionali, una tra le piú significative è costituita dai sigilli a scarabeo, ampiamente attestati in tutta l’area vicino-orientale e di cui gli opifici delle città fenicie sono tra i maggiori produttori. Ispirata dalle massicce importazioni dall’Egitto, dove lo scarabeo sigillare ha la sua origine, la produzione fenicia si fonda su iconografie egiziane, spesso trattate in modo da accentuarne le valenze puramente ornamentali.

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ISPIRATA DALLE MASSICCE IMPORTAZIONI DALL’EGITTO E DESTINATA AI MERCATI INTERNAZIONALI, LA PRODUZIONE DEI SIGILLI A SCARABEO È UNA DELLE ESPRESSIONI PIÚ SIGNIFICATIVE DELL’ARTIGIANATO MINORE

In alto collana con elementi in pasta vitrea, da Ampurias. IV sec. a.C. Girona, Museo Archeologico. A sinistra anello in argento con scarabeo in steatite incastonato in oro, da Cipro. VII-V sec. a.C. New York, The Metropolitan Museum of Art.

greche, che appaiono nelle piú tarde realizzazioni di questo artigianato, confermandone l’«eclettismo» e arricchendone il repertorio iconografico. Un analogo fenomeno, del resto, si verifica anche nell’Occidente allorché, dal VI secolo a.C., il centro di Tharros, in Sardegna, si specializza in questa produzione, introducendo nel repertorio, accanto ai consolidati temi di tradizione fenicia, motivi mutuati dall’ambiente etrusco e dal mondo greco. L’artigianato del vetro è un altro settore in cui i Fenici riescono a imporre i propri prodotti in tutto il bacino del Mediterraneo. In Fenicia, grazie anche alle particolari sabbie del litorale, la fabbricazione del vetro è stata sempre

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LE TERRECOTTE E LA PRODUZIONE MINORE

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agevole, tanto che gli antichi attribuivano proprio ai Fenici l’invenzione di questo prodotto. La pasta vitrea è impiegata anzitutto per la produzione di amuleti che, come i sigilli, si rifanno in genere al repertorio egiziano e sono fabbricati sia per il mercato interno, sia per la diffusione in altre regioni. Accanto agli amuleti vanno poi ricordati i balsamari e i vasetti miniaturistici, caratterizzati da

A destra uovo di struzzo dipinto. Ibiza, Museo Monográfico del Puig des Molins. Nella pagina accanto unguentari in pasta vitrea. Tarda età del Ferro. Haifa, Università di Haifa, Reuben and Edith Hecht Collection Museum. A sinistra statuetta in argilla nota come «Dama di Ibiza», dalla necropoli del Puig des Molins (Ibiza). IV-III sec. a.C. Madrid, Museo Archeologico Nazionale.

un’intensa policromia in cui spiccano i toni del giallo, del blu e del rosso. Si tratta di prodotti che accompagnano tutto l’arco della vicenda fenicia, fino alla piena età romana.

Una produzione ricca e diversificata Qualche osservazione va infine dedicata alla ceramica vascolare. Tra le forme piú tipiche del repertorio fenicio si possono menzionare le brocche a bocca trilobata, quelle con orlo «a fungo», le lucerne a uno o due becchi, i piatti con ombelico centrale e le cosiddette «fiasche da pellegrino», con corpo globulare schiacciato e versatoio a tromba al di sopra di esso. Tra i contenitori commerciali sono da ricordare le grandi anfore con terminazione inferiore a puntale. Quanto alla decorazione, un tratto tipico della ceramica fenicia è l’ingubbiatura (cioè il rivestimento teso ad assicurare ai prodotti ceramici una colorazione e una patina omogenee) in rosso lucidato a stecca, che si ritrova anche nella produzione d’Occidente in tutta l’epoca arcaica. Proprio la presenza di forme ceramiche con questa caratteristica testimonia, in piú di un caso, l’arrivo dei commercianti e dei coloni fenici nei loro nuovi insediamenti del Mediterraneo centro-occidentale tra la fine del IX e il VII secolo a.C.

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LA SCRITTURA

La grande invenzione LA MESSA A PUNTO DI UN ALFABETO CON CUI DARE FORMA SCRITTA ALLA PAROLA FU UN PASSO EPOCALE NELLA STORIA. E, FIN DALL’ANTICHITÀ, QUESTO STRAORDINARIO PRIMATO VENNE UNANIMEMENTE RICONOSCIUTO AI FENICI

L’

invenzione dell’alfabeto, o piú esattamente quella di un sistema di scrittura agile e di facile impiego, è di certo il tratto piú caratterizzante della civiltà fenicia e che le è valso, nell’antichità come ai nostri giorni, la maggiore celebrità. La scrittura fenicia si compone di ventidue segni alfabetici, tutti utilizzati per rappresentare suoni consonantici, ed è un sistema assolutamente coerente (o, come dicono i linguisti, perfettamente fonematico), poiché a ogni segno corrisponde un’unica consonante e ciascun suono può essere rappresentato da un solo segno. Considerate le caratteristiche di tale scrittura, la definizione di «alfabeto», che pure è comunemente utilizzata, rischia di essere largamente approssimativa. Infatti, la mancanza di segni autonomi per indicare le vocali (solo in età tarda verranno introdotte le cosiddette matres lectionis, cioè segni consonantici impiegati per suggerire la presenza di vocali di realizzazione affine, come

In basso iscrizione in lingua fenicia, dal tempio di Eshmun a Sidone. Istanbul, Museo Archeologico.

w per u, y per i, ecc.) fa sí che ogni simbolo grafico possa rappresentare sia una consonante isolata, sia un gruppo consonante+vocale. Cosí, per esempio, il segno b può in teoria essere letto b, ba, bi, bu. Tale sistema costituí una decisiva semplificazione rispetto ai metodi di scrittura affermati in precedenza nel Vicino Oriente. Paragonati alle decine o alle centinaia di segni impiegati dall’egiziano o dal cuneiforme accadico, i ventidue simboli del fenicio costituiscono un’innovazione in grado di

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assicurare un apprendimento di gran lunga piú agevole e dunque una diffusione della scrittura incomparabilmente piú ampia.

Un grande «laboratorio» Ma come e quando nasce la scrittura fenicia? Si può dire che, attorno alla metà del II millennio a.C., l’intera area siro-palestinese appare come un grande «laboratorio» nel quale si susseguono tentativi di creare sistemi grafici piú semplici di quelli già in uso e importati, con le relative lingue, dall’Egitto e dalla Mesopotamia. Tra questi tentativi si segnalano quelli rappresentati da taluni gruppi di iscrizioni ancora indecifrate, come quelle definite rispettivamente «protosinaitiche» e «protocanaanaiche», che si datano tra il XV e l’XI secolo a.C. e che ebbero tuttavia una vita limitata nel tempo, senza giungere forse mai a una completa sistematizzazione. Il primo sistema grafico coerente, in grado di affermarsi compiutamente sulla base dello stesso principio utilizzato dalla scrittura fenicia, è quello attestato a Ugarit dal XIV secolo a.C. Si tratta di un «alfabeto» di ventinove segni

In alto iscrizione del re Yehaumilk che riferisce della ricostruzione di un tempio, da Biblo. X sec. a.C. Beirut, Museo Nazionale. Nella pagina accanto, in alto l’alfabeto fenicio. Le colonne indicano, da sinistra, il nome della lettera, la sua forma nella scrittura fenicio-punica, l’evoluzione nella tarda variante neo-punica, la traslitterazione in caratteri latini e il corrispondente segno dell’alfabeto greco.

consonantici, che utilizza caratteri cuneiformi, evidentemente per gli stretti legami che uniscono la città di Ugarit all’ambiente mesopotamico e hittita, e che è a tutt’oggi la piú antica tra le scritture del II millennio a.C. che sia stata completamente decifrata. Tra la scrittura di Ugarit e quella fenicia intercorrono rapporti evidenti, sia per la forma di alcune lettere, sia per il loro ordine di successione. Tuttavia, poiché non risulta una dipendenza diretta dell’una dall’altra, si può postulare che entrambe abbiano attinto il loro carattere consonantico, per il tramite di una fonte comune che non è al momento individuabile con certezza, dal principio acrofonico della scrittura egiziana. S’intende con principio acrofonico la possibilità d’impiegare un segno per registrare il valore della sua consonante iniziale (per esempio: una casa per indicare la c). Se dunque sull’origine dell’alfabeto fenicio rimane ancora qualche elemento da chiarire, è ormai comprovato che le piú antiche attestazioni di tale scrittura risalgono al XIII secolo a.C. (questa è in particolare la datazione assegnata

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LA SCRITTURA

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Particolare della stele con iscrizione in caratteri fenici che celebra le vittorie del re dello Stato aramaico di Sam’al, in Cilicia. Seconda metà del IX sec. a.C. Berlino, Pergamon Museum.

all’iscrizione fenicia sul sarcofago di Ahiram; vedi foto alle pp. 96-97) e che la sua diffusione fu relativamente rapida: l’alfabeto fenicio venne adottato, senza varianti di rilievo, dagli Aramei, dagl’Israeliti e dai Moabiti (una popolazione della Palestina interna) tra il X e il IX secolo a.C.

«Questi Fenici...» Attorno alla fine di questo periodo dovrebbe essere avvenuta la trasmissione dell’alfabeto al mondo ellenico ed è interessante notare che già gli antichi scrittori greci furono consci del fatto che la loro scrittura dipendeva da quella fenicia. Valga per tutte la testimonianza di Erodoto, che in un noto passo dichiara: «Questi Fenici (...) introdussero presso i Greci, tra le molte altre conoscenze (...), anche l’alfabeto che precedentemente, come credo, i Greci non possedevano». L’adozione dell’alfabeto fenicio da parte dei Greci, che vi aggiunsero i segni per indicare le vocali, segna l’inizio di un’amplissima diffusione della scrittura, che Fenici e Greci provvedono parallelamente a introdurre nell’Occidente mediterraneo. A prescindere dai secondari sviluppi connessi con l’affermazione degli alfabeti etrusco e latino, improntati a quello greco, si può notare che la scrittura fenicia conosce in Occidente un lunghissimo periodo di attestazione giungendo, nella forma evoluta del neo-punico, fino al III secolo d.C. Malgrado ciò, nella tarda antichità e nel Medioevo la scrittura fenicia cadde in completo oblio e non si fu piú in grado di interpretarne i segni, sicché nell’età moderna se ne è dovuta affrontare una vera e propria decifrazione portata a compimento nel 1761 da un epigrafista francese, l’abate Jean-Jacques Barthélemy. E cosí lo strumento che aveva contribuito in maniera tanto determinante alla diffusione della cultura in Occidente tornava a rivivere grazie all’opera di studiosi occidentali, a tremila anni di distanza dall’epoca in cui era stato inventato.

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L’EREDITÀ

Bronzetto raffigurante un suonatore di lira, da Monte Sirai. VI sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

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Il popolo della stella I DEBITI NEI CONFRONTI DELLA CIVILTÀ FENICIA SPAZIANO IN MOLTEPLICI CAMPI DEL SAPERE. A CONFERMA DI UN DINAMISMO INTELLETTUALE DA CUI SCATURIRONO SCOPERTE E INVENZIONI DI RILIEVO ECCEZIONALE

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na civiltà come quella fenicia, sviluppatasi in larga misura fuori della sua sede originaria e tesa per necessità e per scelta al rapporto con altre genti, ha assorbito dagli ambienti con cui è venuta a contatto suggestioni, idee, costumanze religiose che sono divenute poco a poco parte integrante della propria cultura. Abbiamo posto l’accento, di volta in volta, sugli apporti che alla civiltà fenicia sono giunti dalla valle del Nilo, dal mondo mesopotamico e da quello greco. Questi apporti ne fanno, soprattutto nel campo artistico, ma non soltanto, un singolare crogiuolo in cui si fondono e si rielaborano esperienze molteplici, mai passivamente accolte come patrimonio immutabile, ma al contrario sempre rivissute in modo autonomo e adattate alle diverse esigenze di cui i Fenici, in patria e altrove, sono portatori e interpreti. Per questo, negli studi sul mondo fenicio,

Cartagine. I resti delle terme di Antonino, costruite fra il 145 e il 162 d.C.

si pone costantemente in rilievo la funzione che, rispetto a questa civiltà, ebbero i «sostrati» e gli «astrati», cioè rispettivamente le culture già insediate nelle aree in cui i Fenici vissero o si trasferirono e quelle che li affiancarono sia in patria, sia nella diaspora in Occidente. V’è però un altro, non meno importante aspetto da sottolineare, ed è quello costituito dai durevoli contributi che i Fenici, nel loro prodigioso processo di espansione, fornirono alle genti con cui vennero a contatto e all’intera cultura mediterranea. In genere s’individua nella trasmissione dell’alfabeto al mondo greco il dato in questo senso piú rilevante; talora vi si aggiunge l’apporto di un’avanzata tecnologia per ciò che concerne la navigazione. Già nell’antichità, infatti, si attribuiva ai Fenici l’invenzione della trireme e si apprezzava la loro capacità di navigare orientandosi con le stelle. Non a caso la stella polare era chiamata dai Greci «fenicia». A questi elementi è ora possibile aggiungerne altri, la cui affermazione in

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L’EREDITÀ

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L’incontro fra Didone ed Enea, olio su tela di Nathaniel Dance-Holland. 1766. Londra, Tate Britain.

ambito mediterraneo è ugualmente dovuta all’azione decisiva delle genti fenicie. Si deve anzitutto osservare che, trasferendosi in Nord Africa, nelle maggiori isole italiane, nella Penisola iberica, i Fenici diedero vita a grandi insediamenti (che non sempre possono effigiarsi del titolo di «città») in aree che non avevano sedimentato quel fondamentale fenomeno della storia vicino-orientale noto come «rivoluzione urbana».

Un contributo decisivo e durevole L’arrivo dei Fenici fu ovunque contrassegnato dalla creazione di centri urbani che ricalcavano le strutture degli insediamenti della madrepatria orientale e che esercitavano una funzione di attrazione e di modello sulle popolazioni indigene. Insomma, l’avvio dell’esperienza urbana e la sua stessa prosecuzione al di fuori degli agglomerati fondati dai Fenici è un decisivo e durevole contributo che questi hanno recato all’antica cultura mediterranea. In secondo luogo, proprio in ambito fenicio, attraverso l’azione di una colonia resasi indipendente, Cartagine, nasce nell’Occidente mediterraneo la prima estesa forma di Stato territoriale in grado di superare gli angusti limiti cittadini. Quando, alla fine del VI secolo a.C., Cartagine assume l’egemonia sul mondo coloniale fenicio, essa è a capo della piú grande compagine politica del Mediterraneo centrooccidentale e per la prima volta ripropone in quest’area le forme articolate di un potere statale che, come i grandi imperi d’Oriente, controlla genti e regioni assai diverse. Si può in conclusione affermare che, quando il confronto con Roma pone fine all’esistenza autonoma dello Stato di Cartagine e dunque alle strutture politiche delle genti fenicie d’Occidente, queste sono già riuscite, nel corso di lunghi secoli, a trasmettere e far radicare in molte regioni del Mediterraneo un patrimonio di cultura che rimarrà fondamento comune dell’intera civiltà sorta sulle rive di questo mare.

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AUGUSTO

I Fenici in vetrina IL MUSEO NAZIONALE DI BEIRUT È IL LUOGO IDEALE IN CUI RIPERCORRERE LA STRAORDINARIA PARABOLA DEI FENICI. QUI, INFATTI, SI CONCENTRANO MOLTI DEI MASSIMI CAPOLAVORI PRODOTTI DAI LORO ARTISTI E ARTIGIANI di Mauro Pompili

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on la modernissima Bank Street, che si snoda tra le rovine delle terme romane e il Gran Serraglio, il campanile della cattedrale di S. Giorgio, che rivaleggia in altezza con i minareti della contigua moschea di al-Amin – e l’elenco potrebbe continuare a lungo – Beirut è l’immagine delle contraddizioni del Libano. Contrasti architettonici che raccontano le divisioni culturali, politiche e religiose che hanno fatto la ricchezza e la storia, spesso dolorosa, di questo Paese. Nel cuore della capitale c’è però un luogo in cui si riesce a trovare un filo conduttore che tiene insieme questa straordinaria avventura: il Museo Nazionale. Qui sono conservate le testimonianze di una storia iniziata su questa

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sponda del Mediterraneo piú di centinaia di migliaia di anni fa e non ancora conclusa. Sulle coste e sulle montagne libanesi hanno vissuto, si sono incontrate e si sono date battaglia le civiltà del mondo antico, le culture e le religioni del Medioevo e le potenze mondiali dell’età moderna. La visita al Museo è un viaggio lungo la storia della civiltà umana. Dai primi semplici attrezzi in pietra, realizzati nel Paleolitico dai nostri antenati che si erano stabiliti qui grazie al clima mediterraneo, allo splendore opulento dell’età ottomana. Il grande edificio del Museo Nazionale, che ricorda le architetture dell’antico Egitto, accoglie il visitatore con un’ampia scalinata, che sembra avere l’effetto di una macchina del tempo: fuori il caos frenetico di una metropoli

In alto Veduta di Beirut, capitale del Libano dal 1920. La città si affaccia sul Mar Mediterraneo da un ampio promontorio ai piedi degli ultimi contrafforti della catena del Libano. Tutte le foto del capitolo illustrano l’allestimento e le opere del Museo Nazionale di Beirut.


mediorientale, all’interno un’oasi di silenzio e di bellezza. Appena entrati, l’attenzione viene catturata dal grande, e molto ben conservato, mosaico di Calliope e i sette saggi. Nel III secolo d.C. decorava la sala da pranzo di una villa romana a Baalbek, nel Nord del Paese, e raffigura appunto la musa della filosofia circondata da Socrate e sette dei filosofi piú autorevoli della Grecia antica. Distolto lo sguardo dalla grande composizione, ci si accorge che l’intero piano terra del Museo è dedicato a statue, sarcofagi e mosaici, alcuni davvero monumentali. Vicino al mosaico di Calliope sono esposte varie statue della stessa epoca, tra cui risulta

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In alto, a sinistra la facciata del Museo, ispirata all’architettura dell’antico Egitto. Qui sopra veduta del piano terra del Museo, nel quale sono collocate opere di epoca romana e bizantina. A sinistra cartina di Beirut con l’indicazione di alcuni dei siti di maggior interesse, fra cui il Museo Nazionale.

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IL MUSEO NAZIONALE DI BEIRUT

particolarmente affascinante quella, purtroppo senza testa, dell’imperatore Adriano, trovata a Tiro. Ai lati della sala centrale si trovano quattro sarcofagi romani del II secolo d.C., che sono tra i reperti piú interessanti esposti in questa parte del Museo. Provengono dalla necropoli di Tiro e sono riccamente decorati, uno con amorini ubriachi, mentre su un altro si trovano scene di battaglia e gli ultimi due raccontano la leggenda di Achille. Molta parte del piano terra è dedicata alle opere del I millennio a.C. Vari reperti fanno riferimento a Eshmun (Esculapio), dio fenicio della guarigione, il cui tempio è ancora visibile nei pressi di Sidone, nel Sud del Libano. Da lí proviene la tribuna in marmo (IV secolo a.C.), decorata con immagini di alcune divinità e figure danzanti. Qui ci sono anche diverse statue di neonati, soprattutto maschi,

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commissionate da aristocratici genitori di Sidone come ex voto per Eshmun, per ringraziarlo di aver salvato i loro figli. Nella stanza accanto la splendida statua di Igea, la dea della salute, trovata a Biblo e risalente al II secolo d.C.

Il culto di Astarte A sinistra della sala centrale ci sono un altare monumentale e altri sei piú piccoli dedicati alla dea Astarte (Venere). Protetti da sfingi alate, provengono da vari siti in Libano e risalgono all’epoca persiana e romana. L’imponente colosso di calcare in stile egiziano, all’estrema sinistra della sala, è stato trovato a Biblo e dimostra la continua influenza dell’Egitto sulla città portuale libanese durante il I millennio a.C. La fattura non è particolarmente pregiata, ma racconta una parte della sua storia: le tracce di bruciatura sulla metà inferiore

A sinistra la sala del Museo che custodisce il sarcofago fenicio che, su uno dei lati corti della vasca, raffigura una nave, da Sidone. II sec. d.C. A destra sarcofagi antropoidi della Collezione Ford.



IL MUSEO NAZIONALE DI BEIRUT

narrano del suo coinvolgimento in un incendio. Nella stessa sala si trova un sarcofago in marmo con iscrizioni fenicie, scoperto a Biblo, databile al IV secolo a.C. Tuttavia, il capolavoro piú importante conservato nel Museo Nazionale è senza dubbio il sarcofago del re Ahiram di Biblo, che riporta la piú antica iscrizione in caratteri fenici a oggi nota (vedi foto alle pp. 96-97). Il sarcofago si distingue per l’importanza dei rilievi e per l’iscrizione. Come dice il testo, appartenne ad Ahiram, re di Biblo, e conteneva vasi con il nome di Ramesse II e oggetti d’avorio con decorazione ispirata all’arte micenea. I rilievi che coprono la superficie del coperchio e della cassa sono fra i piú importanti dell’arte fenicia e raffigurano Ahiram seduto in trono fiancheggiato da sfingi davanti a una tavola carica di cibi, mentre riceve gli omaggi e le offerte di una lunga fila di uomini e di donne. Il sarcofago fa corpo unico con quattro leoni

Figurine in terracotta e matrici per la loro realizzazione.

che lo sostengono. Tornando all’iscrizione, incisa sul coperchio e sulla cassa in quell’alfabeto fenicio che fu il prototipo di tutti i successivi alfabeti, essa ci informa che il sarcofago venne realizzato appunto per Ahiram, re di Biblo, dal figlio Ittobaal e formula molte minacce per qualsiasi re o governatore che voglia violarlo. Purtroppo, l’anatema sulla tomba di Ahiram non è bastato a proteggere le opere del Museo durante la lunga guerra civile libanese. Lo testimonia il bellissimo mosaico del Buon Pastore, del V o VI secolo d.C., che mostra ancora il foro praticato da un cecchino per posizionare la sua arma e colpire rimanendo al coperto. «Non abbiamo voluto ripararlo e nascondere i danni della guerra e dell’occupazione del Museo da parte delle varie milizie. Non abbiamo voluto cancellare la memoria della distruzione», ha detto Isabelle Skaf, la restauratrice che al termine del conflitto si è occupata dei mosaici del Museo.

Una continua ricerca del bello La ricchezza delle collezioni del Museo Nazionale di Beirut si apprezza pienamente salendo l’ampio scalone che conduce al secondo piano. Si lascia, cosí, la galleria delle grandi statue, dei sarcofagi e dei mosaici e si entra nel regno delle forme d’arte piú raffinate che la storia dell’umanità abbia creato nel corso dei millenni. Passeggiando tra le teche il cammino della storia sembra rallentare. Le ceramiche, i gioielli e gli oggetti di vetro soffiato mostrano una continua ricerca del bello. Le collezioni si susseguono cronologicamente, dalla preistoria alla conquista araba e al periodo ottomano. Reperti preistorici e protostorici, risalenti al Paleolitico, provengono soprattutto dalle grotte di Abou Halka e dal riparo di Ksar Akil, mentre gli scavi di Biblo hanno restituito numerosi oggetti, armi, strumenti, vasi e sculture databili al Neolitico. Dallo stesso luogo provengono giare, scheletri, vasi, armi e oggetti di abbigliamento, di cui alcuni in oro e soprattutto in argento. Si possono quindi

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collezioni di gioielli. Le collane dell’età del Bronzo e gli ornamenti d’oro del V secolo a.C. potrebbero figurare nelle vetrine di una moderna gioielleria. Il tesoro dell’epoca bizantina, trovato in un vaso di creta a Beirut, è ricco e composito. Di ottima fattura e qualità sono anelli, bracciali con teste di animali, pendenti ornati con pietre semi-preziose e dure e orecchini. Monili altrettanto belli risalgono al periodo mamelucco (1289-1516). Da Sidone provengono gioielli ritrovati in tombe di epoca persiana: realizzati in oro, con pietre preziose e smalti, sono decorati a filigrana. Appartengono invece a corredi rinvenuti in tombe di età romana maschere funerarie, orecchini, anelli e braccialetti. ammirare vasi dell’età del Bronzo Tardo trovati a Kamid el-Loz, nella Valle della Bekaa, ceramiche funerarie dell’età del Ferro recuperate a Khalde, a sud di Beirut, splendide ceramiche romane e islamiche, nonché un vasto assortimento di oggetti in avorio provenienti anch’essi da Kamid el-Loz. Come si può constatare, molti di questi tesori provengono da Biblo, a nord di Beirut. Porto fondamentale del Mediterraneo antico, è stata una delle piú importanti città fenicie e intrattenne stretti rapporti economici con l’Egitto già dal II millennio a.C. Nelle sue tombe reali sono stati ritrovati, e sono ora esposti nel Museo, diademi, corone, pettorali, scettri e pugnali in oro cesellato. Uno splendido vaso di ossidiana e una cassetta riccamente ornata sono doni dei faraoni Amenemhat II e IV. Dal Tempio degli Obelischi provengono asce lavorate in avorio, oro e bronzo, un vaso e un pugnale in oro, argento e avorio. Lo stesso santuario ha restituito le statuette in bronzo, rivestite con lamine d’oro, che sono diventate il simbolo della lunga storia del Paese. Si tratta di un gruppo di piccole sculture a carattere votivo, che ritraggono figure maschili nude, con un copricapo conico che ricorda la corona egiziana, a conferma della stretta relazione tra l’Egitto e Biblo. Per bellezza e modernità si resta senza fiato davanti alle bacheche che conservano le

Cratere di tipo cipriota con decorazione zoomorfa, da Khalde. Età del Ferro II.

Il colore che viene dal mare Di particolare interesse sono anche due piccoli frammenti di tessuti tinti con la porpora ricavata dalla secrezione del Murex (un mollusco di colore giallo o grigiastro dotato di una conchiglia di forma oblunga), testimoni dell’antica industria che contribuí, insieme all’arte del vetro – molto presente nelle teche del Museo –, a fare la fortuna del popolo fenicio nell’antichità. Al termine del percorso si è scelto di esporre alcuni oggetti danneggiati durante la guerra civile. Masse di vetro fuso, pietre annerite e metalli contorti riescono a dare un’idea degli effetti devastanti del conflitto sul patrimonio libanese e dell’enorme sforzo per il recupero e il restauro portato avanti da centinaia di specialisti. Nel piccolo bookshop del Museo si possono trovare souvenir e qualche volume interessante. Vale, però, la pena acquistare il DVD del documentario che racconta come gli uomini e le donne del Museo, negli anni bui della guerra hanno difeso il patrimonio che era sotto la loro tutela. È emozionante vedere letteralmente rinascere dalle protezioni in cemento il sarcofago del re Ahiram o il mosaico di Calliope. Un segno di speranza in un momento storico segnato piú dalla voglia di distruggere il passato che dall’amore per la storia, la bellezza e la cultura.

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BIBLIOGRAFIA

Per saperne di piú C oerentemente all’impostazione data al capitolo introduttivo di questa Monografia (vedi alle pp. 8-31), si indicano di seguito alcune opere in grado di approfondire i temi nei quali si è registrato un accrescimento delle conoscenze o sono stati analizzati nuovi aspetti tematici. Un panorama complessivo della civiltà fenicia, ancora sostanzialmente aggiornato, è nel volume di Sandro F. Bondí, Massimo Botto, Giuseppe Garbati e Ida Oggiano, Fenici e Cartaginesi. Una civiltà mediterranea, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2009. Sulle vicente storiche dei Fenici in Oriente è utile consultare Josette Elayi, Histoire de la Phénicie, Perrin, Parigi 2013. Sul tema dell’identità si veda Josephine Crawley Quinn, Nicholas C.Vella (a cura di), The Punic Mediterranean. Identities and Identification from Phoenician Settlement to Roman Rule, Cambridge University Press, Cambridge-Roma 2014, e, su scala piú ampia, includente sia il Vicino Oriente sia varie componenti mediterranee, Giuseppe

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Garbati, Tatiana Pedrazzi (a cura di), Transformations and Crisis in the Mediterranean. «Identity» and Interculturality in the Levant and Phoenician West during the 12th-8th Centuries BCE, Fabrizio Serra Editore, Roma 2015. Per le ricerche sui piú antichi tempi dell’espansione fenicia, per le quali non è possibile dare conto delle numerose pubblicazioni apparse di recente, si veda per il Nord Africa José Luis López Castro et al., La colonización fenicia inicial en el Mediterráneo central: nuovas excavaciones arqueológicas en Utica (Túnez), in Trabajos de Prehistoria, 73 (2016), pp. 68-89. Per la costa meridionale della Spagna Massimo Botto (a cura di), Los Fenicios en la Bahía de Cádiz. Nuevas investigaciones, Fabrizio Serra Editore, Roma 2014. Sulla questione del tofet la piú ampia e aggiornata sintesi è in Paolo Xella, «Tophet». An Overall Interpratation, in Studi Epigrafici e Linguistici, 29-30 (20122013), pp. 259-281.


Piú in generale, indichiamo qui di seguito i piú importanti titoli ancora oggi validi per approfondire i principali temi affrontati nell’opera: Donald Harden, I Fenici, Milano, Il Saggiatore 1964; AA.VV., I Fenici (catalogo della mostra, Venezia, Palazzo Grassi) Bompiani, Milano 1988; Sabatino Moscati, I Fenici e Cartagine, Torino, UTET, 1972; Maurice Chéhab, André Parrot, Sabatino Moscati, I Fenici, Milano, Rizzoli, 1976; Sabatino Moscati, Il mondo dei Fenici, 2a edizione, Milano, Mondadori, 1979; Giovanna Chiera, I Fenici. Mercanti e avventurieri dell’antichità, Newton Compton, Roma 1979; Giovanni Garbini, I Fenici. Storia e religione, Istituto Universitario Orientale, Napoli 1980; Sabatino Moscati, L’enigma dei Fenici, Mondadori, Milano 1982; Sabatino Moscati, Chi furono i Fenici, SEI, Torino 1992; e Michel Gras, Pierre Rouillard, Javier Teixidor, L’universo fenicio, Einaudi, Torino 2000. Sulla produzione artigianale e i suoi rapporti con l’irradiazione coloniale: Sabatino Moscati, La bottega del mercante. Artigianato e commercio fenicio lungo le sponde del Mediterraneo, SEI, Torino 1996. Sul Nord Africa si veda principalmente: Sabatino Moscati, Introduzione

alle guerre puniche, SEI, Torino 1994. Tra le opere di autori stranieri accessibili in lingua italiana, si può consultare utilmente Azedine Beschaouch, Cartagine. La leggenda ritrovata, Universale Electa/Gallimard 1994. Quanto alla presenza fenicia nella Penisola Iberica, non si può fare a meno di citare, benché in lingua spagnola, l’eccellente lavoro di María Eugenia Aubet, Tiro y las colonias fenicias de Occidente, Crítica, Barcelona 1994. Su Cartagine: Brian Herbert Warmington, Storia di Cartagine, Einaudi, Torino 1968; Enrico Acquaro, Cartagine: un impero sul Mediterraneo, Newton Compton, Roma 1978; Enrico Acquaro, Cartagine, la nemica di Roma, Newton Compton, Roma 1979. Sulla vita quotidiana: Gilbert e Colette Charles-Picard, I Cartaginesi al tempo di Annibale, Il Saggiatore, Milano 1962. Annibale: Gilbert Charles Picard, Annibale, il sogno di un impero, Casini, Roma 1968; Gianni Granzotto, Annibale, Mondadori Milano 1980. Sull’arte: Sabatino Moscati, Il mondo punico, UTET, Torino 1980. Sul mondo delle colonie: Sabatino Moscati, Italia punica, Rusconi, Milano 1986; Ferruccio Barreca, La Sardegna fenicia e punica, 2a ed., Chiarella, Sassari 1979.

Resti di strutture facenti parte del porto di Biblo (Libano).


MONOGRAFIE

n. 30 aprile/maggio 2019 Registrazione al Tribunale di Milano n. 467 del 06/09/2007 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 – 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Davide Tesei Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it Gli autori: Sandro Filippo Bondí è stato professore di archeologia fenicio-punica nell’Università della Tuscia di Viterbo. Mauro Pompili è giornalista. Illustrazioni e immagini: DeA Picture Library: pp. 53 (alto), 80; A. Dagli Orti: copertina (e p. 55, basso) e pp. 45, 47, 54 (basso); G. Dagli Orti: pp. 38, 59, 68/69, 102; G. Nimatallah: pp. 48, 67; C. Bevilacqua: p. 118 – Mondadori Portfolio: pp. 108-109, 110 (basso); AKG Images: pp. 8/9 (sinistra), 12 (alto), 13, 40/41, 46/47, 56-57, 61 (destra), 64/65, 84-85, 91, 93, 98-99, 103 (basso), 110 (alto), 115; The Art Archive: pp. 10/11: Werner Forman Archive/British Museum, London/Heritage Images: p. 35; Erich Lessing/ Album: pp. 39 (alto), 40, 43, 58, 70-71, 77, 82-83, 86-87, 95, 101, 104/105, 106 (alto), 106/107, 112, 114; CM Dixon/Heritage Images: pp. 42 (alto), 49, 104; Album/ Metropolitan Museum of Art, New York: pp. 44, 53 (basso), 100 (basso), 111 (basso); Ashmolean Museum/University of Oxford: pp. 50/51; Album/Oronoz: pp. 54 (alto) e 55 (alto), 113 (basso); Electa/Bruno Balestrini: pp. 79, 103 (alto); Age: p. 90; Album/Quintlox: p. 100 (alto); Album/Prisma: pp. 106 (basso) e 107 (basso), 111 (alto); Album/ASF: p. 113 (alto); Album: pp. 120/121 – MODIS Rapid Response: pp. 8/9 (destra) – Doc. red.: pp. 12 (basso), 14, 14/15, 16, 18, 19, 20-21, 22, 28, 29 (alto, a destra, e basso), 3637, 39 (basso), 62-63, 72 (alto, a destra), 73 (a destra), 74-75, 80/81, 88-89, 92, 96-97, 122, 123 (alto, a sinistra e a destra), 124-127 – Alamy Stock Photo: PM Photos: p. 15 – Shutterstock: pp. 16/17, 22/23, 29 (alto, a sinistra), 34/35, 60 (alto) 68, 78/79, 116/117, 119 – Cortesia «Sapienza» Università di Roma/Missione Archeologica a Mozia: pp. 24-25 – da: «Archeo» n. 379, settembre 2016: Gianni Alvito, Teravista: pp. 26/27, 27 (basso); Martina Zinni: p. 27 (alto) – Andreas M. Steiner: pp. 30/31 – Marka: Fotosearch LBRF: pp. 32/33 – Archivi Alinari, Firenze: RMN-Grand Palais (Musée du Louvre)/Franck Raux: p. 42 (basso); Musée du Louvre, Dist. RMN-Grand Palais/Thierry Ollivier: p. 76 (destra); Musée du Louvre, Dist. RMN-Grand Palais/Christian Larrieu: p. 94 – Getty Images: Dorling Kindersley: pp. 52, 54/55 – Israel Antiquities Authority: Warhaftig Venezian Studio: p. 60 (basso) – Tel Dor Expedition/Israel Museum: Ardon Bar-Hama: p. 61 (sinistra) – da: «Archeo» n. 361, marzo 2015: da Cádiz y Huelva. Puertos fenicios del Atlántico, Madrid 2010: p. 72 (alto, a sinistra); da Gadir-Gades. Nueva perspectiva interdisciplinar, Sevilla 2004: p. 72 (alto, al centro); cortesia J.-Ma. Gener Basallote-Gesdata, S.L.-OCE.ps/Vitelsa: p. 72 (basso); cortesia Ayuntamiento de Cádiz/J.-Ma. Gener Basallote: p. 73 (basso) – Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma: p. 76 (centro) – Cippigraphix: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 6/7, 13, 66, 123. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. In copertina: maschera ghignante in terracotta, da San Sperate (Cagliari). VI-V sec. a.C. Cagliari, Museo Archeologico Nazionale.

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