Medioevo n. 285, Ottobre 2020

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MEDIOEVO n. 285 OTTOBRE 2020

DO B VE EV RI IL MAG NA ED N SC IO A E EV O

EDIO VO M E UN PASSATO DA RISCOPRIRE

www.medioevo.it

DOSSIER

LA STORIA E I LUOGHI

GENOVA E VENEZIA ALLA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO MEDIOEVO NASCOSTO FRANCESCANI A ROCCAMONFINA

INCONTRO CON CHIARA FRUGONI

€ 5,90

www.medioevo.it

LE PAURE DELL’UOMO MEDIEVALE

IN EDICOLA IL 2 OTTOBRE 2020

Mens. Anno 24 numero 285 Ottobre 2020 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

VENEZIA CONTRO GENOVA LA PAURA NEL MEDIOEVO GAITA DI SAN GIOVANNI ROCCAMONFINA DOSSIER FERRARA

FERRARA



SOMMARIO

Ottobre 2020 ANTEPRIMA MEDIOEVO INVENTORE Quel guerriero vale un tesoro

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BIBLIOTECHE Un laboratorio del sapere

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APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese

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STORIE ESCLUSIVA

Genova e Venezia

In lotta per il Mediterraneo di Antonio Musarra

STORIE

CALEIDOSCOPIO

Fra terrore e speranza

STORIE, UOMINI E SAPORI L’unione fa la zuppa 108

La paura nel Medioevo 26

intervista a Chiara Frugoni, a cura di Furio Cappelli

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COSTUME E SOCIETÀ BEVAGNA

I mestieri del Medioevo

Datemi uno straccio... di Bruno Caldarelli

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FERRARA

LUOGHI MEDIOEVO NASCOSTO

di Furio Cappelli

Francescani a Roccamonfina di Corrado Valente

100

46

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Dossier

La città del santo cavaliere

Campania

26

LIBRI Lo scaffale

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B

D E IL OVE VA M R G ED IN N IO AS A EV CE O

MEDIOEVO n. 285 OTTOBRE 2020

MEDIOEVO UN PASSATO DA RISCOPRIRE

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DOSSIER

LA STORIA E I LUOGHI

GENOVA E VENEZIA ALLA CONQUISTA DEL MEDITERRANEO MEDIOEVO NASCOSTO FRANCESCANI A ROCCAMONFINA

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VENEZIA CONTRO GENOVA LA PAURA NEL MEDIOEVO GAITA DI SAN GIOVANNI ROCCAMONFINA DOSSIER FERRARA

FERRARA

22/09/20 10:10

MEDIOEVO Anno XXIV, n. 285 - ottobre 2020 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Alessandria, 130 - 00198 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato Amministrazione amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Bruno Caldarelli è cultore della storia delle Gaite di Bevagna. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Furio Cappelli è storico dell’arte. Francesco Colotta è giornalista. Chiara Frugoni è storica del Medioevo. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Tommaso Mammini è laureato in storia presso «Sapienza» Università di Roma. Antonio Musarra è ricercatore in storia medievale presso «Sapienza» Università di Roma. Amedeo Spagnoletto è direttore del MEIS-Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara. Corrado Valente è architetto. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 40/41, 42, 48/49, 75, 80-81, 84-85, 91, 92-93, 98 (alto) – Doc. red.: pp. 5, 27, 30-35, 42/43, 55, 56-57, 58, 62, 89, 94/95, 95 (alto), 96 – Cortesia Ufficio Stampa Gallerie Estensi, Modena: pp. 6-8, 12 – Mondadori Portfolio: Electa/Sergio Anelli: pp. 28/29; AKG Images: pp. 37, 38/39, 99, 108/109, 112; Electa/Antonio Quattrone: pp. 50/51; Album/Oronoz: pp. 54, 110/111; Erich Lessing/ Album: p. 82; Album/The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 109; Album: p. 110 – Bridgeman Images: pp. 36/37 – Cortesia Opera della Primaziale Pisana, Pisa: pp. 46/47, 52/53 – Oskar Cecere: p. 48 – Cortesia Ente Gaite, Bevagna: A. Bertani: pp. 60/61, 66-67, 68/69; L. Bourbon Spin: pp. 62/63; S. Preda: pp. 65, 71, 72/73; A. Firmalli: p. 69; D. De Laurentiis: pp. 70/71 – Marka: AGE Fotostock: pp. 76/77 – Alamy Stock Photo: pp. 78/79 – Furio Cappelli: pp. 83, 86-87, 88, 88/89, 90, 98 (basso) – Comunità ebraica di Ferrara: Andrea Pesaro: p. 95 (basso) – Da: https://web.nli.org.il/ (The National Library of Israel): pp. 96/97, 97 – Cortesia Corrado Valente: pp. 100/101, 102 (alto e basso, a sinistra), 102/103, 103, 104-107 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 77, 102. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Roto3 Industria Grafica srl via Turbigo 11/B - 20022 Castano Primo (MI) Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a: Direct Channel SpA Casella Postale 97 - Via Dalmazia, 13 25126 Brescia (BS) L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina Ferrara, il Castello Estense, noto anche come Castello di San Michele.

Prossimamente protagonisti

Cola di Rienzo, tribuno sognatore

parma

Le meraviglie di Benedetto Antelami

l’inchiesta

Il Medioevo era globalizzato?


MEDIOEVO INVENTORE a cura di Federico Canaccini

Quel guerriero vale un tesoro

I

l 2 luglio 2019, la sede londinese della casa d’aste Sotheby’s ha venduto per ben 735 000 sterline (pari a poco meno di 800 000 euro) un pezzo intagliato in zanna di tricheco raffigurante un guerriero, alto 9 cm circa, il cui vecchio proprietario aveva acquistato da un antiquario per appena 5 sterline! Una simile «rivalutazione» si spiega con il fatto che l’oggetto è stato riconosciuto come il 94° pezzo della cosiddetta «Scacchiera di Lewis», un insieme di pedine da scacchi e altri pezzi da backgammon, ricavati da fanoni di balena o zanne di tricheco e rinvenuti nel 1831, sull’isola di Lewis (Ebridi, Scozia). In quegli anni il regolamento degli scacchi andava consolidandosi e il gioco riscuoteva sempre piú successo in tutta Europa. Cinque anni dopo la scoperta di Lewis, Louis Charles de La Bourdonnais fondò la prima rivista scacchistica, Le Palamède, mentre a Oxford, nel 1845, veniva inaugurato il primo club accademico. Sei anni piú tardi, a Londra, nasceva il primo torneo internazionale grazie allo sforzo di Howard Staunton, al quale si deve anche il design piú diffuso al mondo degli scacchi moderni. Pare che il gioco sia stato inventato in India, verso il VI secolo d.C., quando l’impero Gupta crollava sotto l’invasione degli Unni Eftaliti: non è però da escludere che gli scacchi derivino, a loro volta, dal ciaturanga,

gioco inventato nel I secolo d.C., allo scopo di simulare una battaglia in miniatura. Il gioco fu esportato nel Medio Oriente persiano, poi presso gli Arabi (inclusa la Spagna) e infine nell’ Europa cristiana, verso il IX secolo. I pezzi (e i nomi) variavano a seconda della società in cui si giocava: in India, per esempio, vi erano un re (raja) e un generale (mantri), un corpo di fanti (8 padati), due cavalieri (asva), due elefanti (hasti) e due carri da guerra (ratha). Quando giunsero in Persia e in Arabia, le regole rimasero invariate, ma i nomi mutarono: il raja divenne lo shah (da cui scacco), il mantri fu sostituito dal firz, i padati furono tradotti in baidaq, gli hasti in fil, e ratha divenne rukhkh. E cosa dire dei pezzi di Lewis, attribuibili a una manifattura normanna e databili alla fine del XII secolo? Come i Persiani e gli Arabi, gli Europei si limitarono a tradurre i nomi dei pezzi che corrispondevano a qualcosa di noto: re, cavallo, pedone. Invece, per i nomi e i pezzi inintelligibili, si sbizzarrirono, dando luogo a divertenti e variegate alterazioni. Il generale (firz) divenne, in francese, fierce e poi vierge (vergine), dando cosí vita alla regina. Il carro da guerra (ratha e poi rukhkh) è oggi la torre, per assonanza della parola araba rukh con l’italiana rocca. L’elefante (fil), ignoto ai piú, divenne alfil in spagnolo e alfiere in italiano, vicino al medievale alphinus, mentre in Francia si diffuse la denominazione di fol, poi fou, nel senso di buffone. L’odierna denominazione inglese di questo pezzo con bishop (vescovo) sarebbe da attribuire addirittura a un’identificazione delle stilizzate zanne del pachiderma niente meno che... con una mitria episcopale! Pezzi degli scacchi di Lewis, dall’omonima isola scozzese. Manifattura normanna, fine del XII sec. A sinistra, alcuni dei pezzi custoditi nel British Museum, a Londra; a destra, il guerriero venduto all’asta nel 2019.

MEDIOEVO

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ANTE PRIMA

Un laboratorio del sapere BIBLIOTECHE • A coronamento di tre anni di

lavoro, il prezioso patrimonio della Biblioteca Estense Universitaria di Modena è ora accessibile on line. Una risorsa inestimabile, i cui fondi, oltre che essere consultati e studiati, possono essere integrati con nuovi studi e acquisizioni

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e la consultazione di un manoscritto può sembrare cosa ardua e laboriosa, limitata a esperti e a un mondo esclusivo, dallo scorso giugno il fondo della Biblioteca Estense Universitaria di Modena è accessibile fino all’ultima miniatura e, purtroppo o per fortuna, non sarà necessario recarsi a Palazzo dei Musei, ma basterà un click. Circa 700 mila pagine di manoscritti, libri antichi, mappe, spartiti musicali e scritti vari sono state, infatti, digitalizzate e rese disponibili on line a tutti, senza alcun costo o impegno, ma semplicemente connettendosi al sito dell’Estense Digital Library. Tale processo di digitalizzazione, lungamente auspicato dal Manifesto dell’Associazione

In alto una pagina della Biblia Latina (Bibbia di Borso d’Este), manoscritto miniato in due volumi eseguito da un gruppo di artisti diretto da Taddeo Crivelli e da Franco dei Russi. 1455-1461. A sinistra una pagina della Collectio antiquitatum, una raccolta di epigrafi e antichità del Rinascimento dedicata a Malatesta Novello dal medico e antiquario di fiducia Giovanni Marcanova. 1465.

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A destra Richard Mique, Recueil des plans du Petit Trianon. 1786. In basso mappa disegnata da Alberto Cantino, tra le prime con le coste del «nuovo» continente americano. Acquisita da Ercole I d’Este nel 1502. Italiana Biblioteche, ha richiesto tre anni di lavoro e permette oggi, in tempi di distanziamento fisico e ripensamento della fruizione della cultura, di venire incontro a un bisogno fondamentale del cittadino: il libero accesso alle biblioteche.

Gli elementi chiave Trattandosi di una biblioteca di conservazione e non di consultazione, il poter accedere alla quasi totalità delle opere custodite presso la Biblioteca Estense rappresenta un grande passo in avanti per lo studio e l’arricchimento culturale di un pubblico piú ampio. Due sono gli elementi chiave dell’Estense Digital Library: l’essere completamente open data e il basarsi sul crowdsourcing. In tal modo, non solo l’incompletezza dei dati di molte opere può essere colmata dallo studio e dall’analisi di accademici di tutto il mondo, ma gli utenti meno esperti possono partecipare

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ANTE PRIMA

In alto carta catalana. 1450-1460.

attivamente alla «vita» della biblioteca. Se da un lato si risponde a una necessità accademica, dall’altro si contribuisce attivamente a rendere accessibile e condivisibile un bene troppo spesso elitario, anche semplicemente attraverso i propri profili social. Tale approccio è ben definito da Martina Bagnoli, Direttore delle Gallerie Estensi, che ha diretto il progetto di digitalizzazione: «Vogliamo che la comunità si interessi alle nostre collezioni e ci aiuti a studiarle» e che l’Estense Digital Library rappresenti una «biblioteca che non è piú chiusa in sé stessa (…), ma mette a disposizione i propri dati in modo trasparente e si pone in relazione e in dialogo con il mondo esterno che ascolta

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e a cui partecipa». L’accessibilità è la chiave dell’Estense Digital Library e i responsabili del progetto confidano nell’interesse di studiosi a livello mondiale, i quali potranno certamente contribuire a fare luce sul patrimonio della biblioteca, del quale si conosce approfonditamente soltanto il fondo di Ludovico Antonio Muratori.

Una scelta inedita

In alto, a sinistra e qui sopra frontespizio e una pagina de La lira armonica. Sinfonie a 2 violini col suo basso continuo. Op.2, di Giuseppe Colombi. 1673.

Un’apertura del genere allo studio dei materiali e alla comunità scientifica tutta è un qualcosa di insolito, ma è esattamente ciò che caratterizza il progetto: «L’obiettivo (…) è quello di invitare tutti gli interessati a studiare le nostre collezioni. In questo modo la Biblioteca si presenta come laboratorio e non come fonte indiscutibile del sapere», come afferma ancora Martina Bagnoli. A rendere ancor piú un unicum, almeno nel panorama italiano, l’Estense Digital Library è il protocollo IIIF (International Image Interoperability Framework), utilizzato per la digitalizzazione del patrimonio, uno standard riconosciuto a livello mondiale per la condivisione in rete di documenti digitalizzati. Grazie all’IIIF, tutte le immagini e i loro metadati saranno (segue a p. 12) ottobre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

Gli allori di Paestum

INFORMAZIONE PUBBLICITARIA

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iunto alla 6ª edizione, l’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad», il Premio in collaborazione con «Archeo» intitolato all’archeologo di Palmira che ha pagato con la vita la difesa del patrimonio culturale, sarà conferito a Daniele Morandi Bonacossi, direttore della Missione Archeologica Italiana in Assiria-Progetto Archeologico Regionale Terra di Ninive e ordinario di archeologia e storia dell’arte del Vicino Oriente Antico dell’Università di Udine, per la scoperta in Iraq, nel Kurdistan, presso il sito di Faida, a 50 km da Mosul, di dieci rilievi rupestri assiri raffiguranti gli dèi dell’antica Mesopotamia. Il Premio «Paestum Archeologia», istituito nel 2005 e intitolato a Mario Napoli dal 2018, viene assegnato per aver contribuito alla valorizzazione del patrimonio culturale, alla promozione del turismo archeologico e al dialogo interculturale; per il 2020 sarà consegnato: • a Gabriella Battaini-Dragoni, Vice Segretario Generale del Consiglio d’Europa, artefice dello sviluppo del «Programma degli Itinerari Culturali Europei», oggi ben 38, e della costituzione dell’Istituto Europeo degli Itinerari Culturali, insediato a Lussemburgo nel 1998; • all’ICOM Italia, l’organizzazione internazionale, associata UNESCO, dei musei e dei professionisti museali impegnata a preservare, ad assicurare la continuità e a comunicare il valore del patrimonio culturale e naturale mondiale, attuale e futuro, materiale e immateriale; • all’ICOMOS Italia, l’organizzazione internazionale non-governativa, organo consultivo dell’UNESCO, dedicata alla conservazione e alla tutela dei monumenti, degli edifici e dei siti del patrimonio culturale; • a Enrico Ducrot, Willy Fassio e Maurizio Levi, titolari dei Tour Operator specializzati nel turismo archeologico. Il Premio di Archeologia Subacquea «Sebastiano Tusa» sarà invece assegnato: • quale riconoscimento alla carriera, a Xavier Nieto Prieto, vice presidente del Consejo Consultivo Científico y Técnico de la UNESCO para la Convención 2001 sobre el

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Patrimonio Cultural Subacuático; • per la migliore mostra per la valenza scientifica internazionale, a Paolo Giulierini, direttore del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, per l’ideazione, promozione e realizzazione della mostra «Thalassa. Meraviglie sommerse dal Mediterraneo»; • per il progetto piú innovativo a cura di istituzioni, musei e parchi archeologici, a Franco Marzatico, Soprintendente per i Beni Culturali della Provincia Autonoma di Trento, per la progettazione e realizzazione del Parco Archeo Natura di Fiavé; • per il miglior contributo giornalistico in termini di divulgazione, a Donatella Bianchi, Giornalista RAI conduttrice di «Lineablu» per la sua pluridecennale attività di giornalista dedita alla diffusione della conoscenza del Mar Mediterraneo. Inoltre, nell’ambito della 1ª Conferenza Mediterranea del Turismo Archeologico Subacqueo, sarà conferita una Targa alla memoria di «Claudio Mocchegiani Carpano», riservata agli studenti universitari che hanno svolto la migliore tesi di laurea sull’archeologia subacquea o sul turismo archeologico subacqueo. Il riconoscimento vuole ricordare Claudio Mocchegiani Carpano, decano dell’archeologia subacquea e artefice nel 1986 della creazione dello STAS, Servizio Tecnico Archeologia Subacquea. Infine, il Premio «Antonella Fiammenghi» sarà riconosciuto al laureato che ha svolto la migliore tesi sul «Turismo Archeologico» o sulla «Borsa Mediterranea del Turismo Archeologico». Il Premio istituito nel 2007 nel ricordo di Antonella Fiammenghi, Direttore del Parco Archeologico di Velia, vuole essere un riconoscimento per quanti divulgano il Turismo Archeologico e la Borsa attraverso l’impegno universitario. Per informazioni: www.bmta.it Daniele Morandi Bonacossi (nella foto) è il vincitore della 6ª edizione dell’International Archaeological Discovery Award «Khaled al-Asaad». ottobre

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ANTE PRIMA A sinistra una tavola della Sphaerae coelestis et planetarum descriptio (De Sphaera), un commentario al trattato medievale De Sphaera Mundi di Giovanni Sacrobosco, miniato e decorato su pergamena per la corte sforzesca di Milano. 1470 circa. Qui accanto una pagina dello spartito del Trattenimento musicale sopra il violoncello a solo di Domenico Galli. XVII sec.

condivisibili e aggregabili da chiunque, consentendo agli studiosi di comparare, esportare e analizzare a fondo ogni documento a fini scientifici e, allo stesso tempo, a un pubblico piú ampio di appassionati di creare una propria lista di interessi, editare e condividere. Per conoscere a fondo le funzionalità dello standard IIIF utilizzato dall’Estense Digital Library è stato prodotto un video tutorial, a cura di Andrea Zanni, disponibile su YouTube. Non è stata tuttavia un’operazione puramente tecnologica. La riuscita del progetto, durato circa tre anni, di cui circa un anno e mezzo solamente per la digitalizzazione e l’inserimento dei metadati e che vede ora 30TB circa di materiale disponibile, è da attribuire a diversi attori tra pubblico e privato. Tra questi, la Fondazione Modena, che ha finanziato il progetto tramite AGO Modena Fabbriche Culturali, e il Centro di ricerca per le digital humanities DHMoRe

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dell’Università di Modena e Reggio Emilia, grazie a tre assegnisti di ricerca del Dipartimento di studi linguistici che si sono occupati di studio e catalogazione del materiale digitalizzato.

Facilità di utilizzo A un primo impatto, la piattaforma dell’Estense Digital Library appare radicalmente diversa da una biblioteca fisica, ma ciò che stupisce è la facilità di utilizzo e la possibilità di interazione con le fonti. Come per consultare o prendere in prestito libri in biblioteca, anche qui per usufruire di tutte le funzioni è necessario registrarsi. Una volta all’interno di un documento, è possibile non solo sfogliarne le pagine, ma anche apportare annotazioni, ritagliare immagini chiave, ingrandire fino al minimo dettaglio e condividere il proprio lavoro pubblicamente. Inoltre, grazie alla funzione delle «storie», l’utente potrà creare sequenze di documenti

personalizzate, accessibile come un vero e proprio sito a parte e condivisibile tramite social network. Il contributo dell’Estense Digital Library al patrimonio artistico e culturale italiano e mondiale è innegabile, cosí come il suo potenziale in termini di informazioni per produrre conoscenza. Certamente «sfogliare» un documento on line non avrà mai lo stesso fascino dello sfogliare un documento dal vivo con le proprie mani, ma in termini di accessibilità è un qualcosa di impareggiabile. Inoltre, trattandosi di una piattaforma digitale, essa è in continua evoluzione, e cosí è già stata prevista una seconda fase del progetto. Tramite un bando da 300 000 euro circa e una campagna di fundraising per arrivare ai 700 000 euro circa necessari, la seconda fase sarà incentrata sulla digitalizzazione di manoscritti e libri illustrati dell’Antico Fondo Estense. Tommaso Mammini ottobre

MEDIOEVO



ANTE PRIMA

IN EDICOLA

L’ITALIA DEI COMUNI di Jean-Claude Maire Vigueur, Alessandro Barbero e Furio Cappelli

D

Dossier

L’ ITALIA DEI

COMUNI

LA STORIA

I PROTAGONISTI

L’EREDITÀ

Cappelli , Alessandro Barbero e Furio di Jean-Claude Maire Vigueur

LO/MI. L. 46/2004, art. 1, c.1, . - D.L. 353/2003 conv.

MEDIOEVO DOSSIER

MEDIOEVO

- Poste Italiane Sped. in A.P Timeline Publishing Srl

CO A M TLA UN N I M TE ED DEI IEV AL I

alla fine dell’XI a tutto il XIV secolo, numerosi Comuni della Penisola sfidarono re e imperatori, decisi a conquistare spazi sempre maggiori di autogoverno politico. Si delineava un fenomeno di portata rivoluzionaria, che incise profondamente nella storia della civiltà europea. Ma come nacque l’epopea comunale? La tesi piú ricorrente associa la genesi di questa nuova istituzione politica all’ascesa di una dinamica classe mercantile, il cui crescente volume di traffici richiedeva metodi di amministrazione locale adeguati alle proprie esigenze. L’Italia vide prosperare tanti piccoli «Stati forti», composti da istituzioni efficienti, che non produssero soltanto un nuovo modello politico: i centri cittadini, infatti, divennero oggetto di radicali interventi architettonici e urbanistici. Si progettarono ampie piazze, si disegnarono tracciati viari piú regolari e di agevole percorrenza, crebbero le cinte murarie, mentre i ricchi mercanti scelsero per le proprie abitazioni uno sviluppo in altezza, cosí da esibire il prestigio acquisito. Una vicenda che il nuovo Dossier di «Medioevo» ripercorre in tutti i suoi passaggi piú salienti, tra splendide identità urbanistiche che sfoggiano ancora i segni della propria, antica, aspirazione…

GLI ARGOMENTI

• LA MILITIA Tutto cominciò con i milites • LA NOBILTÀ URBANA Poteri di famiglia

La sottomissione dell’imperatore Barbarossa a papa Alessandro III, dipinto di Federico Zuccari. 1582. Venezia, Palazzo Ducale, Sala del Maggior Consiglio.

• IL REGIME PODESTARILE È arrivato il podestà

• LA LEGA LOMBARDA Uniti contro l’impero

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2020 Rivista Bimestrale N°40 Settembre/Ottobre

L’ITALIA DEI COMUNI

E 2020 IN EDICOLA IL 15 SETTEMBR

• I REGIMI POPOLARI Cittadini alla riscossa

• ATLANTE DELL’ITALIA COMUNALE 03/09/20 11:46

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MEDIOEVO



AGENDA DEL MESE

a cura di Stefano Mammini

Mostre

monumenti, delle zone e degli spazi, della cinta muraria, della rete degli acquedotti e delle porte urbane. info tel. 0424 519 940; e-mail: info@museibassano.it; www.museibassano.it; social: #museibassano, #piranesibassano

FIRENZE STORIE DI PAGINE DIPINTE. MINIATURE RECUPERATE DAI CARABINIERI Palazzo Pitti, Sala delle Nicchie fino al 4 ottobre

Antichi manoscritti miniati, pagine e miniature ritagliate, provenienti dalle numerose istituzioni religiose italiane, trafugati e in seguito recuperati dal Nucleo Tutela del Patrimonio, celebrano il lavoro svolto negli anni dai Carabinieri dell’Arte, richiamando l’attenzione sulla fragilità estrema del nostro patrimonio storico artistico e sulla necessità della tutela e della corretta conservazione. Il percorso espositivo presenta una serie di «casi di studio» esemplari, che documentano i diversi metodi per ricostruire la

URBINO BALDASSARRE CASTIGLIONE E RAFFAELLO. VOLTI E MOMENTI DELLA VITA DI CORTE Palazzo Ducale, Sale del Castellare fino al 1° novembre

caratteristiche peculiari di questi gruppi di codici rispetto al percorso della storia della miniatura, di ognuno si evidenzieranno le pagine recuperate e, se ve ne sono, quelle ancora da ricercare. info www.uffizi.it BASSANO DEL GRAPPA GIAMBATTISTA PIRANESI. ARCHITETTO SENZA TEMPO Palazzo Sturm fino al 19 Ottobre

storia di questi oggetti, spesso manomessi per favorirne il commercio illegale: grazie a indizi anche minimi, avvalendosi di competenze interdisciplinari, è possibile ricollegare questi oggetti dispersi al loro contesto fisico e geografico di appartenenza. Oltre a spiegare le

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La città di Bassano del Grappa ha voluto omaggiare il genio di Giambattista Piranesi in occasione del terzo centenario della sua nascita (4 ottobre 1720), accogliendone le opere nelle sale restaurate di Palazzo Sturm. Disegnatore, incisore, antiquario e architetto, Giambattista Piranesi è considerato il piú grande esponente dell’incisione veneta del Settecento. La sua attività ha influenzato non solo architetti, ma anche

scenografi e pittori oltre che lasciare un forte impatto anche sulla fantasia letteraria. Per la prima volta, i Musei Civici di Bassano del Grappa espongono al pubblico il corpus completo di incisioni piranesiane presenti nelle collezioni permanenti cittadine. Un insieme che comprende le piú celebri Vedute di Roma: tavole raffiguranti i monumenti antichi realizzate dall’artista nell’intero arco della sua vita. A queste si aggiungono i quattro tomi delle Antichità Romane, preziosi volumi che costituiscono il fulcro della visione archeologica di Piranesi. Fondamentali per l’intera opera piranesiana e, allo stesso tempo, punto di partenza per le opere successive di argomento analogo e complementare, queste tavole forniscono un quadro unitario organico della città di Roma attraverso l’individuazione dei

Nelle Sale del Castellare del Palazzo Ducale di Urbino viene raccontata, in modo del tutto originale, la vicenda di un uomo che fu figura centrale del Rinascimento europeo. Baldassarre Castiglione, mantovano d’origine ma urbinate d’adozione, è noto per il suo Cortegiano, opera che, tradotta nelle principali lingue dell’epoca, forní «il» modello di comportamento per l’alta società dell’intero continente. Ma circoscrivere la figura del Castiglione a questa pur celeberrima opera sarebbe

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limitante. Come la mostra evidenzia, la sua fu una figura di intellettuale finissimo, vicino a grandi artisti, Raffaello in primis, ma anche a scrittori, intellettuali, regnanti e papi, attento politico, incaricato di ambascerie tra e piú delicate del suo tempo. Uomo che sfuggí a intrighi, che seppe muoversi in modo accorto in un periodo storico complessissimo. Attingendo alla fonte imprescindibile delle sue Lettere, il progetto espositivo ha il merito di ricostruire l’intera vicenda del Castiglione ponendola nel contesto del suo tempo, accanto a figure altrettanto complesse e affascinanti come quelle di Guidobaldo da Montefeltro, Duca di Urbino, di Leone X, dei Medici, degli Sforza, dei Gonzaga e di Isabella d’Este «prima donna del mondo», dell’Imperatore Carlo V e di artisti – Raffaello innanzitutto, ma anche Leonardo, Tiziano, Giulio Romano… –, di fini intellettuali come Pietro Bembo e di studiosi come Luca Pacioli. Il percorso si articola in sette sezioni fitte di opere importanti, utili a dare la dimensione dell’epoca raccontata. Integrate attraverso soluzioni multimediali che ampliano il racconto, offrendo ulteriori chiavi di lettura, agendo su immagini e stimoli visivi ed emotivi. La mostra si propone come un vero e proprio scrigno d’arte, ma anche di arti applicate, presentando abiti per feste, tornei e parate, armi, antiche edizioni e manoscritti, e poi la musica, per citare solo alcuni dei temi approfonditi. Naturale complemento dell’esposizione sono il Palazzo Ducale dei Montefeltro e l’intera città di Urbino, contenitori e, al contempo, contenuto di un evento

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ottobre

che fa della corte urbinate uno dei suoi punti di interesse fondamentali. info www.vieniaurbino.it ROMA LA LEZIONE DI RAFFAELLO. LE ANTICHITÀ ROMANE Villa di Capo di Bove sull’Appia Antica fino al 29 novembre

L’esposizione presenta attraverso dipinti, incisioni, libri e disegni alcuni contenuti della lettera scritta dall’Urbinate a papa Leone X nel 1519: parole che hanno originato un nuovo sguardo sugli antichi reperti e provocato una rivoluzione umanistica e scientifica. La rassegna si articola intorno a due focus. Il primo è la fortuna della Lettera, la quale rivive nella storiografia, nella letteratura, nella produzione figurativa del XIX secolo, divenendo un testo di riferimento per le politiche di tutela delle nazioni europee. Il secondo è l’attività di rilievo e catalogazione dei monumenti antichi svolta dal maestro e dai suoi discepoli, in particolare da Pirro Ligorio. Quest’ultimo, architetto e studioso napoletano, è stato un fondamentale interprete della lezione raffaellesca e ha tradotto in disegni

architettonici e appunti grafici i sepolcri antichi collocati lungo la regina viarum e la via Latina. A partire dal celebre scritto – riprodotto su uno schermo che ne consente lo sfoglio e l’ascolto – le opere in mostra raccontano la consacrazione internazionale di Raffaello come padre della moderna cultura della tutela del patrimonio monumentale, archeologico e artistico. info tel. 06 477881; www. parcoarcheologicoappiaantica.it CLASSE (RAVENNA) TESORI RITROVATI. IL BANCHETTO DA BISANZIO A RAVENNA Museo Classis Ravenna fino al 20 dicembre (prorogata)

I ceti dirigenti della tarda antichità hanno molti modi per autorappresentarsi. Uno dei principali è commissionare

oggetti preziosi ad artigiani specializzati. Un settore di grande prestigio è quello dell’argenteria: coppe, boccali, posate e grandi piatti sono tra gli oggetti piú richiesti dalle aristocrazie. Spesso questi oggetti recano delle raffigurazioni di miti antichi o scene agresti e di banchetto. Il senso di queste rappresentazioni si giustifica nei modelli della loro committenza. Importanti personaggi vogliono comunicare il loro status symbol, le loro radici culturali. In molti casi si tratta di prodotti di alta qualità realizzati nei piú importanti centri culturali dell’impero. Il percorso espositivo inizia da due grandi piatti realizzati in argento dorato di epoca tardoantica provenienti dal Museo Archeologico di Cesena. La sequenza narrativa della mostra prende avvio dalla documentazione del loro ritrovamento e stabilisce connessioni con analoghi grandi missoria in argento che, per qualità e modalità di realizzazione, appaiono in relazione con quelli di Cesena. Inoltre partendo dalla rappresentazione del banchetto, incorniciata al centro di uno dei grandi piatti di Cesena, si sviluppa un racconto sulla produzione di suppellettili da mensa tardo

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AGENDA DEL MESE antiche e sulle rappresentazioni figurative di banchetto circolanti tra le aristocrazie del tempo, derivate da modelli prestigiosi, funzionali anche a precise esigenze di affermazione e esaltazione sociale. Queste suppellettili, infatti, erano commissionate per essere donate durante alcune cerimonie o per celebrare incarichi e nomine. Ai tempi dell’impero romano, inoltre, era molto importante anche il «peso» del vasellame da cui si desumeva la ricchezza del proprietario. La mostra, che si inserisce perfettamente nel percorso espositivo del Classis Ravenna, punto culturale di riferimento per chiunque voglia conoscere la storia della città, tre volte capitale, dalle origini all’anno Mille, approfondisce un aspetto della vita e della cerimonialità tardo antica alle quali il Museo dedica molta attenzione. Unitamente alla basilica di S. Apollinare in Classe, definita una dei piú grandi esempi di basilica paleocristiana e dotata di meravigliosi mosaici e all’Antico Porto di Classe, considerato uno dei principali scali portuali del mondo romano e bizantino, unico per suggestione, Classis Ravenna costituisce il Parco Archeologico di Classe. info tel. 0544 473717; www.classisravenna.it; www.ravennantica.it PERUGIA RAFFAELLO IN UMBRIA E LA SUA EREDITÀ IN ACCADEMIA Fondazione CariPerugia Arte, Palazzo Baldeschi fino al 6 gennaio 2021

Tra reale e virtuale: cosí Raffaello abita le sale di Palazzo Baldeschi al Corso fino al 6 gennaio 2021. La mostra propone un’esperienza

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immersiva che consente di ammirare in sequenza tutte le opere umbre dell’Urbinate – se ne contano a oggi dodici (la Pala di San Nicola da Tolentino, il Gonfalone della Trinità, la Crocefissione Mond, lo Sposalizio della Vergine, la Pala Colonna, la Pala degli Oddi, la Pala Ansidei, la Madonna del Libro (piú nota come Conestabile), l’affresco di San Severo, la Deposizione Baglioni, la Madonna con il Bambino e i Santi e, infine, l’Incoronazione della Vergine) – permettendo ai visitatori di esplorarne anche i dettagli, accompagnati da informazioni lette da una voce narrante. Da segnalare, inoltre, tre prestigiose opere del Rinascimento umbro appartenenti alla collezione della Fondazione Cassa di Risparmio di Perugia e realizzate da tre maestri a cui Raffaello si ispira e con i quali si relaziona quando arriva in Umbria: la Madonna col Bambino e due cherubini del Perugino, la Madonna con il Bambino e San Giovannino del Pintoricchio e il Santo Stefano lapidato di Luca Signorelli. La seconda sezione della mostra, «L’Accademia di Perugia e Raffaello: da Minardi e Wicar al Novecento», si articola in quattro parti tematiche e cronologiche che vogliono

mostrare e dimostrare come, per tutto l’Ottocento, Perugia, grazie alla presenza di Tommaso Minardi, fu un epicentro insieme a Roma della corrente purista e del ritorno all’arte di ispirazione religiosa. L’Accademia fu infatti un vivaio di pittori talentuosi, che rielaborano la lezione degli antichi maestri, Perugino e Raffaello prima di tutti, attualizzandone modelli e stile, interpretando quel gusto neo-rinascimentale, molto apprezzato anche dal collezionismo e dal mercato internazionali dell’epoca. info tel. 075 5734760; e-mail: palazzobaldeschi@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it; facebook: @fondazionecariperugiaarte; twitter: @CariPerugiaArte; instagram: cariperugiaarte, #PerugiacelebraRaffaello, #RaffaelloinUmbria

capolavoro ritrovato è pronto a rivelarsi: Palazzo Fava. Palazzo delle Esposizioni di Bologna ospita la grande mostra che riporta in città, a 500 anni dalla sua realizzazione e a 300 dalla sua dispersione, le tavole del Polittico Griffoni dei ferraresi Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti, che proprio nella città felsinea, con la maestosa pala d’altare realizzata tra il 1470 e il 1472 per l’omonima cappella nella basilica di S. Petronio, diedero avvio al loro straordinario sodalizio artistico. Un lavoro di oltre due anni e il coinvolgimento di 9 Musei internazionali proprietari delle singole tavole, la metà dei quali ubicati fuori dai confini nazionali, hanno dato vita a un evento eccezionale per la storia dell’arte, che ha il merito, tra le altre cose, di

BOLOGNA LA RISCOPERTA DI UN CAPOLAVORO Palazzo Fava, Palazzo delle Esposizioni fino al 10 gennaio 2021

Un viaggio di ritorno travagliato, che ai tre secoli di attesa ha sommato altro tempo, se possibile ancor piú interminabile nella sua incertezza: ma finalmente il ottobre

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ridefinire la centralità della città di Bologna nel panorama rinascimentale italiano. La mostra si compone di due sezioni. Il piano nobile di Palazzo Fava ospita «Il Polittico Griffoni rinasce a Bologna»: le 16 tavole originali a oggi superstiti provenienti dai musei prestatori sono visibili assieme alla ricostruzione del Polittico, una vera e propria rimaterializzazione della pala d’altare cosí come dovette apparire ai Bolognesi di fine Quattrocento. La superba pala d’altare dedicata a san Vincenzo Ferrer fu concepita per la cappella di famiglia di Floriano Griffoni all’interno della basilica di S. Petronio a Bologna. La sua realizzazione, collocata tra il 1470 e il 1472, fu affidata al ferrarese Francesco del Cossa, allora all’apice della sua straordinaria carriera artistica, iniziata intorno al 1456 e stroncata dalla peste nel 1478. I contatti tra l’artista e il capoluogo emiliano, attivi per quasi un ventennio, si tradussero nella realizzazione di alcuni capolavori come l’Annunciazione di Dresda, la Madonna del Baraccano e la Pala dei Mercanti. Il Polittico Griffoni segnò l’inizio della sua collaborazione con il piú giovane Ercole de’ Roberti, uno dei piú formidabili sodalizi artistici del secondo Quattrocento italiano. Assieme a Del Cossa e De’ Roberti lavorò alla cornice il maestro d’ascia Agostino de Marchi da Crema. Attorno al 1725 il nuovo proprietario della cappella, Pompeo Aldrovandi, monsignore e poi cardinale, fece smantellare la pala e destinò le singole porzioni figurate a «quadri di stanza» della residenza di campagna della famiglia a Mirabello, nei pressi di Ferrara. Nel corso

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dell’Ottocento i dipinti entrarono nel giro del mercato antiquario e del collezionismo, giungendo, infine, ai nove musei che oggi custodiscono le opere, la metà dei quali hanno sede fuori dai confini nazionali. Il secondo piano ospita «La Materialità dell’Aura: Nuove Tecnologie per la Tutela», sezione che illustra, attraverso video, immagini e dimostrazioni con strumenti di scansione 3D, l’importanza delle tecnologie digitali nella tutela, registrazione e condivisione del patrimonio culturale, proprio a partire dal lavoro svolto sulle tavole originali del Polittico. info tel. 0544 473717; https://genusbononiae.it

ROMA IL TEMPO DI CARAVAGGIO. CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE DI ROBERTO LONGHI Musei Capitolini, Sale espositive di Palazzo Caffarelli fino al 10 gennaio 2021 (prorogata)

Lo storico dell’arte Roberto Longhi si dedicò allo studio del Caravaggio, all’epoca uno dei pittori «meno conosciuti dell’arte italiana», già a partire dalla tesi di laurea, discussa con Pietro Toesca, all’Università di Torino nel 1911. Una scelta pionieristica, che tuttavia dimostra come il giovane Longhi seppe da subito riconoscere la portata rivoluzionaria della pittura del Merisi, cosí da intenderlo come il primo pittore dell’età

moderna. In mostra è esposto uno dei capolavori di Caravaggio, acquistato da Roberto Longhi alla fine degli anni Venti: il Ragazzo morso da un ramarro. Quattro tavolette di Lorenzo Lotto e due dipinti di Battista del Moro e Bartolomeo Passarotti aprono il percorso espositivo, con l’intento di rappresentare il clima artistico del manierismo lombardo e veneto in cui si è formato Caravaggio. Oltre al Ragazzo morso da un ramarro è in mostra il Ragazzo che monda un frutto, una copia antica da Caravaggio, che Longhi riteneva una «reliquia», tanto da esporla all’epocale rassegna di Palazzo Reale a Milano nel 1951.

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AGENDA DEL MESE Seguono oltre quaranta dipinti degli artisti che per tutto il secolo XVII sono stati influenzati dalla sua rivoluzione figurativa. info e prenotazioni tel. 06 06 08 (attivo tutti i giorni, 9,00-19,00); www.museicapitolini.org; www.museiincomune.it TORINO INCENSUM Musei Reali, Spazio Passerella del Museo di Antichità fino al 10 gennaio 2021

La mostra ospita come special guest una materia prima meravigliosa ed estremamente evocativa, il franchincenso o lacrime degli Dèi. Cristalli lattiginosi con sfumature verdi che ancora oggi sono estratti e lavorati in quello che gli esploratori definivano un mondo a parte, il sultanato dell’Oman. Piú precisamente è nella regione del Dhofar che troviamo la Valle dell’Incenso, un luogo straordinario, in cui crescono numerosi alberi di Boswellia sacra. «Attorno a un granello di franchincenso – spiega Silvana Cincotti, curatrice della mostra – si sono riunite le energie di un anno per realizzare questa mostra,

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mettendo a fuoco, di volta in volta, la prima imperante necessità, creare cultura e conoscenza». Una mostra che racconta una storia lunga piú di cinque millenni. La suddivisione delle tematiche presentate lungo il percorso è sia cronologica che geografica, trasversale a piú culture, attestata non solo lungo il bacino del Mediterraneo, ma ben oltre, verso la Cina e il Giappone, civiltà che hanno associato all’incenso pratiche liturgiche, abitudini e costumi di vita, in modo particolare dei circoli intellettuali. «Il tema del sacro, dal mondo mitologico alle celebrazioni liturgiche – osserva Gabriella Pantò, direttrice del Museo di Antichità – si dipana tra i reperti archeologici del Museo di Antichità dalla protostoria all’Alto Medioevo, mentre evocano memorie di Paesi lontani i materiali di collezione di Palazzo Reale, forse frutto di scambio di doni tra antichi monarchi o dignitari. Suggestioni di mondi lontani nel tempo e nello spazio che i Musei Reali sono lieti di offrire al pubblico». info www.perfumumtorino.com

SENIGALLIA RINASCIMENTO MARCHIGIANO. OPERE D’ARTE RESTAURATE DAI LUOGHI DEL SISMA Palazzo del Duca fino al 31 gennaio 2021 (dal 13 ottobre)

Dopo essere stata presentata ad Ascoli Piceno e a Roma, va in scena a Senigallia, in Palazzo del Duca, la terza e ultima tappa della mostra «Rinascimento marchigiano. Opere d’arte restaurate dai luoghi del sisma», che, per l’occasione, si arricchisce ulteriormente, presentando una quarantina di opere. In particolare, per la prima volta dopo il sisma, viene ricomposto l’intero ciclo di Jacobello del Fiore con le Scene della vita di Santa Lucia proveniente dal Palazzo dei Priori di Fermo, presentato parzialmente nelle tappe precedenti. I recenti restauri compiuti sul ciclo sono stati molto importanti poiché hanno permesso di affermare con certezza che si tratta di una

pala ribaltabile, dove i pannelli si potevano all’occorrenza richiudere uno sull’altro per svelare le reliquie poste in una nicchia sul retro, e non di un dossale come ha sempre sostenuto la storiografia. Di grande valore culturale è anche la campana databile al XIII secolo e molto probabilmente realizzata per la canonizzazione di san Francesco avvenuta nel 1228: si tratta della piú antica campana francescana arrivata ai nostri giorni. Originariamente si trovava nella chiesa di S. Francesco, a Borgo, una frazione di Arquata del Tronto, e ora è conservata nei depositi del Forte Malatesta di Ascoli Piceno. Da segnalare poi una stauroteca, contenente un frammento della vera croce e una coppia di reliquiari, realizzati nel XVIII secolo dall’orafo argentiere Pietro Bracci, romano di origine, ma molto attivo nelle Marche. info e-mail: circuitomuseale@ comune.senigallia.an.it ottobre

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In lotta per il

di Antonio Musarra

Mediterraneo

Sin dalla fine dell’XI secolo, Genova e Venezia imposero progressivamente il proprio predominio sul Mediterraneo orientale. Ben presto, le due potenze navali e commerciali divennero protagoniste di una lotta senza quartiere, finalizzata ad assicurarsi il controllo delle principali rotte marine. Alla storia di questa feroce rivalità, scandita da innumerevoli battaglie navali, lo storico Antonio Musarra ha dedicato un’affascinante indagine, confluita in un volume (Il Grifo e il Leone, Editori Laterza) e di cui, nelle pagine che seguono, offriamo ai nostri lettori alcuni passaggi di particolare suggestione...

C «C

he cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre». Per Fernand Braudel, il Mediterraneo non è altro che un crocevia di culture, in cui «da millenni tutto confluisce, complicandone e arricchendone la storia». A maggior ragione, il Mediterraneo medievale è un mare plurale: v’è un Mediterraneo latino, un Mediterraneo greco, un Mediterraneo arabo, un Mediterraneo berbero, un Mediterraneo ebraico, un Mediterraneo mamelucco, un Mediterraneo tartaro e chissà quanti altri. Il Mediterraneo, insomma, conosce diverse identità. Che, tuttavia, partecipano d’una cultura affine, facendo parte, inoltre, della medesima economia-mondo, in grado di parlare una lingua comune. Del re-

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sto, le sue sponde non godono, forse, del medesimo orizzonte? D’un orizzonte in cui le messi color giallo paglierino e le verdi fronde d’olivo s’agitano al vento, e i colori della vite si mescolano a quelli, accesi, dei tramonti. Assumendo, talvolta, tinte rosso sangue. Luogo d’incontri e di contaminazioni, il Mediterraneo dei secoli del pieno Medioevo è, anche e soprattutto, un luogo di aspri scontri, i cui protagonisti – dalla marineria saracena a quella bizantina, a quella italica, normanna, catalana – non esitano a ricorrere a ogni mezzo pur di far bottino, assicurarsi il controllo delle principali rotte di trasporto, affermare una parvenza di talassocrazia. Potremmo dire ch’esso sia pensato e vissuto dai suoi molti frequentatori come luogo di frontiere. Ma di frontiere porose. È nel continuo andirivieni di navi e galee tra un porto e l’altro, nell’alternanza tra guerra e commercio, che si

Nella pagina accanto veduta a volo d’uccello della città di Genova, con i rilievi e i fiumi dell’entroterra, affresco realizzato su cartone di Ignazio Danti. 1580-1585. Città del Vaticano, Galleria delle Carte Geografiche. L’iscrizione che descrive l’opera è presentata in forma di stendardo, retto da una coppia di chimere.

forgia un comune senso del mare, declinato secondo mille versioni diverse. Immenso ed estraneo, eppure tremendamente familiare; verde, blu, arancio, ricoperto di schiuma; confinante col nulla ma crocevia di tutto, il Mediterraneo è, al contempo, prigione e libertà. Complice dell’irrequietezza dell’uomo, è da questi temuto, benché da millenni si tenti di addomesticarlo. Quando, attorno al 1286, il domenicano genovese Giovanni Balbi terminò la redazione della sua Summa grammaticalis, meglio nota come Catholicon – singolare vocabolario della bassa latinità contemplanottobre

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te, altresí, principi di grammatica, ortografia, prosodia, retorica, etimologia –, non immaginava, certo, che la voce dedicata a questo mare – Mediterraneus, nea, neum – influenzasse a tal punto i posteri da essere piú volte ripresa, nei secoli a venire, per sintetizzarne i caratteri. «Medium terre tenens»: il mare tra le terre, capace di connettere le molteplici realtà sparse lungo le sue sponde. In realtà, il contesto in cui compare la definizione è del tutto neutro. Lo scopo dell’opera è, infatti, quello di favorire l’intelligenza delle Scritture mediante una piú approfondita conoscenza della lingua latina. Il nostro non intendeva offrire una concettualizzazione del Grande Mare; sul modello, per esempio, del Fedone di Platone, laddove Socrate discorre d’uno «stagno» abitato tutt’attorno da rane e formiche. La voce è redatta secondo i canoni dei lessici di questo genere: evidenziandone gli usi principali (ovvero, i piú interessanti per l’autore) e le

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possibili derivazioni etimologiche. Immaginiamo, dunque, d’aprire il Catholicon, di soffiarne via la polvere e di andare alla ricerca, come in una moderna enciclopedia, della voce mediterraneus. Ecco il risultato: «Mediterraneus, nea, neum. Macha. liber II, capitulum VIII: per mediterraneum fugiens. E, come dice Papia, mediterraneus è composto da diversi termini, come altre parole: e, cioè, da medio e da terre. E si sappia che i mari mediterranei in tutto il mondo abitato sono trenta, come ho detto sotto la voce mare. Tuttavia, alcuni dicono che è composto anche da teneo, e, cioè, che si chiama mediterraneo perché occupa quasi il mezzo della terra».

Uno strano paradosso

Citando il Secondo Libro dei Maccabei («per mediterraneum fugiens») – in particolare, 2 Macc 8,34-35 –, il domenicano non faceva che rimandare al significato originario dell’aggettivo mediterraneus, utilizzato, assieme al piú raro mediterreus, per indi-

care una regione terrigena, compresa tra altre terre. Il passo biblico corrispondente narra, infatti, della fuga di Nicanore, generale di Antioco IV Epifane, per mediterranea, attraverso il territorio siro-palestinese. Un bel paradosso, se teniamo conto del successivo scivolamento semantico! In effetti, è solo dalla matura età imperiale che il termine mediterraneus iniziò a essere utilizzato nel significato che gli attribuiamo oggi: quello di «mare interno», situato tra le terre. Ed è con tale significato che lo si ritrova nelle opere di Solino, di Isidoro di Siviglia, di Papia. La definizione di Giovanni Balbi poggia, dunque, su una lunga tradizione. Eppure, sbaglieremmo nel cercarvi l’essenza del Mediterraneo del suo tempo. E non solo per il fatto che – secondo quanto egli stesso afferma – i maria mediterranea sarebbero almeno una trentina. Piuttosto, perché, alla fine del Duecento, la consapevolezza che il Mediterraneo non costituisca – forse: che non ottobre

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Leone di San Marco, tempera su tela di Vittore Carpaccio. 1516. Venezia, Palazzo Ducale.

costituisca piú – il centro d’un orbis tripartitum – d’un universo costituito da un’area d’impronta latino-cristiana, da un’altra greco-cristiana e da una terza arabo-berbero-cristiano-musulmana – è ormai diffusa. L’intera regione – i flutti, certo; ma anche le isole, i canali, le coste, e, risalendo il corso dei fiumi, le mulattiere e le vecchie strade romane; e poi i siti dell’interno, che hanno nel mare il terminale della propria economia – ha conosciuto rivolgimenti tali da far impallidire le flaccide rane di Platone. Non mi riferisco, tanto, ai mutamenti delle sovranità politiche, tese ad allungare la mano su questo o quello scalo, bensí alla capacità dell’uomo medievale di pensare, concepire e realizzare il superamento dei confini impostigli dalla natura, messa in moto dall’affinamento delle tecniche di navigazione e della costruzione navale, e, dunque, dalle esigenze del commercio – e della mobilità in genere – e dalla guerra marittima.

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Di fatto, i contemporanei di Giovanni Balbi iniziavano a guardare oltre, a spingersi al di là del mondo conosciuto – via terra o via mare – nel tentativo di definire, prima, e d’allargare, poi, i confini d’un mare avvertito progressivamente come troppo angusto per ospitare popoli e nazioni tesi a percorrerne le stesse rotte, a frequentare gli stessi mercati, a commercializzare gli stessi prodotti.

Correnti profonde

Intendiamoci: le capacità tecniche erano lungi dal permettere lo slancio oceanico. A occidente, l’attraversamento delle Colonne d’Ercole ara ancora difficoltoso. Le acque del mare di Alborán, confluenti verso Gibilterra, sono percorse da correnti profonde che da levante riversano l’acqua del Mediterraneo nell’Atlantico; al contempo, correnti di superficie procedono nella direzione opposta, dando luogo a moti rotatori che, uniti al soffio del Levanter – il vento

umido responsabile di cieli coperti e frequenti tempeste –, risultano pericolosi per la navigazione. Ma alla fine del Duecento, la rotta che dal Mediterraneo conduceva alle Fiandre e all’Inghilterra, da un lato, alle coste atlantiche del Marocco, dall’altro, è, ormai, piuttosto frequentata; e ci si poneva già il quesito circa l’esistenza o meno d’un passaggio che consentisse – magari circumnavigando l’Africa, magari procedendo verso occidente – di raggiungere le Indie, cosí da aggirare la presenza mamelucca in Egitto, in procinto di fagocitare la presenza latina in Terrasanta. In effetti, è su queste basi che si comprendono le spedizioni terrestri dei veneziani Polo, Niccolò, Matteo e Marco, non meno che il tentativo, fallito, di circumnavigare l’Africa operato nel 1291 dai genovesi Ugolino e Vadino Vivaldi. Perché – è bene ribadirlo – è sempre l’oriente a catturare lo sguardo. L’attività d’esplorazione portata avanti da frati e mercanti lungo le vie di terraferma aveva contribuito ad allargare gli orizzonti; la rotta marittima per i porti del Levante non era che una tappa nell’ambito d’itinerari di lunga percorrenza. Del resto, da quando Costantinopoli era tornata in mano ai greci di Nicea, nel 1261, dopo esser stata, a lungo, una succursale di Venezia, l’attraversamento degli Stretti non destava piú problemi. Lentamente, le linee di traffico si faranno piú settentrionali. Le merci provenienti dall’Asia interna, il cui trasporto era favorito dall’incipiente pax mongolica non meno che dall’intraprendenza di mercanti arabi e turchi, inizieranno a concentrarsi sulle sponde del Mar Nero, così com’era stato per i porti della costa siro-palestinese e dell’Egitto. Non è, dunque, un caso se, con l’avanzare del Trecento, molti saranno i genovesi e i veneziani che andranno trafegando in partibus Catagii, incrementando ulteriormente la concorrenza commerciale.

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Lungi dal porsi al centro del mondo conosciuto, il Mediterraneo del Duecento è, dunque, il cuore d’un vortice centrifugo, che spinge i suoi abitanti a oltrepassarne i confini. Eppure, è alle sue acque che si seguita a guardare quale naturale spazio d’azione per un’espansione che sappia garantire approvvigionamenti continui e benessere crescente, sfruttandone la capacità

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intrinseca d’unire piú che di dividere i popoli stanziati lungo le sue sponde. Ci troviamo in uno spazio in cui è possibile imbarcarsi a Genova, a Pisa o a Venezia – ma anche ad Ancona, a Manfredonia, a Brindisi, a Taranto, a Messina, a Palermo, a Napoli, a Gaeta, a Cagliari, ad Alghero, a Bonifacio, per citare soltanto alcuni tra i principali porti della Penisola –, raggiungere Alessandria

d’Egitto, acquistare merci indiane provenienti dal Mar Rosso, fare scalo a Costantinopoli, penetrare nel Mar Nero, acquistare pelli e cuoiame delle steppe centrasiatiche, per poi fare ritorno a casa propria attraverso le insidiose isole egee; lasciando, nel frattempo – è quanto avviene sia a Genova, sia a Venezia – che le mogli s’occupino non tanto e non solo dell’abitazione ma dell’intera ottobre

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Veduta di Genova nel 1481, olio su tela di Cristoforo Grassi. 1597. Genova, Galata Museo del Mare. Al centro, si riconosce il porto, con la darsena.

tori – sono parte d’una koinè mediterranea basata sulla condivisione d’esperienze. Ma i profili culturali permangono, e, anzi, al netto dei rispettivi prestiti, si definiscono. Talvolta in maniera brutale. Amalfi, Pisa, Genova e Venezia sono tra i principali vettori di tale moto d’espansione. Crocevia di scambi, porte d’ingresso, varchi di comunicazione aperti verso il mondo, sono tra le protagoniste della vivacità dei traffici, i cui prodromi possono leggersi già in quel X secolo costellato d’attacchi saraceni, ungari e normanni che le ha costrette a industriarsi pur di sopravvivere; soprattutto, hanno il merito d’aver contribuito a ricreare quell’unità economica che l’impero di Roma aveva garantito, a lungo, al mare nostrum. Al contempo, sono all’origine di quella «rivoluzione nautica» che, a seguito di ripetute sperimentazioni, avrebbe facilitato – si può dire, in un’ottica globale – l’incremento stesso delle comunicazioni.

Eredi di Bisanzio

gestione economica della famiglia, investimenti e acquisti immobiliari compresi, con un protagonismo capace di scardinare buona parte dei luoghi comuni sull’argomento. Insomma: siamo di fronte a un mondo interconnesso, frutto d’una lenta evoluzione che ha nel generale moto di crescita dell’Occidente europeo la propria ragion d’essere. Ciò non significa che il mondo la-

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tino eserciti fattivamente qualche forma d’egemonia sulle aree contermini. L’universo mediterraneo è parcellizzato in una miriade d’isole socio-economico-culturali, ancorché interessate da contatti frequenti e da lenti fenomeni d’acculturazione. Il mare ne rappresenta il cuore, il principale mezzo di collegamento: i suoi frequentatori – marinai, pellegrini, mercanti, crociati, ambascia-

Certo, ciascuna ha caratteri propri. Arroccata al centro della costiera, Amalfi si sviluppa precocemente, dimostrando un’inusitata capacità armatoriale. I suoi mercanti, eredi della tradizione nautica bizantina, sono stanziati dappertutto; quantomeno sino a che l’emergere di altri porti – Bari, Brindisi, Otranto, Taranto, Messina, Milazzo, Palermo, Catania, Vietri, Napoli… – giungerà, ma solo in parte, a tarparne le ali. Pisa, dotata d’un sistema portuale fluvio-lagunare, oltre che d’un vero e proprio porto marittimo collocato a poca distanza, esprime, sin dall’XI secolo, il proprio desiderio di egemonia nel contrasto alla marineria saracena, salvo soccombere, nel tardo Duecen-

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genova e venezia to, di fronte alla consorella tirrenica: Genova, vera e propria «cittàporto», in cui la compenetrazione tra le strutture portuali e la crescita del manufatto urbano – coi fondaci e le volte che s’insinuano nell’abitato – è qualcosa di profondamente tipizzante. Liberatasi della rivale, la città di Giano ha modo d’estendere le proprie maglie da Oriente a Occidente, sfidando colei che, sola, può tenerle testa: Venezia, la città che sorge col mare, e che sul mare ha costruito la propria identità, divenendo un miraggio di bellezza e potenza. Il confronto tra le due marine caratterizzerà gli ultimi secoli del Medioevo, sopendosi – si può dire – soltanto a Lepanto, di fronte a quello che sarà, ormai, un nemico comune: l’impero ottomano.

Fra Adriatico e Tirreno

Genova e Venezia (il Grifo e il Leone, per usare alcuni tra i loro simboli piú noti, benché Genova ne conosca assai di piú, sfruttando il grifone saltuariamente, prevalentemente nell’araldica e negli insediamenti pontici) possiedono un profilo inconfondibile. La loro fortuna è dovuta a numerosi fattori: non ultimo, alla volontà dei loro abitanti di soggiogare una natura ostile, e di porsi quali terminali privilegiati delle comunicazioni tra Oriente e Occidente e tra Meridione e Settentrione. Sia l’una, sia l’altra sono al centro d’un sistema portuale allargato e policentrico: da un lato, l’universo adriatico, connesso con le realtà della Marca – dunque, principalmente con Ancona – e della Puglia costiera non meno che del litorale adriatico orientale, con la sua miriade d’isolette, rispondenti a dinamiche proprie; dall’altro, quello tirrenico, capace d’accogliere, oltre a Genova e alle grandi isole, porti importanti quali quelli di Napoli e Pisa, dotati di caratteri peculiari, e una miriade di scali minori – l’Elba, Civitavecchia, Gaeta, Salerno, oltre alla stessa Amalfi –, legati tra loro

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Veduta del settore orientale della città di Venezia, con, in alto, l’Arsenale. XVII sec. Versailles, Musée national des châteaux de Versailles et de Trianon.

per motivi logistici e commerciali. In tutti i casi, ci troviamo di fronte a scali essenziali per la navigazione: solidi punti di riferimento per chiunque si avventuri in mare. Si spiega cosí il precoce allargamento di tale sistema, per Venezia, agli arcipelaghi greci (principalmente, le Ionie, Corone e Modone, Creta, le Cicladi, il Dodecaneso), capaci di favorire la navigazione di cabotaggio; per Genova, ai centri costieri corsi (Bonifacio, in particolare), sardi (Cagliari, Iglesias, Alghero, Porto Torres) e siculi (Messina, Palermo, Trapani, Agrigento, Siracusa), parte, a loro volta, di sistemi minori, collocati lungo le principali rotte di trasporto. La crescita di Genova e Venezia si comprende nell’ambito d’uno spazio marittimo costellato di porti, isole, coste e linee lossodromiche, la cui realtà si costruisce a fatica, a seguito di processi di lungo periodo, che si dispiegano nell’arco di secoli a partire dalla prima età carolingia, e che, tra X e XI secolo, subiscono una decisa accelerazione, legata, con tutta probabilità, al piú generale incremento demografico ed economico continentale, ma anche a ragioni di natura geopolitica: dal progressivo ritrarsi dell’elemento bizantino alla necessità di reagire contro la pirateria narentana, dalmata e saracena in genere. In realtà, se la tesi d’una diminuzione della circolazione di beni nei secoli dell’alto Medioevo, capace d’influire sul mantenimento d’una portualità attiva, ha ricevuto conferme dalla pratica archeologica, nondimeno non bisogna generalizzare. Se non sono molti i porti che vanno definendosi in questo periodo – e Venezia è uno di questi –, di quelli noti conosciamo poco. E ciò, a causa della scarsa qualità delle infrastrutture – e, dunque, ottobre

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genova e venezia Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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In alto Pisa, Torre Pendente. Rilievo nel quale sono raffigurate due navi tipicamente medievali e un faro. 1173 circa. A sinistra mIniatura da un codice veneto raffigurante l’imbarco di cavalieri che partono per la guerra. XIV sec. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana.

per l’uso quasi esclusivo del legname; raramente, di pozzolana o cementizio idraulico –, quasi del tutto scomparse. In area italica, i casi meglio studiati sono quelli di Comacchio e Torcello, dotati d’impianti lignei. Del resto, le stesse strutture portuali della Venezia alto-medievale, già fiorente nel IX secolo, avevano conosciuto impianti del genere, soggetti a un veloce deperimento se abbandonati ai marosi. Va detto, a ogni modo, che la ricerca non si è ancora impegnata a fondo in questo campo, e che, in taluni casi – si pensi, per esempio, a Civitavecchia (Centumcellae) o allo stesso porto di Roma, alla foce del Tevere –, ciò che si registra è una sostanziale continuità d’uso delle infrastrutture monumentali d’età imperiale. Con ciò si può senz’altro dire che il deciso riassetto dei principali networks commerciali nel corso dei secoli centrali del Medioevo abbia avuto ampie ricadute sulla portualità, necessitante di spazi sempre piú ampi e funzionali.

Fra naufragi e fortune

A partire dal XII secolo, alcuni porti italioti di antica origine – ed è questo il caso di quello genovese – conobbero un rinnovamento, legato all’allargamento degli oriz-

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zonti commerciali. Nuovamente, a ogni modo, si sarebbe trattato dell’installazione di strutture lignee. Banchine in muratura e moli monumentali sarebbero stati edificati soltanto a partire dal Trecento, come conseguenza della crescente movimentazione delle merci e dell’incipiente gigantismo navale; soprattutto, a seguito d’un’accurata pianificazione degli spazi – protetti dai marosi, di facile agibilità per il varo dei natanti, ma anche abbastanza vicini ai luoghi di fornitura delle materie prime e lavorate: legname, pece, stoppa, cordame, vele, ferramenta, e cosí via –, segnando, di fatto, la crescita del manufatto urbano. Non è possibile comprendere Genova e Venezia senza tenere conto di tale caratterizzazione. La vocazione marittima di entrambe andò polarizzando, nel tempo, un vasto indotto, capace di fornire pane e lavoro a una varia umanità: operai, salariati, prostitute, marittimi in cerca d’impiego, operatori del settore ittico, mercanti, notai, magistrati deputati al controllo delle dogane e della navigazione in genere, spesso anonimi. Il piú delle volte, anzi, autentici naufraghi della storia, che, tuttavia, fecero la fortuna dei rispettivi porti.

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LA BATTAGLIA DI CURZOLA Giunte al culmine della loro ostilità, le due repubbliche schierarono le proprie forze navali al largo di un’isola della costa dalmata. Era il settembre del 1298...

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ell’estate avanzata del 1298, una flotta, forte di 84 galee, salpava dal porto di Genova. L’itinerario è descritto nel dettaglio dall’Anonimo. Riuniti i legni a Portovenere, «porto grande per reposo», lo stuolo fece vela alla volta di Messina, risalendo poi la costa verso l’Adriatico. Il 29 agosto ripartí

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da Otranto per passare in Dalmazia. Tuttavia, nel corso del tragitto, fu separato da una tempesta, sí che solo 20 galee trovarono rifugio nel porto di Antivari. Sembra che l’Anonimo si trovasse a bordo d’una di queste; a suo dire, infatti, prima che facesse notte, rezevem messo de novo che for’ dexe mij’a provo n’era arrivâ cinquanta oto, chi se conzunsen l’endeman anti che fosse disnar coito: en soma fon setanta oto che d’engolfà no s’astalàm. [ricevemmo un messo con la notizia | che a dieci miglia di distanza | n’erano arrivate cinquantotto, || che l’indomani si congiunsero | prima dell’ora di pranzo: | in totale

erano settantotto | che non tardarono a entrare nel golfo]. Dopo che la maggior parte dei legni fu riunita, il Doria iniziò a devastare la costa dalmata, risalendo sino a Curzola, i cui abitanti fuggirono per tempo; essi, anzi, gran deseno fén a lo sposo, auto duxe de Venexia, chi in mar j atri desprexia tocar logo sí ascoso. [fecero un grande oltraggio allo sposo, | il grande doge di Venezia, | che in mare disprezza gli altri, | violando luoghi cosí inaccessibili]. Il borgo fu dato alle fiamme. Tuttavia, verso l’imbrunire – s’era, ormai, ai primi di settembre – comparve all’orizzonte una flotta veneziana, ottobre

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In alto Trionfo di Lamba Doria, olio su tela di Fedele Fischetti. 1782. Collezione privata. L’opera costituisce il bozzetto del grande affresco che orna il salone ellittico al piano nobile del palazzo Doria d’Angri a Napoli. A destra mappa dell’isola di Curzola, dall’opera Isle de Cursoal. Londra, British Library.

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forte di 96 galee, al comando di Andrea Dandolo; ma perzò che note era, provo lo sol de stramontar, pensàm lo stormo induxiar; e se missem tuti in schera entre l’isora e terra ferma, de tuti cavi ormezai, enter lor afernelai: cascaun so faito acesma,

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tegnando proa contra vento enver’ l’ste veniciana, entre maistro e tramontana armai con grande ardimento.

|| tenendo la prua controvento | contro l’esercito veneziano, | tra maestrale e tramontana | armati di grande ardimento].

[Mai poiché era notte, | e il sole stava tramontando, | pensarono di rinviare lo scontro | e si misero tutti in schiera || tra l’isola e la terraferma, | ormeggiati con tutti i cavi, legati tra di loro con frenelli: ciascuno prepara la sua azione,

La sera del 6 settembre, entrambe le flotte si disposero a battaglia. I genovesi, vista la ristrettezza del canale, si collocarono parallelamente alla linea di costa; come specifica l’Anonimo, «enter l’isora e terra ferma», e cioè, nel canale che separa ottobre

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Xilografia colorata a mano raffigurante Marco Polo che guida le navi di Venezia verso Curzola, nell’Adriatico.

informati, oltre che dalle fonti citate, da un’interpolazione anonima inserta nel codice N della Chronica civitatis Ianuensis dell’arcivescovo Iacopo da Varagine, serbato presso la Biblioteca Nazionale di Parigi, a completamento dalla narrazione di quest’ultimo, morto due mesi prima la battaglia. Una descrizione ulteriore, piú rapida, è contenuta in una cronaca ulteriore, anch’essa anonima – probabilmente, opera di un ecclesiastico –, redatta a distanza di qualche decennio, che prosegue il racconto dell’arcivescovo dal 1297 al 1332. Fuor d’ogni logica combinatoria, converrà leggere i principali resoconti separatamente, godendo dei molti particolari, a partire da quello – assai vivido – del Templare:

Curzola dalla penisola di Sabbioncello, probabilmente a sud-est, verso la città. I veneziani, infatti, vi penetrarono da nord-ovest: «entre maistro e tramontana»; ciò che collima con un particolare menzionato da Marin Sanudo, secondo il quale, nel corso dello scontro, si sarebbero trovati col sole in faccia. Il combattimento, a ogni modo, fu rimandato all’indomani. Circa il suo svolgimento siamo accuratamente

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E quando venne l’anno 1298 di Cristo, i genovesi armarono 84 galee e uscirono da Genova e entrarono nel golfo di Venezia, ed era loro ammiraglio un uomo valoroso, abile e di gran cuore, chiamato messer Lamba Doria. E nel viaggio le assalí un tale cattivo tempo che 8 galee si separarono dal resto dell’esercito, e il cattivo tempo gettò queste 8 galee in Puglia, perciò il loro danno si trasformò in vantaggio, perché presero molte navi di Venezia che non avrebbero preso. E le altre 76 galee attraversarono il golfo e andarono verso la Dalmazia, in un’isola chiamata Curzola, e là aspettarono i veneziani. Il comune di Venezia, quando vide che i genovesi erano arrivati, armò le sue galee, che erano 96, e doveva averne altre 14 da Zara, ed era loro ammiraglio un gentiluomo di Venezia chiamato Calo Dandolo, e queste 96 galee vennero in vista delle galee di Genova, ed era un sabato, 6 di settembre, alla vigilia della festa di Nostra Signora, e in occasione della festa, quella notte del sabato, le galee dei genovesi (avevano) a ciascun loro scalmo una candela in onore della Vergine Maria, cosí che i veneziani li videro bene. E quando messer Lamba Do-

ria, ammiraglio dei genovesi, vide che i suoi facevano queste luminarie, domandò perché facevano queste luminarie, e gli fu detto che le facevano per la festa di Nostra Signora, che sarà l’indomani, la domenica, e lui mandò a dire da galea a galea che spegnessero le candele, che la festa di Nostra Signora non era la domenica, che era l’indomani, ma la si farà il lunedí: «Domani daremo battaglia ai nostri nemici e li vinceremo, e festeggeremo Nostra Signora e la vittoria che avremo!», e la sua frase fu profetica. E allora furono spente tutte le candele, per cui i veneziani si meravigliarono molto del fatto che avevano visto grandi luminarie e poi si erano spente all’improvviso, e la fiaccola che ancora bruciava se la spiegavano i veneziani pensando che era una lanterna, che l’avevano lanciata su una barca per far credere ai veneziani che erano ancora sul posto e aver tempo di andarsene. Secondo il nostro, il Dandolo decise, dunque, d’inviare in ricognizione una pattuglia, guidata da un certo Domenico Sclavo – uno schiavo affrancato di origine levantina –, che sarebbe riuscito ad avvicinarsi tanto al nemico da udirne i discorsi: E per scoprire la verità intorno a ciò, mandarono un loro veneziano, chiamato Menego Sclavo, in un colombetto, che si avvicinò alle galee dei genovesi e le vide di lontano tutte sistemate, e venne cosí vicino che sentí che si dicevano l’un l’altro: «Vuoi comprare quello che mi accaparrerò domani?», e altri dicevano: «Quando sarà giorno per fare questa battaglia?». E Menego tornò e disse al loro ammiraglio che le galee erano ancora al loro posto, e dalle parole che aveva udito non erano persone da fuggire, che pensasse a preparare le sue schiere e organizzare la situazione. La battaglia ebbe inizio il mattino del 7 settembre, di buon’ora, con un reciproco scambio di proiettili. Secondo il Templare, i veneziani attaccarono l’ala destra dello schieramento nemico, cosí d’allontanarla

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genova e venezia dalla terraferma. I superstiti, infatti, troveranno rifugio sulla costa dalmata e non presso l’isola di Curzola: Quando venne l’indomani mattina, la domenica, si avvicinarono gli uni agli altri e si colpirono con le balestre, e i veneziani furono dell’avviso di attaccare la metà delle galee dei genovesi, cosí avrebbero subito eliminato quella metà e l’altra metà (non) avrebbe avuto forza contro di loro, cosí si sarebbero messi in rotta. E cosí come aveva pensato lo fece, che tutte le loro galee, che erano 96, attaccarono la metà delle galee dei genovesi, che non erano in tutto che 76 galee, poiché le altre 8 si erano allontanate da loro per il cattivo tempo, come avete sentito prima, e ancora non c’erano. E i veneziani sferrarono un tale attacco sulla metà dell’esercito dei genovesi che eliminarono 8 galee di genovesi, e l’altra metà dei genovesi, che videro che le loro galee subivano un simile attacco e che nessuno veniva a combattere con loro, tagliarono rapidamente le loro gomene e lasciarono le ancore in mare, e vennero ad attaccare i veneziani e non fuggirono, come avevano previsto i veneziani, e in questo modo i veneziani si trovarono in mezzo ai genovesi. A quel punto, l’ala sinistra dello schieramento genovese ripiegò su

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sé stessa chiudendo gli avversari in una morsa. Secondo il veneziano Lorenzo De Monacis, vissuto nella seconda metà del Trecento, la battaglia sarebbe stata decisa da una riserva di 15 galee sopraggiunta a voga arrancata, ma ciò non si ritrova nelle relazioni coeve, proveniente verosimilmente da testimoni oculari; tanto piú che, come s’è visto, i legni genovesi separati dalla tempesta avevano fatto rotta verso le coste pugliesi. Chiosa il Templare: E la battaglia fu tremenda, come ciascuno può credere, una battaglia dove chi cade è morto, e si uccisero e si armarono ancora i cristiani gli uni contro gli altri, e alla fine i veneziani furono sconfitti duramente, e persero 78 galee, e le altre, che erano 18, fuggirono, e se ne andarono a Venezia. Impediti dallo spazio angusto in cui si trovarono costretti, i veneziani soccombettero. Lo stendardo della nave ammiraglia fu catturato, decretando la fine del combattimento. Secondo il nostro, il Dandolo, preso prigioniero, sarebbe morto nel corso del tragitto verso Genova. La versione interpolata all’interno della cronaca varaginiana, che, tuttavia, presenta qualche imprecisione cronologica (relativa, per

esempio, alla morte del presule e all’elezione del suo successore, oltre che alla data stessa della battaglia), fornisce particolari ulteriori: Morto nell’anno del Signore 1297 il suddetto padre arcivescovo genovese, l’anno seguente, per grazia apostolica, fu eletto arcivescovo il signor frate Porchetto Spinola, dell’ordine dei frati minori, nel tempo in cui il comune di Genova, nel mese di giugno, elesse come ammiraglio generale contro i suddetti veneziani il signor Lamba Doria, uomo insigne. Il signor ammiraglio, seguendo il diligente precetto del consiglio di Credenza, salpò da Genova nel mese di agosto con 87 galee. Ma come giunsero navigando nei pressi d’una certa isola chiamata Gerba, dietro consiglio di alcuni comiti esperti, vi lasciarono 3 galee. Quindi, navigando, giunsero a Messina, dove certi catalani, per invidia e vergogna dell’onore, della dignità e della magnificenza della flotta genovese, ardirono contrastarli con le armi, fidando della loro stoltezza. Ma l’astuzia dei genovesi li debellò in men che non si dica. Poiché i catalani fuggirono a Messina, i genovesi li inseguirono e diedero fuoco alle porte della città e, una volta penetrati al suo interno, virilmente e con potenza ebbero la meglio su quegli stessi catalani. Allora, il suddetto signor ammiraglio attese con la sua flotta le galee

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dei veneziani per otto giorni. Nel corso di questi otto giorni di essi non ebbe alcuna notizia. Per cui, volendo porre fine a sí grande conflitto e all’ozio della sua città, preferí oltrepassare i confini dei veneziani piuttosto che ritornare indietro. Per cui, oltrepassati i bordi della Calabria e dell’Apulia, penetrò nel golfo di Venezia per 400 miglia e piú, noncurante delle molte città e castelli veneziani che si lasciava alle spalle, tanto era il suo desiderio di trovare la flotta nemica. Finché approdò a una certa isola chiamata Curzola, che distrusse dalle fondamenta. Ma poiché i prati non sempre producono fiori, accadde per ventura che, a causa d’un immenso fortunale, 6 galee dei genovesi non riuscirono a seguire il proprio ammiraglio. Perciò, il signor ammiraglio rimase soltanto con 78 galee. E distrussero Curzola il 5 di settembre. Volendo dar credito all’autore, la distruzione della città avrebbe avuto luogo, dunque, due giorni prima lo scontro; il numero di galee disperse nel corso del fortunale – 6 – collima, inoltre, con quanto riportato dall’Anonimo («Ma de le galee sexe | partie per la fortuna | no aiando nova alcuna, | pens àn como se dexe»). Prosegue il nostro: E abbattuta e spogliata, tutta l’armata

scese a terra e lí riposò per tutto quel giorno e la notte seguente. Giunto il mattino, con l’aiuto del Signore, videro da lontano le galee dei veneziani, ch’erano in numero di 96, oltre a 3 legni da 60 remi. E le galee dei veneziani, viste le galee dei genovesi, posero immediatamente le scale a terra e tutti scesero a terra per prepararsi al meglio allo scontro. Le galee dei genovesi, dall’altra parte del mare, si trovavano presso uno scoglio, apparecchiandosi virilmente e con grandissimo giubilo. Veduti gli altri, ciascuno montò sulle galee di buon grado e ordinatamente e si preparò velocemente per la battaglia. Tuttavia, quel giorno, i veneziani si rifiutarono di combattere. Il mattino successivo, domenica 8 settembre, festa della Madre d’ogni bene, poiché i veneziani si mossero verso di noi, il suddetto signor ammiraglio di Genova, portando con sé la vera Croce, di cui s’è detto piú sopra, levato in alto lo stendardo, animato di patrio zelo, si affrettò contro di loro con grande baldanza, accompagnato dal vivace tumultuare dei suoi. Ora, la data della battaglia va corretta, senz’altro, secondo quanto suggerito dal Templare e dall’Anonimo. L’8 settembre cadeva, infatti, di lunedí. Tanto quest’ultimo, quanto – come si vedrà – l’iscrizione celebrativa che campeggia tutt’oggi sulla facciata della piccola chiesa

genovese di San Matteo, cuore della curia dei Doria, riportano la data del 7 settembre: E, vegnando lo dí setem, de sembro, fom avisai. A De e a santi comandai ferando insemel combatem. Lo dí de domenega era, passà prima, en l’ora bona, stormezàn fin promo nonna con bataia forte fera. [E venuto il giorno sette | di settembre si videro faccia a faccia. | Raccomandandosi a Dio e ai santi, | sferrandosi dei colpi, combattevano tra di loro. | Era il giorno di domenica, | trascorsa prima, all’ora opportuna | combatterono fin quasi a nona, | con una battaglia accanita e feroce]. Anche il poeta menziona il particolare relativo alla Croce («De n’aye e Santa Croxe!»). I due resoconti sono concordi, altresí, circa la durata dello scontro, conclusosi verso l’ora nona: le tre del pomeriggio: quindi, intrapreso in ogni dove un conflitto terribile e uno scalamento inaudito, avresti visto volare per aria i dardi come

Veduta di Curzola, isola della Dalmazia oggi compresa nei confini della Croazia.

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A sinistra Genova, la chiesa romanica di S. Matteo, fondata dal benedettino Martino Doria nel 1125.

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Le iscrizioni che esaltano le gesta della famiglia Doria incise sulla facciata della chiesa di S. Matteo.

nubi; avresti visto il valore degli uomini probi messo a dura prova; avresti visto le galee precipitarsi le une sulle altre; avresti visto innumerevoli uomini in mare senza alcuna speranza di vita. Che dire di piú? Scrivere è pietoso. Entrambe le parti fecero valere il proprio diritto virilmente ed egualmente fin quasi dopo l’ora terza. Tuttavia, per giudizio divino, le galee dei veneziani soccombettero, e, poco dopo l’ora nona, furono debellate senza speranza alcuna di riscossa. Era la fine: Furono catturate 84 galee veneziane. Le restanti si salvarono dandosi alla fuga. E in quel combattimento furono catturati 8000 uomini di Venezia, 800 dei quali furono rilasciati perché feriti presso Ragusa. I restanti furono portati prigionieri a Genova. Nel corso del con-

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flitto morirono di pessima morte 7000 di quei veneziani. Quindi, il suddetto signor ammiraglio, innalzate immense grazie a Dio per una vittoria cosí incredibile e inaudita, rientrò a Genova incolume assieme alla suddetta onorevole flotta e di tanta vittoria non si fece alcuna pompa.

AD HONOREM DEI ET BEATE VIRGINIS MARIE, ANNO MCCXCVIII, DIE DOMINICO VII SEPTEMBIS, ISTE ANGELUS CAPTUS FUIT IN GULFO VENETIARUM IN CIVITATE SCURZOLE ET IBIDEM FUIT PRELIUM GALEARUM LXXVI IANUENSIUM CUM GALEIS LXXXXVI VENECIARUM; CAPTE FUERUNT LXXXIIII PER NOBILEM VIRUM DOMINUM LAMBAM AURIE, CAPITANEUM ET ARMIRATUM TUNC COMUNIS ET POPULI IANUE, CUM OMNIBUS EXISTENTIBUS IN EISDEM, DE QUIBUS CONDUXIT IANUE HOMINES VIVOS CARCERATOS VII°CCCC ET GALEAS XVIII; RELIQUAS LXVI FECIT CUMBURI IN DICTO GULFO VENECIARUM. [In onore di Dio e della beata Vergine Maria, nell’anno 1298, la domenica 7 di settembre, quest’angelo fu predato nel golfo dei veneziani, nella città di Curzola, e lí ebbe luogo una battaglia tra 76 galee genovesi e 96 galee veneziane; [di queste] ne furono catturate 84 dal nobil’uomo messer Lamba Doria, allora capitano e ammiraglio del comune e del popolo di Genova, con tutti coloro ch’erano con lui, di cui condusse a Genova in carcere 7400 uomini vivi e 18 galee; le restanti 66 fece bruciare nel suddetto golfo di Venezia].

Secondo il Templare, le galee catturate sarebbero state, invece, 78; 84, per l’Anonimo genovese; 85 per l’iscrizione della chiesa di S. Matteo, la quale compendia i dati – per cosí dire – ufficiali:

Da leggere Antonio Musarra, Il Grifo e il Leone. Genova e Venezia in lotta per il Mediterraneo, 324 pp., 7 tavv. b/n, 24,00 euro ISBN 978-88-581-4072-7

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Particolare del Trionfo della Morte, affresco realizzato da Buonamico Buffalmacco per il Camposanto di Pisa. 1336-1341. La scena rappresenta un gruppo di giovani uomini e donne, vestiti con abiti eleganti e ricercati, impegnato in una battuta di caccia. In sella ai loro cavalli, si imbattono

intervista a Chiara Frugoni, a cura di Furio Cappelli

in tre bare scoperchiate, al cui interno vi sono altrettanti cadaveri, in differente stato di decomposizione: il primo ha il ventre ancora gonfio per gli effetti del decesso; il secondo ha invece perso gran parte della sua consistenza: il terzo, infine, è ormai ridotto al solo scheletro.

Fra terrore e speranza

Emozione primaria, comune agli esseri umani come agli animali, la paura accompagna da sempre – per lo piú latente, talvolta in maniera manifesta –, l’intero arco della nostra esistenza. Le ragioni, però, possono essere tra le piú diverse, variando da soggetto a soggetto ma anche da epoca a epoca. Nel suo ultimo libro, in distribuzione a partire dal 15 ottobre, Chiara Frugoni compie una vasta indagine finalizzata a definire cosa, esattamente, spaventava l’uomo medievale e quali fossero gli strumenti messi in atto per reagirvi. E come quell’angoscia si sia evoluta, trasformata, riproposta fino ai giorni nostri. Ne abbiamo parlato con l’autrice, in anteprima per i nostri lettori... MEDIOEVO

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l nuovo libro di Chiara Frugoni edito da Il Mulino, Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo, propone un itinerario tematico nel passato, attraverso eventi, convinzioni e atteggiamenti che rivivono di fronte a noi, con le parole dei testimoni dell’epoca. All’ampia documentazione letteraria, si affianca una suggestiva selezione di 220 immagini a colori. Grazie all’immediatezza di tali fonti, quelle paure non sembrano appartenere solo a un periodo storico. Sembra che facciano anche parte della nostra stessa realtà. «Ho cominciato a scrivere questo libro nel settembre 2019, e in quel momento non avrei mai pensato che il tema della paura sarebbe divenuto cosí prepotentemente attuale. Avevo intenzione di affrontare l’argomento proprio iniziando dalle epidemie, e poi mi sono ritrovata a essere io stessa coinvolta in una pandemia, che ha reso le voci e le immagini del Medioevo testimoni del mio presente». ’è un aspetto specifico delle paure meC dievali? In che misura possiamo dire che le paure di quell’epoca si differenziano da quelle del nostro tempo? «Naturalmente gli uomini del Medioevo erano persone come noi, e come noi avevano paura. Ci sono molti punti di contatto, cosí come molti aspetti che li contraddistinguono, per esempio la paura della morte. È una paura di sempre, di tutti, però nel Medioevo si temeva soprattutto la morte improvvisa, che impediva di confessarsi al momento del trapasso. E senza confessarsi si finiva all’inferno, perché solo alla fine del XII secolo si assiste alLa rappresentazione del Giudizio Universale che sormonta il portale di Sainte-Foy (Santa Fede) a Conques (Francia). Inizi del XII sec.

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Particolare della Cacciata dei diavoli, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

l’“invenzione” del purgatorio che si afferma poi nei secoli successivi. Prima di allora, ci si trovava di fronte al semplice dilemma: inferno o paradiso. Siccome era difficilissimo andare in paradiso – per potervi accedere occorreva essere dei santi, degli eroi, dei martiri –, la gente pensava che sarebbe piuttosto finita all’inferno. Anche noi temiamo la morte, però per altre ragioni. Per esempio temiamo i terremoti, le catastrofi ecologiche e ambientali, il riscaldamento globale, l’arrivo di un asteroide che distrugga il pianeta... Tutto questo nel Medioevo non c’era. C’era sí la paura della fine del tempo, quando il mondo sarebbe finito con il ritorno di Cristo e con l’avvento del Giudizio Universale. Ma la fine del tempo non avrebbe comportato la distruzione del globo terrestre, mentre noi abbiamo proprio l’idea che la Terra possa andare in pezzi da un momento all’altro, o possa comunque diventare invivibile. Noi possiamo sorridere degli uomini del Medioevo quando pensavano che pioveva sangue, dal momento che non avevano alcuna idea che quella fosse in realtà la sabbia rossa del Sahara, trasportata dal vento. D’altronde noi non pensiamo solo al nostro mondo, abbiamo uno sguardo aperto all’intero universo, agli altri pianeti e alle stelle, eppure ci sono tante persone che, con timore, credono alla possibilità che da quei mondi lontani possano arrivare degli alieni, dotati di forze e capacità che non si potrebbero contrastare in alcun modo». essi di fronte alle loro paure della M morte, gli uomini del Medioevo potevano comunque fare affidamento sull’aiuto dei santi... «Un grande aiuto lo poteva dare san

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Cristoforo, un gigante il cui nome rimanda al suo ruolo di traghettatore di Cristo. Un giorno, mentre era intento a condurre i viandanti attraverso un fiume, si caricò sulle spalle questo bambino che diventava sempre piú pesante durante il cammino, e fu cosí che il santo capí che stava trasportando il capo del mondo. E questa gigantesca figura di san Cristoforo di solito era dipinta all’esterno delle chiese o delle mura, oppure nella controfacciata delle chiese, perché c’era la credenza che, se si fosse visto san Cristoforo, per quel giorno la morte non sarebbe sopravvenuta». na curiosa connessione tra la nostra U epoca e una certa visione del Medioevo si coglie nelle previsioni nefaste che sono state formulate alla vigilia del 2000, quando si è diffusa la convinzione che potesse avverarsi qualche catastrofe, rinnovando cosí i terrori dell’Anno Mille... «Si tratta di convinzioni legate naturalmente alla data della nascita di Cristo. Per molto tempo risultò molto complicato stabilire una data in modo concorde, rifacendosi per esempio alle olimpiadi, finché a un certo punto il monaco Dionigi il Piccolo risolse il problema. Nel 525 fu incaricato di redigere delle “tavole pasquali” per stabilire quando la Pasqua – che è una festa mobile – sarebbe caduta. Mise a punto dei calcoli astronomici molto complicati, e questo lavoro permise di stabilire quando era nato Cristo. Si trattò di un risultato non previsto, ma che avrebbe avuto molto successo. Si smise infatti di conteggiare il tempo dall’avvento dell’imperatore Diocleziano (284), come era in uso, introducendo come punto di partenza la nascita di Cristo. Ma noi sappiamo che Dionigi il Piccolo si sbagliò di cinque o sei anni. Di conseguenza, quando si parlava delle paure della fine del millennio, nel 2000, in realtà il 2000 era già passato». D’altro canto, se le paure del 2000 era-

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la paura nel medioevo no davvero diffuse, quelle che ancora oggi si attribuiscono spesso all’Anno Mille sono piuttosto un mito... «In realtà nel Medioevo pochissimi avevano l’idea di quando fosse il Mille, perché non avevano bisogno di saperlo, tranne i religiosi, dal momento che dovevano stabilire la data della Pasqua. D’altra parte già nel Medioevo si erano accorti che Dionigi il Piccolo aveva compiuto degli errori. L’espressione di grande effetto “Mille non piú Mille”, in ogni caso, altro non è se non un’invenzione di Giosuè Carducci (1835-1907), che in un suo discorso molto patriottico, e anche molto immaginifico, evoca l’immagine del sole che si alza prepotente all’alba dell’anno Mille, mentre la gente piange nel buio delle chiese e nelle campagne, perché pensa che stia per arrivare la fine. In realtà questa paura dell’anno Mille non è presente in alcuna fonte dell’epoca, tranne la testimonianza dell’abate Abbone di Fleury, che nel 998 dice di aver ascoltato un prete pazzo che era intento a predicare ciò. La sua pazzia sarebbe derivata dal fatto che, secondo le parole di Cristo, nessuno poteva sapere quando sarebbe avvenuta la fine del mondo». ome vanno interpretate, allora, le noC tizie di eventi terribili che si accalcano nelle cronache dell’epoca? «In queste cronache la paura della fine è effettivamente legata all’imperversare delle epidemie, delle siccità e delle carestie, ma queste catastrofi non sono mai legate all’idea dell’anno Mille. C’era d’altra parte il problema se l’anno Mille evocato dall’Apocalisse si doveva far partire dalla nascita o dalla passione di Cristo, il che determinava un’oscillazione di 33 anni. Anche l’inquieto monaco Rodolfo il Glabro (985 circa-1050 circa) parla tantissimo della fine, legandola a carestie, siccità e malattie, ma pone attenzione al 1033, contando dalla passione di Cristo».

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uando ormai la società medievale Q è al culmine del suo sviluppo, il problema della fine subisce il mutare dei tempi, e persino la geografia dell’aldilà si adatta a nuove sensibilità e a nuove esigenze... «Avviene infatti la nascita del purgatorio, per riprendere il titolo del famoso libro di Jacques Le Goff (1981). Soprattutto all’inizio del Duecento, si diffonde la convinzione che esista un “terzo luogo”, sulla scorta del pensiero di Agostino, che già aveva parlato di dimore misteriose nelle quali le anime avrebbero sostato in attesa che i tempi finissero. E queste anime potevano essere raggiunte dalle preghiere. Grazie a questo conforto, la loro sosta poteva essere abbreviata, e, soprattutto, si poteva ridurre il tempo richiesto dalle penitenze. Solo un passo enigmatico di san Paolo, d’altronde, indica che l’anima, dopo il trapasso, viene sottoposta a una prova del fuoco. A questo punto occorre chiedersi perché proprio agli inizi del Duecento si recupera e si sviluppa l’idea di un terzo luogo. La ragione va cercata nel fatto che nel Duecento, e ancora piú nel Trecento, è cambiata la società. È piú ricca, molto piú contenta di sé. I valori della vita diventano importanti, per cui si comincia a pensare che il mondo non è solo bianco o nero, ed è assolutamente impensabile che si finisca all’inferno magari solo per un peccato veniale. E quindi in una vita sociale molto articolata, dove i mercanti acquisiscono un ruolo nodale, si comincia a pensare che le anime sostino in questo terzo mondo per scontare la pena, fermo restando che quando ci si va a confessare dal sacerdote questi assolve dalla colpa ma non dalla pena, appunto. E questa pena, quindi, bisogna portarla con sé, ma la si può diminuire già in vita facendo elemosine e opere buone. Dopo la morte, si può essere aiutati dai propri cari. La Chiesa si incarica di fare da ponte, cosicché può esercitare un controllo anche

Pisa, Camposanto. Un altro particolare del Trionfo della Morte di Buonamico Buffalmacco raffigurante la personificazione della Morte. 1336-1341.

su questo “nuovo regno” dell’aldilà, e ottiene un guadagno attraverso il ricevimento delle elemosine e la disposizione delle messe». a nuova visione dell’aldilà permette L anche di porre l’accento sulla morte terrena, fino a quel momento del tutto ottobre

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secondaria rispetto alla dannazione o alla salvezza dell’anima, che costituiva il nucleo centrale della escatologia cristiana... «In base a una mia nuova lettura, la rappresentazione della morte, nella nuova iconografia del macabro, si pone in relazione proprio alla diffusione del purgatorio. È un tema prettamente laico perché il cristiano si deve occupare del destino dell’anima, non del destino del corpo. Ma il corpo è diventato cosí importante

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che l’idea di doverlo abbandonare è durissima da accettare. E cominciano a diffondersi in Francia dei racconti sotto forma di poemetti – dapprima illustrati dalle miniature, poi anche con l’ausilio dei dipinti in edifici sacri e su tavole –, dove tre re o tre nobili cacciatori incontrano tre scheletri, che sono però degli scheletri vivi, dialoganti, che dicono, in sostanza: “Guardate, noi eravamo come voi, e voi diventerete come noi”. Questo primo tema si sviluppa poi

nel Trionfo della Morte, dove la morte diventa la condizione umana che trionfa su tutti, e soprattutto su coloro che non pensano alla morte – i gaudenti, i ricchi, quelli che stanno bene –, mentre trascura chi desidera morire – i poveri, i malati, i derelitti –, come si vede per esempio nel grande affresco di Buffalmacco al Camposanto di Pisa (1336-1341). Si sviluppa poi il terzo tema, quello della Danza macabra, dove ognuno è affiancato dal proprio doppio, uno

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la paura nel medioevo A sinistra miniatura raffigurante la distribuzione del grano alla popolazione, dallo Specchio umano di Domenico Lenzi, noto anche come Libro del Biadaiolo, in cui l’autore racconta la carestia del 1329. 1344-1347. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana. Nella pagina accanto miniatura raffigurante i dieci giovani protagonisti del Decamerone di Giovanni Boccaccio, da un’edizione francese del XV sec. Parigi, Bibliothèque de l’Arsénal. Per sfuggire alla Peste Nera, il gruppo di sette donne e tre uomini trascorre dieci giorni nelle campagne fiorentine. Sulla sinistra, nella città di Firenze, cinta dalle mura, la morte continua a mietere vittime.

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scultoreo perché in uno spazio molto ristretto ci sono ben 124 personaggi, e la visione entra nei dettagli solo all’inferno, dove si distinguono le professioni che le anime dannate svolgevano nell’aldiquà, e si seguono storie molto precise di soprusi e violenze. D’altra parte il paradiso non c’è. Vediamo solo la ristretta schiera degli eletti che vanno verso Dio, in una visione esclusiva da cui non traspare alcuna gioia o alcuna prospettiva di salvezza per il fedele. E questo fa vedere come la Chiesa cercasse sempre di fomentare la paura».

scheletro che lo costringe a danzare, a prescindere dal suo mestiere e dalla classe sociale a cui appartiene. Questo è un tema che ha avuto molto successo all’estero, dove si osserva anche una componente di “giustizia sociale”, evidente nella presenza di re, papi e cardinali che sono costretti a partecipare alla danza. Sono convinta che la Chiesa accettasse di ospitare queste raffigurazioni negli edifici sacri proprio per via della nascita del purgatorio, che ebbe come effetto collaterale, non previsto, la convinzione diffusa che all’inferno ci andassero solo i ribaldi, gli assassini, mentre la gente normale – grazie alle penitenze in questa vita o dopo la morte, con l’aiuto dei propri cari –, andava in purgatorio come meta transitoria in

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vista del paradiso. La Chiesa, quindi, – che ha sempre basato la propria pedagogia pigiando sul pedale del terrore delle punizioni infernali –, ricorre ora all’arma del macabro per far vedere che, in realtà, tutti i valori della vita a cui si tiene cosí tanto sono effimeri». acciamo un passo indietro. Esistono F immagini di indubbia efficacia che mostrano un aldilà dove gli abissi dell’inferno occupano quasi ogni spazio... «Quando ancora si parlava della possibilità di andare senza alternativa all’inferno o in paradiso, nasce per esempio la grande raffigurazione del Giudizio Universale nel portale di Sainte-Foy (Santa Fede) a Conques (inizi del XII secolo). Mi sono soffermata su questo grande apparato

ntriamo in una dimensione piú inE tima. Ci sono testimoni che hanno lasciato pagine impressionanti sull’impatto delle carestie e delle epidemie nella vita quotidiana di tante persone... «Sí, per esempio mi sono soffermata a lungo sulla bellissima e molto coinvolgente descrizione di una terribile carestia nelle Cronache del predetto Rodolfo il Glabro, dove non mancano toni da favola nera, quando vediamo all’opera degli orchi che attirano bambini e cuociono la carne umana. Riguardo alla peste ho fatto parlare diversi personaggi come Giovanni Villani (1280 circa-1348), che muore proprio di questa malattia, dal momento che l’aveva sottovalutata. Ma ci sono anche dei cronisti senesi che sono estremamente commoventi, come Agnolo di Tura detto il Grasso, che ha dovuto seppellire con le proprie mani cinque suoi figli. E a leggerli c’è proprio l’impressione di rivivere quello che è accaduto ora con il Coronavirus a Bergamo: l’evento terribile e inaspettato che interrompe tutti i contatti sociali, con una moria di persone che sembra impossibile da contenere. C’è poi un testimone che cura anche l’aspetto figurativo del suo resoconto. Si tratta del mercante fiorentino Domenico Lenzi, che nel suo Specchio umano, noto come Libro del Biadaiolo, racconta la carestia del 1329 analizzando l’andamento

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la paura nel medioevo dei vari prezzi del grano, e commissiona anche delle miniature che fanno vedere l’arrivo improvviso di questa tragedia, con dei sonetti di corredo che testimoniano i discorsi tra Dio e gli uomini». a carestia, come spesso avveniva in L queste crisi, è dunque ricondotta alla volontà divina, che fornisce cosí l’unica chiave interpretativa degli eventi. «Nel Medioevo si pensava sempre che simili catastrofi fossero punizioni divine. D’altra parte anche oggi, negli USA, abbiamo avuto degli uomini di Chiesa che hanno addossato la colpa della pandemia ai peccati degli uomini, e in particolare degli Ebrei, esattamente come avveniva nel Medioevo. Nel predetto Libro del Biadaiolo, Lenzi compie delle riflessioni che, se fossero state approfondite, avrebbero fornito un quadro della situazione esaustivo. Osserva che il contado fiorentino era troppo Sulle due pagine illustrazioni tratte dalla Storia del fanciullo cristiano assassinato a Trento di Albrecht Kunne, opera che dà conto della vicenda del piccolo Simonino. 1475. Monaco di Baviera, Bayerische Staatsbibliothek. Qui accanto miniatura forse raffigurante Trotula, la donna medico che la tradizione indica attiva a Salerno alla fine del XII sec. XIV sec. Londra, Wellcome Library.

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piccolo per sostenere le esigenze della città, e Firenze era quindi obbligata a importare provviste di grano. Con il grano di Firenze si andava avanti per cinque o sei mesi, e quindi, se si fosse creata una strozzatura nell’approvvigionamento, si determinava facilmente una crisi. La dieta era a base di cereali, la popolazione si era ampliata, i terreni erano sempre piú poveri, per cui ciclicamente si riproponeva lo spettro della carestia. Tuttavia, il fatto di essere profondamente religioso impedisce a Lenzi di trarre

delle conclusioni razionali, per cui riconduce tutto il problema ai peccati degli uomini». e convinzioni religiose potevano anL che accentuare l’impatto delle crisi, soprattutto quando, durante un’epidemia, si organizzavano lunghi cortei per invocare l’aiuto di Dio... «Nel libro de Les très riches heures du duc de Berry (1412-1416), c’è una bellissima miniatura che illustra la processione voluta nel 590, a Roma, da papa Gregorio Magno, per ottenere la protezione divina contro la peste. Per effetto del contagio vediamo tante persone del corteo che contraggono la malattia proottobre

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prio una donna, Anna, che cerca di guarire il marito Tobi, diventato cieco poiché una rondine aveva fatto cadere delle deiezioni sui suoi occhi. In una miniatura del 1470 che ho analizzato, la vediamo al focolare mentre rimesta, intenta a preparare una medicina avendo un libro in grembo, il che testimonia la capacità di lettura di queste donne che curavano i malati in casa. D’altronde nel Medioevo c’è stata una grande medichessa, Trotula (XI secolo), che si occupava dei parti, riuscendo anche a praticare un cesareo. Vi si faceva ricorso solo qualora la puerpera morisse, ma in tal modo si poteva almeno salvare il bambino».

prio durante la processione e muoiono. Il papa continua imperterrito, perché sa che la causa di tutto risiede soltanto nel cuore degli uomini, e questo ne è il segno. A un certo punto la peste finisce, e c’è l’idea che compaia su Castel Sant’Angelo l’arcangelo Michele che rinfodera la spada. Da qui deriva appunto l’attuale nome dell’edificio». ome si affrontavano, all’atto pratico, C queste catastrofi? «Purtroppo si ricorreva ad armi molto spuntate, perché la medicina di allora si basava essenzialmente sul tastare il polso e guardare le urine, da cui, a seconda del colore e dell’o-

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dore, venivano dedotte alcune supposizioni. Boccaccio nel Decamerone (1350 circa), e Franco Sacchetti nel suo Trecentonovelle (1392 circa), non avevano alcuna opinione positiva sulla bravura di questi medici, e li prendevano in giro. D’altro lato si pensava spesso che essi ricorressero a delle semplici superstizioni. In realtà, chi dava l’idea di saper curare sul serio erano le donne, perché si dovevano occupare degli anziani e delle persone malate in famiglia, e si trasmettevano cosí, di madre in figlia, delle conoscenze in fatto di erbe curative. A tal proposito, in una storia tratta dalla Bibbia, precisamente dal libro di Tobia, è pro-

i fronte alle malattie il primo presiD dio era comunque costituito dalla protezione dei santi... «Per la peste veniva in soccorso il martire san Sebastiano. Nel Medioevo si pensava che i santi proteggessero proprio quelle parti del corpo che erano state interessate dal supplizio. Per esempio, sant’Apollonia protegge dal mal di denti perché le sono stati strappati tutti i denti. Dal canto suo, san Sebastiano subisce un articolato martirio finendo per essere crivellato di frecce, e proprio le frecce già a partire da Omero sono allegorie della peste. Di conseguenza, rivolgendosi a san Sebastiano si pensava che si sarebbe guariti. Perciò quando noi vediamo nelle chiese le figure di san Sebastiano o di san Rocco – che si ammalò proprio di peste –, oppure di sant’Antonio abate – che si riconosce perché ha sempre un porcellino con sé –, possiamo essere sicuri che la peste sia passata di lí. In realtà sant’Antonio proteggeva in modo particolare dal fuoco di Sant’Antonio, vale dire una malattia tremenda che non è quella che intendiamo noi oggi con quel nome (vale a dire l’herpes zoster). Era una malattia che si sprigionava quando veniva utilizzato il grano contaminato da un parassita, noto come

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la paura nel medioevo San Francesco davanti al sultano Malik al-Kamil (o La prova del fuoco), scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.

segale cornuta. Si producevano lacerazioni della pelle che davano luogo a bruciori insostenibili, e siccome nel Medioevo non si facevano molte distinzioni, per via di queste manifestazioni cutanee la malattia veniva assimilata alla lebbra. Perché sant’Antonio? I frati antoniti, seguaci del santo, allevavano dei maiali il cui grasso leniva queste ulcerazioni, e quindi si credeva che con questo grasso si poteva guarire». a lebbra, appena nominata, era naL turalmente un’altra malattia che faceva molto paura... «Attraverso le miniature e le storie si vede come i lebbrosi fossero considerati come segnati da Dio, nel senso che erano stati concepiti nel peccato o erano loro stessi peccatori. Evidenzio allora la differenza di trattamento che san Francesco riserva proprio ai lebbrosi: li cura,

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tant’è che all’inizio i frati vivevano proprio nei lebbrosari. Forte dell’idea che tutti sono figli di Dio, egli è capace di vedere che dietro il volto sformato dei lebbrosi c’è un proprio fratello, e può cosí capire la sofferenza degli altri, condividendola». ntriamo cosí nella paura del diverso, E su cui ti soffermi a lungo. Ti chiederei una riflessione sulla paura degli Ebrei, per iniziare da un tema che purtroppo ha un aggancio con situazioni che non sono lontane dalla nostra epoca... «La paura degli Ebrei è un portato delle crociate tanto che, finché esse non si scatenano, anche nelle immagini non hanno alcun tratto che li identifichi come tali. L’idea di andare in Terra Santa allo scopo di liberarla, non solo presupponeva la cacciata dei musulmani che l’avevano conquistata, ma riportava anche in primo piano la responsabilità dei

figli di David in merito alla crocifissione di Cristo. All’improvviso, quindi, gli Ebrei che stavano alla porta accanto in tante città europee, furono sentiti come nemici da uccidere, cosicché le crociate cominciano con questi terribili massacri prima ancora dello sbarco in Terra Santa. Purtroppo la Chiesa, anche se c’è qualche isolata eccezione, asseconda tutto ciò. Gli Ebrei diventano sempre piú quelli che devono essere segregati e cacciati. E proprio il fatto che ogni tanto venivano cacciati, senza poter piú esercitare le loro professioni, fece sí che si dovessero specializzare nel prestito del denaro con interesse, dal momento che proprio il denaro era l’unica cosa che potevano prendere e portar via nel caso dovessero lasciare le loro case. Si arriva cosí a papa Innocenzo III, contemporaneo di san Francesco, che nel IV Concilio lateranense (1215) stabilisce che gli Ebrei debbano portare un segno distintivo. In Germania si adotta soprattutto un cappello a punta, mentre negli altri paesi viene imposta una rotella che può essere di vari colori, bianca, rossa oppure gialla. E questo crea un corto circuito con la storia contemporanea, per via della stella gialla di Hitler. La follia si scatena poi con l’idea del complotto, quando per esempio, nel Medioevo, si afferma che gli Ebrei o i lebbrosi avvelenino i pozzi. E anche questa idea del complotto ci riporta al giorno d’oggi, dal momento che si è ritenuto che la pandemia tuttora in atto fosse nata in un laboratorio, e che quindi la Cina avesse ordito una macchinazione con un’arma biologica per piegare l’Occidente. La ricerca di un capro espiatorio fa parte dei comportamenti di sempre». ottobre

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proposito di capri espiatori, è imA pressionante il caso dello pseudo-san Simonino, la cui storia giustificava e alimentava l’odio verso gli Ebrei. «Nel Medioevo si diceva che questo santo bambino fosse stato trucidato e crocifisso dagli Ebrei, e, se vediamo in una chiesa un’immagine di questo santo, è evidente che in quel contesto ci fosse una presenza ebraica, come pure un’attitudine molto violenta nei riguardi di questa minoranza. Questo povero bambino, in realtà, era semplicemente caduto in un canale. E la Chiesa solo molto recentemente ha riconosciuto che non era stato crocifisso, e quindi lo ha tolto dal calendario (1965). L’idea che gli Ebrei si dedicassero a omicidi rituali su bambini, per ricordare il supplizio di Cristo, era molto diffusa nel Medioevo, anche se non aveva alcuna connessione con la realtà. Per esempio, in una predica, il domenicano fra’ Giordano da Pisa (1260 circa-1310) asserisce che bersaglio di questa pratica erano i bambini orfani. Nel 2007, poi, Ariel Toaff, il figlio del rabbino di Roma, ha scritto un libro (Pasqua di sangue) in cui sostiene che veramente alcuni gruppi di Ebrei, come vendetta delle angherie subíte, si fossero dedicati nel Medioevo a queste uccisioni rituali. Questo ha suscitato un pandemonio, anche perché quel lavoro, sotto il profilo del metodo storico, lasciava molto a desiderare. L’autore, in seguito, ha ritirato il libro e lo ha riscritto, ma in ogni caso si è trattato di uno scandalo di cui si poteva fare a meno, perché ha rinfocolato in alcune persone una ostilità preconcetta verso gli Ebrei, senza apportare alcuna reale acquisizione». Passiamo ora ai seguaci di Maometto... «I musulmani erano ritenuti degli eretici e poiché sono poligami, erano ritenuti licenziosi e dissoluti: vennero perciò stigmatizzati e ritenuti nemici impossibili da convertire. Per san Bernardo di Chiaravalle

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(1090-1153) uccidere un musulmano non è un omicidio bensí un malicidio, perché con lui si uccide il male. In tutt’altro campo si pone invece, di nuovo, san Francesco. Il Poverello testimonia il messaggio evangelico di amore e di pace proprio di fronte a quei musulmani che, fino a quel momento, avevano visto solo il volto violento dei cristiani. La Prova del fuoco di fronte al sultano che vediamo raccontata ad Assisi, d’altronde, è una leggenda. Piuttosto, quando il Poverello ritorna in patria, scrive un capitolo bellissimo della Regola non bollata (1221), che ci è stata tramandata ma che non è stata approvata né dal papa né dai confratelli. Vi si dice come i frati devono andare tra i musulmani: esclude che debbano predicare – la parola “predicare” proprio non c’è –, e si sofferma su come debbano convivere, senza provocare, senza suscitare liti e dispute. Solo se si fosse creato un clima di reciproco rispetto i frati potevano parlare di Dio, altrimenti dovevano limitarsi a dare un buon esempio di vita pacifica. I musulmani dell’Africa settentrionale che erano affluiti in Spagna, hanno poi dato vita alla paura degli uomini di pelle scura. Inizia cosí la rappresentazione dei diavoli come neri, e in particolare come etiopi, addirittura. Nasce di conseguenza l’idea del nero come malvagio. Solo molto tardi ci sono alcune eccezioni in questa visione negativa della pelle scura. C’è il caso di san Mauro o Maurizio, che era rappresentato come moro per effetto del nome, e poi, a partire dal XV secolo circa, quando i re magi iniziano a rappresentare i continenti

Da leggere Chiara Frugoni, Paure medievali. Epidemie, prodigi, fine del tempo, il Mulino, Bologna, 400 pp., ill., 40,00 euro ISBN 978-88-15-29064-9

conosciuti, c’è anche un re magio nero, Gaspare. E questo crea una tradizione che arriva fino ai nostri giorni, nei presepi». er concludere, le tribolazioni e le pauP re del Medioevo possono essere anche lette in controluce attraverso miti di prosperità... «Si tratta di miti compensatori che sono durati fino ai nostri giorni. Basti pensare all’albero della cuccagna sul quale si poteva salire per prendere cose buonissime da mangiare. Nel paese di Bengodi le oche andavano ad arrostirsi di propria iniziativa, scorrevano fiumi di vino, non c’erano guerre e non c’era denaro – il che è molto interessante dal punto di vista della rappresentazione sociale. Boccaccio parla di questo paese quando prende in giro il povero Calandrino. C’è una montagna da cui calano ravioli avvolti nel formaggio, le vigne vengono legate con le salsicce e si può mangiare a sazietà. Tutto questo nasce da una realtà dove si subiva spesso la fame. In fondo nei miei ricordi di bambina c’è ancora il modo di definire una persona sovrappeso come “bella grassa”. In tal senso, la grassezza era sinonimo di bellezza, dal momento che era il segno che ci si era potuti saziare, in un mondo dove il cibo sembrava non bastasse mai».


bevagna i mestieri del medioevo gaita san giovanni

LA GUALCHERIA

Datemi uno straccio... di Bruno Caldarelli

...e ne farò candidi fogli, per scrivere e disegnare. Si potrebbe riassumere cosí il processo che, nel Medioevo, portò alla fabbricazione della carta, grazie alla creazione delle prime macchine in grado di produrre l’indispensabile pasta di cellulosa. Uno dei mestieri fedelmente replicati a Bevagna, dalla Gaita di San Giovanni, impegnatasi con altrettanto Didascalia rigore filologico nel far rivivere i gesti dei mastri artigiani aliquatur adi odis que vero ent qui specializzati nella lavorazione del vetro e del bronzo doloreium conectu

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uand’ero bambino, nel mio paese di origine, periodicamente uno strano personaggio itinerante si annunciava in strada, strillando un breve tormentone, che le donne rilanciavano con la connessione permanente assicurata dalle finestre aperte: «Passa lu stracciaru!». Una scendeva in strada, un’altra lo chiamava dalla finestra, tutte per proporgli qualche anticaglia messa da parte con la speranza di un po’ di denaro o di una permuta utile. Però, anche se ripenso a mia madre, non ricordo che si trattasse piú di stracci. O magari sí, ma ormai solo marginalmente. E senza vedere gli stracci, quel nome, «lu stracciaru», lasciava nella mia testa di bambino il disagio delle cose incomprensibili. Gli antenati di quel pittoresco operatore avevano cominciato sette secoli prima a battere il territorio per fare incetta di vecchi panni (lino, canapa, poi anche cotone), da destinare alle voracissime «gualchiere» di Fabriano, distanti una ventina di chilometri. Secoli dopo, la fabbricazione di carta dalla pasta di legno sancí anche l’agonia degli stracci come oggetto di mercato, perciò il raccoglitore dovette gradualmente riconvertire lo scopo dei suoi giri di raccolta. Ma forse l’antica denominazione medievale di

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rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.


I mastri artigiani della Gaita di San Giovanni lavorano al tino dal quale attingono la pasta di cellulosa che darĂ vita ai fogli di carta.

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bevagna i mestieri del medioevo COME FUNZIONAVA IL MAGLIO AD ACQUA PER LA PRODUZIONE DELLA CARTA 1. I bracci che provocavano il saliscendi dei magli erano ricavati da spesse traverse di quercia, imperniate a una estremità e sollevate dalle camme all’opposta. Per evitare che si potessero spostare lateralmente, l’escursione avveniva in una apposita asola dei robusti montanti. 2. Bracci oscillanti dei magli, ricavati da travi di quercia a sezione quadrata di circa 15 cm di lato. La testa battente era differenziata in maniera da produrre, dopo la prima disgregazione del tessuto, la sua trasformazione in impasto omogeneo.

Nella pagina accanto la pila a magli ricostruita dalla Gaita di San Giovanni in azione. In questa pagina ricostruzione grafica di un maglio per la produzione della carta.

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«stracciaru» («stracci da fare carte» si trova già in una tariffa daziaria del 1317), che aveva attraversato secoli e generazioni, era talmente radicata nella memoria collettiva delle persone da sopravvivere meravigliosamente, nel lessico quotidiano, anche alla morte commerciale del suo significato. «Lu stracciaru» era un protagonista del mondo medievale in cui le cose usate dalla gente istruita, come la carta, le fabbricavano materialmente gli ignoranti, la «gente grossa», che quasi mai sapeva leggere e scrivere, pur essendo in possesso di saperi empirici comunque importanti per guadagnarsi da vivere e far progredire il proprio spicchio di mondo. Perciò trent’anni fa, quando a Bevagna si decise di giocare al Medioevo, si scelse proprio di replicare, con il lavoro, soprattutto la vita di quegli ignoranti.

Un colpo di fulmine

La Gaita San Giovanni inaugurò la sua adolescenza medievale con un colpo di fulmine per la carta, scoccato per l’emozione di una visita al museo dedicato di Fa-

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briano, davanti alla duecentesca «pila idraulica a magli multipli», ricostruita su progetto dello storico Ulisse Mannucci. E la libidine per quella macchina ispirò una domanda che il gruppo di San Giovanni articolò all’indirizzo di un unico destinatario: «France’, se pò fa’?». Lo sventurato rispose. «Se pò fa’». Francesco, allora operaio della telefonia, mani da maestro medievale e testa da drago delle tecnologie preindustriali, era uno che piú tardi non avrebbe tremato neppure davanti alla Pirotechnia di Biringuccio (il riferimento è al trattato del chimico, mineralogista e metallurgista senese Vannoccio Biringuccio [1480-1537], pubblicato postumo, nel 1540, n.d.r.), una mazzata da tramortire un toro. Cominciò cosí l’impresa epica in cui ciascuno immolò per mesi lo scarso e prezioso tempo libero accettando il rischio del divorzio. Nel gruppo c’era anche un altro Francesco, che della cartiera fece la sua vita, proprio quel «maestro Cecco» che ancora oggi accoglie i visitatori. Dopo trent’anni. Bella storia. Una cartiera nella Bevagna del Medioevo era plau-

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bevagna i mestieri del medioevo sibile immaginarla per contagio da Fabriano, perché la mobilità di alcuni maestri, nonostante la normativa protezionistica sul sapere cartario, è documentata già nel Trecento. Il resto c’era. Le «gualchiere» necessitavano di un corso d’acqua per ricavarne l’energia necessaria a far muovere i magli per la follatura. Bene, poco fuori le mura di Bevagna scorre il Clitunno, oggi ameno fiumicello che imperla un piccolo territorio a vocazione turistica, ma in epoca romana citato, latinamente, in un’epistola di Plinio il Giovane come grande via d’acqua navigabile. Però a Bevagna il terrritorio di San Giovanni non ha alcuna contiguità con il fiume. E poi, dal Trecento, le cose sono un po’ cambiate, gli spazi ortivi lambiti dal fiume fuori le mura sono presidiati da una stringente normativa urbanistica, impermeabile alle passioni.

Una suggestione irresistibile

Per fortuna le passioni sono come il trapano, possono trovare il duro piú duro ma alla fine da qualche parte bucano. La passione di San Giovanni bucò dentro le mura, trovando la generosa disponibilità di un privato che mise a disposizione un ambiente speciale: un tratto di ambulacro, perfettamente conservato, dell’antico teatro romano del II secolo d.C., inglobato nella sua proprietà. Quell’ubicazione «secca» al centro del paese sacrificava in parte la coerenza storica e funzionale, ma la suggestione era irresistibile e la decisione fu facile; che sia stata anche felice lo dicono le piú o meno trecentomila persone che hanno visitato il Mestiere in questi trent’anni di vita, nella location originaria e poi nella seconda e poi in quella attuale, meno spettacolare ma piú realistica per le ridotte dimensioni di una «gualchiera» familiare del Trecento. Intanto, però, si doveva in qualche modo fare i conti con il «fiume-che-non-c’è». Si pensò che il visitatore, facilmente sedotto dalle suggestioni dell’ambiente, andava aiutato a immaginare un contesto fluviale esterno, che sarebbe risultato facilmente intuibile se fosse arrivata proprio l’acqua ad azionare «filologicamente» l’impianto. E ciò avrebbe messo il Mestiere anche in pace con il Regolamento della manifestazione. Detto fatto. La soluzione di San Giovanni fu quella di riprodurre la grande ruota idraulica verticale a cassette di Fabriano, alimentandola però con la spinta dell’acqua dall’alto. La coerenza storica è confermata da fonti in cui questa soluzione (trascinamento «per di sopra»), nota già in antico, ricompare nel Due/Trecento, neanche a farlo apposta, come molendinum franceschum (Maria Elena Cortese, L’acqua, il grano, il ferro. Opifici idraulici medievali nel bacino Farma-Merse, Firenze, 1997). In pratica, un impianto che sfrutta come generatore di moto il peso di caduta dell’acqua sul quadrante superiore della ruota, anziché l’impatto della corrente co-

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me nella egualmente documentata percussione «per di sotto». Perché, nel nostro caso, dovendosi ovviare con la captazione artificiale all’assenza di un corso d’acqua nel contesto urbano, risultò possibile e realistico mostrare l’effetto-caduta da un bacino di raccolta supposto al livello superiore, mentre sarebbe stato impossibile creare o far supporre un ampio flusso d’acqua alla base della ruota per riprodurre il trascinamento orizzontale della corrente. Qui l’impianto non necessita di un meccanismo di ribaltamento del moto, necessario invece per le macine (mulini «a ritrecine»), perché il moto verticale della ruota attiva la rotazione in asse dell’albero a camme in legno di quercia incardinato nel suo centro. Il saliscendi circolare delle camme fa sollevare alternativamente per contatto i nove magli su di esse appoggiati, facendone poi ricadere per gravità le teste chiodate a percuotere e sfibrare la poltiglia di stracci nelle tre vasche. Tutto in linea con la geniale tecnologia degli antichi maestri, ma riprodurla con mezzi di fortuna, come le traverse dismesse da un cantiere ferroviario, fu un mezzo incubo di fatica e dolore. Per uscirne col sorriso, si sa, sin dal Duecento, che è meglio chiamarsi Francesco...

Il recupero dei gesti e del lessico

Tutto il ciclo di lavorazione, studiato sui testi degli storici fabrianesi, rivive intorno all’imponente macchinario e viene aggiornato periodicamente alla luce di eventuali rilievi delle Giurie o di nuove acquisizioni, anche per ciò che riguarda la scena, animata dalle interazioni e dai dialoghi in volgare di una ricca batteria di personaggi con cui la ricostruzione viene proposta ogni anno dal vivo nella specifica gara. Rivivono cosí la svelta ed essenziale gestualità delle «stracciarole», ricostruita sui verbi usati dalle fonti («scrullare, «arcapare»); la lavorazione al tino con le «forme» per la definizione del foglio; l’impressione della filigrana, citata per la sua funzione anche legale da Bartolo da Sassoferrato; il trattamento dei maleodoranti scarti di concia per la collatura; la pressatura con il torchio (negli antichi inventari chiamato «soppressa»); l’asciugatura nello «spanditoio»; la rifinitura dei fogli con punteruolo e cialandro, prima dell’acquaternamento e del confezionamento in risme da inserire nelle balle per la spedizione. All’inizio «lu stracciaru» arriva davvero, con il suo sudato carico di materia prima che alimenta il mondo della carta. E dopo le varie fasi di lavoro, tutte materialmente eseguite, alla fine esce un vetturale con il suo carico di prodotto finito, consistente in risme di fogli da avviare al mercato. Un rito antico, che sin dal Medioevo ha dato da campare a tanta gente e consentito un’accelerazione progressiva alla diffusione del sapere. Sette secoli prima che la strepitosa tecnologia del nostro tempo spingesse la condivisione della conoscenza oltre l’orizzonte immaginabile. ottobre

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LA VETRERIA

L’ARTE IN UN SOFFIO

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n pensiero in memoria e onore di Carlo Aiazzi da Colle Val d’Elsa, detto Puskas per talento calcistico quando il pallone non dava il pane (Ferenc Puskas, calciatore d’origine ungherese, è stato uno dei piú grandi talenti d’ogni tempo, giocando fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento e cogliendo i suoi maggiori successi con la maglia del Real Madrid, n.d.r.). Per il pane lui imparò a soffiare il vetro, come i suoi conterranei del Trecento. E come nel Trecento il suo vetro era una sfoglia di cipolla. Oggi nessuno lo fa piú cosí. Nel 1994 Puskas fu chiamato a Bevagna dalla Gaita San Giovanni in occasione del primo allestimento di una vetreria medievale, realizzato con l’affettuosa assistenza dell’archeologa Marja Mendera, un’autorità sul vetro dell’età di Mezzo. Per il gioco di allora fu già uno sforzo imponente. Ma il gioco non vale per la soffiatura, col fuoco ci vuole un drago vero. In quelle mitiche serate, sul prato di San Giovanni, la gente guardava Puskas come una star. Curiosità, stupore, ammirazione in rapida sequenza fissa sulle facce quando lui domava la materia infuocata col fiato del padrone, piegandola ad

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assumere docilmente la forma richiesta: il bicchiere a parete liscia, la «guastada», l’ampolla da farmacia, un «gambassino» no, quelli si soffiano con lo stampo, comodo e noioso come la sella sul cavallo, lui per lo spettacolo andava a canna libera, i draghi montano a pelo. Per Puskas poi prendere fuoco, oltre a un’occupazione permanente, era anche la metafora del carattere. Quando si incendiava, ruvido e bellicoso, pigliava di petto uno per uno «tutta la corte del Paradiso», come il senese di Franco Sacchetti nella novella LXXXI. Poi l’incendio si esauriva e rivedevi l’uomo dal fondo buono che, a saperlo prendere, ti dava tutto. Che t’aspetti di piú da un toscano che campa di fuoco? La Vetreria ha avuto nel tempo piú cicli di allestimento. L’ultima ricostruzione (2016-2018) ha portato importanti acquisizioni di completamento, come la «calcara». È la fornace per fare la «fritta», il vetro di base, una mescola tra sabbia silicea vetrificante e un fondente vegetale. La calcara è struttura importante nel ciclo del vetro ma poco documentata nei reperti trecenteschi. Il testo di Marja Mendera (La produzione di vetro nella Toscana bassomedievale. Lo scavo della vetreria di Germagnana in Valdelsa, Firenze 1989) ne riferisce La Vetreria ricostruita dalla Gaita di San Giovanni, basandosi sulle fonti e sui dati offerti dall’archeologia.

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bevagna i mestieri del medioevo

Sulle due pagine l’estrazione della «fritta», cioè del vetro di base, che si ottiene da una mescola fra sabbia silicea vetrificante e un fondente vegetale. Nella pagina accanto, nel riquadro soffiatura del vetro a canna libera.

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una flebile ipotesi di individuazione, sul sito di scavo, nei resti di una fornace a pianta rettangolare, perché proprio quella forma anomala, insieme alla specificazione di forno a riverbero, viene indicata piú tardi da Biringuccio per la fornace da fritta.

Forni a riverbero e a crogiolo

Con i dati dello scavo rielaborati da Peppe, mente progettuale dei fuochi di San Giovanni, la Gaita mise in campo Danilo, uno che di mestiere non fa il costruttore di forni medievali, però mette le mani con successo in qualunque situazione tecnica. Se gli chiedete come fa vi risponde semplicemente che l’ha imparato, allora, all’Istituto Tecnico Industriale. Chissà oggi. Il suo forno a riverbero, già segnato da rughe d’espressione sulla superficie esterna, ingurgita i tronchetti di quercia, da queste parti chiamati «pizzoli», con la velocità con cui Braccio di Ferro ingurgita i barattoli di spinaci. E supera in tromba i 750° necessari a comporre la mescola del vetro. Sempre e soltanto a furia di legname. È «by Danilo» anche il vicino e piú fotogenico forno a crogiolo, del tipo mediterraneo a pianta circolare e camere sovrapposte (Daniela Stiaffini, Il vetro nel Medioevo, Roma 1999), quello in cui dalla fusione di «fritta» e rottami di vetro si ottiene il prodotto finale per la canna dei maestri. Per la gara dimostra di tenere egregiamente ben piú di 1000° con faggio e quercia, ma per il pubblico della festa è alimentato diversamente, il consumo di legname sarebbe fuori portata, già nel Trecento le vetrerie erano oggetto di aspre polemiche per l’imponente prelievo dal territorio. Tornando alla «calcara», il lavoro si concluse col

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bevagna i mestieri del medioevo fiato corto proprio a ridosso della gara, e questo caricò l’attesa di ulteriore tensione. Ma alla fine venne il momento in cui Bic, informatore farmaceutico e dunque... pratico della fase, davanti agli occhi stupiti della Giuria estrasse dal forno con la pala i primi blocchi fiammeggianti di fritta solidificata. Una scena notturna, povera e silenziosa, dal realismo impressionante: chi scrive la colloca tra i momenti di maggiore emozione vissuti lungo la sua piú che ventennale milizia come biografo di San Giovanni.

La soluzione in un contratto

Altro problema era quello della reale dotazione tecnica di una vetreria del Trecento. L’iconografia del periodo è preziosa solo per i manufatti, dato il gradimento dei pittori per il vetro, quella di ambiente tecnico è pressoché inesistente e anche le poche fonti documentarie tacciono sui dettagli. Ora, anche quando è presumibile che una certa situazione sia rimasta a lungo invariata, per noi scovare finestre con affaccio diretto sul Trecento è sempre un’emozione. L’emozione stavolta è venuta da una fonte d’archivio pubblicata nel 1913, la cui sbrigativa citazione in una nota di testo ci ha spinto all’inseguimento, concluso presso la Biblioteca Classense di Ravenna. In un contratto del 1365, un capitalista cesenate, Michele fu Giovanni, si mette in società con un vetraio toscano, Michele Ferri da Gambassi, ora cittadino ravennate, per lucrare gli sperati profitti di una vetreria. Il mercante conferisce in società un capitale liquido (cento libbre di «ravignani»), mentre il vetraio, oltre a una quota di denaro, immette tutto il «fornimentum» della sua arte, che il notaio Francesco Zintilini de Bellolis riporta pezzo per pezzo nel contratto in latino regalandoci quantità, tipologia e nomenclatura degli attrezzi di una vetreria di settecento anni fa. Un bingo. Al netto di alcuni termini tecnici risultati intraducibili per noi, abbiamo golosamente succhiato il succhiabile, incrociando i nomi con le conoscenze disponibili per iconografia e tradizione. Cosí Gunther, storico fabbro tedesco di Bevagna, ha potuto riprodurre in ferro molti degli attrezzi che ser Francesco cita e verifica intervenendo personalmente nella nostra scena, in latino e in volgare, per l’inventario dei valori conferiti. Viva i notai del Medioevo. Circa la produzione, le testimonianze archeologiche (Germagnana, Monte Lecco) sono concordi nel restituire i connotati del consumo di massa: per oltre il 50% bicchieri e per un altro 25% bottiglie. Le eleganti bottiglie a collo lungo («guastade» in area toscana, «inghestere» in area veneta) sono ben rappresentate nei dipinti dell’epoca. Nel nostro caso, però, l’oggetto storicamente piú interessante da riprodurre è stato quello piú facile da soffiare, proprio il famoso «gambassino» dei maestri valdelsani. Un leggerissimo bicchiere tronco-conico, con impressi semplici decori geometrici a rilievo, che veniva soffiato a

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stampo dentro una matrice in bronzo. Il problema complicato è stato proprio lo stampo in bronzo, risolto con l’aiuto di Andrea Roggi, un artista generoso. Poi è stato emozionante veder uscire da lí dentro il manufatto delle pitture (per esempio, La danza di Salomè di Taddeo Gaddi, nel Castello di Poppi) riprodotto con le dimensioni di un esemplare originale, ricostruito da frammenti, esposto al Museo Archeologico di San Gimignano.

Il contributo dell’archeologia

La ricerca ha regalato un’altra chicca. L’archeologo Enrico Giannichedda, in un contributo congressuale del 2015, cita i frammenti di bolli vitrei, applicati a sottili pareti sempre vitree, emersi dallo scavo ligure di Monte Lecco (Fossati-Mannoni, 1975), la cui funzione viene illuminata dalla coeva normativa genovese sulle misure di capacità per la mescita da osteria. Solo a vetrai di fiducia era infatti accordata la fabbricazione dei contenitori da vendita, i quali, oltre al colletto rilevato come indicatore di capacità, dovevano recare lo stemma del Comune e un marchio di produzione che avrebbe permesso di risalire minacciosamente al fabbricante in difetto di conformità. Abbiamo cosí esteso ottobre

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IL MAESTRO DELLE PORTE

IL PORTALE DELLE MERAVIGLIE

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l Medioevo ricostruito di Bevagna richiede ai suoi artefici fatica e dolore. Come in un pellegrinaggio, la richiesta ha successo quando i destinatari si innamorano della meta. Cosí la scelta dei Mestieri di gara è una questione d’amore. E in amore, si sa, ognuno ha i suoi gusti. A San Giovanni sbavano per i lavori in cui si butta qualcosa in una fornace incandescente per estrarne una cosa diversa. Poi, dentro quel contesto, sanno anche lavorare di cesello ma, per farli innamorare, dagli il «fuoco distruggitore». Il professor Enrico Giannichedda, archeologo generoso del suo faticato sapere, tre anni fa era confuso nel buio tra i figuranti di San Giovanni la sera della gara, ospite amato per le amichevoli consulenze. Sentendo che si pensava a un nuovo Mestiere di gara, buttò là una frase intrigante: «C’è un articolo di Valentino Pace sui portali in bronzo...». Il sottoscritto, che gioca a cercare gli agganci con la storia, dette subito un’avida occhiata in rete. Ma prima di trasmettere agli altri un input del genere ci pensai un po’. Avevo la sensazione di andare in cerca di guai, probabilmente grossi. Sapevo che, su qualcuno di San Giovanni, quell’idea di ferro e di fuoco In alto soffiatura a stampo dei contenitori in vetro. A destra il programma figurativo delle formelle in bronzo realizzate dal Maestro delle Porte.

la soffiatura anche a vasi da vendita opportunamente marchiati, riproducendo con le antiche misure di Bevagna la scena dei controlli di capacità da parte del notaio del Podestà con i suoi campioni in bronzo. Pare proprio che la tutela del consumatore, oggi assunta tra le priorità fondanti nella normativa dell’UE, fosse un valore già ben presente sette secoli fa alle élites politiche dell’Italia comunale. E veniva perseguita con rigore, mobilitando tutta la tecnologia disponibile. Il popolo della Gaita ha amato la Vetreria come aggregante progetto di lavoro e affascinante finestra sul Medioevo quotidiano. Ha poi dovuto avvicendare il Mestiere per rotazione di gara, ma con la ferma intenzione di riproporlo negli anni a venire. E la sera, sul prato di San Giovanni, con una punta di commozione, forse tra le tante voci ci sembrerà di udire ancora quella tempestosa di Puskas, il mitico maestro. Che da ragazzo di Val d’Elsa dette i polmoni al vetro quando il calcio non dava il pane.

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bevagna i mestieri del medioevo avrebbe avuto lo stesso effetto delle docce di Edwige Fenech sugli adolescenti della mia generazione. Noi non ci dormivamo la notte. Non ci dormirono Didascalia loro. L’avventura cominciò cosí, anche se il neanche aliquaturè pretenzioso, adi odis verbo perché, in realtà, non si sapeva di que vero ent preciso né qui come, né da dove cominciare. doloreium conectu Intanto, da profani, l’approccio iniziale con alcurehendebis ni testi fueatur aspro e dispendioso: difficile una visione tendamusam per le scelte di fondo. Ma se non capimpanoramica consent, perspiti mo subito quello che potevamo fare, capimmo almeconseque nische non dovevamo fare. Per il secolo di rino quello maxim eaquis(1250-1350), la seconda metà della fascia ferimento earuntia cones temporale è dominata dall’inavvicinabile dimensione apienda. e stilistica di Andrea Pisano. Restava la prima. tecnica Lí si poteva immaginare con plausibilità il rifacimento, qualche anno dopo, di un portale bronzeo divelto e rubato a Bevagna insieme alla campana, durante il saccheggio del 1248, dalle truppe imperiali di Tommaso di Acerra, vicario di Federico II. E ipotizzare che il manufatto asportato fosse parecchio anteriore, nella scia stilistica e tecnica che connota in Italia il secolo precedente. Quindi un portale a base lignea ornato da formelle di bronzo, fuse a cera persa e applicate con i chiodi. Un’idea mattoide per dei profani e per un gioco, ma almeno non della serie «è impossibile anche solo pensarci» come la fusione a battenti interi.

I consigli del monaco Teofilo

Seguimmo Teofilo monaco (De diversis artibus) per la struttura esterna del laboratorio, in uno spazio a ridosso delle mura urbiche, e per la riproduzione in ferro degli attrezzi da lavoro. La traduzione «operativa» di parte dello stesso trattato nel De campanis fundendis (Elisabetta Neri, Milano, 2006) ci orientò poi verso il forno fusorio nella variante a crogiolo forato, collegato alla fossa di gettata. Per l’organizzazione dello spazio

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interno, invece, non trovavamo fonti di dettaglio. Il corrusco racconto di Benvenuto Cellini sulla fusione del Perseo, peraltro posteriore di tre secoli, è piú un documento letterario, del cui contenuto potevamo imitare solo la febbre. Nello specchio delle nostre brame si compose per fortuna l’invocata immagine della professoressa Elisabetta Neri, che dalla Francia trovò il modo di scovare l’ipotesi grafica di ricostruzione di un laboratorio medievale elaborata da due studiosi tedeschi in occasione di un importante evento culturale nel 1993. Sospirone. A prima vista solo un disegnetto ma, a ben guardare, un tesoretto. Escludendo la grande fossa della fusione monumentale, inutile per formelle e cornici, l’ambiente poté assumere l’assetto che presenta oggi al visitatore: forno fusorio con mantici, fornello per la cottura degli stampi, scorte di carbone e legname di quercia, banco

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In alto, nel riquadro la formella raffigurante san Francesco che rinuncia ai beni terreni. Sulle due pagine il forno fusorio a mantice, in piena azione.

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bevagna i mestieri del medioevo Un momento della fusione delle formelle.

delle cere, banco delle argille, banco della rinettatura, supporti lignei che reggono in orizzontale il portale in formazione. Poi la postazione per comporre la lega, suggestivamente documentata anche sul portale della cattedrale di Novgorod, con la figurina bronzea del maestro fonditore che reca in mano la bilancia per pesare i metalli. Di suo, il nostro «magister» aggiunge il programma figurativo delle formelle, disegnato a muro a carboncino. L’operatività, chiaramente, era un altro discorso. Le poche fonti tecniche medievali sono affascinanti per tutto il contesto, ma quasi mai decisive per il risultato finale, perché, a parte le difficoltà interpretative, difficilmente gli autori avevano esperienze operative dirette. Marco, «magister» designato per l’impresa, toscano per anagrafe e «c» aspirata, ma da un ventennio bevanate di San Giovanni, era qualificato solo per contiguità artistica, essendo un restauratore di storiche pitture murali. La bronzistica è certamente altra cosa ma, innamorato dell’impresa, lui ne caldeggiò l’avvio, dicendo alla squadra che ci avrebbe messo il sangue, se del caso, con l’aiuto di amici fonditori. Per sperare bastò, ma Dio sa se in questi casi c’è bisogno di un pratico.

L’ultimo fonditore «medievale»

Anni prima, nell’avventura delle campane, già per gli stampi in argilla con le sole fonti non si riusciva ad andare avanti. Fino a che le «dritte» decisive, semplici ma impensabili, perché estratte da un sapere sperimentale sedimentato solo nella testa dell’operatore abituale, ci furono suggerite dall’ultimo fonditore «medievale» genovese, non piú in attività, scovato in Internet dal solo cognome dopo una ricerca rocambolesca. Concedeva pochi minuti, gli raccontavi in diretta lo stato del lavoro e lui interveniva con poche parole, ma erano la differenza tra speranza e disperazione. Però tutto al telefono, declinando regolarmente i nostri inviti a un week end in Umbria perché era tifoso della Sampdoria e nel fine settimana seguiva sempre la squadra. Che dire? Forza Doria! Com’era prevedibile, anche per le formelle il gruppo è andato incontro a un periodo buio, con l’eccitazione tutta medievale per il risultato seguita dalla frustrazione tutta moderna per l’aborto della fusione; il rapporto tra tentativi e risultati utili era drammaticamente scarso. Le cose migliorarono con l’approccio alla fusione «cava», suggerita dai fonditori perché meno problematica, ma da noi inizialmente esclusa perché non citata nelle fonti. Poi ne trovammo la legittimazione storica in uno studio tedesco, tradotto per un convegno, che descriveva le formelle cave del Duomo di Augusta, mentre nel contempo la stessa situazione tecnica ci veniva confermata per ispezione diretta sulle Porte di S. Zeno a Verona. L’incoraggiante performance di gara nel 2019

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inzuccherava intanto la corrente di energia e di passione sopravvissuta a tante delusioni. E visto che mancano ancora due anni al ciclo di tre, l’idea di migliorare il livello e completare il portale è fissa piú che mai. Nel suo Francesco. Un’altra storia (Marietti, Ge-Mi 2005), Chiara Frugoni sottolinea come fino al 1768 il mondo non abbia saputo niente della prima biografia di san Francesco (la Vita Prima), scritta da Tommaso da Celano poco dopo la sua morte e fatta distruggere in tutta Europa nel 1266, sotto il generalato di Bonaventura da Bagnoregio, autore della piú morbida Legenda Maior che l’avrebbe sostituita, ispirando, tra l’altro, gli affreschi assisani di Giotto. L’affascinante ipotesi della grande medievista è che, in quei cinquecento anni, ottobre

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l’umanità autentica del glorioso poverello sia rimasta testimoniata solo dai pochi dipinti (le «tavole istoriate») commissionati da una committenza consapevole a vari pittori dopo Francesco ma prima di Bonaventura, cioè nel breve periodo in cui gli artisti ebbero come fonte di ispirazione solo la biografia di Tommaso.

Un racconto per immagini

Tra quei dipinti spicca la pala della Cappella Bardi in Santa Croce a Firenze, che la Frugoni data alla metà del XIII secolo e ritiene integralmente ispirata alla Vita Prima. È proprio per questa asserita identità dei contenuti che, indipendentemente dal dipinto, negli stampi delle formelle abbiamo cominciato a riprodurre

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proprio i quadri della «Tavola Bardi». Nel contesto narrativo rappresentato, appassionatamente recitato nel bellissimo volgare umbro del Duecento, si immagina infatti con emozione che quei contenuti ispirati alla Vita Prima siano stati espressamente voluti nel 1256 per le formelle di Bevagna da Giovanni da Parma, sostenitore degli Zelanti e predecessore di Bonaventura fino al 1257, nell’amarezza delle imminenti dimissioni e con il presentimento di ciò che stava per accadere. Per fissare disperatamente, anche in deroga alla povertà delle ornature, l’urticante autenticità di Francesco «nel metallo che non se squarcia», mentre sarebbero stati inesorabilmente «squarciati» gli scritti di Tommaso. Grandi storie dell’Umbria.

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di Furio Cappelli, con un contributo di Amedeo Spagnoletto

Nata sul luogo di una fortezza bizantina, Ferrara deve la sua fortuna al Po e ai suoi canali, vettori di una intensa attività mercantile. L’evoluzione della città, cresciuta all’ombra della cattedrale dedicata a san Giorgio, fu scandita da traguardi sempre piú ambiziosi e, con l’avvento degli Estensi, toccò il suo punto di massimo splendore. Ecco la storia medievale – e i luoghi che ancora oggi la raccontano – di una gemma del Rinascimento…

Ferrara. Monumento raffigurante Borso d’Este, seduto, mentre amministra la giustizia, opera di Niccolò Baroncelli. 1454. L’originale della statua andò distrutto nel 1796 ed è stato quindi sostituito da una replica.

LA CITTÀ DEL SANTO CAVALIERE


Dossier

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el 1712 erano in corso a Ferrara i lavori di demolizione della struttura interna della cattedrale e le pareti del coro ancora per poco mostravano i loro rivestimenti in mosaico del XII secolo, di cui oggi rimane il solo frammento con la testa della Vergine, conservato nel Museo della Cattedrale. Ma è stata tramandata anche una curiosa testimonianza. Il canonico Girolamo Baruffaldi (16751755) aveva individuato, in alto, un’epigrafe composta proprio con le tessere musive, e la volle trascrivere per poterla affidare ai posteri.

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Quando ormai l’abbattimento delle strutture romaniche stava per compiersi, si procurò una lunga scala a pioli e poté cosí scoprire non solo una preziosa testimonianza della storia dell’edificio, ma un monumento della storia letteraria dell’Italia intera. L’epigrafe, infatti, datata 1135, era scritta in volgare: «Del Mille cento trenta cinque nato / Fo questo templo a S. Gorgio donato / Da Glielmo Ciptadin per sò amore / E ne fo l’opra Nicolao el scolptore». Il dotto Baruffaldi, purtroppo, amava arricchire le sue opere con qualche invenzione, come era pe-

Rilievo raffigurante San Giorgio che abbatte il drago, opera dello scultore Nicholaus, nella lunetta sovrastante il portale centrale della cattedrale di Ferrara. 1135.

raltro un costume diffuso nella storiografia del tempo. E quell’epigrafe che egli ebbe modo di scoprire e di studiare per ultimo, prima che venisse distrutta, è ormai riconosciuta come un testo di pura fantasia. Il canonico, tuttavia, si basò su dati veritieri. La data, innanzitutto, forse riferibile a una consacrazione o comunque a un almeno parziale comottobre

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Pianta della città di Ferrara, con i luoghi citati nel testo: 1. Cattedrale; 2. Castello Estense; 3. MEIS; 4. Palazzo dei Diamanti; 5. Casa Romei; 6. Palazzo Schifanoia; 7. Museo Archeologico Nazionale; 8. Museo Ebraico; 9. Museo della Cattedrale.

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Le origini

Una città sull’acqua Ferrara nacque sul ramo principale del Po, alla biforcazione con l’estinto Po di Primaro. E qui si attestò, sul finire del VII secolo, una fortificazione promossa dagli esarchi bizantini di Ravenna. Nell’adiacente area paludosa del Polesine, trovò rifugio, nello stesso periodo, la sede episcopale di Voghenza, nel punto in cui sorge tuttora la basilica extraurbana di S. Giorgio. Quando il vescovo vi si insediò, era un’antica pieve alle sue dipendenze, e quando la residenza venne trasferita presso l’odierna cattedrale (1135), il santo cavaliere divenne

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titolare della nuova chiesa. Frattanto, già nell’XI secolo si era sviluppata la prima fase dell’insediamento a partire dall’asse dell’odierna Ripagrande, secondo un andamento lineare determinato dalla direttrice del fiume. L’assetto dell’idrografia fu poi rivoluzionato dalla disastrosa alluvione nota come la rotta di Ficarolo (1152), che causò ripetute esondazioni. L’asse del Po perse importanza nell’economia locale, perché l’invaso principale si trasferí su un altro ramo (Po di Venezia), situato 6 km a nord, mentre l’alveo che costeggia la città (Po di Volano) vide ridursi enormemente la propria portata, sino a perdere il suo ruolo di via fluviale corredata da un porto. Rimase tuttavia, e fu anche potenziato, un sistema di canali che garantiva i collegamenti verso il nord.

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Dossier Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.


pletamento, si legge tuttora sulla facciata della chiesa, precisamente sul fronte dell’avancorpo pensile (il protiro) che inquadra il portale centrale (attualmente in restauro). Il nome dello scultore Nicholaus, autore dello stesso portale – e probabile architetto della costruzione romanica –, si legge in tutta evidenza nell’epigrafe in latino che corre lungo l’archivolto: «Tutti coloro che, nei secoli, passeranno di qui, loderanno Nicolò, l’abile artista che scolpí queste figure».

La lunetta «trafitta»

Frammento di mosaico policromo con la testa della Vergine, facente parte dei rivestimenti originari della cattedrale, smantellati nel 1712. XII sec. Ferrara, Museo della Cattedrale.

E proprio nella lunetta sottostante campeggia il suo pezzo di bravura piú avvincente, ossia l’immagine a mezzo rilievo del San Giorgio che abbatte il drago. La spada brandita dal santo cavaliere «trafigge» il bordo della lunetta e culmina nel campo dell’epigrafe, cosí come un moncone dell’asta confitta nelle fauci del mostro, spezzata a metà con un bell’effetto di realismo «scenico». Lo scultore, d’altronde, era una delle personalità piú richieste nei cantieri di spicco dell’Italia settentrionale, e l’epigrafe celebrativa evidenzia bene questo aspetto, visto che è dedicata in modo esclusivo alla sua abilità. Attivo intorno agli anni 1114-1140, Nicholaus ha lavorato anche alla Sacra di S. Michele in Val di Susa (Torino), a Piacenza e a Verona. Rimane da chiarire la notizia fornita dal Baruffaldi su colui che doveva essere il committente dell’edificio, un nobile di nome Guglielmo. Anche in questo caso il canonico si basa su notizie attendibili poiché è accertato un Guglielmo II Adelardi (o Marcheselli) che giocò effettivamente un ruolo da protagonista nella tumultuosa congiuntura da cui la cattedrale è scaturita, anche se non è sostenibile un suo ruolo di finanziatore unico dell’impresa. Uomo d’armi devoto alla Chiesa – tanto che nel 1147 partecipò probabilmente alla seconda crociata –, rientrava nel rango di quei capitanei sui quali il vescovo faceva affidamento

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Dossier nell’esercizio della propria autorità in ambito cittadino e nel contado. E vari elementi stavano animando il quadro, sia all’interno che al di fuori della realtà ferrarese. Il papato prestava molta attenzione a questa sede episcopale, poiché costituiva una «testa di ponte» nei riguardi dell’irrequieta Ravenna, che, sin dallo scisma del 1076, alimentava una contrapposizione all’autorità di Roma. Gli interessi del pontefice erano ben tutelati in zona da Matilde di Canossa, che teneva sotto controllo la stessa Ferrara, ma gli equilibri interni erano saltati per via di due vescovi scismatici e di una ribellione, grazie alla quale le nascenti forze del Comune avevano estromesso la potente marchesa. Nel 1101, per riprendere il dominio della città, Matilde dovette fare ricorso a un’ampia schiera di alleati, con uno spettacolare dispiego di navi che affluirono lungo il Po.

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Secondo la testimonianza del poeta-cronista Donizone, nella sua Vita Mathildis (1111-1115), «Ella mosse un esercito numerosissimo e ben armato; / v’eran Toschi, Romani, Lombardi in assetto di guerra, / nonché Ravennati, dei quali in gran parte erano le navi. / All’intorno, poi, v’eran molte altre imbarcazioni, / mandate dal serenissimo Doge della città di Venezia. / Alla fine, Ferrara, temendo d’esser distrutta, / chiese la pace alla grande Matilde, / solita sempre vincere vivi i nemici» (traduzione di Paolo Golinelli). Il vescovo Landolfo, che aveva esordito sulla scena come emanazione di Matilde e della sua politica filoromana, dopo la morte della marchesa (1115) si trovò ad agire in un vivace crogiuolo. I Ferraresi, infatti, si erano ormai costituiti in Comune. Nel frattempo, il conflitto tra Roma e la sede ravennate fu risolto (1118), e papa Callisto II (11191124) concesse proprio a Ravenna

A destra la facciata e il fianco meridionale della cattedrale, con l’antistante Loggia dei Merciai, di cui lo scultore Nicholaus fu probabilmente l’architetto. In basso uno dei leoni che in origine sorreggevano le colonne del timpano di coronamento della Porta dei Pellegrini (o dei Mesi), in seguito abbattuta.

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la giurisdizione sulla Chiesa ferrarese (1123). A quel punto Landolfo, in piena sintonia con la cittadinanza, entrò in aperta collisione con Roma, e questo gli valse un interdetto in forza del quale fu sospeso dalla carica fino al 1133, quando il suo ritorno all’obbedienza papale fu sancito da Innocenzo II (1130-1143). Non appena reintegrato, Landolfo appoggiò senz’altro l’idea di una cattedrale nel segno della ritrovata unità con Roma. Ma la nuova chiesa doveva soprattutto fungere da punto nodale della città, pacificandola e rafforzandola. In tal modo, i protagonisti della società urbana

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si concentrarono su un’opera che ne celebrasse l’autonomia e l’intraprendenza, tanto che nel fianco sud, rivolto alla piazza del mercato, fu allestita un’epigrafe che riproduceva gli Statuti del comune (1173).

Modelli illustri

Strutturata in cinque navate, come le grandi basiliche paleocristiane di Roma, estesa su una lunghezza di oltre 60 m, tutta costruita in laterizio, ma arricchita da marmi e da mosaici nelle parti di spicco, la cattedrale si allineava ai modelli illustri delle grandi chiese padane (evidentissimo è il legame con il duomo di

Modena di Lanfranco e Wiligelmo), ma aveva una vicenda tutta particolare, poiché si inseriva sostanzialmente in una città in via di formazione. Non era quindi il risultato di una lunga sedimentazione storica, ma semmai la prima pietra di una realtà urbana che proprio da questo edificio prendeva avvio. Le origini della città, d’altronde, erano piuttosto recenti, e Ferrara rientra cosí nella ristretta casistica delle grandi realtà urbiche del Medioevo italiano che non si basano su una preesistenza romana. Viene per esempio istintivo il paragone con Venezia, anche perché, in entrambi i

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Dossier LE DATE DA RICORDARE 1101 Assedio di Ferrara da parte di Matilde di Canossa, in risposta a una ribellione degli abitanti. La città si arrende e Landolfo, un nobile «filocanossiano», viene nominato vescovo. 1115 Morte di Matilde di Canossa. 1123 Papa Callisto II concede all’arcivescovo di Ravenna la giurisdizione sull’episcopio di Ferrara. Il vescovo Landolfo si oppone e viene interdetto. 1133 Landolfo viene reintegrato per volontà di papa Innocenzo II. Lo stesso vescovo concede simbolicamente alla Chiesa romana il terreno su cui viene edificata la cattedrale. 1135 La cattedrale è in fase di avanzato completamento. Lo scultore Nicholaus «firma» il portale centrale della facciata. Il vescovo si trasferisce nel nuovo episcopio presso la chiesa. 1152 Rotta di Ficarolo. Negli anni successivi il corso principale del Po si trasferisce sul Po di Venezia. 1173 Le rubriche degli Statuti comunali vengono trascritte sul fianco meridionale della cattedrale. 1225-30 ca Il Portale dei Pellegrini (o dei Mesi), sul fianco meridionale della cattedrale, si arricchisce con un ciclo scultoreo dedicato al calendario. 1264 Obizzo II d’Este viene investito dal Popolo del titolo di dominus generalis sulla città e sul contado di Ferrara. Inizia cosí la storia della signoria estense. Ritratto di Leonello d’Este, tempera, oro e argento (?) su tavola del Pisanello (al secolo, Antonio di Puccio Pisano). 1441-1444 circa. Bergamo, Accademia Carrara.

casi, il legame con l’acqua è del tutto determinante. La città emiliana, infatti, deve la sua fortuna a un’intensa arrività mercantile giocata sul Po e sul suo sistema di canali.

La signoria estense

Ferrara è ben nota come sede della signoria estense, una realtà che si protese dapprima su Modena

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(1330), e che, nel giro di cento anni, dalla fine del XIV alla fine del XV secolo, quasi raddoppiò la superficie del proprio dominio, passando da 5000 a 9000 kmq. Si trattava di un territorio davvero ampio e mutevole, che dalle pianure venete di Rovigo giungeva sino alle pendici dell’Appennino, nella Garfagnana. Sotto il marchesato di Nicolò III (1393-1441) vennero represse le ribellioni del Modenese e fu conquistata Reggio (1409). Per undici anni, tra il 1409 e il 1420, venne assoggettata anche Parma. Furono conquistate parti della Garfagnana

(1429-30) e della Romagna (143740) e recuperato il Polesine di Rovigo (1438), già concesso in pegno a Venezia. Borso d’Este (14131471), figlio naturale di Nicolò, nel 1452 fu investito duca di Modena e Reggio oltre che conte di Rovigo dall’imperatore Federico III. Papa Paolo II, dal canto suo, lo investí duca di Ferrara nel 1471, sebbene solo in forma di privilegio onorifico, senza possibilità di trasmettere il titolo ai propri eredi. La piena dignità ducale fu conseguita infine nel 1501 dal fratellastro di Borso, Ercole I (1431-1505), ottobre

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1330 Modena è in mano agli Estensi. 1385 Viene avviato il Castello Estense (o di S. Michele). Fondazione di Schifanoia. 1386 Nicolò II d’Este intraprende la prima «addizione» di Ferrara. 1391 Pellegrinaggio e missione diplomatica a Roma di Alberto V d’Este. 1403 Madonna detta «della melograna» di Jacopo della Quercia. 1409 Nicolò III d’Este reprime le ribellioni del Modenese e conquista Reggio. 1438 Lo stesso marchese riprende il controllo sul Polesine di Rovigo. 1441 Pisanello esegue il ritratto di Leonello d’Este oggi presso l’Accademia Carrara di Bergamo. 1445 ca. Iniziano i lavori di costruzione della Casa Romei. 1447 Leonello d’Este avvia la decorazione dello studiolo della «delizia» di Belfiore, che sarà impreziosito dalle immagini delle Muse, secondo il piano iconologico elaborato dal maestro Guarino da Verona. 1451 Si inaugura il monumento equestre di Nicolò III d’Este (oggi perduto). Si intraprende la seconda «addizione». 1452 Borso viene investito dall’imperatore Federico III del titolo di duca di Modena e Reggio. Viene anche nominato conte di Rovigo. 1454 Borso commissiona la distrutta statua che lo ritraeva di fronte al Palazzo della Ragione. 1469 Cosmè Tura riceve i pagamenti per le tele apposte sulle ante di chiusura del distrutto organo della cattedrale. al costo delle nozze tra il proprio figlio Alfonso e la figlia illegittima del papa, la celebre Lucrezia Borgia. E con Ercole la corte ferrarese raggiunse il culmine del suo splendore. Ma questa vicenda prodigiosa, che fa della città emiliana uno dei centri del Rinascimento, si definisce già nel tardo Medioevo, e si riallaccia ancor prima alla storia delle magistrature cittadine. La signoria estense risale infatti al 1264, quando il Comune elegge Obizzo II alla carica di dominus generalis, con autorità perpetua sulla città e sul contado. Non si trattò quindi di una presa

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1469-70 Decorazione del Salone dei Mesi a Schifanoia. 1471 Papa Paolo II, in forma onorifica, investe Borso del titolo di duca di Ferrara. 1492 Viene intrapresa l’«addizione erculea» della città. 1501 Ercole I ottiene il titolo di duca di Ferrara a tutti gli effetti. 1502 Nozze tra Alfonso I d’Este, figlio di Ercole, e Lucrezia Borgia. 1598 Fine della signoria estense. Ferrara rientra nello Stato pontificio sotto la diretta autorità di Roma.

Il monumento ad Alberto V d’Este, inserito nella facciata della cattedrale. Il signore della città si fece raffigurare dopo aver compiuto un pellegrinaggio a Roma (1391).

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Dossier di potere di tipo «tirannico», ma di una vera e propria elezione messa in atto dal Popolo ferrarese, che decise in tal modo di porsi nelle mani di un sovrano. L’investitura popolare era la principale base del potere estense, e a questa si affiancò ben presto il riconoscimento da parte delle massime autorità, attraverso l’investitura vicariale. In questo disegno, gli Este fungevano da rappresentanti del potere pontificio a Ferrara, e del potere imperiale a Modena.

In abiti da pellegrino

Il centro della vita e dell’autorità cittadina, nell’area della cattedrale

e del prospiciente palazzo comunale, fu ben presto connotato dal nuovo regime dinastico. Proprio la chiesa, su cui erano scolpite le rubriche degli antichi Statuti, accolse in facciata il monumento ad Alberto V d’Este, padre naturale del predetto Nicolò III. Il signore della città si fece raffigurare in posa stante, dopo aver compiuto un pellegrinaggio a Roma (1391), che prendeva spunto dal giubileo promulgato l’anno prima da Bonifacio IX (1389-1404). Si trattava, in realtà, di un’importante operazione diplomatica, che aveva

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dato tutti i frutti sperati. Non a caso, Alberto stringe nella destra una rosa d’oro, che funge da simbolo di predilezione da parte del pontefice. Con la sinistra, invece, addita il testo di una bolla che il papa gli concesse nel 1392, e che è stata quindi trascritta sulla parete, esattamente come si era fatto per gli Statuti. Nel documento, Bonifacio accorda ad Alberto un vero e proprio monopolio sui beni detenuti dagli enti religiosi della città e del contado, dando cosí ulteriore sostegno all’egemonia estense. Ma la bolla faceva seguito ad altri traguardi conseguiti nel 1391. Alberto aveva

Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

infatti già ottenuto dal papa il vicariato sulla città, l’autorizzazione a fondare uno Studium generale (università) e, infine, la legittimazione del proprio figlio naturale Nicolò, che avrebbe cosí ereditato la sua qualifica signorile.

fu disposta da Leonello ma fu completata sotto Borso, entrambi suoi figli naturali, e rivestiva particolare importanza, poiché doveva trattarsi del primo bronzo equestre realizzato dopo la fine della romanità antica. L’architetto e trattatista Leon Battista Alberti fece da arbitro tra gli artisti chiamati a competere per l’ingaggio. L’incarico fu infine conferito a due maestri toscani. Antonio di Cristoforo si occupò del ritratto del signore e Niccolò Baroncelli del cavallo. Il monumento fu inaugurato nel 1451, ma fu di-

Il primo bronzo equestre

Anche lo stesso Nicolò ebbe il suo monumento, eretto in forma equestre di fronte alla statua paterna, di fianco al «vòlto del Cavallo», il sottopassaggio che permetteva di accedere alla corte ducale. L’opera

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strutto nel 1796 dalle truppe napoleoniche per fondere cannoni. La statua attuale, sostenuta dall’arco originale superstite, è stata realizzata nel 1927 dal piacentino Giacomo Zilocchi (1862-1943). Parimenti perduta e sostituita da una nuova opera è anche la statua di Borso, che la commissionò al predetto Baroncelli (1454), scegliendo una posa e una collocazione diverse. Stava di fronte al Palazzo della Ragione, sede del potere giudiziario. Fu poi trasferito di fianco al predetto «vòlto del Cavallo», a fare

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da pendant al monumento paterno. Dall’alto di una colonna, sedeva in trono con uno sguardo sorridente, tenendo lo scettro in mano, proponendosi dunque come garante della pace e del rispetto delle leggi. Papa Pio II Piccolomini, nei suoi Commentarii (1462-63), tra i vari strali maligni che riserva al signore di Ferrara, prende di mira proprio questo monumento come esempio lampante della sua smodata brama di adulazione, vista soprattutto l’epigrafe di corredo dettata in versi latini da Tito Vespasiano Strozzi,

Sulle due pagine immagini del Museo della Cattedrale di Ferrara, ubicato nella ex chiesa e nella annessa canonica di S. Romano.

poeta di corte: «Ferrara, riconoscente per i meriti nei riguardi della patria, dedica a te ancora in vita questa colonna, o giustissimo principe Borso, condottiero insigne, tu che ricevi l’autorità dal sangue degli Estensi e reggi ogni cosa in pace e tranquillità». Nel 1468, rivolto a coloro che gli rimproveravano di essere troppo superbo e ambizioso, Borso scrisse che

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Dossier erano caduti «in grandissimo errore» e ribatté «che se havemo cercho [cercato, n.d.r.] de exaltare la Casa [estense, n.d.r.] l’havemo facto piú per havere piú ferme ragione et perpetue sopra de Regio et de Modena et sopra di altri nostri luogi del Imperio sotto il titolo del ducato, che per altra vanagloria». Gli Estensi hanno legato il proprio nome a ripetuti ampliamenti del tessuto urbano di Ferrara. Basta citare l’«addizione erculea» – con il Palazzo dei Diamanti che ne è fulcro e parte integrante – promossa da Ercole I al culmine della storia della signoria (1492). Ma già nel 1386 fu avviata una prima «addizione» a opera di Nicolò II (1338-1388). La città si sviluppò cosí lungo il canale che la cingeva a nord, sull’asse dell’attuale Corso della Giovecca, includendo nel nuovo perimetro la chiesa di S. Francesco. Rimaneva a svolgere la sua funzione la Porta del Leone, sull’asse viario che collegava la piazza comunale all’area della futura addizione erculea, a nord del canale perimetrale, oggi interrato. La porta venne definitivamente eliminata già nei primi anni del XVI secolo, ma sopravvive la fortificazione attigua, ossia la Torre dei Leoni (XIII secolo). Era circondata da un fossato e dotata di un attracco per le barche. Due ponti levatoi la collegavano alla porta e al circuito murario. Nicolò II la ristrutturò prima del 1385, affidandosi forse a Bartolino da Novara, un ingegnere militare già impegnato nel 1368 a rafforzare le difese di Mantova, dove realizzò poi il Castello di S. Giorgio (1395), per i Gonzaga, dopo esser stato al servizio degli Estensi. La sua presenza a Ferrara è documentata per la prima volta nel 1373 e, l’anno successivo, risulta impegnato a rilevare la cinta urbana su incarico di Nicolò. Due anni piú tardi il signore di Ferrara gli regalò due case. Grazie all’intervento trecentesco, la torre si trasformò in una struttura ben piú possente e munita, una sorta di rocca in miniatura. Alla base

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il museo della cattedrale

Da Nicholaus a Cosmè Tura Sul fianco meridionale della cattedrale campeggiava fino al 1736 la monumentale Porta dei Pellegrini o dei Mesi, articolata su due piani. Sopra la cinquecentesca Loggia dei Merciai, si nota ancora oggi l’innesto dell’arcata superiore, che era a sua volta sovrastata dal timpano di coronamento. L’opera fu realizzata da Nicholaus, e della fase originaria rimangono, sul sagrato della chiesa, i due leoni e i due grifi che sostenevano le colonne, mentre nel Museo della Cattedrale (ubicato nel complesso di S. Romano) si conservano un Telamone e il rilievo con l’Eva filatrice, che

era forse posto su uno degli stipiti dell’ingresso. Nel sottarco, ossia nella volta a botte che inquadrava la porta, venne inserito, negli anni 1225-30, su quattro sequenze (due per lato), un formidabile ciclo scultoreo dedicato alla personificazione dei Mesi. Gli altorilievi si riallacciano a una tradizione già consolidata, che parte dai Mesi del Portale dei Re di Chartres passando per il ciclo che decorava il battistero di Parma. ottobre

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In questa pagina altorilievi originariamente appartenenti alla decorazione della Porta dei Pellegrini (o dei Mesi) e oggi conservati nel Museo della Cattedrale. 12251230. Da sinistra, le personificazioni di Settembre - evocato dalla vendemmia – e Maggio, che ha le sembianze di un cavaliere. Particolare del segno zodiacale del Capricorno, simboleggiato dal Fanciullo allattato da una capra, anch’esso appartenente alla decorazione originaria della Porta dei Mesi. 1225-1230.

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Qui si giunge a un senso ancora piú marcato di autonomia dei singoli brani, con le figure che hanno acquisito un senso «classico» dello spazio e della verità scenica, grazie anche all’accuratezza dei dettagli, sebbene le espressioni trasognate dei volti risentano ancora di un senso tutto medievale dell’astrazione e della «severità». Le citazioni della mitologia antica (come il Giano bifronte di Gennaio), le figurazioni astrologiche e la splendida immagine del cavaliere (Maggio), rendono d’altronde conto di una raffinata ideazione dell’insieme, che ha il vigore di un fregio trionfale. Un altro insieme di pregevoli elementi scultorei era costituito dal pulpito cinquentesco della cattedrale, smembrato nel 1716. Vi confluirono le componenti di almeno due distinti arredi medievali. Nel gruppo delle lastre di parapetto (1250 circa), dovute ai maestri campionesi (provenienti dall’area compresa tra Como e Lugano), spicca la leggenda di origini indiane dell’Unicorno, tratta dalla Storia di Barlaam e Ioasaf del monaco Eutimio (955-1028), dove l’essere favoloso (immagine della salvezza) insegue un uomo inerme (un peccatore) che, precipitando, si aggrappa in modo malsicuro al ramo di un albero. Un drago (ossia l’Inferno), in basso, attende che cada nelle sue fauci. Al 1403 risale la Madonna della melagrana di Jacopo della Quercia (1371-75 circa-1438), lo scultore senese noto per la statua di Ilaria del Carretto al duomo di Lucca. In questa sua opera, che gli fu commissionata dagli esecutori testamentari di Virgilio Silvestri, la delicatezza delle pose e delle espressioni si

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Dossier

In alto miniatura raffigurante san Giorgio che uccide il drago, da un antifonario (libro corale) della cattedrale ferrarese, miniato da Martino da Modena e da fra’ Evangelista da Reggio. 1485-87. Ferrara, Museo della Cattedrale.

cala nella possente concezione plastica che fa capo a Giovanni Pisano e ad Arnolfo di Cambio, nel solco della grande tradizione toscana. Si giunge infine alle monumentali visioni di Cosmè Tura (1430 circa-1495), l’apripista del Rinascimento ferrarese. Per l’antico organo della cattedrale (oggi distrutto), ultimò nel 1469 quattro enormi tele (3,49 m di altezza), disposte su entrambi i lati delle ante frontali. Quando le ante erano aperte, si assisteva all’Annunciazione. Quando erano chiuse, veniva riproposta la leggenda di san Giorgio che libera la principessa dal drago, ossia la storia narrata da Nicholaus (nell’antica versione priva della dama da salvare) sul portale d’ingresso, alle origini stesse della cattedrale. Si tratta di un’opera davvero fondamentale, senza la quale l’impresa del Salone dei Mesi di Schifanoia sarebbe inimmaginabile. Tura, infatti, realizza scene di respiro poderoso e, al tempo stesso, brulicanti di dettagli resi con esasperata attenzione. Tutto è pervaso dal soffio di un’energia vitale che dà quel senso di concretezza e di inafferrabilità da cui scaturirà il realismo magico e sontuoso del Salone estense. A sinistra Madonna della melagrana, opera dello scultore senese Jacopo della Quercia. 1403. Ferrara, Museo della Cattedrale. Nella pagina accanto il Palazzo dei Diamanti, fulcro dell’«addizione» di Ercole I (1492).

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fu dotata di una incamiciatura che la fortificò agli angoli, dotandola di quattro torricini collegati da arcate cieche, a loro volta impostate su lesene a forte rilievo. Una cordonatura in pietra corre tuttora alla base, spiccando sul paramento in laterizio. L’assetto esterno era completato dal rivestimento in intonaco, su cui prendevano forma decorazioni ad affresco. Spicca ancora oggi il bassorilievo con lo stemma della dinastia, corredato dalla iscrizione wor-bas («sempre avanti»), che accredita le origini germaniche degli Estensi. Mentre l’interrato ospitava le prigioni, al piano terra e al primo piano erano presenti le sale destinate al corpo di guardia. Gli spalti in aggetto del primo piano erano raggiungibili grazie a una rampa articolata su tre lati, che facilitava il rapido afflusso di uomini e mezzi.

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Nicolò fu soddisfatto dell’opera, ma pensò bene di approntare una struttura piú ampia e articolata, sia in previsione di eventuali sommosse cittadine di un certo peso, sia per rendere ancor piú evidente il dominio estense sulla città, anche sul piano prettamente simbolico e visivo. Nel 1385 affidò cosí a Bartolino l’incarico di progettare l’attuale Castello Estense, noto anche come Castello di San Michele (vedi foto a p. 92), in quanto si scelse la sua ricorrenza per l’atto di fondazione (29 settembre). La Torre dei Leoni venne accorpata nel nuovo edificio e fu A sinistra un’altra miniatura raffigurante san Giorgio che uccide il drago, da un antifonario miniato da Giovanni Vendramin, Jacopo Filippo Argenta e da fra’ Evangelista. 1482. Ferrara, Museo della Cattedrale.

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Dossier In questa pagina altre opere conservate nel Museo della Cattedrale di Ferrara. Da sinistra, in senso antiorario: Eva filatrice, forse collocata, in origine, su uno stipite dell’ingresso della Porta dei Mesi, attribuito allo scultore Nicholaus (1135 circa); l’ambone di Voghenza, attribuito a maestranze ravennati (VIII sec. circa); Apologo dell’unicorno, dal pulpito cinquentesco della

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cattedrale, smembrato nel 1716, opera di maestri campionesi databile alla metà del XIII sec. Nella pagina accanto uno scorcio del cortile d’onore di Casa Romei, uno spazio tuttora caratterizzato da forme medievali. Spicca l’orifiamma di san Bernardino con il nome di Gesú nella forma Y(E)H(SU) S, contornato da 6 medaglioni in origine decorati con figure policrome.

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«replicata» nelle altre tre torri che ne fortificano gli angoli. E nonostante i vari interventi di ristrutturazione, l’opera tardo-medievale è ancora ben leggibile nella sua interezza. A una visione esterna, la modifica piú vistosa è costituita dal coronamento cinquecentesco delle torri, con un attico in ciascuna di esse che si basa sui terrazzi dell’assetto originale, dove occorre immaginare una tipica schiera di merli al posto delle attuali balaustre.

L’ascesa di un borghese

Nell’area dell’«addizione» trecentesca, nel luogo detto Belvedere, il ricco mercante Giovanni Romei (1402-1483) eresse la sua domus magna, iniziata intorno al 1445.

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La figura del proprietario-committente è di un certo interesse, perché rappresenta bene l’ascesa di un esponente della borghesia imprenditoriale nel vivace tessuto economico e sociale della Ferrara estense (vedi box a p. 98). La «sua» Casa Romei, oggi sede del pregevole Museo istituito nel 1952, è un raro esempio di edilizia residenziale, sospeso tra la tradizione tardo-gotica e le avvisaglie del Rinascimento. Affreschi staccati e sculture che spaziano dal XIII al XVI secolo, provenienti da chiese e palazzi della città, ne costituiscono l’arredo attuale. Il complesso si impernia su un cortile d’onore. Il portico e la loggia, con soffitti lignei, mostrano ancora

oggi ampi resti della decorazione ad affresco delle pareti interne. Sull’esterno del cortile, oggi spoglio, spicca un grande orifiamma di san Bernardino con il nome di Gesú nella forma Y(E)H(SU)S, contornato da 6 medaglioni in origine decorati con figure policrome. Al primo piano, tra gli ambienti meglio conservati dell’assetto originale, si evidenzia l’Alcova, un possibile «studiolo» personale del Romei, forse ispirato agli analoghi spazi delle residenze ducali, come lo studio di Belfiore, intrapreso da Leonello d’Este nel 1447. Il soffitto a cassettoni è adorno su ogni scomparto da teste femminili racchiuse da ghirlande di foglie. La decorazione è costituita da xilografie (otte-

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Sulle due pagine il Castello Estense, noto anche come Castello di San Michele. La sua costruzione fu avviata il 29 settembre del 1385 per volere del marchese Nicolò II d’Este, che affidò l’incarico a Bartolino da Novara. A destra il monumento equestre di Niccolò III d’Este, al quale lavorarono due artisti toscani: Antonio di Cristoforo si occupò del ritratto del signore, Niccolò Baroncelli del cavallo. Inaugurato nel 1451, fu distrutto nel 1796 dalle truppe napoleoniche per fondere cannoni: la statua attuale è stata realizzata nel 1927 e si deve a Giacomo Zilocchi.

nute dalla stampa di una matrice in legno) su carta a fondo verde. Al pianterreno si nota un interessante impianto idraulico, con una vasca collegata a un sistema di riscaldamento. Tornava cosí in uso, nella dimensione domestica, il rituale benefico delle acque termali, in ossequio della tradizione antica. Ma l’attenzione viene catturata soprattutto da due deliziosi ambienti completamente affrescati, nei quali la sapienza pagana e la rivelazione biblica si trovano a comporre un’armonica sintesi di spirito schiettamente rinascimentale.

Venerandi veggenti

La Sala dei Profeti prende nome dai veggenti dell’Antico Testamento, le cui teste aureolate sono corredate dai cartigli con le loro predizioni. Unifica la decorazione un giardino illusorio, con alberi di ogni genere che si stagliano su un roseto. Rimane misteriosa la figura fem-

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minile che si profila in abito verde smeraldo sulla parete meglio conservata. Sulla fascia alta si sviluppa infine un intreccio di rami, fiori e frutti intercalato da tondi con figure di Angeli, che raccomandano il timore di Dio attraverso le parole iscritte nei loro cartigli. La Sala delle Sibille raccoglie il ricordo della perduta «chamara delle Sibille» che Leonello d’Este fece dipingere nel 1447 a Belriguardo, la prima «delizia» realizzata dai signori di Ferrara fuori città. Presenta la schiera delle 12 profetesse in figura intera mentre esibiscono le loro visioni, trascritte su grandi cartigli che fluttuano nell’aria. Dietro di loro si sviluppa un roseto sostenuto da un graticcio di canne. Rientra nella fascia decorata un grande camino con la cappa di forma poligonale. Al centro campeggia lo stemma della casata corredato dalle iniziali di Giovanni Romei. (segue a p. 99)

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Dossier Tracce ebraiche nella Ferrara del Medioevo di Amedeo Spagnoletto

Chi entra nel tempio italiano di via Mazzini, una volta via dei Sabbioni, oltre a rimanere incantato dai quattro armadi dorati e riccamente intagliati destinati a conservare i rotoli del Pentateuco, viene catturato dai caratteri ebraici tardo medievali che fittamente riempiono una lapide incisa all’ingresso. Essa ricorda il lascito di Ser Melle, romano d’origine, il quale, nel 1485 destina i suoi

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averi, fra cui lo stabile, alla costituzione di una sinagoga pubblica. Questo può essere considerato solo uno degli ultimi atti, a chiusura dell’epoca piú antica, di cui è stato protagonista il fabbricato che ha rappresentato la vita pulsante della comunità ebraica di Ferrara fino a oggi. Dal XIV secolo, quelle mura erano state residenza di famiglie benestanti, che da lí avevano gestito il proprio banco ottobre

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L’ingresso all’edificio in via Mazzini, già via dei Sabbioni, in uso alla comunità ebraica di Ferrara sin dal 1485, che accoglie le sole tre sinagoghe cittadine ancora oggi esistenti.

A sinistra uno scorcio di via delle Volte, strada che si snoda nel cuore del centro storico medievale di Ferrara. In basso la lapide in ricordo della donazione di Ser Melle. Ferrara, Comunità ebraica.

feneratizio. Si trattava, come nel caso di Ser Melle, di Ebrei che – da Roma, dalla Marca o delle terre infeudate o dai liberi Comuni –, avevano ottenuto dagli Estensi licenza di condurre un banco di pegni a servizio dei cittadini, dei signori e persino del clero. Ma andando a ritroso in cerca di segni di un passato, già nel 1227 gli archivi ci tramandano di un certo Sabatinus Iudeus presente in una lista di uomini ricordati da un testatore che, per lastricarsi la strada verso

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la migliore vita, riconosceva di averlo danneggiato e quindi ammetteva il diritto dell’ebreo alla restituzione del maltolto. Che non si tratti di una presenza sporadica lo testimonia un passaggio contenuto in una sentenza legale in ebraico di rabbi Yizchak ben Moshè da Vienna, autore dell’opera Or Zarua’, ove si afferma che può essere attribuita autorevolezza al tribunale rabbinico con sede a Ferrara. Di non inferiore rilievo, la riprova dell’esistenza di una stabile vita ebraica organizzata in città ci giunge dall’attestazione di spazi utilizzati per le sepolture. Nel corso dei secoli sono note almeno sei aree destinate ai cimiteri ebraici entro le mura cinquecentesche. Il primo era situato nel Sesto di San Romano ed è già testimoniato in un documento del 1335. Trascorrono solo quarant’anni e ritroviamo un’altra area utilizzata dagli Ebrei per le inumazioni, attigua al complesso dei Gesuati di san Girolamo, un campo che rimase attivo almeno fino al 1452, quando fu requisito per ingrandire il convento e sostituito con una nuova area ai margini della zona abitata. Era ormai passato molto tempo da che Ferrara attirava nuclei provenienti dall’Italia del Nord e persino d’Oltralpe, dalle regioni di lingua tedesca o provenzale. Pur aggregati al resto della comunità, questi nuclei rimasero fedeli permanentemente alle loro tradizioni, mantenendo la «scola todesca», come sinagoga in uso fino a oggi. Il fermento artistico e culturale che caratterizza la città nella seconda metà del Quattrocento e il secolo successivo

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Dossier A destra libro di preghiere per le festività (mahzor) redatto secondo gli usi degli Ebrei di Roma. 1450.

vede protagonisti anche gli Ebrei ferraresi che vivono un periodo di enorme sviluppo e di apertura. Per quelli spagnoli e portoghesi, espulsi nel 1492 da Isabella di Castiglia e Ferdinando II d’Aragona, Ferrara costituí, fin da subito, un porto tranquillo, grazie all’invito di Ercole I d’Este. Di questa compagine di attivi mercanti è esponente donna Grazia Nasi, fra le figure femminili piú importanti del Rinascimento, una imprenditrice la cui attività spazia dalle Fiandre a Costantinopoli, protagonista della vita culturale e filantropica della città. Tutto questo si svolge non a caso a Ferrara dove solo qualche decennio prima Abraham Farissol, rabbino e scriba d’origine avignonese, stabilisce la sua residenza e verga un formulario di preghiere a uso delle signore, in cui inserisce la benedizione da recitarsi ogni mattina: «Benedetto sii tu o Signore per avermi fatto donna e non uomo».

Nella pagina accanto, a destra pagina del libro di preghiere (siddur) compilato dal rabbino Abraham Farissol a uso delle signore. 1480. In basso il ghetto di Ferrara in una pianta realizzata dall’incisore Andrea Bolzoni. 1747. La via de Sabbioni è l’odierna via Mazzini, lungo la quale sorge la sinagoga.

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UN MUSEO PER UNA STORIA MILLENARIA

Il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah-MEIS viene istituito grazie a una legge parlamentare del 2003, poi emendata nel 2006, con la missione di testimoniare le vicende che hanno caratterizzato la bimillenaria presenza ebraica in Italia; far conoscere la storia, il pensiero e la cultura dell’ebraismo italiano dalle sue origini, con particolare attenzione alle testimonianze delle persecuzioni razziali e alla Shoah, e promuovere i valori della pace e della fratellanza tra popoli e dell’incontro tra culture e religioni diverse. Inaugurato nel dicembre del 2017 alla presenza del Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, il MEIS sorge a Ferrara ed è ospitato nelle ex carceri cittadine di via Piangipane. Il progetto è un work in progress e vedrà nei prossimi anni accostati ai due edifici storici restaurati – l’ex ufficio e l’ex carcere maschile – due costruzioni moderne ispirate ai cinque libri della Torà, il Pentateuco. Attualmente il museo ospita due esposizioni, il percorso permanente «Ebrei, una storia italiana» e «1938: l’umanità negata». «Ebrei, una storia italiana» è il frutto dell’unione di due mostre temporanee allestite negli anni precedenti poi condensate insieme: «Ebrei, una storia italiana. I primi mille anni» curata

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da Anna Foa, Daniele Jalla e Giancarlo Lacerenza e «Il Rinascimento parla ebraico», a cura di Giulio Busi e Silvana Greco (vedi «Medioevo» n. 269, giugno 2019: anche on line su issuu.com). Un lungo viaggio che porta il visitatore a scoprire la storia degli Ebrei in Italia dalle prime attestazioni in epoca romana alla fioritura culturale e artistica del Rinascimento. La mostra «1938: l’umanità negata» curata da Paco Lanciano e Giovanni Grasso ed esposta in precedenza al Quirinale, racconta il trauma delle leggi razziali, drammatico preludio alla tragedia della Shoah, attraverso l’utilizzo di video multimediali, documenti e foto storiche e ricostruzioni. Esso costituisce il primo tassello della narrazione del MEIS dedicata alla Shoah italiana. A marzo del 2021 il museo inaugurerà la grande mostra «Oltre il ghetto. Dentro & fuori» curata da Andreina Contessa, Simonetta Della Seta, Carlotta Ferrara degli Uberti e Sharon Reichel e dedicata al periodo che va dall’istituzione dei ghetti (il primo fu quello di Venezia nel 1516), all’Unità d’Italia e alla Prima guerra mondiale. Tra le ultime mostre temporanee del MEIS spicca «Ferrara ebraica» voluta dal precedente direttore Simonetta Della Seta, curata da Sharon Reichel e allestita da Giulia Gallerani che racconta la millenaria presenza ebraica nella città estense; un salto indietro nel tempo che continua on line sul sito https://ferraraebraica.meis. museum/, lanciato durante il lockdown per permettere a tutti una visita, seppur virtuale, nelle sale dell’esposizione. Info www.meisweb.it

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Giovanni Romei

Imprenditore, falsario e cavaliere Giovanni Romei sposò in prime nozze Lavinia Baroni, il cui padre svolgeva incarichi di fiducia per conto del marchese Nicolò III, e nel 1468 doveva essersi già risposato con Polissena, figlia naturale di Meliaduse d’Este, a sua volta figlio naturale del predetto marchese e abate di S. Bartolo. Lo stesso Borso d’Este forní alla nipote una dote cospicua, pari a 20 000 ducati d’oro. L’attività svolta da Giovanni, frattanto, spaziava negli ambiti piú diversi, oltre al commercio di beni di varia natura, e questo aspetto rende conto di una fortuna alimentata dalle opportunità, affrontate con un forte senso degli affari e con uno spirito d’iniziativa che sapeva anche essere spregiudicato. Romei era titolare di una spezieria che fruttava cospicui guadagni in tempo di epidemia, poiché riforniva un vicino ospedale,

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dove le erbe erano assai richieste per le medicine. Inoltre, svolgeva già nel 1445 l’attività di cambiavalute nella piazza del mercato, e gestiva alcuni appalti per la riscossione dei dazi e delle gabelle (tasse). Prestava denaro alla Camera estense, speculava in tempo di carestia sul grano e sulla farina, investiva nel settore immobiliare e, nel 1472, dovette anche pagare una multa di 12 000 fiorini per spaccio di moneta falsa (una pratica per la verità molto diffusa: gli stessi Bardi, i famosi banchieri di Firenze, nel 1345 si imbarcarono nella stessa «impresa»). Nel 1458, già inserito nei ranghi amministrativi della corte ducale, Romei risultava al servizio del duca Borso come «Fattore generale». Nello stesso anno ottenne per giunta il titolo di conte per mano di papa Pio II. Nel 1474 risulta già cavaliere. ottobre

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Nella pagina accanto, in alto la facciata di Palazzo Schifanoia, residenza estense che sorse nel 1385 nell’ambito dell’addizione di Nicolò II. Nella pagina accanto, in basso una delle Sibille

raffigurate nell’omonima sala di Casa Romei. In basso Palazzo Schifanoia, Salone dei Mesi. La fascia centrale dell’allegoria del mese di Giugno, con il segno zodiacale del

Il soffitto ligneo è poi arricchito da un fregio dipinto dove si susseguono piccoli tondi lobati con svariate immagini, tra cui la figura di una giovane che accarezza un unicorno (simbolo della purezza verginale), un tema mitologico prediletto dalla pittura profana tardo-gotica.

All’insegna della magnificenza

La residenza estense nota come Schifanoia sorse anch’essa, nel 1385, nell’ambito dell’addizione di Nicolò II, in un’area verde punteggiata da pochi edifici, rasente a un tratto delle antiche mura di cinta di Borgo Vado (1314). Era «una gemma» (come veniva definita nel 1437) all’insegna della magnificenza, ideata, come indica il nome, per schivare la noia. Ampliata già nel 1391, venne ulteriormente ingrandita tra il 1466 e il 1469 per iniziativa di Borso d’Este. E per celebrare l’età dell’oro della sua signoria, in cui tutto sembrava all’insegna della pace e della prosperità, Borso commissionò i celebri

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Cancro rappresentato da un’aragosta. Commissionata da Borso d’Este, la magnifica sala fu decorata, fra gli altri, da Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti. 1469-1470.

dipinti del vasto Salone dei Mesi (1469-70). Sebbene abbiano subíto molti danni nel corso del tempo, gli affreschi mantengono intatta la loro forza espressiva, resa ancor piú preziosa dalla perdita totale dei cicli dipinti per le altre «delizie» estensi. Il restauro da poco concluso e il nuovo sistema di illuminazione permettono di fruire al meglio di questa sfarzosa pagina di storia. Le mitologie e le immagini zo-

diacali connesse al calendario si uniscono a una trasfigurante evocazione della città, del contado e della corte, con il signore a fare da protagonista a ogni piè sospinto, in un’ampia serie di pose e di situazioni, ma con gli stessi tratti ben riconoscibili (anche se furono diversi gli artisti impegnati, per il suo ritratto fu sempre utilizzato il medesimo cartone). Tra i pittori all’opera, si distinguono i talenti di Francesco del Cossa (da Marzo a Maggio) e di Ercole de’ Roberti (Settembre). Francesco è nel segno di uno sfarzo delicato e luminoso, mentre in Ercole emerge un carattere spigoloso, espressionistico e «furente». Ed entrambi ebbero modo di collaborare a Bologna per lo smembrato polittico Giffoni in S. Petronio (1473), le cui «disperse membra» sono temporaneamente riunite nella mostra in corso nel capoluogo emiliano, a Palazzo Fava. La densa esperienza bolognese di Francesco nacque da un risentimento ben documentato. In una lettera indirizzata a Borso, nel 1470, egli si lamentò infatti del trattamento economico che gli era stato riservato, tanto da sentirsi «iudicato et apparagonato al piú tristo garzone de Ferara». Ma il signore non gli dette ascolto, e Francesco voltò le spalle a Ferrara e al suo primo, amaro capolavoro.

Da leggere Sergio Stocchi, L’Emilia Romagna, collana Italia Romanica, Editoriale Jaca Book, Milano 1984; pp. 340-350 Angiola Maria Romanini (a cura di), Nicholaus e l’arte del suo tempo, Corbo Editore, Ferrara 1985 Giuseppa Zanichelli, Bryan Ward-Perkins, Ferrara, in Enciclopedia dell’Arte Medievale, Fondazione Treccani, Roma 1995, disponibile anche on line su Treccani.it

AA.VV., I racconti del Castello, Edisai, Ferrara 2006; disponibile anche on line su Issuu.com Maria Teresa Sambin De Norcen, Giovanni Romei, in Dizionario Biografico degli Italiani, Fondazione Treccani, Roma 2017; disponibile anche on line su Treccani.it Pietro Di Natale, Giovanni Sassu (a cura di), Schifanoia e Francesco del Cossa. L’oro degli Estensi, Fondazione Ferrara Arte, Ferrara 2020

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medioevo nascosto campania

Francescani a

di Corrado Valente

Roccamonfina La prodigiosa scoperta di un’icona della Vergine è all’origine della creazione di uno dei piú importanti complessi monastici del Casertano. E, sede di una comunità francescana, il santuario della Madonna dei Lattani avrebbe accolto, fra gli altri, anche san Bernardino da Siena Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

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Tutte le immagini dell’articolo si riferiscono al santuario francescano della Madonna dei Lattani di Roccamonfina. In alto Madonna col Bambino tra Angeli, affresco che orna la lunetta soprastante il portale d’ingresso alla chiesa. XVI sec. A sinistra veduta della chiesa con l’annesso convento.

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occamonfina, centro del Casertano posto nella parte settentrionale dell’antica Terra Laboris, si trova a 600 m circa sul livello del mare, alle pendici del possente o omonimo vulcano, oggi spento, che si estende per centinaia di chilometri. Il Roccamonfina fu attivo tra i 630 000 e i 50 000 anni fa e raggiunge un’altezza di 1000 m circa, con un cratere di 6 km di diametro. Un vulcano potente, dunque, a carattere esplosivo, al quale se ne è affiancato un altro, di minore potenza e che ha dato origine ai coni dei monti Santa Croce, Lattani e Frascara. Le tre grandi fasi eruttive individuate hanno generato un paesaggio montano variegato, affascinante, dal suolo fertile, che ha favorito lo sviluppo di una flora diversificata e, in particolare, di immensi boschi di castagno, la cui coltivazione è divenuta nel tempo

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In alto, a sinistra la cappella settecentesca che ospita l’icona della Madonna dei Lattani.

MOLISE LAZIO

PUGLIA

Roccamonfina Carinola

Benevento CAMPANIA

Caserta Napoli

Avellino

Procida Golfo di Ischia Napoli Sorrento Capri

Amalfi

Salerno

BASILICATA Eboli

Mar Tirreno Palinuro

In alto, a destra il portico della chiesa, con il grande arco del XV sec. che immette in un ampio ambiente, coperto da una crociera costolonata. A sinistra leone posto alla base del portale della chiesa

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di spoglio di un precedente ingresso, ascrivibile al XIII sec. Nella pagina accanto la piccola grotta dove, secondo la leggenda, un pastorello rinvenne l’icona della Madonna con Bambino. ottobre

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abbia avuto inizio verso il X secolo e che il centro urbano fortificato si sia sviluppato qualche secolo piú tardi. All’estremità del sito, successivamente inglobata nel perimetro urbano, sorge la chiesa parrocchiale dedicata a santa Maria Maggiore. Profondamente ristrutturata nel XVIII secolo, conserva intatto, dell’impianto rinascimentale, il porticato che si apre sulla strada, mentre nulla rimane di una chiesa parrocchiale precedente. Poco distante, inizia la strada che sale al convento dei Lattani,

situato sulla montagna omonima. Durante la lunga salita s’incontrano antichi borghi e, dopo aver percorso il tratto della Via Crucis, si giunge al monumentale complesso francescano dedicato alla Vergine deiparae («madre di Dio», da deus, «dio» e parere, «partorire», n.d.r.). Il culto mariano si originò in quest’area nel Medioevo, a seguito del ritrovamento, in una piccola grotta, dell’immagine di una Madonna con Bambino scolpita su pietra lavica. All’indomani del rinvenimento, il luogo divenne

una delle attività economiche piú rilevanti per la comunità roccana. Come detto, il vulcano si può definire inattivo, ma i suoi effetti sono rinvenibili nelle abbondanti acque termali e sorgenti di acque minerali. Presenze che rappresentano entrambe una significativa risorsa economica per le altre comunità distribuite sui versanti della catena appenninica alla cui formazione il vulcano ha contribuito.

Le prime notizie

L’abitato di Roccae Monfinum si sviluppa con uno schema urbano di tipo direzionale, tipico del Medioevo, lungo un’arteria stradale e cinto da un sistema difensivo. Il primo documento che cita la località ad Menfinu risale al IX secolo, mentre per il toponimo completo di Roccae Monfinum si deve attendere il XII secolo. È pertanto probabile che la genesi dell’insediamento

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medioevo nascosto campania oggetto di pellegrinaggi per rendere omaggio all’icona miracolosa e fu preso in cura dai frati minori, che vi edificarono una chiesa con annesso un convento. Secondo la leggenda, l’immagine sarebbe stata scoperta da un pastore che, seguendo una capretta che era solita allontanarsi dal gregge, rinvenne poco distante da una fonte d’acqua e, in un piccolo antro roccioso, l’icona della Vergine, il cui appellativo odierno, Madonna dei Lattani, sembra derivare direttamente dal toponimo del monte. Al complesso francescano si accede da un unico ingesso, che immette in una grande corte delimitata, a est, da un muro di contenimento, con una fontana di acqua sorgiva posta al centro. A ovest, accanto all’ingresso, è un piccolo corpo di fabbrica denominato «eremitaggio di san Bernardino»; a sud, invece, è il belvedere, che consente di ammirare lo sconfinato paesaggio circostante. Il complesso monumentale principia con la chiesa, innalzata da una gradinata e preceduta da un nartece, che si apre con un arco in pietra lavorata che, a sua volta, immette in un vasto spazio coperto da una crociera costolonata che sovrasta pilastri con capitelli fioriti in tufo di estrazione locale. In corrispondenza del lato destro dell’arco che immette nel nartece è incastonata un’epigrafe del 1432 che ricorda, in caratteri gotici e lingua latina, l’Indulgenza di cento giorni per i visitatori che giungevano nei periodi delle festività e informa anche dell’edificazione della struttura a opera di Tommaso de Peregrinis. La data potrebbe verosimilmente riferirsi al complesso tuttora visibile, pienamente conservato a seguito degli interventi di restauro operati alla metà del XIX secolo e che mostra, nel suo insieme, un’impronta tipica della cultura costruttiva durazzescocatalana. Il documento epigrafico attesta anche che il luogo era og-

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getto di pellegrinaggio, al punto da istituire, su concessione delle autorità ecclesiastiche, la predetta indulgenza. Un pellegrinaggio che, probabilmente, aveva contribuito anche all’edificazione di un complesso monastico piú imponente rispetto alla primitiva cella.

Alla maniera gotica

Il portale che introduce alla chiesa, in pietra lavorata, fu realizzato nel 1507 dal magister Bernardino de Gallo e reca alla base due protomi leonine in pietra lavica di epoca anteriore (simili a quelle murate nello spigolo nord-occidentale della chiesa parrocchiale di Roccamonfina); una lunetta soprastante contiene l’immagine della Madonna con Bambino tra Angeli e immette nella grande aula, tipica della cultura francescana, coperta con tre alte crociere ogivali scandite da nervature in pietra grigia che conferiscono all’ambiente un senso di ascensionalità, tipico del gotico. L’invaso si conclude con un’abside eptagonale, con gli angoli scanditi da esili colonnine che si proiettano nella volta, delimitando le unghie di uno snello sistema di copertura «a ombrello». Nonostante l’ambiente sia volutamente poco illuminato, si riesce comunque a percepire quella sensazione che lo storico dell’arte e urbanista francese Pierre Lavedan (1885-1982) definí avidité spatial, in merito alle sperimentazioni architettoniche del periodo durazzescocatalano in Italia. Lungo la parete di sinistra, poi, si apre la cappella (realizzata aprendo una cappella a parete) che ospita l’icona della Madonna dei Lattani. Si tratta di un piccolo ambiente elegantemente decorato con marmi policromi, stucchi e dipinti del XVIII secolo. Sul lato opposto, in prossimità dell’ingresso, in una piccola cappella ricavata nello spessore murario, si trova un affresco ascrivibile al tardo XV secolo, articolato in quattro pannelli: quello cen-

trale raffigura l’Incontro tra Maria ed Elisabetta; i due laterali, rispettivamente, la Natività (non nella classica stalla, ma all’interno di un elegante porticato con la Madonna e il Bambino posti su un grande letto) e la Presentazione al Tempio; la lunetta superiore ospita il Cristo Crocifisso tra la Mater dolorosa e san Giovanni. Di quest’ultima scena è molto interessante il paesaggio posto sullo sfondo, nel quale si intravedono alcuni abitati dotati di

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A destra il chiostro, ornato da eleganti motivi d’ispirazione rinascimentale, realizzati nel 1603. In basso l’interno della chiesa, verso l’abside.

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medioevo nascosto campania A sinistra affresco tetrapartito posto in una delle cappelle laterali. Fine del XV sec. In alto, il Cristo Crocifisso, affiancato dalla Mater dolorosa e da san Giovanni; in basso, al centro, l’Incontro tra Maria e Elisabetta, e, nei pannelli laterali, la Natività e la Presentazione al Tempio. Nella pagina accanto l’eremo di san Bernardino, dove il santo avrebbe alloggiato durante il suo soggiorno nel convento. In basso uno dei medaglioni posti tra le lunette del chiostro raffigurante san Bernardino da Siena.

imponenti strutture difensive e si scorge una scena di guerra. Il convento, invece, si affaccia sulla corte con un vasto porticato, che aveva in origine la funzione di riparo per i pellegrini che vi giungevano, prevalentemente a piedi, in tutti i periodi dell’anno. L’edificio è accessibile anche dalla chiesa, ma l’ingresso principale è posto sotto il citato profondo portico che prospetta sulla corte esterna. La sua impostazione è tipica delle strutture monastiche classiche: uno spazio quadrangolare delimitato da arcate ogivali a cui corrispondono altrettante volte a crociera a otto spicchi, che coprono tutto il corridoio. Intorno al chiostro, tranne per la parte che costeggia la chiesa, si aprono i vari ambenti di servizio (cucine, refettorio e depositi).

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In particolare, il chiostro dei Lattani presenta arcate impostate su colonne di morfologia diversa, in pietra grigia con capitelli fioriti. Una colonna poggia anche su un possente leone accovacciato, probabilmente recuperato da una struttura precedente. Le pareti e le volte del deambulacro sono decorate con affreschi che presentano due cicli differenti. Nelle lunette delle pareti sono raffigurate scene della vita del Serafico, accompagnate da descrizioni intervallate con medaglioni in cui sono raffigurati santi francescani. Le volte sono impreziosite da eleganti decorazioni grottesche secondo il modello rinascimentale, con l’inserimento di immagini allegoriche sacre. Il palinsesto decorativo fu

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realizzato nel 1603, grazie al contributo di Giuseppe Mormile, patrizio napoletano e signore di Marzano.

Un ospite illustre

Sopra il chiostro, furono successivamente realizzati due ulteriori piani per ampliare il dormitorio. Nella grande corte, a ridosso del muro su cui si apre l’ingresso dalla strada, è il romitaggio di san Bernardino, una piccola struttura a tre livelli, che si affaccia nella corte tramite altrettante logge e un’elegante finestra catalana con decorazioni in pietra grigia, tra le quali spicca un rosone centrale. La presenza di Bernardino da Siena al convento non trova riscontri nella biografia ufficiale, ma nulla vieta di pensare che il santo

riformatore dell’Ordine (particolarmente vicino al ramo degli Osservanti), tra i numerosi viaggi intrapresi per diffondere il messaggio originario di Francesco abbia fatto tappa anche in un luogo importante per i confratelli Osservanti. Del resto, il frate senese amava ritirarsi nelle case monastiche lontane dal mondo urbano e la sua missione, a tratti anche contrastata dalla Chiesa, ottenne grande favore all’interno dell’Ordine, che viveva la dicotomia tra Conventuali e Osservanti. All’interno del complesso dei Lattani l’emblema di Bernardino, costituito dal trigramma di Cristo circondato da un sole a 12 raggi, è presente su diverse superfici. Tra i piú antichi, quelli incisi nella lunetta del portale, riferibili al 1507.

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Storie, uomini e sapori

L’unione fa la zuppa di Sergio G. Grasso

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n esercito marcia sul... proprio stomaco e per vincere una guerra deve prima di tutto mangiare. Lo sapevano bene grandi condottieri e generali, da Giulio Cesare a Federico II di Prussia, fino a Napoleone. E deve averlo pensato, benché tardi, anche Saddam Hussein, sul finire del febbraio 1991, quando gli riferirono che 63 000 militari iracheni in Kuwait a cui non aveva piú inviato cibo da 15 giorni, si erano arresi «per fame» anche alle troupes televisive che incontravano nel deserto.

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Nessun’altra formazione militare ha dato enfasi a questa frase piú del corpo dei giannizzeri durante l’impero ottomano. L’unità fu istituita nel 1330 come corpo scelto dal sultano Orhan I, deluso dalla indisciplina delle milizie tribali turche. Dalla fine del Trecento e fino al XVIII secolo, gli Yeniçeri, (letteralmente «nuovi soldati») erano per la stragrande maggioranza, schiavi cristiani selezionati tra i bambini sani e robusti dei territori sottomessi all’impero, soprattutto

in Albania, Grecia, Bosnia e Bulgaria. Molte famiglie, per evitare che i loro figli risultassero idonei all’arruolamento forzato, ricorrevano all’amputazione di alcune dita già in tenerissima età. Musulmani, Ebrei, Gitani e Armeni erano esclusi da questa leva forzata, detta devsirme o «tassa di sangue» pagata in vite umane al Sultano. La trasformazione dei bambini in giannizzeri iniziava verso i nove anni d’età con la circoncisione, la conversione all’Islam e l’apprendimento della

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lingua turca mentre lavoravano come contadini nei campi. Dopo cinque o sette anni di rigida istruzione scolastica come acemi oglan (scolari stranieri) e di un estenuante tirocinio militare, il giovane veniva integrato nel corpo dei giannizzeri come addetto ai servizi imperiali e recluta di fanteria.

Una casta rispettata e invidiata La disciplina spartano-monastica, il celibato, un’intensa vita comunitaria, la forza di coesione tra i membri, l’esenzione da tasse e tributi e la cieca fedeltà al sultano che li considerava come figli adottivi, trasformarono lentamente questa aristocrazia militare in una vera e propria casta, rispettata e invidiata. Inevitabilmente, col tempo, il corpo dei giannizzeri divenne politicamente influente e particolarmente arrogante, capace anche – come la guardia pretoriana dell’antica Roma – di violente

rivolte contro il sultano stesso. Questa confraternita-armata, che nel XVIII secolo arrivò a contare quasi 200 000 effettivi, tra soldati e funzionari, basava la propria austera esistenza delle origini su un percorso etico molto simile agli Ordini religiosi cavallereschi della cristianità, con in piú il misticismo proprio del sufismo, la corrente piú spirituale dell’Islam. I giannizzeri adottarono il precetto che imponeva ai sufi di nutrire il prossimo tanto in senso fisico quanto spirituale. Si diedero un’organizzazione basata sul modello della cucina e presero spunto dai tempi del nomadismo, quando i pentoloni collettivi erano il simbolo stesso dell’unità della

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In alto Giannizzero da guerra, acquerello di Jacopo Ligozzi. 1577-1580 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. A sinistra, sulle due pagine incisione della metà dell’Ottocento raffigurante un drappello di giannizzeri. famiglia e del clan riunito attorno al fuoco degli accampamenti. Il sacro calderone (qazan-i sharif) in cui si cuoceva la zuppa (in turco çorba) simboleggiava lo spirito di aggregazione della milizia; negli acquartieramenti diventava un «santuario» per ogni soldato che, rifugiandosi al suo interno dopo aver commesso atto di codardia di fronte al nemico, evitava l’esecuzione sommaria per sottomettersi al processo da parte dei suoi superiori.

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CALEIDO SCOPIO Sul campo di battaglia il qazan indicava la sede del comando, il punto di riferimento per le truppe, e la sua cattura da parte del nemico gettava il disonore sull’intera truppa. Per ostentare la loro appartenenza a questa élite militare, che considerava il sultano bizi besleyen baba (il «padre che ci nutre»), i giannizzeri adottarono come mostrina un cucchiaio di legno cucito sul cappello. Gli ufficiali di massimo grado assumevano la qualifica di çorba-basi o «capi della zuppa» cui rispondevano direttamente i sekban-basi (conduttori dei cani da caccia) e i sakka-basi (capi dei portatori d’acqua). Per indicare i gradi inferiori, si ricorreva a termini

A destra miniatura di scuola turca raffigurante, a sinistra e a destra, giannizzeri arcieri, riconoscibili dal tipico copricapo. XVI sec. In basso incisione di Melchior Lorck raffigurante un giannizzero cuoco. 1574. dida da scrivere miniatura raffigurante il gioco dei dadi, da un’edizione manoscritta delle opere sull’etica di Aristotele tradotte da Nicola d’Oresme. 1455. Digione, Bibliothèque municipale. Nella pagina accanto miniatura raffigurante un banchetto, scena associata al mese di gennaio ne Les Très riches Heures du Duc de Berry, Libro d’ore illustrato dai celebri fratelli Limbourg. 1413 circa. Chantilly, Musée Condé.

culinari, come asçı-bası (capo cuoco), bostancı (verduriere), karakullukçu (sguattero), cörekcı (fornaio) e gözlemicı (pasticciere). Il corpo era organizzato in battaglioni (orta), a cui erano destinati i grandi qazan nei quali cuocere tre volte al giorno la çorba, il riso e il bulgur per il rancio collettivo, senza distinzione di grado tra truppa e ufficiali. Dai registri dei rifornimenti militari del XVII secolo si evince che per ogni giannizzero si provvedeva, oltre a un salario confacente al grado, a una

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razione quotidiana di 800 grammi di pane lievitato, 160 grammi di gallette, 60 grammi di carne di montone, 80 grammi di burro e 50 di riso: piú o meno 3800 kilocalorie, che per un lavoro fisicamente impegnativo non sono poi molte. All’interno del corpo vigeva una benaccetta temperanza e tutti i periodi di digiuno e astinenza venivano rigorosamente osservati sia in pace che in guerra. Tuttavia, in occasione di celebrazioni speciali, le cucine del Topkapi preparavano

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per i giannizzeri piatti speciali come i böregi – involtini fritti di pasta phillo riempiti di formaggio e carne macinata – e i karnıyarık, melanzane ripiene di carne macinata, pomodoro, peperoni, aglio e prezzemolo.

E non mancavano i dolci... Sul versante dolce erano molto graditi l’halva (una pasta di sesamo o tahini amalgamata a zucchero o miele con l’aggiunta di frutta secca) e i lokum (piccole gelatine

di zucchero, amido, pistacchi e mandorle profumate con acqua di rose, limone, cannella o menta). Nel mese sacro di ramadan, prima dell’alba o dopo il tramonto veniva offerta ai soldati la baklava, un dolce di origine selgiuchide realizzato con piú strati di pasta phillo farciti di frutta secca tritata, tostata e bagnata di sciroppo aromatizzato. Comune e molto apprezzato dai giannizzeri era anche il sutlac, un budino di riso, latte e zucchero aromatizzato con cannella.

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CALEIDO SCOPIO Ogni venerdí, giorno sacro della preghiera per i musulmani, i reggimenti di giannizzeri sfilavano per le strade e le piazze di Costantinopoli, portando in parata il loro qazan, alla stessa stregua dell’aquila al tempo della Roma imperiale. Prima di accedere alla moschea, ricevevano una razione cerimoniale di pilav (uno stufato di riso e montone): non accettarla era il preludio a una severa manifestazione di scontento nei confronti del sultano. Il vero segnale dell’insubordinazione, della rivolta e di un imminente colpo di Stato, era dato dal frastuono dei calderoni dove si preparava il pasto per il sultano e la corte, rovesciati e percossi dai militari nelle immense cucine del Topkapi. Nell’aprile 1512, i giannizzeri costrinsero Beyazid II ad abdicare in favore del figlio; nel 1595, deposero con la forza Murad III; nel 1622, fecero strangolare Osman II, che aveva manifestato l’intenzione di riformare il loro corpo, ritenuto ormai troppo potente e, nel 1648, assassinarono il sultano Ibrahim I, detto «l’Irritabile» per via della pazzia che lo aveva colto. Ancora, nel 1804, esautorarono Selim III, colpevole di avere istituito una nuova milizia di stampo europeo, e misero sul trono il piú mansueto cugino Mustafa IV.

Una presenza ingombrante Quella che per secoli era stata una delle colonne portanti del potere del sultano, una fedelissima e provetta guardiaguerriera si era intanto trasformata in una forza politica arrogante, colma di privilegi, profondamente reazionaria e divenuta ormai un ostacolo sulla via dell’ammodernamento dell’impero ottomano.

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Ornamento in argento dorato in origine appartenente al copricapo di un giannizzero. XVII sec. Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art. La placca rappresenta, in versione stilizzata, il cucchiaio di legno scelto come emblema del corpo. Nel 1826, il sultano Mahmud II riprese il progetto di riforma delle forze armate cominciato dal suo sfortunato predecessore, ma, il 15 giugno, tra le mura del Topkapi risuonò il boato dei calderoni imperiali rovesciati e percossi dai giannizzeri in aperta rivolta con il loro «padrone». Le truppe di cavalleria e artiglieria appena costituite attaccarono i ribelli, uccidendone a migliaia; molti altri trovarono la morte per mano dei cittadini esacerbati mentre cercavano una via di fuga tra le strade di Costantinopoli. In ogni provincia dell’impero si accese una caccia al giannizzero senza quartiere; i loro calderoni furono imbrattati di letame, pubblicamente maledetti, fatti a pezzi e fusi perché se ne perdesse il ricordo. Il 17 giugno 1826 Mahmud II pubblicò un proclama con cui il glorioso corpo dei giannizzeri veniva dichiarato sciolto e si dava ordine a tutte le forze dell’impero di arrestare i superstiti e i fuggiaschi, di confiscare le loro proprietà o di demolirle. Pochi mesi dopo quello che fu chiamato «l’incidente del buon auspicio», i giannizzeri ancora rinchiusi nelle prigioni furono decapitati. Dopo piú di cinque secoli, di uno dei corpi militari piú addestrati e potenti del mondo, restava solo il nome. E anche questo con un significato genericamente dispregiativo. ottobre

MEDIOEVO


Lo scaffale Nicola Mancassola (a cura di) Il castello di Monte Lucio: la chiesa e la necropoli

All’Insegna del Giglio, Sesto Fiorentino (FI), 230 pp., ill. col e b/n

40,00 euro ISBN 978-88-7814-942-7 www.insegnadelgiglio.it

La pubblicazione degli scavi condotti a Monte Lucio, nel territorio del Comune di Quattro Castella (Reggio Emilia), ha un

di cui fu teatro questo territorio, che rientrava, lo ricordiamo, nella sfera d’influenza di Matilde di Canossa. Seguono dunque i capitoli riservati allo scavo archeologico, che mettono in luce le peculiarità piú interessanti del sito, la cui fondazione si colloca nel Duecento ed è dunque ascrivibile a quella fase che gli specialisti definiscono «secondo incastellamento» (mentre il «primo» ha inizio nel X secolo). L’insediamento, come provano i materiali, ebbe carattere essenzialmente militare, ma si dotò comunque di una chiesa e venne anche apprestata un’area adibita a sepolcreto. In chiusura, Nicola Mancassola ricorda anche i suggestivi riscontri offerti dall’esame delle fonti d’archivio riferibili a Monte Lucio, chiudendo il cerchio di una pubblicazione esemplare.

taglio specialistico, ma, al tempo stesso, ha il pregio di andare ben oltre la puntuale documentazione e l’analisi dei dati e dei materiali acquisiti grazie alle indagini. Nei primi Francesco Benelli capitoli, infatti, il e Silvia Ginzburg curatore lascia spazio (a cura di) a contributi che Raffaello pittore Ondas. Martín inquadrano il sito Codax, dal e architetto a Roma Cantigas destorico Amigo punto di vista UnaHamon guida Vivabiancaluna Biffi, Pierre e paesaggistico, Officina Libraria, Roma, Arcana (A390), sottolineando, al 1 CD 96 pp., ill. col. www.outhere-music.com contempo, il suo 18,00 euro ruolo nella fitta rete ISBN 978-88-3367-081-2 di rapporti (e conflitti) www.officinalibraria.net

MEDIOEVO

ottobre

Fra le molte iniziative promosse per ricordare il cinquecentenario della morte di Raffaello, merita senz’altro una segnalazione questa guida, che può essere un utile supporto in un viaggio alla scoperta (o riscoperta) delle opere che hanno segnato la consacrazione dell’Urbinate. Quando, venticinquenne, il pittore giunse a Roma, aveva infatti già avuto modo di mettersi in luce, ma le importanti committenze papali e non solo gli offrirono l’opportunità di dispiegare, come mai prima, tutte le straordinarie

sfaccettature del suo talento. Basti pensare agli spettacolari cicli realizzati per gli appartamenti vaticani oppure agli affreschi che impreziosiscono la Villa della Farnesina. Un’attività instancabile, alla quale si unirono anche dipinti mobili e, soprattutto, la non meno rilevante attività

di architetto, di cui sono testimoni, fra gli altri, la magnifica Villa Madama, ma anche numerosi progetti rimasti solo su carta, ma non per questo meno importanti. Osvaldo Faggioni Libere annotazioni Sullo stato giuridico dell’Ordine templare All’ombra del re AD MMXX - CM dalla fondazione Arbor Sapientiae Editore, Roma, 120 pp.

18,00 euro ISBN 978-88-31341-17-2 www.arborsapientiae.com

La storia dell’Ordine del Tempio è, da sempre, materia scivolosa, ma al tempo stesso avvincente e può bastare una veloce ricognizione bibliografica per constatare la mole di studi che nel tempo si sono accumulati, proprio per l’interesse che essa ha suscitato e continua a suscitare. Questo contributo di Osvaldo Faggioni si inserisce dunque in una vasta scia, ma, in particolare, propone una deviazione inaspettata e inedita sull’interpretazione da dare alle bolle papali che sancirono la fine dei Templari. Pur nella sua

concisione, il saggio è ben argomentato e ripercorre tutte le fasi salienti del drammatico epilogo della parabola dell’Ordine, scandite da procedimenti giudiziari ai quali sarebbe arduo riconoscere una patente di equità e culminate con la morte sul rogo del Gran Maestro Jacques de Molay. In parallelo, l’attenzione dell’autore si concentra proprio sugli aspetti giuridici e su come il dettato dei provvedimenti pontifici debba essere interpretato. Con un esito, come si accennava, che potrà senz’altro sorprendere e che dunque qui non anticipiamo, per lasciare al lettore – quasi fosse un thriller – il piacere di scoprire la soluzione del mistero. (a cura di Stefano Mammini)

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AGRIGENTO 2600 ANNI DI STORIA

IN EDICOLA

Nel 580 a.C., coloni greci giunti dalla madrepatria (o forse dalla piú vicina Gela) fondano una colonia in prossimità della foce dell’Akragas, lungo la costa meridionale della Sicilia, e scelgono di battezzarla con lo stesso nome del fiume. È l’inizio, 2600 anni fa, della storia di una delle piú illustri città dell’antichità, Agrigento, la cui vicenda plurisecolare è ora raccontata dalla nuova Monografia di «Archeo». Grazie alla ricchezza delle risorse offerte dal territorio e alla felice posizione, Akragas prospera e ben presto si dota dei monumenti che, in età moderna, ne hanno fatto quasi un mito. I grandi templi innalzati fra il VI e il V secolo a.C. sono infatti realizzazioni fra le piú insigni mai compiute da mano umana e, dopo essere stati una tappa irrinunciabile del Grand Tour sette-ottocentesco, costituiscono oggi il cuore del Parco Archeologico e Paesaggistico della Valle dei Templi. Un luogo incantato, che vi invitiamo a conoscere e che conserva evidenti le ragioni per le quali il poeta Pindaro disse di Akragas che era «la città piú bella» di tutte: uno spettacolo magnifico di potenza e di monumentalità.




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