Medioevo n. 291, Aprile 2021

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IL T NAMEDERN SC IO I OS EV TO O

MEDIOEVO n. 291 APRILE 2021

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Mens. Anno 25 numero 291 Aprile 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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GRIFONE DI PISA IMPRENDITORIA FEMMINILE DANIELE E I LEONI TERNI DOSSIER L’ETÀ DELLE CONGIURE

COSTUME E SOCIETÀ QUANDO A GUADAGNARE ERANO LE DONNE

IN EDICOLA IL 2 APRILE 2021



SOMMARIO

Aprile 2021

ANTEPRIMA

UN ANNO IN DIVINA COMPAGNIA Il poeta fra i romei?

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di Federico Canaccini

ITINERARI Per la gloria dell’Arcangelo

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di Paolo Ponga

MUSEI Benvenuto a Palazzo!

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LIBRI Lo Scaffale

APPUNTAMENTI Medioevo Oggi

12 incontro con Mario Prignano, a cura di Corrado Occhipinti Confalonieri L’Agenda del Mese 18

a cura di Stefano Mammini

MUSICA Note... bestiali

STORIE

di Franco Bruni

26

46 LUOGHI Umbria

Un tesoro tra i fiumi

di Maria Paola Zanoboni

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94 26 OLTRE LO SGUARDO/3 Daniele

di Furio Cappelli

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COSTUME E SOCIETÀ IMPRENDITORIA FEMMINILE Capitane d’industria di Maria Paola Zanoboni

46

CONGIURE Il tempo delle trame e dei sospetti di Renaud Villard

MEDIOEVO NASCOSTO

Nella fossa dei leoni

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Dossier

PISA Il ruggito del Grifone di Gabriella Garzella e Anna Contadini

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CALEIDOSCOPIO STORIE, UOMINI E SAPORI A tavola con i «ferri» di Sergio G. Grasso 106

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IL T NAMEDERN SC IO I OS EV TO O

MEDIOEVO n. 291 APRILE 2021

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

PISA

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Mens. Anno 25 numero 291 Aprile 2021 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

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Hanno collaborato a questo numero: Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Anna Contadini è professore di storia dell’arte islamica presso la School of Oriental and African Studies (SOAS) della University of London. Gabriella Garzella è storica e archeologa medievale, già professore di storia degli insediamenti tardo-antichi e medievali all’Università di Pisa. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Paolo Ponga è giornalista. Renaud Villard è dottore di ricerca in storia moderna. Maria Paola Zanoboni è dottore di ricerca in storia medievale e cultore della materia presso l’Università degli Studi di Milano.

18/03/21 14:05

MEDIOEVO Anno XXV, n. 291 - aprile 2021 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Illustrazioni e immagini: Cortesia Opera della Primaziale Pisana: Museum of Islamic Art, Doha: copertina e pp. 33, 36 (piena pagina), 37 (alto, a sinistra, e basso), 38 (basso, a sinistra), 39 (basso, a destra); CNR, Pisa: pp. 34, 38/39, 40 (centro); ISCR: p. 36 (alto); Damiano Anedda: p. 38 (centro); Musée du Louvre, Parigi: p. 39 (alto); Museo Nazionale del Bargello, Firenze: p. 39 (centro); Mirco Bassi: pp. 40 (basso), 40/41, 41; SSPSAE Roma: p. 42 (alto); Owen Wright: p. 42 (basso); Farouk Yahya: p. 43 – Doc. red.: pp. 5, 28/29, 42 (centro), 46-53, 58/59, 63, 66-67, 71-75, 76 (basso), 80-93, 99, 100, 102, 103 (basso), 105 – Cortesia degli autori: pp. 6-9, 13, 30/31, 31, 32 – Palazzo Ducale di Mantova: Didier Descouens: p. 10 – Shutterstock: pp. 26/27, 28, 29, 30, 34/35, 60-61, 68-69, 78, 94/95, 96, 96/97, 98/99, 103 (alto) – Mondadori Portfolio: p. 55; Album/Collection J. Vigne/Kharbine-Tapabor: p. 54; Art Media/Heritage Images: p. 64; Album/Oronoz: p. 65; Fototeca Gilardi: p. 76 (alto); AKG Images: p. 77; Fine Art Images/Heritage Images: pp. 78/79; Electa/Sergio Anelli: pp. 100/101; Erich Lessing/Album: pp. 104, 108/109; Album/Prisma: pp. 106/107, 110; Heritage Art/ Heritage Images: p. 111 (alto) – Museum De Lakenhal, Leida: pp. 56/57 – Patrizia Ferrandes: cartina a p. 97. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina il Grifone di Pisa, scultura in bronzo proveniente dalla Spagna islamica. Fine dell’XI-inizi del XII sec. Pisa, Museo dell’Opera del Duomo.

Prossimamente protagonisti

Elisabetta Woodwille una strega sul trono d’Inghilterra

grandi battaglie

1480. L’assedio di Rodi

dossier

Arrigo VII l’imperatore tradito


dante alighieri, 1321-2021

Un anno in divina compagnia di Federico Canaccini

Il poeta fra i romei?

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elato di drappi di seta e d’oro l’ambone, ove erano saliti il Presule romano coi padri e tenuto un discorso alla turba, viene infine dichiarata la lettera, dalle bolle appese a fili di seta, magnifico dono di letizia. Conteneva essa in verità, da principio la data del Laterano, ma il Presule volle che invece nella sua lettera fosse annotata la data in San Pietro; e il dono fu deposto sull’altare». Cosí il cardinale Stefaneschi ricorda l’indizione del primo Giubileo, voluto da Bonifacio VIII: il 22 febbraio 1300, festa della Cattedra di San Pietro, dal balcone del Laterano, cosí come lo dipinse Giotto, il papa annunciò «la grande perdonanza». Il cronista Giovanni Villani partí alla volta di Roma e registrò che «al continuo in tutto l’anno durante aver in Roma, oltre al popolo romano, 200 000 pellegrini, sanza quelli che erano per li cammini andando e tornando», con un afflusso giornaliero di 10 000 devoti circa, se si suppone che si trattenessero almeno per i 15 giorni prescritti dal papa. Gli Annali Colariensi riportano la cifra di 30 000 romei in un solo giorno, forse riferibile a una delle date con punte massime, come il Natale, l’Ostensione della Veronica e, naturalmente, la Pasqua quando forse vi giunse Dante, come suggerí Arsenio Frugoni. Il poeta si sarebbe recato a Roma nei primi mesi dell’anno, prima di una sua ambasciata a San Gimignano (7 maggio 1300). Considerato il forte nesso che legò il suo esilio a BoniMiniatura raffigurante l’arrivo di un gruppo di pellegrini a Roma in occasione del Giubileo del 1300 indetto da papa Bonifacio VIII, dalle Croniche di Giovanni Sercambi, opera storiografica che narra eventi del Basso Medioevo. XV sec. Lucca, Archivio di Stato.

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facio VIII, non sarebbe poi cosí singolare che il cammino nell’aldilà coincida con il suo viaggio di redenzione a Roma, in occasione del primo Giubileo della storia. La settimana santa iniziava il 7 aprile, Giovedí Santo, per concludersi il 10, con la Domenica di Resurrezione. Forse in quei giorni l’Alighieri ebbe modo di vedere i pellegrini sul Ponte Sant’Angelo, debitamente bipartito da una palizzata per favorire il flusso e il deflusso dei romei ed evitare incidenti, che erano assai frequenti e mortali. L’immagine è associata alla perpetua circolazione in senso inverso di ruffiani e seduttori nella prima delle Malebolge, l’ottavo cerchio dell’Inferno, in cui si puniscono i fraudolenti: «come i Roman per l’essercito molto, l’anno del giubileo, su per lo ponte hanno a passar la gente modo colto, che da l’un lato tutti hanno la fronte verso ’l castello e vanno a Santo Pietro, da l’altra sponda vanno verso ’l monte». (Inferno XVIII, 28-33)


ANTE PRIMA

Per la gloria dell’Arcangelo ITINERARI • Il culto micaelico ha una delle sue

attestazioni piú felici nel paese di Oleggio, nel Novarese, dove maestranze rimaste ignote hanno dato vita a uno straordinario ciclo di affreschi, incastonati in una costruzione davvero singolare

N

ella campagna novarese, una quindicina di chilometri a nord del capoluogo e a una decina dall’aeroporto di Malpensa, si trova il paese di Oleggio. Abitato all’origine da tribú liguri e quindi celtiche, venne poi edificato stabilmente dai Romani; una delle possibili interpretazioni del nome viene proprio dalla V Legio, la Quinta Legione, da cui derivò il toponimo Oleggio, che i locali chiamano ancora Vlesch. La zona fu in seguito dominata dai Longobardi e dai Franchi; e la presenza di un castello costruito per la difesa dalle scorrerie di Saraceni e Ungari viene citata per la prima volta nel 982. Oleggio finí dapprima sotto l’egida dei conti di Biandrate e quindi di Novara, e poi seguí le vicissitudini comuni agli altri centri dell’area. Oggi è un placido comune di 14 000 abitanti, dedito alla coltivazione di mais e cereali e all’allevamento di bovini. Lungo la strada che porta al vicino borgo di Mezzomerico si trova il cimitero, all’interno del quale è possibile visitare la chiesa romanica di S. Michele, la cui storia è affascinante e ricca di misteri. San Michele Arcangelo è venerato Tutte le immagini si riferiscono alla chiesa di S. Michele a Oleggio (Novara). A sinistra San Michele Arcangelo, affresco di Johannes Maria de Rumo. Prima metà del XVI sec. A destra l’esterno dell’abside della chiesa.

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da tutte e tre le grandi religioni monoteiste; santo combattente contro Satana, sarà colui che suonerà le trombe del Giudizio finale. Fate attenzione a questo particolare: l’8 maggio del 490 apparve a san Lorenzo Maiorano, vescovo di Siponto, l’attuale Manfredonia, e nel luogo in cui si trovava una grotta, sul vicino Gargano, gli ordinò di costruire una chiesa, che diverrà il santuario di S. Michele Arcangelo di Monte Sant’Angelo, famosa meta di pellegrinaggi durante tutto

A destra Crocifissione, affresco sovrastante l’altare maggiore. 1587. A sinistra una veduta del presbiterio sopraelevato. In basso la facciata della chiesa.

il Medioevo. Il culto micaelico era particolarmente caro ai Longobardi, e diffuso in numerose città del Nord, molte delle quali scelsero l’Arcangelo come santo patrono; in Piemonte la chiesa piú famosa a lui dedicata è la sacra di S. Michele, che domina l’ingresso della Val di Susa.

La fondazione della chiesa S. Michele a Oleggio venne probabilmente costruita come chiesa cimiteriale durante il periodo longobardo, come confermano gli scavi effettuati nel 2001, che hanno rinvenuto tombe del VII secolo con un inusuale orientamento

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nord-sud, e il ritrovamento di un puntale di cintura e i frammenti di un pettine. Sopra questa chiesa originale, ne venne costruita probabilmente una seconda, citata per la prima volta in un documento del 973, che venne poi a sua volta modificata, ampliata e affrescata nella seconda metà dell’XI secolo. E proprio agli anni 1050-1075 gli studiosi hanno attribuito l’edificio oggi visibile: una struttura di tipo basilicale in stile romanico arcaico, molto particolare e differente rispetto ad altri luoghi. Le murature sono costituite da un alternarsi di ciottoli di fiume (il Ticino è assai

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ANTE PRIMA di scoprirne i segreti, ma anche di rilevare ciò che invece manca. Nel secondo caso, infatti, rispetto ai canoni del romanico astigiano oppure ai modelli attestati in molte chiese dell’Italia Centrale, ci si rende presto conto che S. Michele non possiede alcuna classica rappresentazione della Bibbia dei poveri (Biblia pauperum), né il bestiario raffigurato nei bassorilievi dei capitelli, o all’esterno, ovunque.

Pitture di grande pregio D’altra parte, vanta un ciclo pittorico straordinario, che appare di gusto bizantino e che risale proprio al periodo considerato: il terzo quarto

vicino) e laterizi, che conferiscono all’edificio un particolare effetto cromatico: noterete, infatti, come i colori predominanti della chiesa siano il bianco, ma, soprattutto, i toni che vanno dall’arancione al rosso acceso. La facciata a salienti fa presumere facilmente la divisione in tre navate, con evidenti asimmetrie e la mancanza di particolari decorazioni, tranne gli archetti pensili. L’interno è particolare, scarno, ma suggestivo, con la navata centrale decisamente piú grande delle laterali e un presbiterio sopraelevato, che si raggiunge dopo una scalinata, e che sovrasta la cripta sottostante, a tre navate, molto semplice. Una volta varcata la soglia della

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In alto un particolare della muratura dell’abside, che sottolinea l’uso di laterizi e ciottoli di fiume. A sinistra Giudizio Universale (particolare), affresco. Seconda metà dell’XI sec. chiesa, si prova una sensazione di pace che proviene da secoli lontani, e che fa dimenticare il luogo in cui sorge. La navata centrale, molto luminosa, è strana, a volte sembra storta, e allo spettatore viene voglia

dell’XI secolo. Una serie di affreschi di notevole fattura, in parte perduti, che capita solo raramente di vedere altrove. Molte ipotesi sono state formulate, ma una è la piú probabile. Il 10 giugno 1054 venne aprile

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A destra affresco dell’abside centrale raffigurante la battaglia fra Napoletani e Sipontini. Seconda metà dell’XI sec. Nella pagina accanto, a destra affresco dell’abside laterale destra raffigurante un Cristo in Maestà, entro una mandorla circolare sorretta da Angeli. Seconda metà dell’XI sec. In basso figure di chierici affrescate nell’abside laterale destra. Seconda metà dell’XI sec. eletto vescovo di Novara Oddone II, soprannominato il Prudentissimo, ma in realtà grande organizzatore e, soprattutto, infaticabile viaggiatore. Noto per la sua saggezza, nel 1055 fu inviato da Enrico III di Franconia, detto il Nero, a Costantinopoli, per un’ambasceria presso l’imperatore bizantino. Giunto in Puglia per poi imbarcarsi per l’Oriente, Oddone ebbe modo di visitare il santuario di Monte Sant’Angelo, rimanendone affascinato. Al suo ritorno in Italia, prese con sé alcune maestranze pugliesi, affinché abbellissero la chiesa novarese, forse addirittura accompagnate da un maestro greco. I lavori si protrassero per vari anni, fino a interrompersi senza arrivare alla conclusione; forse a causa della morte di Oddone, sopraggiunta durante il ritorno da un viaggio a Gerusalemme nel 1079.

Un maestro senza nome Chiunque sia stato l’ignoto artefice, una parte del suo capolavoro rimane ancora all’interno di S. Michele. Sulla controfacciata vi è una grande rappresentazione del Giudizio Universale, in parte perduta, ma della quale si distinguono ancora tre rappresentazioni sovrapposte: in alto figure di Angeli e Santi con la Vergine Maria; in centro gli Apostoli e nel piano sottostante alcuni dignitari ecclesiastici e monaci. A sinistra della porta d’ingresso sono ancora visibili le immagini di tre Patriarchi con le anime dei beati fra le mani, di tipica matrice orientale, mentre i dannati a destra

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sono ormai scomparsi. Sulla parete laterale destra della controfacciata si può osservare una scena ambientata in città, interpretata come il rinvenimento o la traslazione del corpo di un santo. Sull’abside centrale invece si trova ancora la figura del Cristo Pantocratore, con San Michele insieme a una schiera di Angeli. Piú sotto vi sono immagini di difficile lettura, fra cui si intravede l’Arcangelo che guida i Sipontini armati contro i Napoletani. L’abside laterale di destra contiene un affresco di Cristo in Maestà entro

una mandorla circolare sostenuta da Angeli, mentre nell’area sottostante vi sono alcune figure di chierici, dal chiaro sapore bizantino. La qualità globale degli affreschi sembra essere stata molto alta, e d’ispirazione per la pittura lombarda dei periodi a venire. Oltre a questi, vi sono ancora lacerti di altri affreschi in buona parte perduti e altri dipinti del QuattroCinquecento, di livello però minore, come nel caso della Crocefissione del 1587 posta sopra l’altare. Dopo l’epoca del vescovo Oddone, S. Michele di Oleggio venne menzionata in una bolla di papa Innocenzo II nel 1132 e continuò a svolgere la sua funzione di pieve e chiesa parrocchiale fino alla costruzione della nuova chiesa dei Ss. Apostoli Pietro e Paolo nel XVI secolo. Venne quindi in parte abbandonata, ma sopravvisse all’incuria del tempo per la sua funzione di chiesa cimiteriale, seppure con vari rimaneggiamenti barocchi. All’inizio del secolo scorso si provvedette ad alcuni interventi mirati al ripristino della struttura originale, durante i quali vennero alla luce gli splendidi affreschi; da allora si è continuato a scavare e studiare il sito per conoscere appieno la sua storia affascinante. Paolo Ponga

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ANTE PRIMA

Benvenuto a Palazzo! MUSEI • Grazie alla donazione di

Gian Pietro Serra, il Palazzo Ducale di Mantova riunisce gli elementi originari della decorazione di un importante monumento funebre

L

a città di Mantova ha ricevuto in dono dagli eredi di Giovanni Serra, rinomato chirurgo e grande amante dell’arte, due importanti opere, che sono andate ad arricchire le collezioni di Palazzo Ducale. La prima, in particolare, è una preziosa testimonianza dell’arte medievale, in quanto si tratta di una formella in pietra che rappresenta una «figura di santo» inquadrata tra due colonne che sostengono un arco carenato. Non si conosce il nome del santo, ma si può ipotizzare che la scultura sia stata eseguita alla fine del XIV o, al massimo, agli inizi del XV secolo. La formella, che misura 35 x 14 cm circa, è parte dello stesso complesso scultoreo del quale Palazzo Ducale conserva – da oltre un secolo – altri tre frammenti. Si tratta delle parti di un monumento medievale donate nel 1869 dal conte Massimiliano Alberigi Quaranta di Torricella alle collezioni del Museo Patrio, poi confluite nel 1915 presso la reggia gonzaghesca. La notizia dell’esistenza di un quarto pezzo dello stesso monumento venne data solamente nel 1985: fu rinvenuto nella corte Tedolda di Villa Saviola e diventò proprietà di Gian Pietro Serra, che ha appunto deciso di donarla al Palazzo Ducale, affinché andasse a completare i resti già lí conservati. Il monumento è un sepolcro funebre di rara tipologia, ossia a pilieri laterali riccamente decorati e figurati, come nella tomba del doge Michele Morosini nella chiesa dei Ss. Giovanni e Paolo a Venezia. (red.) La formella in pietra con figura di santo donata da Gian Pietro Serra alla città di Mantova. XIV-XV sec.

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ANTE PRIMA

EDIO VO M E OGGI

M

ario Prignano, giornalista e saggista storico, è l’autore di Giovanni XXIII. L’antipapa che salvò la Chiesa, un saggio nel quale ripercorre la parabola di un personaggio singolare nella storia della Chiesa. Abbiamo voluto incontrarlo, per chiedergli di tracciarne un profilo e spiegare cosa l’abbia spinto a interessarsi di una vicenda a lungo trascurata. Dottor Prignano, perché ha scelto di definire Giovanni XXIII «l’antipapa che salvò la Chiesa»? «Il titolo del mio libro può sembrare provocatorio, ma, in effetti, Baldassarre Cossa ebbe un ruolo non secondario nella soluzione dello Scisma d’Occidente. Nel 1414, a trentasei anni da quella frattura, fu lui a indire il Concilio di Costanza, che, dopo una serie di colpi di scena, decise di deporlo, facendo tabula rasa anche degli altri due papi rivali, Gregorio XII e Benedetto XIII, e spianando la strada all’elezione canonica e universalmente riconosciuta di Martino V». Come spiegherebbe il fatto che, prima del suo saggio, gli storici si sono occupati solo marginalmente di questo personaggio? «È una domanda che mi sono posto anche io. Pensi che l’ultima sua biografia è stata pubblicata oltre un secolo fa, in inglese, e non è mai stata tradotta in italiano. Con l’elezione di Angelo Roncalli era legittimo attendersi un sussulto di interesse verso questo personaggio (visto che il “papa buono” scelse di chiamarsi Giovanni XXIII, n.d.r.), ma cosí non è stato: di lui ci si è occupati solo di riflesso dopo il Concilio Vaticano II, che ha portato in dote una gran mole di studi sul conciliarismo e dunque sull’assise di Costanza, che ne costituiva il fondamento». A proposito di Angelo Roncalli: che cosa pensava di quel suo strano predecessore? «Per molti secoli la Chiesa ha annoverato Cossa tra i papi legittimi, tanto che, fino al 1946, il suo nome era nell’annuario pontificio. Roncalli però era da sempre convinto che si trattasse di un antipapa e un giorno di settembre del 1958, trovandosi in vescovado a Lodi, lo disse chiaro e tondo al vescovo, il quale gli aveva incautamente mostrato, con orgoglio, un ritratto di

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Miniatura raffigurante l’antipapa Giovanni XXIII che fugge in barca dal Concilio di Costanza insieme al duca d’Austria Federico IV d’Asburgo, dal codice Diebold Schilling, Amtliche Berner Chronik. 1478. 1483 circa. Berna, Burgerbibliothek. In basso Mario Prignano.

quel Giovanni XXIII. Un testimone mi ha raccontato lo sconcerto dei presenti e l’imbarazzo del presule, finché l’allora patriarca di Venezia non tolse tutti d’impaccio: “Fu un antipapa, ma ebbe il merito di convocare il concilio di Costanza, che riportò l’unità nella Chiesa”. Un mese dopo, Angelo Roncalli fu eletto papa e scelse lo stesso nome di Baldassarre Cossa, Giovanni XXIII...». Il termine antipapa ha, tradizionalmente, un’accezione negativa: è davvero cosí? «Non del tutto. Tra i cosiddetti antipapi vi sono molti devoti uomini di Chiesa, che sono divenuti tali per una serie di circostanze avverse, per errori di cui non hanno colpa o magari per l’adesione a dottrine risultate aprile

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perdenti. Quanti sanno che tra i primi antipapi c’è un santo, Ippolito? Purtroppo, molti preferiscono gli intrighi alla Dan Brown e l’idea dell’antipapa come di un incappucciato che trama nell’ombra è dura a morire». Già in vita, Giovanni XXIII fu oggetto di una campagna denigratoria. È vero che fu un violento, un vizioso, addirittura un pedofilo? «Quando i padri conciliari di Costanza decisero di deporlo, si trovarono di fronte a un problema: come fare, visto che si trattava di un papa eletto canonicamente e che certo non poteva definirsi eretico? Si decise allora di sommergerlo di ogni genere di accuse, anche le piú incredibili e scioccanti, e quindi deporlo perché “indegno

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e dannoso”. Di Cossa fu detto che era sodomita e che aveva stuprato piú di trecento monache, che non credeva nell’immortalità dell’anima, che era stato un tiranno sanguinario, un avvelenatore e molto altro ancora. Le testimonianze rese al processo contro di lui a Costanza sono impressionanti. Ma, come afferma lo storico tedesco Georg Erler, anche io penso che Giovanni XXIII “non era migliore ma neppure peggiore dei suoi contemporanei”». Perché decise di indire il Concilio di Costanza, senza avere la certezza di uscire vincitore dallo scontro con gli altri due antipapi contendenti? «Molti cercarono di dissuaderlo dall’andare a Costanza. Tra questi, il suo grande amico e confidente fiorentino

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ANTE PRIMA Bartolomeo Valori fu categorico nell’elencare i rischi che correva cosí lontano da Roma e in un territorio controllato del re dei Romani, Sigismondo, che, era ormai chiaro, tramava per mandare a casa tutti e tre i papi rivali e fare eleggere un suo candidato. Se dobbiamo credere alla Vita Bartolomaei Valori di Luca della Robbia, Cossa rispose: “Ammetto che non sarebbe saggio affidarmi a gente che non conosco, ma cosa posso farci se sento che il mio destino mi porta lí?”. Al di là delle precise parole pronunciate, innumerevoli indizi provano che si recò al Concilio intuendo ciò che l’aspettava. Di questo gli va reso merito». Per quale motivo fuggí da Costanza? «Sulle prime Giovanni XXIII tentò di farsi confermare unico pontefice a scapito degli altri due. Ma ebbe la peggio e nel giro di un mese si convinse che non aveva altra scelta che rinunciare alla tiara. Per tre volte giurò solennemente che l’avrebbe fatto, ma poi si ricordò di Celestino V e, temendo di finire come lui, mentre Sigismondo e gli altri si facevano piú impazienti e minacciosi, fuggí. In questo modo passò dalla parte del torto, offrendo ai suoi numerosi nemici interni il pretesto per deporlo e metterlo in prigione». Il suo rapporto con Sigismondo, re dei Romani e futuro imperatore, fu complesso. Come mai? «Sigismondo aveva mire precise sulla Chiesa e questo, Cossa, da papa e da ex uomo d’arme (proveniva da una famiglia ischitana arricchitasi con la pirateria), non poteva sopportarlo. Va detto però che solo la fermezza di Sigismondo consentí al concilio di sopravvivere in assenza di chi l’aveva convocato e portare a termine il compito di risolvere lo scisma». Perché Giovanni de’ Medici pagò il riscatto? Aveva un interesse economico oppure era legato a Cossa solo dall’amicizia? «Il rapporto privilegiato con papa Cossa aveva contribuito a fare di Giovanni de’ Medici uno dei banchieri piú potenti d’Europa. Ma i due erano anche sinceri amici, tanto che, quando Baldassarre cadde in disgrazia, Giovanni si offrí di pagare il riscatto per liberarlo di prigione, tempestando il nuovo papa Martino V affinché lo riaccogliesse nella Chiesa, promuovendolo cardinale». La rinuncia al soglio pontificio di Cossa spianò la strada a Martino V. Quale fu la sorte degli altri due contendenti? «Un mese dopo l’uscita di scena di Giovanni XXIII, Gregorio XII (il papa che oggi la Chiesa riconosce come legittimo fra i tre) decise di rinunciare. Non altrettanto fece Benedetto XIII, il quale rispose che, se avesse ceduto,

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Cristo si sarebbe dovuto incarnare una seconda volta e nominare un nuovo vicario! Venne deposto d’autorità dal Concilio di Costanza nel 1417». Come mai, da semplice cardinale, Cossa morí in povertà? «Si possono fare solo congetture. Di certo c’è che gli eredi napoletani piansero lacrime amare prendendosela con l’esecutore testamentario, Giovanni de’ Medici, per la “miseria” che lo zio ex papa aveva lasciato loro. Dalle carte che ho consultato, risulta che Cossa non riuscí nemmeno a pagare l’affitto del palazzo nel quale visse i suoi ultimi giorni a Firenze». Il monumento funebre dedicato a Giovanni XXIII fu scolpito da un grande artista come Donatello, eppure quando Martino V lesse l’iscrizione trasalí. Ci vuole raccontare l’episodio? «Sul sepolcro, che si trova presso il Battistero di S. Giovanni a Firenze, Donatello scrisse “Joannes quondam papa XXIII”. Martino però non la prese bene: chiese ai Fiorentini di precisare che il caro estinto era morto da cardinale, altro che “ex papa”. Ma i Fiorentini volevano molto bene a Baldassarre Cossa e la loro risposta, pilatesca e laconica, fu: “Quod scripsimus scripsimus”». Se fosse al posto di Baldassarre Cossa/ Giovanni XXIII e dovesse trarre un bilancio della sua vita, come si giudicherebbe? «Come un uomo avido di potere, probabilmente violento, sicuramente molto ambizioso e corrotto, che a un certo punto della vita ha compreso che nessuno, nemmeno un papa, sfugge al proprio destino». Possiamo trarre una lezione per la Chiesa di oggi dall’operato di Baldassarre Cossa? «La Chiesa è fatta di persone mortali e corruttibili, ognuna delle quali può cadere in tentazione. Perfino il papa. Ma una cosa che mi colpisce molto della vicenda di Cossa è che, pur dopo tutte le nefandezze raccontate contro di lui a Costanza, Martino V alla fine è disposto ad accoglierlo e addirittura a riammetterlo tra i cardinali. Mi sembra l’incarnazione di quello che predica il Vangelo: “Dio non vuole la morte del peccatore ma che si converta e viva”». Corrado Occhipinti Confalonieri DA LEGGERE

Mario Prignano, Giovanni XXIII. L’antipapa che salvò la Chiesa, Prefazione di Walter Brandmüller, 528 pp., Morcelliana, Brescia www.morcelliana.net aprile

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ANTE PRIMA

Rinviare per rilanciarsi

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

A

seguito degli ultimi provvedimenti governativi, non ci sono le condizioni perché la Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico possa svolgersi dall’8 all’11 aprile 2021, dopo aver già rinunciato nel 2020 alle date in programma dal 19 al 22 novembre. Pertanto, gli enti promotori – Regione Campania, Comune di Capaccio Paestum, Parco Archeologico di Paestum e Velia – in occasione di un incontro con la Direzione della BMTA, ne hanno posticipato la XXIII edizione, che si terrà da giovedí 30 settembre a domenica 3 ottobre 2021, al fine di assicurare soprattutto sicurezza, ma anche soddisfazione di risultati. Nell’incontro, al fine di rilanciare la BMTA e farne la vetrina internazionale dell’offerta archeologica della Campania in termini di turismo culturale e di valorizzazione del patrimonio in un’ottica di sistema e di condivisione di buone pratiche, è stato istituito il Comitato di Indirizzo, che vedrà protagonisti la Regione con l’Assessore al Turismo Felice Casucci e il Direttore Generale per le politiche culturali e il turismo Rosanna Romano, il Comune di Capaccio Paestum con il Sindaco Franco Alfieri, il Parco di Paestum e Velia con il neo direttore e il Consigliere di Amministrazione Alfonso Andria. Al Comitato di Indirizzo sarà affiancato il Comitato Scientifico, costituito dai Parchi (Pompei con Gabriel Zuchtriegel, Ercolano con Francesco Sirano, i Campi Flegrei con Fabio Pagano) e Musei Archeologici (il MANN di Napoli con Paolo Giulierini), dalla Direzione regionale Musei del Ministero della Cultura con Marta Ragozzino e dal Parco Nazionale del Cilento, Vallo di Diano e Alburni con Tommaso Pellegrino. La nuova data consentirà anche di vivere Paestum e la bellezza del sito UNESCO in un mese particolarmente ambito per il clima, rispetto alla data tradizionale di novembre, che sancirà la definitiva ripartenza del nostro Bel Paese e del turismo in chiave piú esperienziale, sostenibile e rivolto alla domanda di prossimità, tematiche tutte a cui la Borsa si ispirerà in questa edizione. «Abbiamo condiviso con il Sindaco di Capaccio Paestum – ha detto Felice Casucci – di far diventare Paestum

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Al centro Felice Casucci, Assessore al Turismo della Regione Campania. In basso Franco Alfieri, Sindaco di Capaccio Paestum. attraverso la BMTA la regia dell’offerta del turismo culturale campano in ambito archeologico, nell’intento di sviluppare dall’autunno 2021 e per il primo semestre 2022 la domanda di prossimità nazionale ed europea, in attesa della ripartenza definitiva della domanda intercontinentale dall’estate 2022, mettendo in luce i prestigiosi siti UNESCO, quelli in procinto di candidatura (i Campi Flegrei) e l’ampio patrimonio culturale che minore non è, ma che attende solo di essere valorizzato. Inoltre, l’offerta enogastronomica campana trova nella dieta mediterranea e nella pizza napoletana, patrimoni immateriali dell’UNESCO, il valore aggiunto, unico e autentico, da consegnare ai turisti che scelgono le nostre destinazioni archeologiche». Gli ha fatto eco Franco Alfieri, affermando che: «Grazie alla Regione Campania rilanciamo la BMTA. Il Masterplan del Litorale Sud Salerno e l’apertura dell’Aeroporto proietteranno Capaccio Paestum alla ribalta internazionale, per cui nei prossimi tre anni dobbiamo far crescere il nostro territorio, migliorare i servizi e riqualificare al meglio strutture private e aree pubbliche». Cosí, infine, si è espresso Ugo Picarelli: «Sono grato al Sindaco Franco Alfieri di considerare la BMTA un importante veicolo di sviluppo della destinazione Capaccio Paestum, che naturalmente potrà migliorare con il suo rilancio. Fortemente lo sono al Presidente della Regione Vincenzo De Luca e all’Assessore al Turismo Felice Casucci per aver confermato la BMTA nel calendario ufficiale delle fiere della Regione Campania per il 2021, ma soprattutto per l’impegno di sostenerla maggiormente e accrescerne l’importanza, considerandola una opportunità di relazioni, di processi condivisi, di progettualità per il territorio regionale e per acquisire risorse e stringere accordi di partenariato internazionale nell’ambito del turismo e dei beni culturali». aprile

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AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

AVVISO AI LETTORI

Questa Agenda del Mese è stata redatta in vigenza delle disposizioni mirate al contenimento della diffusione del COVID-19. È perciò possibile che le date di apertura e chiusura delle mostre segnalate abbiano subito o subiscano variazioni: invitiamo dunque i nostri lettori a verificare l’agibilità delle sedi che le ospitano, anche attraverso i siti web e i canali social delle istituzioni che le organizzano.

Mostre SENIGALLIA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Palazzo del Duca fino al 5 aprile

Dopo essere stata presentata ad Ascoli Piceno e a Roma, va in scena a Senigallia la terza e ultima tappa della mostra «Rinascimento marchigiano»,

che, per l’occasione, si è arricchita ulteriormente, presentando una quarantina di opere. In particolare, per la prima volta dopo il sisma, viene ricomposto l’intero ciclo di Jacobello del Fiore con le Scene della vita di Santa Lucia proveniente dal Palazzo dei Priori di Fermo, presentato parzialmente nelle tappe precedenti. I restauri compiuti sul ciclo sono stati molto importanti, poiché hanno permesso di affermare con certezza che si tratta di una pala ribaltabile, dove i pannelli si potevano all’occorrenza

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richiudere uno sull’altro per svelare le reliquie poste in una nicchia sul retro, e non di un dossale, come ha sempre sostenuto la storiografia. Di grande valore culturale è anche la campana databile al XIII secolo e molto probabilmente realizzata per la canonizzazione di san Francesco avvenuta nel 1228: si tratta della piú antica campana francescana arrivata ai nostri giorni. Originariamente si trovava nella chiesa di S. Francesco, a Borgo, una frazione di Arquata del Tronto, e ora è conservata nei depositi del Forte Malatesta di Ascoli Piceno. Da segnalare poi una stauroteca, contenente un frammento della vera croce e una coppia di reliquiari, realizzati nel XVIII secolo dall’orafo argentiere Pietro Bracci, romano di origine, ma molto attivo nelle Marche. info e-mail: circuitomuseale@ comune.senigallia.an.it PERUGIA RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi prorogata (data di chiusura in via di definizione)

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio. La mostra propone un’esperienza immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la

Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi

e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neorinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte. it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria aprile

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TORINO SULLE TRACCE DI RAFFAELLO NELLE COLLEZIONI SABAUDE Musei Reali, Galleria Sabauda-Spazio Scoperte sospesa

A 500 anni dalla sua morte, anche i Musei Reali di Torino rendono omaggio a Raffaello con una mostra che, attraverso dipinti, incisioni e oggetti di arte decorativa, illustra la diffusione dei modelli derivati dalla sua opera dalla prima metà del Cinquecento alla fine dell’Ottocento, in Piemonte e

nelle raccolte dei Savoia. Il percorso presenta 33 opere e illustra l’arte di Raffaello attraverso lavori che derivano direttamente dai suoi modelli, sia mediante la pratica della copia, sia con la libera reinterpretazione delle sue invenzioni. La prima parte del percorso è dedicata alle copie antiche della famosa Madonna d’Orléans, opera giovanile di Raffaello forse appartenuta al duca Carlo II di Savoia, oggi conservata presso il Museo Condé di Chantilly e replicata già nella prima metà del Cinquecento da alcuni dei principali artisti attivi in area piemontese. Deriva da un modello raffaellesco anche la Madonna della Tenda delle collezioni sabaude, restaurata

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con la collaborazione del Centro di Conservazione e Restauro La Venaria Reale e il sostegno di Intesa Sanpaolo. Ritenuta all’inizio dell’Ottocento opera autografa del maestro e venduta come tale nel 1828 al principe di Carignano Carlo Alberto, è stata poi attribuita a collaboratori come Perin del Vaga e Giovan Francesco Penni. Gli approfondimenti condotti in occasione della mostra propendono invece per una realizzazione intorno al 1530-1540 a Firenze, in una prestigiosa officina come quella di Andrea del Sarto. La seconda parte presenta una selezione di stampe di soggetto sacro, mitologico e allegorico, dove i modelli di Raffaello sono rivisitati con formidabile perizia tecnica e originale sensibilità chiaroscurale. L’itinerario si completa lungo il percorso di visita al primo piano della Galleria Sabauda, dove sono esposte opere di autori cinquecenteschi che si misurarono con Raffaello e con l’ideale di un’arte di insuperata perfezione. info www.museireali. beniculturali.it ROMA IL TEMPO DI CARAVAGGIO. CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE DI ROBERTO LONGHI Musei Capitolini, Sale espositive di Palazzo Caffarelli fino al 5 maggio

Lo storico dell’arte Roberto Longhi si dedicò allo studio del Caravaggio, all’epoca uno dei pittori «meno conosciuti dell’arte italiana», già a partire dalla tesi di laurea, discussa con Pietro Toesca, all’Università di Torino nel 1911. Una scelta pionieristica, che tuttavia dimostra come il giovane Longhi seppe da subito riconoscere la portata rivoluzionaria della pittura del

Merisi, cosí da intenderlo come il primo pittore dell’età moderna. In mostra è esposto uno dei capolavori di Caravaggio, acquistato da Roberto Longhi alla fine degli anni Venti: il Ragazzo morso da un ramarro. Quattro tavolette di Lorenzo Lotto e due dipinti di Battista del Moro e Bartolomeo Passarotti aprono il percorso espositivo, con l’intento di rappresentare il clima artistico del manierismo lombardo e veneto in cui si è formato Caravaggio. Oltre al Ragazzo morso da un ramarro è in mostra il Ragazzo che monda un frutto, una copia antica da Caravaggio, che Longhi riteneva una «reliquia», tanto da esporla all’epocale rassegna di Palazzo Reale a Milano nel 1951. Seguono oltre quaranta dipinti degli artisti che per tutto il secolo

XVII sono stati influenzati dalla sua rivoluzione figurativa. info e prenotazioni tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it FIRENZE IMPERATRICI, MATRONE, LIBERTE. VOLTI E SEGRETI DELLE DONNE ROMANE Galleria degli Uffizi fino al 9 maggio

La mostra pone a confronto gli opposti modelli che caratterizzano la rappresentazione femminile nel mondo romano, e infatti si articola in tre sezioni: gli exempla femminili negativi, i modelli positivi e infine il ruolo pubblico concesso alle matrone. L’arco temporale preso in esame comprende un periodo ampiamente documentato, quello aureo del Principato, che va dall’ascesa

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AGENDA DEL MESE

di Augusto alla morte di Marco Aurelio. Le opere esposte sono sculture, epigrafi, gemme e disegni, in gran parte appartenenti alla collezione delle Gallerie degli Uffizi, e con prestiti da altre istituzioni. info tel. 055 294883; www.uffizi.it FIRENZE RAFFAELLO E IL RITORNO DEL PAPA MEDICI: RESTAURI E SCOPERTE Palazzo Pitti fino al 27 giugno

Dopo il restauro dell’Opificio delle Pietre Dure e l’esposizione proprio all’inizio della grande mostra organizzata alle Scuderie del Quirinale a Roma in occasione del cinquecentenario della morte di Raffaello, il Ritratto di Papa Leone X con i cardinali Giulio de’ Medici e Luigi de’ Rossi torna a casa, nella sua Firenze. La mostra ne documenta il restauro e interpreta le analisi scientifiche del dipinto: adesso sono percepibili le sottili differenze tra le varie sfumature di rosso, le differenti consistenze dei tessuti e la capacità di introspezione ritrattistica dell’artista. Vengono inoltre spiegate le indagini diagnostiche che hanno dimostrato che il capolavoro è tutto di mano di Raffaello. Di grande attualità l’appello ecologico emerso con la revisione del supporto ligneo: purtroppo le variazioni del clima sono divenute cosí brusche e violente da mettere in crisi sistemi ed equilibri che, all’interno degli stessi materiali

delle opere d’arte, avevano funzionato per secoli. info tel. 055 294883; www.uffizi.it RAVENNA LE ARTI AL TEMPO DELL’ESILIO Chiesa di San Romualdo fino al 4 luglio

Secondo appuntamento del ciclo espositivo «Dante. Gli occhi e la mente», la mostra riunisce testimonianze emblematiche delle tappe dell’esilio dantesco, proponendo ciò che il poeta

ebbe occasione di ammirare nel suo lungo peregrinare per l’Italia, opere la cui eco influenzò la sua Commedia, straordinario «poema per immagini». Ad aprire il percorso espositivo è l’effigie in bronzo dorato raffigurante Bonifacio VIII, cioè di colui che condannò Dante all’esilio. L’ambiente di origine e formazione del poeta, Firenze, è quindi documentato da opere di Cimabue e di Giotto, che con ogni probabilità egli ebbe modo di ammirare. Negli anni successivi l’Alighieri, dopo essere stato costretto ad abbandonare anche Roma, soggiorna in diverse città, tra cui Arezzo, Verona, Padova, Bologna, Lucca e Pisa, in una fase di profonde mutazioni e

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novità nell’arte, che la mostra documenta attraverso dipinti, sculture, manoscritti miniati, oreficerie. Intorno al 1319, Dante giunge a Ravenna, mentre in città operavano Giovanni e Giuliano da Rimini, chiamato quest’ultimo a decorare la cappella a cornu epistulae della chiesa di S. Domenico, seguito anche da Pietro da Rimini, di cui la città conserva ancora oggi varie testimonianze. Ed è ai capolavori di questi due artisti che la mostra riserva ampio spazio nella sua sezione conclusiva, intervallandoli a testimonianze legate alla cultura figurativa veneziana, a documentare l’ultima impresa diplomatica svolta nella Serenissima dal poeta. Chiude il percorso la Madonna con Bambino che in origine proteggeva il modesto sarcofago dell’Alighieri e che, per questa occasione, torna per la prima volta a Ravenna, concessa in prestito dal Museo del Louvre, del quale è ora patrimonio. info www.mar.ra.it FORLÍ DANTE, LA VISIONE DELL’ARTE Musei San Domenico fino al 14 luglio

La mostra non vuol essere solo l’occasione per celebrare l’anniversario dantesco, ma, nel momento difficile che tutto il mondo vive, anche un simbolo di riscatto e di rinascita. A Forlí Dante trovò rifugio, lasciata Arezzo, nell’autunno del 1302, rimanendo per oltre un anno presso gli Ordelaffi, signori ghibellini della città. Per la mostra gli Uffizi hanno concesso in prestito alla città romagnola il ritratto dell’Alighieri e quello di Farinata degli Uberti di Andrea del Castagno, nonché un altro aprile

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ritratto, dipinto da Cristofano dell’Altissimo per la serie commissionata da Cosimo I de’ Medici dedicata agli uomini illustri. Si possono inoltre ammirare la Cacciata dal Paradiso terrestre di Pontormo e un disegno di Michelangelo che ritrae un dannato nell’Inferno della Divina Commedia, oltre a una scelta di disegni di Federico Zuccari per l’edizione cinquentesca illustrata del testo. E poi i personaggi: un busto marmoreo di Virgilio,

realizzato dallo scultore settecentesco Carlo Albacini, e una delle piú recenti acquisizioni degli Uffizi, la tela ottocentesca del protoromantico toscano Nicola Monti intitolata Francesca da Rimini all’Inferno. A questa pregevole selezione si aggiungono le opere prestate da musei di tutto il mondo. «Dante, la visione dell’arte» intende dunque essere un momento di riflessione sulla figura del poeta, simbolo dell’Italia, e sul suo immenso lascito: in un rispecchiamento unico tra linguaggio dell’arte e figura letteraria. info tel. 0543 712.627-659; e-mail: biglietteria.musei@ comune. forli.fc.it

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TORINO RITRATTI D’ORO E D’ARGENTO. RELIQUIARI MEDIEVALI IN PIEMONTE, VALLE D’AOSTA, SVIZZERA E SAVOIA Palazzo Madama, Sala Atelier fino al 12 luglio

La mostra presenta una galleria di busti reliquiario dal Duecento al primo Cinquecento, provenienti da tutte le diocesi del Piemonte e raffiguranti santi legati alle devozioni del territorio e alle titolazioni di determinate chiese locali, oltre ad alcuni esemplari dalla Svizzera e dall’Alta Savoia. Documentati già dall’XI secolo per contenere la reliquia del cranio di certi santi, i busti sono a tutti gli effetti dei ritratti in oreficeria, solitamente in rame o in argento dorato, spesso arricchiti da pietre preziose, vetri colorati e smalti. Una produzione specificatamente medievale, in cui convivono il gusto per il ritratto di tradizione classica – di qui la presenza di dettagli relativi all’acconciatura o all’abbigliamento – e le pratiche devozionali teorizzate da alcuni ecclesiastici e filosofi del XII secolo, secondo cui la contemplazione dell’immagine di un santo, realizzata con materiali preziosi, poteva condurre il fedele verso l’elevazione spirituale. I busti e le teste reliquiario si configurano

quindi come opere di valenza doppia: sia opere d’arte sia ricettacolo delle reliquie dei santi che rappresentano e in quanto tali oggetto della venerazione dei fedeli. Il Piemonte e l’area alpina contano un numero molto elevato di queste testimonianze per il periodo XII-XVI secolo, soprattutto in rapporto alle altre regioni d’Italia. La mostra vuole documentare questa ricchezza, anche stilistica, cercando di comprendere le ragioni del successo di questa tipologia nel nostro territorio. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it RAVENNA INCLUSA EST FLAMMA. RAVENNA 1921: IL SECENTENARIO DELLA MORTE DI DANTE Biblioteca Classense fino al 17 luglio

«Inclusa est flamma» è un percorso di documentazione storica che ha il suo nucleo centrale nelle celebrazioni nazionali per il VI centenario dantesco del 1921, inaugurate l’anno prima proprio in Classense alla presenza dell’allora Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce. Vengono esposti libri, manifesti, fotografie, dipinti, manoscritti e numerosi oggetti d’arte conferiti come omaggio a Dante e alla città «ultimo rifugio» del poeta. Ciascuno degli oggetti, testimonianze della storia «ufficiale», offre spunti per raccontare anche storie particolari, spesso sconosciute al grande pubblico e a volte sorprendenti. Il Secentenario del 1921 fu preceduto da altri momenti

celebrativi di valenza nazionale, come per esempio le «Feste dantesche» del settembre 1908, organizzate dalla Società Dantesca Italiana, che riunirono a Ravenna rappresentanti di città e territori allora sotto la sovranità dell’impero asburgico. Fra i pezzi piú importanti riuniti per l’esposizione vi sono il modello in bronzo del monumento di Dante a Trento, realizzato da Cesare Zocchi nel 1896; Dante nella pineta e I funerali di Dante, opere del triestino Carlo Wostry (1865-1943) e i celebri sacchi donati da Gabriele D’Annunzio e decorati da Adolfo De Carolis col motto «Inclusa est flamma» («la fiamma è all’interno») che dà il titolo alla mostra. I sacchi in tela di juta, contenenti foglie di alloro in omaggio a Dante, furono trasportati in aereo a Ravenna da tre aviatori che avevano partecipato a famose imprese militari di D’Annunzio, come il volo su Vienna del 1918 o l’Impresa di Fiume. Il Vate stabilí un parallelo tra la fiamma che ardeva sulla tomba di Dante e la fiamma perenne che veniva custodita presso il santuario di Apollo a Delfi, considerato dagli antichi Greci il cuore vivo della loro civiltà. Una simbologia iniziatica che

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AGENDA DEL MESE APPUNTAMENTI • Luce sull’Archeologia 2021 - Da capitale di un impero all’ultima Roma antica. Paesaggi urbani, trasformazioni sociali e culturali Roma – Teatro Argentina

fino al 25 aprile info e-mail: promozione@teatrodiorma.net; www.teatrodiroma.net

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on la settima edizione di Luce sull’archeologia al Teatro Argentina, dedicata quest’anno al tema «Da capitale di un impero all’ultima Roma antica. Paesaggi urbani, trasformazioni sociali e culturali», il Teatro di Roma-Teatro Nazionale, in un percorso di ideale continuità, prosegue con gli appuntamenti dedicati a Roma e al mondo romano. Un viaggio nella storia, nell’archeologia e nella storia dell’arte, per approfondire temi, avvenimenti, aspetti peculiari di una civiltà nella sua evoluzione, avviando nel contempo una riflessione sull’ultima fase dell’impero romano e sull’età tardo-antica (IV-VI secolo circa), segnata anche dall’ascesa del cristianesimo e dalla sua graduale fusione con la tradizione pagana. Nel V secolo, Roma è una città contesa: la presenza di una potente e opulenta nobiltà senatoria rallenta la cristianizzazione della popolazione, molto piú avanzata in altre metropoli dell’impero e l’identità della città appare sdoppiata. C’è, da una parte, l’ultima Roma antica, ex capitale dell’impero e culla della tradizione, con i suoi monumenti e le sue memorie posti sotto la vigile tutela dei senatori; dall’altra, il vescovo ortodosso si batte per aumentare il proprio prestigio e guadagnare il controllo degli uomini, degli spazi, perfino del tempo dell’Urbe. Tra il 410 e la metà del VI secolo, i «sacchi» e altri drammatici eventi si abbattono sulla città e su questi gruppi in competizione, e scandiscono cesure epocali, avviando la trasformazione della città, dalla Roma dell’antichità alla nuova Roma cristiana, ormai avviata verso il Medioevo. Com’è ormai consuetudine, ciascun incontro si avvale della collaborazione dello storico dell’arte Claudio Strinati, del direttore delle riviste «Archeo» e «Medioevo», Andreas M. Steiner, e del direttore associato dell’Istituto Nazionale di Studi Romani, Massimiliano Ghilardi. Tutti gli eventi hanno luogo alle ore 11,00 di domenica mattina a partire dal 7 febbraio e vengono trasmessi in diretta streaming sul canale Youtube del Teatro di Roma e/o in presenza, in base alla normativa anti Covid-19 vigente alle date di programmazione. La visione in streaming sarà gratuita e aperta a tutti, mentre le conferenze in presenza avranno il regolare biglietto. Quanti desiderino comunque contribuire al progetto, possono farlo attraverso l’ArtBonus, il bonus fiscale per chi sostiene la cultura, scegliendo liberamente la cifra da donare, detraendo il 65% dell’importo donato. Questi i prossimi appuntamenti: 11 aprile, Le guerre greco-gotiche e l’ultima Roma antica, con Massimiliano Ghilardi, Daniele Manacorda, Umberto Roberto; 25 aprile, Conquista, integrazione, ferocia dei vincitori, con Giovanni Brizzi, Luciano Canfora, Simone Quilici.

intendeva rappresentare Dante visto come profeta della Nazione oltre che padre della lingua italiana. info tel. 0544.482112; e-mail: informazioni@classense.ra.it; www.classense.ra.it RAVENNA DANTE NELL’ARTE DELL’OTTOCENTO. UN’ESPOSIZIONE DEGLI UFFIZI A RAVENNA Chiostri Francescani fino al 5 settembre

Dante in esilio è un olio su tela di Annibale Gatti, pittore

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forlivese che si formò a Firenze, raggiungendo l’apice della sua carriera artistica nel momento in cui la città divenne la nuova capitale del Regno. Proveniente dagli Uffizi di Firenze, è un’opera notevole sotto il profilo artistico e fondamentale per valore simbolico. La sua presenza a Ravenna nasce, infatti, dal progetto di stretta collaborazione pluriennale tra il Comune di Ravenna e le Gallerie degli Uffizi, definito con un protocollo ufficiale di intesa. Il documento prevede

prestigiosi prestiti per la mostra «Dante. Gli occhi e la mente. Le Arti al tempo dell’esilio» e la concessione da parte degli Uffizi – in un deposito a lungo periodo – di un nucleo di opere ottocentesche dedicate alla figura di Dante Alighieri, da esporre a Ravenna come parte integrante del progetto Casa Dante. Inoltre ogni anno, in concomitanza con l’annuale cerimonia del dono dell’olio da parte della città di Firenze, gli Uffizi presteranno alla città di

Ravenna un’opera a tema dantesco. Rinnovando, cosí ancora una volta, il profondo legame tra Firenze, città natale del sommo poeta, e Ravenna, città che lo accolse e suo «ultimo rifugio». All’interno di questo accordo ha preso forma anche il progetto che ha portato all’esposizione della tela a tema dantesco di Annibale Gatti nei Chiostri Francescani. Nel dipinto il poeta è ritratto in un momento di intima riflessione, in compagnia del figlio, nella pineta di Classe, aprile

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citata da Dante nel Purgatorio e luogo a lui caro. E la pineta classense rivive, in questa mostra, oltre che nel dipinto, anche in una selezione di fotografie storiche provenienti dal Fondo «Corrado Ricci» della Biblioteca Classense. info tel. 0544 482.477-356; e-mail: info@museocitta.ra.it; www.mar.ra.it FIRENZE ONOREVOLE E ANTICO CITTADINO DI FIRENZE. IL BARGELLO PER DANTE Museo Nazionale del Bargello fino al 25 luglio

Articolata in sei sezioni, la mostra riunisce oltre cinquanta tra manoscritti e opere d’arte provenienti da biblioteche, archivi e musei e presenta le tappe e i protagonisti della ricostruzione postuma del rapporto tra Firenze, l’Alighieri e la sua opera, nel secondo quarto del Trecento. Si tratta di copisti, miniatori, commentatori, lettori, volgarizzatori, le cui vicende professionali e umane si intrecciano fittamente, restituendo l’immagine di una città che sembra trasformarsi in uno scriptorium diffuso, al

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centro del quale campeggia la Commedia, e in cui i libri circolano con abbondanza e prendono vita nuove soluzioni artistiche e codicologiche proprio in relazione al poema dantesco. Il Museo Nazionale del Bargello è la sede ideale per una mostra che ripercorre il complesso rapporto tra Dante e la sua città natale: nella Sala dell’Udienza dell’allora Palazzo del Podestà (oggi Salone di Donatello), il 10 marzo 1302, il sommo poeta venne condannato all’esilio definitivo; nell’attigua Cappella del Podestà, solo pochi anni piú tardi (entro il 1337), Giotto e i suoi allievi ritraevano il volto di Dante includendolo tra le schiere degli eletti nel Paradiso. Proprio attorno a questo ritratto, la prima effigie a noi nota del padre della lingua italiana, si delinea cosí quel processo di costruzione della memoria che permetterà a Firenze di riappropriarsi dell’opera e della figura dell’Alighieri. info tel. 055 0649440; e-mail: mn-bar@beniculturali.it; www.bargellomusei.beniculturali.it

documentaria allestita al Museo Classis Ravenna. All’epoca di Dante il centro abitato distava circa due miglia dalla costa, era delimitato a est dalla fitta fascia dei pineti, a nord dal fiume Montone, a sud dal Ronco e a ovest da terreni solo in parte bonificati; attraversata da una fitta rete di fiumicelli e canali limacciosi, la città viveva in una sorta di precario equilibrio fra acque dolci e acque marine. La pineta costituiva una vasta area boschiva che dal Reno arrivava fino a Cervia, correndo parallelamente alla costa adriatica. Alle case povere e per lo piú pedeplane, si affiancavano i rari palazzi signorili, quelli dei Traversari e dei Polentani. Le chiese sono numerosissime, per una popolazione di circa 10 000 abitanti. Ravenna, che aveva tratto profitto dall’attività edilizia in epoca romana,

Appuntamenti

CLASSE (RAVENNA)

ROMA

CLASSE E RAVENNA AL TEMPO DI DANTE Classis Ravenna-Museo della Città e del Territorio, Parco Archeologico di Classe fino a settembre 2021 (dal 21 maggio)

DANTE ALIGHIERI NEL 700º ANNIVERSARIO DELLA MORTE Ateneo Pontificio Regina Apostolorum 13-15 aprile

Quale città incontra Dante quando arriva a Ravenna nel 1318? Il rapporto con il mare e con le vie d’acqua riveste ancora la stessa importanza che aveva durante l’epoca romana? Che cosa è cambiato e qual è la relazione con Classe? Qual è la città e quali sono i monumenti che Dante vede? Queste sono le domande alle quali intende rispondere la mostra

conservava un complesso, unico nel suo genere, di monumenti del V e VI secolo di cui non esisteva l’eguale in altra città. L’unicità, di cui godiamo tuttora, considerando la quasi totale scomparsa delle chiese erette in quei secoli a Costantinopoli, in Palestina e in Siria, era al tempo di Dante ancora piú significativa. La mostra si propone di ricostruire, anche attraverso una ricerca originale e mirata, monumenti e paesaggi di Ravenna e di Classe ai tempi di Dante. Oltre al recupero e alla interpretazione/sistemazione dei documenti disponibili, vengono proposte anche ricostruzioni complessive sia della città che di singoli monumenti, allo scopo di fornire un quadro generale della città e delle sue strutture urbanistiche e architettoniche ai tempi di Dante, con soluzioni fortemente evocative. info https://classisravenna.it/

Nel settimo centenario della morte dell’Alighieri, la Cattedra Marco Arosio di Alti Studi Medievali intende promuovere il pensiero del Sommo Poeta, profondo conoscitore dell’animo umano e maestro di tutti coloro che intendano migliorarsi. Il convegno, in collaborazione con l’Università Europea di Roma, offre una panoramica della filosofia e della teologia di Dante, per poi lasciar spaziare lo sguardo,

mostrando la poliedricità e modernità di una figura sempre attuale perché attuali sono le domande che solleva e le risposte che offre. L’evento è aperto al pubblico ed è comunque possibile anche il collegamento a distanza attraverso i canali Zoom e YouTube. info www.upra.org

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IN EDICOLA

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erché si dice «guelfo» e «ghibellino»? E perché quel binomio continua a essere d’uso comune anche a distanza di molti secoli da quando fece la sua prima comparsa? Da questi interrogativi prende le mosse il nuovo Dossier di «Medioevo», che rilegge ed esamina uno dei fenomeni che piú hanno segnato la vita politica dell’età di Mezzo, in Italia innanzitutto, ma non solo. Una contrapposizione ideologica che non si limitò allo scontro dialettico, ma prese le forme di un vero e proprio conflitto, scandito da alcuni dei fatti di sangue piú cruenti della storia medievale. Un esito, quest’ultimo, che non deve sorprendere, poiché quella che, all’inizio, poteva sembrare una rivalità fra le famiglie piú in vista di alcune fra le maggiori città italiane – Firenze su tutte – assunse ben presto i contorni di una vera e propria guerra fra i poteri forti del tempo: l’impero e la Chiesa. Non a caso, quindi, la lotta tra la fazione guelfa e quella ghibellina ha visto coinvolti tutti i personaggi di maggior spicco dell’epoca, compreso, fra gli altri, Dante Alighieri, che in piú d’una delle sue terzine evocò i fatti dei quali era stato testimone, nonché vittima. Un racconto avvincente, insomma, che degli eventi salienti offre chiavi di lettura inedite e affascinanti.

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N°43 Marzo/Aprile 2021 Rivista Bimestrale

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GLI ARGOMENTI

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MEDIOEVO DOSSIER

ANTE PRIMA

E FI NI EL LLI GU IBE GH

04/03/21 12:58

• LE ORIGINI Nascita di un binomio • LE FAZIONI IN LOTTA Quasi come una peste • CITTÀ DIVISE L’Italia in fiamme • SIMBOLI Merli guelfi e merli ghibellini: un’invenzione moderna? • STEMMI ED EMBLEMI Di santi, animali e altre storie • LE BATTAGLIE Montaperti, Benevento, Tagliacozzo, Colle Val d’Elsa, Guerra dei Vespri, Campaldino • DANTE Quando il poeta divenne il «Ghibellin fuggiasco» Miniatura raffigurante la battaglia di Tagliacozzo, dall’edizione della Nuova Cronica di Giovanni Villani contenuta nel Ms Chigiano L VIII 296. 1350-1375. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana.



storie pisa

Il ruggito del Grifone di Gabriella Garzella e Anna Contadini

Pisa. Veduta della cupola e del tetto del Duomo, con il Grifone collocato al di sopra dell’abside. La scultura oggi visibile è una replica dell’originale, custodito nel Museo dell’Opera del Duomo e piú dettagliamente descritto nella seconda parte dell’articolo.


Un Grifone bronzeo domina da secoli la piazza dei Miracoli di Pisa: è una scultura di fattura squisita, d’origine islamica, scelta dalla città toscana per simboleggiare il proprio dominio sui mari. Come prova lo studio che presentiamo in anteprima, l’opera, però, non aveva soltanto un innegabile valore estetico, ma sapeva stupire i suoi ammiratori facendosi «sentire»...

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ul culmine del Duomo di Pisa al di sopra dell’abside – la zona piú sacra dell’edificio – spicca il profilo di un animale fantastico, con zampe di felino e testa e ali di uccello: è il magnifico Grifone bronzeo di manifattura islamica, che da secoli domina la scena di Piazza dei Miracoli. È il segno piú visibile di una stagione che, all’alba del primo millennio dell’era cristiana, vide la città sull’Arno affermarsi nello scacchiere marittimo, assumendo il ruolo di protagonista nella difesa delle coste del Tirreno e del Mediterraneo occidentale dagli attacchi musulmani provenienti dalle isole tirreniche e dalle coste nordafricane e nella controffensiva consistente in spedizioni contro le loro basi principali. Cosí, nell’arco di un secolo, i Pisani riportarono vittorie decisive contro i Saraceni di Reggio Calabria (nel 1005), di Sardegna (nel 1015-1016) e di Bona nell’Africa settentrionale (nel 1034), espugnarono Palermo (nel 1064) e le città africane costiere di al-Mahdiya e Zawila (nel 1087), parteciparono nel 1098 alla prima crociata per la liberazione di Gerusalemme dagli «infedeli» (le tribú turche musulmane insediate in Palestina) e infine, dopo un assedio di due anni, nel 1115 espugnarono Maiorca, concludendo vittoriosamente la spedizione balearica, ultima grande azione militare contro i musulmani nel Mediterraneo occidentale. Epigrafi apposte sui principali monumenti cittadini a perpetua memoria e poemi epici da tramandare ai posteri fissarono il ricordo di quelle imprese, in cui i protagonisti – la cittadinanza intera: maiores, medii pariterque minores, come si legge sulla facciata della cattedrale nell’epigrafe celebrativa della presa di Palermo – fondarono la propria identità e l’immagine da trasmettere all’esterno. Con il successo delle Baleari, Pisa aveva consolidato il primato sul mare, già suggellato dal conferimento al suo vescovo della legazia pontificia in Sardegna (forse nel corso del 1088) e


storie pisa dei diritti metropolitici sull’isola di Corsica (nel 1092) e ostacolato solo dalla rivale Genova. Si apriva cosí l’epoca dei trattati commerciali che avrebbero portato i mercanti pisani nei principali porti del bacino mediterraneo fino alle zone piú orientali – da Valencia a Tunisi, da Narbona ad Acri in Terra Santa e fino a Bisanzio, solo per ricordare i principali accordi stipulati nel corso del XII secolo –, determinando una straordinaria circolazione di uomini, merci e idee.

Una realtà cosmopolita

Le fonti sono prodighe di notizie sulla presenza a Pisa di uomini provenienti da diversi Paesi del Mediterraneo. Basterà ricordare il famoso passo del monaco Donizone, biografo di Matilde di Canossa, che, all’inizio del XII secolo, vi segnalava, con accenti fortemente negativi, la frequentazione da parte di Turchi e Libici, Parti e Caldei, definiti «mostri marini». E la medesima realtà cosmopolita emerge – un cinquantennio piú tardi – dal diario di viaggio dell’abate islandese Nicola di Muntkathvera, il quale, in pellegrinaggio verso Roma, vi registrò (sono le sue parole) «mercanti provenienti dalla Grecia e dalla Sicilia, Egiziani, Siri e Africani». Notevoli furono gli apporti prodotti dall’ampiezza di orizzonti in cui i Pisani si muovevano, entrando in contatto con ambienti di primaria importanza sul piano

In alto il sarcofago romano (III sec. d.C.), riutilizzato come sepoltura di Buschetto, l’architetto del Duomo, murato nella facciata della cattedrale. Al di sotto, corre l’epigrafe che celebra le imprese dei Pisani.

Assonometria della piazza dei Miracoli. Da sinistra: il Camposanto, il Battistero di S. Giovanni, il Duomo e la Torre pendente.

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dell’elaborazione e della trasmissione della cultura. A Pisa, per cominciare, si custodiva il piú antico codice delle Pandette, la raccolta di sentenze giuridiche romane voluta nel V secolo dall’imperatore Giustiniano, che fu alla base della rinascita del diritto negli studi universitari del XII secolo. E a Pisa nacque, intorno al 1170, il piú grande matematico dell’Occidente medievale, Leonardo Fibonacci, educato a Bugea (nell’odierna Algeria) dove il padre era pubblico scriba alla dogana, noto per aver introdotto in Occidente il calcolo numerico con le cifre arabe o indiane. All’ambiente pisano, infine, si attribuisce l’elaborazione della prima carta marittima nota, conservata in un manoscritto londinese dell’ultimo quarto del XII secolo, che precede di un secolo il piú famoso Compasso da navigar. L’eco di quel lontano passato marinaro è ancora percepibile, per un osservatore attento, in special modo nelle testimonianze della sua multiculturalità, tra-

plari piú antichi, rinvenuti in scavi archeologici, sono databili al X secolo) e poi – una volta appresa la tecnica da maestranze esterne – realizzata anche a Pisa all’inizio del Duecento, e da qui, a sua volta, esportata nei numerosi mercati dove venivano distribuiti i prodotti pisani, provocando una vera e propria rivoluzione nelle abitudini quotidiane, dato che fino ad allora in ceramica si fabbricavano soltanto contenitori da magazzino e recipienti da cucina, privi di rivestimento.

dotta e risolta in splendide forme nei principali edifici sacri, nelle decorazioni architettoniche, nei preziosi oggetti prodotti da artigiani e artisti minori, oggi conservati nei musei o ancora inseriti nelle costruzioni a esibire il ricordo di terre lontane. È il caso, quest’ultimo, dei recipienti da mensa (catini e scodelle, cioè forme aperte) in ceramica rivestita e decorata che ancora fanno bella mostra di sé su chiese della città o delle immediate vicinanze, usati per ornarne le pareti. Sono i cosiddetti «bacini», che ancora oggi raccontano la storia di una produzione artigianale proveniente dal mondo islamico, dapprima importata (gli esem-

sacri: come la chiesa di S. Sisto, costruita con parte dell’ingente bottino di guerra all’indomani della fortunata spedizione di al-Mahdiya e Zawila, nel 1087, dedicata al santo nel cui giorno festivo i Pisani avevano riportato le vittorie piú luminose; e come S. Maria della Spina, magnifico oratorio trecentesco posto sull’Arno, al cui interno si custodiva una spina della corona di Cristo a sottolineare i legami della città con i luoghi piú sacri della religione cristiana. Ma lo spazio dove piú si addensano i ricordi delle imprese che avevano fatto grande la città e i segni dei molteplici rapporti con mondi lontani è la Piazza del

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Un giorno memorabile

I ricordi delle imprese che avevano fatto grande la città e i segni dei suoi molteplici rapporti con mondi lontani si materializzarono anche in alcuni edifici In basso la facciata del Duomo, intitolato a santa Maria Assunta, rifondato nel 1064 sul sito di due edifici sacri preesistenti. Nel riquadro, la sepoltura di Buschetto.

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storie pisa

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Duomo, efficacemente chiamata Piazza dei Miracoli per la meraviglia che destano i suoi monumenti. Qui spicca la cattedrale dedicata a santa Maria di mezz’agosto, l’Assunta, rifondata il 1064 nelle splendide forme conferitele da Buschetto (o Buscheto, l’architetto che a Pisa visse e operò nella seconda metà dell’XI secolo e agli inizi del XII, n.d.r.), insistendo sul sito ove sorgevano i due edifici sacri che l’avevano preceduta: l’uno attestato dalle fonti alla metà dell’VIII secolo – ma certamente piú antico –, l’altro scoperto in scavi recenti e databile tra il tardo X e l’inizio dell’XI secolo.

La celebrazione delle gesta marinare

La prima pietra fu posta nell’anno della già citata impresa vittoriosa di Palermo, il cui bottino fu senza dubbio in parte investito proprio nella costruzione di quel «tempio di marmo bianco come la neve» («niveo de marmore templum» lo definí l’autore dell’iscrizione per il suo architetto) che rappresentava l’intera comunità civile e religiosa e doveva rispecchiarne, agli occhi del mondo, fama e potenza. Ecco che, come abbiamo visto, in facciata furono apposte epigrafi che celebravano in versi (distici elegiaci ed esametri leonini) le principali imprese marinare, accompagnate dal ricordo del vescovo Guido da Pavia sotto il quale la costruzione era stata avviata e dalla grandiosa sepoltura di Buschetto, un sarcofago antico strigilato recante nella cartella l’elogio del suo genio e nel timpano sovrastante l’epitaffio (vedi foto a p. 28). Sulle pareti s’inserirono pezzi di reimpiego provenienti da monumenti di età

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In alto S. Maria della Spina, oratorio innalzato sulla sponda dell’Arno, nel quale si custodiva appunto una spina della corona di Cristo. XIV sec. A destra la chiesa di S. Sisto, dedicata al santo nel cui giorno festivo i Pisani avevano riportato le vittorie piú luminose. Nella pagina accanto, in basso un particolare della facciata di S. Sisto, decorata da bacini ceramici.

romana, per sottolineare la grandezza di Pisa come «altra Roma», e tutto il paramento venne ornato riccamente di elementi decorativi, tra cui spiccano le losanghe policrome di derivazione araba. Sul culmine del tetto venne infine collocato il Grifone, la cui provenienza dalla Spagna islamica rimanda al clima delle imprese evocato in facciata, e in particolare alla spedizione delle Baleari, che si concluse trionfalmente, fruttando ricchissimi trofei di guerra, ampiamente descritti da due fonti letterarie i cui autori avevano partecipato all’azione: il Liber Maiorichinus, poema in esametri dattilici opera di Enrico, canonico della cattedrale, e gli anonimi Gesta triumphalia per Pisanos facta, un breve testo in prosa. Non compare tra i manufatti ricordati niente che somigli al Grifone, ma cronologia e provenienza determinati dagli studi di Anna Contadini – la Spagna tra tardo XI e inizi del XII secolo – inducono ad assegnargli un ruolo di primo piano tra le prede baleariche, in particolare quelle deaprile

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stinate, secondo le parole dei Gesta, alla Chiesa pisana. L’ipotesi è confortata dalla cronologia dei lavori per la fabbrica del Duomo, che si trovava in fase di avanzata costruzione al rientro degli eroi di Maiorca e fu solennemente consacrato nel settembre 1118 da papa Gelasio II. Forse il Grifone ricevette sin da allora la sua collocazione, carico com’era di significato simbolico per l’allusione, nella doppia natura di felino e di uccello, alla duplice natura di Cristo umana e divina che ne giustificava l’ubicazione sopra la zona piú sacra dell’edificio, in corrispondenza verticale con il presbiterio e l’altar maggiore dove si compie il sacrificio eucaristico. Si creava inoltre un singolare pendant tra il racconto delle prime imprese contenuto nelle epigrafi di facciata e l’evocazione di quella appena conclusa, materializzata nella figura che, guardando a Levante, si stagliava all’estremità opposta della cattedrale a simboleggiare la vittoria della fede sui non cristiani. Gabriella Garzella

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storie pisa Un’altra immagine della replica del Grifone che troneggia sul tetto del Duomo di Pisa.

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IL PROGETTO «THE GRIFFIN AND THE LION»

LA SECONDA VITA DI UN AUTOMA

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l progetto «The Griffin and the Lion», avviato nel 1993, sviluppato negli anni come progetto interdisciplinare e confluito poi nel volume The Pisa Griffin and the Mari-Cha Lion (Pacini editore, Pisa 2018), ci ha permesso di fare nuove scoperte, tecniche e storico-artistiche, e ha fornito nuove e piú precise interpretazioni riguardo al Grifone e a molti altri oggetti, dalla datazione e funzione alla committenza e mecenatismo. Inoltre, la ricerca ci ha permesso di modificare il nostro approccio all’arte medievale e alla produzione metallurgica nel Mediterraneo occidentale, e di sottolinearne l’importanza nella Spagna musulmana, che aveva un vivace scambio non solo di oggetti, ma anche di idee artistiche con il resto del Mediterraneo. Quello delle relazioni intellettuali e artistiche tra il Medio Oriente e l’Europa, in particolare l’Italia, è un tema molto importante, e il Grifone di Pisa è un caso estremamente interessante di transculturazione, il processo di mutamento di significato a cui sono sottoposti gli oggetti, una volta trasferiti in un’area geografica e culturale diversa da quella originaria. Proveniente dall’ambito arabo-spagnolo, il Grifone acquistò a Pisa posizione, identità e funzione nuove. Fu posto sul culmine di un tempio cristiano, il Duomo di Pisa dalla parte dell’abside, come prezioso manufatto, essendo un grande bronzo, e come simbolo apotropaico, a protezione, appunto, della zona piú sacra dell’edificio. Un altro bronzo arabo-islamico che fu posto sull’apice di una chiesa, la basilica di S. Frediano, è il «Falco di Lucca», trasformato poi in gallo banderuola, e che fa parte anch’esso, come materiale comparativo, del progetto «Grifone e Leone» (vedi foto alle pp. 34-35). Questi bronzi, come i bacini ceramici che adornano varie chiese pisane, e come anche un grande bacile in ottone con un’iscrizione augurale in arabo, esposto nella stessa sala del Grifone nel Museo dell’Opera del Duomo, sono testimonianze sia di conquiste territoriali e bottini di guerra, sia di un ricco e fiorente scambio commerciale proseguito per tutto il Medioevo tra le città toscane e varie aree, dall’Egitto al Nord Africa e alla Spagna musulmana.

tutta la superficie e un’iscrizione benedicente e di augurio in arabo, in caratteri cosiddetti cufici su tre lati del corpo. L’iscrizione completa recita (da destra a sinistra e a cominciare dal fianco sinistro): «Benedizione perfetta e benessere completo / gioia perfetta e pace perpetua e salute / perfetta e promessa di felicità per il suo proprietario». Fin dall’inizio, mi sono posta il quesito della funzione di un bronzo cosí importante, e ho scoperto che il Grifone – cavo e con un’apertura sul ventre – nascondeva un segreto cruciale, che suggeriva, però, un’ipotesi di funzione: una coppa interna, anch’essa di bronzo, posizionata nella parte retrostante, saldata sul retro, e con una sola apertura a bocca svasata verso la fronte. Nel 1993, un «fratello», per cosí dire, del Grifone fu proposto in una vendita all’asta della Christie’s di Londra: si trattava di un Leone (detto Un particolare dell’originale del Grifone, oggi nel Museo dell’Opera del Duomo di Pisa.

Gioia, pace e felicità

Il Grifone, metà leone e metà uccello, è uno degli oggetti piú straordinari di provenienza islamica e il piú grande bronzo del genere che si conosca. Misura, infatti, 1 m e 7 cm di altezza, 90 cm di lunghezza e 46 di larghezza. Venne fuso in un singolo pezzo di bronzo (esluse le ali) con la tecnica della cera persa. Presenta una fine e sofisticata decorazione incisa su

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storie pisa Mari-Cha, dal nome della collezione a cui era appartenuto) avente dimensioni simili, e un’analoga decorazione su tutto il corpo, incluso, sul dorso, il motivo a cerchi concentrici terminante con simili iscrizioni in arabo lungo i tre lati. Le straordinarie somiglianze con il Grifone includono anche la coppa interna, dimostrando chiaramente che i due animali dovevano avere la medesima funzione (e sono forse gli unici sopravvissuti di un gruppo piú ampio).

Le conferme dal carbonio 14

Gli studi sul Leone hanno chiarito diversi aspetti relativi alla fattura, alla produzione e alla decorazione del Grifone. Inoltre, abbiamo finalmente trovato residui organici all’interno delle punte delle ali del Grifone, di cui l’analisi al carbonio 14 ha confermato la datazione tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo già proposta, offrendo come termini temporali indicativi gli anni 1085, 1100 e 1115. Nel 2008, il Grifone raggiunse il Leone in occasione dell’apertura del Museo di Arte Islamica di Doha, in Qatar, e si è potuto finalmente, per la prima volta, vederli insieme e studiarli ulteriormente, operando un confronto diretto. Il Leone è adesso parte della collezione permanente del Museo Louvre Abu Dhabi. Per quanto riguarda il Grifone, tanto la datazione quanto l’origine sono state da tempo messe in discussione e, nella letteratura, il Grifone ha «volato», per cosí dire, dall’VIII al XII secolo, da Paese a Paese: è

A destra Lucca, la chiesa di S. Frediano. Secondo la tradizione, l’antica basilica della città sarebbe stata fondata per iniziativa del vescovo Frediano (VI sec.) e oggi la si può ammirare nelle sue forme romaniche.

Il falco di Lucca, bronzo con decorazione incisa e iscrizione in arabo, dalla Spagna musulmana (al-Andalus). XI-XII sec. Lucca, S. Frediano.

Un falco bronzeo di fattura arabo-islamica svetta sulla cima della chiesa lucchese 34

stato variamente attribuito all’Iran, all’Egitto, alla Tunisia, all’Italia meridionale di influenza araba e alla Spagna musulmana. La sua provenienza dal mondo islamico è da associare all’epoca della fondazione della nuova cattedrale, nel 1064, quando Pisa era all’apice dell’espansione marittima e dalle vittorie contro i centri arabi delle coste del Mediterraneo occidentale riportava ricchissimi bottini: dal saccheggio nel 1087 di al-Mahdiya e Zawila, nell’attuale Tunisia, per esempio, o dalle Isole Baleari, in particolare Maiorca, dove l’assedio durò dal 1113 al 1115, in un’epoca in cui Maiorca era una città ricca e fiorente. E l’ipotesi che il Grifone provenga (forse insieme a un capitello marmoreo, anch’esso posto sul tetto del Duomo di Pisa, e alla lapide araba ora nella chiesa di S. Sisto) dalla Spagna musulmana aprile

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come parte del bottino delle Baleari fu avanzata già da Pietro Serri nel 1833, in collaborazione con Michelangelo Lanci, professore di arabo a Roma, il quale per primo riconobbe l’iscrizione in caratteri arabo-cufici e la pubblicò nel 1845. L’ipotesi delle Baleari o della Spagna musulmana fu di nuovo ripresa in epoca moderna e si è consolidata grazie alle nostre recenti ricerche.

Animali araldici

Il Grifone ha una forma araldica, piuttosto rigida, che lo accomuna, infatti, a oggetti di origine arabo-spagnola piuttosto che a oggetti prodotti in ambito fatimide (la dinastia che regnava all’epoca dal Cairo), dove le linee sono piú sciolte e l’approccio è piú naturalistico. Può infatti essere accostato ad altri animali in metallo di provenienza spagnola, quali il Leone Monzón, adesso conservato al Louvre, il pavone di Cagliari e il cervo del Bargello,

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anch’essi in posizione araldica e con la decorazione sul corpo organizzata a sezioni, inclusi i cerchi concentrici terminanti in bande di iscrizioni a mo’ di tessili. Il Grifone presenta su gran parte della superficie una decorazione astratta e figurativa molto sofisticata. La sua preparazione dovette avvenire al termine delle operazioni di fusione e dopo il raffreddamento del metallo, e consiste di vari elementi diversi: piume; un motivo a cerchi concentrici sul dorso e parte dei lati, che culminano con bande di iscrizioni tra bordure, a mo’ di mantello posto sul dorso dell’animale. Tessuti con bande di iscrizioni, o Tiraz in arabo, di questo tipo venivano del resto prodotti in al-Andalus durante il Medioevo. Il Grifone reca poi una straordinaria decorazione figurativa, anch’essa incisa, negli scudi tracciati nelle zone di transizione fra il corpo e le zampe, dove compaiono al(segue a p. 38)

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storie pisa Il Grifone e il Leone

A sinistra la coppa scoperta all’interno della pancia del Grifone di Pisa, la cui presenza corrobora l’ipotesi che la scultura fosse in grado di emettere suoni. In basso una veduta laterale del Grifone di Pisa. La scultura proviene dalla Spagna islamica ed è databile tra la fine dell’XI e gli inizi del XII sec.

Nelle zone di transizione fra il corpo e le zampe del Grifone compaiono «scudi», al cui interno sono raffigurati uccelli (a sinistra) e leoni. L’associazione può essere stata scelta per evocare la natura ibrida del Grifone, creatura che appunto è per metà uccello e per metà leone.

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Qui sopra le iscrizioni incise sul Grifone di Pisa. A destra, in alto disegno del Grifone di Pisa e della sua iscrizione pubblicato nel 1845 da Michelangelo Lanci, che per primo riconobbe che si trattava di caratteri arabo-cufici.

Il Leone Mari-Cha, scultura in bronzo comparsa nel 1993 in una vendita all’asta della Christie’s di Londra e che presenta straordinarie affinità con il Grifone di Pisa, tanto da aver suggerito che entrambe le opere possano essere state prodotte dal medesimo atelier. Abu Dhabi, Louvre Abu Dhabi.

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storie pisa A destra particolare della decorazione del Grifone, con un motivo a cerchi concentrici fra bande di iscrizioni tra bordure: una soluzione simile a quella adottata nella produzione dei tessuti.

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tri animali. Troviamo due leoni sulle parti anteriori e due uccelli sulle parti posteriori, probabilmente identificabili come aquile: le ali sono sottili rispetto al corpo, ma questa è una maniera abbastanza frequente di rappresentare le aquile nell’arte islamica. Tale combinazione può essere interpretata come un riferimento alla doppia natura del grifone, che è per metà leone e per metà uccello. Anche sul Leone gli scudi di transizione contengono animali, in questo caso due grifoni nelle parti anteriori e due uccelli in quelle posteriori. Si possono quindi rilevare una complementarietà nella distribuzione degli animali e riferimenti a incrocio: il Leone ha grifoni e il Grifone ha leoni. I leoni e grifoni incisi han-

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Sulle due pagine, da sinistra 1. veduta posteriore del Grifone di Pisa, che evidenza il foro lasciato dal distacco della coda, oggi perduta; 2. il pavone di Cagliari (Cagliari, Pinacoteca Nazionale); 3. il cervo del Bargello (Firenze, Museo Nazionale del Bargello); 4. il Leone Monzón (Parigi, Museo del Louvre); 5. veduta posteriore del Leone di Mari-Cha, che risulta anch’esso privo della coda.

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no una coda e, con ogni probabilità, sia il Grifone che il Leone ne avevano una, ora persa: l’area posteriore in entrambi è infatti danneggiata, suggerendo appunto la rottura di tale appendice. Un esame attento della superficie del Grifone ha rivelato una serie di elementi decorativi realizzati usando diversi tipi di punzone: per esempio, uno, a scalpello, che produce impronte triangolari, e uno che genera impronte a «C». A questo riguardo, di grande importanza è stata soprattutto la scoperta di un punzone davvero particolare, a cinque punti rotondi, utilizzato molto frequentemente per aggiungere alle decorazioni effetti di contrasto o rilievo.

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storie pisa Studiato in dettaglio da Mirco Bassi, questo strumento doveva essere rettangolare, molto piccolo (3 mm di lunghezza e 1 mm di larghezza), ed è stato utilizzato su punti strategici per la composizione della decorazione, producendo una fitta e compatta serie di impronte, una dopo l’altra. Nonostante il degrado inflitto dal tempo, l’uso di questo punzone risulta evidente in molte zone della scultura ed è riconoscibile non soltanto sul Grifone, ma anche, in misura minore, sul Leone, indice di una pratica di laboratorio comune. Secondo le ricerche che abbiamo condotto, l’utilizzo di questo strumento non è attestato su manufatti metallici di provenienza iraniana o siriana ed egiziana. Analizzando materiali selezionati nelle collezioni

di Madrid, Cordoba e Granada è stato invece possibile scoprire che l’uso di questo punzone a cinque punti è presente in altri oggetti trovati o nella Spagna musulmana dell’XI e primo XII secolo o attibuiti a questo contesto. Compare, in particolare, su due lampade, una rinvenuta negli scavi di Montefrío vicino a Granada, e l’altra proveniente da Jimena de la Frontera, entrambe conservate al Museo dell’Alhambra, e su una brocca conservata al Museo Arqueólogico Nacional di Madrid. In questi tre oggetti non solo lo strumento ha le stesse dimensioni, ma è anche usato con gli stessi fini decorativi del Grifone, cioè come sfondo o come bordura per esaltare altri elementi decorativi o l’iscrizione. Tra l’altro, anche i caratteri epigrafici sono identici A sinistra elementi calligrafici dell’iscrizione presente sul Grifone di Pisa che risultano affini a quelli osservabili su una lampada rinvenuta negli scavi di Montefrío, nei pressi di Granada (foto in basso), databile anch’essa fra l’XI e il XII sec. e oggi conservata nel Museo dell’Alhambra.

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a quelli del Grifone, come si vede confrontando nella lampada di Montefrío e nel Grifone la parola baraka, o benedizione. L’insieme di queste ricorrenze conferma la produzione spagnola del Grifone e la datazione tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo.

Verso la scoperta della funzione

Fra le ipotesi formulate sulla funzione del Grifone, vi è quella secondo la quale si tratterebbe di un pezzo da fontana. Tuttavia, la forma del becco, coprendo la bocca, esclude che ne uscisse un getto d’acqua preciso e diretto, e inoltre è importante osservare l’assenza di qualsiasi segno di un sistema idraulico interno. Un’altra interpretazione voleva che il Grifone fosse un incensiere, ma

Impronte lasciate da un punzone a cinque punti rotondi osservabili sul Grifone di Pisa (in alto) e sulla lampada da Montefrío (in basso).

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si tratta di un’ipotesi ancora piú improbabile viste le grandi dimensioni della scultura, che, come detto, venne fusa in un unico pezzo ed è priva sia di fori per fare uscire il vapore, sia di parti smontabili. Inoltre, le analisi condotte all’interno della coppa non hanno rilevato segni di combustione e hanno escluso che potesse aver contenuto sostanze di qualsiasi genere. Ma quale poteva essere, dunque, la funzione della scultura? La scoperta della coppa nascosta nella pancia del Grifone è stata cruciale, e l’idea – che già avevo proposto nel 1993 in occasione della mostra «Eredità dell’Islam, e che ha preso sempre piú piede con l’avanzare delle indagini – è che il Grifone fosse un animale acustico, cioè che emettesse suoni. La coppa interna sarebbe dunque parte di un meccanismo destinato a pompare l’aria attraverso una canna, oggi perduta, alla stessa maniera in cui si facevano funzionare gli organi pneumatici del Medioevo, come si può vedere, per esempio, in un affresco del XII secolo nella chiesa romana dei Ss. Quattro Coronati, in cui un personaggio aziona i soffietti che spingono aria nelle canne dell’organo (vedi foto a p. 42). Questa ipotesi è stata peraltro confermata da un costruttore di organi, Maurice Merrell, che ha ricostruito nel suo laboratorio quanto avevo suggerito, e ha precisato che il suono emesso dal Grifone poteva cambiare a seconda della lunghezza e larghezza della canna: piú acuto se la canna è corta e sottile, e piú grave se la canna è lunga e piú larga. Il Grifone apparteneva dunque al mondo degli automata, vale a dire quei meccanismi costruiti per suscitare meraviglia e soggezione. Possediamo del resto ampi riferimenti ad automata pneumatici, sia nel mondo bizantino che in quello islamico medievale, e abbiamo descrizioni del trono dell’impe-


storie pisa

In alto particolare di un affresco nel quale si vede un organo pneumatico. XII sec. Roma, chiesa dei Ss. Quattro Coronati. In basso Granada, il giardino dell’Alhambra. Automi come il Grifone di Pisa erano presenze frequenti in simili spazi.

insieme a un leone; e l’altra che fosse sistemato in un giardino, probabilmente insieme ad altre statue zoomorfe. La prima ipotesi, come già detto, è sostenuta da precedenti bizantini e del primo periodo islamico, come riportato anche dalle fonti arabo-spagnole che parlano delle meravigliose corti di Toledo, Siviglia e Maiorca. La seconda ipotesi è avvalorata da fonti iconografiche e scritte. I resoconti degli storici spagnoli medievali, come Ibn Hayyan o al-Maqqari tra gli altri, ci parlano di giardini splendidi e complessi, attentamente studiati per suscitare stupore e deliziare i sensi con una varietà straordinaria di piante, fiori ed erbe, il cui profumo era tale da inebriare i visitatori. Ad arricchire l’esperienza sensoriale partecipava il vento, che frusciava tra gli alberi; e l’acqua, che scorreva nei molteplici canali tipici dei giardini andalusi, non solo rinfrescava l’ambiente, ma, come sottolineano le fonti, aveva anch’essa un ruolo sensoriale, poiché produceva un lieve e continuo mormorio. I giardini erano anche popolati da animali veri, come varie specie di uccelli e pavoni, che volavano o passeggiavano emettendo i loro versi. E bronzi zoomorfi erano posti in diversi punti e ad altezze differenti, su piedistalli, e si parla anche di bacini di marmo elaboratamente intagliati sui cui bordi si appoggiavano statue bronzee di vari animali che sputavano acqua. Ma si parla anche di automata acustici: c’erano pezzi, per esempio tartarughe, che gracchiavano incessantemente, per i quali

ratore bizantino che, come riporta Liutprando da Cremona, era affiancato da leoni di bronzo che emettevano ruggiti e battevano la coda per terra. Descrizioni un po’ piú tarde di questi troni parlano anche di grifoni, che comunque hanno un’antica e stretta associazione ai leoni nelle arti e architettura del Mediterraneo e appaiono insieme un po’ ovunque: i leoni come simboli di autorità e i grifoni come simboli apotropaici, di protezione.

Nella sala del trono o nel giardino?

Ma dov’era collocato il Grifone in origine? Sulla base delle fonti che raccontano della vita di palazzo e descrivono l’ambiente in cui si svolgevano i cerimoniali, ci sono due ipotesi plausibili: una che il Grifone si trovasse all’interno di un palazzo, ad affiancare un trono, magari

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Disegno ricostruttivo del possibile funzionamento del Grifone come automa in grado di emettere suoni. aprile

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La ricostruzione d’una canna d’organo fatta funzionare con un meccanismo analogo a quello di cui si ipotizza fosse dotato il Grifone di Pisa.

al-Maqqari usa il vocabolo arabo onomatopeico, naqnaq. Gli automata come il Grifone, dunque, non solo risplendevano al sole nel colore originale del bronzo che tende al dorato, ma alcuni emettevano suoni. Tutto questo faceva parte della coreografia minuziosamente studiata del giardino di palazzo, in cui l’esperienza estetica si abbinava a quella sensoriale, e in cui automata come il Grifone ispiravano meraviglia e stupore.

Un prodigioso guardiano

Quando il Grifone venne collocato sul tetto del Duomo di Pisa non perse la proprietà sonora, che si mantenne, ma in una maniera nuova. A questo proposito, ricercando le fonti, mi sono imbattuta in al-Hamadani, uno storico del X secolo, seguito poi da Yaqut nel XIII, che descrivono il palazzo di Ghumdan in San’a, nello Yemen. Il palazzo non esiste piú, ma la descrizione degli storici arabi riporta il fatto che ai quattro angoli del suo tetto erano poste grandi statue di leoni in bronzo, e che quando soffiava il vento questo passava per il posteriore dei leoni e, uscendo dalla bocca, si trasformava in un ruggito selvaggio. Questa descrizione mi ha molto colpito, soprattutto pensando alla lega di bronzo del Grifone, con una concentrazione abbastanza alta di piombo e zinco, comune nell’area mediterranea durante il Medioevo, simile a quella delle campane, giacché, se lo si picchia leggermente, il corpo riverbera. Quando il vento soffiava, at-

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traverso l’apertura sulla pancia, il Grifone, posto sulla sommità del Duomo, emetteva quindi suoni misteriosi e potenti, amplificati dalla risonanza del bronzo e del vaso interno, che potevano essere uditi ad ampio raggio. Il Grifone islamico, corredato da un’iscrizione in arabo, venne quindi fatto proprio dalla cultura cristiana. Avendo la forma di leone, animale di terra, e di uccello che guarda ai cieli, fu anche interpretato come simbolo della doppia natura di Cristo, terrestre e celeste, mentre le sue proprietà sonore si aggiungevano alla sua funzione di misterioso guardiano, protettore del tempio piú importante di Pisa. Anna Contadini

Per saperne di piú Il Medioevo, in Marco Tangheroni (a cura di), Pisa e il Mediterraneo. Uomini, merci, idee dagli Etruschi ai Medici, catalogo della mostra (Pisa, 13 settembre-9 dicembre 2003), Skira, Ginevra-Milano 2003; pp. 112-269 Anna Contadini (a cura di), The Pisa Griffin and the MariCha Lion. Metalwork, Art and Technology in the Medieval Islamicate Mediterranean, Pacini editore, Pisa 2018 Sul canale YouTube dell’Opera della Primaziale Pisana è disponibile il video della conferenza in cui Anna Contadini ha presentato le nuove scoperte sul Grifone di Pisa: https://www.youtube.com/watch?v=QjvTcXt1zpk

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costume e società

Capitane d’industria Per tutta l’età di Mezzo, la presenza femminile nel mondo del lavoro non si limitò alla sola manodopera. Molti, infatti, furono i settori in cui le donne si posero alla guida di imprese grandi e piccole, primo fra tutti quello della produzione tessile, spesso appannaggio esclusivo di un sesso gentile sí, ma abile e determinato 46

di Maria Paola Zanoboni

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i è sempre detto che le donne, nel Medioevo, lavoravano in casa, tessendo e filando; potevano al massimo aiutare il marito nella sua attività, e proseguirla se vedove, ma erano retribuite in misura inferiore rispetto agli uomini e incapaci di sopravvivere col proprio lavoro. In realtà, il quadro era completamente diverso: donne impiegate in tutti i possibili settori, compresa l’edilizia, le miniere e le saline; imprenditrici che si autofinanziavano con propri capitali ottenuti dalla vendita di abiti e gioielli; retribuzioni commisurate «alle reali capacità» e quindi non dipendenti dal genere; donne che col proprio lavoro riuscivano a mantenere se stesse e familiari in difficoltà, o a saldare i debiti dei mariti; nobildonne impegnate nelle attività piú varie: dall’organizzazione di laboratori per il ricamo, alla gestione di miniere, alla direzione di opere di bonifica, all’impianto di caseifici, alla gestione di alberghi. C’erano poi mercantesse, armatrici di navi per la pesca del corallo, imprenditrici nell’editoria, che firmavano col proprio nome le pubblicazioni, e prestatrici di denaro, orientate in particolare al credito verso le aziende femminili.

In totale autonomia

Capillarmente diffuso, il lavoro femminile risultava addirittura preponderante in vari settori, come quello tessile, non limitandosi alle attività domestiche, ma caratterizzato da un notevole livello imprenditoriale. Persino per la filatura della lana, tradizionalmente considerata come un’occupazione di basso profilo svolta a domicilio, esistevano talvolta professioniste, Un gruppo di donne intente a lavori di tessitura, particolare dell’allegoria del mese di Marzo nel Trionfo di Minerva, affrescato da Francesco del Cossa. 1470 circa. Ferrara, Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi.

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La lavorazione dei bozzoli dei bachi da seta e filatura in una incisione del pittore fiammingo Giovanni Stradano (Jan van der Straet). XVI sec. Si può osservare come l’operazione venga svolta da manodopera esclusivamente femminile.

proprietarie della materia prima, che agivano in maniera del tutto autonoma: a Barcellona, alla fine del Trecento, alcune di loro diedero vita a piccole aziende, in cui assumevano apprendiste, e giunsero a commercializzare direttamente il prodotto, vendendolo al mercato settimanale sulla piazza cittadina.

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Ancora a Barcellona, negli anni Quaranta del Quattrocento, una proprietaria terriera di ceto sociale elevato, Sancha Ximenis, gestiva direttamente un piccolo opificio per la filatura del lino e della canapa, (coltivata sui suoi terreni), lavorando personalmente, insieme ad altre 4 o 5 collaboratrici, e coordinando al tempo stesso tutto il processo produttivo, dalla filatura, alla tintura, alla tessitura. Consegnava il prodotto che usciva dal suo atelier a un’altra artigiana autonoma, che eseguiva la candeggiatura, retribuendola in base alle libbre di filo trattate.

Assegnava quindi la tessitura, a domicilio, ad altre professioniste, specializzate nella realizzazione dei veli o nella tessitura del lino. Esistevano in particolare tre settori esclusivamente femminili, caratterizzati da notevoli e autonome capacità organizzative: le fasi preliminari alla filatura serica (trattura, binatura e incannatura); la filatura dell’oro; la confezione di veli e cuffie/acconciature di seta e di cotone, cioè di articoli destinati alle donne e che richiedevano un gusto prettamente femminile nell’ideazione, per cui, in tutta Euaprile

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A destra Ritratto di Bianca Maria Visconti, tempera su tela di Bonifacio Bembo. 1460 circa. Milano, Pinacoteca di Brera. Si può notare la cura con la quale l’artista ha reso il dettaglio del prezioso velo nel quale è raccolta la capigliatura della duchessa.

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costume e società ropa, veniva di fatto lasciata loro la gestione dell’intero ciclo produttivo e organizzativo (dalla realizzazione dei modelli, alla tessitura e alla commercializzazione), compreso l’investimento di capitale necessario ad avviare l’attività. A partire dal Trecento e almeno fino al Cinquecento inoltrato, la produzione dei veli, tanto di seta che di cotone o lino – destinati per lo piú alla realizzazione di copricapi e acconciature femminili –, rappresentava quasi ovunque (da Barcellona a Oporto, da Maiorca a Milano, da Venezia alle Valli Aretine), un settore interamente gestito da donne, sia per l’apporto di capitale, sia per l’ideazione e la realizzazione dei capi, sia per quel che concerne la loro vendita. Per oltre due secoli un’identica struttura produttiva, costituita da una ben organizzata imprenditoria femminile, dominò questo settore a tutti i livelli e nelle piú disparate aree geografiche: donne imprenditrici, dotate di propri capitali, com-

missionavano ad altre donne che lavoravano a domicilio (spesso, a loro volta, con delle allieve), la tessitura e l’increspatura dei manufatti.

Sete per i canonici

Sin dalla fine del XIII secolo nella cittadina catalana di La Seu D’Urgell esistevano imprenditrici che coordinavano l’intero processo produttivo ed erano in contatto diretto con i mercanti. Una di loro, specializzata in tessuti serici leggeri e di lino, distribuiva il lavoro, gli utensili e le materie prime alle tessitrici professioniste e alle servitrici domestiche che svolgevano l’attività saltuariamente, e faceva da tramite con il mercante acquirente dei prodotti. Tra i clienti finali dei tessuti (parte dei quali veniva anche esportata), figuravano i canonici della cattedrale e molti religiosi. Nella Barcellona trecentesca le donne impegnate nella realizzazione dei veli di lino, attività di cui detenevano il monopolio, diedero vita a botteghe interamente femminili

La Vergine, con il capo coperto da un velo, mentre riceve dall’arcangelo Gabriele l’annuncio dell’incarnazione di Cristo nel suo grembo, particolare di una scena del ciclo delle Storie della Vera Croce, realizzato da Piero della Francesca tra il 1452 e il 1466. Arezzo, basilica di S. Francesco, Cappella Maggiore.

in cui assumevano apprendiste e lavoranti, o a piccole manifatture in parte accentrate e in parte disseminate, ed erano perfettamente integrate nella corporazione dei tessitori di cotone e in quella dei tessitori di lino. Soprattutto in quest’ultima godevano di particolari diritti: potevano dirigere una bottega, assumere maestri e maestre (da retribuire col medesimo salario), ed erano punite con le medesime ammende. L’unica eccezione consisteva nel non dover sostenere un esame per diventare maestre, sebbene lo fossero di fatto. Analoga, sempre nella città catalana, era l’organizzazione produttiva dei veli in seta. A Venezia, tra Quattro e CinIn basso una scena di filatura della seta inserita a corredo di una pagina dei Precetti dell’Arte della Seta. XV sec. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana.


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costume e società Questo ruolo di imprenditrice autonoma rivestí negli anni Novanta del Quattrocento la moglie del ricamatore Antonio da Sesto, attivo presso la corte sforzesca. Quest’ultimo, nel suo testamento dichiarò che la consorte Orsina aveva venduto i suoi gioielli, ricavandone una piccola somma, con cui aveva impiantato la sua attività di produzione e commercio dei veli. Orsina agiva dunque come imprenditrice nella piú completa autonomia, sia per quanto concerne il capitale, sia per quel che riguarda la gestione dell’attività, che si intuisce fatta al tempo stesso di commercio e di produzione, probabilmente coordinando altre velettaie che lavoravano a domicilio.

Imprenditrici di sangue blu

quecento, la struttura organizzativa per la tessitura di zendadi (drappi di seta leggerissimi, che, appuntati sul capo, incorniciavano il volto e scendevano poi sulle spalle avvolgendosi intorno alla vita, n.d.r.) e veli era appannaggio esclusivo delle tessitrici, talvolta dipendenti dal setaiolo per il quale lavoravano a cottimo come unità produttive esterne, ricevendone la materia prima; talvolta autonome e proprietarie della seta (in modo piú o meno lecito), con cui realizzavano veli e altri tessuti leggeri, che vendevano poi nei mercati locali. Né mancavano vere e proprie piccole imprenditrici dotate di modesti capitali, che commissionavano stoffe a parecchie altre donne, spesso affittando loro anche il telaio (e

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magari sottopagandole), per poi partecipare al commercio su scala piú ampia. Alcune godevano di un tale apprezzamento nel contesto veneziano, da poter apporre il proprio marchio di bottega sui tessuti. Dal canto loro, le tessitrici autonome erano dotate di cognizioni tecniche tali da riuscire talvolta persino a effettuare in proprio anche la tintura, e da essere in grado di sperimentare nuovi filati. Naturalmente, anche questo settore non era esente da liti e tensioni interne. Di un’organizzazione analoga doveva essersi dotata Milano, dove spesso le singole imprenditrici gestivano interamente il processo produttivo, con propri capitali, ottenuti magari dalla vendita di modesti gioielli o di abiti di un certo valore.

Recenti studi su Venezia, Verona e Vicenza documentano notevoli casi di imprenditoria e di mobilità sociale femminile nel settore tessile o in comparti a esso collegati. Ne emerge chiaramente, tra l’altro, il massiccio coinvolgimento delle nobildonne. Persino in un’attività come quella del ricamo e dei merletti, tradizionalmente associata – nei ceti piú alti – a un passatempo per «fuggire l’ozio», le patrizie veneziane d’inizio Cinquecento avevano saputo introdurre le proprie iniziative imprenditoriali. Infatti, intuendo che i nuovi prodotti, confezionati con filo di lino e di semplice manutenzione, avrebbero riscosso un notevole successo, ricamavano e realizzavano merletti sia per impreziosire i propri abiti, sia per il mercato, dando vita a laboratori che esse stesse coordinavano, insegnando alle ragazze di ceto medio-basso le nuove tecniche che la crescente circolazione dei libri di modelli di ricami e merletti stava diffondendo. Dalle ricerche piú recenti emergono inoltre il ruolo e il livello organizzativo particolarmente evoluti nel settore dell’oro filato delle aprile

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donne veneziane che, fra Trecento e Quattrocento, controllavano, come «mercantesse pubbliche» (cioè dotate di personalità giuridica per poter vendere, comprare, intraprendere azioni giudiziarie) ufficialmente riconosciute dal governo della Serenissima e dotate di propri capitali, tutto il ciclo di lavorazione, dall’acquisto della foglia (e talvolta dalla sua realizzazione) alla vendita. Soprattutto da quando, nel 1420, il Senato veneziano aveva emanato una serie di provvedimenti a favore dell’arte e del lavoro femminile che ne costituiva il fulcro, liberalizzando il commercio dell’oro filato, molte donne di ogni ceto sociale avevano investito nel settore, dando vita ad aziende di varie dimensioni da esse gestite e coordinate, autonomamente oppure in società con altre donne, o con mercanti o battiloro. All’attività prendevano parte anche numerose esponenti del patriziato veneziano che conducevano gli affari in prima persona, come socie di capitale e d’opera contemporaneamente, talvolta accanto a banchieri/finanziatori di cui erano

A destra filo d’oro destinato alla produzione di broccati. Età rinascimentale. Firenze, Museo Archeologico Nazionale. Nella pagina accanto incisione ottocentesca (da un originale cinquecentesco) raffigurante un battiloro intento a battere con il suo martello la materia prima per ricavarne lamine o foglie sottilissime.

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parenti. Di una di esse, la mercantessa Pasqua Zantani, è stato possibile ricostruire la carriera per circa trent’anni, nei primi decenni del XV secolo. Si occupava dell’intero ciclo produttivo: aveva una bottega per la produzione della foglia d’oro in cui lavoravano alcuni uomini alle sue dipendenze; era in contatto con un banchiere veneziano e uno di Norimberga, da cui si riforniva dei materiali preziosi; distribuiva la foglia alle filatrici e vendeva il filo d’oro. Aveva poi rapporti commerciali con numerose altre donne che svolgevano la stessa attività.

L’oro di Lucia

Accanto alle nobildonne, nella città lagunare non mancavano esponenti del ceto medio-basso che, sebbene prive di risorse, riuscivano a emergere, come quella Lucia «ab auro» che, nel 1395, si era fatta un nome esercitando l’arte dell’oro filato, di cui controllava l’intero ciclo produttivo, fino alla vendita. Sebbene, dopo molti anni di attività, continuasse a dipendere da numerosi finanziatori, gestiva comunque una

piccola azienda, con l’aiuto di una schiava e della figlia, divenute in seguito sue socie nell’esercizio. L’attività era ancora fiorente nei primi anni del Quattrocento sotto la guida della figlia di Lucia. Anche a Vicenza e a Verona, durante tutto il Cinquecento, donne di varia estrazione sociale – tra cui molte nobili – partecipavano attivamente a società (spesso a loro intestate e che ne portavano il nome) per la produzione e il commercio su scala internazionale di tessuti di lana o seta, che esportavano nei principali centri dell’economia europea (Lione, Anversa, Francoforte, Londra). Queste imprenditrici non si limitavano a fornire i capitali, ma controllavano personalmente la contabilità e sovrintendevano alle scelte organizzative e gestionali, intervenendo nella contrattazione per l’acquisto delle materie prime e la vendita del prodotto finito. Ancora a Vicenza un processo per furto dibattuto nel 1527 fornisce ampie notizie su un’imprenditrice attivamente impegnata nella produzione e nella commercializza-


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Miniatura raffigurante il pasto di un gruppo di pellegrini, da un’edizione della Città di Dio di sant’Agostino. XV sec. Mâcon, Bibliothèque Municipale.

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zione di veli in seta, lino e cotone, e di fazzoletti in seta; la sua operosità nel settore – dichiaravano concordemente tutti i presenti – le consentiva di ottenere grandi guadagni. Tra gli altri settori in cui le donne attive a Venezia si distinguevano come imprenditrici, va poi ricordata l’arte della stampa: oltre alle molte che vi lavoravano a vario titolo, nei primi anni del Cinquecento almeno due giunsero a firmare le pubblicazioni come editrici. In un caso si trattava della vedova di un editore milanese, nell’altro di una nobildonna greca emigrata a Venezia da Costantinopoli, che non aveva ereditato l’attività, ma che l’aveva intrapresa in prima persona, intendendo sovvenzionare e diffondere nella città lagunare la cultura della madrepatria.

Pendente con un ramo di corallo, particolare della Madonna della Vittoria, tempera su tavola di Andrea Mantegna. 1496. Parigi, Museo del Louvre.

Fornaci per i laterizi

Oltre che nel tessile, l’imprenditoria femminile si esplicava ovunque a ogni livello sociale e negli ambiti piú vari: dalla gestione degli alberghi, all’edilizia, alle miniere, alla lavorazione dei metalli, a quella del corallo, all’organizzazione produttiva e commerciale nel comparto della frutticoltura. Nell’edilizia e nelle miniere, oltre che come manovalanza, è documentata anche a livello imprenditoriale: a Milano, nei primi anni del Cinquecento, alcune fornaci che rifornivano di laterizi i cantieri delle principali costruzioni civili e religiose cittadine erano di proprietà e gestite da donne; ugualmente a Gaeta, tra il 1449 e il 1453, un’imprenditrice riforniva di materiale da costruzione, con le proprie imbarcazioni, il cantiere reale del castello. Negli anni Novanta del Quattrocento la nobildonna romana Cristofora Margani, vedova del mercante pisano Alfonso Gaetani, e unica erede di 1/3 delle importanti miniere di allume di Tolfa (Civitavecchia)

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controllava in prima persona il lavoro di produzione e si occupava sia della non semplice risoluzione delle questioni con i minatori, sia degli altrettanto complessi rapporti con il mondo mercantile, gestendo per parecchi anni un universo composito e articolato, in cui confluivano forze economico-sociali diverse (manovalanza, artigianato, mercatura), fino alla consegna dell’allume alla Camera Apostolica. Né mancava l’imprenditoria femminile nell’ambito della frutticoltura (sempre all’interno del contesto urbano): a Milano, nel 1479, una donna gestiva, con altri tre produttori specializzati, una società di cui era la principale rappresentante, trattando gli affari in prima persona e come delegata degli altri componenti del sodalizio, tutti commercianti di frutta di provata esperien-

za. Non si trattava dunque di una semplice venditrice al minuto, ma di una vera e propria imprenditrice, che si occupava dell’intero ciclo produttivo di un’attività svolta completamente in ambito cittadino, dove abbondavano giardini, orti e spazi verdi, costantemente messi a reddito con l’impianto di svariate qualità di frutta. Pienamente calata nella frenetica attività di un settore che, per la deperibilità del prodotto, richiedeva la gestione contemporanea e in tempi brevi di una miriade di operazioni diverse (stipulazione dei contratti di affitto delle sole piante, cessione ad altri commercianti specializzati delle qualità di frutta che non interessavano, distribuzione del prodotto sui banchi delle principali piazze cittadine gestiti tramite salariati), la donna fu in grado di prendere in locazione tutte le piante del principale frutteto cittadino, per un canone astronomico, rivendendo poi a un altro fruttivendolo parte del raccolto, e garantendogli anche un banco per la vendita al dettaglio.

Una prassi consolidata

Per le donne di molti centri urbani della Penisola la prassi abituale per mettersi in affari con piccoli business consisteva nell’autofinanziarsi con la propria dote o ricorrendo alla vendita di abiti e gioielli, come accennato per i veli a Milano. A tale espediente ricorrevano donne di diversa estrazione sociale, come quella esponente dell’aristocrazia milanese, che sul finire del XV secolo, vendette alcuni dei suoi abiti per investire la somma, non ingente (£. 400), in una società per il commercio del formaggio. Anche a Roma, nel XV secolo, vigeva ampiamente la consuetudine di vendere o cedere in affitto gioielli, perle, coralli, e abiti di valo-

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re per procurarsi i capitali necessari ad avviare un’attività, o di utilizzare la dote per finanziare operazioni di microcredito, in particolare a favore di aziende femminili. La cosa era tanto diffusa che esistevano apposite figure professionali, le «imperlatrici», dotate delle competenze tecniche necessarie a valutare i preziosi che altre donne cedevano in pegno per ottenere somme da investire in attività manifatturiere. Nella Città Eterna l’interesse femminile era rivolto soprattutto verso il business dell’ospitalità ai pellegrini, che alimentava un giro d’affari notevolissimo: erano perciò numerose le imprenditrici di ogni

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livello ed estrazione sociale, che gestivano direttamente uno o piú alberghi, oppure acquistavano grandi edifici da dare in gestione a tale scopo. Persino la madre di Cesare e di Lucrezia Borgia, Vannozza Cattanei, nei primissimi anni del Cinquecento era proprietaria di due strutture ricettive, che aveva fatto ristrutturare vendendo i propri gioielli e che le garantivano una rendita cospicua.

Un ottimo affare

La gestione degli alberghi romani era cosí redditizia – soprattutto in prossimità degli anni santi – (si aggirava intorno all’8-10% annuo), da attirare anche investitrici forestiere, come

quella Beatrice da Marsiglia che, nel 1472, prese in affitto un immobile in una zona centralissima della città, nel rione Monti (di fronte alla residenza del cardinale Rodrigo Borgia, il futuro papa Alessandro VI), da adibire a struttura ricettiva. Non disdegnò di impiegare i propri preziosi per finanziare svariate attività imprenditoriali neppure Lucrezia Borgia, duchessa di Ferrara (figlia di papa Alessandro VI e di Vannozza Cattanei), che, nel 1516, vendette una catena d’oro per sovvenzionare il rifacimento degli argini di un fiume, e poco dopo impiegò una perla e un rubino per avviare un allevamento di bufale, della cui aprile

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Da leggere Maria Paola Zanoboni, Donne al lavoro nell’Italia e nell’Europa medievali (secoli XIII-XV), Jouvence, Milano 2016 [e la bibliografia ivi citata] Ivana Ait, Un’imprenditrice nella Roma del Rinascimento, in Marco Palma e Cinzia Vismara (a cura di), Per Gabriella. Studi in ricordo di Gabriella Braga, Edizioni Università di Cassino, Catanzaro 2013; pp. 9-26 Gemma Teresa Colesanti, I libri di contabilità di Caterina Llull i Sabastida (XV sec.), in Genesis, IX/1, 2010; pp. 135-160 Anna Bellavitis e Linda Guzzetti (a cura di), Donne, lavoro, economia a Venezia e in Terraferma tra medioevo ed età moderna, Archivio Veneto, serie VI, fasc. 3, 2012 Diane Ghirardo, Lucrezia Borgia, imprenditrice nella Ferrara rinascimentale, in Letizia Arcangeli e Susanna Peyronel (a cura di), Donne di potere nel Rinascimento, Viella, Roma 2008; pp. 129-143 Filatura e tessitura della lana, olio su tavola di Isaac Claesz. van Swanenburg. 1594-1596. Leida, Museum De Lakenhal.

mozzarella era golosa. Tra il 1513 e il 1519 (anno in cui morí), spinta dalle difficoltà economiche in cui si trovava il marito Alfonso d’Este, la duchessa aveva infatti iniziato un’instancabile opera di bonifica dei terreni del Ferrarese, utilizzando sia i proventi dell’eredità di uno dei figli, sia quelli derivanti dalla vendita dei propri gioielli. Seguendo una strategia del tutto originale, ben diversa da quella degli altri regnanti, Lucrezia non impiegava capitali nell’acquisto dei terreni da bonificare, ma pattuiva con i proprietari e le comunità la realizzazione dei lavori, in cambio di una parte dei terreni bonificati, sui

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quali impiantava successivamente molteplici attività (coltivazione del grano, e soprattutto allevamento di ovini e bovini, con la produzione di tutti i possibili generi che ne derivavano: lana, pellami, formaggio). I proventi venivano portati a Ferrara e pesati nel palazzo della duchessa (vera e propria struttura commerciale dotata anche di un forno per la cottura dei mattoni e di un filatoio), per poi essere redistribuiti nelle botteghe cittadine. Lucrezia finanziava i lavori di bonifica, ma sapeva servirsi anche delle prestazioni obbligatorie e gratuite delle comunità residenti, con argomenti del tutto convincenti. In questo modo riuscí a ottenere in pochi anni ingenti guadagni e ad assicurarsi un notevole patrimonio fondiario.

Le piazze del corallo

A Marsiglia, nel Trecento, la lavorazione di una materia prima preziosa come il corallo sardo era prevalentemente in mano alle donne, sia come manodopera, sia come imprenditrici, talvolta in collaborazione con i mariti, ma piú spesso completamente autonome: con propri capitali arrivavano ad acquistare imbarcazioni e ad assumere pescatori specializzati, che man-

davano nel mare della Sardegna a procurarsi la materia prima dalla quale le loro dipendenti o le piccole apprendiste marsigliesi avrebbero poi realizzato le perle di corallo. In Sicilia negli anni Settanta del Quattrocento, operava la mercantessa catalana Caterina Llull, trasferitasi nell’isola al seguito del consorte e poi rimasta vedova, attiva a livello internazionale e al centro di una vastissima rete commerciale di prodotti di ogni tipo, tanto che della sua azienda sono rimasti numerosi libri contabili recentemente pubblicati. Dal carteggio della mercantessa emerge la sua straordinaria conoscenza del mondo degli affari, sia per quel che concerne le strategie di comunicazione e di approccio con gli interlocutori, nonché la capacità di instaurare contatti privilegiati con importanti funzionari del regno di Sicilia e personaggi di corte; sia per quel che riguarda la pratica mercantile, con tutto il patrimonio di cognizioni necessarie al suo buon andamento: dalla conoscenza delle vie di comunicazione, a quella delle pratiche giuridiche, della situazione politica e della congiuntura economica internazionale, alla contabilità, e a tutti gli artifici indispensabili a concludere le transazioni con profitto. Caterina non si era improvvisata donna d’affari, ma aveva alle spalle una solida formazione acquisita sia accanto al marito, sia accanto al padre o all’interno della famiglia. A Treviso nel 1460, la vedova di un imprenditore laniero non solo ne prese in mano l’attività, ma riuscí a farla prosperare escogitando nuovi e redditizi sistemi per la tintura dei panni, e accrescendo notevolmente sia la liquidità dell’azienda, sia il patrimonio immobiliare della famiglia, fino a raggiungere, nell’opinione comune, la qualifica di «drapiera». Sempre nella città veneta, negli stessi anni, altre vedove commerciavano materiale da costruzione o gestivano vetrerie.

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Nella fossa dei leoni Nella splendida abbazia di S. Antimo, nel Senese, uno scultore originario della Linguadoca e attivo nei decenni centrali del XII secolo, lascia una pregevole testimonianza della sua arte: reinterpretando con somma maestria un celebre episodio biblico, diffuso sin dagli albori dell’arte cristiana...

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l tema di questa nuova puntata ci porta nel contado senese, nel territorio di Castelnuovo dell’Abate, dove sorge la splendida chiesa monastica di S. Antimo. Nel 1117, come ricorda la lunga iscrizione ai piedi dell’altare maggiore, l’abbazia ricevette una cospicua donazione, e si posero cosí le premesse del monumentale assetto che possiamo oggi ammirare, intrapreso negli anni 1125-30. Lo slancio verticale della struttura è particolare, cosí come la conformazione del coro. L’abside centrale è infatti «foderata» da un corridoio (deambulatorio) da cui si irraggiano cappelle. Si tratta di aspetti che rinviano alla grande edilizia del romanico francese, come si vedeva nella terza edizione della chiesa abbaziale di Cluny (1088-1130) e come si vede tuttora nei santuari sulla via di Compostela. In particolare, una regione della Francia centrale, l’Alvernia, vanta una folta schiera di chiese romaniche che riflettono nel coro la tipologia dell’abbaziale toscana di S. Antimo. La sua veste architettonica è esaltata dall’impiego di una pietra calcarea che offre un ampio ventaglio di effetti di luce e di colore, sfiorando persino le trasparenze dell’alabastro. La decorazione interessa soprattutto i capitelli delle colonne ed è segnata da uno stile rigoroso ed essenziale. Gli apporti figurativi, di tono pressoché «araldico», si concentrano nel coro, in perfetta armonia con l’impostazione generale dell’insieme, senza prevaricare lo schema «classico» del capitello, anche se, nella navata centrale, un episodio spezza

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Il capitello della chiesa di S. Antimo con la raffigurazione del profeta Daniele nella fossa dei leoni, opera del Maestro di Cabestany. 1160 circa.

di Furio Cappelli


«[Il re Dario decreta]: in tutto l’impero a me soggetto si onori e si tema il Dio di Daniele, perché egli è il Dio vivente, che dura in eterno (…). Egli salva e libera, fa prodigi e miracoli in cielo e in terra: egli ha liberato Daniele dalle fauci dei leoni» (Daniele 6, 27-28)


oltre lo sguardo/3 questa morbida continuità in modo plateale: un maestro venuto da lontano, noto alla critica come Maestro di Cabestany (vedi box alle pp. 62-63), ha dedicato un vibrante capitello – realizzato intorno al 1160 – all’episodio biblico che vede come protagonista il profeta Daniele imprigionato nella fossa dei leoni. La forza plastica delle figure e la complessità dell’insieme segnano uno stacco sorprendente rispetto a tutto il corpus scultoreo della chiesa. Si tratta sicuramente della migliore interpretazione che ci è pervenuta di questo tema di grande fortuna, già espresso in età paleocristiana nella pittura delle catacombe. Per giunta, lo scultore mette in atto una trasposizione davvero certosina del racconto, sia nei dettagli narrativi che nelle implicazioni simboliche.

Alla corte del re

La narrazione è contenuta nel libro intitolato allo stesso profeta, che, frutto di diverse redazioni, ci è probabilmente pervenuto nella veste assunta nel II secolo a.C. Daniele non è una figura storicamente attendibile, ma la sua vicenda si pone con forte precisione in un determinato contesto storico e geografico. Egli avrebbe infatti ricoperto un ruolo di spicco nella corte regia (un po’ come il «principe» Mosè in Egitto, prima della fuga a Madian) quando il suo popolo, oriundo della Giudea, si trovava esule a Babilonia, nel VI secolo a.C. L’episodio che ci interessa viene offerto, curiosamente, in una doppia versione, con corrispondenze quasi palmari dei vari dettagli. La narrazione piú articolata Sulle due pagine una veduta a volo d’uccello dell’abbazia di S. Antimo, presso Castelnuovo dell’Abate (Siena). La costruzione della chiesa oggi visibile (nella foto in basso, l’interno) venne avviata intorno al 1125-1130.

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oltre lo sguardo/3 dalla linguadoca alla toscana

Il richiamo del marmo Il capitello di S. Antimo con la storia di Daniele si ricollega alla vasta fioritura della scultura romanica che si sviluppò ai lati dei Pirenei, tra Francia e Spagna, lungo i decenni iniziali del XII secolo. La carica inventiva in senso plastico e grafico nel corpo del capitello, e la densa tessitura dell’abaco di coronamento, possono per esempio ricordare i capitelli del chiostro di Saint-Pierre a Moissac (Occitania, 1100 circa). L’evidenza statuaria del profeta ricorda poi la forza visionaria del timpano istoriato della stessa chiesa abbaziale di Moissac (1115-1135 circa). L’artefice del capitello toscano appartiene dunque a questa cultura e gli sono state attribuite altre opere, a partire da una complessa e pregevole lunetta proveniente dalla chiesa di Cabestany (PyrénéesOrientales), da cui deriva il suo nome convenzionale elaborato dalla critica, Maestro di Cabestany appunto. Il merito del riconoscimento di questa personalità si deve allo storico

dell’arte Marcel Durliat (1954), mentre l’attribuzione del capitello di S. Antimo spetta a Edouard Junyent (1962), grande conoscitore della Catalogna romanica. Il catalogo dell’artista non è riconosciuto in modo unanime dagli specialisti, e c’è anche chi vede piú di uno scultore all’opera nei diversi lavori attribuiti al Maestro. Si è tuttavia pressoché concordi nel riconoscere che l’artefice attivo a S. Antimo arrivò in Toscana non prima del 1160, dopo aver lavorato in Catalogna, all’abbazia di Sant Pere de Rodes, per un perduto portale di cui rimane un magnifico rilievo con l’Apparizione di Cristo sul Lago di Tiberiade, oggi conservato al Museu Frederic Marès di Barcellona (nella foto alla pagina accanto). La presenza di questo scultore della Linguadoca in Toscana può essere spiegata con la riattivazione delle pregiate cave di marmo della regione che ebbe luogo proprio nel XII secolo. Artefici di spicco, specie se sguarniti di marmo antico

e coinvolgente si incontra nell’ultimo capitolo (Daniele 14), ed è quella a cui si conforma lo scultore attivo a S. Antimo. Daniele si trova tra i commensali del re Ciro il Grande (558-530 a.C.), «onorato sopra tutti gli amici di lui». I Babilonesi rendono onore all’idolo pagano Bel, con ricche offerte in farina, pecore e vino. Ciro stesso lo adora e chiede al profeta perché non vuole tributare anch’egli il culto che si deve a quella potente divinità. Daniele risponde che è solito rivolgere le sue preghiere al Dio vivo, creatore del cielo e della terra e che non ha senso per lui rivolgersi a un idolo «morto», fatto da mani umane. Ma Bel è ben vivo, ribatte Ciro, vista la gran quantità di cibo e di vino che spazza via, ogni volta che riceve le offerte. Daniele, sorridendo, gli ricorda che si tratta di un oggetto di fango rivestito di bronzo, e di conseguenza non mangia alcunché. Ciro monta in collera e fa chiamare i 70 sacerdoti di Bel. Li ucciderà tutti, dice, se risulterà che il dio Bel non sia l’unico commensale alla tavola imbandita nel suo tempio. Se invece sarà evidente che Bel mangia davvero le sue offerte, sarà Daniele a mo-

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Nella pagina accanto lastra raffigurante il Cristo risorto che appare ai suoi discepoli, opera realizzata anch’essa dal Maestro di Cabestany per il portale occidentale del monastero di Sant Pere de Rodes (Girona). 1160-1163 circa. Barcellona, Museu Frederic Marès.

da reimpiegare, iniziarono a giungere d’oltralpe per munirsi del prezioso materiale. Spesso dovettero procedere quantomeno a una prima lavorazione in loco, prima di effettuare il trasporto, e in qualche caso poterono essere coinvolti in qualche cantiere già aperto, come dovette verificarsi, per esempio, anche a Pisa. Nel 1156 sono presenti in Toscana i canonici di Saint-Ruf di Avignone (Provenza) «per le pietre e le colonnine che devono essere tagliate e scolpite». Nel 1180 si realizza poi il porto fortificato di Avenza (Marina di Carrara), proprio per favorire l’esportazione del marmo, lungo la via commerciale che collega le coste tirreniche al corso del Rodano.

rire, reo di bestemmia. Il profeta accetta le condizioni. Tutti si recano al tempio e i sacerdoti invitano il re a lasciare le sue offerte dopo che loro saranno andati via. Basterà poi sigillare l’ingresso con l’anello regale per escludere ogni violazione. A quel punto, se il cibo sarà sparito senza effrazione accertata, Daniele morirà, altrimenti saranno loro a morire. Sotto la mensa, però, i «burloni» possono contare su un accesso che permette di rubare tutto senza lasciare alcun segno. Tuttavia, prima di uscire, Daniele pensa bene di spargere della cenere per terra, al cospetto di Ciro.

Il profeta smaschera la frode

Nottetempo, i sacerdoti e i loro familiari saccheggiano le offerte con il solito sistema. All’alba il re va con Daniele al tempio ed entrambi notano che i sigilli sono intatti. La mensa è vuota, e Ciro rende grazie a Bel a voce alta, dichiarando che non c’è frode nella sua casa. Daniele sorride e trattiene il re dall’entrare, facendogli notare le orme di numerosi adulti e bambini sul pavimento. Ciro si rende conto del raggiro e si infuria: condanna a morte aprile

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oltre lo sguardo/3 il collegio sacerdotale e affida il tempio di Bel a Daniele, che non esita a distruggerlo. I Babilonesi adorano però anche un dragone, e il re invita il profeta a rispettare almeno questo culto, perché il mostro è senz’altro vivo. Sí, è vivo, ribatte Daniele, ma non è il Dio vivo. Per dimostrarlo, gli basta uccidere la belva, dandole in pasto bocconi avvelenati, ossia palle fatte di pece, grasso e pelame. A quel punto, dopo l’ennesimo affronto, i pagani si ribellano. Arrivano a minacciare il re e i suoi familiari, se non viene consegnato Daniele nelle loro mani e il re, a malincuore, è costretto a cedere. Daniele viene cosí catturato e gettato nella fossa dei leoni e lí rimane per sei giorni. Ci sono sette felini a fargli da compagnia – ciascuno dei quali solitamente nutrito con due cadaveri e due pecore al giorno – che vengono messi a digiuno, affinché divorino il profeta. Frattanto, in una località di campagna, un altro profeta originario della Giudea, Habakuk (storicamente attestato negli anni 605-595 a.C.), è intento a preparare le vivande per alcuni mietitori che sono all’opera in un campo. Un angelo, però, gli ordina di portare il cibo a Daniele. Habakuk esita sul momento, perché non conosce Babilonia e non sa dove si debba recare di preciso, al

che l’angelo lo afferra per i capelli e lo trasporta in volo, depositandolo proprio sull’orlo della fossa. Habakuk chiama Daniele a gran voce, offrendogli il cibo, e Daniele rende grazie al Signore per essersi ricordato di lui. Si alza e mangia. Dopodiché l’angelo riporta Habakuk a casa. Nel settimo giorno Ciro viene a piangere il profeta, certo della sua morte, ma quando getta lo sguardo nella fossa lo vede seduto in mezzo ai leoni, incolume. Il re grida la grandezza del dio di Daniele, e lo tira fuori da lí. Tutti quelli che hanno ordito la cattura e il supplizio del profeta finiscono a loro volta nella stessa fossa e vengono immediatamente divorati dai leoni, di fronte agli occhi del sovrano.

La gelosia dei funzionari di corte

Come si è accennato, il profeta era già stato vittima della stessa esperienza ai tempi del re Dario (Daniele 6), presunto predecessore di Ciro sul trono di Babilonia (si tratta di un personaggio attestato dalla sola Bibbia, da non confondersi con il piú tardo sovrano achemenide Dario I di Persia). In quella circostanza Daniele era stato preso di mira da vari personaggi di corte che non sopportavano l’importanza assunta da questo Giudeo, che rivestiva incarichi di prestigio in maniera inappuntabile. Convincono il re a emanare un decreto che impedisca di rivolgere suppliche ad altri (uomo o dio) anziché al re stesso. Daniele viene facilmente «incastrato» per via delle preghiere che rivolge al Signore e finisce cosí nella fossa, che viene sigillata con una pietra. Ma un angelo, come Daniele asserisce, chiude la bocca ai leoni, e il nostro eroe esce cosí incolume dall’esperienza. I suoi persecutori finiscono sbranati dai leoni su ordine del sovrano, e Dario stesso emana un decreto in cui si annuncia a tutti

La condanna ad bestias

Un supplizio terribile L’episodio di Daniele ha conosciuto una fortuna immediata nell’arte cristiana, proprio perché, durante le persecuzioni, un gran numero di adepti del nuovo credo furono costretti a conoscere gli artigli e le zanne del leone. La pena ad bestias consisteva appunto nel mandare in mezzo a un’arena un gruppo di condannati, lasciandoli in balia di leoni o tori. Gli edifici per spettacoli si erano ripetutamente prestati a fare da scenario a queste stragi, come Tacito ricorda a proposito di Nerone, il cui odio verso i cristiani si univa in modo plateale al gusto dell’esibizione circense. D’altronde, il martirio significava per il credente una liberazione dai lacci della realtà carnale, attraverso la quale accedere alla felicità eterna del paradiso, cosicché

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A destra la rappresentazione di Daniele fra i leoni scolpita su un capitello della chiesa di S. Pedro de la Nave, presso El Campillo (Zamora, Spagna). VII sec. Nella pagina accanto un’altra versione dell’episodio, questa volta in un mosaico policromo da Borj el Youdi (Furnus minus), in Tunisia. V sec. Tunisi, Museo Nazionale del Bardo.

Daniele svela lo stratagemma degli addetti al tempio di Bel grazie a un po’ di cenere la vittoria di Daniele poteva essere interpretata in senso simbolico come la vittoria del fedele oppresso, la cui anima esce comunque incolume, anche se il corpo viene dilaniato dalle bestie feroci. Poteva darsi che il leone riconoscesse la purezza del santo, e si guardasse bene dall’aggredirlo, come si legge nel «romanzo» agiografico del santo cavaliere Eustachio, nel cui caso il leone chiamato a sterminare lui e la sua famiglia compie addirittura un atto di reverenza. La figura del leo clemens ricorre spesso, del resto, nella stessa letteratura classica. Questa possibilità era tuttavia paventata da chi desiderava ardentemente una simile morte: il vescovo siriaco Ignazio di Antiochia, giunto a Roma in cerca di martirio intorno al 110, si definisce nelle sue lettere «frumento di Dio» e si augura perciò di essere macinato dai denti delle belve, in modo che il suo misero corpo si trasformi in «pane di Cristo». Non sia mai, quindi, che i leoni temporeggino o siano mansueti con lui!

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gli abitanti della terra la potenza del Signore, e si intima che venga onorato e temuto. Il capitello di S. Antimo esprime meravigliosamente la struttura e il senso del racconto biblico. Come in tante rievocazioni dell’episodio, Daniele è in posizione centrale, esattamente come si vede nelle evocazioni di altri eroi biblici (Sansone, Davide). Si trova sulla faccia anteriore del capitello (verso la navata centrale) e i leoni si dispongono ai suoi lati. Contando tutte le belve che appaiono sulle facce, ne risultano sette, proprio come indicato nel racconto. Di solito pittori e scultori ne rappresentano solo due, in perfetta adesione a un modello iconografico di lungo corso. Già nella glittica (incisione delle pietre preziose) dell’Oriente antico, quando si voleva evocare lo scontro vittorioso di Gilgamesh con i leoni, l’eroe veniva raffigurato al centro con due felini sconfitti ai lati, sollevati per la coda dalle sue mani possenti. Nel gruppo dei leoni del capitello, spiccano in modo analogo due belve ammansite, che si dispongono simmetricamente ai lati dell’eroe biblico, in basso, intente a leccarne i piedi. Il vittorioso Daniele non ha fatto alcun ricorso alla forza fisica o a qualsivoglia arma o stratagemma. Per uscire incolume dalla fossa, ha dovuto fare affidamento solo e soltanto sulla fede. Le sue mani sollevate, con i palmi aperti, stanno appunto a indicare l’atto della preghiera. Il momento in cui il Signore gli dimostra di averlo ascoltato è raffigurato dall’arrivo

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In alto Daniele fra i leoni in un capitello del chiostro del Duomo di Monreale. 1172-1189.

dell’angelo in volo, che con una mano afferra il mantello del profeta e con l’altra tiene per i capelli Habakuk, che protende il fagotto delle vivande (il cibo spirituale che salva Daniele).

Saggezza e autorevolezza

Il profeta è reso con una efficacia statuaria sorprendente: l’espressione altera del volto dà il senso di quella forza superiore che lo pervade e che lo riveste di una corazza invisibile e impenetrabile. La capigliatura e la barba fluenti, come è tipico nelle rappresentazioni dei sapienti antichi, esprimono saggezza e autorevolezza. Le vesti drappeggiate hanno anche un senso prettamente narrativo, perché sottolineano il ruolo di dignitario di corte che il profeta rivestiva. Questo aspetto è enfatizzato dal mantello di suggestione classica che si protende dalla spalla destra, legato alla tunica da una fibula di chiara foggia antica, la cui spilla è coperta da un elemento conico (tutulus) a cerchi concentrici. Nel lato posteriore del capitello si svolge l’epilogo (vedi foto alle pp. 68/69). Due leoni sono intenti a sbranare i persecutori di Daniele, e cosí i due lati principali dell’opera offrono le due facce del re degli animali, mansueto da una parte, feroce dall’altra. Lo scultore ha per giunta una brillante idea compositiva per legare aprile

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Miniatura raffigurante Daniele fra i leoni, da un’edizione manoscritta del Commentario all’Apocalisse del Beato di Liébana. 1047. Madrid, Biblioteca Nacional de España.

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questi aspetti: quattro leoni (due per lato) si protendono sui fianchi del capitello, congiungendo le facce principali; si dispongono uno sopra l’altro da ciascuna parte, in perfetta simmetria, e sono trattati in modo lievemente diverso. I leoni che stanno sotto, ai piedi di Daniele, hanno un vello fitto, lavorato al trapano, con i cirri che descrivono delle volute; i leoni che li sovrastano hanno un vello piú lineare, aderente al corpo, con lunghi cirri puntinati che sembrano squame.

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La deformazione in senso «rettiliano» (suggerendo un collegamento con draghi, lucertole o serpenti) interessa anche la testa, piú stretta e oblunga rispetto agli altri felini che si vedono sul lato frontale. D’altronde, la postura dei leoni «mostruosi», a sovrastare i leoni mansueti, se non indica una minaccia nei loro riguardi, suggerisce comunque maggior forza e aggressività. L’ambiguità del leone è ribadita nella fittissima trama dell’abaco, la fascia che corona tutta la comaprile

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Ancora due immagini del capitello scolpito per la chiesa di S. Antimo dal Maestro di Cabestany. 1160 circa. Qui accanto, la scena dei leoni che sbranano i persecutori di Daniele.

(il dragone e il leone stesso), componendo una visione terrifica della realtà terrena. Il fatto, poi, che questa fascia figurata sia sottesa alla struttura della chiesa e incomba sulla testa del profeta, fa sí che una tale foresta di simboli sia compressa e imprigionata sotto l’effetto congiunto di due forze. In basso, il possente Daniele, in atto di preghiera, sembra sostenere tutto ciò che lo sovrasta, come un classico telamone, che agisce però con la sola forza della fede. In alto, la struttura viva della chiesa è immagine stessa di Cristo, che schiaccia sotto i suoi piedi l’aspide, la vipera, il leoncello e il drago, come recita il Salmo 90, 13.

Da leggere

posizione. Un lungo viticcio fiorito, che forma sui lati una serie di volute, è punteggiato da maschere demoniache sugli angoli, e lascia spazio sul fronte del capitello a una schiera di animali: a destra, un leone ruggente, che sembra pronto a balzare sulla preda, sfiora con le zampe anteriori la testa del profeta; a sinistra, si osservano due esseri ibridi, con testa di leone, ali e zampe d’aquila e corpo di serpente. In questo modo vengono accomunati i «mostri» sconfitti da Daniele

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Ebe Antetomaso, Maestro di Cabestany, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1997, disponibile anche on line su treccani.it Guido Tigler, Toscana romanica, Jaca Book (collana Patrimonio artistico italiano), Milano 2006; pp. 193-203 Marco Burrini, Il Maestro di Cabestany a Sant’Antimo, in Adriano Peroni, Grazia Tucci (a cura di), Nuove ricerche su Sant’Antimo, Alinea, Firenze 2008; pp. 29-42 Walter Angelelli, Francesco Gandolfo, Francesca Pomarici, L’Abbazia di Sant’Antimo e la scultura del XII secolo nella Toscana meridionale, Paparo, Pozzuoli 2009, disponibile anche on line su art.torvergata.it

NEL PROSSIMO NUMERO ● «Hic sunt leones»

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di Renaud Villard

Fra il Trecento e il Seicento, l’Italia intera è dilaniata da congiure e complotti di varia natura. Progetti eversivi mirati contro principi e duchi, nel nome di una lotta alla tirannia dietro la quale è tuttavia difficile scorgere aneliti egualitari. Ma che, in compenso, anche nelle piú efferate manifestazioni di violenza, sembrano seguire sempre il medesimo copione

Il tempo delle trame e dei sospetti L’impiccagione di Bernardo Bandini Baroncelli, l’uccisore di Giuliano de’ Medici durante la Congiura dei Pazzi, disegno di Leonardo da Vinci, che assistette all’esecuzione. 1479. Bayonne, Musée Bonnat.


Dossier

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el corso del XV secolo, le congiure si impongono come attori della storia politica degli Stati regionali italiani. Eccezion fatta per Venezia, nessun sovrano, nessuna repubblica sono risparmiati; alcune città sono addirittura invase da congiure, reali o inventate. Durante il periodo che va dal 1385 al 1600 vengono scoperti almeno 140 complotti, destinati a eliminare un principe o un detentore del potere, la metà dei quali porta a uccisioni e le cui vittime sono per lo piú gli stessi congiurati. Il solo Cosimo I, nei ventotto anni trascorsi alla guida del ducato di Toscana (1537-65), scopre otto congiure contro di lui, quattro delle quali si rivelano però manifestamente frutto di fantasia e vengono rapidamente abbandonate. Questa ondata criminale, particolarmente marcata negli anni 1465-1550, non manca di impressionare il potere, tanto piú che le notizie di questi complotti circolano. I duchi di Ferrara, per esem-

pio, a giudicare dalle informazioni che giungono loro e dalle reazioni che suscitano, sono ossessionati dall’idea della congiura, in particolare nel corso degli anni Venti del Cinquecento, durante i quali il duca Alfonso d’Este intrattiene relazioni tese con i papi Leone X, prima, e Clemente VII, poi.

Il papa per mandante

Nel gennaio e quindi nel giugno 1520 girano cosí voci di complotto, riportate da una cronaca di Modena. Nel 1521, e poi nel 1525, il papa avrebbe cercato di corrompere uno dei servitori del duca perché lo assassinasse; nel 1522, il cardinale Medici (prima della sua elevazione al soglio pontificio con il nome di Clemente VII) avrebbe ugualmente tentato di far uccidere il duca; l’anno 1528, infine, avrebbe visto un tentativo di complotto, questa volta di carattere piú militare, contro Ferrara. Si contano perciò non meno di sei cospirazioni che avrebbero minacciato la vita di Alfonso d’Este.

Le fonti

Autocensure ricorrenti Le congiure sono assai spesso tenute segrete non solo dalle autorità politiche, ma anche dai cronisti dell’epoca. Un complotto organizzato a Bologna contro Giovanni Bentivoglio (nel 1490) non lascia traccia alcuna nelle cronache cittadine: avvertito dal duca di Ferrara di questo progetto di assassinio, il signore di Bologna prende le misure necessarie e prega il duca di non lasciar filtrare alcuna informazione, per poter procedere a una repressione efficace. Di fatto, al di fuori di questo scambio di lettere, il complotto non lascia traccia di sé: la manovra di occultamento è perfettamente riuscita. Sovente i cronisti stessi esitano a raccontare le congiure perché si tratterebbe di ammettere che il sovrano è contestato, e rischiare di perpetuare i conflitti. Il fiorentino Agostino Lapini, dopo aver cominciato il racconto della congiura condotta da Orazio Pucci contro il granduca di Toscana Cosimo I nel 1575, cancella accuratamente questo inizio di narrazione; seguendo la medesima logica, non aveva raccontato la congiura di Pandolfo Pucci nel 1559. Alla fine del XVI secolo, lo storico di Ravenna Girolamo Rossi si assume la responsabilità di non riportare i numerosi episodi di violenza avvenuti negli anni 1517-23.

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A destra Assassinio di Lorenzino de’ Medici, olio su tela di Giuseppe Bezzuoli. 1840. Pistoia, Museo Civico. Il fatto si consumò a Venezia, il 26 febbraio 1548, in campo San Polo, dove agirono i sicari inviati dal duca Cosimo. In basso busto di Cosimo I de’ Medici, opera di Baccio Bandinelli. 1544. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.


La notizia di queste presunte congiure corrisponde a un momento in cui al duca giungono inviti alla prudenza di varia provenienza e dai toni allarmisti; per esempio, nel 1521, dopo la scoperta di un complotto, il cardinale Farnese lo consiglia di guardarsi da certe persone

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e loda le precauzioni prese contro la lama e il veleno. All’indomani delle congiure svelate, i principi moltiplicano le misure protettive. Lorenzo il Magnifico, a Firenze, a seguito della scoperta di due complotti ai suoi danni (nel 1478 e nel 1481), af-

ferma – in una lettera a Tommaso Ridolfi – di voler essere assai prudente, confermando l’inquietudine suscitata in lui dai congiurati. Giovanni Bentivoglio, il signore di Bologna, dopo la congiura dei Malvezzi nel 1488 (complotto che sorprese tutti e che per poco non

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Dossier A destra Ritratto del duca Alfonso I d’Este, olio su tela di Battista Dossi (al secolo, Battista di Niccolò Luteri). 1534-1536 circa. Modena, Galleria Estense. La vita del signore estense sarebbe stata minacciata da sei presunte congiure, mentre da piú parti gli veniva consigliato di tenere una condotta piú prudente. In basso busto di Lorenzo de’ Medici scolpito da Ottavio Giovannozzi. 1825. Firenze, Galleria degli Uffizi.

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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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ebbe successo), teme per la propria vita. Ha vissuto momenti di angoscia, chiuso per otto giorni nel Palazzo comunale, e va scivolando in un tunnel di sospetti che tende a minare le fondamenta della sua autorità. Del pari, papa Pio IV, dopo la congiura guidata da Benedetto Accolti nel 1564 per assassinarlo (cospirazione, anche questa, che fallí di poco), moltiplica le misure di sicurezza intorno alla sua persona, evita ogni possibile contatto con gli sconosciuti, dà udienza ai cardinali o agli ambasciatori solo se non accompagnati dal loro seguito.

Vivere nell’inquietudine

Molti principi italiani si circondano di guardie del corpo, come Ludovico Sforza, signore di Milano alla fine del XV secolo: costui si dota di una guardia di 200 uomini, 25 dei quali devono proteggerlo in permanenza e scortarlo, poiché, per sua stessa ammissione, la propria protezione è una delle sue principali preoccupazioni. In un’epoca politicamente e soprattutto militarmente perturbata per il duca, ovunque corre voce del moltiplicarsi di simili precauzioni. Ancora Ludovico Sforza, dopo aver creato una nuova imposta, si sente minacciato; dà udienza su di un palco chiuso, circondato da 300 soldati, come riporta nel 1496 una cronaca di Ferrara: «Et come puocho usciva de la Corte sua, et dava audientia stando suso uno tribunale asetato in lo palatio cum le sbare, che persona viva [non] li potea in quelle intrare et bisognava cridare forte chi li volea parlare; et sempre l’havea trecento fanti intorno a le sbare armati». Tanta inquietudine nei confronti dei complotti consente di comprendere le reazioni fulminee, talora eccessive, dei sovrani innanzi alle denunce. Nel 1561, il signore di Piombino (allora un piccolo Stato sotto il

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i sicari

50 scudi per un assassinio La facilità di reclutamento di spadaccini, mezzo-soldati, mezzo-assassini, il piú delle volte colpiti da bando, è attestata dalle fonti; riferendo una congiura bolognese del 1445, il cronista Giovanni Cavalcanti ne approfitta per denunciare «molti masanadieri di popolo, huomini disposti a malfare – i quali dicevano che gli era molto maggiore male stare in ozio che lo essercitarsi ne’ micidii e negli avolteri e altre disonestadi». Nel 1520, l’ambasciatore veneziano Gian Giacomo Caroldo, di ritorno da una Lombardia segnata dalle lotte di fazione, parla anch’egli di questi spadaccini, pronti a uccidere per 50 scudi. Nell’agosto 1580, a Parma, il capitano Sigismondo Picinardo e tre persone al suo comando sono arrestati e vengono loro requisiti alcuni archibugi. Fin dal primo interrogatorio, uno degli spadaccini riconosce la natura delle loro attività: ne emerge il ritratto di un capobanda, alla guida di un gruppo di esiliati non benestanti che, prezzolati, prestano i loro servigi a diversi signori. I principi del Rinascimento non esitano a ricorrere a questi sicari, a cominciare dai granduchi di Toscana, che fanno assassinare Lorenzino de’ Medici (l’uccisore del duca Alessandro) a Venezia nel 1584, cercano di avvelenare Piero Strozzi e fanno uccidere gli esiliati fiorentini a Parigi. Il ricorso ai sicari è dunque una realtà per lo piú principesca, nel quadro di una giustizia sommaria; gli spadaccini possono, tuttavia, servire anche come forza ausiliaria per le congiure.

L’elsa di una spada da cavallo. XVI sec. Firenze, Museo Stibbert.

Ludovico Sforza, ossessionato dal timore d’essere ucciso, si circondò d’una guardia di ben 200 uomini 75


Dossier Veleni e psicosi

Una «tradizione» inventata Il veleno è considerato una minaccia reale, stando alle sperimentazioni dei granduchi di Toscana sugli antidoti oppure alle ricerche sui veleni di Caterina Sforza (che domina su Imola e Forlí alla fine del XV secolo e i cui primi due mariti muoiono assassinati nel corso di congiure). Tuttavia, non si deve esagerarne l’importanza: i testi non descrivono principi circondati da assaggiatori (anche se i tesori pontifici, per esempio, conservano oggetti capaci, teoricamente, di individuare il veleno), e i veleni «noti» nell’Italia del Rinascimento sono talora creazioni di fantasia. Tanto che, nel 1506, a Ferrara, quando i due fratelli del duca Ercole d’Este decidono di assassinarlo, hanno difficoltà a reperire il veleno: provano inizialmente con una sostanza trovata in città, che però, testata su un cane, si rivela inefficace. I due cospiratori inviano, allora, un servitore a cercare un veleno dalle parti di Siena: costui ritorna con un prodotto altrettanto inefficace, come emerge dagli interrogatori a cui è sottoposto. I congiurati tentano, perciò, di fabbricare un veleno, ma falliscono nuovamente; il loro servitore si reca, quindi, da un medico di Bologna, che gli fornisce una nuova sostanza, e la vana ricerca del veleno prosegue ancora. Esiste una paura diffusa del veleno, l’idea di un suo uso facile e reiterato che, benché contraddetta da numerosi esempi, è dura a morire, in particolare in alcune dinastie ossessionate dai complotti (come quella dei Medici) o fra la gente comune. Un esempio tratto dagli archivi della Repubblica di Lucca permette di misurare l’ampiezza di questo mito del veleno: nell’ottobre 1549, Domenico Narducci è interrogato dalle autorità lucchesi, in ragione dei legami che mantiene con suo fratello esiliato a Firenze e possibile spia di Cosimo I. In prigione, costui si è fatto portare il proprio cibo, fatto che intriga gli inquirenti e pare loro sospetto. In realtà, l’accusato è terrorizzato da questo tribunale speciale e teme manifestamente di essere avvelenato nell’ambito di una procedura sommaria: tanto è stretto il legame stabilito dalla diceria tra politica e veleno. protettorato spagnolo) abbandonò precipitosamente la città, in barca, per timore di essere assassinato: il presunto complotto, che aveva scatenato i suoi timori, era in realtà uno scontro tra la guarnigione spagnola e alcuni dei suoi servitori, che era degenerato in tumulto. Allo stesso modo, l’oligarchia che governa la repubblica di Lucca esamina accuratamente tutte le denunce, peraltro numerose: questi procedimenti giudiziari rivelano quanto Lucca tema costantemente di essere invasa da Firenze o di cadere sotto il dominio di un tiranno. Gli Stati italiani piú piccoli (come la repubblica di

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Disegno a penna di Ercole de’ Roberti raffigurante Ercole I d’Este, al centro, affiancato dal fratello minore Sigismondo (a sinistra) e dal figlio maggiore Alfonso (a destra); in secondo piano, Ferrante (?), secondo figlio del duca. 1492. San Pietroburgo, Museo Statale Hermitage.

Lucca o i ducati di Ferrara e di Parma), minacciati da potenti vicini, sono le principali vittime di questa psicosi del complotto, rafforzata dalle voci che corrono sui veleni (vedi box in questa pagina). A complicare ulteriormente il quadro, interviene la moltitudine di false congiure inventate dal potere politico. È quanto emerge dal processo intentato a Mantova contro Francesco Secco, un tempo primo ministro del marchese, poi caduto in disgrazia. Nel 1491, il ministro viene accusato di aver ordito un falso complotto, aprile

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Ritratto di donna, olio su tavola di Piero di Cosimo. 1503. Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina. Il dipinto viene tradizionalmente identificato con un ritratto di Caterina Sforza Riario, signora di Imola e Forlí alla fine del XV sec., nota per condurre ricerche sui veleni. Nella pagina accanto, in basso Ritratto di Ercole I d’Este, olio su tela di Dosso Dossi (al secolo, Giovanni di Niccolò Luteri), copia del dipinto originale di Ercole de’ Roberti. 1524-1528 circa. Modena, Galleria Estense.

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Dossier che si pretendeva fomentato dagli zii del giovane marchese di Mantova, al fine di monopolizzare il potere. Negli atti del processo, appare che le testimonianze in proposito riposano su di un unico accusatore, Paolo Erba: costui afferma che Secco gli ha dettato con precisione, a piú riprese, le modalità di denuncia del falso complotto. È difficile sapere se la congiura guidata dagli zii fosse realmente un’invenzione o se, al contrario, la manipolazione fosse da ricercarsi nelle accuse lanciate contro Francesco Secco nel 1491: in entrambi i casi il marchese di Mantova mira ad allontanare alcuni consiglieri, che possono limitare la sua autorità. Il potere politico, dalla fine del XV secolo, non esita dunque a giocare sulle congiure, che siano vere, inventate o denunciate come menzognere.

Complotti inesistenti

Inoltre, quando i sicari decidono di vendicarsi degli avversari, quando l’autore di una lettera anonima vuole far liberare dei prigionieri o quando uno pseudo-messaggero desidera guadagnare una ricompensa, per costoro è assai facile organizzare un’ipotesi di complotto coerente, capace di allarmare le autorità. Cosí, nel 1580, viene scoperta una congiura, ordita dal duca di Firenze contro il duca di Ferrara. Gli atti del processo permettono di coglierne il carattere fittizio, legato, nel caso in questione, allo zelo di un giudice di Bologna. Vi figura una confessione di Camillo Dardeseda, datata 1568, scritta per lavarsi la coscienza, nel momento in cui sta per essere giustiziato per tutt’altra ragione. Nella lettera, questo bandito (che è stato il principale testimone di accusa del complotto del 1580) riconosce di aver inventato tutto, per avere salva la vita, con l’aiuto di un giudice desideroso di trovare possibili capi d’accusa contro la famiglia bolognese dei Malvezzi:

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«Laus Deo. 1586 adi 2 di xbre à hore 4 di notte nella prigione del Armamento in Venetia. Io Camillo Dardeseda (…) essendo stato condannato alla morte, et cosi volendo morire in gratia d’Iddio, (…) faccio la presente scrittura dichiarando, che in Bologna fui essaminato dal sig.re Gio. Giacomo Zampesco da Furlimpo, et da un Notaio nominato Polidoro, li quali mi cominciorno ad essaminare, et sobbornare con dire se havessi fatti i mali del mondo per i signori Malvezzi, che mi saria dato la vita (…) dico essere tutto falso, quello che hò detto delli Signori Malvezzi contra il Duca di Ferrara, mà sono state mie inventioni per salvarmi la vita, si come mi haveva promesso à Bologna». Questioni di tal genere sono innumerevoli. Nel 1541, le autorità fiorentine apprendono l’esistenza di un complotto, organizzato da un soldato fiammingo e destinato a consegnare la città al re di Francia:

In alto i Piombi, l’antico carcere di Venezia che accolse, fra i tanti, Camillo Dardeseda, reo confesso di una congiura inventata. A destra Gli ultimi momenti del doge Marin Faliero sulla scala detta del piombo, olio su tela di Francesco Hayez. 1867. Milano, Pinacoteca di Brera. Il doge fu condannato a morte per aver complottato contro l’egemonia del patriziato al fine di instaurare a Venezia la signoria.


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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

l’inchiesta mostra rapidamente che è frutto dell’immaginazione di un Bretone, il quale, da Roma, è riuscito a estorcere denaro alla Francia come alla Toscana, grazie a questi pretesi complotti. Ugualmente, nel 1566, due uomini accusano il cardinale Morone di aver offerto loro 6000 scudi per assassinare il papa e il cardinale Farnese, ma poi confessano di aver inventato la faccenda per lucrare, segno che la loro invenzione non ha incontrato il successo sperato. Nel 1548, un monaco francescano, imprigionato per eresia a Roma, denuncia una congiura contro Cosimo I, che mirava a ucciderlo insieme ai suoi figli: si offre di parlare,

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chiedendo in cambio di essere liberato. Cosimo, dopo aver preso informazioni, si rende conto che si tratta di un’invenzione di sana pianta e abbandona l’uomo alla sua sorte. Via via, i sovrani si mostrano piú diffidenti; cosí, nel 1548, il cardinale Farnese (il cui padre è appena stato assassinato a Piacenza), sollecitato da un prigioniero spagnolo, che avrebbe «rivelazioni» da fargli, afferma di conoscere questo genere di «confessioni», dettate unicamente dalla sete di guadagno. In conclusione, i poteri politici sono ben lontani dall’essere i soli inventori di complotti; se, a scopi polemici o politici, i principi hanno talora potuto creare congiure, la maggioranza di quelle inventate è aprile

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A destra Ritratto di Pier Luigi Farnese in armatura, olio su tela di Tiziano. 1546. Napoli, Museo di Capodimonte.

a priori cosa da banditi, uomini di azione che, arrestati e quasi certi di essere condannati a morte, tentano di salvarsi la vita denunciando un presunto complotto.

Lo stesso sangue non è una garanzia

Sulle due pagine incisione ottocentesca raffigurante la morte di Giuliano de’ Medici durante la congiura dei Pazzi (1478). Nella pagina accanto, in basso ritratto di Giuliano de’ Medici. Milano, Castello Sforzesco Civiche Raccolte d’Arte Applicata ed Incisioni Civica Raccolta delle Stampe «Achille Bertarelli».

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I congiurati sono assai spesso parenti del principe o personaggi a lui vicini: sono legati alla sua corte, ma in genere esercitano modeste funzioni politiche. Lorenzino de’ Medici, dopo una giovinezza tumultuosa a Roma, era diventato il confidente piú intimo della sua vittima (il duca di Firenze Alessandro, assassinato nel 1537). Pandolfo Pucci (che congiura contro Cosimo nel 1559) apparteneva a una famiglia fedele da lungo tempo ai Medici e aveva accesso senza restrizioni alla persona del principe. Questo stretto legame con i Medici spiega il fatto che il figlio di Pandolfo, Orazio Pucci, non sia stato bandito da Firenze: costui, a sua volta, nel 1575, imita il padre e tenta di uccidere il granduca. Gian Luigi Fiesco, allorché cerca di rovesciare il potere dei Doria a Genova nel 1547, progetta freddamente la morte di Andrea Doria, che per lui si considerava quasi come un padre. Nel 1506, due giovani bastardi della dinastia estense cercano di assassinare il duca di Ferrara e anche il cardinale della stessa famiglia: due personaggi all’ombra del potere tentano cosí di mettere da parte i detentori dell’autorità. Assai spesso, dunque, i congiurati beneficiano del favore del principe, ma non hanno un reale peso politico. Tale marginalità non si limita all’ambito politico, ma si estende anche a quello sociale ed economico. Cosí i Pazzi (che congiurano contro Lorenzo il Magnifico a Firenze nel 1478), malgrado il loro

fenomenologia delle congiure

Uccidere non è un dovere La necessità della condanna a morte appare netta nel caso dell’uccisione, nel 1547, di Pier Luigi Farnese, duca di Parma e di Piacenza. Questo assassinio, voluto da alcuni rappresentanti delle principali famiglie della nobiltà di Piacenza, è organizzato in concertazione con il governatore di Milano, Ferrante Gonzaga, e indirettamente con l’imperatore Carlo V. Quest’ultimo è favorevole a un colpo di Stato, che permetta la conquista di Piacenza, ma rifiuta il ricorso all’assassinio. Nella pratica, l’essenziale del complotto era affidato alle truppe milanesi, pronte a intervenire rapidamente a sostegno dei congiurati: l’uccisione del duca non era quindi indispensabile, poiché i congiurati dovevano impadronirsi dei punti strategici della città (una porta, la fortezza) e catturare il duca, allo scopo di annichilire eventuali resistenze. I congiurati, invece, volevano assolutamente assassinare il duca, come del resto fecero, malgrado i divieti imperiali: l’eliminazione fisica del sovrano è inscindibile dalla congiura, di cui essi rispettavano i codici: esposizione del cadavere (per segnare il valore pubblico del gesto, pur commesso in uno spazio privato), discorso tirannicida alla folla e proposta di rifondare il governo della città, ponendola sotto l’autorità dell’imperatore. I congiurati non optarono, dunque, per un facile colpo di Stato (grazie alle truppe milanesi), ma preferirono servirsi della congiura, che unisce segreto, assassinio e pubblicità del gesto.

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Galeazzo Maria Sforza

Il tiranno deve morire Il 26 dicembre 1476, a Milano, tre congiurati (Giovan Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiati, Carlo Visconti) trafiggono a morte, nella chiesa di S. Stefano, il duca Galeazzo Maria Sforza con piú colpi di coltello. La moglie del duca, Bona di Savoia, reagisce rapidamente: fornisce una spiegazione apolitica del crimine, che sarebbe conseguenza di un conflitto giuridico fra Lampugnano e il vescovo di Como, e indica cosí che si tratta del gesto di tre giovani velleitari isolati. In realtà, i cospiratori provengono da un gruppo di persone in contatto con l’umanista Cola Montano, il cui insegnamento è stato determinante nel convincere i tre a uccidere il duca. Ma sono mobilitati anche uomini della cerchia di Lampugnano, che appartengono alle élites patrizie di Milano; i tre congiurati vogliono certo

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uccidere il tiranno, ma non commettono un crimine da letterati idealisti. Inoltre, Galeazzo Maria corrispondeva perfettamente alle descrizioni usuali del tiranno: Lampugnano è stato abbandonato dal duca nel momento del suo conflitto con il vescovo di Como, l’umanista Montano è stato imprigionato e poi esiliato da Galeazzo Maria. Il congiurato Olgiati riconosce di aver considerato il duca ingiusto, crudele, un uomo dai costumi scellerati. La stessa vedova, Bona di Savoia, delinea un ritratto assai fosco del marito defunto, che invia a una commissione di ecclesiastici, incaricata di stabilire se esistevano le eventuali condizioni di una remissione postuma dei peccati del consorte. La nobildonna elenca i peccati politici del marito, per sapere se c’è modo di evitargli l’inferno: Galeazzo Maria, scrive aprile

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Nella pagina accanto La congiura dei Lampugnani, olio su tela di Francesco Hayez. 1826-1829. Milano, Pinacoteca di Brera. I tre giovani nobili Giovan Andrea Lampugnano, Girolamo Olgiati e Carlo Visconti, istigati dall’umanista Cola Montano, che appare in ginocchio in primo piano, sfoderano i pugnali e si accingono a uccidere Galeazzo Maria Sforza mentre assiste a una cerimonia nella chiesa di S. Stefano a Milano, il 26 dicembre del 1476.

imporsi alla testa del principato (quello di Massa) di cui è l’erede e che, non avendo potuto trovare il sostegno di Andrea Doria, cospira contro di lui. I congiurati sono dunque per lo piú uomini in via di declassamento economico o politico.

Disegni condivisi

Tali cospiratori, però, sono ben lontani dall’essere sconosciuti oppure persone prive di relazioni o di

fama: all’ombra del potere, costoro possono annodare facilmente contatti con altre famiglie o soprattutto con altri principi. Cosí, nel 1469, quando Giovanlodovico Pio tenta di rovesciare il marchese di Ferrara Borso d’Este, ottiene il sostegno incondizionato dei Medici e del duca di Milano. Nel 1478, nella loro congiura contro Lorenzo il Magnifico, i Pazzi sono appoggiati dal re di Napoli,

exploit come banchieri nell’ambito romano, conoscono un marcato ridimensionamento finanziario rispetto all’inizio del XV secolo. Del pari, Pandolfo Pucci, che congiura contro Cosimo I nel 1559, proviene da un’importante e fortunata famiglia fiorentina, ma è quasi rovinato. Pietro Fatinelli, che prepara un colpo di Stato nella repubblica di Lucca nel 1542, discende sí da una delle principali famiglie della città, ma è divenuto un quasi-avventuriero, con pochi mezzi finanziari, una audience politica limitata, ma con una vasta rete di amici nelle varie corti europee. Giulio Cybo, che complotta contro Genova nel 1548, è un personaggio che non arriva a

la duchessa, ha praticato la guerra illecita, le razzie, il saccheggio; è stato volontariamente ingiusto, ha esercitato una pressione fiscale smodata ed era, inoltre, un uomo dai costumi corrotti.

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In alto miniatura raffigurante Galeazzo Maria Sforza che riceve in dono un libro. 1465 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France. A sinistra Bona di Savoia nel particolare di un affresco (strappato e portato su tela) di Bernardino Luini. 1525-1530. Milano, Castello Sfrorzesco, Pinacoteca.

dal duca di Urbino e da papa Sisto IV (vedi box a p. 91). Nel 1547, i cospiratori di Piacenza contro il duca Pier Luigi hanno il sostegno del governatore di Milano e, attraverso di lui, dell’imperatore. Le congiure fiorentine contro i Medici, nel 1522 come nel 1559, sono sostenute attivamente dal re di Francia. Questo gioco diplomatico della congiura conduce a frequenti controversie tra i diversi principi, che si accusano vicendevolmente di complotto: perciò, nel 1592, il duca di Parma, incoraggiato dal duca di Ferrara, afferma che il duca di Mantova ha cospirato contro di lui con il sostegno di Milano. Tale accusa conduce a una serie di dispute, di denunce, che perturba

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Dossier

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

girolamo riario

Le molte trame di un tessitore ambizioso Girolamo Riario, nipote o figlio di Sisto IV, è un signore ambizioso, che desidera fondare un proprio principato in Romagna. Incontra, però, l’opposizione risoluta dei Fiorentini, che non si augurano di avere alle loro frontiere questo potente intrigante. Girolamo Riario riesce, allora, a riunire intorno alla sua persona una serie di oppositori dei Medici e, piú in generale, interviene, nel giro di alcuni anni, in una sfilza di complotti destinati a consolidare la sua autorità. Nel 1478, Riario è uno dei principali sostenitori dei Pazzi, che cercano di assassinare i Medici a Firenze. Nel 1481, ancora, si trova dietro il gruppo

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di cospiratori che prova nuovamente a uccidere Lorenzo il Magnifico e si parla anche di un altro complotto fiorentino nel 1482. In piú, Riario è a quel tempo direttamente legato all’umanista Cola Montano, erudito e ideatore del complotto del 1476, che ha portato all’assassinio del duca di Milano. Il legame con Milano è rafforzato dai rapporti che Riario intrattiene con Piero Baldinotti, il quale progetta, a partire dal 1476, di offrire la sua città, Pistoia, al re di Napoli con l’appoggio del duca di Urbino: progetto che Riario approva. Contemporaneamente, egli si serve di Baldinotti come messaggero, per organizzare aprile

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in quell’anno il gioco diplomatico nell’Italia del Nord. Il primo proposito dei congiurati è omicida, ovvero uccidere il sovrano. Prima degli anni Settanta del Quattrocento, i rovesciamenti di potere non implicavano la morte del principe: la caduta del duca di Atene, tiranno di Firenze, nell’agosto 1342, avviene senza violenza contro la sua persona; nel 1379, Fermo scaccia il suo tiranno, senza cercare di ucciderlo, approfittando al contrario della sua assenza per rovesciarlo; nel 1430, quando un tumulto porta alla caduta di Paolo Guinigi, signore di Lucca, il tiranno decaduto è semplicemente messo in prigione e non ucciso, nonostante voci tra la folla reclamassero la sua esecuzione. Nel 1453, a Roma, la cospirazione guidata da Stefano Porcari, destinata a ristabilire la libertà

comunale, non intende eliminare il papa o i cardinali, ma rinchiuderli in Castel Sant’Angelo e costringerli a occuparsi solo del potere spirituale. In seguito, l’assassinio del principe diviene uno dei pilastri della congiura, come nel 1476 a Milano o nel 1478 a Firenze. Non si tratta, però, di una frenesia omicida dei congiurati, travolti da un’ondata

di violenza: nel 1488, a Forlí, Girolamo Riario (vedi in box sulle due pagine) è assassinato, ma né la sua sposa (Caterina Sforza), né i suoi figli vengono uccisi, nonostante siano in mano ai congiurati. Eppure, i cospiratori avevano promesso di ammazzare i fanciulli, se la fortezza della città non fosse stata loro consegnata; Caterina Sforza aveva ri-

Nella pagina accanto Sisto IV nomina Bartolomeo Platina Prefetto della Biblioteca Vaticana, affresco (strappato e portato su tela) di Melozzo da Forlí. 1477 circa. Città del Vaticano, Musei Vaticani, Pinacoteca. Il papa è seduto in trono tra i cardinali nipoti e i nipoti laici: il protonotaro apostolico Raffaele Riario alla sua destra, Giuliano della Rovere, futuro papa Giulio II, in piedi davanti a lui, Girolamo Riario e Giovanni della Rovere alle spalle del Platina.

l’opposizione contro la reggente di Milano, Bona di Savoia. In meno di cinque anni, Riario mette in contatto, attraverso differenti congiure, Firenze, Milano, Roma, Urbino e Napoli; organizza le opposizioni milanese e fiorentina, conservando i suoi appoggi romani e napoletani. Attorno a Riario si costituiscono, dunque, diversi gruppi di oppositori: questa nebulosa di cospiratori permette scambi di armi, persone e modelli politici. Questi contatti tra cospiratori, tra principi, spiegano le forti somiglianze che esistono fra le varie congiure: l’assassinio del principe è divenuto un mezzo banale e noto di azione politica.

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La fine di Alessandro de’ Medici, olio su tela di Gabriele Castagnola. 1865 Genova, Galleria d’Arte Moderna.

fiutato di cedere al ricatto, dicendosi capace di generare altra prole. Il fatto che i congiurati non avessero ucciso questi fanciulli è segno che il loro scopo era la morte del principe ed eventualmente dei suoi ministri: non si tratta di un massacro, ma di un gesto organizzato e significativo.

Delitto in cattedrale

Al desiderio di spodestare un sovrano si aggiunge il carattere collettivo e pubblico dell’omicidio, secondo elemento caratterizzante la congiura tipo. Nel 1478, i Pazzi assassinano i Medici nella cattedrale, durante una messa solenne:

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un primo progetto prevedeva di ucciderli nel corso di una cena privata presso i Pazzi e non è anodino constatare che la seconda versione del progetto utilizza, alla fine, uno dei principali spazi pubblici, davanti una vasta folla. L’assenza di pubblicità in occasione di un atto omicida (per ragioni di ordine pratico) è compensata dall’immediata esposizione del corpo dell’ucciso: denudato e quindi gettato dalle finestre sulla piazza, come accade nel caso di Girolamo Riario nel 1488. Il terzo elemento comune alle congiure è l’acquisizione del pote-

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re sovrano e l’elaborazione di un discorso politico che accompagna l’omicidio. Questi complotti sono volti a rovesciare il potere stabilito e a impadronirsi dell’autorità, ma in via provvisoria: non si tratta di instaurare un nuovo principato, ma di modificare l’orientamento politico-diplomatico dello Stato o di restaurare una forma anteriore di sovranità e di esercizio del potere, senza che il progetto sia necessariamente troppo chiaro. Tale rielaborazione del potere era favorita, nel caso italiano, dalla fragilità dei sistemi politici. I prin-

cipi italiani hanno spesso titoli di sovranità recenti: Pier Luigi Farnese è duca di Piacenza da due anni, quando viene ucciso, e questo ducato è stato creato per lui dal padre, papa Paolo II. La loro legittimità è spesso contestabile: Riario, a Forlí, si è imposto sui vecchi vicari pontifici, gli Ordelaffi. Talora i principi non hanno alcun titolo per giustificare il potere che esercitano, come i Medici a Firenze fino al 1531. Inoltre, le regole successorie sono spesso poco definite: al marchese di Ferrara Lionello d’Este succedono il fratello Borso, poi il fratello Ercole, aprile

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L’assassinio di Giulio Cesare, tempera su tavola a fondo oro di Apollonio di Giovanni. XV sec. Mosca, Museo Pushkin.

sta fiorentino riporta che Pandolfo Pucci (che congiurò contro Cosimo I nel 1559) «trovandosi vicino alla morte col capestro al collo à sedere in sú la finestra disse al Popolo queste parole: “A me non s’aspettava vivere se non ti liberavo”». Giovanni Malvezzi, che complotta a Bologna contro Giovanni Bentivoglio nel 1488, avrebbe chiaramente dichiarato a quest’ultimo la sua intenzione: «Dirò bene che quanto era l’animo mio di fare contro di te era per la cara libertà della mia patria, la quale hora tu tieni cotanto oppressa con la tua insopportabile tirannia».

Il peggiore dei principi

nonostante Nicolò avesse un figlio legittimo. Quest’ultimo tenta di rovesciare il duca Ercole nel 1476, con l’appoggio di Venezia, ma fallisce e finisce decapitato lo stesso anno.

Un duplice obiettivo

La congiura ha dunque due obiettivi. Il primo, piú evidente, consiste nel rovesciare un potere politico poco legittimo e nel modificare l’equilibrio politico di uno Stato. Il secondo riposa sulla morte del principe, sulla pubblicità del gesto criminale, sul discorso politico dei congiurati ed è tirannicida. Uccidere il princi-

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pe o esporne il cadavere complicava spesso il lavoro dei cospiratori, ma si trattava di tappe indispensabili, per mostrare che sopprimevano un tiranno per il bene comune. Queste congiure sono fortemente connotate da una motivazione tirannicida: è evidente nel caso di quella milanese del dicembre 1476 (vedi box alle pp. 82-83), ma lo è anche in tutti quei complotti di cui restano i discorsi dei congiurati. Lorenzino de’ Medici, nell’Apologia che parla dell’omicidio del duca Alessandro nel 1537, afferma di aver assassinato un tiranno. Un croni-

Piú in generale, gran parte delle congiure persegue l’ideale di uccidere il mostro politico e morale rappresentato dal tiranno, a partire dal complotto ordito da Stefano Porcari contro papa Niccolò V nel 1453. In maniera assai esplicita i congiurati del 1488 contro Girolamo Riario elaborano un discorso tirannicida, destinato a rivelare il peggiore dei principi: «Questo tiranno ultra la famiglia sua de casa teneva cento provisionari (…) sappia como non solamente non amava li suoi ciptadini ma non faceva stima de Dio né di Santi. Era bevitore del sangue de’ pover huomini, non attendeva mai a promessa alcuna, finalmente non amava che se medesimo». La giustificazione tirannicida non è un semplice discorso retorico, deriva piuttosto dall’identificazione reale di un sovrano come colui che distrugge la città. Persino uomini desiderosi di imporsi con la violenza alla guida dello Stato analizzano le loro congiure in termini tirannicidi: è il caso, in particolare, di Liverotto Eufreducci a Fermo. Questi, dopo aver assassinato nel 1502 lo zio e i dirigenti della città, prende il potere e giustifica il suo gesto attraverso il tirannicidio, nonostante tale discorso rischi di ritorcersi

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Dossier proprio contro di lui. Tutto questo a dimostrazione di come il lessico tirannicida sia usato quasi sistematicamente in occasione di omicidi politici, anche nelle circostanze piú inattese, tanto l’assassinio sembra inseparabile dalla volontà di rivelare il mostro politico nascosto dietro le sembianze del principe.

Atti politici e religiosi

Le congiure sono al tempo stesso atti religiosi e politici. I luoghi, le date, gli attori dei complotti tradiscono questa tensione sacra. La chiesa viene spesso scelta come luogo del crimine; inoltre, i delitti si svolgono o prevedono di svolgersi in occasione di grandi feste religiose. Infine, sembra che i congiurati abbiano sovente fatto ricorso a ecclesiastici e che in piú occasioni questi ultimi abbiano addirittura rappresentato la parte piú estremista della contestazione politica. Soprattutto, gli stessi cospiratori manifestano assai di frequente un grande fervore religioso, perfino una spiritualità inquieta. I congiurati del 1488 contro Girolamo Riario affermano di aver voluto salvare la città di Forlí dall’inferno in cui era sprofondata a causa del cattivo governo e sostengono che il successo del complotto ha del miracoloso, è dovuto all’intervento diretto di Dio di cui loro non sarebbero stati che strumenti. Francesco Burlamacchi, gonfaloniere di Lucca, pensava, nel 1546, di liberare la Toscana dai Medici: il suo progetto era religioso e politico insieme, poiché intendeva instaurare un modus vivendi cristiano, quindi chiamare l’imperatore a riformare la Chiesa. Similmente, Girolamo Olgiati, uno dei congiurati contro il duca di Milano nel 1476, intendeva offrire con il suo gesto un sacrificio a Dio, stando a quanto dichiaravano i volantini riportati da una cronaca senese. Una motivazione religiosa, questa, confermata dalla confessione dello stesso Olgiati,

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da cui emerge un uomo dalla sincera pietas religiosa, che guida una congiura circondata di devozioni religiose, posta sotto gli auspici dei santi Ambrogio, Stefano e Carlo.

Personaggi tormentati

Un racconto dettagliato permette di cogliere gli ultimi istanti di Agostino Capponi e di Pietro Pagolo Boscoli, giustiziati per complotto contro i Medici nel 1513; Luca della Robbia, un prossimo di Boscoli, si trova con i condannati prima della

loro esecuzione e riferisce le parole degli sventurati. Boscoli appare un uomo inquieto, profondamente segnato (come il suo interlocutore) dalla predicazione di Savonarola, che piú volte prende a modello: vuole abbandonarsi interamente alla volontà di Dio e sembra quasi in rottura con la Chiesa. Questa tensione spirituale, dalle aspirazioni vicine a quelle della Riforma protestante, è ugualmente percepibile in Pietro Fatinelli, autore nel 1542 di una congiura contro aprile

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Benedetto Accolti

In missione contro l’Anticristo Benedetto Accolti è emblematico di un percorso sociale e individuale tormentato: è il figlio bastardo di un cardinale; è respinto dal cugino, il cardinale di Ravenna, che lo costringe perfino a prendere un nome falso. È vicino ad ambienti luterani italiani e beneficia del prestigio sociale della sua famiglia, senza tuttavia integrarvisi pienamente. Nel dicembre 1564, tenta di assassinare papa Pio IV, invocando una motivazione politica e religiosa. Benedetto Accolti aveva un progetto politico, come confessa durante il suo interrogatorio: «Io dico liberamente che intendevo e intendo de liberare tutta la Italia e mondo sopradeti dalle mani de qualsivoglia tiranno che li oppremesse di sorte, cominciando dal Pontefice istesso». Intanto, la testimonianza di uno dei suoi complici, Jacopo Pelliccione, dimostra che Accolti ambiva a permettere la venuta del papa angelico, nuovo David riformatore della Chiesa: [Accolti diceva] «che lui voleva ammazzare il papa (…) perche lui voleva fare per il papa vero e santo el quale e divini sul onto». Benedetto Accolti è segnato dalla Riforma, è in contatto con gli ambienti riformati bolognesi al tempo dei suoi studi, negli anni 1540-45. È soprattutto segnato dai legami tanto stretti quanto tesi che intrattiene con la Curia, che gli valsero di essere imprigionato a Roma sotto Paolo III, fintantoché, alla morte del papa, la folla infranse le porte della prigione, permettendogli di fuggire. Nel personaggio si coniugano inquietudine spirituale e rivendicazione sociale; se si crede in tutta sincerità ispirato da Dio, si dichiara anche un manipolatore, in particolare quando confessa di aver inventato la venuta del papa angelico, per guadagnare alla propria causa i suoi compagni, mentre in realtà voleva semplicemente uccidere l’Anticristo. la repubblica di Lucca mirante ad assassinarne i dirigenti e a riformarne le istituzioni. Nei suoi ultimi momenti, Fatinelli svela una spiritualità segnata dalla Riforma, ma soprattutto ossessionata dal desiderio di un abbandono totale a Dio e alla sua Provvidenza. I congiurati, uccidendo il tiranno, intendono cosí compiere un gesto politico e sacro: uccidere il tiranno è eliminare un nemico di Dio, che conduce la città alla perdita della salvezza eterna. La morte del principe non è lo

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scopo principale: se viene ucciso, è per manifestare la purificazione dei peccati urbani. Il gesto politico è anzitutto religioso: il cadavere del principe permette di ristabilire la concordia urbana.

La reticenza dei cronisti

I corpi dei tiranni assassinati sono mutilati, smembrati; i fanciulli li trascinano per i piedi, li dissotterrano, prima di rifiutare loro una sepoltura cristiana. Talora, il cadavere è addirittura mangiato, almeno in

Nella pagina accanto Ritratto di Paolo III con i nipoti (Alessandro e Ottavio Farnese), olio su tela di Tiziano. 1545-1546. Napoli, Museo di Capodimonte. In basso Ritratto di Martin Lutero, olio su tavola della bottega di Lucas Cranach il Vecchio. 1528. Wittenberg, Lutherhaus.

parte, dagli animali randagi o dalla folla. Assai spesso le fonti tacciono queste sevizie, le cui testimonianze sono difficili da reperire. Per esempio, in occasione dell’assassinio di Pier Luigi Farnese a Piacenza nel 1547, il cadavere del duca fu mutilato e trascinato: la maggior parte dei racconti, però, passa sotto silenzio queste mutilazioni, per non offendere la maestà principesca (e quella di papa Paolo III, padre del duca assassinato). Tuttavia, alcune narrazioni evoca-

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la congiura dei pazzi

Una repressione feroce e poi l’oltraggio Nel 1478, la famiglia patrizia dei Pazzi, aiutata da quella dei Salviati, ma anche da papa Sisto IV, dal re di Napoli e dal duca di Urbino, tenta di assassinare i giovani fratelli Lorenzo e Giuliano de’ Medici, al fine di sottrarre alla casata medicea l’autorità di fatto che detenevano sulla repubblica fiorentina. Giuliano viene ucciso nel duomo, ma Lorenzo, ferito, riesce a darsi alla fuga: a quel punto, il tentativo dei congiurati di impadronirsi del palazzo della Signoria fallisce e il popolo si arma in favore dei Medici. La repressione è immediata e spettacolare. I cospiratori vengono impiccati, senza passare in giudizio, alle finestre del Palazzo della Signoria e del Palazzo del Podestà. Fra di loro figura anche l’arcivescovo Salviati e, nel giro di pochi giorni, una cinquantina di persone sono giustiziate. Cancellate tutte le armi dei Pazzi presenti a Firenze, vengono realizzati dipinti infamanti delle impiccagioni, per immortalare visivamente la repressione. L’anno seguente, Bernardo Bandini, riuscito a scappare a Costantinopoli, è estradato alla volta di Firenze, dove viene impiccato in abiti turchi, per sottolineare l’empietà del personaggio. Il cadavere di Jacopo de’ Pazzi, il capofamiglia, è in seguito martoriato dai fanciulli di Firenze, dopo essere stato esumato una prima volta per ordine delle autorità fiorentine. I fanciulli si ispirano alla violenza usata al corpo del tiranno dai congiurati, ma la rivolgono contro il cospiratore. È il cospiratore che diviene, allora, l’uomo della discordia e del demonio. Il cronista fiorentino Luca Landucci insiste sulla dimensione miracolosa di tale gesto: «E fanciugli lo disotterròno un’altra volta, e con un pezzo di capresto, ch’ancora aveva al collo, lo straccinorono per tutto Firenze; e, quando furono a l’uscio della casa sua, missono el capresto nella canpanella dell’uscio, lo tirorono su dicendo: pichia l’uscio, e cosí per tutta la città feciono molte diligioni (…) e gittorolo in Arno. E levorono una canzona che diceva certi stranbotti, fra gli altri dicevano: Messer Iacopo giú per Arno se ne va. E fu tenuto grande miracolo, la prima ch’e fanciugli sogliono avere paura de’ morti, e la seconda si è, che putiva che non se gli poteva apressare». Il cadavere, cosí deriso, viene inviato dai fanciulli all’inferno e la concordia fiorentina ristabilita grazie al suo principe e non contro il tiranno. La repressione permette in tal modo di rovesciare il discorso tirannicida, rendendolo favorevole al principe. Nella pagina accanto Ritrovamento del cadavere di Jacopo de’ Pazzi, olio su tela di Odoardo Borrani. 1864. Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti. Il corpo di colui ch’era stato uno dei protagonisti della cospirazione fu in seguito martoriato dai fanciulli di Firenze.

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In alto medaglia in bronzo coniata in memoria di Giuliano de’ Medici, vittima della congiura dei Pazzi, opera di Bertoldo di Giovanni. 1478. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. In basso Ritratto di Lorenzo il Magnifico, olio su tavola di Luigi Fiammingo. 1550. Firenze, Museo degli Argenti.

no il furore della folla sul cadavere, dopo che è stato appeso per un piede e poi gettato dalla finestra per iniziativa dei congiurati. Lo storico fiorentino Giovan Battista Adriani riferisce: «Del morto corpo del Duca furono fatti molti strazj, avendolo coloro, che l’avevano ucciso, (…) gittato ne fosso; e quindi spogliato, fu tutto nudo tranato per la città, e finalmente tratto in

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un canto d’una Chiesa, dove fece orribile spectacolo a tutta la turba, e se non dopo quattro giorni per ordine di Don Ferrando Gonzaga non gli fu data sepoltura». Con piú macabra precisione, un dialogo satirico tra Pier Luigi Farnese e Caronte mette in scena l’arrivo del duca davanti l’Acheronte e il suo corpo lacerato come quello di un torturato, quale lo vede Caron-

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te: «Camina senza piedi, e senza mano, la testa spartita come il suol dire di una orecchia all’altra, scannato, e con due stoccate nel petto, sia io amazzato se non è qualcheduno della Ruota, et ha tardato di arrivare per mancamento di gambe». Obbligati a giustificare i loro atti nel 1548, i congiurati attribuiscono queste mutilazioni alla furia popolare, per non assumersene la

responsabilità. Lo scempio del cadavere, come l’assenza di sepoltura cristiana, permettono di rivelare il mostro nascosto dietro il principe. Il tiranno, in quanto uomo del Male, attira sulla città la collera divina: ricevendo sul suo corpo un inizio del castigo infernale, permette il ritorno alla concordia, alla riconciliazione con Dio. Il ruolo dei fanciulli, interaprile

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L’esecuzione dei congiurati di Amboise in un’incisione cinquecentesca. Ginevra, Bibliothèque Publique et Universitaire. Nel 1560, la città francese fu teatro di una congiura ordita dagli ugonotti per sottrarre Francesco II, re di Francia, all’influenza dei Guisa, i cadetti della casa ducale di Lorena, e portare al potere il principe di Condé. Fallí per la delazione di uno dei congiurati.

cessori tra la città e Dio, è centrale: questi permettono il ritorno del favore divino svelando il mostro. Il principe non rimane indifferente innanzi a queste ripetute violenze. La repressione degli assassini o dei tentativi di complotto è particolarmente spettacolare: al corpo smembrato del tiranno risponde quello lacerato dei con-

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giurati. Inoltre, si sviluppa un discorso che evidenzia l’inutilità delle congiure e la loro dimensione inaccettabile, a prescindere dalle motivazioni. In piú, alla fine del XV secolo, le repubbliche oligarchiche italiane sono minate dalle fazioni, salvo Venezia (che, significativamente, non conosce allora congiure): Genova, Siena, Pistoia o le città della Romagna si trasformano in un terreno di scontri ripetuti tra partiti, al punto di diventare ingovernabili, a meno di non porsi sotto l’autorità di un tiranno. La tirannia diviene progressivamente un modello politico accettabile: a differenza delle fazioni, garantisce la concordia, contrariamente a quanto pretendono i congiurati. È per questo che la principale risposta del principe è violenta, al di là del solo momento della repressione: gradualmente, i sovrani italiani accettano di mostrarsi tirannici. La forza diventa la principale legittimità del potere e si afferma l’idea della ragione di Stato, cioè l’idea che il potere abbia per scopo primario la propria conservazione. Giovan Battista Leoni, alla metà del XVI secolo, formula assai nettamente questa nuova definizione del potere (partendo da una riflessione sulle congiure tra principi): «Dico, che la prudenza politica o Ragione di Stato, che noi vogliamo chiamarla, insegna et comporta, che ciascun Prencipe procuri sopra tutte le cose la conservazione dello stato suo per passar con questa all’ampliatione ancora. Et però considerando et prevedendo tutto quello, che può essergli di danno, o di beneficio, vada in tutti i modi possibili, occorrendo all’uno per impedirlo, et incontrando l’altro per appropriarselo». Mostrandosi detentore di una violenza ineguagliabile, manifestando una forma di invincibilità, il principe risponde alle congiure. Private della loro sacralità (poiché la concordia è dalla parte del principe), private del cattivo tiranno, votate al fallimento, le congiure

scompaiono progressivamente. Solo il principe, armato di tutta la sua potenza, può ormai cospirare.

Violenza chiama violenza

Vi è dunque un sistema di pensiero profondamente sacrale che anima la congiura: la maggiore posta in gioco, al di là degli appelli simbolici al popolo, è mostrare l’altro come l’uomo che infrange il legame tra la città e Dio. A fronte di ciò, la preoccupazione del tiranno è mostrarsi come il solo detentore della forza. Rispondendo alla violenza con una violenza ancora piú grande, creandosi l’immagine di un uomo che può e sa tutto, che pratica una criminalità inaudita a proprio piacimento, il principe tenta di monopolizzare a suo uso esclusivo l’assassinio, cerca di atteggiarsi a detentore di una forza senza pari. La volontà di svelare il carattere diabolico del tiranno non corrisponde piú alle attese sacrali del popolo, che si è ormai rifugiato nelle braccia di chi, benché uomo del dispotismo, appare la sola persona capace di offrire la libertà sperata. L’arcaismo del fatto criminale è particolarmente netto nella procedura tirannicida di Lorenzino de’ Medici. Quest’ultimo uccide, nel 1537, il primo duca di Firenze, ma senza rispettare alcuna delle consuetudini criminali: Lorenzino sopprime il duca in privato e nasconde il cadavere, per poi fuggire senza fare appello al popolo, il quale, malgrado lo spazio di libertà aperto dalla morte di Alessandro, si contenta di gioire della morte dell’odiato tiranno, prima di abbandonarsi senza proteste al nuovo duca Cosimo. Il crimine politico, con la sua retorica, vive gli ultimi bagliori: solo la violenza, la forza armata, potrà rovesciare il cattivo principe, ma in nessun caso una preoccupazione sacra potrà far sollevare un popolo che, a dispetto della tirannia, ha accettato la violenza del principe come protezione.

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Un tesoro tra i di Maria Paola Zanoboni

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Città dalla storia antichissima, Terni deve la sua fioritura alla felice posizione geografica e strategica, rafforzata dalla costruzione, in età romana, della via Flaminia. Una rilevanza ribadita dalle vicende di cui il capoluogo umbro fu teatro nei secoli dell’età di Mezzo e, ancora oggi, testimoniata da un ricco patrimonio artistico e architettonico

Veduta di Terni con, in primo piano, i resti dell’anfiteatro romano, costruito a ridosso delle mura che cingevano la città, nei pressi della porta sulla via Flaminia.

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Terni si attribuisce in genere la definizione di «città moderna» o «città delle acciaierie», ma nessuna delle due, in realtà, rende l’idea di ciò che il centro umbro è realmente. Adagiata in una conca pianeggiante, alla confluenza del torrente Serra col fiume Nera, circondata da verdissime montagne che si stagliano contro l’azzurro del cielo e percorsa a tratti da una brezza deliziosa e corroborante, Terni stupisce per la varietà della sua struttura urbanistica e per la capacità di fondere e armonizzare gli stili architettonici piú diversi, in un quadro in cui gli edifici moderni si accostano e fondono con quelli barocchi, medievali e con le rovine romane. Nata come insediamento romano, la città conserva la cerchia muraria e una parte della

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struttura medievale, nonostante le importanti devastazioni dovute all’ultima guerra. Chi, provenendo dal rettilineo viale della Stazione, superata la gigantesca pressa delle acciaierie, imboccherà via Tacito, giungendo fino al punto in cui, in epoca romana, s’intersecavano gli assi viari principali – il cardine e il decumano –, potrà poi perdersi nell’incanto delle stradine medievali, in cui costruzioni in pietra si alternano a edifici barocchi e a casette colorate, a volte moderne, ma armoniosamente inserite nella struttura del paesaggio urbano, fino a giungere alle rovine del teatro romano, non senza essersi imbattuti in deliziose chiesette romaniche, talvolta arroccate su piccole alture. Varcando la soglia di ingresso, si potranno scorgere tracce perfettamente conservate di splendidi affreschi due/trecenteschi. Abitato fin dall’epoca preistorica, il sito raggiunse una notevole importanza nell’età del Ferro (X secolo a.C.), come prova, in particolare, la grande necropoli detta «delle Acciaierie», scoperta nel 1884. Secondo la tradizione, la fondazione della città vera e propria ebbe luogo qualche secolo piú tardi, nel 673 a.C. In epoca antica era nota come Interamna (inter amna, cioè la città «tra i fiumi»), denominazione a cui si aggiungeva l’appellativo Nartium, Nahartium o Nahars, derivante da Nahar, che, nella lingua degli Umbri, era il nome del Nera. La conquista romana della regione ebbe inizio nel IV secolo a.C. e il centro di Terni fu sottomesso e rifondato, con la costruzione di una nuova cinta muraria. Nel 272

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a.C., il censore romano M. Curio Dentato, con l’intento di bonificare i terreni attorno a Rieti, resi malsani dal lacus Velinus, decise di deviarne le acque nel fiume Nera, facendo scavare un emissario tra le montagne e dando cosí origine alle cascate delle Marmore, il cui salto si può ammirare 7 km a nord-est di Terni. La cascata venne poi modificata nel 1546 per volere di papa Paolo III, su progettazione di Antonio da Sangallo, nel tentativo di liberare le campagne dalle continue inondazioni. L’importanza strategica di Interamna è testimoniata dal fatto che a essa venne indirizzato il ramo orientale della via Flaminia, che andò a costituire l’asse stradale principale del centro urbano e, per secoli, fu l’unica arteria che congiungeva Roma al Nord della Penisola, giungendo fino a Rimini (da dove partiva poi la via Emilia).

Nuovi padroni

Dopo la caduta dell’impero romano, Terni venne occupata dagli Ostrogoti, in seguito dai Bizantini e poi dai Longobardi (prima da Autari, poi dai duchi di Spoleto, alla fine del VI secolo). Sulla città non si hanno però notizie fino all’inizio dell’XI secolo, quando è documentata l’esistenza del Comune. Alla metà del XII secolo, durante le invasioni di Federico Barbarossa, Spoleto si ribellò alla tassazione imperiale, facendo prigionieri i messi dell’imperatore e scatenando una reazione durissima: venne assediata, saccheggiata e messa a ferro e fuoco, e la maggior parte

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Statua di san Valentino, patrono della città di Terni, custodita nella basilica a lui intitolata.

Terni romana

I segni dell’antico Le tracce dell’epoca romana sono ancora notevoli: dalla cinta muraria, in corrispondenza della quale sorse poi quella medievale (ma che affiora ancora a tratti, soprattutto verso ponente, sotto i giardini pubblici), alle rovine imponenti dell’anfiteatro (32 d.C., destinato ai giochi gladiatori), grandioso per ampiezza e tecnica costruttiva, e in grado di ospitare 10 000 spettatori. Rimasto sepolto sotto le proprie rovine per secoli e poi coperto da altri edifici, venne riportato alla luce soltanto nell’Ottocento. Il diametro maggiore della cavea era di 157 m, mentre quello dell’arena di 52,10. Era costituito da uno spazio centrale destinato alle lotte dei gladiatori e delle fiere (arena), e da uno spazio anulare di forma ellittica, provvisto dei gradini per gli spettatori (l’anfiteatro propriamente detto). Due erano gli ingressi, alle estremità dell’ellissi. Nel Medioevo divenne una cava da cui prelevare il materiale da costruzione per il palazzo vescovile e la cattedrale. Vestigia dell’antico teatro romano (I secolo a.C., destinato alla rappresentazione di commedie e tragedie), compaiono invece in via del Duomo, ma non se ne conoscono le dimensioni, né sussistono altre informazioni che possano dare un’idea del suo assetto. Si trattava comunque di una struttura semicircolare, con una gradinata terminante in un porticato. Nel 197 venne consacrato il primo vescovo della città, Valentino, fatto incarcerare e poi decapitare nel 270 d.C. dal prefetto di Roma Furioso Placido, e divenuto per questo il santo patrono. Nel 275 d.C., dopo l’uccisione dell’imperatore Aureliano, venne nominato suo successore un cittadino di Terni, Marco Claudio Tacito, che una tradizione rivelatasi però inattendibile vuole fosse discendente dello storico Gaio Cornelio. A destra la torre dei Barbarasa, la meglio conservata delle oltre 300 che si contavano nella Terni medievale. La struttura, la cui prima fondazione risale al XIII sec., prende nome dai Barbarasa, che furono una delle famiglie piú in vista della città fra il XV e il XVI sec.


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A destra pianta della città di Terni, con l’indicazione dei monumenti citati nell’articolo.

dei suoi abitanti furono uccisi. La stessa sorte toccò a numerose città dell’Umbria, tra cui Assisi e Terni, che vennero saccheggiate nel 1174 dall’arcivescovo di Magonza, alleato del Barbarossa. Nel 1187 Corrado di Lutzen, nominato dal Barbarossa duca di Spoleto e Assisi dopo la pace di Costanza, concesse a Terni la libertà, riconoscendo i consoli cittadini come rappresentanti del popolo ternano. Il documento, inciso su una lapide, è tuttora conservato nel Museo Comunale di Terni. Poco dopo la Chiesa entrò in possesso del ducato di Spoleto e della contea di Assisi. Nel 1240 Terni, che questa volta aveva preso le parti dell’imperatore svevo, fu premiata da Federico II per la sua fedeltà con il diritto di apporre sul gonfalone cittadino l’aquila nera in campo d’oro. Una missiva di Innocenzo IV al podestà di Narni parla appunto della defezione di Terni dalla Chiesa e di aggressioni armate da parte della città contro Narni e altri centri rimasti fedeli al papato. Nel 1260 la città partecipò vittoriosamente alla battaglia di Montaperti al fianco dei ghibellini senesi contro la guelfa Firenze, mentre nel 1268 tornò nel dominio della Chiesa, sotto la protezione di Clemente IV. Seguí qualche anno di pace che rivitalizzò momentaneamente l’economia: nel 1277 venne sti-

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medioevo nascosto umbria L’esterno della chiesa di S. Salvatore, uno dei luoghi di culto piú antichi di Terni, edificato sui resti di una domus romana. L’edificio si compone di più parti, realizzate fra l’VIII e il XVII sec.

pulato un proficuo accordo commerciale fra Terni e Rieti, e un altro con Todi nel 1288. Questa breve tregua venne nuovamente stravolta negli ultimissimi anni del Duecento, dopo l’ascesa al soglio pontificio di Bonifacio VIII (al secolo, Benedetto Caetani), quando si innescò una serie interminabile di lotte tra i centri urbani dell’Umbria e il papato. A questo si aggiunsero gli effetti del devastante terremoto del 30 novembre 1298, con epicentro Rieti (verificatosi proprio mentre Bonifacio stava celebrando la messa nella cattedrale della città, e costringendolo a fuggire precipitosamente con tutta la sua corte), che provocò ingentissimi danni in Umbria e in Toscana. L’ostilità della popolazione umbra a papa Caetani si manifestò in modo inequivocabile nei celebri versi del frate francescano Jacopone da Todi: «O papa Bonifazio mult’ai jocato el mondo / penso che tu joconno non te porrai partire». Il palazzo comunale stesso di Terni venne costruito all’epoca di Bonifacio VIII: fino a quel momento, infatti, le magistrature cittadine non disponevano di una propria sede, ma si riunivano in case private prese in locazione, oppure nella Cattedrale, o in S. Francesco, o nelle piazze. Nel 1292 il Comune cominciò ad acquistare case nel rione dei Fabbri dove poi venne edificato il palazzo, (oggi non piú esistente), dotato di torre e di una campana messa in funzione in tempo per annunciare alla popolazione la morte del pontefice (11 ottobre 1303).

le chiese

Una presenza diffusa

Caposaldo dei ghibellini

In seguito al trasferimento del papato ad Avignone (1305), sotto Clemente V, le lotte intestine tra famiglie rivali in Umbria si moltiplicarono e, all’indomani della discesa in Italia di Arrigo VII (1313), Terni fu tra i caposaldi ghibellini che ricevettero una missiva dell’imperatore affinché lo accogliessero al suo passaggio. Nel frattempo, approfittando dell’assenza del papa, la città aveva cominciato a costruire torri nel contado per colonizzare il territorio circostante (1314). Le sue mire espansionistiche vennero domate definitivamente nel 1340, quando venne riportata sotto il dominio della Chiesa. All’inizio del 1349, dopo la prima devastante epidemia di peste, i ghibellini ternani cercarono ancora, a piú riprese e con alterne vicende, di liberarsi dal dominio pontificio. Nel 1364, nonostante il periodo di miseria e carestia, vennero aperti a Terni ben quattro banchi di prestito gestiti da Ebrei che dovevano versare al Comune un censo annuo, e la cui attività, destinata prevalentemente al piccolo prestito al consumo, fu molto apprezzata da (segue a p. 103)

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S. SALVATORE (XI SECOLO) Nella visita pastorale del 1573, il vescovo di Terni descriveva S. Salvatore come un tempio pagano antichissimo, poi adibito al culto cristiano, e tale credenza continuò a circolare, riproposta nel 1646 nella Historia di Terni di Francesco Angeloni, fino agli scavi archeologici dell’inizio del Novecento, intrapresi dall’ispettore Luigi Lanzi (1909), che riportarono alla luce, sotto le fondamenta, i resti di una domus romana, ma non tracce di templi pagani. Contemporaneamente, abbattuti gli stucchi e gli altari seicenteschi, venne riportato alla luce l’intonaco medievale con i suoi antichi affreschi. L’edificio, di modeste dimensioni, è costituito da una navata divisa in due campate coperte da volte a crociera, e da una rotonda illuminata da otto fornici e coperta da una cupola con occhio centrale. In asse con la navata è l’abside, di forma rettangolare, coperta da volta a botte. Sulla parete meridionale della navata si apre una cappella a pianta quadrata, mentre una seconda cappella fu chiusa nel 1909 per far spazio aprile

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alla sacrestia. Osservandola dall’esterno, appare evidente come la costruzione si componga di due edifici differenti e risalenti a epoche diverse. Molto scarse sono le vicende documentarie sulla chiesa: la prima notizia certa risale al 1065, quando compare fra i possedimenti dell’abbazia di Farfa e potrebbe essere questa la data di riferimento per la costruzione della navata romanica. Molto piú antica potrebbe essere invece l’altra parte dell’edificio, a pianta circolare, secondo la struttura delle cappelle palatine, bizantine e longobarde; e proprio ai secoli VIII-IX rimanda un frammento scultoreo trovato all’interno della chiesa. Ciò concorderebbe, tra l’altro, con la leggenda secondo cui, nel 742, in S. Salvatore papa Zaccaria avrebbe incontrato Liutprando, re dei Longobardi. La decorazione pittorica risale in parte al XIII e in parte al XIV secolo: l’affresco piú antico (l’immagine di san Paolo) è databile intorno al 1230. Gli altri dipinti della rotonda (sempre immagini di santi), rientrano nella committenza devozionale privata, di cui a Terni rimangono molti esempi,

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In alto chiesa di S. Salvatore. Uno scorcio della cappella Manassei, ornata da affreschi databili al XIV sec. A destra San Paolo, affresco attribuito a un pittore umbro attivo agli inizi del XIII sec., nella zona presbiteriale della chiesa di S. Salvatore.


medioevo nascosto umbria anche nella chiesa di S. Francesco. Ai primi decenni del Cinquecento risale invece la decorazione della parete di fondo della cappella absidale: una Crocifissione con sfondo di rocce e acque. Decisamente piú importanti gli affreschi della cappella Manassei (la nobile famiglia di Terni che li aveva commissionati): un Cristo benedicente di chiara ispirazione giottesca, circondato da quattro figure femminili, tra cui le sante Lucia e Agnese. Sulle vele della volta compaiono gli Evangelisti; sulla parete sinistra San Giovanni Battista e una Crocifissione drammatica e ricca di

A destra particolare del Paradiso, affresco facente parte del ciclo con scene del Giudizio Universale realizzato da Bartolomeo di Tommaso di Foligno per la cappella dei Paradisi nella chiesa di S. Francesco. Prima metà del XV sec. In basso San Bernardino da Siena, affresco di autore ignoto nella chiesa di S. Cristoforo. XIV-XV sec.

pathos, in cui la Vergine svenuta guardando il figlio morente viene sorretta dalle pie donne, mentre la Maddalena e san Giovanni non riescono a trattenere il pianto. Un’iconografia di chiara matrice umbra trecentesca, con Giotto e Pietro Lorenzetti come modelli. Durante i bombardamenti del 1943/44 la chiesa fu colpita da una bomba e la cappella Manassei perse parte dell’affresco della Madonna in trono con angeli. Seguirono ripetuti interventi di restauro, negli anni Sessanta e l’ultimo nel 2001.

S. CRISTOFORO (XII-XIII SECOLO) A navata unica, con tetto a capanna in stile romanico, e legata alla memoria di san Francesco, che predicò nei pressi della chiesetta compiendo alcuni miracoli, S. Cristoforo venne costruita tra il XII e il XIII secolo riutilizzando materiali molto piú antichi. Scavi archeologici hanno infatti restituito frammenti di sculture ed elementi architettonici risalenti ai primi secoli dopo Cristo: una medusa, una lapide e una stele murate sulla parete esterna

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dell’edificio. Sebbene i numerosi restauri abbiano alterato profondamente la struttura muraria, la chiesa conserva frammenti di affreschi del XIV e XV secolo. SAN FRANCESCO (XIII SECOLO) La costruzione della chiesa di S. Francesco iniziò nel 1265, e si può considerarla già consacrata nel 1288, dal momento che proprio in quell’anno papa Nicolò IV concesse le indulgenze a chi l’avesse visitata.

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Pochi anni prima i Francescani si erano insediati a Terni, dove avevano assunto una grande importanza nelle vicende politiche, sociali ed economiche della città, tanto che fu affidata loro la custodia dell’archivio comunale. Costruita originariamente a navata unica e transetto con volte a crociera e abside, secondo la tipologia francescana, la chiesa subí nel tempo numerose trasformazioni: nel 1300 vennero edificati il convento e la cappella dei Paradisi; fra il 1450 e il 1550 furono aggiunte le navate

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medioevo nascosto umbria Madonna del Latte con i santi Giovanni e Caterina d’Alessandria (particolare), affresco di autore ignoto nella chiesa di S. Pietro. XV sec. La costruzione dell’edificio fu avviata nel Trecento, ma si concluse solo nel 1452, con la realizzazione della grande tribuna absidata, a spese di Stefano Manassei. Questo e altri affreschi sono tornati alla luce grazie agli interventi di restauro condotti nel secondo dopoguerra.

influenzato dalla scuola marchigiana, da quella bolognese e da quella senese, era anch’egli legato culturalmente e geograficamente al movimento dell’osservanza. Le pareti laterali della cappella sono divise in tre riquadri: in quello di destra è raffigurato l’inferno, diviso in bolge, al centro del quale campeggia la spaventosa figura di Lucifero intento a maciullare le anime dei dannati (come nella cappella fiorentina degli Strozzi). A sinistra, sono invece raffigurate la liberazione delle anime dal Purgatorio e la discesa di Gesú nel Limbo. Nel riquadro inferiore è rappresentato il Purgatorio, diviso in sette gironi, ciascuno dei quali sovrastato da un angelo vigilante, cosí come viene descritto nella Divina Commedia. Sulla parete centrale è raffigurato il Paradiso: Dio al centro di un’ogiva siede in mezzo agli angeli e ai santi; ai suoi piedi le gerarchie angeliche: un arcangelo con armatura argentea e scettro guida il gruppo delle «dominazioni»; un altro con lorica dorata e spada, circondato da piccoli angeli guerrieri, guida la gerarchia delle «podestà»; un terzo vestito da una tunica e inerme, insieme a due angeli minori, forma la gerarchia delle «virtú». Nel piano inferiore vengono raffigurati gli apostoli e l’arcangelo Michele a guardia del Regno dei Cieli.

laterali, il vano presbiteriale e una nuova abside, e, in seguito, allungati i bracci del transetto e realizzate la cappella di S. Bernardino e quella della Croce Santa. La piú importante opera pittorica conservata nella chiesa è la decorazione della cappella dei Paradisi, affrescata nella prima metà del XV secolo con scene del Giudizio Universale dal pittore Bartolomeo di Tommaso di Foligno (1408/11-1441), al quale era stata commissionata da Monaldo Paradisi, legato all’osservanza francescana. L’artista, personaggio di notevole importanza, dato che Nicolò V lo chiamò a dipingere in Vaticano, e

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S. PIETRO (XIV SECOLO) La chiesa di S. Pietro venne fatta costruire all’inizio del Trecento dagli Agostiniani di Terni, che necessitavano di una nuova sede. Originariamente a navata unica, priva di transetto, e con un grande presbiterio rettangolare, fu ampliata nella seconda metà del Quattrocento da Stefano Manassei, che finanziò la costruzione di una grande abside poligonale. Nel 1430 era stata innalzata la prima parte del campanile, terminato nel Seicento. Nel Cinquecento venne costruito il convento e, nel Settecento, affrescato il chiostro. Le devastazioni del 1943/44, che distrussero buona parte della struttura gotica originaria, portarono alla luce, sotto l’intonaco seicentesco, la decorazione pittorica originaria, risalente alla seconda metà del XIV secolo e ai primi decenni del successivo, e presente in tutte le cappelle laterali: San Pietro, una Madonna con Bambino, una Madonna del Latte con i santi Giovanni e Caterina d’Alessandria, una Dormitio Virginis (nella prima cappella e opera di un ignoto pittore umbro di notevole livello [1370 circa] noto come «maestro della Dormitio di Terni»), San Francesco, le Storie di Santo Stefano, e molte altre immagini di santi. aprile

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tutta la popolazione. Poco dopo, nel 1366, grazie a una donazione, venne allestito un ospizio con quattro letti, destinato a diventare l’ospedale di Terni grazie alla Confraternita di S. Nicandro e ai numerosi lasciti successivi. All’inizio del Quattrocento la popolazione di Terni raggiungeva i 6/7000 abitanti; la città era dotata di 300 torri e di una cinta muraria completa, che venne rinforzata per far fronte alle armi da fuoco. Piú grande di Narni e di Spoleto, poteva vantare fiorenti attività commerciali e manifatturiere, intraprese da un ricco ceto mercantile e favorite dalla presenza di numerosi corsi d’acqua, che alimentavano mulini, cartiere, magli. Sempre nei primi decenni del XV secolo, sulla scia della predicazione di Bernardino da Siena, andavano diffondendosi in Umbria e in Toscana i Monti di Pietà, ideati e promossi dai Francescani per offrire un’alternativa al prestito ebraico. Quello di Terni si deve a Fra Barnaba Manassei, di nobile famiglia, dottore in filosofia e medicina, teologo ed eminente predicatore, entrato a far parte dei Francescani osservanti nel 1430 e divenuto Vicario Provinciale dell’Umbria nel 1460. Nel 1461 iniziò la predicazione a favore dell’istituzione del Monte di Pietà di Terni, raccogliendo notevoli offerte, che ne costituirono la base. La sua nascita risale però soltanto al 1467, a causa di una strenua opposizione (da parte dei Domenicani e degli operatori ebraici), sfociata in una disputa all’università di Perugia. Il Monte, oltre che dai lasciti, traeva le sue risorse dai proventi di dazi e gabelle, appositamente aumentate per sovvenzionarlo. In alto la facciata di Palazzo Mazzancolli, oggi sede dell’Archivio di Stato, fatto costruire dal vescovo di Terni Ludovico Mazzancolli. A sinistra la chiesa di S. Pietro, la cui costruzione fu avviata nel 1265. Di grande interesse è il campanile, visibile in secondo piano, ornato da bifore e quadrifore e arricchito da una fascia marcapiano in ceramiche policrome.

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Nella pagina accanto Sposalizio mistico di santa Caterina d’Alessandria e i santi Bartolomeo, Francesco, Lucia e angeli, tempera e oro su tavola di Benozzo Gozzoli. 1466. Terni, Museo d’arte moderna e contemporanea «Aurelio De Felice». A destra una suggestiva veduta dal cortile interno di Palazzo Spada, la cui costruzione fu promossa alla metà del Cinquecento da Michelangelo Spada.

Nel XV secolo molti artisti importanti lavorarono a Terni. Benozzo Gozzoli dipinse nel 1466, per l’altare della chiesetta dei Riformati, lo splendido Sposalizio mistico di Santa Caterina, oggi conservato presso il Museo d’arte moderna e contemporanea «Aurelio De Felice». Nel 1485 il Pinturicchio realizzò la Vergine col Divino Infante, poi inserita nel grandioso polittico francescano (sempre alla Pinacoteca Comunale). Nel 1497 Nicolò Fulginate dipinse per il convento di S. Valentino uno stendardo con la Crocifissione e i santi Francesco e Bernardino: i tratti di questa tempera sono disegnati con tale finezza che sembrano usciti dalle mani del Mantegna. Il panno nero dipinto dietro la Croce accresce la sensazione luttuosa, nel contrasto con lo sfondo del luminoso paesaggio umbro. Della stessa epoca anche l’importante Crocifisso scolpito per la chiesa di S. Francesco da Giovanni Teutonico. Al XV secolo appartiene anche quel gioiello d’arte umbra che è Palazzo Mazzancolli, attualmente sede dell’Archivio di Stato, fatto costruire dal vescovo di Terni e amico di Pio II Ludovico Mazzancolli, di cui conserva ancora lo stemma al primo piano. È abbellito da un elegante portico a tre ordini che si affaccia su una piccola corte interna. Alla prima metà del Cinquecento risale uno dei gioielli architettonici della città, Palazzo Spada, progettato da Antonio da Sangallo il Giovane su richiesta del conte Michelangelo Spada, funzionario di papa Giulio III. Originariamente diviso in due ali, ospitava un giardino interno. Di gusto manierista sono gli affreschi che decorano il piano nobile.

Le dimore patrizie

Terni vanta anche molti altri edifici importanti di periodi lontani tra loro, come Palazzo Manassei, che inglobò altre costruzioni trecentesche e quattrocentesche appartenenti alla famiglia Manassei, o Palazzo Carrara, sorto su costruzioni del Trecento e risistemato e affrescato nel Seicento. E poi ancora Palazzo Gazzoli, in via del Teatro Romano (attualmente sede della Pinacoteca e della Regione), invece eretto alla fine del Settecento – su un impianto termale di epoca romana – da una delle famiglie piú facoltose della città, arricchitasi col com-

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mercio. Presenta una corte interna con doppio loggiato e decorazioni a grottesche. Al XVI secolo risale invece il Palazzo Bianchini-Riccardi, affrescato poi nel Settecento con scene della Gerusalemme Liberata. Conserva resti di un mosaico romano, la cinquecentesca tavola della Madonna del Cassero e una serie di maioliche e terrecotte con gli stemmi della famiglia proprietaria, i Rosci. Insieme ai resti delle mura romane, Terni conserva ancora una parte notevole della cinta medievale munita di torri quadrate, di cui erano dotate anche le dimore patrizie: pare che la città potesse vantarne ben 300. Le meglio conservate sono la torre romanica dei Barbarasa, situata in via Roma, e quella dei Castelli (in via Castelli). Si possono poi ammirare ancora Porta Sant’Angelo, che costituiva l’ingresso nord-occidentale della città, e Porta Spoletina, sulla via Flaminia, ingresso settentrionale, entrambe del XIV secolo. Oltre al Duomo di S. Maria Assunta, di origine romanica ma quasi totalmente rifatto nel XVII secolo in stile barocco, e al santuario di S. Valentino, anch’esso barocco e della stessa epoca, la città è punteggiata da numerose piccole chiese (vedi anche il box alle pp. 98-102), due delle quali (S. Alò e S. Salvatore) risalenti all’XI secolo, e le altre al XIII-XIV (S. Francesco, S. Lorenzo, S. Pietro e S. Cristoforo). Per lo piú di dimensioni assai ridotte (con l’eccezione di S. Francesco e S. Lorenzo), si nascondono fra le case, o compaiono all’improvviso alla sommità di una piccola altura (come la splendida S. Salvatore). Nell’oscurità quasi totale degli interni, sugli intonaci ormai grezzi, si scorgono qua e là frammenti di splendidi affreschi duecenteschi che conservano ancora intatte le tonalità cromatiche in tutta la loro freschezza (S. Cristoforo, S. Pietro).

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Storie, uomini e sapori

A tavola con i «ferri» di Sergio G. Grasso

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e illustrazioni dei manoscritti, cosí come alcune tele e affreschi medievali, ritraggono banchetti e tavole ingombre di vivande, vassoi, bicchieri e acquamanili; rari sono i coltelli e sempre in numero minore rispetto a quello dei convitati, ai quali si chiedeva di portare il proprio «ferro» personale, la cui punta acuminata – poiché la forchetta entrò nell’uso comune soltanto nel Settecento (vedi «Medioevo» n. 290, marzo 2021; anche on line su issuu.com) – serviva anche a infilzare i bocconi. Se il coltello era ammesso, il pugnale – un coltello puntuto, affilato da entrambe i lati e decisamente ostile – era bandito dalle tavole dei gentiluomini. Le carni venivano tagliate in cucina o direttamente in sala dai servitori e i commensali si servivano con le mani. Questo spiega la presenza dei numerosi acquamanili e delle brocche d’acqua con cui detergersi le dita dopo aver afferrato e portato al piatto o alla bocca i cibi. Anche per i cucchiai era buona norma avere il proprio, generalmente in legno ma anche in metallo, madreperla, tartaruga o ceramica. Il numero delle posate raggiunse quello dei commensali solo nella seconda metà del Seicento; fino ad allora, come si può notare, per esempio, nelle tele di Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel, i coltelli personali venivano portati in un fodero fissato alla cintura per farne

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Ultima Cena (particolare), tempera su legno, dalla chiesa di Santa Constança a Linya. Secondo quarto del XV sec. Solsona, Museu Diocesà i Comarcal. Spicca la cura con cui l’artista (per alcuni Jaume Ferrer I, per altri Pere Teixidor) ha reso le stoviglie e le posate. uso a tavola o, se necessario, per difesa personale. Il gentiluomo del Quattrocento che si fosse recato a cena fuori casa portava con sé anche il proprio cucchiaio personale, quasi sempre infilato alla cintura, privo di un’apposita custodia: nulla di piú facile, dunque, che perderlo lungo il cammino. Non a caso, nel Bankside di Londra – zona di bordelli e taverne medievali – gli antichi canali di scolo delle acque hanno restituito un gran numero di cucchiai di varia fattura, probabilmente caduti ai passanti che superavano il collettore con un atletico balzo.

A ciascuno il suo Mercanti e viaggiatori possedevano apposite custodie in legno o pelle per il loro «ferro» personale. La lama era quasi sempre dritta o leggermente ricurva, affilata da un solo lato e con punta acuminata idonea a infilzare i cibi. In molte custodie trovavano spazio anche una piccola lima per affilare le lame, un coltellino o stiletto con funzione di stuzzicadenti o temperino e talvolta un cucchiaio in osso o metallo. Le impugnature indicavano lo stato sociale del

proprietario; potevano essere in legno, osso, corno o addirittura in avorio, tartaruga o metallo prezioso, non raramente decorate con pietre dure, monogrammi, stemmi o figure di fantasia. Se i coltelli personali del Medioevo si caratterizzavano per le impugnature piú che per la foggia delle lame, i «ferri» di cucina aprile

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avevano forme piú articolate, ispirate dalle molteplici funzioni svolte dai cucinieri. Il primo grande testo di cucina rinascimentale, l’Opera dell’Arte del cucinare (1570), scritto dal «cuoco secreto» di papa Pio V, messer Bartolomeo Scappi, è impreziosito da ventiquattro xilografie a piena pagina, che illustrano l’architettura

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delle cucine rinascimentali, le piú disparate operazioni che lí si svolgevano e, soprattutto, gli «instromenti, ordigni e masserizie» in uso nell’arte del cuoco cinquecentesco. Tra queste, un’intera tavola è dedicata ai «ferri da taglio» distinti in Coltelli Mastri da Battere, Coltelli da Torta, Smembratori, Coltelli da raschiare

e Coltelli da pasta. Completano la serie due coltelli a lama sottile da disosso e per verdure, assieme a un Ferro per conciare tripe, spedi per uceleti, pilotti per impilottar e due forcine. Le fogge, vistosamente dissimili, erano modernamente ergonomiche, in modo da adattarsi ai diversi utilizzi di cucina. Si notano sensibili

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CALEIDO SCOPIO differenze nelle lame (dritte, curve in alto o in basso, falciate), nelle punte (acuminate, rotonde, mozze, a costa lunata) e nelle immanicature di varia foggia: cilindriche o squadrate, uncinate per migliorare la trazione o dritte per aumentare la percussione, a codolo globulare o piatto da usare come pestello. Lame piú sottili caratterizzano i ferri di precisione (da disosso o intaglio) da quelli «di forza» o «da colpo» usati per battere, spezzare, tritare o smembrare. Tutti i coltelli appaiono forgiati in unico pezzo, con guancette verisimilmente in legno fissate al codolo con rivetti. Oltralpe, fino al Cinquecento, il mondo germanico non brillava per fantasia negli strumenti da mensa, accontentandosi solitamente di lame spartane, dritte o curve, piú o meno grosse. Anche il mondo anglosassone, fino al XVI secolo, sembra concentrato sulle decorazioni delle impugnature piú che sul rapporto forma/funzione delle lame. Dal canto loro, i Francesi dell’epoca, da sempre attenti a quanto succedeva in Italia, non si facevano mancare i coltelli «specialistici», come il parepains, utilizzato per tagliare le larghe fette di pane su cui servire la carne ai commensali, i couteaux crantés o creusés (seghettati), i corti huîtrier o canif (per le ostriche), quelli à beurre per spalmare il burro; distinguevano persino i coltelli pour le grais da quelli pour le maigre, a seconda della natura grassa o magra delle carni. A corte esistevano coltelli per i diversi giorni della settimana e altri destinati a essere usati solo in quaresima, per i matrimoni della casa reale o nei viaggi dei sovrani.

Efficienza made in China Una doverosa digressione merita il piú efficace e antico «ferro da taglio» mai creato: il cleaver cinese o caidao. Si tratta di un coltello pesante in acciaio, dalla lama quadrata e molto larga, con impugnatura corta e sottile. I primi esemplari datano alla cultura di Long-shan (tra il 2000

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Rappresentazione allegorica del peccato di gola dalla Tavola dei Peccati Capitali, olio su tavola di Hieronymus Bosch. 1505-1510. Madrid, Museo del Prado. Spicca il grande coltello appeso alla parete, sopra il desco imbandito. e il 3000 a.C.) ed erano costruiti in ardesia, con l’impugnatura girata verso l’alto a formare una «V» con la lama. Sotto la dinastia Shang (XVI secolo a.C) apparvero i cai-dao in bronzo, in tutto identici agli attuali, salvo il metallo, che cambiò in ferro al carbonio nel III secolo d.C. Tali dovevano essere i coltelli che Marco Polo vide usare due volte: la prima nella città di Caver, dove la madre dei cinque re minaccia di tagliarsi «le poppe dal petto» se i figli non faranno pace tra loro; la seconda, nella provincia di Maabar, in occasione di un suicidio rituale. Il millenario successo di questo coltello sta, oltre che nella qualità del ferro al carbonio utilizzato e nella sua affilatura, anche nel considerevole peso, che lo rende idoneo a tagliare qualsiasi cosa, incluse le ossa; la lama, larga e piatta, è perfetta per tritare, schiacciare, impastare, spalmare, raccogliere e raschiare, mentre il corto manico assicura il completo controllo dello strumento e una notevole forza ed efficacia di taglio. Nelle corti europee il XVI secolo è anche il periodo di maggior popolarità della figura dello «scalco», termine derivato dal longobardo skalk, per servo, incaricato già nel Trecento di trinciare e porzionare le carni al momento di servirle in tavola. Colui che era piú di un semplice servitore ben addestrato all’uso di coltello e forchettone, assurse in breve a mansioni di piú elevata responsabilità e rango, divenendo il coordinatore e il responsabile di tutti i servizi di mensa delle case nobiliari, incluse quelle di «spenditore» per gli approvvigionamenti. Cristoforo Messisbugo, l’autore del meritorio Libro novo nel qual

s’insegna, il modo d’ordinar banchetti et di far d’ogni sorte di vivande (1549), fu scalco-maggiore e amministratore alla corte estense. L’altro grande trattatista gastronomico del Cinquecento, Domenico Romoli, detto il Panunto, che scrisse La singolar dottrina (1560), ricoprí l’incarico di scalco di Papa Leone X. I sofisticati cerimoniali cinquecenteschi trasformarono l’onere in onore, non chiamando al ruolo di «trinciante» un servitore, bensí un personaggio di condizione sociale elevata, conoscitore delle cose aprile

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di cucina, del galateo e della vita di corte, possibilmente anche abile ed erudito conversatore. Si presentava con le forcine e i coltelli poggiati su un tondo, di peltro o d’argento, ricoperti da un tovagliolo; teneva una salvietta sulla spalla sinistra per pulirsi le mani e trinciava le varie carni con forza, abilità e grazia davanti al principe e ai suoi nobili commensali. Usava un coltello per ogni muscolo, tagliava il «tocco di carne» tenendolo sospeso in aria e, alla fine, col dovuto inchino, deponeva i bocconi

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con grazia impeccabile sui piatti dei commensali, spolverandoli di sale, sparso dalla punta del coltello. Alla fine di questo servizio gli era concesso benignamente di «farsi un piatto per la bocca sua».

Una vera e propria arte Indicazioni e suggerimenti sul modo di scalcare carni, pesci, frutta e verdura, compaiono in alcuni trattati quattrocenteschi, come nel manoscritto di Michele Calefino (1466), in cui si espongono i primi rudimenti di quest’arte, ripresi

piú tardi dal Panunto. A onor del vero, già nel 1423, in Spagna, uno dei piú grandi studiosi del Quattrocento iberico, don Enrique de Aragòn, Marchese de Villena (1384-1424), scriveva una sua Arte cisoria o tratado del arte del cortar del cuchillo, che, alla sua morte, scampò fortunosamente al rogo fatto dei suoi libri dall’Inquisizione. Ritrovato e pubblicato per la prima volta solo nel Settecento, il manoscritto originale contiene istruzioni dettagliate per il taglio di diversi tipi di carne e pollame e

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Qui accanto coltello con lama in acciaio e manico in avorio scolpito, di produzione veneziana. XIV sec. New York, The Metropolitan Museum of Art.

dedica un intero capitolo, il quarto, ai coltelli e ai ferri da trinciante, corredandolo di descrizioni sulla forma, la funzione, il corretto impiego. Anche in questo caso non mancano immagini esplicative, copiate dal manoscritto originale.

Istruzioni minuziose Nel 1581, compare a Venezia il primo, vero trattato monografico, Il Trinciante, scritto da Vincenzo Cervio, che ricoprí questo incarico presso il cardinale Alessandro Farnese a Roma. L’opera fornisce istruzioni minuziose per «trinciar fasani, galli d’India, pavoni, quaglie, capponi, lodole, porchette, vaccine, ragoste, trutte, gambari, ostreghe, meloni, pere, torte et crostate», ma si preoccupa anche di indicare «Di qual garbo e di qual tempera si devono fare le forcine e li coltelli» (Cap. VI) e di «Come si nettano le forcine e cortelli e come se li dà il filo» (Cap. VII). Oltre a descrivere con precisione maniacale, tutti i rapporti possibili fra l’utensile e l’operatore, il trattato illustra nei dettagli la forma, la misura e le proporzioni di ogni singolo coltello, corredando la descrizione con preziose incisioni. Quarant’anni piú tardi il maestro di casa dell’Università di Padova, il marchese «bavaro di Mosburc» Mattia Giegher, pubblica Li tre trattati (1621), in cui include il saggio Di che qualità debba essere il trinciante: un’opera forse tardiva e di contenuti meno singolari rispetto alle precedenti, ma preziosa per le accurate incisioni in rame che rappresentano le linee di taglio, la

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A destra tavola con vari tipi di coltello realizzata per l’Opera dell’Arte del cucinare di Bartolomeo Scappi. 1570. Nella pagina accanto miniatura raffigurante due taglialegna che mangiano e hanno tagliato il pane con un grosso coltello, da un’edizione del Tacuinum Sanitatis. Fine del XIV-inizi del XV sec. Vienna, Österreichische Nationalbibliothek. posizione delle mani e, ovviamente, i numerosi e diversi coltelli impiegati. Prima del trionfo della GrandeCuisine francese, l’ultimo esito della rinomata tradizione gastronomica rinascimentale italiana fu un volume dedicato a questo «offiziale di bocca» dal lucchese Antonio Frugoli, per anni major-domus della corte spagnola. Il suo Discorso sul Trinciante poco o nulla aggiunge a quanto scritto fino ad allora, anzi si sforza di compendiare e restaurare i gesti, gli atteggiamenti e gli strumenti propri di un primato tutto italiano, ormai avviato al declino di fronte al portentoso avanzare della scuola francese. Ed è proprio lí che, alla

fine del Seicento, avviene una sostanziale rivoluzione anche nei coltelli da tavola. Spariscono le posate che i convitati si portavano da casa, sostituiti dal servizio di cucchiaio, forchetta e coltello provvisto dall’anfitrione. I coltelli da mensa si accorciano, assumono una punta larga e arrotondata, che dimostra come si fosse persa la funzione di infilzare i cibi per portarli alla bocca, l’impugnatura si riduce in dimensioni, divenendo rotonda oppure ovoidale e solcata da scannellature o solchi per migliorare la presa. Da allora, se si escludono i ghiribizzi e le bizzarrie dei moderni designer, poco è cambiato.

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Lo scaffale Jenny Bawtree Il Ciclo dei Mesi Da Aosta a Otranto, alla scoperta di un tesoro dell’arte medievale italiana prefazione di Salvatore

Settis, Terra Muova Edizioni, Firenze, 220 pp., ill. col.

23,00 euro ISBN 88-6681-587-7 www.terranuovalibri.it

È davvero godibile questo Ciclo dei Mesi di Jenny Bawtree e non si può dunque che concordare con quanto scrive in proposito Salvatore Settis nella lunga Prefazione. Merito principale dell’autrice è l’avere scelto di trattare il tema senza la pretesa di dare alle stampe un saggio critico – anche perché, come scrive, non ne sarebbe «stata all’altezza» –, ma con il desiderio di trasformare in un libro le osservazioni, le impressioni e le suggestioni accumulate in quattro anni di viaggi alla scoperta dei piú importanti, ma non solo, cicli dei mesi attestati in Italia. Ne è cosí scaturita un’opera di taglio divulgativo, ma che proprio da questa connotazione trae la sua efficacia,

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perché, in realtà, il piacere regalato dalla sua lettura finisce con il farci apprendere una mole davvero considerevole di notizie. Dopo la già ricordata Prefazione e un’Introduzione in cui Bawtree riassume la genesi dei cicli e racconta con quali criteri abbia sviluppato il suo progetto, questa sorta di atlante ragionato si apre con le allegorie scolpite sotto l’arco della porta centrale di S. Maria Assunta, ad Arezzo,

codificate: ed è cosí che a luglio si miete, a settembre si vendemmia, in ottobre si riparano le botti… e cosí via. L’occhio attento e curioso dell’autrice indaga, infine, un insolito ciclo realizzato in vetro (custodito nel Museo Amedeo Lia, a La Spezia), per il quale si concede anche una digressione da storica dell’arte, proponendo una diversa identificazione per due delle formelle, finora assegnate a Marzo e ad Aprile. Giovanni Giambalvo Dal Ben e Michela Pereira (a cura di) Le vie di Ildegarda Saperi, contemplazione, cura prefazione di Dom Laurence

per poi passare ad alcune delle piú felici espressioni dell’arte medievale italiana, vale a dire i cicli realizzati da Wiligelmo a Modena e da Benedetto Antelami a Parma. Fin dall’inizio, a fare da filo conduttore, è il costante gioco dei richiami e dei confronti, sottolineando come le personificazioni di ciascun mese, salvo eccezioni particolari, fossero state chiaramente

Freeman OSB, Gabrielli Editori, San Pietro a Cariano (VE), 272 pp.

18,00 euro ISBN 78-88-6099-441-7 www.gabriellieditori.it

Il volume costituisce la pubblicazione di un ciclo di seminari

svoltisi a Firenze nel 2019 e si inserisce nella scia delle molte iniziative promosse negli ultimi anni per effetto della rinnovata attenzione nei confronti di Ildegarda di Bingen. Una protagonista dell’età di Mezzo, alla quale va certamente stretta la tradizionale definizione di «mistica», se consideriamo l’ampiezza dei suoi interessi e le molte discipline frequentate con successo. Una poliedricità ribadita dai contributi riuniti nel libro, attraverso i quali si coglie la capacità della benedettina tedesca di affiancare alle speculazioni religiose i componimenti musicali, la filosofia e molto altro ancora. François Bœspflug Il giorno di Pasqua nell’arte Gli incontri del Risorto Jaca Book, Milano, 180 pp., ill. col.

70,00 euro ISBN 978-88-16-60641-8 www.jacabook.it

La Pasqua è, per i cristiani, la massima solennità dell’anno liturgico e, di conseguenza, l’evento ha costituito uno dei temi piú frequentati dagli artisti d’ogni tempo. Da questi

presupposti prende le mosse il volume di François Bœspflug, che sviluppa la trattazione seguendo lo svolgersi degli eventi cosí come sono stati raccontati dai Vangeli canonici, ma senza tralasciare le varianti riportate da quelli apocrifi. È opportuno precisare che l’ambito cronologico abbraccia anche l’arte moderna, ma le opere ascrivibili al Medioevo costituiscono comunque una presenza significativa, da cui nasce la scelta di segnalare il libro in queste pagine. Le testimonianze dell’età di Mezzo sono peraltro quelle in cui piú variegata è la gamma dei supporti e, oltre che in forma di pitture, offrono le declinazioni dei diversi episodi su miniature, avori e mosaici. Tratto comune e ricorrente è invece la resa dei sentimenti suscitati dalla risurrezione del Signore, in un alternarsi e succedersi di stupore, incredulità e gioia. (a cura di Stefano Mammini) aprile

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Note... bestiali MUSICA • Creature reali e

fantastiche si rincorrono in tutte le arti del Medioevo. E la musica non si sottrae alla regola, come prova una recente e accattivante antologia

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on un programma incentrato su ballate, chanson e madrigali, l’Ensemble Dragma si cimenta con un tema accattivante: il bestiario musicale. Grande, infatti, è stato il fascino esercitato nel Medioevo dal mondo animale, reale o d’invenzione. I cosiddetti bestiari, che spesso traggono notizie da fonti antiche e/o mitologiche, narrano di animali fantastici d’ogni sorta: una fauna che popola le miniature e gli arazzi, senza contare le innumerevoli testimonianze lasciate nell’architettura. Se molteplici sono dunque le manifestazioni della fauna nelle arti figurative – ma la musica non è da meno –, altrettanto ricorrenti sono i simbolismi legati ad alcuni degli animali piú ritratti, a testimonianza di come questi fossero percepiti nell’età di Mezzo. Songs of Beasts si sofferma sulla produzione arsnovistica del secondo Trecento, di area francese e italiana, un periodo di grande fioritura e durante il quale si affinano ulteriormente i generi musicali citati in apertura, preparando la strada all’umanesimo musicale del secolo successivo. Le composizioni riunite nell’antologia si raccolgono attorno ad alcune tematiche principali. In primis, l’uso della «bestia» come simbolo araldico, a omaggiare una città o un casato: è il caso della pantera, simbolo della città di Lucca, citata nel virtuosistico brano Una panthera di Johannes Ciconia che apre la raccolta, ovvero l’anonimo Aquila altera, in cui si celebra la casata dei Visconti. Quattro brani sono dedicati all’ars venandi, con una scelta di autori tra i piú significativi dell’ars nova: Paolo da Firenze, Jacopo da Bologna, Francesco Landini e, nuovamente, Ciconia, che descrivono rispettivamente un uccello pellegrino, uno sparviero, una «fera selvaggia» e i segugi. La caccia è un tema molto frequentato nella

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Songs of Beasts Ensemble Dragma Ramée (RAM 1901), 1 CD www.outhere-music.com letteratura medievale e che qui si fonde con i temi amorosi, in un eterno rincorrersi di corteggiamenti e rifiuti da parte di riottosi amanti.

Simbolo di resurrezione Ispirato alla mitologia greca è il brano di Magister Franciscus (Phiton, Phiton), che narra della lotta tra Febo e Pitone, il drago-serpente già cantato da Guillaume de Machaut in un suo celebre brano, che ha ispirato lo stesso Franciscus; e, ancora, l’araba fenice, che rinasce dalle sue ceneri, di Jacopo da Bologna (Fenice fu), un tema caro agli autori medievali, che in quella mitica creatura vedono il simbolo della resurrezione cristiana. Altri rettili, animali temuti e legati a un simbolismo sostanzialmente negativo sono i protagonisti di brani di Machault (Une vipere), in cui il serpente è paragonato a una dama dal cuore freddo e insensibile alle avances dell’amante, e Donato da Firenze, con L’aspido sordo. Di recente formazione, l’Ensemble Dragma, specializzatosi nel repertorio tardo-medievale, è formato da tre componenti: Aniezka Budzinska (voce e arpa), Jane Achtman (viella) e Marc Lewon (liuto, viella e voce). Tre interpreti di grande bravura, che si producono in brani virtuosistici con grande naturalezza, a dispetto delle difficoltà ritmicomelodiche che li contraddistinguono. Franco Bruni aprile

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