Medioevo n. 322, Novembre 2023

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MEDIOEVO n. 322 NOVEMBRE 2023

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FRANCESCO Mens. Anno 27 numero 322 Novembre 2023 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UN SANTO PER IL MONDO DI OGGI?

VERCELLI STORIE DI UN ANTICO OSPEDALE

DOSSIER QUANDO SI SCRIVE LA STORIA

TRECENTONOVELLE QUELLE DONNE ASTUTE E VOLITIVE

COSTUME E SOCIETÀ ZINGARI. GENTE MISTERIOSA

UOMINI E SAPORI UN PESCE PER TUTTE LE STAGIONI

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EFFETTO

IN EDICOLA IL 3 NOVEMBRE 2023



SOMMARIO

Novembre 2023 ANTEPRIMA

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IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Splendori lombardi

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RECUPERI Un albero tutto d’oro

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE VERCELLI S. Andrea Quel cardinale cosmopolita e benemerito di Gianna Baucero

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Dossier

CRONACHE Scrivere di storia, uomini ed eventi di Marino Zabbia

ZINGARI Senza nome e senza patria di Erberto Petoia

MOSTRE Germania Effetto Francesco

a cura della redazione, con contributi di Christoph Kürzeder e Lidia Carrion 36

COSTUME E SOCIETÀ IL TRECENTONOVELLE DI FRANCO SACCHETTI/10 Prove tecniche di femminismo di Corrado Occhipinti Confalonieri

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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI Il merluzzo e il suo doppio di Sergio G. Grasso 100 QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI Il Vangelo come scudo di Paolo Pinti 108 LIBRI Lo Scaffale

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MEDIOEVO Anno XXVII, n. 322 - novembre 2023 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Gianna Baucero è scrittrice. Lidia Carrion è amministratore delegato di SLCP-Swiss Lab for Culture Projects. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Christoph Kürzeder è direttore del Museo Diocesano di Frisinga. Chiara Mercuri è docente presso l’Istituto Teologico di Assisi. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Erberto Petoia è antropologo. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Marino Zabbia è professore associato di storia medievale all’Università degli Studi di Torino. Illustrazioni e immagini: Diözesanmuseum Freising: Christian Schmid: copertina (e p. 36) e pp. 43, 44,45, 46 (basso), 47, 48, 50; Thomas Dashuber: pp. 38, 39 (alto), 40, 41, 45 (alto) – Cortesia Ufficio Stampa Museo Poldi Pezzoli, Milano: pp. 6-9 – Cortesia Ufficio Stampa Opificio delle Pietre Dure/Studio ESSECI: pp. 10, 11 (centro); Opificio delle Pietre Dure, Pino Zicarelli: p. 11 (alto e basso); Opificio delle Pietre Dure, Cristian Ceccanti: p. 12 – Alamy Stock Photo: pp. 20/21, 48/49 – Archivio di Stato di Vercelli: pp. 22, 29, 31 (alto) – Cortesia degli autori: pp. 23, 25, 27, 28/29, 32 (alto), 33, 34-35, 108110 – Cortesia ASL 45 Vercelli: A. Cherchi: p. 26 – Doc. red.: pp. 30, 31 (basso), 32 (basso), 39 (centro e basso), 58-61, 64-67, 68, 70/71, 72-77, 79, 80-85, 90-95, 96, 103, 105 – Dall’Archivio personale di Franco Zeffirelli, conservato presso la Fondazione Zeffirelli, Firenze: pp. 37, 42, 46 (alto) – Mondadori Portfolio: Album: pp. 54/55; AKG Images: p. 56-57, 104; Fototeca Gilardi: p. 62; Veneranda Biblioteca Ambrosiana: p. 86; Electa/Antonio Quattrone: p. 87; Album/Oronoz: pp. 88/89; Album/ Prisma: pp. 98/99, 102 – Staatliche Museen zu Berlin, Gemäldegalerie: Jörg P. Anders: p. 63 – Shutterstock: pp. 96/97, 100/101, 106 – Cippigraphix: cartina a p. 39 – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 69, 71. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 49572016 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Servizio Arretrati a cura di Press-Di Distribuzione Stampa e Multimedia Srl 20090 Segrate (MI) I clienti privati possono richiedere copie degli arretrati tramite e-mail agli indirizzi: collez@mondadori.it e arretrati@mondadori.it Per le edicole e i distributori è inoltre disponibile il sito https://arretrati. pressdi.it In copertina ricostruzione grafica della figura di san Francesco d’Assisi, ispirata al dossale d’altare su tavola lignea di Bonaventura Berlinghieri (1235) conservato a Pescia, nella chiesa di S. Francesco.

Prossimamente costume e società

medioevo nascosto

dossier

La leggenda di Babbo Natale

San Polo di Piave

Venezia nell’età di Mezzo



il medioevo in

rima

agina

Splendori lombardi

MUSEI • Il Poldi Pezzoli, una delle piú prestigiose raccolte milanesi, ha svelato il

nuovo allestimento delle sale dedicate ai maestri della pittura lombarda. Riunendo opere che ne documentano l’evoluzione fra Quattro e Cinquecento

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l Museo Poldi Pezzoli di Milano ha inaugurato il nuovo allestimento delle sale dedicate alla pittura rinascimentale lombarda, in una nuova veste. Come già per l’illuminazione dello Scalone Antico, inaugurata nello scorso luglio, questa scelta progettuale è stata guidata da due obiettivi fondamentali: valorizzare la collezione del museo e coinvolgere il visitatore per migliorare la sua esperienza di visita, permettendo cosí la riscoperta di un’identità e di un rapporto sempre piú forte con la città. «Il progetto – ha dichiarato la direttrice della raccolta, Alessandra Quarto – è nato da esi-

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genze diverse: l’ascolto del pubblico e il necessario rinnovamento di alcune sale. L’osservatorio sul pubblico avviato a gennaio, in collaborazione con l’Università IULM, e concluso a maggio, ha rilevato la necessità di aggiornare l’ordinamento delle opere che in alcune sale si presentava eccessivamente fitto e di difficile lettura, di ammodernare il sistema di illuminazione permettendo una visione chiara e una maggiore godibilità dei dipinti». Le tre sale che ospitano la pittura lombarda del Rinascimento – con capolavori di Boltraffio, Solario, Luini, Foppa, Bergognone, Zena-

Opere di maestri lombardi nel Museo Poldi Pezzoli, a Milano. A sinistra, l’Ecce homo di Andrea Solario, 1505; a destra, una Madonna con Bambino di Giovanni Antonio Boltraffio, 1485-1490 circa.

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Immagini del nuovo allestimento delle sale del Museo Poldi Pezzoli dedicate alla pittura lombarda. le – sono state ripensate in termini di riordino delle opere, nuova illuminazione, colore alle pareti, cornici, didascalie piú leggibili, pannelli di sala piú esplicativi con QR code per garantire un supporto costante al pubblico e guidarlo durante la visita. È stata introdotta, come primo esperimento per orientare il visitatore, una segnaletica nuova, in linea con le mappe presentate a luglio, che invitano le persone a esplorare il Museo in libertà. Le tre sale, che si aprono al visitatore dopo aver percorso lo Scalone antico, nell’Ottocento costituivano un unico ambiente che ospitava la biblioteca di Gian Giacomo Poldi Pezzoli. La decorazione andò definitivamente distrutta nei bombardamenti del 1943. Nella Guida per il visitatore del 1902 a cura di Mariano Viganò questo ambiente è denominato Sala Verde e rimase tale fino alla seconda guerra mondiale; era infatti citata in questo modo anche nella Guida a cura di Antonio Morassi del 1932 e in quella a cura di Fernanda Wittgens del 1937. Riallestite negli anni Settanta del Novecento con rifiniture molto diverse rispetto agli ambienti storici, le sale dei Lombardi apparivano «slegate» rispetto al percorso, non possedendo le caratteristiche architettoniche che contraddistinguono gli ambienti della casa museo.

Un racconto unitario Il progetto attuale ha cercato di recuperare proprio quell’allure, cosí da ridare continuità alla narrazione, in linea con gli altri ambienti, in modo da immergere i visitatori nella scoperta di un racconto unitario, senza fratture, dedicato alla casa del fondatore, alla sua collezione. Il riallestimento nasce dall’analisi della documentazione archivistica e fotografica che ha permesso di indagare l’ambientazione storica delle sale, le cornici delle opere, gli arredi e i colori delle pareti. Il rinnovato ordinamento delle opere è stato curato da Lavinia Galli e Federica Manoli del Museo Poldi Pezzoli e da Stefania Buganza, docente di storia dell’arte medievale e storia dell’arte lombarda dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Queste sale contengono forse la collezione piú ricca e omogenea di pittura del museo, per cui è possibile narrare la storia dell’evoluzione dell’arte lombarda dal 1450 al 1535 attraverso i suoi protagonisti con una selezione di pezzi

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«Ad uso e beneficio del pubblico» Gian Giacomo Poldi Pezzoli nasce a Milano, il 27 luglio 1822, da Giuseppe Poldi Pezzoli (1768-1833), il quale, nel 1818, aveva ereditato l’enorme patrimonio della famiglia Pezzoli, accumulato grazie all’appalto delle tasse per il governo austriaco. Alla morte del padre, Gian Giacomo ha undici anni e la madre si assume la responsabilità della sua educazione, mentre coltiva l’amicizia di artisti e letterati. Nel 1846, divenuto maggiorenne, eredita i beni paterni. Patriota, sostiene i moti risorgimentali del 1848 e, dopo le repressioni austriache, viene esiliato. Si rifugia a Lugano quindi viaggia in Francia e a Firenze. Svizzera, Francia e Inghilterra sono per lui occasione di incontro con gli sviluppi del collezionismo internazionale; sono inoltre questi gli anni in cui a Londra si organizza la prima Esposizione Universale, e a Parigi si inaugura il Museo di Cluny dedicato alle arti decorative in una cornice gotica. Di ritorno a Milano, nel 1849 Gian Giacomo avvia il suo progetto di una collezione d’arte italiana e di realizzazione della sua casamuseo. La prima passione di Gian Giacomo sono le armi eccezionali. Si è quindi deciso di privilegiare un racconto dell’evoluzione dello stile, accostando dipinti degli stessi autori (per esempio avvicinando le opere di Bergognone, Luini e Solario prima esposti in sale diverse) e distribuendo le opere in modo da scandire in maniera piú rigorosa la cronologia. La narrazione, in questo modo, guida i visitatori attraverso la storia di Milano e della Lombardia sotto gli Sforza, raccontando la vita di una delle piú splendide corti d’Europa. La selezione delle opere da esporre ha privilegiato la qualità, lo stato di conservazione e una buona visibilità delle stesse. Sono stati collocati in deposito quei dipinti in attesa

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antiche, che acquista in gran numero tra il 1846 e il 1850 creando un’armeria. Dal 1850 comincia ad acquistare dipinti del Rinascimento lombardo, veneto e toscano, alcuni di straordinario valore. Di pari passo con la collezione, Gian Giacomo si occupa dell’allestimento del suo appartamento, affidato ai piú acclamati artisti-decoratori del momento, Giuseppe Bertini e Luigi Scrosati. Il risultato è una sequenza di ambienti ispirati a diversi stili del passato: lo scalone e la camera da letto sono in stile barocco, l’anticamera in stile rocaille francese, la Sala Nera «in stile del primo Rinascimento» e il Gabinetto di Studio «in stile del Trecento». L’eclettismo, il revival degli stili e delle tecniche artistiche del passato, è in questo momento la moda d’avanguardia. Le sale divengono preziosi contenitori per antichi quadri, sculture, arredi e arti applicate. Nel 1879 Gian Giacomo Poldi Pezzoli muore improvvisamente, a soli 57 anni, celibe e senza eredi. Fin dal 1861 aveva redatto un testamento nel quale disponeva che la sua casa e tutte le opere in essa contenute divenissero una Fondazione Artistica «ad uso e

di necessari restauri, che rimangono comunque visibili su appuntamento per gli studiosi e consultabili sul sito.

Con gli occhi dell’artista

Due immagini dell’ingresso del Museo Poldi Pezzoli.

Sempre nell’ottica della valorizzazione della collezione, è stata realizzata una struttura ad hoc per svelare anche il verso di una tavola, opera di Gian Pietro Rizzi, detto Il Giampietrino, Madonna con il bambino (recto), Icosidodecaedro (verso). È stato ricollocato alla giusta altezza il capolavoro ligneo di Giovanni Angelo Del Maino, permettendo di leggere la sua prospettiva secondo l’idea dell’artista, con un nuovo novembre

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beneficio pubblico in perpetuo colle norme in corso per la Pinacoteca di Brera». L’amministrazione e la direzione della Fondazione sono affidate all’amico e collaboratore Giuseppe Bertini. Il Museo si inaugura il 25 aprile 1881, durante l’Esposizione Nazionale di Milano, e nel giro di pochi giorni è visitato da migliaia di persone. Il palazzo che ospita il museo risale al XVII secolo, ed era stato acquistato da Giuseppe Pezzoli, antenato di Gian Giacomo Poldi Pezzoli, alla fine del Settecento. (da museopoldipezzoli.it)

vetro antiriflesso e un’illuminazione dedicata che ha fatto emergere con chiarezza la policromia, la doratura e le straordinarie fattezze delle figure che animano Lo sposalizio della Vergine. Sono inoltre state sostituite alcune cornici degli anni Cinquanta poco adatte ed eccessivamente impattanti rispetto alle meravigliose cornici ottocentesche che ancora arricchiscono alcuni capolavori. È il caso del Bambino Gesú di Marco d’Oggiono, ora valorizzato da una preziosa cornice cinquecentesca donata al museo dalla Galleria Canesso e dei dittici di Andrea Solario, Sant’Antonio abate e San Giovanni Battista e Andata al Calvario. Mater dolorosa e Cristo portacroce

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DOVE E QUANDO

Museo Poldi Pezzoli Milano, via Manzoni 12 Orario tutti i giorni, escluso il martedí, 10,00-18,00 Info https://museopoldipezzoli.it di Bernardino Luini ora presentati con nuove cornici realizzate sulla base di quelle storiche andate perdute durante la guerra, documentate da immagini d’archivio. Infine, sono state recuperate e restaurate alcune sedute storiche, fino a oggi in deposito esterno. (red.)

Dall’alto lo Scalone Antico e la Sala Nera del Museo Poldi Pezzoli.

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ANTE PRIMA

Un albero tutto d’oro RECUPERI • Il ritrovamento di elementi

rubati oltre un secolo fa permetterà di ricomporre l’Albero d’oro di Lucignano, un reliquiario considerato fra le massime espressioni dell’arte orafa italiana

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el 1914 il colossale reliquiario noto come Albero d’oro di Lucignano (Arezzo), subí il furto di alcuni suoi elementi, da allora considerati perduti. E invece, a oltre cento anni di distanza, alcune importanti porzioni del prezioso manufatto sono state recentemente rinvenute, grazie alla collaborazione del Nucleo Carabinieri per la Tutela dei Beni Culturali (TPC) di Firenze. Come ha dichiarato il capitano Claudio Mauti, «Sono state recuperate quattro placche in rame dorato e argento smaltato, 16 ex voto in argento, un tempo collocati sulla base, una miniatura su pergamena e un cristallo di rocca molato. E il ritrovamento ha i caratteri dell’eccezionalità perché avvenuto a oltre un secolo dal clamoroso furto dell’opera. Come testimoniano immagini d’epoca, solo piccole porzioni dei rami e il pesante basamento furono all’epoca risparmiati, seppure depauperati degli elementi piú preziosi».

Ridotto in pezzi dai saccheggiatori «Tra il 1927 e il 1929 molti frammenti dell’Albero, fatto a pezzi dai ladri per facilitarne il trasporto, vennero ritrovati – ha ricordato Gabriele Nannetti, Soprintendente ABAP per le province di Siena, Grosseto e Arezzo – nelle campagne del comune di Sarteano, in provincia di Siena, dove erano stati nascosti dagli autori del furto. Non furono recuperati invece elementi di grande importanza come il crocifisso terminale, il pellicano, uno dei rami, quattro dei medaglioni circolari, cinque placche d’argento, almeno tre miniature e la parte superiore del nodo a tempietto. Andarono perduti anche quei pochi rametti di corallo che il reliquiario ancora presentava al momento del furto». «Su incarico dell’allora Regia Soprintendenza di Firenze – spiega Emanuela Daffra, attuale Soprintendente dell’Opificio delle Pietre Dure – il restauro dell’opera fu affidato all’Opificio: si trattò di un intervento complesso L’Albero d’oro di Lucignano, cosí come si presenta oggi, nel museo della cittadina in provincia di Arezzo. La realizzazione del reliquiario ebbe inizio nel 1350, ma fu ultimata solo nel 1471.

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e delicato, che vide la partecipazione di diverse figure professionali impegnate nella ricomposizione di oltre cento frammenti e nella reintegrazione di tutte le parti mancanti, crocifisso e pellicano compresi, mediante copie realizzate sulla base delle fotografie risalenti alla fine dell’Ottocento. Per ovviare alla perdita quasi totale dei coralli, presso la ditta Ascione di Torre del Greco furono acquistate e messe in opera piccole branche, simili per colore ai frammenti dei rametti originali rinvenuti nei castoni. Per sostituire le miniature sottratte dai medaglioni circolari rimasti vuoti furono inseriti dischi di carta pecora dipinti per armonizzarsi con gli esemplari superstiti». Dopo tre anni di intenso lavoro, il restauro fu concluso il 9 settembre 1933. Riprese cosí forma un manufatto orafo unico al mondo. L’Albero d’oro, o Albero di Lucignano, è tra i massimi capolavori dell’arte orafa italiana di tutti i tempi e il piú importante esempio di quella rara tipologia di

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In alto e in basso figure di santi in lamina d’argento stampata recuperate dal Comando Carabinieri TPC. Al centro un ramo dell’Albero d’oro di Lucignano.

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ANTE PRIMA reliquiari fitomorfi, ovvero a forma di albero stilizzato dalle molteplici valenze simboliche. Fonte d’ispirazione per queste immagini allegoriche fu il Lignum vitae composto intorno al 1259-1260 dal francescano san Bonaventura, che descrive la croce come albero della vita dai rami rigogliosi. Le ragguardevoli dimensioni dell’Albero (2 m e 70 cm di altezza) ne fanno un esemplare unico nel suo genere, protetto e custodito per secoli dalla comunità di Lucignano, i cui membri in passato erano soliti farsi le promesse di matrimonio all’ombra dei suoi fiabeschi rami.

A forma di tempietto gotico L’Albero è costituito da una monumentale struttura in rame dorato sostenuta da un largo piede dal profilo mistilineo. Il nodo ha la forma di un elegante tempietto gotico a sezione ottagonale, concepito per ospitare al suo interno reliquie. Sul nodo si imposta il fusto vero e proprio, da cui si articolano sei rami per parte, intervallati da altrettanti boccioli con rametti di corallo. Ogni ramo è ornato da foglie di vite e da due piccole foglie trilobate con funzione di teche per reliquie. Altri sacri resti erano collocati probabilmente nei dodici medaglioni con coralli posti all’estremità di ciascun ramo. Tali medaglioni riportano sul retro placche in rame dorato e argento con smalti traslucidi, raffiguranti santi e, sul fronte, pergamene miniate con mezzi busti di profeti protette da cristalli di rocca. Delle dodici placche d’argento oggi ne rimangono sette, mentre sei sono le miniature ancora presenti. Al vertice dell’Albero spiccano il Cristo crocifisso e il simbolo cristiano del pellicano che si ferisce il petto per nutrire i suoi piccoli, eseguiti a tutto tondo in metallo dorato. Destinato alla chiesa di S. Francesco a Lucignano, l’Albero d’oro fu iniziato nel 1350 e portato a termine solo nel 1471 grazie al lascito di una certa Madonna Giacoma, come attestato dall’iscrizione in latino sul piede, che tramanda anche il nome dell’orafo senese Gabriello d’Antonio, fautore del completamento dell’opera. Resta invece anonimo il maestro trecentesco che diede principio al reliquiario e che forse ne ideò la struttura. In passato questo autore è stato riconosciuto in Ugolino di Vieri, rinomato orafo del XIV secolo,

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In alto pergamena miniata raffigurante un profeta con cartiglio. A sinistra cristallo di rocca molato con tracce di pigmenti e doratura. ma studi recenti sono propensi a riferire la parte piú antica dell’Albero a un artista aretino influenzato dall’arte orafa senese. Discussa si presenta anche l’attribuzione delle sei miniature superstiti con immagini di profeti. Cinque di esse mostrano caratteri stilistici molto simili e sono riferibili a uno stesso artista, identificato di volta in volta con un seguace di Piero della Francesca, con Bartolomeo della Gatta, con Francesco d’Antonio del Chierico o con un miniatore fiorentino che rivela nel suo stile l’ascendenza di pittori come Alesso Baldovinetti e il Maestro di Pratovecchio. Il rinvenimento attuale obbliga a una revisione della ricomposizione realizzata negli anni Trenta e sarà occasione di un restauro complessivo. L’Albero attualmente composto da una sessantina di parti sarà smontato a lotti, per non privare del tutto il Museo di Lucignano di un’opera identitaria, ricollocando di volta in volta le parti restaurate cosí da garantire ai visitatori una visione almeno parziale dell’opera. (red.) novembre

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AGENDA DEL MESE

Mostre URBINO IL PALAZZO DUCALE DI URBINO. I FRAMMENTI E IL TUTTO Palazzo Ducale, Galleria Nazionale delle Marche fino all’11 novembre

«Tra le altre cose sue lodevoli, nell’aspero sito di Urbino edificò un palazzo, secondo la opinione di molti, il piú bello che in tutta Italia si ritrovi; e d’ogni opportuna cosa sí ben lo forní, che non un palazzo ma una città in forma di palazzo esser pareva». Cosí scrisse Baldassarre Castiglione ne Il libro del cortegiano pubblicato nel 1528; in effetti, la ricchezza del Palazzo Ducale di Urbino non è data solo dalla sua qualità architettonica e decorativa, ma anche nell’essere un frammento di città, una sorta d’infrastruttura che si unisce a Urbino e genera una complessità unica tra gli spazi privati del duca e della corte, i luoghi pubblici della città e il paesaggio verso il quale si apre. Nonostante il ruolo centrale e un’essenza da capolavoro indiscusso del Rinascimento italiano, il Palazzo Ducale di Urbino non

a cura di Stefano Mammini

ha l’attenzione e la comprensione pubblica che merita. Da qui l’idea di una grande mostra nell’edificio che ospita la Galleria Nazionale delle Marche, con l’obiettivo di far scoprire al grande pubblico il Palazzo Ducale, la sua importanza e complessità storica e architettonica, non solo come spazio di grande qualità che ospita preziose opere d’arte, ma anche come manufatto spaziale raffinato e complesso che può coinvolgere i visitatori con la ricchezza dei suoi dettagli e del suo impianto. info tel. 0722 2760; www.gallerianazionalemarche.it VENEZIA TIZIANO 1508. AGLI ESORDI DI UNA LUMINOSA CARRIERA Gallerie dell’Accademia fino al 3 dicembre

Nel 1508, in una Venezia dominata dai celebri Giovanni Bellini e Giorgione, inizia a emergere la figura di Tiziano che presto supererà la fama di entrambi. È quello, infatti, un anno di svolta, non solo per la carriera di Tiziano, ma per l’intera arte veneziana e, in qualche modo, europea. È in

questo momento che il giovane cadorino, quasi ventenne, dimostra il suo talento grazie a imprese pubbliche importanti come la Giuditta con la testa di Oloferne, affresco realizzato sulla facciata laterale del Fondaco dei Tedeschi che, per la vivacità delle tinte e l’impostazione grandiosa, lasciò increduli i contemporanei e, in seguito, i posteri. La mostra racconta appunto la nascita del talentuoso artista attraverso 17 opere autografe di Tiziano e una decina di confronti con dipinti, incisioni e disegni di autori a lui contemporanei come Giorgione, Sebastiano del Piombo, Albrecht Dürer e

Francesco Vecellio. Tra i lavori esposti ci sono importanti prestiti, per esempio la grande stampa del Trionfo di Cristo della Bibliothèque nationale de France, il Cristo risorto degli Uffizi, la Madonna con il Bambino tra sant’Antonio da Padova e san Rocco del Museo del Prado e il Battesimo di Cristo dei Musei Capitolini. Il percorso accompagna il visitatore nel comprendere la capacità straordinaria dell’artista di assimilare velocemente componenti culturali diverse – in particolare giorgionesche, düreriane e michelangiolesche – e indirizzare il linguaggio pittorico veneziano verso una commistione di naturalismo e classicismo. info www.gallerieaccademia.it VERBANIA VERONESE SUL LAGO MAGGIORE. STORIA DI UNA COLLEZIONE Museo del Paesaggio fino al 25 febbraio 2024

Sono riuniti nel Palazzo Viani Dugnani di Verbania due capolavori cinquecenteschi di Paolo Veronese – una coppia di importanti Allegorie –, arricchiti dalla storia del loro ritrovamento e dalla descrizione del loro luogo di provenienza: Villa San Remigio, di proprietà del Marchese Silvio della Valle di

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Casanova e di sua moglie Sophie Browne. Il complesso comprende un ampio giardino disposto su terrazze e una villa su due piani. Il piano rialzato dell’abitazione richiama una dimora signorile del Cinquecento: gli ambienti interni, gli arredi e le opere d’arte alle pareti sono caratterizzati da un forte gusto neorinascimentale. Nel 1977 la Villa viene destinata alla Regione Piemonte. Cristina Moro, nel 2014 ritrova due opere di soggetto allegorico attribuite alla «Scuola di Veronese» che a un piú attento esame si mostrano riconducibili alla mano del maestro stesso. E proprio da qui parte la mostra. info tel. 0323 502254; e-mail: segreteria@museodelpaesaggio.it; www.museodelpaesaggio.it

e-mail: museiarteantica@comune. bologna.it; www.museibologna.it/ arteantica; Facebook: Musei Civici d’Arte Antica; Instagram: @ museiarteanticabologna; Twitter: @MuseiCiviciBolo

LEIDA L’ANNO MILLE Rijksmuseum van Oudheden fino al 17 marzo 2024

Museo Civico Medievale, Sale del Lapidario fino al 17 marzo 2024 (dal 18 novembre)

BOLOGNA LIPPO DI DALMASIO E LE ARTI A BOLOGNA TRA TRE E QUATTROCENTO

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Il piú celebrato dei pittori bolognesi del tardo Medioevo, Lippo di Dalmasio viene per la prima volta scelto come protagonista di una rassegna monografica. Figlio del pittore Dalmasio (1315 circa-1374 circa) e nipote del noto artista Simone di Filippo Benvenuti, detto Simone dei Crocifissi (1330 circa–1399), Lippo appartenne alla prestigiosa famiglia ghibellina degli Scannabecchi. Come il padre, fu a lungo attivo in Toscana, a Pistoia, dove è probabile abbia intrapreso la sua attività, ottenendo le prime importanti commissioni. Attraverso l’esposizione di una quarantina di opere, tra dipinti, sculture e manoscritti miniati, la mostra intende ripercorrere, facendo riferimento al contesto artistico cittadino, l’attività di questo maestro su cui «grava» lo

stereotipo di «pittore cristiano e devoto della Madre di Dio» nato in età di Controriforma, in parte giustificato dalla sopravvivenza di molte sue opere raffiguranti la Madonna con il Bambino. La mostra si articola in tre sezioni: Tra Bologna e Pistoia: i rapporti con l’arte toscana, Bologna 1390 e Un pittore per la città 1400-1410 verso il tardogotico. Oltre ai dipinti e agli affreschi di Lippo di Dalmasio (alcuni inediti) sono esposte in mostra anche opere di alcuni degli artisti piú rinomati a lui contemporanei – Simone dei Crocifissi, Jacopo di Paolo, Nicolò di Giacomo, Giovanni di Fra Silvestro, Don Simone Camaldolese, Lorenzo Monaco, Jacobello e Pierpaolo Dalle Masegne –, prestati per l’occasione da vari musei, biblioteche, chiese italiane e collezioni private. info tel. 051 2193923;

Il periodo compreso tra il 900 e il 1100 è spesso percepito come un’epoca in cui non si registrarono eventi di particolare importanza, ma cosí non fu per il territorio che oggi è conosciuto come Paesi Bassi: per quelle regioni, infatti, fu una stagione di grandi cambiamenti nel paesaggio, nell’architettura, nel clima, nella lingua e nella società. La mostra allestita a Leida propone dunque un viaggio nel tempo attraverso il paesaggio di questo mondo medievale, con l’anno 1000 come destinazione finale. Un percorso che permette di scoprire lo svolgersi della vita quotidiana attraverso contesti di grande importanza – come la residenza imperiale di Nimega o la cattedrale di Utrecht – e materiali di pregio, come i manufatti preziosi provenienti da Maastricht. La selezione degli oggetti esposti comprende oltre quattrocento reperti archeologici, manufatti

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e manoscritti provenienti da collezioni olandesi e straniere. info www.rmo.nl. FELTRE DI LAME E DI SPADE. MAESTRI SPADAI A FELTRE TRA IL XV ED IL XVII SECOLO Museo Civico Archeologico fino al 31 marzo 2024

Allestita presso il Museo Civico Archeologico, la mostra offre uno spaccato sul mondo degli spadai feltrini e sull’eccellenza di produzioni che li resero celebri in tutta Europa. L’esposizione rende visibili al pubblico una decina di pezzi di assoluto interesse – da una trecentesca basilarda a lame, spade, stiletti ed armi in asta – il cui valore e la cui importanza sono stati riportati alla luce proprio grazie agli studi condotti in occasione dell’evento. info www.visitfeltre.com NANTES GENGIS KHAN. COME I MONGOLI HANNO CAMBIATO IL MONDO Château des ducs de BretagneMusée d’histoire de Nantes fino al 5 maggio 2024

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Dalle steppe della Mongolia all’estremo Sud della Cina, dall’Oceano Pacifico ai confini del Medio Oriente, Gengis Khan e il suo esercito hanno dato vita, nel corso del XIII secolo, a un vasto impero. Al culmine del loro potere, i Mongoli controllavano oltre il 22% delle terre del pianeta, e il nipote di Gengis Khan, Kubilaï, gran khan dei Mongoli, divenne anche imperatore della Cina. Fondò la dinastia Yuan e stabilí la sua capitale a Dadu (l’attuale Pechino). Dopo anni di conquiste violente per stabilire questo impero, l’istituzione della Pax Mongolica permise lo sviluppo di relazioni commerciali, scientifiche e artistiche tra Oriente e Occidente. L’esposizione si propone di far scoprire la storia dell’impero di Gengis Khan, attraverso la presentazione di oggetti provenienti dalle collezioni nazionali della Mongolia, a cui fanno da contorno manufatti concessi in prestiti da musei francesi

ed europei. Fra i temi del progetto espositivo spicca l’attenzione rivolta alle interazioni dell’impero mongolo con le altre potenze dell’epoca, in particolare con il regno di Francia. Ed è stato un europeo, Marco Polo, a riassumere con estrema efficacia che cosa abbia significato l’incontro con i Mongoli: il suo Milione, infatti, ebbe una diffusione straordinaria e conserva ancora oggi intatto il suo eccezionale valore documentario. info www.chateaunantes.fr TORINO TRAD U/I ZIONI D’EURASIA MAO Museo d’Arte Orientale fino al 1° settembre 2024

Oggetto della mostra, terzo esito del ciclo espositivo Frontiere liquide e mondi in connessione, sono i concetti di traduzione, trasposizione e interpretazione culturale, illustrati attraverso oggetti provenienti dall’Asia occidentale, centrale e orientale che permettono di

interrogarsi su fenomeni quali la circolazione materiale e immateriale, le modalità di trasformazione del significato e la fruizione avvenute tra Asia ed Europa nel corso di duemila anni di storia. Fra i materiali riuniti per l’occasione si possono ammirare splendide sete della Sogdiana, ceramiche bianche e blu prodotte tra il Golfo Persico e la Cina, una raffinata selezione di «panni tartarici» – preziose stoffe d’oro e di seta del XIII secolo prodotte tra Iran e Cina durante la dominazione mongola, ammirate dall’aristocrazia medievale e dall’alto clero d’Europa –, rari esemplari di tiraz (Egitto, X secolo), tessuti con iscrizioni ricamate che evidenziano l’importanza della calligrafia in ambito islamico, nonché una serie di bruciaprofumi zoomorfi in metallo (Iran, IX-XIII secolo), a ribadire la centralità delle essenze nelle società islamiche medievali. info tel. 011 5211788; www.maotorino.it novembre

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ARALDICA

LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA

art. 1, c.1, LO/MI.

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LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA

ARALDICA. LE GRANDI FAMIGLIE D’ITALIA

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N°58 Settembre/Ottobre 2023 Rivista Bimestrale

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olori sgargianti, figure geometriche, animali reali e fantastici, evocazioni di paesaggi... C’è un vero e proprio mondo negli stemmi, un universo stratificatosi nel tempo e che ha portato alla nascita dell’araldica, protagonista del nuovo Dossier di «Medioevo» e, non a caso, chiamata un tempo «arte del blasone». Un’«arte» che si è istintivamente portati ad associare alla nobiltà, ma che, come si scopre scorrendo le pagine dell’opera, non fu soltanto appannaggio di dinastie grandi e piccole. Soprattutto, sebbene si tratti di un’acquisizione abbastanza recente, l’araldica viene ormai riconosciuta come una delle fonti documentarie che possono contribuire alla ricostruzione storica degli eventi che l’hanno scandita e dei loro protagonisti. L’obiettivo del Dossier è puntato sull’Italia, che potrebbe ben essere definita il Paese «delle mille famiglie» (e non delle «cento città») e che vanta un numero sterminato di casate nobiliari che ne punteggiano la geografia e la storia d’Italia. Una polverizzazione del titolo feudale che, da un canto, ha ostacolato la creazione di un grande Stato nazionale – alla base invece delle fortune politiche e commerciali di altri Paesi d’Europa in epoca moderna –, ma che, dall’altro, grazie all’ascesa della piccola aristocrazia, ha dato vita a una dialettica tra classe borghese e nobiliare capace di evitare grandi fratture sociali. Il nuovo Dossier di «Medioevo» invita, pertanto, a leggere le storia delle casate nobiliari italiane, tra le quali sono comprese anche alcune dinastie «italianizzate», come per esempio gli Angioini. Stemmi, motti e magioni nascondono pagine di straordinario interesse non solo per lo specialista, ma per chiunque intenda la storia come un racconto vivo e palpitante, fatto di donne e uomini desiderosi di affermare se stessi e la propria discendenza.

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Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004,

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IOEVO MED Dossier

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MEDIOEVO DOSSIER

ANTE PRIMA

A DI ALI AN ’ IT R D G E LE GLI I M A F

IN EDICOLA IL 26 SETTEMBRE 2023

GLI ARGOMENTI

• La scienza araldica • L’Italia delle dinastie: Nord, Centro e Sud Particolare del ciclo dipinto da Andrea Mantegna per la Camera degli Sposi nel Palazzo Ducale di Mantova: Ludovico Gonzaga ascolta un membro della sua corte, da alcuni identificato nel suo segretario Marsilio Andreasi, da altri nel diplomatico Raimondo Lupi di Soragna o nel fratello Alessandro. Gli affreschi vennero verosimilmente realizzati da Mantegna tra il 1465 e il 1474.

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Quel cardinale cosmopolita e

benemerito Ottocento anni fa il presule Guala Bicchieri promosse la realizzazione di un nuovo ospedale, destinato al ricovero e alla cura dei pellegrini e della comunità vercellese. Come l’antistante complesso composto dalla basilica e dal monastero, il nosocomio fu intitolato a sant’Andrea e, grazie alla munificenza del suo fondatore, divenne uno dei piú importanti presidi sanitari del territorio

Vercelli. Veduta aerea della basilica di S. Andrea e dell’adiacente monastero. Nell’area antistante, nel 1224, venne fondato, per volere del cardinale Guala Bicchieri l’omonimo ospedale.

di Gianna Baucero


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econdo Alessandro Barbero, tra il 1100 e il 1200 Vercelli era, con Asti, una delle città comunali piú vivaci del Piemonte e si distingueva per la sua intensa vita politica e la sua prosperità economica. Nel primo decennio del XIII secolo la sua popolazione doveva aggirarsi intorno ai 5000 abitanti ed era in espansione rispetto al secolo precedente: grazie alle agevolazioni offerte dal Comune ai nuovi abitanti che acquistavano case in città, infatti, intorno al 1210 si registrava l’arrivo di circa 25 nuove famiglie l’anno. Una buona parte di questi nuclei familiari si stabilí nei pressi dell’attuale basilica di S. Andrea, dove in breve tempo furono costruite molte nuove abitazioni. Tutta l’area racchiusa tra le mura cittadine, comunque, nella prima metà del 1200 visse una fase di intensa espansione urbanistica, che si accompagnò a notevoli cambiamenti nella tipologia delle case: gli aristocratici cominciarono a costruirsi prestigiose caseforti turrite, mentre il resto della popolazione prese a erigere nuovi edifici a due piani, piú alti e spaziosi delle precedenti case unifamiliari. Inevitabilmente, l’incremento demografico si tradusse in una positiva espansione delle attività commerciali: arrivarono mercanti e artigiani, si aprirono fondaci e botteghe, nacquero il mercato settimanale e la fiera della festa patronale. Quest’ultima si svolgeva in estate, in concomitanza con la festività di Sant’Eusebio, e richiamava visitatori italiani e stranieri. La Vercelli medievale non era solo un’orgogliosa città-stato, economicamente prospera e politicamente vivace, ma anche un crocevia del pensiero ove convenivano intellettuali e studenti da tutta l’Italia e dal resto d’Europa. Presso il capitolo della cattedrale intitolata a sant’Eusebio esisteva uno studium di alto profilo, che aveva formato anche il futuro cardinale Guala Bicchieri. A quello, piú avanti, si aggiunse lo

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storie vercelli studium dell’abbazia di S. Andrea, fondato nel 1224. Nel 1228, infine, il Comune di Vercelli approfittò di una grave crisi politica che all’epoca affliggeva le università di Bologna e di Padova per istituire un suo Studium Generale, che sarebbe passato alla storia come una delle piú antiche università d’Italia e d’Europa. Quell’anno una delegazione di autorità vercellesi si recò a Padova per proporre all’ateneo locale di trasferirsi a Vercelli in cambio di una serie di garanzie: il Comune si impegnava a offrire ai nuovi studenti 500 alloggi, il vitto necessario a sostentarli e 10 000 lire pavesi sotto forma di prestiti. Garantiva, inoltre, lo stipendio a 14 professori: 3 di diritto civile, 4 di diritto canonico, 2 di medicina, 4 di artes liberales e 1 di teologia. La presenza di quest’ultimo ordinamento costituiva un fatto epocale, perché nel nostro Paese la cattedra di teologia non era mai

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stata attivata e perciò prima del 1228 chi voleva laurearsi in quella disciplina poteva solo iscriversi alla Sorbona di Parigi. L’accordo tra Padova e Vercelli fu ratificato con un documento del 4 aprile 1228 chiamato Carta Studii et Scolarium Commorancium in Studio Vercellarum, in base al quale rettore e studenti dell’ateneo padovano avrebbero fatto il possibile per far sí che lo Studium di Padova si trasferisse a Vercelli per almeno otto anni.

Al fianco del papa

Uno dei figli piú illustri della Vercelli medievale fu certamente Guala Bicchieri, che nacque tra il 1165 e il 1170 in una famiglia locale molto ricca e potente. Studiò all’università di Bologna, divenne canonico della cattedrale di S. Eusebio a Vercelli e presto si trasferí a Roma, dove Papa Innocenzo III lo volle tra i suoi principali collaboratori, affidan-

dogli incarichi molto importanti: nel 1207, per esempio, lo mandò in Toscana per risolvere annose questioni tra Siena e Firenze; nel 1208 e 1209 lo inviò alla corte di Francia per gestire il divorzio di Filippo Augusto e Ingeborga di Danimarca; e contemporaneamente gli chiese di promuovere la nuova crociata, riformare la Chiesa francese e sistemare la spinosa vicenda degli Albigesi. Ottenuto nel 1211 il titolo presbiteriale di S. Martino ai Monti (una delle piú antiche chiese di Roma), nel 1215 Guala tornò per un breve periodo nella natia Vercelli, dove il vescovo Ugolino da Sesso gli concesse la chiesa di S. Andrea, con tutte le sue proprietà, per istituirvi una comunità religiosa. Nel dicembre dello stesso anno il cardinale partecipò al Concilio Lateranense IV, dopodiché, nel febbraio 1216, partí per la Gran Bretagna su ordine del papa. In qualità di legatus a

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Nella pagina accanto Libro d’instromenti dell’ospedale di S. Andrea che documenta gli acquisti effettuati tra il 1° marzo 1227 e il 24 maggio 1334. Vercelli, Archivio di Stato.

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Uno scorcio del chiostro della basilica di S. Andrea, che si sviluppa sul lato nord della chiesa. A pianta rettangolare, presenta arcate a tutto sesto, rette da colonnine romaniche.

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In alto la lunetta che sormonta il portale della facciata sinistra del S. Andrea nella quale è raffigurato Guala Bicchieri nell’atto di offrire il modellino della chiesa al santo. Scuola di Benedetto Antelami, XIII sec. L’iscrizione sull’architrave ricorda i meriti del cardinale. A sinistra, sulle due pagine pianta di Vercelli, dall’Atlante van der Hagen. XVII sec. Amsterdam, Biblioteca Nazionale.

latere, doveva scongiurare il pericolo di una conquista francese del trono d’Inghilterra e, nel contempo, risolvere la crisi politica creata dal malgoverno di Giovanni Senzaterra. Il titolo di legatus a latere costituiva il massimo livello nella gerarchia dei legati e una tappa obbligatoria nel cursus honorum verso il soglio pontificio. Guala era il terzo legato appositamente nominato per l’Inghilterra di Giovanni Senzaterra, godeva di pieni poteri e ricopriva un ruolo non soltanto religioso, ma anche politico, poiché dal 1213, per una scelta strategica di re Giovanni, l’Inghilterra era un feudo papale e il suo sovrano era un vassallo di Roma. Con tutta probabilità Guala lasciò l’Urbe dopo il 24 febbraio 1216 e, percorrendo la via Francigena,

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raggiunse la corte di Francia per incontrare il re. Voleva convincerlo ad abbandonare il progetto di conquistare il trono inglese, ma poiché la sua proposta non venne accolta dovette proseguire il viaggio. Arrivò in Inghilterra il 20 maggio e subito si dedicò a sostenere la causa del sovrano plantageneto, scomunicando gli ecclesiastici schieratisi contro di lui. In effetti, una delle armi piú usate dal legato durante il periodo inglese fu la sua autorità sul clero locale, di cui poté disporre liberamente anche grazie all’assenza dell’arcivescovo di Canterbury Stephen Langton, che rimase in esilio dal settembre 1215 al maggio 1218.

Un bambino sul trono

Malauguratamente, nell’estate del 1216 Innocenzo III morí, ma il successore, Onorio III, ordinò a Guala di trattenersi in Gran Bretagna perché la situazione era grave. Nell’ottobre, purtroppo, morí anche re Giovanni, che prima di spegnersi nominò Guala suo esecutore testamentario (insieme a dodici altri notabili) e protettore dell’erede al trono. Il figlio e successore del re, infatti, aveva solo nove anni e un immenso bisogno di aiuto e consiglio. Fu cosí che Guala

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storie vercelli St. Andrew’s Chesterton

Canonici vercellesi al di là della Manica St. Andrew’s Chesterton si trova a Cambridge, non lontano dal fiume Cam sul quale viaggiano i «punts», le barche a fondo piatto usate da studenti e turisti nel tempo libero. Un tempo Chesterton era un villaggio circondato da campi paludosi, dove la gente era dedita alla pesca e usava le anguille come merce di scambio. La chiesa locale appartiene alla diocesi di Ely (il nome della città deriva per l’appunto da «eel», «anguilla» in inglese), la cui cattedrale è una splendida costruzione normanna che domina il territorio circostante. La sagoma della cattedrale che si stagliava all’orizzonte veniva un tempo paragonata a quella di una nave alla fonda nelle paludi dei Fens, perché i terreni intorno a Ely erano allora acquitrinosi. E si aggiungeva che la chiesa guidava il cammino dei molti pellegrini che vi si recavano in cerca di conforto o guarigione e si inginocchiavano presso la tomba di santa Etheldreda, ove avvenivano miracoli. Il villaggio di Chesterton, a circa 15 miglia da Ely, occupava un territorio di circa 2800 acri. L’8 novembre 1217 Enrico III donò St. Andrew’s e una parte delle sue proprietà terriere (200 acri) a Guala

Bicchieri, in segno di gratitudine per il sostegno che il cardinale gli aveva offerto contro i baroni ribelli, i Francesi invasori e il clero inglese favorevole a Luigi VIII di Francia. I canonici vercellesi di S. Andrea cominciarono cosí ad amministrare quelle proprietà britanniche, che non avevano mai visto. Dal 1256 essi presero a inviare a Chesterton un loro rappresentante italiano con il titolo di procurator e il compito di gestire la chiesa e i beni di St. Andrew’s per conto della loro comunità. Tale procurator era affiancato da due funzionari locali, un bailiff e un reeve, che parlavano inglese e conoscevano le abitudini e le leggi locali. Il mandato dei procuratores durava dieci o quindici anni e non doveva essere molto ambito dai canonici italiani, perché comportava un cambiamento radicale dei loro stili di vita e, soprattutto, una lunga lontananza dalla loro terra. Con il tempo essi si costruirono una canonica e successivamente, verso la metà del 1300, edificarono vicino alla chiesa un’abitazione piú grandiosa, che esiste ancora ed è nota come Chesterton Tower. Essa è uno dei pochissimi esempi ancora esistenti in Gran Bretagna di antico edificio adibito a dimora di Ritratto del cardinale Guala Bicchieri, olio su tela attribuito a Pietro Narducci. 1847 circa. Vercelli, ex ospedale di S. Andrea.

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si trovò a essere non solo il plenipotenziario del papa in terra inglese, ma anche uno dei tre uomini piú vicini al nuovo sovrano, con il vescovo di Winchester, Peter des Roches, e il conte di Pembroke, Guglielmo il Maresciallo (quest’ultimo è considerato tra i piú grandi cavalieri del Medioevo inglese). Per non lasciare pericolosi vuoti di potere in un reame invaso dai Francesi, che avevano occupato gran parte del Sud, Guala e il Maresciallo provvidero subito a far incoronare il piccolo re, che il 28 ottobre 1216 divenne ufficialmente Enrico III d’Inghilterra. Poiché Londra era controllata dagli invasori, la cerimonia di incoronazione si svolse nella cattedrale di Gloucester (che all’epoca era l’abbazia di Saint Peter’s) e fu organizzata e diretta dallo stesso Guala. Pochi giorni piú tardi, il 12 novembre, Guala e Guglielmo il Maresciallo concessero la seconda edizione della Magna Carta, ridando vita novembre

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stranieri. L’amministrazione della chiesa di Chesterton per i canonici vercellesi fu sempre fonte di problemi e preoccupazioni, ma la Corona inglese piú volte confermò il S. Andrea nel ruolo di proprietario di St. Andrew’s. Dopo alterne vicende, tuttavia, nel 1440 re Enrico VI (che fu sul trono dal 1422 al 1461 e dal 1470 al 1471), figlio di Enrico V e Caterina di Valois e ultimo sovrano della dinastia Lancaster, assegnò formalmente Chesterton al King’s Hall di Cambridge, confermando la decisione quattro anni piú tardi. Nel 1444, dunque, terminava ufficialmente l’unione tra Vercelli e Chesterton, che era durata oltre due secoli. Nel 1557 S. Andrea cercò di riappropriarsi della chiesa inglese, inviando emissari presso la corte della regina Mary Tudor, che noi conosciamo come «Maria la Sanguinaria», ma la sovrana (che era cattolica e quindi avrebbe sostenuto la causa dei Vercellesi) morí prima di concedere formalmente il suo assenso. Oggi la chiesa di St. Andrew’s è legata al celeberrimo Trinity College di Cambridge, presso i cui archivi sono ancora conservati i documenti relativi a S. Andrea e al suo rapporto con Chesterton. In alto lista dei vicari della chiesa di St. Andrew’s Chesterton dal 1273 a oggi. A sinistra l’interno della chiesa di St. Andrew’s Chesterton a Cambridge.

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storie vercelli al documento di Giovanni Senzaterra, che era stato annullato con una bolla papale nell’agosto del 1215. Dopo un’altra serie di scomuniche, tra le quali spicca quella dell’intero Galles (pronunciata a Bristol l’11 novembre 1216), il 20 maggio 1217 Guala incontrò i soldati di Enrico III alla vigilia della battaglia di Lincoln, li incoraggiò presentando la loro impresa come una guerra santa e fece appuntare sulle loro uniformi il distintivo dei crociati. Lo scontro segnò la sconfitta della coalizione guidata da Luigi VIII di Francia e restaurò il prestigio e il potere della Corona inglese. Dopo un’ulteriore vittoria degli Inglesi a Sandwich e la pace di Lambeth del settembre 1217, Guala e Marshal concessero di nuovo la Magna Carta, alla quale aggiunsero la Forest Charter (Carta delle Foreste), che consentiva al popolo l’uso, per la verità ancora molto limitato, delle riserve di caccia reali e mitigava le pene previste per i cacciatori di frodo, di fatto aiutando molte famiglie povere a sopravvivere.

La torre campanaria della basilica di S. Andrea. A pianta ottagonale, termina in una cuspide piramidale in laterizio.

Ricompensa reale

Con il novembre 1217 la missione politica di Guala in Inghilterra aveva ormai raggiunto gli obiettivi principali: il re era saldo sul suo trono, i Francesi avevano lasciato la Gran Bretagna, molti dei baroni inglesi ribelli si erano riconciliati con il loro sovrano e l’indipendenza inglese era salva. L’8 novembre di quell’anno, dunque, Enrico III volle ricompensare il cardinale donandogli la chiesa e i beni di St. Andrew’s Chesterton, che allora era la parrocchia di un villaggio, mentre oggi fa parte della città di Cambridge. Nel 1219, quando Guala tornò in Italia e fondò la chiesa vercellese di S. Andrea, a quest’ultima, per scelta dello stesso Bicchieri, fu assegnata la proprietà di Chesterton. I beni inglesi, di fatto, contribuirono a finanziare la fabbrica della nuova basilica piemontese, che,

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dunque, vanta forti legami con l’antica Inghilterra e con sua maestà Enrico III. Fondata la basilica vercellese, Guala tornò a Roma, ma non dimenticò la sua città, nella quale nel 1224 istituí un ospedale per i pellegrini, che sorse davanti alla nuova chiesa di S. Andrea e fu intitolato allo stesso santo. A Roma Bicchieri viveva in un

sontuoso palazzo in prossimità della basilica di S. Maria Maggiore, tra collezioni di oggetti preziosi e ricordi dei suoi viaggi. L’ultima sua missione diplomatica si svolse nel 1225, quando il papa lo inviò in Campania presso Federico II per promuovere una nuova crociata. L’incontro con l’imperatore dovette essere memorabile, se si pensa novembre

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gento placcata d’oro e la richiesta di pregare per il suo cardinale. Ricordando la missione in Inghilterra vale la pena aggiungere che Guala ricevette in dono, forse da uno dei vescovi che sostenevano la Corona inglese, alcune reliquie di Thomas Becket che volle donare a Vercelli. Egli era molto legato alla figura del santo, che, come molti ricorderanno, fu canonizzato nel 1173, tre anni dopo essere stato barbaramente assassinato nella sua Cattedrale di Canterbury durante il regno di Enrico II. La sua devozione per Becket spinse il legato a farlo ritrarre accanto a sant’Eusebio in alcuni affreschi della cappella di S. Silvestro nel convento romano di S. Martino.

Nasce il S. Andrea

In alto il testamento del cardinale Guala Bicchieri, copia autenticata dal notaio Lafranchus de Rodulfo. Vercelli, Archivio di Stato. Il presule morí nel 1227, lasciando generose elargizioni.

che l’anno dopo, da Catania, Federico II emanò un diploma di protezione imperiale per l’abbazia di S. Andrea in Vercelli. Guala morí il 31 maggio 1227 nella sua casa romana, subito dopo aver dettato le sue ultime volontà, e venne sepolto in S. Giovanni in Laterano, alla presenza del papa, del patriarca di Gerusalemme e di nu-

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merosi vescovi e cardinali. Nel suo testamento dispose tra l’altro che l’argenteria usata per la sua mensa, la piccola coppa d’oro che usava per bere, tutte le sue vesti e la biancheria da letto fossero assegnate all’ospedale di Sant’Andrea, affinché si potesse acquistare cibo per i poveri. Lasciò anche un enorme patrimonio alla sua basilica vercellese e all’annessa struttura ospedaliera per aiutare i bisognosi e provvedere ai membri della comunità. Il complesso di S. Andrea non fu comunque l’unico beneficiario del testamento di Guala. Bicchieri fu generoso anche con tutti gli ospedali della sua città e con molte altre chiese e monasteri. Nelle sue ultime volontà non mancarono, infine, un pensiero per i suoi servitori, a cui fu lasciata una somma in denaro, e un ricordo speciale per il papa, che ricevette una coppa d’ar-

Di ritorno dalla missione inglese (che era durata trenta mesi), come si è detto, Guala fondò la nuova basilica di S. Andrea in Vercelli, che sorse non lontano da una piccola chiesa omonima preesistente e già donata a Bicchieri dal vescovo locale. La nuova costruzione doveva essere il dono del cardinale alla sua città e una sorta di testamento spirituale del donatore, che forse intendeva consegnarsi all’immortalità attraverso la sua erigenda creatura. Il 19 febbraio 1219, dunque, il legato e il vescovo Ugolino da Sesso tracciarono idealmente il perimetro del nuovo complesso abbaziale, vi collocarono una croce e posero le prime due pietre del nuovo edificio. L’area su cui sorse la nuova chiesa era posta all’esterno delle mura cittadine, in una parte della città nota come Borgo Cigliano. La solenne cerimonia di fondazione di S. Andrea è descritta in una pergamena contenuta in un cartulario conservato presso l’Archivio di Stato di Vercelli. Oggi la basilica è considerata il primo esempio di architettura gotica in Italia, il che fa della Vercelli medievale una città di primaria importanza nel contesto dell’Europa del tempo.

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gli ospedali

L’edificio dell’ospedale di S. Andrea cosí come si presenta oggi.

L’assistenza innanzi tutto L’organizzazione ospedaliera italiana iniziò a muovere i primi passi in anticipo rispetto a quella delle altre aree europee. Nelle strutture assistenziali i servizi offerti dal personale erano principalmente improntati alla carità verso i poveri. Ospitalità e accoglienza erano prioritarie rispetto alla cura delle patologie e pertanto chi si occupava di assistere gli ospiti nella maggior parte dei casi non era un medico o un chirurgo, bensí un infirmarius. Il compito di quest’ultimo era quello di accogliere chi aveva bisogno di aiuto, ma ovviamente anche di «ad-sistere», cioè di «stare ripetutamente o continuamente accanto ai malati» e prestare cure generiche. Lo storico della medicina Giorgio Cosmacini ci racconta che, secondo la concezione medievale, il povero non era chi non disponeva di risorse economiche e beni materiali, bensí colui o colei che non aveva potere. Ricco era, per contro, sinonimo di potente. Appartenevano, dunque, alla categoria dei poveri anche i pellegrini che, trovandosi lontani dalla loro abituale sfera di azione, erano completamente sprovvisti di potere. Un ruolo significativo nella creazione di strutture ospedaliere per i viandanti fu giocato da papa Innocenzo III. Egli credeva fermamente nella necessità che i cristiani assistessero i pellegrini che si recavano in Terra Santa e nel bisogno di creare hospitalia dove fossero praticate tutte le opere di misericordia corporale e forse fu anche per questo che Guala Bicchieri, che era legato al pontefice da una corrente di reciproca stima, istituí un hospitalis a Vercelli. Nei progetti del cardinale vi era la fondazione di un complesso abbaziale che si ispirasse al modello cistercense diffuso in tutta l’Europa e fosse formato da una chiesa, un monastero e una struttura ospedaliera atta ad accogliere i pellegrini. Saverio Lomartire ha osservato che, contrariamente

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a quanto avviene nella maggior parte dei complessi monastici cistercensi, il chiostro del S. Andrea vercellese non è posto sul lato sud della chiesa, bensí su quello nord, il che si verifica anche a Pontigny, a Maulbronn e nella vicina Lucedio. Guala investí nel progetto un patrimonio immenso, ordinando

che fossero utilizzati i materiali piú pregiati e le maestranze piú esperte. Sappiamo che già nel 1219 egli donò alla nascente basilica tutti i beni che possedeva in città e nel territorio vercellese. La nuova chiesa fu consacrata il 7 dicembre 1225, un paio d’anni prima della fine dei lavori. In occasione della consacrazione il cardinale volle essere presente a Vercelli, ma non riuscí a vedere il completamento della sua creatura.

Lavori in corso

È difficile affermare con precisione quando i lavori di costruzione della basilica si siano conclusi. La tradizione racconta che il complesso fu terminato nel 1227, tuttavia qualche studioso, tra cui Silvia Muzzin, scrive che «nel 1227 la fabbrica non era ancora completata, ma lo sarebbe stata entro pochi anni». Mentre gli operai lavoravano ancora alacremente alla chiesa, Guala fondò anche il progettato ospedale, che sorse proprio di fronte al complesso abbaziale di S. Andrea, in quella che oggi è via Galileo Ferraris. Il desiderio di Bicchieri di fondare una struttura assistenziale per i pellegrini e i malati compare per la prima volta in forma scritta in un documento del 1223. Lo stesso annovembre

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no il cardinale assegnò la sua nuova chiesa vercellese ai canonici sanvittorini di Parigi, che aveva già conosciuto nel 1208 e che aveva rivisto tornando dall’Inghilterra. Presso la loro abbazia parigina quei canonici gestivano un grande ospedale, dove intrecciavano lo studio quotidiano con la carità e la misericordia. È dunque lecito supporre che la struttura voluta da Guala sia nata proprio sulla base dell’attenzione dei Sanvittorini alle necessità dei poveri, degli infermi e dei pellegrini. Con ogni probabilità, in altri termini, lo spirito caritatevole dei canonici parigini trovò una profonda consonanza nell’animo del cardinale, che avendo viaggiato molto conosceva i disagi affrontati dai viandanti. Va aggiunto che, come ha scritto Maria Beatrice Ferrarotti, con l’arrivo dei canonici regolari di San Vittore si delineava sempre di piú il progetto del cardinale di creare a Vercelli un centro di granIn alto donazione fatta all’ospedale di S. Andrea di Vercelli da Donna Galicia di Cigliano, vedova di Guglielmo de Lea, di due terreni, di cui uno coltivato a vite, dopo essere stata ricoverata nel nosocomio per una malattia. 1255. Vercelli, Archivio di Stato. A destra affresco raffigurante Cristo in trono, al quale sant’Andrea presenta il cardinale Guala Bicchieri. 1225. Vercelli, ex ospedale di S. Andrea.

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storie vercelli de cultura religiosa. Di lí a poco, di fatto, la «Scuola di Sant’Andrea» cominciò ad attirare studenti di tutta l’Italia, tra i quali meritano di essere citati sant’Antonio da Padova e san Bonaventura da Bagnoregio. Intorno alla metà del XIII secolo, inoltre, altri chierici provenienti dalla Francia del Nord e dalla Gran Bretagna si unirono ai canonici sanvittorini di Vercelli, facendo della località un vero e proprio crocevia del pensiero.

Le scelte di Guala

Per la sua nuova fondazione Guala volle il priore di S. Maria de Priano, che si chiamava Giacomo. Il preposito della canonica di S. Croce di Mortara, Palmerio, gli permise di trasferirsi a Vercelli e diventare il primo superiore della nuova comunità di S. Andrea. I Mortariensi erano già presenti

Il Vercelli Book

L’inglese al tempo di Cynewulf Il Vercelli Book è un codice pergamenaceo del tardo X secolo, un manoscritto antico e preziosissimo. Fu redatto in uno scriptorium dell’Inghilterra del Sud, forse per essere usato come modello da alcuni amanuensi. È probabile che sia opera di un singolo scrivano e che non fosse destinato a una persona ricca e altolocata, perché è un manoscritto povero, cioè privo di una copertina preziosa e di decorazioni illuminate. Fu trovato per caso nella Biblioteca Capitolare di Vercelli nel 1822 dal giurista tedesco Friedrich Blume e nessuno ha mai scoperto come e perché sia giunto nella città piemontese. Di certo non fu portato in Italia da Guala Bicchieri, perché il testo contiene un’interpolazione in italiano settentrionale dell’XI secolo: poiché Guala nacque dopo il 1160, la presenza di tale interpolazione dimostrerebbe che il manoscritto era già in Italia all’epoca della legazione inglese del cardinale. Il Vercelli Book è un’antologia di versi e prosa composti nel primo millennio nella lingua degli antichi Anglo-Sassoni, l’Old English. Contiene 23 omelie e 6 poesie, tutte a tema religioso e quasi tutte anonime. Solo due componimenti in versi sono attribuibili con certezza al poeta Cynewulf. Questi, tuttavia, non appose la sua firma in calce ai componimenti, ma sparse nel testo, senza un ordine preciso, e quasi nascondendoli, i caratteri

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a Vercelli nella chiesa e nell’ospedale di S. Graziano e furono i primi canonici del nascente complesso vercellese. Nel 1223, intorno alla metà di novembre, essi furono sostituiti dai Sanvittorini di Parigi, i cui primi rappresentanti furono Simone e Pietro. I canonici francesi rimasero presso la basilica fino al 1467, quando il loro ordine fu soppresso per volere di papa Paolo II e l’abbazia venne affidata ai Lateranensi. Come già ricordato, l’ospedale di S. Andrea nacque nel 1224. Secondo Giuseppe Bo e Mario Guilla la destinazione iniziale della nuova struttura assistenziale era quella di «ospitale», cioè di luogo che doveva offrire ospitalità. Solo in un secondo momento, nel 1246, la sua funzione si trasformò e la fondazione divenne un luogo per la cura dei pellegrini, ma anche dei malati. Di

Una suggestiva veduta innevata del culmine di uno dei campanili gemelli della basilica di S. Andrea.

runici che componevano il suo nome. Si creò cosí una sorta di gioco enigmistico, di mistero letterario che ben si accordava con la passione degli Anglo-Sassoni per i «riddles», gli indovinelli, di cui restano ampie testimonianze nell’Exeter Book. Il codice contiene gran parte della letteratura in Old English sopravvissuta sino ai giorni nostri. Il resto della produzione letteraria in quella lingua antica è rimasto in altri tre manoscritti, che, unitamente al Vercelli Book, sono noti come i Poetic Codices: il Cotton Vitellius (British Library di Londra), il Junius Manuscript (Bodleian Library di Oxford) e l’Exeter Book (Cattedrale di Exeter). Si ritiene che l’insieme di questi tre codici e del Vercelli Book contenga approssimativamente il 90% della poesia anglosassone pervenutaci, per un totale di circa 30 000 versi. Ma chi portò il Vercelli Book nella città piemontese? E perché ve lo lasciò? La risposta definitiva non è ancora stata fornita. Il manoscritto potrebbe essere giunto in Piemonte con il vescovo di Dorchester, Ulf, all’epoca del Concilio di Vercelli (1050), oppure essere stato donato dal vescovo Lyfing durante il suo viaggio a Roma in compagnia del re anglo-sassone Canuto. Ma potrebbe anche essere stato lasciato da un pellegrino che, in viaggio da o per Roma, sostò all’ospedale di S. Brigida e magari vi esalò l’ultimo respiro. Quale che sia l’ipotesi corretta, la presenza del manoscritto a Vercelli conferma gli importanti e frequenti rapporti tra la città e il mondo anglosassone in epoca medievale e resta uno dei misteri piú intriganti di tutta la storia del tempo.

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Nella pagina accanto, in alto uno scorcio della facciata laterale della basilica di S. Andrea. Nella pagina accanto, in basso l’apertura della Homily XXI del Vercelli Book, un’antologia in versi e in prosa redatta in Old English alla fine del X sec. Vercelli, Museo del Tesoro del Duomo.

quell’edificio rimangono solo un piccolo corpo di fabbrica caratterizzato da un portico a sette arcate e da un ampio ambiente interno, oggi chiamato «Salone Dugentesco», nel quale venivano ospitati i pellegrini. Essi alloggiavano in un’ampia sala rettangolare priva di ripartizioni interne, che oggi invece è suddivisa in tre navate, ciascuna delle quali è caratterizzata da cinque campate.

Accoglienza e conforto

Le volte di questo ampio salone sono costolonate, hanno forma tardo-gotica e sono rette da pilastri cruciformi. Le chiavi degli archi presentano elementi decorativi scolpiti e figure di santi, tra cui si riconoscono Antonio, Cecilia, Caterina d’Alessandria e Bernardino da Siena. Giuseppe Bo, Mario Guilla e Anna Maria Brizio hanno scritto che queste decorazioni sono ascrivibili ai primi del XV secolo. La parete di fondo posta a sinistra dell’ingresso è decorata da un affresco che ritrae un Cristo crocifisso assistito dalla Madonna e da San Giovanni. Sulla volta soprastante

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storie vercelli tommaso gallo

Il primo abate della basilica Tommaso di Vercelli o di San Vittore, noto come Tommaso Gallo per la sua provenienza dalla Francia, nacque nel XII secolo e fu un filosofo, un teologo, un esegeta e anche uno dei professori di sant’Antonio da Padova. Non sappiamo esattamente quando e dove nacque, ma ci è noto che divenne canonico regolare di Sant’Agostino e che poi fece il suo ingresso nell’abbazia parigina di S. Vittore, dove dal 1207 insegnò teologia. Secondo Gianmario Ferraris «la prima testimonianza sicura della presenza di Tommaso Gallo a Vercelli risale solo al 4 ottobre 1224». Forse, però, Gallo era già nella città piemontese qualche mese prima. Tornando dall’Inghilterra nel dicembre 1218 Guala si trattenne per circa un mese presso la congregazione parigina di S. Vittore e sembra possibile supporre che in quell’occasione il cardinale abbia apprezzato il profilo culturale di Tommaso e l’organizzazione dell’ospedale sanvittorino. I canonici parigini sono menzionati per la prima volta in documenti vercellesi nel 1223, contestualmente al progetto di Guala di dotare la nuova chiesa di S. Andrea di una struttura ospedaliera per pellegrini e malati. Nominato priore dell’abbazia di S. Andrea nel 1224, due anni dopo Tommaso fu scelto da Bicchieri come primo abate della basilica. Dopo la morte del cardinale, quando la scena politica internazionale era attanagliata dalle lotte tra il papa e l’imperatore, Tommaso ottenne per il suo complesso abbaziale la protezione imperiale. Certamente Federico II ricordava gli ottimi rapporti che lo avevano legato al grande Guala e che lo avevano già spinto, nel 1226, a concedere la sua protezione alla basilica di S. Andrea. E forse fu anche per questo che nel 1238 l’imperatore visitò personalmente Vercelli. Come studioso e docente, Tommaso era in contatto con sant’Antonio da Padova e con Robert Grosseteste e verosimilmente contribuí alla creazione dell’ambiente culturale che nel 1228 diede vita allo Studium Generale di cui si è detto. Come amministratore di S. Andrea e St. Andrew’s, inoltre, nel 1238 si recò personalmente in Inghilterra per occuparsi di questioni finanziarie legate alla chiesa di Chesterton. Purtroppo la sua posizione cambiò radicalmente a partire dal 1243, a causa delle crescenti tensioni tra guelfi e ghibellini. Lasciata Vercelli, l’abate si ritirò a Ivrea presso Pietro Bicchieri e in seguito fu scomunicato e deposto dall’abate di Clairvaux. Da quel momento le notizie sul suo conto sono limitate: non sappiamo se sia tornato a Vercelli nell’ultima fase della vita, né quando e dove morí. È lecito supporre che sia scomparso il 5 dicembre 1246. La prima cappella del transetto destro di S. Andrea ospita il suo monumento funebre, che risale alla prima metà del XIV secolo e ci mostra l’abate Gallo inginocchiato davanti alla Vergine. Il monumento funebre dell’abate e filosofo Tommaso Gallo, collocato nella prima cappella del transetto destro della basilica vercellese.

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si notano i quattro Evangelisti. Anche sulla parete di destra compare un affresco a tema religioso: è il ritratto di un vescovo benedicente, risale alla metà del 1400 e dimostra che tutto l’attuale Salone Dugentesco in epoca medievale doveva avere pareti affrescate, forse per offrire una degna accoglienza e magari anche il necessario conforto a chi vi soggiornava. All’esterno dell’ospedale, nel portico, sopra la porta con arco a tutto sesto da cui si entra nella struttura, si nota una lunetta affrescata, che secondo Bo e Guilla costituisce «uno dei pochi esempi di pittura piemontese del XIII secolo». Al centro della lunetta si riconosce un Cristo seduto sul trono. Sulla sua destra si trova San Pietro con un mazzo di chiavi: è il simbolo della «tutela papale sulla fondazione assistenziale», cioè del fatto che la nuova struttura era protetta direttamente dal papa. A sinistra vi sono altre due figure umane. La piú esterna forse rappresenta Sant’Andrea, mentre quella piú vinovembre

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Le volte della basilica di S. Andrea all’incrocio fra la navata centrale e il transetto, con, al centro, il tiburio sottostante la torre campanaria ottagonale.

cina al Cristo è il cardinale Guala. Quest’ultimo è vestito di verde, con abiti riccamente ricamati che ricordano gli indumenti preziosi elencati tra gli effetti personali del legato. Inginocchiato accanto al trono, regge in mano il modellino di un edificio, che potrebbe essere il nuovo ospedale o la basilica. Sotto la lunetta, sull’architrave in pietra che sovrasta la porta, appare un’iscrizione in caratteri gotici librari disposta su quattro righe. Si tratta di otto esametri, due per ciascuna riga. Ciascuna di queste quattro coppie di esametri contiene una piccola croce: le prime tre croci compaiono dopo la quinta parola delle rispettive righe, mentre la quarta è tracciata dopo la quarta parola. Il testo dell’iscrizione è un elogio ai meriti del cardinale Bicchieri, di cui sono ricordati la sapienza, i natali vercellesi, le missioni diplomatiche in Francia e Inghilterra, la fondazione del complesso abbaziale e la scelta di affidare quest’ultimo a Tommaso Gallo (vedi box alla pagina precedente).

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Secondo Lomartire, al quale si deve un bello studio sull’argomento, il dipinto della lunetta e l’iscrizione dell’architrave furono realizzati subito dopo la costruzione della struttura e quasi certamente dopo la scomparsa del suo fondatore. Vale la pena ripetere che nel 1224, in occasione della fondazione dell’ospedale, Guala donò effetti personali, oggetti e paramenti sacri alla sua creatura e che l’elenco di questi doni è conservato alla Biblioteca Reale di Torino.

L’offerta del modello

La lunetta del portico dell’attuale Salone Dugentesco ben si armonizza con quella del portale sinistro della facciata del S. Andrea sia per il contenuto dell’iscrizione, sia per la scena ritratta: anche nella lunetta della chiesa, infatti, vediamo Guala nell’atto di offrire un modellino della basilica e una lunga iscrizione scolpita sull’architrave, con elogi ai meriti del cardinale. Nella lunetta della facciata, tuttavia, Guala non regge tra le mani il

modellino dell’edificio: quest’ultimo è posto al centro della scena ed è sorretto da un piedistallo. L’ospedale di Guala non fu la prima struttura assistenziale per pellegrini fondata a Vercelli. L’avevano preceduto gli ospedali di S. Eusebio, di S. Martino de Legatesco, di S. Paolo, del S. Spirito, di S. Lorenzo de Vercelli, di S. Graziano, del Collegio dei Lebbrosi di S. Lazzaro e di S. Maria del Fasano. Quest’ultimo accoglieva pellegrini francesi e inglesi, mentre l’ospedale di S. Eusebio, poi di S. Brigida o Degli Scoti, era riservato ai pellegrini irlandesi e scozzesi. A tal proposito va ricordato che l’ospedale di S. Brigida potrebbe essere stato il luogo in cui un misterioso viaggiatore in transito in città nell’XI secolo lasciò il Vercelli Book (vedi box alle pp. 32/33). L’esistenza di altri xenodochia e nosocomi, comunque, non toglie nulla all’importanza della struttura assistenziale fondata dal cardinale Guala Bicchieri, in quanto essa fu certamente una delle prime fondazioni ospedaliere italiane.

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Ricostruzione grafica della figura di san Francesco d’Assisi, ispirata al dossale d’altare su tavola lignea di Bonaventura Berlinghieri (1235) conservata a Pescia, nella chiesa di S. Francesco. Nella pagina accanto una scena dal film Fratello sole, sorella luna, diretto da Franco Zeffirelli (1972).

Effetto a cura della redazione, con contributi di Christoph Kürzeder e Linda Carrion; reportage fotografico di Christian Schmid

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La figura, il messaggio, l’immaginario del santo di Assisi si rinnovano, questa volta fuori dai confini della sua terra d’origine e di predicazione. Una complessa e raffinata mostra intitolata a san Francesco espone opere d’arte di altissima qualità, oggetti della vita monastica, sequenze cinematografiche in un contesto d’eccezione: il Museo Diocesano di Frisinga, nei pressi di Monaco, uno dei piú importanti scrigni d’arte della chiesa cattolica d’Oltralpe, riaperto al pubblico solo di recente, dopo lunghi lavori di restauro

Francesco

L

a mostra «Francesco. Il Santo di Assisi», allestita fino al 7 gennaio 2024 nelle rinnovate sale del Museo Diocesano di Frisinga (e curata da Christoph Kürzeder e Anna-Laura de Iglesia y Nikolaus, con il coordinamento di Lidia e Paolo Carrion), espone opere eccezionali, tra cui prestiti di altissimo livello, provenienti, naturalmente, in massima parte da musei italiani. Gli oggetti testimoniano i momenti cruciali della vicenda esistenziale del santo, nonché i momenti salienti della «storia pittorica» che ne illustra la venerazione: tra essi incontriamo le prime raffigurazioni di san Francesco del XIII secolo, come la famosa tavola di S. Francesco di Pescia, insieme a opere di Tiziano e Caravaggio, per arrivare alle moderne, contemporanee manifestazioni della devozione e interpretazioni del santo, rese attraverso la letteratura e la cinematografia. La mostra, d’altra parte, non è affatto una sola esposizione didascalica di capolavori, ma intende rispondere esplicitamente a un interrogativo solo in apparenza provocatorio e che si inserisce, con piena e dichiarata consapevolezza, all’interno delle attuali crisi socio-politiche ed ecclesiastiche: il mondo di oggi non avrebbe nuovamente bisogno di una figura «rivoluzionaria» come Francesco?

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Su questo tema si esprime anche la schiera di storici e storici dell’arte i cui interventi sono riuniti nell’ampio catalogo della mostra, per ora disponibile solo in lingua tedesca ma di cui pubblichiamo, nelle pagine seguenti, una traduzione della prefazione del suo curatore, Christoph Kürzeder.

Un mondo di cambiamenti epocali Oggi come nel XII secolo – affermano i curatori della mostra – il mondo sta vivendo cambiamenti epocali; lo sconvolgimento degli equilibri sociali e ambientali è tale da richiedere soluzioni urgenti e radicali. E mentre si va approssimando l’ottavo centenario della sua morte, Francesco appare come una figura di speranza valida e alternativa in un mondo che sembra senza futuro. La sua dedizione a tutte le creature, il suo rifiuto della società dei consumi, cosí come la sua ricerca spirituale e persino il suo fallimento, non solo hanno ispirato gli uomini in passato, ma lo rendono ancora oggi una figura carismatica: ne sono esempio emblematico la scelta inedita del nome e l’orientamento pastorale dell’attuale papa Francesco. (segue a p. 40) 37


mostre san francesco

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Trittico raffigurante la Madonna tra i santi Girolamo e Francesco, tempera su tavola di Giovan Francesco da Rimini. 1450 circa. Perugia, Galleria Nazionale dell’Umbria. Nel particolare a sinistra, la figura di san Girolamo (1); in basso, un piccolo leone

(2). Nella pittura medievale italiana i santi Girolamo e Francesco appaiono spesso in coppia, come testimoni dell’ideale ascetico e del ritorno ai dettami del Vangelo. 2

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In alto veduta del Museo Diocesano di Frisinga, e, qui sopra, il Domberg (il Monte del Duomo) della città, con, in evidenza, i due campanili della chiesa.

Berlino Olanda

Polonia

IL MUSEO DIOCESANO DI FRISINGA

Il Museo Diocesano di Frisinga (Diözesanmuseum Freising – DIMU), situato sul Domberg (il monte del duomo) di Frisinga è il museo dell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga. La sua collezione contiene opere che dall’inizio del V secolo arrivano all’arte moderna e contemporanea. Dopo i Musei Vaticani, il DIMU ospita la seconda piú grande collezione d’arte della Chiesa cattolica al mondo. Punti focali del patrimonio sono l’arte di Bisanzio, il tardo gotico, il barocco e manufatti che testimoniano la pietà cristiana, tra cui una vasta collezione di presepi. Il Domberg è una collina alta una trentina di metri a nord del fiume Isar. Al centro della collina si trova la Cattedrale di Frisinga, o piú precisamente la Cattedrale di S. Maria e S. Corbiniano di Frisinga.

GER MA NIA Rep. Ceca Francia

Freising Svizzera

Austria

A sinistra la città di Freising (Frisinga) in un’incisione di Michael Wening (1645-1718) dall’opera Historico-Topographica Descriptio.

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mostre san francesco

Meno evidente, ma stimolante pur nella sua contraddittorietà, è il forte legame del noto regista italiano Franco Zeffirelli (1923-2019) con la figura di san Francesco. Il suo film del 1972, Fratello sole, sorella luna, liberamente ispirato alla vita e alle opere del santo, ha fortemente influenzato l’immaginario collettivo, creando, in qualche modo, l’archetipo di quel Francesco che tutti noi oggi conosciamo. Nell’opera di Zeffirelli, l’attenzione puntigliosa verso la messa in scena traspare nella scelta dei luoghi, sem-

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pre pertinenti all’argomento trattato: ne sono esempi la Fortezza di Montalcino, dove si svolge la scena del denudamento di Francesco, il Palazzo dei Consoli di Gubbio per la seduta plenaria dei maggiorenti del popolo, ma anche, appunto, i campi di papaveri e cereali, specchio di una natura sempre presente nella vocazione del santo. E proprio con alcune sequenze del film di Zeffirelli, tratte dal suggestivo «canto del sole tra i papaveri» si apre il percorso della mostra. A. M. S.


Una sala della mostra allestita al Museo Diocesano di Freising con il ritratto di Francesco dipinto a tempera su legno da Margaritone d’Arezzo (1260-75 circa), proveniente dal Museo

Nazionale d’Arte Medievale e Moderna di Arezzo. Nella pagina accanto il santo in alcuni fotogrammi del film Fratello sole, sorella luna in apertura del percorso della mostra.

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mostre san francesco

IL MIO INCONTRO CON IL SANTO

«Dico, perché a te tutto il mondo viene dirieto, e ogni persona pare che desideri di vederti e d’udirti e d’ubbidirti? Tu non se’ bello uomo del corpo, tu non se’ di grande scienza, tu non se’ nobile onde dunque a te che tutto il mondo ti venga dietro?»

In questa pagina san Francesco in un’altra scena del film Fratello sole, sorella luna. Nella pagina accanto l’interno del santuario di S. Masseo de Plathea sul colle di Assisi.

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el capitolo decimo dei Fioretti di San Francesco (XIV secolo; vedi la citazione qui accanto), l’ignoto autore fa pronunciare la provocatoria domanda a frate Masseo, uno dei primi compagni del santo. Una domanda di grande attualità: perché il santo di Assisi, morto quasi 800 anni fa, ancora ci commuove e ci affascina? Perché, ancora oggi, ci sono persone che addirittura si sentono chiamate a vivere tutta la loro vita secondo i suoi ideali in una comunità francescana, sia come laici, sia come religiosi? I libri su di lui riempiono le biblioteche, ogni anno se ne aggiungono altri. Anche nel cinema Francesco fa la sua apparizione molto presto: già nel 1918 apparve una prima produzione cinematografica dedicata alla sua vita, a cui ne sono seguite innumerevoli altre. E se nel corso della storia la popolarità della maggior parte dei santi si è rivelata mutevole, rimanendo per lo piú limitata a livello locale e, in alcuni casi, scomparendo del tutto, l’«effetto Francesco» nei secoli non si è mai esaurito. Anzi, oggi il santo di Assisi è piú popolare che mai, in tutto il mondo e anche al di fuori dei confini della chiesa cattolica. novembre

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mostre san francesco Una scena di vita quotidiana nel santuario francescano della Verna, sull’Appennino Toscano presso Arezzo. Nella pagina accanto, in alto alcuni fotogrammi

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che ritraggono papa Francesco I. Nella pagina accanto, in basso il saio di san Francesco. Assisi, basilica di S. Francesco, Cappella delle Reliquie.

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Come è noto, la fortuna del santo ha tratto nuova linfa dalla nomina dell’argentino Jorge Mario Bergoglio a 265° successore di Pietro, il 13 marzo 2013: primo papa non europeo da 1300 anni e, soprattutto, il primo in assoluto a chiamarsi Francesco. Con la scelta del nome, il nuovo papa ha dato al suo pontificato una chiara impronta ecclesiastica e pastorale, al contempo sfruttando, per sé e per il papato, l’indiscussa popolarità del santo. Da un punto di vista strettamente francescano, si potrebbe addirittura parlare di una sorta di «appropriazione culturale». Certo, ci sono stati pontefici francescani nel corso della storia della Chiesa, come Niccolò IV (12881292), Sisto IV (1471-1484), Giulio II (1503-1515), Sisto V (1585-1590) e Clemente XIV (1769-1774). Questi, tuttavia, non consideravano come loro com-

pito prioritario quello di condurre la Chiesa sulla via degli ideali francescani della povertà e dell’imitazione di Cristo. Bergoglio è diverso: come Francesco I, la sua dichiarata intenzione è quella di riformare e rinnovare una Chiesa scossa dalla crisi nello spirito del Poverello. All’«effetto Francesco» si affidarono alcuni predecessori dell’attuale pontefice già nel XIII secolo: Innocenzo III (+1216) e Gregorio IX (+1241), entrambi contemporanei e importanti sostenitori del santo e del suo movimento, erano ben consapevoli del

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mostre san francesco San Francesco e alcuni suoi seguaci in una scena del film Fratello sole, sorella luna. In basso San Francesco predica agli uccelli, affresco del Maestro di san Francesco. XIII sec. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Inferiore.

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potenziale che il carismatico predicatore itinerante e asceta racchiudeva ai fini dei loro obiettivi politici e di potere. In Francesco avevano trovato una ideale figura di guida e di integrazione che, a capo di una comunità religiosa in esplosiva crescita, contribuiva in modo decisivo a riunificare e rafforzare una Chiesa minacciata da divisioni interne e perdita di potere. La canonizzazione avvenuta nel luglio del 1228, non piú tardi di due anni dopo la sua morte, e la simultanea posa della prima pietra della monumentale chiesa di Assisi ne sono l’esplicita conferma.

Una grande campagna mediatica

La canonizzazione e la costruzione della basilica di S. Francesco rappresentano due pietre miliari nel processo di trasmissione mediatica della immagine di Francesco. Egli non è solo una delle personalità storicamente meglio documentate del Medioevo; è anche una delle personalità maggiormente rappresentate. Con la sua morte ha inizio una «campagna mediatica», portata avanti attraverso i mezzi della scrittura e dell’immagine, continuamente vivificata secondo le piú aggiornate «strategie di comunicazione» del momento. Nel corso di questo secolare processo è stata ogni volta posta l’attenzione su sfaccettature diverse della sua personalità e del suo carisma.

Per secoli le persone si sono poste proprio questa domanda «chi è, per me, il santo di Assisi?», cercando di dar forma a questo loro rapporto attraverso la parola e l’immagine

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Quando ancora in vita, riuscí a entusiasmare la gente con apparizioni pubbliche in grado di scatenare, non di rado, veri e propri tumulti. Se vogliamo dar retta ai resoconti dell’epoca, se ne ricava un’immagine piú simile a quella di una rockstar osannata dai suoi fan che non a quella di un frate mendicante circondato dalla sua pia congregazione. Riferisce il chierico e cronachista Tommaso da Spalato a proposito di un sermone del santo a Bologna, in occasione della festa dell’Assunzione del 1222 alla quale «era accorsa quasi tutta la città» che «la venerazione e l’entusiasmo della folla aumentavano a tal punto che uomini e donne si precipitarono su di lui a frotte, lottando per toccare almeno l’orlo della sua veste o per strappare un brandello dei suoi stracci». Enfatizzazione mediatica, culto della personalità e politica ecclesiastica compongono il lato estroverso e «rumoroso» della storia di Francesco. Poi, però, conosciamo un lato diverso, del tutto opposto al precedente, e senza il quale «l’effetto Francesco» si sarebbe ridotto a un fuoco di paglia della storia. Un lato profondamente radicato nella personalità del santo e segnato da un percorso di introversione, di ritiro e concentrazione, di lotta alla ricerca di un senso e di una finalità; un percorso accompagnato dalla (segue a p. 50)

Assisi. La basilica di S. Francesco.

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mostre san francesco San Francesco del Deserto di Lidia Carrion

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asa che ‘i siori fasa la so paràda, noàltre sí che semo andàde a pregàr dasén»: cosí diceva mia mamma davanti all’ingresso della chiesa dei Frari, in Campo San Polo a Venezia, dove abitavamo, mentre guardavamo gli abitanti del sestiere che si recavano alla mesa granda, la funzione domenicale delle 11, quella riservata ai ricchi elegantemente vestiti. Noi avevamo già assistito alla messa festiva alle 7 del mattino sull’isola di San Francesco del Deserto, dove ogni domenica il rito si celebrava nella chiesa che – si diceva – sant’Antonio avesse fatto costruire in onore di Francesco nel 1228, l’anno della canonizzazione del Poverello di Assisi. Mia madre e io potevamo assistere alla messa grazie a un amico di famiglia che ci portava con la barca per la pesca sulle barene. La navigazione durava circa un’ora e per me era una festa: partivamo alle 6, risalendo la laguna verso nord; costeggiavamo l’isola di Sant’Erasmo ancora addormentata mentre il sole, come un’arancia matura, tingeva di giallo i suoi orti silenziosi e, nella mia fantasia di bambina, mi figuravo di

sbarcare sull’Isola delle due vigne con san Francesco che mi teneva la mano per non cadere in acqua. Primavera del 1220. Una nave veneziana proveniente dall’Egitto attraversa la laguna e attracca a Torcello, il luogo delle probabili origini di Venezia. A quel tempo, l’isola era affollata e vivace. La sua fama nel Mediterraneo ci è nota grazie a un celebre passo di uno storico d’eccezione, Costantino VII detto il Porfirogenito, imperatore dei Bizantini. Nel De Administrando Imperio egli si riferisce a Torcello con il termine di emporion mega: un grande porto, dunque, un centro dedito al commercio e un luogo di scambi tra Oriente e Occidente. A bordo di una di quelle navi c’è anche Francesco d’Assisi, accompagnato da un suo discepolo, frate Illuminato da Rieti. Francesco, il fondatore di un nuovo ordine religioso che aveva fatto della povertà la propria bandiera e dell’armonia col creato la propria originale via verso la santità, aveva lasciato le verdi colline dell’Umbria l’anno prima, al seguito della quinta crociata. La sua intenzione, però,

Veduta aerea dell’isola di San Francesco del Deserto, nella Laguna di Venezia (sullo sfondo, l’isola di Burano). Qui, nella primavera del 1220, approdò Francesco d’Assisi, proveniente dall’Egitto. In basso un frate nel santuario francescano della Verna.

non era quella di combattere in nome della fede, ma di compiere una missione di pace. Francesco sperava in una possibile intesa tra cristianesimo e Islam. Catturato dai Saraceni, aveva incontrato il Sultano d’Egitto, Malek el Kamel che, affascinato dalla sua appassionata spiritualità, pur non lasciandosi convertire lo aveva liberato e fatto scortare, incolume, al campo dei cristiani. La missione di pace non aveva dato l’esito sperato, per di piú, mentre Francesco era in Africa, nell’Ordine da lui fondato si facevano strada orientamenti diversi che si discostavano dalla sua originaria intuizione evangelica. Francesco, malato e stanco, sentiva il bisogno

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di ritirarsi in preghiera e di riflettere in silenzio per ritrovare la pace in sé stesso prima di ridiscendere verso Assisi. È in quel momento che il santo approda su una piccola isola della laguna, nella diocesi del Torcello, che gli viene messa a disposizione da un nobile veneziano. L’isola è letteralmente invasa dagli uccelli, aironi, cormorani, anatre, gabbiani, rondini, ma il loro chiasso assordante, narra la tradizione, si arresta quando Francesco comincia a pregare. Cinque anni dopo, ormai prossimo all’incontro con Sorella Morte, forse ispirato anche da quella sua breve permanenza sull’isola della laguna veneta, Francesco comporrà il suo commovente canto di lode al Creatore: «Laudato sii mi Signore, cum tutte le tue creature».

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«O beata solitudo, o sola beatitudo» è l’iscrizione che accoglie coloro che oggi vengono traghettati dalla barca dei frati che dalle rive di Burano raggiunge l’isola di San Francesco del Deserto, percorrendo in una quindicina di minuti lo spazio di laguna che separa l’isola dei merletti e del turismo di massa da un paradiso verde che sembra appartenere a un altro mondo. Ci sono luoghi nei quali è possibile uscire dall’autoinganno di un Ego al centro di tutto, che fa credere di essere in rapporto con gli altri quando si è estranei perfino a se stessi; luoghi dove non si fugge, ma si affronta, dove non si evita ma si incontra; luoghi dove il tempo non divora, anzi, si lascia gustare: tutto questo è certamente San Francesco del Deserto.

L’isola fu ufficialmente donata da Jacopo Michiel all’ordine francescano nel 1233, poco dopo la canonizzazione di Francesco (1228) ed è lí che i Francescani vivono da otto secoli, salvo qualche breve interruzione: nel 1400 a causa della malaria e ai primi dell’Ottocento quando le truppe napoleoniche prima e quelle austriache poi trasformarono l’isola in magazzino e polveriera. Ormai sull’isola vivono pochi frati e una cagnetta «devota» di nome Tosca, che condivide con loro sia la cura dell’orto e del giardino che i momenti di preghiera. A San Francesco del Deserto riecheggiano le parole della Genesi: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel Giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse».

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mostre san francesco Paesaggi francescani: tramonto ad Anghiari e, in basso, campi di girasoli ai piedi di Assisi.

nostalgia di una vita in armonia con se stessi e con il proprio ambiente, di un mondo giusto e pacifico, di una comunità portante e condivisa, all’interno della quale sia possibile comunicarsi. È questo il santo che io ho conosciuto, una quarantina di anni fa, e precisamente nella Comunità di S. Masseo, un santuario benedettino semidiroccato ai piedi di Assisi, e che prende il nome dal frate citato in apertura di questo articolo. All’inizio degli anni Ottanta, un carismatico frate fran-

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Dove e quando «San Francesco. Der Heilige aus Assisi» Freising, Diözesanmuseum fino al 7 gennaio 2024 Orario da martedí a domenica, 10,00-18,00 Info www.dimu-freising.de

cescano, Bernardino Greco, aveva iniziato a restaurare e ricostruire lo storico edificio, allo scopo di avvicinare soprattutto i giovani alla figura dell’«altro» Francesco. Per la sua iniziativa aveva scelto un luogo che potremmo definire auratico, avvolto dalla piú bella campagna dell’Umbria, circondato da uliveti, prati e campi, con una cripta che si faceva centro spirituale e cuore della comunità in continua evoluzione. Da quei giorni, il Francesco che ho conosciuto in questo luogo meraviglioso mi ha accompagnato sempre.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/10

Prove tecniche di femminismo di Corrado Occhipinti Confalonieri

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Ricca e variegata è la galleria dei personaggi femminili tratteggiati da Sacchetti nel Trecentonovelle: donne astute, maliziose, volitive, ma anche pronte a battersi per far valere i propri diritti e a non accettare in silenzio le violenze e i soprusi degli uomini

Allegoria della primavera, tempera su tavola di Sandro Botticelli (al secolo, Alessandro Filipepi). 1482-1485 circa. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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il trecentonovelle di franco sacchetti/10

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a grande estimatore di Giovanni Boccaccio, che aveva dedicato il Decameron alle donne, Franco Sacchetti, nel Trecentonovelle, traccia figure femminili dotate di senso dell’ironia, capaci di affrontare i problemi da sole ma anche di schivare con astuzia le situazioni imbarazzanti e compromettenti. Il registro rimane sempre quello del divertimento moraleggiante e non troviamo quindi grandi storie d’amore, ma donne che vivono la quotidianità del loro tempo. Non solo: attraverso le novelle che le vede protagoniste, Sacchetti ci permette di capire meglio un mondo femminile medievale che esce dagli stereotipi in modo sorprendente. Nella novella VIII, un genovese «scientifico [colto] cittadino e in assai scienze bene esperto» di aspetto «piccolo e sparutissimo [magrissimo]» è innamorato di una bella donna che «o per sparuta forma di lui, o per moltissima onestà di lei, o per che vi fosse la cagione già mai, non ch’ella l’amasse, ma mai gli occhi in verso lui tenea, ma piú tosto fuggendolo in altra parte gli volgea». L’innamorato conosce la fama di Dante Alighieri e si reca a Ravenna per chiedergli un consiglio su come «potesse entrare in amore a questa donna, o almeno non esserli cosí nimico». Quando arriva nella città romagnola, l’innamorato va a un banchetto al quale sta partecipando il sommo poeta, che è disposto ad ascoltarlo: «Io ho amato e amo una donna con tutta quella fede che [con la quale] amore vuole che s’ami; già mai da lei, non che amore mi sia stato conceduto, ma solo d’uno sguardo mai non mi fece contento». Udite quelle parole e vedendo l’aspetto misero dell’uomo, Dante risponde: «Messere, io farei volentieri ogni cosa che vi piacesse; e di quello che al presente mi domandate non ci veggio altro che uno modo, e questo è che voi sapete che le donne gravide hanno sempre vaghezza [desiderio] di cose strane; e però converrebbe che questa

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donna che cotanto amate ingravidasse: essendo gravida, come spesso interviene che l’hanno vizio di cose nuove, cosí potrebbe intervenire che ella avrà vizio di voi; e a questo modo potreste venire ad effetto del vostro appetito: per altra forma serebbe impossibile». Si noti, qui, il riferimento alle proverbiali «voglie» delle puerpere.

Una replica sgradita

Il genovese rimane piccato: «Messer Dante voi mi date consiglio di due cose piú forte [impossibili] che non è la principale; però che [poiché] forte cosa [difficile] sarebbe che la donna in gravidanza, però che mai non in gravidò; e vie piú forte serebbe che poi che la fosse ingravidata, considerando di quante generazioni [specie] di cose ell’hanno voglia, ch’ella s’abatesse ad aver voglia di me. Ma in fé di Dio, che altra risposta non si convenía alla

Sulle due pagine miniature raffiguranti una scena di corteggiamento (in alto) e una conversazione fra amici, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

mia domanda che quella che mi avete fatto». Grazie alla salace battuta di Dante, l’innamorato capisce di aver puntato troppo in alto. Sacchetti trae una caustica morale dalla novella: «Questo genovese era scienziato ma non dovea essere filosofo, come la maggior parte sono oggi; però che [in quanto] la filosofia conosce tutte le cose per natura [nella loro essenza]; e chi non conosce sé princinovembre

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palmente, come conoscerà mai le cose fuora di sé? Costui, se si fosse specchiato, o col specchio della mente, o col corporale, avrebbe pensato la forma sua e considerato che una bella donna, eziandio [tanto piú] essendo onesta, è vaga [desidera] che chi l’ama abbia forma di uomo e non di vilpistrello [pipistrello]. Ma e’ pare che li piú sono tocchi da quel detto comune: e’ non ci ha maggior

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inganno che quello di sé medesimo». Un aspetto che emerge da questa novella è la libertà della donna a scegliere un uomo che considera attraente, ma non è il solo diritto femminile a cui si riferisce Sacchetti. A Firenze (CCXXVII) muore un gentiluomo e lascia la moglie «con un solo fanciullo maschio il quale, crescendo con poca prosperità e non molto

forte di natura, la madre ne facea gran guardia; e pur, perché la famiglia non rimanesse spenta, li diede moglie una fanciulla baldanzosa e gaia e di forte natura, e con questo piacevolissima; e ogni cosa considerata, la madre, avendo paura del mancamento [possibilità di morte] del figliuolo, rade volte lo lasciava giacere con lei». All’epoca, per assicurare la

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il trecentonovelle di franco sacchetti/10 crescita del figlio gracile, i genitori spendevano molto denaro per i «brievi», piccole carte con formule magiche che venivano piegate, avvolte in tessuto prezioso e tenute al collo dei bambini, Dopo qualche tempo, i foglietti venivano aperti per applicare quanto scritto, ma evidentemente il «brieve» non aveva sortito effetto con il macilento marito! Un giorno la sposina si trova con la suocera e altre donne in sala «chi cucendo e chi filando», quando si accorge «a un orticello fuori d’una finestra – o a uno testo [vaso di fiori in terracotta] che fosse – una passera calcare l’altra spessissime volte, come hanno per uso; e subito dice: “Buon per te, passera, che non avesti suocera!”». Le donne si guardano tra loro e scoppiano a ridere, tranne la suocera che borbotta; la giovane «uscí pur oltre, che non parve suo fatto [tanto che il motto non sembrò riguardare lei]». Sacchetti prende le difese della giovane sposa: «Credo che, quando è dato moglie a un giovane per tal forma, si doverrebbe fare ragione [rispettare i diritti] della compagna, che non si marita perché la viva casta». La donna ha quindi il diritto di vivere una sessualità appagante al di là dell’atto mirato al concepimento, come invece voluto dalla Chiesa. Ma anche le nobili appaiono capaci di moti di spirito come l’anonima sposina.

San Gimignano, Palazzo Comunale. Camera del Podestà. Affresco di Memmo di Filippuccio raffigurante gli esiti positivi dell’iniziazione amorosa di un giovane, facente parte di un ciclo che presenta scene d’amore, oltre a una serie di exempla morali rivolti al Podestà, che non doveva cedere alla corruzione. Inizi del XV sec.

Una fredda accoglienza

Beatrice d’Este, sorella di Azzo VIII signore di Ferrara, rimane vedova del giudice Nino Visconti di Gallura e torna a casa (XV). Visto il lungo periodo di lontananza, Beatrice rimane stupita del comportamento del fratello, che non l’accoglie con affetto e gli chiede: «Potre’io sapere, fratel mio, perché tanta ira e tanto sdegno tu dimostri verso di me, sventurata vedovella, e piú tosto posso dire orfana, venendomi tu meno, che altro ricorso non ho?». Il marchese le risponde: «O non

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sai tu la cagione? E perché ti maritai io al giudice di Gallura? Come non ti vergogni tu di essere stata cinque anni sua mogliera ed essermi tornata in casa senza avere fatto figliuolo alcuno?». In realtà, a differenza di quanto narra Sacchetti, Beatrice ebbe una figlia, Giovanna, da Nino Visconti. Appena il fratello finisce di parlare, Beatrice ribatte: «Fratel mio, non dire piú, ch’io ti intendo; e giuroti per la fé di Dio che, per adempiere la

tua volontà, ch’io non ho lasciato né fante, né ragazzo, né cuoco, né altro con cui io non abbia provato ma, se Dio non ha voluto, io non ne posso fare altro». Anziché scandalizzarsi, Azzo sembra rallegrato dalla dichiarazione della sorella, come se «la trovasse poi senza difetto; e in quell’ora l’abracciò teneramente e amandola e avendola piú cara che mai». Nel Medioevo sembrano frequenti i casi di sterilità: le coppie novembre

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si recavano alle terme per curarsi, come raccontato nella novella CXXXI, oppure si affidavano alle formule dei «brievi». Sacchetti condanna ogni forzatura e suggerisce di affidarsi alla volontà di Dio, anche perché «delle sei volte le cinque [cinque volte su sei] l’uomo ha volontà di avere figluoli , li quali sono poi suoi nimici, desiderando la morte del padre per essere liberi». Dell’ingegno femminile è ben

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consapevole il maestro Alberto Arnoldi (CXXXVI). A Firenze lo scultore lombardo lavora assieme a suoi colleghi pittori sulla chiesa di S. Miniato. Dopo aver alzato un po’ il gomito all’ora di pranzo, Andrea Orcagna chiede agli altri chi considerino il piú grande pittore dopo Giotto. C’è chi nomina Cimabue, chi Buonamico Buffalmacco, chi Taddeo Gaddi. Un altro ancora sostiene: «Per certo assai va-

lenti dipintori sono stati e che hanno dipinto per forma ch’è impossibile a natura umana poterlo fare; ma questa arte è venuta e viene mancando tutto dí». Alberto interviene nella discussione: «E’ mi pare che voi siate forte errati [sbagliate decisamente], però che certo vi mostrerò che mai la natura non fu tanto sottile quant’ella è oggi, e spezialmente nel dipignere e ancora nel fabricare intagli incarnati». I presenti cominciano a sghi-

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il trecentonovelle di franco sacchetti/10

Il dipinto convenzionalmente noto come Cassone Adimari, tempera su tavola di Giovanni di ser Giovanni, detto lo Scheggia. 1450 circa. Firenze, Galleria dell’Accademia. È stato ipotizzato che, per via della sua lunghezza (303 cm) non si tratti di un vero e proprio frontale di cassone, ma dello schienale di un forziere che oggi si ritiene in genere eseguito per le nozze Adimari-Ricasoli, celebrate nel 1420. Lo scarto temporale fra il matrimonio e la realizzazione della tavola dipenderebbe dal fatto che non sempre l’esecuzione di tali oggetti era contemporanea alle nozze, oppure che fosse stato realizzato per lo sposalizio Adimari-Martelli, avvenuto piú tardi.

gnazzare, come se avesse detto una bestialità, gli chiedono di dimostrare la sua affermazione. Alberto non si scompone: «Io credo che il maggior maestro che fosse mai di dipingere e di comporre le sue figure è stato il nostro Signore Dio; ma e’ pare che, per molti che sono [da parte di molti viventi], sia stato veduto nelle figure per lui create grande difetto, e nel tempo presente le correggono. Chi sono questi moderni dipintori e correttori? Sono le donne fiorentine. E fu mai dipintore che sul

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nero o del nero facesse bianco, se non costoro?». Alberto si riferisce alle tinture e ai trucchi che secondo la moda del Trecento trasformavano le chiome scure in bionde e l’incarnato olivastro in chiaro. «E’ nascerà molte volte una fanciulla, e forse le piú, che paiono scarafaggi; strofina di qua, ingessa di là, mettila al sole, e fanno le diventare piú bianche che l’ cecero [cigno]». All’epoca le donne si asciugavano i capelli al sole e al vento sulle terrazze e sulle altane, al riparo da occhi indiscreti.

Piú brave dei pittori

«E qual artista o di panni o di lana [tintore di panni] o dipintore è, che del nero possa far bianco? Certo niuno; però che è contro natura. Serà una figura pallida e gialla: con artificiati colori la fanno in forma di rosa. Quella che per difetto o per tempo [per vecchiaia] pare secca, fanno diventare fiorita e verde. Io non ne cavo Giotto, né altro dipintore che mai colorasse meglio di costoro; ma quello che è vie maggior cosa, che un viso che sarà mal proporzionato e avrà gli occhi grossi, tosto parranno di falcone; avrà il naso torto, tosto il faranno diritto, avrà

mascelle d’asino, tosto l’assetteranno; avrà le spalle grosse, tosto le pialleranno; avrà l’una in fuori piú che l’altra, tanto la rizzafferanno [imbottiranno, raddrizzandola] con bambagia che proporzionata si mostreranno con giusta forma. E cosí il petto, e cosí l’anche facendo tutto quello senza scarpello che Policreto [famoso scultore greco del V secolo a.C.] con esso non averrebbe saputo fare. E abreviando il mio dire, io vi dico e rafermo che le donne fiorentine sono maggiori maestre di dipignere e d’intagliare che mai altri maestri fossono; però che assai chiaro si vede che le restituiscono dove la natura ha mancato. E se non mi credete, guardate in tutta la nostra terra e non troverete quasi donna che nera sia». La moda trecentesca della tintura bionda dei capelli, in voga soprattutto a Firenze e a Venezia, risultava anche pericolosa perché le donne stavano «tutto dí su per li tetti chi l’increspa e chi l’appiana e chi l’imbianca, tanto che spesso di catarro muoiono» (CLXXVIII). Maestro Andrea conclude: «Questa non è che la natura l’abbi fatta tutte bianche; ma per studio [con artificio], le piú nere son diventate bianche. E cosí è del loro viso e novembre

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dello ’mbusto [torace], che tutti, come che naturalmente siano e diritti e torti e scontorti, da loro con molti ingegni e arti sono stati redotti a bella proporzione. Or se io dico il vero, l’opera lodi il maestro». Dopo tanta fatica, le leggi suntuarie dell’epoca possono ben poco contro l’acume femminile.

Norme poco rispettate

Ne sa qualcosa Amerigo degli Amerighi (CXXXVII), giudice a Firenze da marzo a settembre del 1384. L’ufficiale pubblico pesarese ha il compito di applicare la «nuova legge sopra gli ornamenti delle donne» assieme ai suoi notai, ma senza risultato e si giustifica cosí al Consiglio: «Signori miei, io ho tutto il tempo della vita mia studiato per apparar ragione [imparare il diritto], e ora, quando io credea sapere qualche cosa, io truovo che io so nulla, però che cercando degli ornamenti divietati alle vostre donne per chi ordini che m’avete dati, sí fatti argomenti non trovai mai in alcuna legge come sono quelli ch’elle fanno; e fra gli altri ve ne voglio nominare alcuni. E’ si truova una donna col becchetto frastagliato [colmatura del cappuccio a frange]

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avolto sopra il cappuccio; il notaio mi dice: “Ditemi il nome vostro, però che avete il becchetto intagliato”; la buona donna piglia questo becchetto che è appiccato al cappuccio con uno spillo e recaselo in mano e dice che gli è una ghirlanda [si tratta di un abbellimento staccabile che non fa parte dell’abito, come appunto una ghirlanda]. Or va piú oltre, truova molti bottoni portare dinanzi; dicesi a quella che è trovata: “Questi bottoni voi non potete portare”; e quella risponde: “Messer si posso, ché questi non sono bottoni, ma sono coppelle [bottoni finti a forma concava utilizzati da ornamento]; e se non mi credete, guardate, e’ non hanno picciuolo [gambo per fissare il bottone al vestito] e ancora non c’è niuno occhiello [asola]”». I bottoni sono un’invenzione del XIII secolo, che trova grande diffusione in quello seguente: permettevano di esaltare le forme ed erano anche di materiali preziosi. Il notaio è sconsolato, va «all’altra che porta gli ermellini e dice: “Che potrà apporre [obiettare] costei?”. “Voi portate gli ermellini”; e la vuole scrivere [vuole denunciarla]; la don-

na dice: “Non scrivete, no, ché questi non sono ermellini, anzi sono lattizzi [cuccioli da pelliccia]”; dice il notaio: “Che cos’è questo lattizzo?”. E la donna risponde: “È una bestia”». Da quel momento in poi, i giudici tralasciano le inutili leggi suntuarie per dedicarsi ad altro. Sacchetti sostiene, riferendosi alle donne: «La loro legge ha già vinto gran dottori e come elle sono grandissime loiche [logiche implacabili], quando elle vogliono». Quanto a capacità di sapersi difendere, Duccina (LIV) non è seconda a nessuno. Una sera il marito Ghirello torna a casa, le riferisce che durante una malevola chiacchierata fra amici in piazza sulle loro donne, un certo Naddo l’ha paragonata a un «luogo comune [gabinetto]» per le sue forme abbondanti che non le permettono neppure di piegarsi. Duccina va su tutte le furie, tira «un peto sí grande che parve una bombarda» addosso all’esterrefatto marito e aggiunge: «Belli ragionamenti che sono i vostri! Lasciate stare li fatti miei e de l’altre donne, e ragionate de’ vostri, che tristi [sgradevoli] siate voi de l’ossa e delle

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il trecentonovelle di franco sacchetti/10 La dama con l’ermellino (ritratto di Cecilia Gallerani), olio su tavola di Leonardo da Vinci. 1489–1490 circa. Cracovia, Museo Nazionale.

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carni! Ché ben vorrei che ser Naddo e gli altri cattivi fossero stati qui come ci se’ tu, e avessi fatta la pruova in sul viso loro come io l’ho fatta innanzi a te, che d’altro non eravate degni». Il giorno successivo, Ghirello racconta a Naddo e agli altri del gesto della moglie, tutti sostengono che Duccina aveva ragione e «ch’ella tirerebbe uno balestro non che un peto quando bisognasse». Sacchetti sostiene che quando gli uomini fanno comunella sono meno discreti delle mogli, anzi esse «hanno tanta discrezione che nol fanno», lasciando intendere che ne avrebbero tante da raccontare.

Soprusi intollerabili

Non sempre però le donne riescono a far valere i propri diritti da sole, nonostante escogitino soluzioni sorprendenti. Cecchina (CCI) è una vedova di Modena rimasta con un figlio di dodici anni e «come in tutte le terre avviene – e spezialmente oggi che le vedove e i pupilli, essendo pecore e agnelli, hanno cattivi effetti co’ i lupi, dove ne sono» si trova vittima di un’ingiustizia: le viene rubata una proprietà ma non trova un avvocato disposta ad assisterla. Cecchina escogita un piano: compera una campanella e due pesci, uno grande e uno piccolo, inserendo quello piccino nella bocca di quello grande. Poi si reca con il figliolo che suona la campanella e la cesta con i due pesci per le vie della città. Quando la gente la ferma e le chiede il motivo di quella curiosa iniziativa, la vedova risponde «ch’e’ pesci grandi si mangiavano i piccolini; e cosí continuo a tutti rispose». La sua iniziativa non sortisce il risultato sperato sulla famiglia Pio da Carpi, signori della città dal 1329. Sacchetti conclude: «Io credo che assai intendessono la donna , ma feciono vista di non l’intendere» e lancia uno strale: «Sia certo ciascheduno che chi sostiene [consente] che le ve-

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Venere, tempera su tela di Sandro Botticelli. 1490 circa. Berlino, Staatliche Museen, Gemäldegalerie.


il trecentonovelle di franco sacchetti/10 io, inanzi ch’io abbia voluto teco consumare il matrimonio, ho voluto purgare ciò che tu hai fatto da quinci a dietro con le presenti battiture; acciò che, considerando tu se per li passati falli da te commessi quando non eri mia moglie io ti ho data disciplina, pensa quella che io farò e che battiture sarebbero quelle che da me averai, se da quinci innanzi, essendo mia moglie, di quelli non ti rimarrai [non ti asterrai da quei cattivi comportamenti], e piú non ti dico: tu se’ savia e il mondo è grande [vattene dove vuoi se intendi comportarti come prima]».

Mariti incapaci

Dopo un mese Ermellina guarisce dagli ematomi e cosí il matrimonio viene finalmente consumato e «com’ella era stata per li passati tempi dissoluta e vana, cosí da indi inanzi fu delle care, delle compiute [compite] e delle oneste donne della nostra città». Sacchetti condanna questo tipo di violenza, sostiene che i giovani mariti incapaci sono la colpa dove e’ pupilli siano rubati con doloroso fine vengono a perdere il loro stato». Lo scrittore non dimentica le violenze che si consumano sulle donne fra le pareti domestiche. A Firenze Gherardo Elisei (LXXXV), di antica e nobile famiglia, prende «per moglie una donna vedova; la quale essendo disonesta [donna di facili costumi] e vana con l’altro marito, era stata tenuta assai cattiva di sua persona; e avea nome monna Ermellina». Parenti e amici criticano questa scelta di Gherardo, sostenendo che Ermellina si sarebbe comportata nello stesso modo con lui. La prima notte di nozze, anziché consumare il matrimonio, Gherardo comincia a prendere a bastonate la moglie, che, pesta e dolorante, gli chiede il motivo di quelle botte: «Io non voglio che tu creda, Ermellina, che io ti abbia tolta [presa] per moglie che io non abbia molto ben saputo che femina tu se’ stata; e ben so, e ho udito che costumi sono

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In alto miniatura raffigurante il carattere collerico dell’uomo, dal Codice Schürstab. XV sec. Zurigo, Zentralbibliothek. A destra miniatura raffigurante Beatrice d’Este, dalla Genealogia dei principi d’Este. 1474-1479 circa. Nella pagina accanto miniatura raffigurante una coppia nel proprio letto, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

stati e’ tuoi e quanta onestà è stata nella tua persona; e credo che, se il marito che aveste [avesti] t’avesse gastigata di quello che ora t’ho gastigat’io, queste battiture non bisognavono. E però considerando, ora che se’ mia moglie, gli tuoi passati costumi, le tue disonestà e’ tuoi vituperi non essere stati gastigati,

dei tradimenti delle mogli: «Da’ una fanciulla a un fanciullo e lascia fare loro», facendo cosí capire che l’uomo deve arrivare alle nozze dopo aver acquisito la maturità data dall’esperienza. L’autore del Trecentonovelle non dimentica neppure le vittime di novembre

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stupri. Giovanna (CXI) è una giovane di quattordici anni che nella stagione estiva ama dormire anche di giorno, nonostante la madre insista perché si alzi dal letto. A fianco di casa loro si trova una chiesa gestita da frate Stefano, che sente questi rimproveri: «Udendo tanto chiamare ed essendone nella chiesa, subito si trae le brache e lasciale in un canto; e colse, che ve n’avea presso, parecchi gambi d’ortica ed esce fuori dalla chiesa e va verso la sua comare». Stefano dice alla madre di Giovanna: «Vuoi tu che io la vado a orticheggiare [prenderla a orticate], sí ch’ella si levi?» La madre acconsente pensando che «questo suo compare e parrocchiano fosse catolico [di dirittura morale]». Quando frate Stefano si avvicina al letto dov’era distesa Giovanna, scopre il lenzuolo e «montò a dosso alla detta Giovanna pigliando piacere e diletto, ma non sanza fatica, però che [poiché] la detta fanciulla piangea e gridava». Nell’altra stanza, la madre non interviene, convinta che frate Stefano stesse utilizzando le ortiche, anzi insiste: «Orticheggiala, orticheggiala, sí che si levi». Terminata la violenza, il laido religioso torna in chiesa, non senza prima aver detto alla comare con sfrontatezza che se ci fosse stato bisogno, sarebbe tornato a «orticheggiare».

Stefano, frate spudorato

Giovanna ha il coraggio di rivelare alla madre lo stupro subito, non si vergogna perché sa di essere la vittima: mostra il letto con le tracce della deflorazione alla madre che maledice il frate: «Compare falso, tu m’hai ingannata; ma, per la morte di Dio, io te ne pagherò». Il giorno stesso frate Stefano ha la faccia tosta di chiedere alla vicina se Giovanna si è alzata e gli risponde: «Vanne, compare falso, che per la passion di Dio non ce ne beccherai [qui non potrai prendere niente altro] mai piú!». All’epoca il fenomeno delle violenze sulle donne da parte di

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rappresentanti del clero doveva essere frequente, perché Sacchetti rivela: «Non è adunque maraviglia se le piú non vogliono presso frati o preti, da poi che cosí sfrenatamente assaliscono le femine. Un altro, e io scrittore sono di quelli, che facendo prima mille madriali [madrigali dedicati alla donna amata] e ballate non acquisteremo un saluto; e costui [frate Stefano], venutoli il pensiero, calate le vele [le brache] e lasciate in guardia a quelli Santi dipinti della chiesa, n’andò, come un indomito toro, a congiungersi con una fanciulla. E perciò ha provveduto bene la città di Vinegia [Venezia] che, poiché altri non si può vendicare sopra lor mogli o figliuole, che a ciascuno sia lecito sanza pena fedire ai chierici [ferire i chierici] di qualunque fedite [ferite] non muoiano ellino [con qualunque ferita non mortale, per una pena pecuniaria piuttosto lieve], ed èn-

ne pena soldi cinquanta; e chi è stato là, ha potuto vedere; ché pochi preti vi sono che non abbino di gran catenacci [cicatrici] per lo volto. E di [da] questo freno e infrenata la loro trascurata e dissoluta baldanza». Tra il 1361 e il 1362 Boccaccio scrive il De mulieribus claris, la biografia in latino di 106 donne famose, sostenendo però che fra le contemporanee non ne aveva trovato di abbastanza interessanti da essere ricordate, anzi le esorta a «sviluppare la bella intelligenza di cui Dio le ha dotate». Nel Trecentonovelle, scritto dopo il 1385, Sacchetti sembra accogliere l’invito del suo maestro: Beatrice, Duccina, Ermellina, Giovanna, meritano un posto nella storia delle donne, cosí come quelle rimaste anonime.

NEL PROSSIMO NUMERO ● Gli animali

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Senza

nome e senza

patria di Erberto Petoia

I pregiudizi verso gli zingari hanno radici antiche, che, nei secoli del Medioevo, si moltiplicarono, facendo crescere la diffidenza nei loro confronti. Atteggiamenti dettati dall’ignoranza per un popolo all’apparenza misterioso e sfuggente. Del quale, per esempio, pur riconoscendo il talento nella lavorazione del metallo, si credeva che simili qualità fossero in qualche modo «diaboliche». Considerazioni dalle quali, in età moderna, discese anche la tragica persecuzione delle genti gitane da parte del regime nazista

Una zingara legge la mano di una donna, particolare del pannello centrale del Trittico del carro di fieno, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1512-1515. Madrid, Museo del Prado.

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I I

ntorno alla metà del XV secolo gruppi di nomadi, nel numero di alcune centinaia, dagli abiti dalla strana foggia e dall’aspetto insolito, fecero la loro comparsa in Europa. I diversi resoconti dell’epoca parlano di un popolo strano ed esotico, «forma turpissimi et nigri ut Tartari», di religione pagana («gentiles vulgus vocat»), senza un nome preciso («in Italia Cianos appellant») e senza una lingua propria, ma in possesso di un codice furbesco (che i Tedeschi chiamano «Rottwelsch») e in grado di parlare quasi tutte le lingue europee. Notizie che in parte ricalcano le cronache e i racconti dei viaggiatori, dei pellegrini e dei missionari nell’impero bizantino e in Terra Santa nel XIII e XIV secolo, le cui fantasiose rielaborazioni hanno fatto di questo popolo la spiegazione e l’incarnazione di alcune genti mitiche dell’immaginario medievale. Gli zingari,

come verranno chiamati nelle diverse varianti linguistiche solo in un secondo momento (vedi box in questa pagina), diventano cosí, di volta in volta, gli ultimi superstiti di Atlantide, il popolo del Prete Gianni o i discendenti delle tribú disperse dopo il Diluvio.

Vesti sgargianti e bottoni d’argento

Guidati da capi che si fregiano di titoli altisonanti, quali duca, conte, voivoda, cavaliere, capitano, essi dicono di provenire dal «Piccolo Egitto» (da identificarsi con una regione dell’Asia Minore), in viaggio per espiare il proprio peccato di abiura del cristianesimo. I capi viaggiano a cavallo, vestiti con abiti variopinti, spesso di colore rosso o verde, guarniti con grandi bottoni d’argento e, proprio come veri nobili, accompagnati da cani da caccia. Seguono, a piedi o su carri leggeri trainati da

lessico gitano

Gli «intoccabili» Di tutti i nomi con cui vengono definiti gli zingari, termine di solito usato nell’accezione dispregiativa, essi riconoscono valido solo quello di rom, nella loro lingua «uomo» e per estensione uomo per eccellenza, ossia «zingaro», in contrapposizione a gagio, cioè straniero, uomo sedentario attaccato alla terra e usato per definire tutti i non-zingari. L’origine del gruppo di nomi che fa capo alla forma «zigano» (cigani, zingari, tsigani, zigeuner, ecc.) non è del tutto certa o risolta da valide ipotesi. Secondo alcuni studiosi, il termine andrebbe fatto risalire al greco medievale athinganoi, con il significato di «intoccabile», un appellativo con cui si designava una setta eretica gnostico-manichea, diffusa nel VII secolo in Anatolia occidentale. Qui agli inizi dell’XI secolo viene segnalata la presenza di un gruppo di nomadi, definiti, appunto, atsingani, di professione maghi indovini, incantatori di serpenti, delinquenti e avvelenatori di cavalli. Secondo altre ipotesi, la forma originale andrebbe ricercata

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in un termine turco, deformazione di zingar, «sellatore di cavalli», o nel persiano tcheng, che sta a indicare una sorta di arpa a cassa conica; o ancora nel termine tchegan, di probabile origine tartara, con il significato di martello. Ci sono poi nomi che rimandano alla loro professione o alla loro presunta origine egiziana, in cui appare, in forma piú meno corrotta, la menzione

dell’Egitto: il termine greco gyptoi, lo spagnolo egiptianos, che in seguito diventerà gitanos o l’inglese egypcians che si trasformerà in gypsies. Il salvacondotto firmato da Sigismondo di Boemia ha per lungo tempo accreditato la loro provenienza dalla Boemia, da cui il termine francese bohémiens. Solo nella seconda metà del XVIII secolo si stabilirà definitivamente la loro origine indiana. novembre

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Cartina che mostra le direttrici e le date delle migrazioni dei Sinti e dei Rom dall’India alla Persia e in Europa. Nella pagina accanto La buona ventura, olio su tela del Caravaggio (al secolo, Michelangelo Merisi). 1596-1597. Parigi, Museo del Louvre.

L MIGRAZIONI LE DI SINTI E ROM FINLANDIA

SCANDINAVIA

1584

1515

RUSSIA POLONIA 1509

GERMANIA 1407

FRANCIA 1427

BOEMIA 1399

SERBIA

Mar di Marmara GRECIA

1348

SPAGNA

1320

BISANZIO O 855

PPERSIA 750

AFRICA

dall’India

ARABIA

asini e da cavalli, tutti gli altri membri della carovana, vestiti in massima parte di stracci, con alcuni di loro che conducono scimmie e orsi ammaestrati. Questo variopinto circo ambulante di indovine e nugatores, di musicisti e artigiani, di donne e bambini dediti in egual misura al furto e a piccole astuzie, non mancherà di suscitare l’attenzione di diversi cronisti dell’epoca. Nella Historia miscellanea bononiensis, il documento piú antico relativo alla comparsa degli zingari in Italia, si legge: «A dí 18 luglio 1422 venne in Bologna un duca di Egitto, il quale aveva nome Andrea e venne con donne, putti e uomini del suo Paese e potevan essere ben cento persone». Questa, continua la cronaca, era la piú brutta genia che mai fosse capitata da quelle parti; erano magri e neri e mangiavano come porci. Gli uomini avevano capelli scuri e lunghi e una folta barba, mentre le donne, dalla chioma simile alla «coda di un cavallo» e con «molto velame in testa», vale a dire con stoffe arrotolate a guisa di turbante, indossavano una camicia di grossa tela aperta sul davanti che scopriva ampiamente il petto e una schiavina ad armacollo. Inoltre, sia le donne che i bambini portavano orecchini d’argento su entrambi i lobi, «segno di gentilezza nel loro Paese». Aspetto e abbigliamento che, in netto contrasto con gli usi e i costumi dei Paesi europei, sono destinati a suscitare curiosità e stupore, in un’epoca in cui gli uomini sono rasati e portano i capelli corti, a scodella,

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mentre le donne non indossano vesti drappeggiate e gli anelli alle orecchie sono del tutto sconosciuti.

Un salvacondotto per il voivoda

Fin dalla loro prima comparsa in Europa, gli zingari si presentano come pellegrini penitenti. Essi sostengono che Sigismondo di Boemia, re d’Ungheria e futuro imperatore tedesco, dopo l’occupazione delle loro terre, li ha costretti a battezzarsi e ha imposto loro, come penitenza per il peccato di apostasia di cui si erano macchiati, l’obbligo di viaggiare per sette anni e di recarsi a Roma dal papa per chiedere l’assoluzione. Il gran numero di salvacondotti, di cui sono muniti i capi degli zingari, esibiti al momento opportuno a garanzia di protezione e privilegi, favorirà inizialmente la loro diffusione e la libera circolazione nei Paesi europei. Il piú famoso di questi documenti venne rilasciato da Sigismondo e intestato a nome del voivoda dei cigani Ladislao: «Con la presente lettera comandiamo e ordiniamo alle vostre fedeltà che il medesimo Ladislao voivoda e gli zingari suoi sudditi, tolto ogni impedimento e difficoltà, dobbiate favorirli e proteggerli, che li vogliate difendere da ogni attacco e offesa». La protezione accordata da Sigismondo di Boemia e i motivi del loro pellegrinaggio trovano conferma, per quanto riguarda ancora l’Italia, nel Chronicon fratris Hieronymi de Forolivio: «In quello stesso anno 1422, giunsero a Forlí, mandate dall’imperatore, delle genti desi-

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costume e società zingari Una decisione difficile, olio su tela del pittore austriaco Aloïs Hans Schram in cui una venditrice ambulante gitana cerca di convincere due donne ad acquistare uno scialle. 1893. Collezione privata.

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DISTRIBUZIONE DELLE POPOLAZIONI ROM Rom Sinti Manush Romanichals

Romanisael Kalé gallesi Kalé finnici Kalé spagnoli

derose di ricevere la nostra fede (...) erano quasi in duecento e andavano verso Roma dal papa». Gli zingari erano ben consapevoli che lo status di pellegrini avrebbe loro garantito immunità, grossi vantaggi e la possibilità di ricevere aiuti da parte della popolazione sedentaria, come avevano potuto riscontrare nei frequenti contatti, durante la loro permanenza nell’impero bizantino, con il mondo cristiano e musulmano. Giustificando la loro esistenza nomade con un fine moralmente superiore, l’espiazione dei propri peccati in un pellegrinaggio, essi cercano di aggirare le ordinanze sempre piú rigide dei singoli Paesi europei contro i mendicanti e i vagabondi, ritenuti non solo potenziali diffusori e veicoli di malattie e di contagio, ma pericolosi e inquietanti perché si collocano al di fuori della società, dei legami sociali stabiliti e dei rapporti familiari e di vicinato.

Non tutti meritano l’elemosina

La necessità di accreditarsi come pellegrini era anche dettata dalla dottrina medievale della carità cristiana, che escludeva dalla liberalitas, dall’elemosina, i mendicanti disonesti, gli stranieri, i vagabondi, i giovani e tutti coloro che erano in grado di lavorare. Il principio dell’elemosina fatta a un povero «cattivo e disonesto», cioè a una persona che non merita di essere aiutata, dannosa sia per colui che la fa che per colui che la riceve, è già presente nel pensiero dei Padri della Chiesa e, piú volte ripreso da teologi, canonisti e predicatori medievali, giungerà quasi immutato fino a Martin Lutero. Nel tentativo di legittimare in qualche modo il

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Paesaggio con gitani, olio su tavola di David Teniers II (il Giovane). Ante 1690. Londra, Dulwich Picture Gallery.

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proprio nomadismo, gli zingari contribuiranno incautamente ad alimentare una serie di leggende, stereotipi e pregiudizi, in cui la vita errante che conducono viene vista come segno inequivocabile di una maledizione che grava sulla loro stirpe. Per tutto il Medioevo condivideranno con gli Ebrei la responsabilità di una partecipazione attiva alla Passione di Cristo e la stessa sorte maledetta di una vita nomade, senza dimora stabile, e il destino di essere gravati dal disprezzo e dall’ignominia fino alla fine dei loro giorni. Una delle accuse piú frequenti è quella di aver forgiato i chiodi per la crocifissione di Cristo, accusa da cui scaturirà una vera e propria tradizione apocrifa legata alla Passione e che ancora oggi sopravvive in molte regioni italiane – con tutto il suo carico discriminante – nei canti delle processioni del Venerdí Santo.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Nella pagina accanto due zingari del gruppo dei Rom Kalderash in una fotografia scattata intorno al 1905. In basso incisione su carta di Jacques Callot facente parte della serie degli Zingari, che raffigura l’avanguardia di un gruppo in viaggio. 1621 circa. Collezione privata.

All’elaborazione e alla diffusione delle leggende legate ai chiodi della Croce contribuiscono numerose influenze tra le quali, nello sviluppo delle forme culturali zingare e della repulsione cui questo popolo è stato assoggettato, spicca quello che viene definito «il complesso dei forgerons». Gli zingari, noti in molti Paesi europei come «calderai neri» e famosi per la loro abilità nella lavorazione dei metalli, attività avvolta da un’aura di mistero e di magia fin dai tempi piú antichi, hanno da sempre suscitato contrastanti sentimenti di considerazione e di disprezzo. Il contatto con il fuoco e i metalli, elementi primordiali e ipoctoni, da un lato conferisce loro una sorta di «signoria sul fuoco», dall’altro li porta ad assimilare il carattere ambiguo del metallo, dotato al tempo stesso di forze sacre e demoniache. Tutti questi elementi contribuiranno non poco al mutamento del clima di relativa tolleranza manifestato all’inizio nei loro confronti e all’avvio di una lunga fase di persecuzione, fatta di esclusione, reclusione e di tutte le forme possibili di negazione e demonizzazione. Se inizialmente il timore e il disagio sono dettati dal loro aspetto fisico, dai negotia illecita, e dai piccoli furti,

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adesso è il loro stile di vita che diventa Unheimlich, perturbante in senso freudiano, nei riguardi del modello cristiano ed eticamente inaccettabile. Lo stesso tipo di condanna emarginante, rivolta agli inizi del XIII secolo agli invasori tatari a cui gli zingari vengono spesso assimilati, viene hic et nunc riproposta nei loro confronti, facendo della diversità etnica motivo di mistificazione teologica. Dio, per punire l’uomo dei suoi peccati, si serve degli zingari per mandare il male demoniaco.

Un pregiudizio duro a morire

Gli zingari, discendenti di Caino, hanno ereditato la maledizione del loro progenitore e sono costretti alla vita raminga: «Se si fermano il loro corpo diventa verminoso e morrebbono», scrive Niccolò da Poggibonsi nel suo Libro d’Oltramare (1346-50), a proposito del suo incontro con questo popolo nell’impero bizantino, fornendo in questo modo una spiegazione all’obbligo cristiano di perseguitarlo e di combatterlo. Pregiudizio che si protrarrà ben oltre il Medioevo, con uno dei piú accaniti persecutori degli zingari, Sancho de Moncada (1580-1638 circa) che, nella domanda di espulsione dei gitanos dalla Spagna presentata a Filippo IV, sostiene: «Essi meritano la pena di morte perché Caino ha detto: «Io sono vagabondo e fuggitivo. Chiunque mi troverà potrà uccidermi» (Genesi, 4:14)», omettendo artatamente il versetto successivo in cui si vieta a chiunque di fare del male al fratricida. Preceduti e accompagnati da leggende di maledi-

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costume e società zingari L’olocausto

Le vittime dimenticate del «grande divoratore» La violenta politica discriminatoria e persecutoria nei confronti del popolo rom in Europa non conoscerà soste e troverà il suo culmine, per mano del nazismo, nel O Porrajmos, «il grande divoratore», l’olocausto degli zingari, in cui persero la vita nei campi di concentramento piú di mezzo milione di persone. Il connubio tra le teorie del razzismo eugenetico, di origine americana, e del razzismo antropologico consentirà al neurologo tedesco Robert Richter, fondatore del Rassenhygieneinstitut (Istituto di igiene razziale), di dimostrare che gli zingari, pur essendo originari dell’India, non possono piú essere considerati ariani, individui puri, ma solo dei pericolosi e asociali Mischlinge, ibridi, e quindi razzialmente inferiori. A queste teorie si aggiungerà quella ancora piú delirante, elaborata dalla sua assistente Eva Justin, della presenza nel sangue zingaro del gene del Wandertrieb, «l’istinto al nomadismo», che segnerà fatalmente il destino di questo popolo.

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Nei campi di concentramento gli zingari subiranno ogni genere di torture e di sevizie, di cui basti ricordare i disumani esperimenti di Mengele sull’iride dei bambini zingari con bisturi e solventi, nel tentativo di trasformare il colore nero dei loro occhi in grigio o azzurro. Grazie alla preziosa attività svolta da Mirella Karpati, del Centro studi zingari di Roma, abbiamo prove di episodi di rastrellamenti e di internamento di zingari in Italia, e sappiamo di certo che esistevano luoghi di detenzione in Sardegna, in provincia di Isernia, a Viterbo, a Collefiorito, nel convento di S. Bernardino, a Tossicia (Teramo), nelle Isole Tremiti, nelle isole maggiori e a Ferramenti di Tarsia che, dal 1940 al 1943, ospitò uno dei piú grossi campi di concentramento italiani. Per molti anni l’olocausto degli zingari è stato completamente dimenticato. Soltanto nel 1980 il governo tedesco ha ammesso ufficialmente le persecuzioni razziali subite dagli zingari dal 1936 al 1944.

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Un convoglio carico di Sinti, destinati a un campo di concentramento in Polonia. 1940. Nella pagina accanto un gruppo di Rom in un campo di concentramento polacco nel 1940.

zione, dalla superstizione e dal pregiudizio ecclesiastico e popolare, gli zingari si trovano ben presto a condividere la sorte riservata dai tribunali dell’Inquisizione agli eretici e alle streghe, vittime delle stesse accuse infamanti. In Aquitania furono considerati responsabili, insieme agli Ebrei, e accusati di aver ordito una congiura per uccidere tutti i cristiani, avvelenando i pozzi mediante una pozione stregonica. In Francia le zingare sono le prime donne a essere condotte al rogo, quali depositarie di segreti e di arti sconosciuti ai popoli europei. Nel 1445 nella cittadina francese di Lusignan una zingara e due zingari sono bruciati vivi con l’accusa di aver avvelenato, con una bevanda magica di loro composizione, un tale Gilles Maldetour.

Accuse infamanti

Il processo di demonizzazione investe non solo gli individui, ma anche i luoghi da essi frequentati. Nella cittadina francese di Halem si riteneva che l’accampamento degli zingari fosse il luogo preferito da Satana per i suoi banchetti notturni, e la zona era conosciuta

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come la «cucina degli stregoni». Ad alimentare le accuse di stregoneria nei loro confronti contribuiranno le loro professioni e attività, categoricamente vietate e condannate dalla Chiesa. Oltre a quella di fabbri, diventano motivo di sospetto e di condanna l’arte della divinazione, della chiromanzia, dei tarocchi, e la conoscenza delle erbe, usate a fini terapeutici. Ma l’accusa piú odiosa, infamante e infondata resta quella legata al rapimento dei bambini, a cui si affianca quella di cannibalismo, come confermato dalla descrizione, nelle leggende popolari, dei loro raduni e banchetti che diventano veri e propri sabba notturni in cui Satana consuma l’orrido pasto con i suoi adepti. Molto probabilmente l’equivoco nasce dal rituale funebre della pomana, il pasto consumato sulla tomba del defunto, che in alcuni Paesi contribuí alla creazione della leggenda secondo la quale gli zingari scoperchiavano le tombe per mangiare i cadaveri. A tutte queste accuse viene infine a sommarsi la loro condizione di nomadi, in perfetta sintonia con lo schema mitico-stregonico, che considera uno degli elementi essenziali del patto diabolico e della vocazione stregonica, come risulta dai formulari di interrogatori inquisitoriali, l’aver mutato spesso città e domicilio, sancendo cosí in maniera definitiva la condanna di qualsiasi forma di nomadismo.

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di Marino Zabbia

SCRIVERE DI STORIA, UOMINI ED EVENTI

La stipula dell’atto di nozze da parte di un notaio, particolare di una delle lunette affrescate dell’oratorio dei Buonomini di S. Martino, a Firenze. XV sec. Il ciclo viene attribuito alla bottega di Domenico Ghirlandaio.

Le cronache sono un genere letterario particolare e di eccezionale importanza documentaria. Come provano, fra i tanti, i casi eccellenti delle opere compilate dal notaio padovano Rolandino, da Salimbene de Adam da Parma e dal fiorentino Dino Compagni


Dossier

COSÍ PARLÒ ROLANDINO

N N

el 1259, quando la notizia della morte di Ezzelino III da Romano si diffuse nella Marca Trevigiana, i contemporanei ebbero la netta sensazione che un’importante fase della storia delle loro città fosse ormai definitivamente conclusa: si era trattato di un periodo durato oltre vent’anni, durante i quali l’azione di governo di Ezzelino – costantemente impegnato a consolidare il proprio potere personale sull’intera regione – si concretizzò in sempre piú frequenti e cruente repressioni degli oppositori. La sua sconfitta fu una disfatta totale: nulla dell’operato del tiranno doveva sopravvivere: i documenti che ne attestavano l’azione vennero distrutti, ma le vicende di quegli anni tormentati non potevano essere dimenticate. Furono i frati francescani, i piú vigorosi oppositori di Ezzelino, a cogliere la necessità di affidare alla scrittura il ricordo di quella lunga epoca e l’inappellabile condanna dell’intera stagione del da Romano attraverso la realizzazione di opere storiografiche: un anonimo frate compose – probabilmente a Verona – il Chronicon Marchiae Tarvisinae et Lombardiae, che piú di ogni altra cronaca contribuí a tramandare ai posteri il mito, tutto al negativo, di Ezzelino. A Padova, invece, gli stessi Francescani si rivolsero all’ormai vecchio notaio Rolandino, che aveva ricoperto importanti incarichi pubblici nelle vesti di scrittore della documentazione comunale

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Il profilo di Ezzelino III da Romano in un medaglione in marmo realizzato da Giovanni Bonazza (1654-1736). Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana.

e insegnava grammatica e retorica allo studium patavino. Rolandino non deluse le loro aspettative e nel volgere di alcuni mesi compose, in elegante latino, una minuziosa sintesi delle vicende della regione che comprendeva l’intera parabola della fortuna della famiglia da Romano vista dall’osservatorio padovano, la Cronica in factis et circa facta Marchie Trivixane. Al pari dei piú attenti cronisti coevi, Rolandino colse con grande chiarezza come il tempo di Ezzeli-

no avesse rappresentato una netta frattura nella storia delle città venete. Ricostruendo una sessantina d’anni di storia, egli presentò il periodo precedente la dominazione ezzeliniana come un momento felice in cui regnava la pace, cioè il valore fondamentale di cui il Comune cittadino era portatore e che, dopo la caduta del tiranno, doveva essere restaurato ricostruendo un’armonica vita sociale. Nella visione del cronista l’instaurarsi del potere signorile, che si sovrappose alle istituzioni cittadine, segnò l’avvio di una stagione di scontri sempre piú aspri, che culminarono nel vero terrore con cui Ezzelino resse la Marca quando, dopo la morte di Federico II, il suo potere divenne assoluto. Il resoconto dell’ultimo decennio ezzeliniano – che da solo occupa quasi metà della cronaca – è costituito da un susseguirsi di dettagliati episodi nei quali sfilano le vittime del da Romano, spesso ricordate per nome. Il tono da bilancio minuziosamente informato che segna l’intera cronaca è quanto mai marcato in queste pagine, destinate a diventare presto una sorta di miniera da cui gli autori posteriori, trascurando il complesso disegno dell’opera, estrassero episodi da inserire nei loro scritti per sottolineare l’efferatezza di Ezzelino. Letta pubblicamente davanti a una platea composta dai docenti e dagli studenti dell’Università di Padova, l’opera del notaio ebbe subito larga fortuna: il testo circolò tra i cronisti padovani per tutto novembre

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Miniatura raffigurante un notaio, dal Liber Iurium et privilegiorum notariorum Bononiae. 1474-1482. Bologna, Museo Civico Medievale.

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Dossier La Marca in guerra

I Padovani nel mirino del tiranno Dopo il 1250 l’odio di Ezzelino nei confronti di Padova divenne manifesto: il da Romano voleva distruggere la città, perché – riteneva Rolandino – in passato il Comune aveva ridotto il potere della famiglia del tiranno privandola di alcuni castelli. Nessuno tra i Padovani poteva scampare alla furia di Ezzelino, neppure collaborando col tiranno. Cosí infatti riporta il notaio nel VII Libro, cap. 3: «Si sappia che sino al 1253 e da quell’anno in avanti sono stati fatti molti arresti, sia a Padova, sia a Verona, sia tra i maggiorenti, sia tra il popolo, e anche tra quelli che, pur avversandolo, si dichiaravano comunque suoi amici. Perciò, non essendo in grado di indicare sempre con esattezza le date precise, racconterò quanto piú potrò e nel modo piú veritiero possibile. Accadde che, nel febbraio di quell’anno, un messaggero giunse alla corte di Ezzelino a Verona, recando una lettera chiusa e sigillata che doveva consegnare a Ottone, detto della Volpe, un notaio padovano asceso tra i piú importanti collaboratori

di Ezzelino. Poiché Ottone era assente, il messaggero affidò la lettera a Giramonete, un fratello naturale di Ezzelino, affinché costui la consegnasse al destinatario. Si dice che Ezzelino abbia visto la scena perché sedeva lí accanto nella sala e, presa in mano la missiva, senza romperne il sigillo, ma solo sbirciando un poco da un lato della lettera, vide queste due o tre parole: frate Albertino dell’Ordine. Ezzelino sapeva anche che Ottone aveva un fratello nell’Ordine dei Frati minori, dei Francescani egli nelle sue azioni aveva piú timore che di chiunque altro al mondo poiché costoro vanno e vengono sicuri grazie alla loro povertà volontaria, e ne teneva alcuni prigionieri. Furioso, dunque, aprí la lettera e lesse che frate Albertino, salutando suo fratello Ottone, tra le altre cose gli diceva come (...) la guerra nella Marca trevigiana non sarebbe durata per piú di tre anni. Immediatamente Ottone della Volpe venne arrestato a Verona; il giorno seguente furono imprigionati i suoi parenti padovani». La città di Padova cosí come doveva apparire nel Trecento, particolare de Il beato Luca Belludi riceve da Sant’Antonio la notizia della liberazione di Padova, affresco di Giusto de’ Menabuoi. XIV sec. Padova, basilica di S. Antonio, cappella del Beato Luca Belludi.

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il Medioevo e le sue pagine funsero da base per il volgarizzamento di Pietro Gerardo, che contribuí a far rimanere vivo il ricordo di Ezzelino in molte generazioni di abitanti del Veneto. Con il passare dei secoli il favore degli storici non abbandonò mai la cronaca e ancora oggi gli studi piú recenti e aggiornati non possono fare a meno di utilizzare questo scritto. Tuttavia, da qualche tempo si è smesso di guardare a quest’opera solamente come a una fonte per ricostruire la storia veneta e specialmente padovana della prima metà del Duecento, e si è riconosciuto nel lavoro di Rolandino

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anche una preziosa testimonianza per la storia della mentalità e della cultura medievali.

Tutto in un quaderno

Dalla lettura del prologo della cronaca emerge il rilievo di quest’opera nel panorama della storiografia italiana bassomedievale. Nella densa pagina introduttiva Rolandino ha fuso due diverse tematiche: una riguarda la necessità di tracciare un bilancio della stagione ezzeliniana; la seconda concerne la qualità e la credibilità delle fonti con cui il cronista si apprestava a condurre la ricostruzione. Per ripercorrere oltre mezzo secolo di storia pado-

La Disfatta di Ezzelino da Romano, stampa dall’omonimo dipinto originale attribuito ad Adeodato Malatesta e da questi realizzato fra il 1840 e il 1856. L’opera evoca la battaglia combattuta nel 1259 a Cassano d’Adda, nella quale il signore della Marca Trevigiana venne sconfitto e fatto prigioniero.

vana, Rolandino affermò di disporre di informazioni particolarmente attendibili perché, quando aveva ventitré anni, suo padre gli consegnò un quaderno nel quale aveva annotato tutti i fatti della Marca, e lo invitò a continuare la registrazione. Pertanto, quando si mise al lavoro, il cronista non dovette af-

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Atti come racconti Il mutamento, nel XII secolo, della funzione del notaio nella realizzazione dei documenti emerge dalle formule codificate che compongono gli atti. Nelle carte altomedievali il documento si apre con una sorta di dichiarazione in cui l’autore rende noti gli estremi del contratto. Ecco un esempio: «Io Tizio vendo a te Caio una casa». Questa tipologia documentaria si chiude con una serie di sottoscrizioni autografe: prima quelle dei testimoni, poi quella del notaio. Nel documento bassomedievale (l’instrumentum) la prospettiva si rovescia: è il notaio a raccontare come sono andate le cose. Ancora un esempio: «Alla presenza dei seguenti testimoni, Tizio vendette una casa a Caio». I testimoni, sparite le sottoscrizioni, sono menzionati solo nel testo e l’intera credibilità dell’atto poggia solo sull’autografia notarile. Ma non basta. I due esempi riportati presentano un’altra sensibile differenza: nel primo caso il verbo è al presente; nell’instrumentum, invece, al passato. Il momento in cui avviene il negozio giuridico non coincide piú con il momento in cui si scrive l’atto. Quando i contraenti hanno stabilito le clausole del contratto, il notaio ne ha registrato gli estremi, affidandoli al quaderno delle imbreviature, poi, in un secondo tempo, ha composto l’instrumentum. In quest’ultima fase il notaio è l’unico testimone presente e redige il testo dell’atto nella forma di un racconto. Proprio a queste caratteristiche della professione pensava Rolandino quando scrisse il prologo della sua cronaca.

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fidarsi solo alla memoria – che talvolta può essere fallace – oppure ai racconti dei testimoni – non sempre attendibili –, ma poté ricorrere agli appunti in cui gli avvenimenti erano stati registrati a ridosso del loro svolgimento. Anche se scriveva in merito a vicende di quaranta o cinquanta anni prima, oppure addirittura di episodi precedenti la sua nascita, Rolandino affermava di fondarsi sempre su note stese all’epoca dei fatti. Il lettore poteva quindi fidarsi pienamente della cronaca perché, in pratica, il racconto possedeva le medesime caratteristiche di attendibilità che avrebbe avuto se fosse stato composto subito dopo lo svolgimento di ogni episodio narrato.

Sant’Antonio da Padova incontra Ezzelino da Romano, olio su tela di Giovanni Battista Trotti. 1589. Lodi, chiesa di S. Francesco. Nella pagina accanto miniatura con notai al lavoro, dalla Matricola dei Notari di Perugia. XV sec. Perugia, Palazzo dei Priori, Collegio del Cambio.

Un testimone fidato

Ma il cronista non si limitò a legare la credibilità della ricostruzione alla tradizione familiare di conservare memoria dei fatti tramite la scrittura. Egli collegò esplicitamente quest’abitudine alla professione notarile. La pagina di Rolandino non ammette dubbi: dopo avere ricordato che suo «padre, di buona memoria, che esercitava il notariato a Padova, non si dedicò solo a scrivere i contratti, ma anche ad annotare alcuni fatti della Marca Trevigiana», il cronista mise in chiara evidenza come egli avesse raccolto l’eredità di quel testimone particolarmente credibile («bone fidei possessor»). Al pari del padre, egli pure associò alla professione notarile la prassi di annotare gli avvenimenti pubblici cui stava assistendo, e da queste note – da quelle del genitore non meno che dalle proprie – si sentí autorizzato a trarre le informazioni con cui stendere un ordinato racconto, cosí come dalle «imbreviature» che conservava registrate nei suoi quaderni era solito estrarre i documenti in pubblica forma che consegnava ai propri clienti. Per comprendere il significato di questa affermazione bisogna

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guardare agli sviluppi delle caratteristiche della professione notarile. Dalla seconda metà del XII secolo era prassi dei notai segnare prima gli estremi dei documenti su fogli volanti, per poi registrarli in forma sintetica (detta «imbreviatura») in appositi quaderni dai quali, solo su richiesta delle parti, si estraevano gli atti completi di tutte le formule (gli «instrumenta»). I documenti – sia quelli scritti per esteso, sia quelli conservati solo nei quaderni – avevano valore giuridico in quanto dovuti alla mano del notaio, una persona investita dall’autorità pubblica della capacità di certificare con la propria sottoscrizione il contenuto degli atti. Il notaio era, insomma, un vero e proprio testimone privilegiato sulla cui autorità poggiava l’intera credibilità del documento e Rolandino volle traslare questa caratteristica peculiare della sua professione alla

scrittura storiografica. Pertanto, nel prologo della cronaca, al momento di mettere in rilievo le ragioni che rendevano il suo bilancio degno di fede, egli non pose l’accento su quante informazioni gli avevano consentito di reperire gli uffici che aveva ricoperto o sul prestigio che gli derivava dall’insegnamento nell’università di Padova, ma insistette esclusivamente sulla buona fama che caratterizzava coloro i quali esercitavano il notariato. La consapevolezza con cui Rolandino ha associato il ruolo di notaio alla credibilità della cronaca non ha equivalenti nella produzione storiografica dei notai italiani del Basso Medioevo. Tuttavia la grande frequenza con cui dalla seconda metà del XII secolo si incontrano notai-cronisti in numerose città italiane conferma il nesso tra le caratteristiche della professione notarile e la scrittura della storia.

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IL FRATE SCRITTORE

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al secolo XI la produzione storiografica italiana è segnata dall’orizzonte cittadino delle opere. Ma riconoscere questa caratteristica non comporta affermare l’esistenza di un quadro statico: al contrario, le forme della memoria storica furono oggetto di una lunga evoluzione destinata a culminare nel XIV secolo con la codificazione di una tipologia che potremmo chiamare «cronaca municipale», a cui sono riconducibili quegli scritti che ripercorrono un lungo tratto della storia urbana. Prima che questo modello si affermasse diffusamente, tra la fine Duecento e l’inizio del Trecento,

qualche storico italiano aveva abbandonato la tradizione dell’annalistica cittadina, rivolta principalmente alla registrazione degli avvenimenti coevi, e si era impegnato in sintesi di vasto respiro, senza però che il suo esempio desse frutto. Tra questi sperimentatori, legati soprattutto alle città dell’Italia padana, un posto di primo piano spetta al francescano Salimbene de Adam di Parma.

Incline alla divagazione

Sino al 1212 la principale fonte su cui si fonda il racconto di Salimbene è costituita dalla cronaca universale di Siccardo, vescovo

Il miracolo della sorgente (particolare), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

di Cremona, ma quanto questo esempio abbia inciso sulle scelte compositive del frate è difficile da stabilire. Purtroppo l’unico codice che tramanda l’opera del Francescano è giunto gravemente mutilo: ci rimangono solo 272 delle almeno 530 carte che costituivano il manoscritto, e in particolare sono caduti i primi duecento fogli. Considerando la ricchezza di temi che caratterizza il testo, la propensio-

lineamenti dell’opera di salimbene

Alla ricerca di racconti di prima mano Per comprendere le caratteristiche del testo di Salimbene – cosí ricco di parentesi e divagazioni – bisogna prendere in considerazione la fisionomia culturale del frate, legata alle tecniche dei predicatori e assai condizionata dalla letteratura esemplare, cioè da quelle raccolte di brevi racconti a fine educativo che hanno influenzato anche la prima stagione della prosa in volgare. Ma non meno rilevante è il peso delle fonti di cui il cronista dispose, tra le quali detengono il primato la testimonianza dell’autore e le voci che circolavano nelle città italiane. Dalla disponibilità di informazioni piuttosto che dall’effettiva rilevanza dei fatti dipende molto spesso il risalto riservato agli episodi narrati nella cronaca. Un esempio solo basta a chiarire la prassi di lavoro di Salimbene. Il cronista aveva ben chiaro il peso dell’azione di Ezzelino da Romano, ma – pur essendo vissuto lungamente in città limitrofe alla regione in cui Ezzelino aveva costituito il suo dominio – sui fatti relativi al signore della Marca Trevigiana possedeva solo poche notizie, che aveva ricavato principalmente dalla propaganda antiezzeliniana promossa dalla Curia pontificia: di conseguenza in differenti luoghi del testo ricompaiono narrati i medesimi

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Ritratto di Innocenzo IV (al secolo, Sinibaldo Fieschi), olio su tela di Giuseppe Franchi. 1600-1613. Milano, Pinacoteca Ambrosiana. Nel 1254, papa Innocenzo IV scomunicò Ezzelino III da Romano.

episodi, segno evidente che di un personaggio come Ezzelino si doveva pur parlare. Solo raccontando la presa di Padova da parte dei crociati Salimbene ha potuto, finalmente, tessere una narrazione ricca di dettagli come amava fare, perché – è egli stesso a rimarcarlo – aveva conosciuto alcuni partecipanti a quell’impresa, e dalla loro voce aveva appreso tanti particolari. novembre

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ne a divagare tipica di Salimbene, il suo gusto per l’aneddoto e i salti cronologici frequenti nella parte superstite dello scritto, è impossibile immaginare quello che era contenuto nelle carte andate perdute. Non potendo ripercorrere la struttura della cronaca, cerchiamo almeno di comprendere i parametri che la fondano. Abbiamo già visto come il modello cittadino sembrasse inadeguato ai piú colti cronisti di fine Duecento, ma a complicare ulteriormente la comprensione di quest’opera contribuisce anche l’ingresso nell’Ordine dei Frati minori che indusse Salimbene a

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lasciare in giovane età Parma e a intraprendere una serie di peregrinazioni nelle città dell’Italia centrosettentrionale e della Francia meridionale, impedendogli di radicarsi in una realtà urbana definita.

Per un Ordine purificato

La scelta francescana, infine, pose Salimbene in contatto con la dottrina gioachimita, vale a dire con l’interpretazione della storia proposta dal monaco calabrese Gioacchino da Fiore alle soglie del Duecento e diffusasi, nonostante le condanne pontificie, tra i Frati minori poco prima della metà del XIII

secolo. Le teorie di Gioacchino erano state oggetto di numerose interpretazioni, la piú nota delle quali prevedeva che nel 1260 avrebbe avuto inizio l’età dello Spirito Santo o della pienezza dei tempi, cioè l’epoca guidata da un Ordine religioso purificato in cui i Francescani riconoscevano se stessi. Riepilogando: quando, ormai vecchio, poco dopo il 1280, Salimbene pose mano alla sua cronaca, dovette fare i conti con la mancanza di un solido modello di riferimento. La delusione per la mancata realizzazione della profezia gioachimita lo spinse ad novembre

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Parma in una veduta realizzata per il Civitates Orbis Terrarum di Georg Braun e Franz Hogenberg, una raccolta di mappe delle città del mondo curata dai geografi tedeschi e pubblicata in 6 volumi tra il 1572 e il 1617.

diverse. Le sue scelte non coincidono con modelli precedenti, tardoantichi – basti pensare alle Confessioni di sant’Agostino – o medievali – come la Historia calamitatum mearum di Abelardo -, e neppure possono essere assimilate alle successive forme bassomedievali, caratterizzate in primo luogo dai libri di famiglia dei mercanti toscani. Esse rappresentano, invece, un percorso individuale che ha assai poche possibilità di raffronto nel quadro della cronachistica italiana e presenta qualche significativa somiglianza solo con l’esperienza di un altro francescano della fine del Duecento, Tommaso Tosco. Esaminiamole quindi in dettaglio.

Pubblico e privato

abbandonare la via di una storiografia, per cosí dire, teologica, cioè capace di inserire i fatti della storia in un piú vasto disegno provvidenziale; e l’assenza di un solido radicamento cittadino gli rese di fatto impossibile seguire la tradizionale impostazione della cronachistica urbanocentrica. Al francescano non rimaneva che scegliere tra la strada della sperimentazione di nuove soluzioni e l’adesione alla proposta metodologica contenuta nelle compilazioni di storia universale dovute ad altri esponenti degli Ordini mendicanti, che proprio in quegli anni comin-

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ciavano a diffondersi anche in Italia. Non sembra che Salimbene abbia dubitato troppo a lungo prima di optare per la prima via, o per lo meno quanto della sua opera ci rimane non conserva tracce di esitazione. Una volta venuto a mancare il supporto di Siccardo, il frate decise di fondare la propria narrazione in primo luogo sulla base dei suoi ricordi, concedendo largo spazio all’autobiografia. Salimbene ricorse all’autobiografia con modalità che, pur riproponendosi nel corso dell’opera, mutano aspetto e conferiscono al racconto tonalità di volta in volta

Semplificando molto l’esuberante andamento della cronaca, possiamo distinguere almeno tre itinerari attraverso cui l’autobiografia permise allo scrittore di raccogliere i materiali con cui tessere la narrazione. Il primo aspetto riguarda la presenza di note di storia domestica e di vita privata inserite con abbondanza soprattutto nelle pagine della cronaca corrispondenti agli anni dell’infanzia e della giovinezza dell’autore: in queste pagine egli ha ricostruito una sorta di genealogia dei propri antenati, fiero di dimostrare il prestigio sociale goduto dalla famiglia de Adam a Parma, ma non ha saputo resistere alla tentazione di inserire qualche aneddoto, ricordando, per esempio, come, in occasione di un terremoto, la madre lo abbia abbandonato in casa, fuggendo con due figliolette in braccio. In seconda battuta l’autobiografia si concretizza nella cronaca in numerosi episodi dedicati a personaggi importanti che l’autore ebbe modo di conoscere nel corso della sua vita, mentre si trovava nei conventi francescani delle città italiane oppure presso la Curia pontificia. Quasi a ogni incontro

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Il monumento funebre di papa Onorio IV (al secolo, Giacomo Savelli). 1287 circa. Roma, basilica di S. Maria in Aracoeli. Nella pagina accanto Federico II di Svevia, calcografia di Aliprando Caprioli, da Ritratti di cento capitani illustri... 1596. Trento, Biblioteca Comunale.

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La scomparsa di Federico II di Svevia

«In lui morrà anche l’Impero...» Il racconto di Salimbene è cosí ricco di parentesi e di episodi da sembrare privo di un filo conduttore. Ma il frate era capace di riconoscere nello svolgimento dei fatti una linea di sintesi. Lo si coglie bene osservando come, al pari di altri cronisti, anch’egli abbia individuato nella morte di Federico II una frattura: l’immagine di continuità, che le cronache universali riproducevano strutturandosi su elenchi di papi e imperatori, venne, infatti, meno con la vacanza imperiale seguita alla scomparsa dello Svevo. I brani qui riportati, tratti da luoghi della Cronica molto distanti, mostrano inoltre un’altra caratteristica dell’opera, segnata dal ricorrere di passi analoghi: «Con lui sarà finito anche l’Impero, e se pure avrà successori, non avranno né autorità né grado di imperatori romani. Queste sono parole di una certa sibilla, come dicono. Ma io non le ho trovate né nella sibilla Eritrea, né nella Tiburtina. Non ho letto gli scritti delle altre; infatti le sibille furono dieci. Quanto veridico fosse questo vaticinio è chiaro sufficientemente, sia per quanto riguarda la Chiesa che per quanto riguarda l’Impero» (pp. 484-485). «Nel detto anno, cioè nel 1287 il 3 di aprile, cioè il giovedí santo, morí papa Onorio IV, e il giorno dopo, venerdí santo, fu sepolto. Egli fu uomo podagroso; prima si chiamava Giacomo Savelli, romano, eletto dal novero dei cardinali. Fu papa due anni interi. Creò un solo cardinale che mandò in Germania con la missione di condurre di là Rodolfo, imperatore, volendolo come comunemente si credeva, incoronare. Ma il papa morí e Rodolfo restò senza la corona dell’Impero. Per questo appare chiaro come Dio non voglia che piú sorga alcuno nella cosa pubblica come imperatore, perché è stato detto di Federico II da quelli che con spirito profetico predicono il futuro: “In lui morrà anche l’Impero, perché sebbene possa avere successori, saranno privi del titolo di imperatori da parte della suprema autorità romana”» (p. 859; citazioni tratte da Salimbene de Adam da Parma, Cronaca, a cura di Bernardo Rossi, Radio Tau, Bologna 1987). corrisponde un episodio che lo scrittore narra con l’abilità che lo ha reso celebre, facendo di sovente ricorso alle tecniche della predicazione in cui i frati erano maestri. Questi incontri, inoltre, costituiscono una delle principali fonti per la cronaca che in buona misura si fonda proprio sulla registrazione di tante testimonianze orali. La prima conseguenza del peso delle voci nell’economia del racconto è costituita dalla disuguale disponibilità di informazioni: Salimbene non sembra avere svolto particolari ricerche per scrivere la sua cronaca, quindi ha trascurato episodi del cui rilievo pure era conscio per soffermarsi largamente

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su altri di portata minore, ma per i quali disponeva di molte notizie.

Prospettive mutevoli

Dobbiamo soffermarci su un ultimo aspetto dell’influenza dell’autobiografia nella cronaca. Accanto alle testimonianze orali, l’altra fonte principale di Salimbene sono i suoi ricordi. Di numerosi avvenimenti il francescano era stato spettatore, poté quindi darne conto con ricchezza di dettagli e con la tranquillità di raccontare fatti di cui è certo. Ma nel caso di Salimbene la memoria dello scrittore ha inciso pesantemente sulla struttura dell’opera, spostando il centro della narrazione da un luogo all’altro in

seguito ai movimenti del cronista. Il testo non ha, quindi, il consueto impianto urbanocentrico della cronachistica italiana, ma cambia angolo di visuale in coincidenza con la presenza di Salimbene in una nuova sede. L’opera, pertanto, non si limita ad accogliere nuclei di notizie relative a numerose città solo perché l’autore era attento a raccogliere le tante informazioni riportate dai suoi confratelli o che egli stesso apprendeva nei suoi spostamenti, ma l’addensamento di notizie su una certa località coincide spesso con l’instaurazione di un nuovo centro del racconto e dipende da un trasferimento del cronista.

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LA FIRENZE DI DINO

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el momento in cui, tra il 1310 e il 1313, Dino Compagni pose mano alla stesura della Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi, l’aspetto della cronachistica cittadina italiana stava mutando alcune delle sue principali caratteristiche: storie dall’ampio respiro cronologico, volte a ricostruire una larga spanna della vicenda urbana, si affiancavano agli annali in cui i princi-

pali avvenimenti erano registrati uno dopo l’altro. Un cambiamento di prospettiva cosí radicale nell’operato di tanti scrittori si giustifica in primo luogo con la diffusione di tecniche storiografiche capaci di assicurare credibilità e autorevolezza anche a racconti che non potevano fondarsi esclusivamente sulla diretta testimonianza dei loro autori, la fonte universalmente

Dino Compagni che fa giurare la pace ai Fiorentini in San Giovanni, olio su tela di Antonio Puccinelli. 1856. Firenze, Palazzo Compagni.

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riconosciuta come piú sicura. Ma i fondamenti di questo nuovo mestiere di storico, di cui tanti cronisti cittadini andavano fieri, non convincevano Dino Compagni, il quale nelle prime battute della sua opera asserí che non era sua «intenzione scrivere le cose antiche, perché alcuna volta il vero non si ritruova». Di conseguenza, dopo avere brevemente esposto in una sorta di preambolo gli antecedenti a quanto si apprestava a narrare in dettaglio, il cronista avviò il racconto dal 1280, vale a dire da quando i ricordi gli permettevano di stendere un resoconto dei fatti affidabile, perché fondato in primo luogo sulla sua testimonianza. Naturalmente non si deve equiparare l’atteggiamento del Compagni a quello degli annalisti, perché il suo intento era assai piú

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ambizioso e complesso da realizzare: organizzando nel racconto quanto aveva osservato con i propri occhi e, ma solo in seconda battuta, ciò che aveva sentito da testimoni diretti e credibili, Dino ritenne di offrire ai lettori un’attendibile ricostruzione delle vicende fiorentine «occorrenti» – cioè accadute – negli ultimi trent’anni.

Bianchi contro Neri

Inoltre, egli non intese tracciare un completo quadro del recente passato cittadino; sua intenzione era ripercorrere esclusivamente le vicende politiche che avevano portato alla cacciata della fazione di cui era stato uno dei capi – quella dei guelfi Bianchi, la stessa di Dante Alighieri – e le principali conseguenze del governo dei Neri. Per portare a buon fine il pro-

Miniatura raffigurante le lotte fra gli Uberti e i rappresentanti della signoria dei consoli, a Firenze, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. Nella pagina accanto la distribuzione del cibo in tempo di carestia, miniatura del Maestro del Biadaiolo. XIV sec., Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella prima metà del Trecento, l’economia delle città toscane entrò in crisi, causando fallimenti, disoccupazione e aumento dei prezzi. La situazione fu aggravata da un «ciclo infernale» di catastrofi naturali, carestie e poi dalla peste del 1348.

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Dossier prio intento, Dino divise la sua cronaca in tre libri: il primo, dedicato a ripercorrere i fatti che portarono alla cacciata dei Bianchi; il secondo, riservato esclusivamente a illustrare il triennio 1301-1303, periodo in cui si consolidò il governo della parte Nera; l’ultimo, volto a seguire prima le sorti dei Fiorentini rimasti in città e di quelli esiliati e, dopo il 1308, la vicenda italiana dell’imperatore Enrico VII, la cui azione avrebbe dovuto pacificare anche la situazione fiorentina. Quando mise mano alla sua cronaca il Compagni era stato escluso dalla vita pubblica fiorentina da oltre dieci anni, ma la sua passione politica non era certo venuta meno, e quasi ogni pagina dell’opera testimonia la sua militanza. Tuttavia, l’allontanamento dai centri del potere e la condizione, per cosí dire, di esule in patria cui Dino fu costretto, incisero sulla quantità e sulla qualità delle notizie disponibili allo scrittore,

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A destra, sulle due pagine Firenze. Uno scorcio della facciata di Palazzo Vecchio con la Torre di Arnolfo. In basso miniatura raffigurante la morte di Corso Donati, capo della fazione dei Neri, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.

Un appello accorato

Per la concordia della città Nel 1301 Dino Compagni fece parte del collegio dei Priori, la principale magistratura fiorentina. Fu l’ultimo ufficio che ricoprí, prima di doversi allontanare dalla vita pubblica in seguito alla vittoria dei Neri. In questo brano – come in altri passi del secondo libro della Cronica – si mette in scena nelle vesti del difensore della concordia cittadina. «Stando le cose in questi termini, a me Dino venne un santo e onesto pensiero, immaginando: “Questo signore [Carlo di Valois] verrà, e tutti i cittadini troverrà divisi: di che grande scandalo ne seguirà”. Pensai, per lo ufficio ch’io tenea (...) di raunare molti buoni cittadini nella chiesa di San Giovanni: e cosí feci. Dove furono tutti gli uffici; e quando mi parve tempo dissi: “Cari e valenti cittadini, i quali comunemente tutti prendesti il sacro battesimo di questo fonte, la ragion vi sforza e vi strigne ad amarvi come cari frategli; e ancora perché possedete la piú nobile città del mondo. Tra voi è nato alcun sdegno per gara d’uffici, li quali, come voi sappete, i miei compagni e io con saramento v’abbiamo promesso d’acomunarli. Questo signore viene e conviene onorare. Levate via i

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vostri sdegni e fate pace tra voi, acciò che non vi truovi divisi. Levate tutte le offese e ree volontà state tra voi di qui adietro: siano perdonate e dimesse, per amore e bene della vostra città. E sopra questo sacro fonte, onde traesti il santo battesimo, giurate tra voi buona perfetta pace, acciò che il signore che viene truovi i cittadini tutti uniti”. A queste parole tutti s’accordarono e cosí feciono, toccando il libro corporalmente, e giurorono ottenere buona pace e di conservare onori e giuridizion della città (...) I malvagi cittadini che di tenerezza mostravano lagrime e baciavano il libro, e che mostrarono piú acceso animo, furono i principali alla distruzion della città». (Libro II, capitolo VIII).

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Papa Bonifacio VIII (al secolo, Benedetto Caetani), raffigurato mentre scrive (nel capolettera) e attorniato da soldati e cardinali (nella vignetta), miniature di Lippo Vanni, da un’edizione del Liber sextus Decretalium. 1340-1345. Vic, Archivio e Biblioteca Episcopale. Nella pagina accanto frontespizio di un’edizione della Cronica delle cose occorrenti ne’ tempi suoi di Dino Compagni (qui re-intitolata Istoria Fiorentina di Dino Compagni. Dall’Anno 1280 Fino al 1312). Firenze, 1728.

condizionando di conseguenza la struttura dell’opera: per cogliere il mutamento di prospettiva possiamo scorrere rapidamente la Cronica soffermandoci solo sui passi in cui Dino ci informa sulla fonte di provenienza delle sue informazioni. Le motivazioni che spinsero Dino Compagni a scrivere sono stret-

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tamente collegate alla consapevolezza di essere il migliore testimone di vicende che – egli ha affermato – «nullo le vide certamente come io». Ne risulta che il racconto vero e proprio ha inizio con l’anno 1282, quando il Compagni, ancora inesperto della lotta politica, si menziona tra coloro i quali parteciparono alla creazione del Priorato delle arti, la principale magistratura del Comune di Popolo.

Testimone dei fatti

Nelle pagine del primo libro il personaggio Dino Compagni compare di frequente nel racconto tra i protagonisti della vita politica fiorentina, e in tutte queste circostanze il cronista Dino Compagni ha cura di mettere in risalto come la partecipazione alla vicenda lo abbia posto nella condizione migliore

per conoscere in profondità i risvolti politici. Questa caratteristica non muta nella prima parte del secondo libro della Cronica, costituita da dense pagine che ripercorrono in dettaglio i pochi mesi del 1301 – da agosto a novembre – in cui, grazie all’appoggio del papa Bonifacio VIII, la fazione dei Neri prese il controllo di Firenze. Nel minuzioso racconto di quanto avvenne nelle piazze, negli uffici e nelle chiese in cui si radunavano le assemblee dei cittadini, Dino ha la massima cura di porre in primo piano i tentativi di pacificazione di cui si rese protagonista e, allo stesso tempo, insiste sulla propria presenza ai fatti per rivendicare l’attendibilità della sua testimonianza. Nelle battute che concludono questa sezione della cronaca e inaugurano l’elenco dei misfatti commessi dai novembre

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fortuna dell’opera

Dubbi infondati A quanto pare, Dino Compagni non fece circolare la sua cronaca, che rimase quasi del tutto sconosciuta ai cronisti fiorentini dei secoli XIV e XV. Solo nel Seicento l’opera riemerse dagli archivi cittadini in una copia di metà Quattrocento e ricevette subito le massime attenzioni degli studiosi. Ma, dopo il 1870, il testo del Compagni, al pari di tanti altri documenti medievali, dovette sottostare alla critica della storiografia positivistica, che ne mise in dubbio l’autenticità. Il piú autorevole sostenitore della falsità dell’opera fu lo storico Paul Scheffer-Boichorst, legato ai prestigiosi Monumenta Germaniae Historica, e rappresentante di quella tradizione universitaria tedesca che negli stessi anni si stava affermando anche negli atenei italiani. Secondo Scheffer-Boichorst – che non conosceva bene la tradizione manoscritta della Cronica – l’opera sarebbe stata falsificata verso il 1640 da qualche personaggio vicino alla fiorentina Accademia della Crusca, e le numerose contraddizioni presenti nel testo rivelerebbero l’esistenza della contraffazione. L’autenticità dell’opera venne difesa in primo luogo da Isidoro Del Lungo, esponente della Crusca e di quel mondo di eruditi legati alle accademie e agli archivi cittadini. Del Lungo dedicò molti anni allo studio della Cronica, redigendone un’edizione critica che rappresenta un autentico monumento d’erudizione, e riuscendo persino a convincere i suoi avversari. Oggi, infatti, nessuno mette piú in dubbio l’autenticità dell’opera, tuttavia alcuni filologi hanno rilevato come il manoscritto piú antico – quello su cui si fonda l’edizione di Del Lungo – a un’attenta analisi riveli numerosi interventi del copista anche sulla sintassi del testo. Neri sino alla morte del loro protettore Bonifacio VIII, il Compagni si ricorda per l’ultima volta testimone oculare. Poi Dino personaggio e Dino testimone spariscono dalla scena. La voce del cronista si sente ancora nel testo, ma ha solo il compito di commentare i fatti. Escluso dagli uffici e dalla vita pubblica, Dino rimase a Firenze e continuò a osservare gli avvenimenti ma, al momento di registrare nella cronaca quanto accadde dopo il 1302, gli mancò il filo conduttore che nel primo libro e nelle pagine iniziali del secondo era rappresentato dal racconto di quanto avveniva nelle istituzioni. Dopo il 1302 il Compagni ha smesso di ritenersi quel testimone tanto bene informato che sulla propria memoria può raccontare meglio di chiunque altro la storia di Firenze. Lontano

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dai palazzi del potere e dalle assemblee dei cittadini, egli deve accontentarsi di guardare i tumulti delle piazze e di registrare le tante voci – di cui cosí poco si fidava – che riportavano le vicende dei Fiorentini fuoriusciti, della Curia papale e del neoeletto imperatore.

Una trama meno curata

Anche la forma stilistica del racconto risente di questo mutamento di prospettiva: i commenti fulminanti e l’abilità di ritrarre i personaggi che si alternano sulla scena fiorentina non vengono meno, ma la tessitura della trama narrativa appare meno accurata. Non credo che questo cambiamento sia solo la conseguenza di una mancata revisione o di un abbandono dell’opera in stesura non definitiva. Percorrendo le pagine

del Compagni abbiamo potuto osservare come i motivi di questa sfilacciatura siano stati piú profondi e debbano essere ricondotti all’atteggiamento del cronista verso le istituzioni cittadine. Studi recenti hanno messo in luce come, nella seconda metà del Duecento, i vertici del Comune di Popolo abbiano riconosciuto nei consigli cittadini il luogo in cui doveva svolgersi la vita politica. Profondamente partecipe della cultura di quel ceto urbano, Dino ha saputo raccontare mirabilmente la storia di Firenze sino a quando ha potuto seguirla dall’interno delle istituzioni ma, una volta estromesso dalla vita politica, ha perduto le coordinate di riferimento per orientare la narrazione. Il migliore dei testimoni non è riuscito ad adeguarsi al ruolo di semplice spettatore.

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CALEIDO SCOPIO

Merluzzi posti a essiccare per ricavarne lo stoccafisso in Norvegia.


Storie, uomini e sapori

Il merluzzo e il suo doppio di Sergio G. Grasso

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l 25 aprile 1431 il patrizio veneziano Pietro Querini, mercante, navigatore e senatore della Serenissima, salpò dall’isola di Creta con un carico di 800 botti di vino di Candia, spezie, legname e cotone alla volta dei lucrosi mercati di Bruges e Anversa. Passato lo stretto di Gibilterra, il 2 giugno presso Cadice «per colpa del pedota ignorante, accostati alla bassa di San Pietro, toccammo una roccia ed il timone uscí dalle cancàre con grande pregiudizio». La riparazione reclamò quasi un mese di lavoro e quando finalmente riprese il mare col suo carico di 500 tonnellate, la Gemma Querina si trovò a fare i conti col vento di grecale che la fece vagare per un mese e mezzo attorno alle Canarie. Con il timone nuovamente fuori uso Querini riuscí comunque a raggiungere Lisbona, da dove ripartí il 14 settembre, sempre con «nimichevoli venti». Alla fine di ottobre, nonostante una propiziatoria visita alla cattedrale di Santiago de Compostela, appena superato Capo Finisterre, l’imbarcazione cadde in balia di terribili tempeste che fecero perdere definitivamente il timone e spezzarono gli alberi riducendola a poco piú di un relitto che andò alla deriva per diverse settimane. Il 17 dicembre una parte dell’equipaggio si imbarcò su una scialuppa e non se ne seppe piú nulla. Gli altri, incluso Querini,

affidarono la loro sorte a una lancia piú grande e a suon di remi, lottando per 28 giorni contro le avversità del Mare del Nord, riuscirono finalmente a toccare terra. Il 14 gennaio 1432 i naufraghi ponevano piede sull’isola disabitata di Sandøy, poco piú che uno scoglio (Querini nel suo diario la definisce «in culo mundi») nell’arcipelago norvegese delle Lofoten, cento chilometri oltre il Circolo Polare Artico: dei 68 marinai partiti da Lisbona ne rimanevano solo sedici.

Usi e costumi dei salvatori Riuscirono a sopravvivere al gelido inverno norvegese cibandosi di molluschi e scaldandosi al fuoco dei pochi sterpi racimolati nei dintorni, finché, l’undicesimo giorno quei falò furono notati da alcuni pescatori locali che li soccorsero, li rifocillarono e li portarono al loro villaggio sulla vicina isola di Røst, dove furono ospitati per quasi quattro mesi. In quel periodo Querini ebbe modo di osservare con attenzione usi e costumi di quei pescatori, stilando una dettagliata relazione per il Senato veneziano, oggi conservata nella Biblioteca Apostolica Vaticana: «Per tre mesi all’anno, cioè dal giugno al settembre, non vi tramonta il sole, e nei mesi opposti è quasi sempre notte. Dal 20 novembre al 20 febbraio la notte è continua, durando ventuna ora, sebbene resti sempre visibile la

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CALEIDO SCOPIO Miniatura raffigurante una pescheria, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis, denominazione che indica la traduzione in latino del Taqwim al Sihha (Almanacco della salute), un manuale redatto a Baghdad dal medico e letterato Abu al-Hasan al-Mukhtar Ibn Butlan nell’XI sec. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek.

luna; dal 20 maggio al 20 agosto invece si vede sempre il sole o almeno il suo bagliore (...) gli isolani, un centinaio di pescatori, si dimostrano molto benevoli et servitiali, desiderosi di compiacere piú per amore che per sperar alcun servitio o dono all’incontro (...) vivevano in una dozzina di case rotonde, con aperture circolari in alto, che coprono con pelli di pesce; loro unica risorsa è il pesce che vendono a Bergen». L’attenzione del mercante veneziano fu attratta soprattutto dalla tipologia di quel pesce che: «prendono fra l’anno innumerabili quantità di pesci et solamente di due specie: l’una, ch’è in maggior anzi incomparabil quantità, sono chiamati stocfisi; l’altra sono pàssare [halibut, ipoglosso], ma di mirabile grandezza, dico di peso di libre dugento a grosso l’una. I stocfisi seccano al vento e al sole senza sale, e perché sono pesci di poca umidità grassa, diventano duri come legno. Quando si vogliono mangiare li battono col roverso della mannara,

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che gli fa diventar sfilati come nervi, poi compongono butiro e specie per darli sapore: ed è grande e inestimabil mercanzia per quel mare d’Alemagna».

Un alimento energetico e a lunghissima conservazione La relazione di Pietro Querini è la cronaca puntuale del primo incontro degli Italiani con lo stoccafisso, cioè con il merluzzo nordico o «bianco» (Gadus morhua) che da tempi immemorabili gli abitanti delle Lofoten pescavano, evisceravano e lasciavano essiccare sugli hesje (grigliati in legno), ricavandone un alimento energetico, leggero da trasportare e conservabile per anni. A maggio gli stocfisi (detti anche tørrfisk) venivano portati al mercato di Bergen, da dove raggiungevano le piazze del Baltico e del Mare del Nord per poi riversarsi fino ai mercati inglesi e francesi. Cosí l’alimento che rappresentò una novità per

Querini era già conosciuto da molte popolazioni europee che si affacciavano sull’Atlantico e sui mari settentrionali. Lo «Skrei» come lo chiamano oggi i Norvegesi, è un merluzzo originario del Mare di Barents che, tra gennaio e aprile, lascia il suo habitat naturale e si sposta in branchi alle Lofoten per deporre le uova proprio nel periodo in cui il gelo invernale cede il posto al vento, alla pioggia e al sole che lo trasformeranno in stoccafisso. Queste piccole isole hanno svolto un ruolo significativo di contatto e scambio tra gli abitanti della Norvegia settentrionale fin dal Neolitico. Vi sono indizi di controllo delle risorse marine e di scambi di stoccafisso da parte di piccole élites locali già nell’età del Ferro. La costa settentrionale della Norvegia ha restituito tumuli abitativi eretti utilizzando il tappeto erboso, rimesse per barche, installazioni stagionali di pesca e novembre

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numerosi resti organici di merluzzi preservati dalla decomposizione grazie al clima freddo. Sull’isoletta di Borgvær gli archeologi hanno documentato la trasformazione di un insediamento di pesca stagionale di epoca merovingia (550-800 d.C.) in un sito stanziale di pescatori dalla tarda età vichinga, continuato in epoca altomedievale (10001100 d.C. circa) e proseguito fino al XVIII secolo. Anche i naufragi rappresentano un’ulteriore preziosa fonte di informazioni sulle reti di comunicazione e commercio medievale lungo le estese coste della Norvegia, come nel caso dei relitti di Husøy e Lovund rinvenuti oltre il circolo polare artico.

britanniche grazie al lungo rapporto – non sempre tranquillo – con i popoli scandinavi e in particolare con i Vichinghi. Una saga norrena ci tramanda il nome di Thorolf Kveldulfsson, governatore della Norvegia settentrionale, che, nel X secolo, inviava skreiðfiski (merluzzi essiccati) in Inghilterra. Contribuirono alla diffusione dello stoccafisso anche i traffici trecenteschi delle navi anseatiche tra la Norvegia, i porti inglesi e quelli irlandesi e islandesi. Nel 1338, allo scoppio della Guerra dei Cent’anni, re Edoardo III d’Inghilterra ordinò che sulle

viene fatto seccare all’aria e al sole, assolutamente senza fuoco né fumo, dopo essere stato sventrato e decapitato; e quando lo si vuole cucinare bisogna prima batterlo per un’ora con un mazzuolo di legno e poi ammollarlo in acqua tiepida per circa dodici ore»

navi inviate a occupare il regno di Francia per rivendicarne la corona fossero caricate tra le provviste anche «Quadraginta & Sex Milia & Quingenta de Stockfish», cibo idoneo a sfamare l’esercito impegnato in una guerra che si annunciava lunga e difficile. Risale al 1321 un ordine d’acquisto di 20 stocfis da parte di un mercante di Bordeaux; dieci anni dopo la corte papale di Avignone ne acquista 60 a La Rochelle. Nel Ménagier de Paris, trattato medievale di economia domestica composto tra il 1392 e il 1394, si sottolinea la distinzione tra il merluzzo fresco (cableaux), quello salato (morue) e quello che: «si può conservare anche 10 o 12 anni e che si chiama stofix e

questo rivoluzionario alimento a lunghissima conservazione ai mercanti della Serenissima. I pescatori lo accompagnarono fino al porto di Bergen, da dove proseguí via terra verso la Norvegia per raggiungere Vadstena, in Svezia e qui s’imbarcò alla volta di Londra, sede di una cospicua comunità di mercanti veneziani. Dopo 24 giorni di cavallo, il 12 ottobre 1432,

Ritorno a casa Tornando al naufragio di Pietro Querini, il 15 maggio del 1432, con i primi tepori di primavera, il Veneziano salutò gli ospitali abitanti di Røst per far ritorno in patria ma prima si fece regalare una sessantina di stoccafissi essiccati, deciso a far conoscere

Quella luce che viene dal grasso Il commercio del Gadus morhua non era prerogativa dei soli Norvegesi. I pescatori baschi e galiziani davano da secoli una caccia spietata alle balene che venivano a riprodursi nel Golfo di Biscaglia; ne vendevano la carne conservata sotto sale (craspoiz) e soprattutto il grasso, da cui si ricavava il sain, un olio infiammabile largamente usato per l’illuminazione e impiegato nella produzione di saponi e profumi. Inseguendo i cetacei nelle loro migrazioni atlantiche, quelle genti, probabilmente del XI secolo, incapparono nei bassi fondali dei Banchi di Terranova dove scoprirono immensi «giacimenti» di merluzzi. Intuendone il valore commerciale pensarono di conservarne le carni salandole allo stesso modo di quelle di balena e di commerciarle come bacayau (dal latino baculus, bastone). Anche i Portoghesi, che vendevano il loro sale agli Scandinavi, praticavano già nel XIII secolo un proprio commercio del Gadus morhua fresco, salato ed essiccato sui mercati di Aquitania, Occitania e nelle regioni a nord dei Pirenei. Non se lo facevano mancare neanche gli abitanti delle isole

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Tavola raffigurante un merluzzo nordico (Gadus morhua) e, sotto, scene a bordo di una nave fabbrica, con uomini e donne che sventrano e salano il pesce sul ponte e lo gettano nella stiva, dal volume della Storia Naturale di Gottlieb Tobias Wilhelm dedicato ai pesci. L’opera fu pubblicata tra il 1770 e il 1800.

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Querini rivide finalmente la sua città natale con nel bagaglio gli stoccafissi di Røst, pronti per essere consegnati al Doge e ai nobili del Maggior Consiglio. Il suo resoconto di viaggio e quelli dei due compagni superstiti Cristoforo Fioravanti e Niccolò Michiel, destarono un enorme interesse culturale e commerciale verso quelle «estreme terre di tramontana» di cui qualche riflesso è visibile anche nel mappamondo camaldolese di fra Mauro del 1450. Al merluzzo essiccato norvegese i mercanti veneziani non riservarono certo un’accoglienza entusiasta e pochi ebbero occasione di vederne uno intero per decenni.

Scambiato per un polpo Nel Libellus de conservatione sanitatis, stampato a Milano nel 1481 con falsa attribuzione a Ugo Benzi, lo stoccafisso è ascritto addirittura alla famiglia dei molluschi e lo equipara a un polpo: «È uno pesse che alcuna volta è trasportato da Norvegia, dove il nasse, in Italia. Et è pese marino de generazione de malachie [molluschi] che non hanno squame ne teste [gusci] dure ma hanno la codega dura come

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el polipo. Dura per anni come alcuni altri salami, ma bisogna, prima ch’el se coxa, smacarlo e azzacarlo e baterlo molto bene con maze de legno, e poi si taglia in peze, e si allessa è saporoso cibo preparandole con bone specie, et è de bon et laudabile nutrimento». Si ritiene che, pur essendo esperti nella lavorazione «a secco» del merluzzo, i Norvegesi, a differenza dei Baschi, ne ignorassero la provenienza dai Banchi di Terranova. Fu Giovanni Caboto a rivelarne l’esistenza quando nel 1497 ci finí in mezzo cercando una rotta piú settentrionale di quella seguita da Colombo: «Il mare pullulava di pesci simili a quelli che in Islanda vengono essiccati e salati e che vengono chiamati stoccafissi». La relazione di Querini venne ripresa nel 1559 dall’umanista trevigiano Giovan Battista Ramusio per essere inserita nel secondo tomo della sua monumentale opera Delle navigationi et viaggi, il primo trattato geografico dell’età moderna. Fino ad allora lo stoccafisso norvegese, assieme alle aringhe affumicate olandesi e al baccalà salato dei Baschi aveva un proprio florido mercato in Inghilterra, Francia,

La pesca con arpioni in una tavola tratta da un’edizione della Historia de gentibus septentrionalibus di Olao Magno. 1555. Nella pagina accanto mappa dell’America settentrionale disegnata dal cartografo Cornelis de Jode, nella quale il New England è designato come Terra de los Baccalaos. 1593. Germania e Spagna, dove era considerato il «pesce-di-terra» che rendeva possibile il consumo ittico anche a chi viveva lontano dal mare. In Italia si cominciò a consumarlo con regolarità solo nella seconda metà del Cinquecento, epoca in cui il Concilio di Trento ingiunse ai cristiani usi e contegni piú frugali e controllati, nel tentativo di rispondere alle accuse della riforma luterana.

Le regole del digiuno L’astinenza penitenziale dalle carni era stata peraltro già sancita in epoca carolingia, ispirandosi allo stretto regime alimentare imposto ai monaci dalla Regola di san Benedetto. Il Concilio di Aquisgrana (817) mitigò il divieto, autorizzando i fedeli al consumo di uccelli e pesci, senza tuttavia placare le novembre

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dispute teologiche sulle carni lecite e quelle proibite. Nel XIII secolo san Tommaso d’Aquino scriveva: «Il digiuno è stato istituito dalla Chiesa per reprimere la brama dei piaceri del toccare, che hanno per oggetto il cibo e la voluttà. (...) L’astinenza deve dunque riferirsi agli alimenti piú dilettevoli e piú eccitanti; questi sono la carne dei quadrupedi e degli uccelli, come anche i prodotti del latte e le uova». Il 4 dicembre 1563 l’ultima sessione del Concilio tiridentino chiarí che, ogni venerdí, per l’intera Quaresima, le quattro Tempora, le vigilie e le Rogazioni (in totale quasi 150 giorni l’anno), i cristiani non potevano consumare carni di quadrupedi, grassi animali, uova, latte e formaggi, tutti cibi accusati di dare piacere al palato e di incitare al peccato e alla lussuria; il pesce in quanto «magro», povero di

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sangue, ma, soprattutto, simbolo cristologico, non contravveniva alla regola. Chi viveva vicino al mare, ai laghi e ai fiumi non aveva difficoltà a reperire pesce fresco, che rimaneva però poco accessibile a chi abitava nelle aree interne. Il problema si risolveva appunto con il «pesce di terra», quello che poteva viaggiare grazie al fatto di essere salato (acciughe, aringhe, baccalà) o essiccato (stoccafisso) e che consentiva ai fedeli di salvare l’anima riempiendo lo stomaco.

Un consiglio interessato Un Padre conciliare, Olao Magno, fece uso di tutta la sua influenza per convincere i vescovi, i cardinali e lo stesso papa che lo stockfish era la migliore alternativa alla cucina che induceva il povero al peccato di lussuria. E ci riuscí. Per la cronaca,

Olao Magno era il nome latinizzato di Olaf Manson arcivescovo di Uppsala, primate di Svezia, autore, tra l’altro, di una Carta marina et Descriptio septemtrionalium terrarum, che, illustrando la geografia del Nordeuropa, di buona parte della Groenlandia e della regione baltica, disegnava davanti alle isole Lofoten grandi fasci di stoccafisso con il cartiglio «hic forum piscium frequentissimum» («qui si fa sempre mercato di pesci»): una innocente sponsorizzazione messa in atto dal sant’uomo per purgare le anime e mandarle in paradiso facendo lievitare l’economia della sua Svezia e dei Paesi vicini. Nel 1620, i Padri Pellegrini in fuga dall’Inghilterra sbarcarono dalla Mayflower sulle coste del New England, che il cartografo ed esploratore spagnolo di origini

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CALEIDO SCOPIO Stoccafissi nel porto di Runde, nell’isola di Herøy (Norvegia).

portoghesi Diego Ribeira indicò nella sua celebre mappa del 1527 come Los Baccallaos. La penisola su cui gli esuli posero piede per la prima volta era stata battezzata nel 1602 da Bartolomeo Gosnold «Cape Cod» (Capo Merluzzo), proprio per la moltitudine di pesce che vi si trovava. Cosí la pesca e la salagione del merluzzo divennero una fiorente attività per molti coloni americani e già alla metà del Seicento dal New England e del Massachusetts salpavano navi cariche di baccalà dirette ai Caraibi, a Capo Verde, alle Canarie, dove il pesce veniva scambiato con zucchero, cotone, ma, soprattutto, con schiavi da mettere al lavoro in quelle piantagioni. La prima ricetta di merluzzo (fresco e salato) nei ricettari medievali europei appartiene al manoscritto vaticano del Viandier (1390) attribuito a Guillaume Tirel, alias Taillevent. Si trattava di quello che da Anversa giungeva a Tournai

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per essere venduto sui mercati parigini: «Morue fresche. Appareillée et cuite comme ung rouget, et du vin au cuire, mengée à la jance; et y met l’en, qui veult, des aulx et aucuns non. La salée, à la moustarde ou beurre fraiz fondu» (Merluzzo fresco. Cucinato come la triglia; del vino in cottura; mangiato con jance [salsa con latte, tuorlo d’uovo e zenzero]. Aggiungi un po’ di aglio se vuoi, ma alcuni no. [quello] salato si mangia con mostarda [salsa di senape] o burro fuso fresco). Il già citato Ménagier de Paris copia la lezione del Viandier e la amplia: «Morue fresche, appareillée et cuite comme gournaut et du vin blanc au cuire, et mengée à la jance; et la salée, mengée au beurre ou mengée à la moustarde. La salée, pou trempée, sent trop le sel, et la trop trempée n’est pas bonne; et pour ce, qui l’achaitte, doit essaier à la dent et en mengier un petit» (Merluzzo fresco preparato e cotto come il gurnet con vino bianco in cottura, e mangiato con salsa gialla; quello salato mangiato con burro o

senape. Il salato, poco ammollato, sente troppo di sale, e troppo ammollato non è buono; per questo chi lo compra, deve provarlo al dente e mangiarne un pezzetto). In Italia, la prima ricetta medievale di stoccafisso si trova nel Registrum Coquine di Johannes Bockenheim – un tedesco già cuoco al servizio di papa Martino V – databile attorno al 1440: «Sic prepara stocbisch: Recipe eum, et mitte eum stare in aquis per noctem, quod mollis fiat. Et tunc fac eum modicum bulire, et eice aquam, et munda eum bene; et tunc fac eum plene bulire, cum cepis, et petrocilino; et tunc mitte superius zapharanum, cum aliis speciebus bonis. Et erit pro Thuringis et Hassis et Suevibus» (Prepara cosí lo stoccafisso. Prendilo e fallo stare in acqua per una notte finché si intenerisca. E fallo bollire, toglilo dall’acqua e mondalo bene; e quindi fallo lessare con cipolla e prezzemolo; poi mettigli sopra zafferano e altre spezie buone. Si fa per coloro che vendono dalla Turingia, dell’Assia e della Svevia). novembre

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Quando i santi prendevano le armi

Il Vangelo come scudo di Paolo Pinti

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riginario del Devonshire (Inghilterra), dove nacque verosimilmente verso il 675, Winfrid – latinizzato in Bonifatius, da cui Bonifacio – apparteneva a una nobile famiglia e ricevette un’ottima educazione dai Benedettini, nel cui Ordine entrò egli stesso, divenendo sacerdote intorno ai trent’anni d’età. A partire dal 716 compí due tentativi di evangelizzare i Frisoni, ma il suo intento si scontrò con l’ostilità di Radbod, sovrano di quelle genti. Rientrò allora in Inghilterra, ma, dopo la morte di Radbod (719), si recò nuovamente in Frisia, deciso a compiere la sua missione. Nel 722 partí alla volta dell’Assia, dove fondò il primo di molti monasteri benedettini. I successi conseguiti attirarono l’attenzione di papa Gregorio II, che chiamò a Roma Bonifacio e, nello stesso anno, lo nominò vescovo e legato pontificio. Il papa gli fornì anche una raccolta di canoni (regolamenti ecclesiastici) e lettere di raccomandazione a importanti personaggi come Carlo Martello, maestro del regno franco, la cui protezione era essenziale affinché l’opera evangelizzatrice potesse andare a buon fine. Nel 723, vicino al villaggio di Geismar, importante centro di culto del dio germanico Thor, fece abbattere la quercia sacra ai pagani per cercare di dimostrare la superiorità del cristianesimo:

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in effetti, vedendo che Thor non reagiva, il popolo accettò di farsi battezzare. La cosa non manca di una sua logica: constatato in via sperimentale che il dio, nel quale si credeva, non era capace di impedire la profanazione di un luogo sacro a lui dedicato, era piú probabile che ne esistesse veramente un altro, nel cui nome la profanazione era stata compiuta. E, quindi, conveniva venerarlo e farsi battezzare. Recatosi per la terza volta a Roma nel 737-738, si fece nominare da papa Gregorio III nunzio apostolico per la Baviera, l’Alemannia, l’Assia e la Turingia, al fine di organizzare la Chiesa locale in modo piú strutturato. In questa attività conobbe difficoltà e delusioni, tanto che preferí ritirarsi nell’abbazia di Fulda, in Germania, da lui fondata e nella quale è sepolto.

L’ultima missione Nell’anno 753 (o 754), papa Stefano II, si presentò alla corte dei Franchi per chiedere la protezione del re verso i Longobardi e, nello stesso momento, Bonifacio iniziava il suo ultimo viaggio. Ormai anziano, ma instancabile, nel 754 ripartí per la Frisia, accompagnato da una cinquantina di monaci. Il 5 giugno 754, giorno di Pentecoste, si incontrò presso Dokkum con un gruppo di catecumeni: la celebrazione della Messa stava iniziando, quando i

missionari vennero assaliti da un gruppo di Frisoni armati di spade. «Non temete – disse Bonifacio ai compagni – tutte le armi di questo mondo non possono uccidere la nostra anima». Uno degli assalitori vibrò un colpo di spada sul suo capo, e Bonifacio cercò di ripararsi coprendosi con l’evangeliario, ma inutilmente, perché il fendente spezzò il libro e mozzò il capo del novembre

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San Bonifacio in una incisione di Cornelis Bloemaert II, da un originale di Abraham Bloemaert. 1626 circa. Nella pagina accanto incisione raffigurante san Bonifacio. Qui la spada trapassa il libro, ma sulla copertina notiamo, sulla destra, una specie di ombra che potrebbe essere il taglio delle pagine fatto con un fendente: però, se cosí fosse, l’evangeliario dimostra di aver fermato il fendente stesso, in quanto la spada è posizionata a metà, senza aver superato l’ostacolo delle pagine. Poiché sappiamo che fu decapitato, dobbiamo pensare che l’ombra sia solo tale e che la spada sia stata usata per un colpo di punta (di stocco).

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ottobre


CALEIDO SCOPIO Miniature raffiguranti, dall’alto, san Bonifacio che battezza i Sassoni e che subisce il martirio, dal Sacramentario di Fulda. XI sec. Bamberga, Staatsbibliothek. Si vede bene che la spada è utilizzata per vibrare un fendente, dall’alto in basso, sul capo del martire.

martire. Si legge anche che «mentre stava per esser colpito dalla spada pose sul suo capo l’Evangeliario per ricevere il colpo del carnefice sotto di esso e avere in morte il presidio di quel santo libro, di cui in vita aveva amato la lettura» (dalla Vitae Sancti Bonifatii scritta da Radbodo, vescovo e poi santo franco nato nel 850 e morto nel 917). L’iconografia del santo lo vedeva, inizialmente, in abiti vescovili, col pastorale e il Vangelo nelle mani; si aggiunsero quindi i simboli della volpe, del corvo e del flagello, che richiamavano altrettanti miracoli a lui attribuiti. A partire dal XV secolo

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compare il libro trapassato da una spada, che s’ipotizza possa essere uno dei Codices Bonifatiani, tuttora conservati nella biblioteca di Fulda (Bibliotheca Sanctorum: «Pare, infatti, che il santo tentasse di proteggersi il capo con un libro sacro, forse proprio con quei Codices Bonifatiani»), mentre in genere si parla di evangeliario. La singolarità delle rappresentazioni pittoriche di questo santo è costituita proprio dal libro (evangeliario, che è un libro liturgico cristiano in cui sono raccolti i quattro Vangeli, o altro) trapassato dalla spada, non

riscontrabile in altri santi. Quindi, il simbolo della spada si riferisce unicamente allo strumento del suo martirio, mentre il libro ricorda semplicemente che il colpo di spada fu cosí forte da trapassare il volume e mozzare il capo di Bonifacio. Occorre considerare che un volume ponderoso come un evangeliario, offre molta resistenza persino a un proiettile: il fatto che una spada lo abbia trapassato è davvero notevole e testimonia la forza eccezionale di chi vibrò il colpo fatale.

Fu vera decapitazione? A voler essere pignoli, c’è da dire che nelle raffigurazioni il libro è passato da parte a parte e non tranciato: ne consegue che si trattò di una «stoccata» e non di un «fendente», l’unico in grado di tagliare una testa dal collo. Pertanto, o gli artisti si sono presi una licenza poetica (pittorica) oppure la leggenda va rettificata, considerando che il santo fu trafitto con una spada e non decollato. Troviamo scritto «il colpo di spada fu cosí forte che trapassò il volume e riuscí a mozzare il capo a Bonifacio» e anche «alzò il braccio con il quale teneva il Libro Sacro, che fu cosí leso dall’arma prima che questa si abbattesse sul capo di Bonifacio tranciandolo» e, ancora, «Quando la spada di un infedele si abbatté sul suo capo, cercò di ripararsi coprendosi con l’Evangeliario. Ma il fendente sfregiò il libro e mozzò il capo del martire». Tutte queste tradizioni sono in contrasto con l’iconografia del santo, ma resta il fatto che costui cercò istintivamente di proteggersi con quel che aveva in mano: non vi fu alcun miracolo – e sí che un evangeliario si prestava magnificamente, in teoria, a fare da scudo in un’occasione come quella – dando semplicemente vita a un’immagine particolarmente singolare, che ci consente di riconoscerlo a colpo d’occhio. La Chiesa venera Bonifacio come santo dal 1828. novembre

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Lo scaffale Pietro Maranesi Io, frate Francesco 3. L’identità

Porziuncola edizioni, Santa Maria degli Angeli, Assisi (Perugia), 216 pp.

24,00 euro ISBN 9788827012420 edizioniporziuncola.it

«Ludus» in latino vuol dire gioco. Entriamo in ludo quando giochiamo. E ci in-ludiamo quando accettiamo di entrare in gioco: «L’entrata è segnata dall’entusiasmo di abbracciare una nuova logica che “in-lude” (in senso positivo), dando un sogno di vita», scrive Pietro Maranesi, l’autore di questo Io, frate Francesco, uscito per i tipi della Porziuncola edizioni. «Io, frate Francesco» è la formula con cui Francesco dà avvio alle sue lettere, lettere che sono esortazioni, consigli, moniti rivolti alle donne e agli uomini, ai laici e alle laiche, ai religiosi e alle religiose del Medioevo. È un libro prezioso questo, non solo perché è scritto da uno dei nostri maggiori francescanisti – uno che si muove cioè tra le fonti francescane come noi ci muoviamo tra le pieghe della nostra vita –, ma perché ci spiega, al di là della fede che possiamo o meno

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avere, che entriamo in gioco non solo quando puntiamo una fiche su un numero fortunato o quando corriamo dietro a un pallone, ma anche, e soprattutto, quando decidiamo d’investirci in un progetto, sentimentale, religioso, sociale, lavorativo o politico che sia. E non c’è modo di tentare un progetto, se non quello d’illudersi, di partecipare, di prenderne tutto il rischio, consapevoli che resteremo probabilmente disillusi e delusi, e che a quel punto sarà necessario un ripensamento, un cambio di passo e di prospettiva. L’esistenzialista, il pessimista, il cinico, il deluso, non entrano mai nel gioco, non si in-ludono mai, perché sono sicuri di conoscere già l’esito della partita, la de-lusione che essi mettono in conto alla fine di ogni gioco. Francesco, invece, è l’uomo che ha avuto la capacità di illudersi per molte volte, a partire dalla prima, quando accetta di entrare nel gioco del padre, quello sociale dell’Assisi medievale, in cui i mercanti vogliono trasferirsi «dalla piazza del mercato alla rocca del

potere». Francesco è il predestinato, il ragazzo favoloso che deve riuscire a essere addobbato cavaliere in modo da permettere il salto di classe a tutta la famiglia. Ma Francesco de-lude il padre, uscendo dal gioco ed entrando in un altro gioco, quello della sua fraternità. Il libro racconta tutte le «illusioni» e tutte le «delusioni» di Francesco, cosí come i

suoi puntuali ritorni in gioco. Perché questo sembra volerci dire l’autore: tornare in ludo dopo la sconfitta vuol dire essere «santi». Vuol dire accettare il gioco di Dio, in cui a vincere è il piú debole, perché il gioco di Dio – a cui Francesco vuole giocare – è il gioco della fraternità. Non c’è altro modo di sentirci fratelli e sorelle se non quello di riconoscerci deboli, fragili, finiti. È il debole ad avere bisogno d’aiuto, ed è

solo chiedendo aiuto che si entra in un rapporto di fraternità con gli altri. Lo spirito di fratellanza nasce quando capiamo che si sopravvive solo grazie al «pane» che qualcuno ci ha donato e che facciamo sopravvivere gli altri solo dividendo con loro il nostro di «pane». Sostenere ed essere sostenuti è lo straordinario legame orizzontale che tiene in ludo Francesco. Questa è anche la sua «pazzia» e novità: Francesco spezza i rapporti verticali, propri della piramide del potere feudale e, col suo progetto, dà avvio a quelli orizzontali della fraternità. Rovescia la piramide delle sottomissioni, un assetto che per secoli aveva caratterizzato anche la Chiesa cattolica. Sul terreno dell’umiltà francescana si gioca infatti il profondo rivolgimento tra il monachesimo, che ha improntato di sé i secoli dell’Alto e pieno Medioevo, e gli Ordini mendicanti, che si affermarono invece nei secoli finali. Rispetto al monachesimo, Francesco cambia focus all’umiltà, virtú senza la quale nessun rapporto sociale è possibile.

Per il monachesimo l’umiltà era una virtú verticale, essa era essenzialmente una qualità dell’obbedienza. Per Benedetto da Norcia, l’umiltà attesta il raggiungimento di uno stato di perfezione, quello in cui il monaco si è ormai liberato delle proprie volontà e si dispone pienamente a compiere la volontà di Dio, nella totale obbedienza all’abate che è pater familias, guida e garante di una comunità inserita in un piú generale complesso di subordinazioni che ha il suo vertice in Dio. In Francesco l’umiltà è invece quella che deve possedere chi esercita un ruolo di potere e ha quindi persone sotto di sé. Umili devono essere il capo di Stato, il re, il duca. E, dentro la Chiesa, umili devono essere il vescovo, l’abate, il custode. E, dentro la famiglia, il padre. Francesco stesso esercita con umiltà il suo ruolo di guida dell’Ordine che ha fondato, e lo fa a costo di non correggere nessuno, di non guidare nessuno, di non essere compreso e seguito da nessuno: «Il mio compito è spirituale, cioè di prelatura sopra i frati, in quanto ho il novembre

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dovere di reprimere i presente e che, grazie difetti e di emendarli. alla sapiente esegesi Dal momento però di Maranesi, parla e che non riesco a dice molte cose di comprimere i vizi cui ognuno e ognuna ed emendarli con potrà beneficiare. la predicazione e La narrazione sui santi con l’esempio, non ha tradizionalmente voglio diventare coinciso con il racconto carnefice per punirli agiografico. L’agiografia e flagellarli, come è un tipo particolare fanno i governanti di scrittura, finalizzata di questo mondo» a presentare l’uomo o (Compilazione di la donna di cui è stata Assisi, 106). redatta la biografia L’umiltà quindi non come perfetti e è l’atteggiamento monoliticamente sicuri che deve assumere del proprio progetto il sottoposto davanti di vita. Questo libro al superiore, ma la abbandona questo tipo postura che deve di narrazione. tenere il superiore Non insegue il santino nei confronti di colui e non rassicura che è soggetto al con una scrittura suo comando. Una oleografica, quella riflessione che si che per secoli ci ha rivela oggi di grande consegnato l’immagine attualità, perché di un santo sereno, è il modo in cui mai deluso, mai auspichiamo di essere disilluso. Il Francesco governati, da persone che esce da queste che si mettono pagine è un uomo cioè a servizio delle che rimette spesso in comunità che sono discussione le proprie chiamate a reggere, e scelte e un Francesco che non dovrebbero per il quale la Chiesa mai «approfittare non coincide piú con del proprio ruolo per la comunità dei puri schiacciare gli altri», e dei perfetti – quella come ha intimato piú che aveva preteso volte papa Francesco. di essere nell’Alto Questo libro è Medioevo – ma con la importante perché fraternità dei deboli, Ondas. MartínunCodax, dei mancanti, di quelli non ci presenta Cantigas«muto», de Amigo Francesco che che nel gioco arrivano Vivabiancaluna vive in un MedioevoBiffi, Pierre per Hamon ultimi, e che, Arcana (A390), ormai lontano e 1 CD proprio per questo, www.outhere-music.com sfocato, ma un sono pronti a stringersi Francesco che ha in un rapporto molto da dire al nostro fraterno, che si fa casa

MEDIOEVO

novembre

all’interno e rete di accoglienza all’esterno per quanti piú uomini e donne possibili. Chiara Mercuri Franco Cardini, Marina Montesano Medioevo globale Avventurieri, viandanti e narratori a Samarcanda Piemme, Milano, 218 pp.,

18,90 euro ISBN 978-88-566-8809-2 www.edizpiemme.it

Un chierico parigino, un dragomanno (interprete) tartaro, un ambasciatore bizantino e la sua consorte, un mercante veneziano e uno genovese, una mercantessa catalana, un pellegrino e trovatore occitano e, infine, un medico tagiko e un suo collega ebreo: sono i dieci personaggi ai quali danno voce Franco Cardini e Marina Montesano in questo Medioevo globale, un’impresa letteraria decisamente originale e avvincente. I due illustri storici hanno infatti scelto la strada della finzione – le dieci figure appena citate non sono realmente esistite – per raccontare cosa sia stata l’età di Mezzo, attraverso le testimonianze immaginarie di uomini e donne che si immaginano

vissuti nella prima metà del XIV secolo. Testimonianze che vengono rese nel corso delle dieci serate che il gruppo trascorre in un caravanserraglio di Samarcanda, nell’attesa di essere aggregati a una carovana che possa riportarli in Occidente in sicurezza (poiché l’azione si svolge in un frangente nel quale la Pax Mongolica generata dalle conquiste di Gengis Khan cominciava a traballare). L’invenzione, che quasi evoca i romanzi di Agatha Christie, si rivela, pagina dopo pagina, assai efficace, soprattutto per lo stile brillante e la verosimiglianza dei profili tracciati, i cui discorsi potrebbero senza difficoltà essere scambiati per brani di cronache medievali effettivamente esistenti. Soprattutto, attraverso gli interventi del chierico Giovanni, del dragomanno Batu o di Rambaldo, il pellegrino-trovatore, il lettore ha modo di ripercorrere una lunga sequela di eventi cardine del millennio medievale e di vederne sfilare tutti i protagonisti principali, da papa Bonifacio VIII a Federico Barbarossa, dal Saladino a

Guglielmo d’Ockham, solo per citarne alcuni. La situazione immaginata da Cardini e Montesano, dunque, non si risolve in una rassegna di aneddoti – che una chiacchiera serale potrebbe comunque favorire –, ma dà vita a un grande affresco storico, reso vivido e colorito dalle «voci» dei partecipanti, che non nascondono le proprie emozioni di fronte a fatti di particolare

gravità, prima fra tutti la terribile peste del 1348. Senza dimenticare che entrambi gli autori, forti del loro magistero, arricchiscono questa «storia» del Medioevo dello scambio dialettico generato dall’origine assegnata ai dieci personaggi, pensati come figli, non certo a caso, di mondi e di culture diversi. Stefano Mammini

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L’ARCHEOLOGIA ITALIANA NEL MONDO

Quella delle missioni archeologiche all’estero è una tradizione ormai consolidata per l’Italia e, grazie al sostegno del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, sono centinaia gli studiosi attivi in oltre 80 Paesi, dall’Europa all’Oceania. A questa importante realtà è dedicata la nuova Monografia di «Archeo», che propone la rassegna dei progetti attualmente in corso, illustrati in prima persona dai loro stessi protagonisti. Le schede dedicate a ciascuna missione, corredate da un ricco apparato iconografico, danno vita a un ideale viaggio intorno al mondo, che permette di scoprire quanto importante sia il contributo italiano allo studio, alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio archeologico e storico-artistico degli Stati in cui i progetti vengono svolti. Perché un tratto comune a tutte le missioni è proprio quello del coinvolgimento di istituzioni e studiosi locali, nella convinzione che ciò rappresenti un passo fondamentale sulla strada della conoscenza e della conservazione. In tutti i territori nei quali operano, gli archeologi italiani si fanno dunque portatori di un know how di altissimo livello, ma sono al tempo aperti alla ricezione delle istanze dei partner con i quali condividono le proprie attività sul campo.

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