10 minute read

GIURISPRUDENZA

Next Article
QUESITI DEL MESE

QUESITI DEL MESE

SULL’APPLICABILITÀ DEL “BLOCCO” DEI LICENZIAMENTI ANCHE AL DIRIGENTE

A CURA DI IOLANDA PICCININI

Advertisement

pRoF. oRD. DIRItto DEL LAvoRo (LUmsA – RomA) - AvvoCAto CAssAzIonIstA

Trib Roma, ord. 26 febbraio 2021, Giud. Conte (clicca qui per scaricare sentenza)

Lavoro (rapporto di) – Dirigente d’azienda – Licenziamento per motivi oggettivi – “Blocco” dei licenziamenti introdotto dalla Legislazione emergenziale – Applicabilità – Conseguenze – Nullità – Reintegrazione nel posto di lavoro

Il divieto di licenziamento introdotto dalla legislazione emergenziale a partire dal marzo 2020 si applica anche al licenziamento per motivi oggettivi di natura economica del dirigente d’azienda, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni via via prorogate, nonostante il riferimento all’art. 3 della L. n. 604 del 1966, stante la ratio di ordine pubblico del “blocco”, inteso ad evitare in via provvisoria che le conseguenze economiche della pandemia si traducano nella soppressione immediata di posti di lavoro, dovendo ricomprendersi, tra questi, anche quelli dirigenziali, in quanto il riferimento al suddetto art. 3 mira ad identificare la natura della ragione passibile di essere posta a fondamento del recesso e non a delimitare l’ambito soggettivo di applicazione del divieto, con la conseguente reintegrazione nel posto di lavoro in ragione della nullità del licenziamento intimato, trattandosi di violazione di disposizione imperativa che vieta il recesso. [massima a cura della redazione]

L’innovativa interpretazione delle disposizioni emergenziali sul c.d. “blocco” dei licenziamenti contenuta nell’ordinanza del Tribunale di Roma in commento stimola alcune riflessioni, che costituiscono una sorta di seconda puntata rispetto alle considerazioni svolte in un articolo, pubblicato lo scorso anno su questa Rivista, dal titolo Sul licenziamento individuale del dirigente, ai tempi del Covid. Quello scritto, all’indomani del primo lockdown, aveva preso le mosse dal “blocco” (la nullità) dei licenziamenti – collettivi e individuali per giustificato motivo oggettivo - disposto a decorrere dal 17 marzo, dall’art. 46 del Decreto Cura Italia (n. 18 del 2020) integrato e modificato dall’art. 80 del Decreto Rilancio (n. 34 del 2020). Tuttavia, si era constatato che queste disposizioni, stante il loro tenore letterale, non riguardano i dirigenti e si erano espresse perplessità su questa esclusione – probabilmente dipesa dalla particolare fiduciarietà del rapporto di lavoro dirigenziale e per la ritenuta minor debolezza di tale personale – data la funzione provvisoria ed eccezionale della norma, volta a tutelare l’interesse dei lavoratori alla conservazione del posto in questa particolare situazione di contrazione del mercato per ragioni economiche ed oggettive. Dunque, nel mio precedente scritto avevo ricostruito il quadro normativo e giurisprudenziale sul licenziamento del dirigente d’azienda, partendo dall’art. 10 della L. n. 604 del 1966 che esclude l’applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti, in ragione della regola codicistica della libera recedibilità dal contratto di lavoro, salvo l’obbligo del preavviso o l’esistenza di una giusta causa, ex artt. 2118 e 2119 del Codice civile.

Mi ero soffermata, inoltre, sulla nozione –di creazione giurisprudenziale e di origine contrattuale - di giustificatezza, distinta, dal punto di vista soggettivo e oggettivo,

sia da quella di giusta causa sia dal giustificato motivo. Oggi, a distanza di diversi mesi da quel mio contributo, mentre la tempesta della pandemia non è ancora passata e mentre il nuovo Governo ha appena approvato il DL Sostegni, contenente la proroga del blocco dei licenziamenti almeno fino al 30 giugno 2021 (rispetto alla prossima scadenza del 31 marzo), una vasta eco sta avendo l’ordinanza del Tribunale di Roma del 26 febbraio, la quale ha dichiarato nullo – con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro - il licenziamento per motivi oggettivi di natura economica (per soppressione della posizione lavorativa decisa in ragione di una riorganizzazione conseguente ad un calo dell’attività aziendale) comunicato, nel luglio 2020, ad un dirigente da una società privata, rimasta contumace nel procedimento cd. Rito Fornero promosso dal lavoratore.

Come riassunto nella “massima” della decisione sopra riportata, secondo il Tribunale il primo motivo che giustifica l’estensione del “blocco” anche al dirigente va ravvisato nella ratio di ordine pubblico sottesa alle disposizioni emergenziali, ispirate ad un criterio di solidarietà sociale, ex artt. 2 e 4 della Costituzione, che comporta una compressione temporanea delle libertà imprenditoriali, anch’esse tutelate dall’art. 41 Cost.: ad avviso del Giudice, l’obiettivo è quello di “non lasciare che il danno pandemico si scarichi sistematicamente ed automaticamente sui lavoratori” e tale esigenza è “comune ai dirigenti che anzi sono più esposti a tale rischio stante la maggiore elasticità del loro regime contrattualcollettivo di preservazione dai licenziamenti arbitrari (cd. giustificatezza) rispetto a quello posto dall'art. 3 cit.”. Per tale ragione sarebbe irragionevole, in rapporto all’art. 3 Cost., l’esclusione di questa categoria di lavoratori.

E’ certo che la cruda attualità pone inedite questioni applicative, le quali, però, richiamano il classico dovere di bilanciamento di valori costituzionali - di tutela del lavoro e del diritto al lavoro, di solidarietà e della libertà d’impresa - nella ri-

cerca di un equilibrio reso ancor più instabile dall’emergenza pandemica. Ed invero, la dottrina è concorde nel ritenere che il divieto temporaneo dei licenziamenti costituisca una misura di politica economica espressione del principio di solidarietà. Inoltre, la lettura del Tribunale si fonda anche su ulteriori due elementi. In primo luogo, il Giudice richiama la protezione del dirigente in caso di licenziamenti collettivi, che rende incomprensibile l’esclusione per il licenziamento individuale, posto che entrambe le tipologie di recesso sono sorrette da motivi economici. In effetti, questa contraddizione non è giustificabile alla luce delle modifiche dell’art. 24 della Legge n. 223 del 1991 ad opera della L. n. 161 del 2014, intervenuta a seguito della sentenza della Corte di Giustizia del 13 febbraio 2014 che aveva censurato lo Stato italiano per il mancato recepimento – a favore dei dirigenti e non solo di operai, impiegati, quadri - della Direttiva comunitaria in materia di licenziamenti collettivi. Come si sa, la nuova normativa estende la tutela procedimentale ai dirigenti, prevedendosi una tutela indennitaria in caso di violazione dei criteri di scelta o della procedura (in tema, cfr. Cass. n. 2227 del 2019).

Per quanto qui interessa, si rammenta che la Commissione europea aveva sostenuto come la Direttiva 98/59/CE, il cui ambito di applicazione si estende a tutti i lavoratori senza eccezione, non risultava correttamente recepita dalla legislazione italiana, la quale ammetteva a beneficiare delle garanzie da essa previste unicamente gli operai,

gli impiegati e i quadri, escludendo i dirigenti; peraltro, secondo la Commissione, la normativa e i contratti collettivi italiani riguardanti specificamente i dirigenti (che garantiscono loro una tutela di carattere economico in caso di licenziamento) non colmavano tale lacuna e non rappresentavano norme più favorevoli ai lavoratori, ai sensi dell’art. 5 della Direttiva, con la conseguenza che lo Stato membro sarebbe venuto meno agli obblighi che gli incombono.

La Corte di Giustizia ha condiviso questa tesi, condannando il nostro Paese, poiché anche i dirigenti sono lavoratori subordinati e, dunque, devono rientrare nel campo di applicazione della tutela comunitaria, la quale “stabilisce l’obbligo, per il datore di lavoro, di procedere in tempo utile a consultazioni con i rappresentanti dei lavoratori qualora preveda di effettuare licenziamenti collettivi” allo scopo di verificare la “possibilità di evitare o di ridurre i licenziamenti collettivi previsti”: quindi, la direttiva “sarebbe parzialmente privata del suo effetto utile in caso di mancata attuazione della procedura di consultazione nei confronti di taluni lavoratori, a prescindere, peraltro, dalle misure sociali di accompagnamento che siano previste in loro favore per attenuare le conseguenze di un licenziamento collettivo”. In altri termini, la disciplina comunitaria “non ammette, né in modo esplicito né in modo tacito, alcuna possibilità per gli Stati membri di escludere dal suo ambito di applicazione questa o quella categoria di lavoratori”. In secondo luogo, nell’ordinanza del Tribunale di Roma in esame si osserva che il riferimento all’art. 3 della L. 604 del 1966 deve intendersi rivolto – non all’ambito soggettivo di applicazione – ma a tutti i motivi oggettivi-economici di recesso datoriale e, perciò, pure alla nozione di giustificatezza che col g.m.o. condivide la natura, seppur in una forma attenuata nel rigore ma non nell’essenza.

Secondo il Giudice, esiste un unico motivo oggettivo ed economico - relativo cioè ad esigenze tecnico-organizzative e produttive del datore di lavoro – che accomuna tutti i licenziamenti, individuali e non, del dirigente o delle altre categorie di lavoratori. Seguendo questa prospettiva ricostruttiva, il concetto di giustificatezza, tipico del dirigente, allude ad un motivo oggettivo attenuato nel rigore: in effetti, secondo la Giurisprudenza, “il rapporto di lavoro del dirigente non è assoggettato alle norme limitative dei licenziamenti individuali di cui agli art. 1 e 3 L. 15 febbraio 1966 n. 604, e la nozione di <<giustificatezza>> posta dalla contrattazione collettiva al fine della legittimità del suo licenziamento non coincide con quella di giustificato motivo di licenziamento contemplata dall’art. 3 della citata L. n. 604/1966” (Corte app. Milano 20 marzo 2020), in quanto detto concetto si traduce essenzialmente nell’assenza di arbitrarietà e pretestuosità o, per converso, nella ragionevolezza del provvedimento datoriale, fondato su ragioni apprezzabili sul piano

del diritto, secondo una valutazione globale che escluda, appunto, l’arbitrarietà del recesso. Ad esempio, ciò è ravvisabile ove sussista l’esigenza, economicamente rilevante in termini di risparmio, della soppressione della figura dirigenziale in attuazione di un riassetto aziendale, senza che debba sussistere l’impossibilità della continuazione del rapporto o la sua particolare onerosità o l’assolvimento di un onere di repechage, purché non emerga, alla stregua di dati obiettivi, la natura discriminatoria o contraria a buona fede della riorganizzazione (Cass. nn. 31526, 9665, 4685, 436 del 2019, n. 396 del 2020).

Oltretutto, “guardando dall’alto” l’ordinanza che qui si commenta, la decisione rappresenta occasione per riflettere sugli attuali confini della specialità del rapporto di lavoro dirigenziale. Tradizionalmente, la specialità “di fattispecie” di questa categoria di dipendenti è rintracciata nella particolare posizione del dirigente nel contesto aziendale, alter ego dell’imprenditore e comunque con un vincolo di fiduciarietà intenso. Ciò giustifica l’esistenza della specialità “di disciplina”, nel senso che, in queste ipotesi, le modalità di svolgimento del rapporto di lavoro si “ribellano” all’applicazione delle norme generali pensate per l’operaio della fabbrica (modello social-tipico prevalente che ha ispirato il Legislatore codicistico – art. 2239) e richiedono una regolamentazione – legale e negoziale - in parte diversa, nonostante la scelta, cristallizzata nell’art. 2095 c.c., di ricomprensione dei dirigenti tra i lavoratori subordinati.

Ecco perché, secondo Cass. n. 9955 del 2018, “quello dei dirigenti è un rapporto di lavoro di natura speciale per la peculiare collocazione che ad esso va riconosciuta all’interno dell’organizzazione aziendale, richiedente la permanenza del profilo fiduciario, che non ne ha mai consentito una completa omologazione a quello degli altri lavoratori subordinati”. Tuttavia, l’evoluzione della disciplina generale in materia di licenziamenti sembra aver progressivamente attenuato, in modo non sempre lineare e meditato, questo tasso di specialità, che a lungo ha legittimato l’esclusione dei dirigenti dall’ordinario sistema di protezione contro i licenziamenti (a partire da Corte cost. n. 121 del 1972). L’ordinanza del Tribunale di Roma pare muovere in questa direzione di convergenza. E forse è la stessa identità e funzione manageriale che sta cambiando in un’organizzazione del lavoro e della produzione in profonda trasformazione. Per concludere, se è indubbio che la decisione del Tribunale di Roma sarà apprezzata da tutti quei dirigenti, i quali, o perché troppo costosi o perché poco utili, rischiano di perdere il posto di lavoro in aziende costrette a fare i conti con il protrarsi e l’aggravarsi della crisi economica, è altrettanto evidente che il provvedimento suscita le cri-

tiche degli imprenditori. Questi ultimi, prendendo atto della scelta del Legislatore di non ricomprendere nel “blocco”– almeno espressamente – i dirigenti, eccepiscono, inoltre, l’impossibilità di bilanciare il divieto di licenziamento con il ricorso alla Cassa integrazione emergenziale, non riconosciuta ai dirigenti. Oltretutto, il protrarsi dell’attuale “sospensione” generale del potere di recesso datoriale rischia di trasformare il blocco in una misura non più temporanea ed eccezionale, che sottrae risorse pubbliche (le quali potrebbero, invece, finanziare politiche attive di accompagnamento dei lavoratori verso una nuova occupazione) e, al contempo, rallenta le necessarie riorganizzazioni aziendali, finendo per far temere sempre più gli effetti della prossima esplosione dell’odierna “bolla” occupazionale (che si aggiungeranno ai molti posti di lavoro già persi e all’ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro, attestati da recenti studi, statistiche e previsioni allarmanti). Personalmente, condivido appieno le esigenze sistematiche di tutela che hanno ispirato il Tribunale. Forse nel richiamo all’art. 3 della Legge n. 604 del 1966 trovo una qualche forzatura interpretativa. La questione resta ed è di rilevante importanza, visto il perdurare della situazione emergenziale. Il Legislatore avrebbe potuto chiarire questo aspetto.

A fronte della sua inerzia, è spettato e spetterà ancora alla Giurisprudenza svolgere una funzione di supplenza normativa, con buona pace della certezza dei rapporti e del Diritto, di cui tutti, cittadini, lavoratori, imprese, professionisti abbiamo oggi più che mai bisogno.

This article is from: