5
MARMO Rivista annuale Numero 8, 2019 Aprile Direttore responsabile Paolo Carli Direttore Costantino Paolicchi Vice Direttore Aldo Colonetti Coordinamento editoriale Eleonora Caracciolo di Torchiarolo Coordinamento Manuela Della Ducata
6
Roberto Bernabò
16
Grafica Silvia Cucurnia, Thetis Editore Henraux SpA Fotolito e Stampa Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, Pisa
Traduzioni Romina Bicicchi, Daniel Olmos Fotografie Aker Imaging, Filippo Armellin, Archivio Bessi, Gianluca Di Ioia, Nicola Gnesi, Alan Karchmer, Kendall-Heaton, Gerhardt Kellerman, Gilbert MacCarragher, Roberto Marossi, Angela Moore, Lorenzo Palmieri, Andrea Rossetti, Roberto Ruiz, David Sundberg-Esto, Miro Zagnoli
Paolo Carli
LA CAVA NEL SANGUE. INTERVISTA A FRANCO PIEROTTI
Redazione Eleonora Caracciolo di Torchiarolo, Nicola Gnesi
Contributors Lorenzo Benedetti, Roberto Bernabò, Lucrezia Calabrò Visconti, Maddalena Casadei, Aldo Colonetti, Alessia Delisi, Gillo Dorfles, Costantino Paolicchi, Jon Pickard, Miriam Sleeman, Tom Sloan
EDITORIALE
24
“Stampato sotto gli auspici della Henraux SpA” Registrazione presso il Tribunale di Lucca no 3/2017 del 24/02/2017
42
Maddalena Casadei
EVOCARE LA NATURA ATTRAVERSO LA PIETRA Jon Pickard
32
Copertina Nicola Gnesi
L’IDEA GIUSTA STA IN UN ELEVATOR PITCH
DIEGO MARCON. CONVERSAZIONE SU LUDWIG Lucrezia Calabrò Visconti
A UNCE! LA LIZZATURA DEL MARMO, UN MESTIERE PERDUTO Costantino Paolicchi
50 60
IL BAUHAUS È ANCORA TRA NOI, DOPO 100 ANNI Aldo Colonetti
UN’INTRODUZIONE ALLA PIETRA Miriam Sleeman e Tom Sloan
72
FRANCESCO ARENA E DAVID HORVITZ. INTERVISTA PER DUE Lorenzo Benedetti
82 90
SELFRIDGES PUBLIC REALM: MARMO URBANO Alessia Delisi
BROKEN NATURE. LA XXII TRIENNALE DI MILANO SECONDO GILLO DORFLES Gillo Dorfles, Aldo Colonetti
97
NOTIZIARIO
DI PAOLO CARLI PRESIDENTE DI HENRAUX E FONDAZIONE HENRAUX
L’avventura editoriale di Marmo prosegue nel 2019 con grande vitalità. Se dovessi sintetizzare questo numero del magazine in un’unica immagine, penserei a una linea del tempo, dal passato al futuro, sulla quale disporre i protagonisti coinvolti e i temi affrontati tra le sue pagine. Il tempo è una dimensione fondamentale per Henraux, un’azienda che fa del radicamento nella sua gloriosa storia, della capacità di leggere le tendenze del presente e di immaginare – e realizzare! – le proprie visioni del futuro, i punti di forza della sua identità. Guardano al futuro, agli approdi più innovativi dell’arte visiva, i tre artisti vincitori della quarta edizione del Premio Internazionale di Scultura Henraux, svoltosi nella primavera-estate del 2018, che ha visto un profondo cambio di passo grazie al nuovo sguardo del neo-presidente Edoardo Bonaspetti. A loro – Francesco Arena, David Horvitz e Diego Marcon – è dedicato ampio spazio in tre interviste che esaminano le peculiarità delle loro ricerche. Lo stesso sguardo fresco lo ritroviamo nel dialogo tra Maddalena Casadei e i due designer Sam Hecht e Kim Colin dello studio Industrial Facility che condividono con i nostri lettori metodi e progetti,
con un’attenzione particolare ai materiali. La sezione di Architettura, potrei dire che è invece completamente collocata nel presente con tre contributi relativi ad altrettanti progetti che hanno visto Henraux partner di importanti studi di architettura e di design in giro per il mondo: Londra, Hong Kong e Stati Uniti. Alla storia invece sono dedicate le preziose considerazioni di Aldo Colonetti sul centenario del Bauhaus, che ricorre proprio quest’anno e a cui dobbiamo ancora molto, e il saggio – sapiente e a tratti ironico – di Costantino Paolicchi sul metodo della lizzatura. Al di fuori del tempo, in una dimensione tra passato, presente e futuro si pongono le riflessioni inedite di Gillo Dorfles sull’attuale edizione della Triennale di Milano: raccolte lo scorso anno, poco prima della sua scomparsa, ci parlano di una manifestazione che si sarebbe svolta in un futuro, che per noi è oggi. Chiudo questo mio breve saluto di apertura dedicando un’attenzione particolare all’intervista di Roberto Bernabò a Franco Pierotti, memoria storica di Henraux che tra queste pagine ci lascia un’indimenticabile testimonianza umana e professionale. Buona lettura!
5
LA CAVA NEL SANGUE. INTERVISTA A FRANCO PIEROTTI DI ROBERTO BERNABÒ FOTO DI NICOLA GNESI
Franco Pierotti, direttore della cava dell’Altissimo dal 1965, racconta il fascino della montagna e le potenzialità del marmo bianco che, anche grazie all’attività di Henraux, si è legato al mondo degli artisti e dell’architettura diventando un elemento importante della scultura contemporanea.
Il marmo dell’Altissimo, è vero, ha una struttura cristallina molto fitta e soprattutto è un materiale che si lavora bene pur essendo molto resistente. È un marmo magico e per scoprirlo bisogna saper leggere la montagna, guardarla con occhio esperto.
Franco Pierotti al lavoro in cava
8
Roberto Bernabò: È un grande piacere essere qui a parlare con Franco. Henraux e il monte Altissimo sono un pezzo della vita di qualunque versiliese, ma mio in particolare, perché – ripensavo in questi giorni prima di incontrarti – mio nonno lavorò a Montecassino, una delle prime grandi opere di Henraux dopo la ricostruzione, rimanendo là per più di un anno come montatore dell’Abbazia. Mio padre invece è stato uno dei “ragazzi di Cidonio”, a fine anni Cinquanta, e poi, dopo altre esperienze, è stato qui a lungo come direttore commerciale. Io quindi ho respirato l’atmosfera del marmo fin da ragazzino, quell’aria in qualche modo sacra e maestosa delle montagne. Non è un caso che l’Altissimo venga definito “cattedrale”, perché già gli antichi apuani riconoscevano la caratteristica
divina di quella montagna, tanto che a La Polla, all’interno di anfore antiche, venivano sepolte le ceneri degli antichi apuani, riconoscendo dunque a questa montagna un ruolo sacro. E allora penso non sia esagerato dire che tu ne sei il sacerdote, visto che dall’inizio degli anni Sessanta sei l’uomo delle cave, ci hai trascorso tutta la tua vita, contribuendo a plasmare quel mondo. Ecco perché mi piacerebbe iniziare dai tuoi ricordi. Quando sei salito, da lavoratore, per la prima volta sull’Altissimo? Franco Pierotti: Fu nel 1965. Venendo dal deposito di Tre Fiumi e dalle Tagliate, fui trasferito come direttore responsabile del gruppo dell’Altissimo. La prima cosa che chiesi a uno dei cavatori del posto fu: “Come si chiama questa zona?”. “Mortigliani – mi dis-
se – perché un tempo ci seppellivano i morti”. E infatti, a destra della sorgente della Polla c’era, e c’è ancora, una necropoli ligure-apuana, che fu scoperta nel 1946, quando, con i famosi “piani Fanfani”, messi in atto per dare lavoro ai disoccupati dopo la guerra, si tentò di fare una strada che portasse in cima all’Altissimo. Questa strada però non prendeva la parte della Mossa, per cui arrivarono fino a un certo punto e fu poi abbandonata; in seguito fu Erminio Cidonio, amministratore delegato della società dal 1956, che nel 1962 la continuò fino a portarla quasi alla sommità. Quindi, il concetto di questa montagna come cattedrale è esatto, anche perché l’abbiamo cavata all’interno, proprio come una cattedrale. La paragonerei a piazza San Pietro: ai lati dell’Altissimo, se lo guardiamo, sembra esserci una specie di colonnato del Bernini che abbraccia la vallata del Serra. R.B.: Spesso si attribuisce a Michelangelo una frase che dice: “La grana è unita, omogenea, cristallina e ricorda lo zucchero”. In realtà è dell’ingegnere francese Louis Laurent Simonin in una sua ricerca sulle cave datata 1864. Simonin sosteneva anche che lo Statuario di Seravezza è molto più bello di quello di Carrara. Tu come definiresti la magia di quel bianco? F.P.: Il marmo dell’Altissimo, è vero, ha una struttura cristallina molto fitta e soprattutto è un materiale che si lavora bene pur essendo molto resistente. È un marmo magico e per scoprirlo bisogna saper leggere la montagna, guardarla con occhio esperto. Se torniamo a Michelangelo, a quel tempo era molto importante conoscere il contro, il verso e il secondo del marmo e del monte. L’escavazione richiede di entrare dentro i segreti della montagna: va letta come un libro che riesce a dirci tantissime cose. Era fondamentale allora perché quando le sculture non si facevano con l’aria compressa ma con il martello, con lo scalpello, con la forza del braccio, bisognava sapere che al contro si doveva dare un colpo più forte, mentre con il secondo e con il verso ser-
viva essere un po’ più delicati. Era decisivo conoscere la montagna e il marmo così profondamente: perché staccare un dito, un naso o un orecchio significava rovinare una scultura, e quindi un danno economico enorme. R.B.: Un pezzo di vita importantissimo di Henraux è quello tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, in cui l’allora proprietario Erminio Cidonio apre la strada della relazione tra Henraux e il mondo degli artisti e dell’architettura, facendo dell’azienda un polo non solo produttivo ma anche culturale. E ampliando i suoi orizzonti di azione. Tu hai vissuto quegli anni: mi racconti un po’ quella stagione? E il rapporto con i grandi artisti a partire da Henry Moore? F.P.: Cidonio diventò proprietario della società nel 1946, e per un decennio mandò a gestirla degli amministratori delegati. Poi nel 1956 decise di assumere direttamente le redini dell’azienda, ed è allora che nacque quella che si può definire “l’epoca Cidonio”. Una stagione di apertura ad altri mondi rispetto a quelli classici della produzione, di contaminazioni. Henry Moore arrivò nel 1957, perché doveva scolpire una scultura in travertino, Reclining Figure, per il palazzo dell’Unesco a Parigi, Si rivolse a Henraux rimanendone folgorato: fu folgorato dall’azienda, dalla sua struttura, dalle sue cave, e così negli anni scolpì qui diverse opere. Saliva direttamente all’Altissimo e alle Cervaiole, e almeno una volta l’anno veniva a mangiare con noi cavatori nel nostro vecchio palazzo, oltre la galleria, chiamato palazzo d’Arni. Mangiava un minestrone alla cavatore, una bistecca e beveva il vino del Chianti, nonostante lui pasteggiasse a whisky. Poi io andavo a prendergli dai pastori la ricotta avvolta in foglie di faggio, su cui lui versava il caffè, il whisky e la mangiava come se fosse un dolce. Tutti gli anni, poi, lo accompagnavamo alle Marmitte dei giganti, perché la natura per lui era una grande fonte di ispirazione. E le Marmitte dei giganti, conche che si trovano
9
Arte
Il cavatore è il primo che ha dato il colpo di martello alla Pietà di Michelangelo o alle sculture di Henry Moore. Addirittura, in cava, in epoca rinascimentale, i blocchi venivano sbozzati e già alleggeriti prendendo la forma della scultura che doveva poi essere fatta.
nei canali del Monte Sumbra, sulla strada che va verso Castelnuovo, sono tra le più grandi d’Europa e spettacolari. R.B.: Ti ho sentito varie volte mostrare l’orgoglio del cavatore che ha sbozzato per primo l’opera d’arte, ha estratto la pietra dalla montagna e l’ha messa nelle mani dell’artista. È una bellissima rivendicazione del valore di un lavoro. F.P.: Tutto quello che riguarda l’architettura, la scultura, le grandi opere fatte con il marmo, le chiamerei le idee che sono dentro la montagna: ebbene sono state tirate fuori per prime dai cavatori, e messe a disposizione degli artisti e degli architetti. Il cavatore è il primo che ha dato il colpo di martello alla Pietà di Michelangelo o alle sculture di Henry Moore. Addirittura, in cava, in epoca rinascimentale, i blocchi venivano sbozzati e già alleggeriti prendendo la forma della scultura che doveva poi essere fatta. Un grande sbozzatore di Michelangelo era Domenico da Settignano, detto “Topolino”, che sbozzava i blocchi nelle
cave di Trambiserra proprio per conto del maestro. Era un tipo molto buffo, l’unico che faceva sorridere Michelangelo, noto per essere un uomo piuttosto serio e molto poco incline allo scherzo. R.B.: Quali altri scultori ti ricordi? Lì ne sono passati tantissimi, da Pietro Cascella a Henri Georges Adam. Qual era il rapporto con loro? F.P.: Nell’epoca di Cidonio quasi tutti gli scultori frequentavano le cave, ma in particolare ricordo Adam. Doveva scolpire una fontana per Chantilly in Francia, e il marmo scelto fu il bianco di Tre Fiumi. Si trattava di una grande scultura. Quindi cavammo dalla montagna questo grosso masso e poi Adam lo scolpì qui, insieme ai nostri artigiani. Invece Cascella ha fatto due opere, una delle quali era il monumento di Mazzini a Milano. Per il materiale scelse un marmo bardiglio, che apprezzava molto. Per prenderlo dovemmo riaprire una cava dismessa sopra Tre Fiumi, la cava Borelle della Piastraccia: quindi man-
11
Franco Pierotti al lavoro in cava
Arte
Le cave sono straordinarie, sono sculture fatte dall’uomo e vanno viste sotto quest’aspetto: la cava è una montagna scolpita.
dammo lì i nostri cavatori, e riattrezzammo l’area estrattiva proprio per fare quest’opera. Diversi anni dopo Cascella venne di nuovo sulle cave a scegliere il materiale e alle Cervaiole prese il marmo per costruire La nave, opera che è a Pescara. Poi, ovviamente, sono venuti tanti altri scultori, per esempio Giò Pomodoro, che era alle Cervaiole persino la settimana prima di morire, accompagnato dalla moglie e da alcuni amici, per chiedermi di mandargli giù dei cuscini. I cuscini divaricatori sono strutture fatte per aprire e separare le bancate e i blocchi di marmo dalle pareti della cava. Avevano una forma particolare, e dato che Pomodoro lavorava anche il ferro, gli piacevano molto questi cuscini. Purtroppo, non feci in tempo a mandarglieli. R.B.: Ora con la proprietà di Paolo Carli, l’Henraux ha rilanciato il rapporto con i giovani artisti in particolare attraverso il Premio Henraux in memoria di Cidonio. Immagino che molti di loro saranno venuti a vedere le cave prima di cimentarsi con il marmo. Che impressione ti sei fatto di questi giovani artisti davanti alla magia della montagna? F.P.: Sono giovani molto entusiasti, appassionati al marmo ma anche alle cave. Soprattutto c’è il nostro amico armeno Mikayel Ohanjanyan che viene spesso a trovarci anche quando non ha bisogno di materiale, e ritengo sia davvero un grande artista, sulla scia di Henry Moore.
Veduta del Monte Altissimo
14
R.B.: Quindi la cava rimane nel sangue non solo al cavatore. F.P.: Assolutamente. Perché le cave sono straordinarie, sono sculture fatte dall’uomo e vanno viste sotto quest’aspetto: la cava è una montagna scolpita.
R.B.: Credo che, soprattutto negli anni Novanta, sì sia smarrito il valore di un’azienda come l’Henraux: di quello che è stata nel tempo e di quello che ha rappresentato per l’economia del territorio. La svolta che Cidonio impresse all’azienda è stata una leva fondamentale per aprire nuovi mercati, per formare una generazione di artigiani e imprenditori. È stata la leva che ha portato Pietrasanta e la Versilia del marmo a essere ciò che è ora. Negli ultimi dieci anni, con la gestione Carli, l’Henraux ha progressivamente recuperato questa centralità e questa dimensione anche culturale che è un valore complessivo per il territorio. Ecco, l’impressione è che la politica per prima non abbia saputo né capire né rappresentare agli occhi della comunità il peso che un’azienda come Henraux ha avuto e ha di nuovo oggi rispetto al territorio. Che ne dici tu di questo, come la vedi da persona che dentro quest’azienda ha passato, anzi sta passando, la vita? F.P.: Molto importante è stata la ripresa, il Rinascimento di Cidonio rispetto a prima. Cidonio ha portato l’Henraux a una nuova dimensione ed è qui che poi è nata l’arte e la scultura moderna, con tutti i grandi artisti di cui abbiamo parlato. Paolo Carli, da quando ha preso in mano la società – che negli anni dal passaggio di Cidonio fino a lui, si era dimenticata della sua dimensione nel campo della scultura moderna – l’ha riportata a grandi altezze. Però nel territorio, a livello politico, questa svolta, effettivamente, non è stata molto capita. L’Henraux è un’azienda che ha una filiera davvero completa, si parte dalle cave e si arriva alla pianura fino al luogo bellissimo in cui si lavora il marmo, un ambiente pieno di arte.
Si è insomma riallacciato nell’ultimo decennio quel filo che muove dai grandi artisti del Novecento per arrivare a quelli di oggi. Che ci riporta a Henry Moore e Henri Georges Adam, a Hans Arp e Alicia Penalba fino a Isamu Noguchi per arrivare ai giovani artisti del Premio Henraux.
Si è insomma riallacciato nell’ultimo decennio quel filo che muove dai grandi artisti del Novecento per arrivare a quelli di oggi. Che ci riporta a Henry Moore e Henri Georges Adam, a Hans Arp e Alicia Penalba fino a Isamu Noguchi per arrivare ai giovani artisti del Premio Henraux, che saranno la continuità dell’azienda. Perché l’Henraux dovrà continuare per altri duecento anni: è una cosa troppo importante per la Versilia. R.B.: Il lavoro del cavatore in questi cinquant’anni è cambiato profondamente anche se è rimasta viva una certa mitologia e forse un senso della missione che
lo ha sempre contraddistinto. Di sicuro sono cambiate le tecnologie ed è aumentata la sicurezza. Anche nei laboratori a valle lo sviluppo tecnologico è stato enorme, con le macchine a controllo numerico entrate nella catena produttiva. Ma oltre alla tecnologia cos’altro serve a un’azienda, oggi, per essere all’avanguardia sul mercato? F.P.: Mi piace risponderti così. Chi lavora con le mani è un operaio. Chi lavora con le mani e con la testa è un artigiano. Chi lavora con le mani, con la testa e con il cuore è un dipendente dell’Henraux. Ecco che cosa oggi rende un’azienda moderna e competitiva.
15
Design
L’IDEA GIUSTA STA IN UN ELEVATOR PITCH
DI MADDALENA CASADEI
Dalla scelta dei materiali all’art design, scopriamo in quest’intervista idee e identità di Sam Hecht e Kim Colin, fondatori dello studio Industrial Facility che ha Fucina Piatto Foto di Miro Zagnoli
conquistato in questi ultimi anni la fiducia delle principali aziende del mondo del design.
17
Design
Herman Miller Lino Chair Foto di Gerhardt Kellerman
18
È l’ultimo giorno per visitare la mostra di Castiglioni a Milano. Sam Hecht e Kim Colin hanno organizzato una “vacanza studio” da Londra, dove fanno base, solo per vederla. Ci siamo rintanati nel seminterrato della Triennale, all’interno della Biblioteca del Progetto, un luogo che documenta l’evoluzione della creatività nel XX secolo. Un ambiente perfetto per il nostro scopo! Questa è un’intervista, ma ancora di più una chiacchierata, quindi ho deciso di riferirla nel modo più acritico e oggettivo possibile, cercando di usare le loro stesse parole per due motivi. Prima di tutto, perché vorrei che il lettore si sentisse come l’intervistatore e quindi parte di uno
Maddalena Casadei: Prima di tutto sono curiosa di sapere come avete scelto il nome Industrial Facility per il vostro studio, perché è una scelta che mi ha colpita e affascinata fin da subito. Di solito le persone tendono a usare i propri nomi o un acronimo di essi. Sam Hecht: Abbiamo iniziato nel 2001, quindi la nostra partnership è iniziata molto tardi, perché sia io che Kim avevamo già una professione nel design e nell’architettura. Eravamo molto scoraggiati dalle realtà esistenti e dai nostri stessi campi di ricerca, tanto che volevamo migliorare le cose in termini di sperimentazione di idee. Ci siamo uniti
scambio. In secondo luogo, non volevo filtrare o interpretare ciò che hanno cercato di esprimere e trasmettere in modo così accattivante e multisensoriale, grazie alla loro capacità dialettica che non è poi così comune tra designer e architetti. Industrial Facility è una sorta di addizione o di moltiplicazione matematica in cui l’ordine degli elementi è assolutamente indifferente o modificabile, ma se uno di questi elementi viene eliminato il risultato non sarà mai lo stesso né potrà mai avere la stessa forza e intensità.
perché eravamo convinti che esistesse un modo migliore per lavorare con l’industria. Ma le industrie a volte possono essere piuttosto volubili nello scegliere i collaboratori con cui lavorare, perché i rapporti lavorativi si basano sulla fiducia ed è più facile fidarsi di una grande azienda con grandi progetti o lavori, che non di una più piccola composta solo da due persone. Ecco perché abbiamo deciso di scegliere il nome più grande possibile: “Industrial Facility” (Struttura industriale).
L’obiettivo è di realizzare entrambe le nostre letture, che alla fine è la cosa più fattibile. Non è una battuta; perché il progetto deve soddisfare entrambi i nostri ruoli in esso, deve essere il risultato di entrambi, il che a mio avviso lo rende più ricco, alla fine.
Mattiazzi Radice Foto di Gerhardt Kellerman
M.C.: Come organizzate il vostro lavoro? Voglio dire, ognuno di voi ha un ruolo specifico o i vostri ruoli possono sovrapporsi o interscambiarsi? S.H.: Quando lavoriamo con un’azienda, l’interpretazione delle situazioni o di ciò che ci viene descritto vengono lette in modo completamente diverso da me e da Kim. Per esempio, se un cliente ci dice che vorrebbe ideare e sperimentare qualcosa con il legno, io probabilmente sarei propenso a sperimentare con il legno, mentre Kim direbbe subito: “No, no, no! Inten-
dono che vogliono sperimentare qualcosa con il tipo di lavorazione non con il materiale!” È diverso. Abbiamo una lettura molto diversa della stessa richiesta. K.C.: Il progetto è di realizzare entrambe le nostre letture, che alla fine è la cosa più fattibile. Non è una battuta; perché il progetto deve soddisfare entrambi i nostri ruoli in esso, deve essere il risultato di entrambi, il che a mio avviso lo rende più ricco, alla fine. Non è facile. Ogni progetto inizia sempre con una chiacchierata tra noi due. È come se il nostro primo collo-
19
Design
quio continuasse ancora oggi. Crescendo diventa sempre più ricco. Inoltre non ci annoiamo mai!
A volte ci viene presentato un materiale o un processo per creare un materiale, in tal modo è come se tante stelle dovessero allinearsi, quindi la cosa ci entusiasma molto. E quelle stelle sono parecchie: il prezzo, la lavorazione, la sostenibilità per il pianeta (non deve avere un impatto ambientale negativo), i colori, le finiture, le texture e altri fattori.
Sekisaka Store Foto di Angela Moore
20
M.C.: Avete lavorato con molti materiali diversi e spesso con modelli mono-materiale. Penso a Branca per Mattiazzi, Piatto per Fucina, Run per Emeco. C’è una ragione in particolare? Quanto è importante e in quale momento del processo di progettazione si inserisce la scelta del materiale? S.H.: Con Herman Miller, ad esempio, con cui siamo in stretto contatto, lavoriamo il materiale in un modo molto diverso. A volte ci viene presentato un materiale o un processo per creare un materiale, in tal modo è come se tante stelle dovessero allinearsi, quindi la cosa ci entusiasma molto. E quelle stelle sono parecchie: il prezzo, la lavorazione, la sostenibilità per il pianeta (non deve avere un impatto ambientale negativo), i colori, le finiture, le texture e altri fattori. Hai tutte queste stelle in movimento e devi allinearle. Talvolta un materiale ci viene presentato proprio al momento giusto: è quello perfetto per il progetto su cui stiamo lavorando. Tuttavia il lavoro con i materiali per alcune aziende, che noi affermiamo essere più artigiane, come Fucina, è molto diversa, perché un designer potrebbe dire che è un enorme limite usare un solo materiale. Ma cre-
do che nella misura in cui l’azienda ha una conoscenza artigianale e si pone nel ruolo di esperto, allora noi possiamo assumere il ruolo di novizi e sperimentare. Cosa sappiamo del modo in cui Fucina lavora il metallo? Noi non abbiamo (e non avremo mai) la loro conoscenza, la loro esperienza. Ma ciò che Fucina ci permette di fare è di suggerire progetti stimolanti e impegnativi, ci permette di definire la collezione da questo punto di vista. Quello che non funziona mai è, ad esempio, quando un’azienda decide di voler lavorare con il metallo senza mai averlo utilizzato prima. Questa è la formula migliore per un disastro assicurato. Quindi credo di poter dire che la scelta dei materiali riguarda il modo di lavorare con essi, poiché sono legati a doppio filo con la portata e con l’ambizione della singola azienda. M.C.: Avete già lavorato con molti e diversi materiali naturali, quindi il prossimo passo potrebbe essere il marmo! Nella mia personale esperienza, il marmo è incredibile ed estremamente affascinante perché ha una bellezza interiore tutta sua. So di aver toccato un punto dolente per un designer: evitando di fare dei confronti, vorrei però approfondire meglio il vostro punto di vista in proposito e il processo da voi utilizzato. Il vostro design sembra esprimere un linguaggio
Design
Braun Spazzolino elettrico Foto di Angela Moore
21
Design
Herman Miller ci ha sempre detto di pensare a “cosa dire del nostro progetto in ascensore”, dopo due anni di lavoro, salendo dal primo al quarto piano. Perché è proprio questo il tempo che hai per presentare il tuo prodotto all’amministratore delegato di un’azienda!
Wastberg Pastille Foto di Gilbert MacCarragher
22
nuovo, vicino a quello di Morrison e Fukasawa, ma allo stesso tempo diverso. Come vi vedete? S.H.: È difficile fare un’analisi dall’interno. Se ci pensate, Konstantin ha lavorato per Jasper mentre Jasper stava formalmente definendo il suo approccio, un po’ come quando io ero con Naoto mentre lui stava definendo il proprio lavoro, e la stessa cosa è capitata a Kim con l’artista Mike Kelley. Quindi formarsi e creare delle idee è sicuramente una parte fondamentale e un punto importantissimo del processo. Per questo c’è forse una maggiore affinità con una filosofia comune, mentre ce n’è meno per quanto riguarda il modo di esprimersi. Ma indubbiamente ci consideriamo molto diversi, seguiamo la nostra strada. K.C.: Cerchiamo davvero di chiederci quale sia il fulcro del progetto, e non è sempre un problema da risolvere o un bisogno da soddisfare, ma allo stesso tempo siamo molto realistici, quindi comprendiamo bene come le cose vengono fatte e vendute. Siamo interessati a tutti gli aspetti del processo. S.H.: Direi che noi costruiamo tutto intorno al dialogo, mentre Jasper e Naoto sembrano essere molto individualisti e avere le idee molto chiare su ciò che vogliono progettare e realizzare. Inoltre anche la nostra procedura è differente... facciamo così pochi disegni! Vedo sempre gli altri designer che fanno grandi schizzi, e ammiro tutta quella quantità di disegni! A dire il vero noi non disegniamo così tanto, ma realizziamo molti modelli. Penso che il progetto debba essere articolato tanto nelle parole quanto nella visione. Per noi, le parole e il dialogo sono estremamente importanti, perché se io ti descrivo qualcosa e tu riesci a percepire il risultato dell’esperienza, allora significa che ho centrato il punto. L’arte della conversazione tra tutti noi in studio è in qualche modo la base e anche il filtro per ciò che funziona e ciò che non funziona. M.C.: Mi ricorda l’approccio di Castiglioni e la sua convinzione che se non sei in grado di spiegare il tuo progetto al telefono, allora significa che non è un buon progetto. K.C.: Herman Miller ci ha sempre detto di pensare a “cosa dire del nostro progetto in ascensore”, dopo due anni di lavoro, salen-
do dal primo al quarto piano. Perché è proprio questo il tempo che hai per presentare il tuo prodotto all’amministratore delegato di un’azienda! M.C.: Al momento non avete mai collaborato con una galleria di design. È una decisione che avete preso voi per una ragione in particolare o semplicemente non è ancora successo? K.C.: Si tratta di un settore del design che abbiamo sempre osservato. In realtà ne abbiamo anche discusso di recente, guardando alcune opere di Marc Newson per Gagosian. In qualche modo incarna il successo del mercato per i pezzi di design e ci siamo chiesti che cosa definisca i suoi pezzi come “design-art” e perché non lo siano altri pezzi di design che invece consideriamo più deboli. Credo che le persone non ci associno a questo settore del design, perché ci vedono molto pragmatici, come in effetti siamo! S.H.: È complicato, perché l’aspetto artistico implica un messaggio che deve essere comunicato e che non può scendere ad alcun compromesso (altrimenti non è arte). Quindi se hai bisogno di usare del sangue devi usare del sangue vero, non puoi usare qualcos’altro perché il costo è troppo elevato e non è sostenibile. È questo ciò che lo rende arte. Ma il design per natura è costruito intorno ai compromessi, perché si ha a che fare con un’azienda, con la distribuzione, con i costi, con il prezzo... con problemi e bisogni reali. Questa è una realtà di cose che un artista non prende mai davvero in considerazione. Quindi un designer, di default, è qualcuno che deve affrontare tutte queste complessità e che deve comunque arrivare a qualcosa di magico, gioioso, bello e ingegnoso. Allora, che cos’è l’art design? Come si vende? Qual è il suo mercato? Non ne ho la minima idea! M.C.: Non mi sto riferendo alle gallerie che pretendono di vendere il design come arte, quindi dove il design perde completamente la sua funzionalità e la sua ragione di essere o dove l’arte perde la sua libertà di esistere. Sto pensando più a gallerie che vendono da un lato arredamento contemporaneo e che dall’altro portano avanti collaborazioni con designer d’avanguardia.
Design
Wastberg Pastille Foto di Gilbert MacCarragher
K. C.: Sì, ci abbiamo pensato. Finora non è capitato ma potrebbe essere una sfida interessante. Ad esempio, potrebbe trattarsi di un’esperienza coinvolgente o dello sviluppo di un progetto a cui non abbiamo mai lavorato prima. S. H.: Se parliamo di una galleria di design la cosa cambia, perché può avere a che fare con oggetti d’uso quotidiano. Le gallerie di design riguardano l’espressione di processi, frammenti di sperimentazione, pensieri che sono passati attraverso la mente di un designer. Non ci è mai stato chiesto di farlo. Ma allo stesso tempo, penso che non sia mai stato chiesto neanche a Jean Prouvé. È successo e basta con le sue opere. D’altra parte si deve anche dire che ha funzionato. Donald Judd era un artista eppure ha realizzato mobili, e anche con lui ha funzionato. Ma passare dal design all’arte... devo ammettere che non ne so abbastanza. Marc Newson ha trovato con successo un modo per vendere il suo lavoro come arte, probabilmente perché nel suo lavoro non
c’è alcun compromesso. Richard Serra si rivolge allo stesso pubblico e sta facendo la stessa cosa, che non può avere un solo compromesso. Si basa sulla stessa aspirazione con cui è stata impostata. K.C.: È un lavoro veramente legato all’autore. È impossibile per noi capire come venga amministrato economicamente. Mi preoccupa piuttosto vedere che il mercato dell’arte sia alla ricerca di cose diverse. S.H.: Comunque non abbiamo chiuso le porte a nuove esperienze, solo che non ci è ancora stata fatta una proposta del genere. Così come ha detto Castiglioni: “Sono felice di trovare alcuni dei miei pezzi di design in qualche museo, con il mio nome sopra, ma preferisco trovare quegli stessi oggetti in una casa normale, nel posto che gli spetta, con persone che li usano come sono sempre stati usati quegli oggetti, senza sapere che li ho disegnati io, e ancora di più: senza sapere che esistono persone che progettano oggetti”!
23
Architettura
EVOCARE LA NATURA ATTRAVERSO LA PIETRA DI JON PICKARD
Dal Devon Energy Center, a Oklahoma City, al 24th at Camelback di Phoenix. Dall’ExxonMobil Global Headquarters, in Texas, al River Point a Chicago: nella ventennale carriera dello studio Pickard Chilton, la pietra assurge a cifra architettonica peculiare capace di esprimere eleganza e memoria ancestrale.
Come architetti, per i nostri clienti ci sforziamo di creare dei mondi idealizzati, microcosmi perfetti in cui le persone possano vivere e lavorare in modo sicuro e confortevole. Negli ultimi ventidue anni, praticamente tutti gli edifici costruiti da Pickard Chilton hanno previsto l’utilizzo della pietra come un’importante caratteristica architettonica. Si ricorre alla pietra per la sua eleganza, ma anche per la sua capacità di connettersi con la parte più profonda del nostro essere, in un legame inconscio con il nostro passato primordiale. Avendo vissuto in armonia con la natura tra savane, praterie, foreste e montagne, gli uomini hanno sviluppato, da millenni, un legame istintivo e affascinante con l’ambiente naturale. Siamo intrinsecamente
24
attratti dai modelli frattali dell’acqua, della vegetazione e della pietra. Questo legame straordinario è riconosciuto come scienza della biofilia. Durante la nostra carriera – con a capo Pickard Chilton –, William Chilton, Anthony Markese e Jon Pickard si sono dedicati complessivamente ad oltre duecento progetti, e quasi tutti comprendono la pietra per la sua bellezza e il suo legame con la natura. In collaborazione con Paolo Carli e Massimo Serni di Henraux, abbiamo realizzato con successo numerosi edifici: di recente, il 1144 Fifteenth Street a Denver, in Colorado, e l’Amegy Bank a Houston, in Texas. Di seguito ci soffermiamo su altri progetti realizzati in collaborazione con Henraux.
A sinistra, 1144 Fifteenth Street, Denver Foto di David Sundberg-Esto Amegy Bank, Houston Foto di Aker Imaging
25
26
Architettura
Devon Energy Center Il Devon Energy Center sottolinea l’assioma che afferma che un architetto non è in grado di creare un grande edificio senza un cliente ispirato. Nel 2008 Pickard Chilton riceve l’incarico di progettare il nuovo quartier generale dell’azienda Devon Energy a Oklahoma City. Il presidente e amministratore delegato Larry Nichols ha diretto il progetto insieme al vicepresidente esecutivo, Klay Kimker. Il signor Nichols, la quintessenza dell’uomo rinascimentale, si è formato presso alcune università d’élite, diventando un avvocato molto abile (ha svolto un lavoro come impiegato presso la Corte Suprema degli Stati Uniti) e un esperto di geologia con una profonda conoscenza e passione per la pietra, un caso fortuito a vantaggio del progetto. Il Devon Energy Center incorpora in sé sedici tipi di pietre diverse. Henraux ha collaborato con i nostri consulenti e con il team di progettazione per abbinare pietre provenienti da tutto il mondo. Lo spazio pubblico è definito dal granito Kashmir White, utilizzato per la pavimentazione, e dal marmo Calacatta Caldia per i rivestimenti. Il Kashmir White è stato scelto per la sua forza, per l’assenza di porosità, calore e consistenza visiva. Il Calacatta Caldia offre invece una superficie bianco puro con morbide venature ocra e grigie. Insieme, le pietre trasmettono un senso di calma in uno spazio pubblico che è stato abbondantemente ridimensionato. Per un’importante parete a due piani che attraversa lo spazio pubblico, abbiamo cercato di individuare una pietra visivamente dinamica. Alla fine, abbiamo scelto la Desert Sandstone, una straordinaria pietra estratta in India che risulta estremamente “vitale”, con una finitura in pelle. Se tutte le superfici all’interno del Devon Energy Center erano fondamentali e richiedevano la posa a secco, questa parete in particolare era di eccezionale importanza e richiedeva più pose. Le grandi dimensioni delle lastre hanno richiesto l’utilizzo di una gru posizionata quindici metri al di sopra della parete e
sono state necessarie molte ore per trovare l’impatto estetico e visivo ideale, miscelando le venature del rivestimento e affiancando gli elementi in modo che, scorrendo di lastra in lastra, non vi fossero, visivamente, interruzioni. Tutto questo impegno e lavoro è sfociato in una splendida parete di arenaria, in grado anche di offrire una connessione più viscerale: quando ci si trova lì davanti sembra di essere nei canyon in pietra di Petra. Riconosciamo la sua bellezza ma allo stesso tempo sentiamo un’irresistibile connessione con il nostro passato. 24th at Camelback di Phoenix Nel 1997, l’azienda Pickard Chilton è stata scelta per progettare il 24th at Camelback di Phoenix, in Arizona. Tra le prime commesse dell’azienda, è stato anche il primo incarico per Hines, probabilmente la società immobiliare più rispettata al mondo. Eravamo pertanto fortemente motivati a creare il miglior edificio possibile consentito dal budget. Il mercato degli uffici commerciali di Phoenix a quell’epoca non accreditava facilmente un edificio di qualità realizzato da Hines/Pickard Chilton e l’idea di usare la pietra in modo significativo era vista come un azzardo. Di conseguenza, abbiamo progettato una composizione, semplice eppur elegante, di pareti a vetro orizzontali prefabbricate. Henraux ci ha fornito il granito Rosa Beta, un materiale molto bello a un prezzo davvero competitivo. Hines ha scelto di investire nelle recinzioni in granito per convalidare le rendite previste. Sei anni dopo il completamento dell’edificio, la sua vendita da parte di Hines ha stabilito un record nel mercato degli uffici commerciali di Phoenix. ExxonMobil Global Headquarters Dopo un concorso internazionale, la ExxonMobil ha selezionato Pickard Chilton per progettare la propria sede centrale e unificare le proprie unità operative fondamentali in un unico campus di circa 10.000 dipendenti. Mirando a un ambiente di lavoro che favorisse le connessioni sociali e la collaborazione, ci siamo sforzati di creare
Henraux ci ha fornito il granito Rosa Beta, un materiale molto bello a un prezzo davvero competitivo. Hines ha scelto di investire nelle recinzioni in granito per convalidare le rendite previste. Sei anni dopo il completamento dell’edificio, la sua vendita da parte di Hines ha stabilito un record nel mercato degli uffici commerciali di Phoenix.
In alto, 24th at Camelback, Phoenix Foto di Kendall-Heaton A sinistra, Devon Energy Center, Oklahoma City Foto di Alan Karchmer
27
Architettura
La strategia di recinzione esterna illustra questo equilibrio tra natura e tecnologia. Il calore della pietra si unisce all’acciaio inossidabile e al vetro ad alte prestazioni per proteggere i dipendenti, riuscendo a metterli in connessione con la natura e con la luce del sole.
In alto, ExxonMobil Energy Center, Houston Foto di David Sundberg-Esto A destra, ExxonMobil Office Building, Houston Foto di Aker Imaging
28
un ambiente umano che allo stesso tempo esprimesse anche una certa complessità tecnologica. Il profondo rispetto di ExxonMobil per la ricchezza del pianeta ci ha fatto capire che la pietra doveva essere parte integrante del progetto. La strategia di recinzione esterna illustra questo equilibrio tra natura e tecnologia. Il calore della pietra si unisce all’acciaio inossidabile e al vetro ad alte prestazioni per proteggere i dipendenti, riuscendo a metterli in connessione con la natura e con la luce del sole. Sono stati considerati molti possibili rivestimenti, ma alla fine è stato scelto il Travertino Romano per il suo valore e la sua bellezza classica e senza tempo. Il travertino è stato utilizzato in tutto il campus per promuovere una visione armonica e un’unità visiva. Per gli interni è stato mantenuto lo stesso concetto di unità. La maggior parte dei pavimenti presenti negli spazi pubblici è stata realizzata in pietra calcarea Jura, scelta per la sua resistenza, durata e compatibilità con la tavolozza cromatica del campus.
Poiché il campus è molto grande è stato organizzato in quattro aree tematiche: Energia (est/rosso); Natura (nord/ verde); Benessere (ovest/blu); Scienza (sud/argento). Per arricchire visivamente il campus e facilitare la circolazione sono state selezionate quattro pietre speciali per rappresentare ciascun distretto: Est – Travertino Rosso; Nord – Granito Verde Bamboo; Ovest – Granito Azul Bahia; Sud – Travertino Ocean Black. Ogni pietra è stata utilizzata per rivestire la facciata degli edifici di ingresso di ciascun distretto con lastre che hanno raggiunto un’area pari a quattro piani, modulando così anche lo spazio pubblico. Il direttore Anthony Markese ha concepito un nuovo design per valorizzare ogni edificio e mostrare la bellezza idiosincratica della pietra. Ha individuato dei punti focali all’interno di ogni immobile e ha selezionato accuratamente una lastra di pietra o “pittura su pietra” per ciascuno. Da centinaia di pietre, ha curato personalmente i “dipinti su pietra”, selezionando solo i più straordinari.
Architettura
30
A lato e a sinistra, River Point, Chicago Foto di David Sundberg-Esto
RiverPoint River Point occupa un sito triangolare ben visibile al confluire di due rami del fiume Chicago, nel centro di Chicago. La geometria unica del luogo ha influenzato la sua forma scultorea, la piazza pubblica e l’uso della pietra nell’atrio. Come un gigantesco obelisco, il suo impressionante profilo segna lo snodo del fiume che allarga le vedute da e verso la torre. Guardando dal Loop di Chicago, le curve riflettenti di River Point sono ben visibili e il magnifico ingresso, la piazza e il ristorante dialogano con la maestosità del fiume e con lo skyline. Per differenziare l’atrio all’interno del paesaggio urbano, un ampio arco parabolico si erge a un’altezza di diciotto metri e il gioiello all’interno dell’atrio di tre piani è un imponente muro di Travertino Rosso brillante. Creato con cura da Henraux, la parete inclinata di pietra offre un caloroso benvenuto. Di sera, la
superficie illuminata del Travertino Rosso regala una magnifica luce color rosso vivo visibile in tutto il centro. Conclusione L’uso della pietra, nel nostro ambiente edificato, si è trasformato nel corso dei millenni, ma rimane una componente essenziale dell’architettura odierna. Abbondante, duratura e disponibile in tutto il pianeta, la pietra è passata dall’essere il più rudimentale degli elementi edilizi a essere uno dei più belli e affascinanti. Con i suoi motivi geometrici naturali, la varietà di trame e di colori – ognuno per sua natura unico –, la pietra ha la forte capacità di evocare la natura nell’ambiente urbano, soddisfacendo il nostro innato attaccamento emotivo al mondo naturale. Quando viene incorporata all’interno dei nostri edifici, tutti noi ne traiamo vantaggio.
31
Arte
DIEGO MARCON. CONVERSAZIONE SU LUDWIG DI LUCREZIA CALABRÒ VISCONTI
Con Ludwig, materializzazione marmorea di un bambino realizzato da un modello 3D, Diego Marcon è stato fra i tre vincitori della IV edizione del Premio di Scultura Henraux. Con Lucrezia Calabrò Visconti, si aprono alcune riflessioni sulla pratica della scultura come linguaggio di narrazione anche in occasione della mostra personale tenutasi alla galleria ZERO... di Milano.
Lucrezia Calabrò Visconti: Vorrei iniziare la nostra conversazione chiedendoti di pensare insieme a due diverse modalità secondo cui la scultura è presente nella tua pratica. La prima è legata al tuo sguardo plastico verso il mezzo cinematografico. La riflessione – a tratti quasi feticista – sugli elementi strutturali che compongono il dispositivo filmico emerge con insistenza nei tuoi lavori, soprattutto da Litania (2010) in poi, tanto da rendere impossibile un’analisi semiotica dei tuoi film, visto che spesso è difficile determinare persino dove finisca il soggetto e dove inizi il medium del lavoro: l’infrastruttura tecnica e storica
Diego Marcon in Henraux Foto di Nicola Gnesi
32
su cui il film si costruisce hanno potenzialità narrative e patetiche pari se non superiori ai suoi elementi puramente “contenutistici”. Un esempio emblematico e un po’ letterale che potrei fare, riprendendo il dialogo che hai avuto con Cesare Alemanni su il Tascabile qualche mese fa, è Il malatino (2017). Nel film muto, l’assenza strutturale del suono del respiro del protagonista (il malatino, appunto), viene compensata secondo Alemanni dal rumore extradiegetico della pellicola che si srotola nel proiettore 16mm. Questo mi porta a un elemento di cui non si parla spesso rispetto al tuo lavoro e fortemente connesso a un approccio
Arte
33
Arte
Arte
Diego Marcon, Pour vos beaux yeux, 2013 Film Super8 bianco e nero invertibile, colore, senza sonoro, 8’39’’ in loop Veduta dell’installazione “Laurene”, Ermes-Ermes, Milano Courtesy l’artista ed Ermes-Ermes, Vienna Foto di Filippo Armellin
plastico al cinema, ovvero il grado di interpretazione attoriale presente nei tuoi film. Per un lungo periodo la figura umana è stata totalmente assente dai tuoi lavori (Pour vos beaux yeux, Storie di fantasmi per adulti, salut! hallo! hello!), o presente sotto forma di figure viventi ma neutralizzate nella loro interpretazione perché immerse in altre attività (Monelle: figure umane presenti, ma dormienti, Litania: figure umane presenti ma di spalle o dedite alla preghiera; Pattini d’argento: figure umane presenti, ma completamente concentrate nel pattinaggio). Nella tua produzione più recente, al contrario, c’è una presenza attoriale molto forte, quasi lirica, ma è limitata ai personaggi animati (Ludwig, Monelle) e, di conseguenza, totalmente controllabile grazie al CGI. Fa da eccezione il flusso di coscienza di Claudia in She Loves You, su cui bisognerebbe aprire una parentesi a parte. Per questi motivi ho pensato diverse volte che fosse quantomeno impreciso definirti regista, immaginando la tua pratica vicina piuttosto a quella di chi assembla o coordina oggetti e materiali, potremmo dire forse quella di uno scultore che usa il mezzo cinematografico.
35
Diego Marcon, Ludwig, 2018 Video, animazione CGI, colore, suono, loop Veduta dell’installazione “Ludwig”, Institute of Contemporary Arts Singapore / LASALLE, Singapore Courtesy l’artista ed Ermes-Ermes, Vienna
36
Diego Marcon: Non sento nemmeno io particolarmente calzante la definizione di regista in relazione alla mia pratica; non ho alcun desiderio di confrontarmi con degli attori e con una troupe allargata, né soprattutto di produrre film pensati per la distribuzione cinematografica tradizionale. Mi interessa invece l’installazione dei video e dei film nello spazio, in cui credo che ogni elemento – anche il più semplice e strutturale del luogo – contribuisca a dare forma a una narrativa precisa e determinante rispetto alla percezione del lavoro. Sostanzialmente anche l’approccio all’allestimento, come per il lavoro nella progettazione e produzione dei film e video, può considerarsi in qualche modo di carattere strutturalista. In questo senso, anche quando l’opera è presentata in una sala cinematografica (come ad esempio
accade a Monelle nelle proiezioni nei festival, oppure per la sua première italiana durante miart 2018) il cinema è usato come elemento narrativo. Per quanto anche per i primi lavori – i video monocanale – l’installazione fosse determinante (ad esempio per Litania è necessario uno spazio completamente buio, mentre Storie di fantasmi per adulti vive anche nel riflesso della proiezione sulla parete e sul pavimento), è a partire da Pour vos beux yeux – presentato la prima volta a Gasconade nel 2013 – che ho iniziato a prendere più consapevolezza dell’aspetto plastico che possiede un’installazione video o film, e di quello narrativo degli elementi di un ambiente, di un display e delle tecnologie stesse necessarie per la riproduzione e il funzionamento dell’opera. Credo che anche la maniera in cui un cavo raggiunge
Arte
L.C.V.: Quello che succede con Ludwig è speculare e inverso: invece di una narrazione che approfitta delle dinamiche proprie del mezzo cinematografico per definirsi, abitandone gli spazi e animandone le strutture, è il protagonista di un film, ovvero il fanciullo di Ludwig, a venire risucchiato fuori dal perimetro dello schermo e solidificato in oggetto. Non c’è
scultura; i tempi serrati dell’animazione concessi dal “buio ontologico” del cinema diventano l’immobilità a cui costringe il neon impietoso della galleria. A livello sintattico, il dialogo che intercorre tra il tuo lavoro e il film di genere si trasforma nel rapporto con la storia della scultura e con la tradizione specifica del monumento commemorativo. Mi interessa la scelta che hai fatto di non cedere alla tentazione di produrre un “anti-monumento”. Ludwig rispetta e rielabora i principi della tradizione monumentale, distanziandosene lo stretto indispensabile per rendere il
una compenetrazione tra i due linguaggi (quello plastico e quello filmico) in un unico lavoro, ma piuttosto una traduzione – e quindi ripetizione – di un soggetto da un linguaggio all’altro. In questo processo di traduzione, la stiva buia e dai confini indefiniti della nave di Ludwig diventa il contesto preciso della stanza dello spazio espositivo; la cassa su cui siede il ragazzino diventa l’ingombrante piedistallo della
lavoro perturbante ma fondamentalmente plausibile, intatto nella sua carica celebrativa. L’ironia grottesca che aleggia nei tuoi film si condensa nel blocco di marmo lapideo su cui è seduto il ragazzino: è un piedistallo tragicomicamente troppo grande rispetto alla scultura che sostiene, che tuttavia ci guarda comunque dall’alto verso il basso, stagliandosi con tutta la sua precisa monumentalità nello spazio.
la presa elettrica dal proiettore determini una fondamentale questione formale capace di incidere sulla percezione del lavoro.
È a partire da Pour vos beux yeux – presentato la prima volta a Gasconade nel 2013 – che ho iniziato a prendere più consapevolezza dell’aspetto plastico che possiede un’installazione video o film, e di quello narrativo degli elementi di un ambiente, di un display e delle tecnologie stesse necessarie per la riproduzione e il funzionamento dell’opera.
Diego Marcon, Ludwig, 2018 Statuario Altissimo, 33x49x179 cm particolare della scultura realizzata in Henrax
37
Arte
Ludwig è una sorta di monumento alla fragilità. Il fiammifero che il bambino tiene in mano e protegge è molto delicato. Basta una leggera pressione delle dita per spezzarlo.
Diego Marcon, Quattro cani morti, 2018 Quattro elementi di ceramica, dimensioni variabili Veduta dell’installazione “Les Pratiques Solitaires”, TheView Studio, Genova Courtesy l’artista, TheView Studio ed Ermes-Ermes, Vienna Foto di Andrea Rossetti
38
D.M.: Nella produzione dei miei lavori scultorei non mi interessano la scultura e la sua pratica. Ad esempio non mi interessa lavorare con il marmo, ma con la scultura in marmo. Non c’è alcuna ricerca concreta sul materiale o sul processo, ma soprattutto sul suo senso, in cui va da sé che il materiale ha molta importanza... Questo vale anche per Quattro cani morti, un lavoro costituito da quattro cani morti realizzati in ceramica. Tendo a considerare questi lavori come elementi più che come sculture. Questi lavori si inseriscono all’interno di alcune tradizioni scultoree classiche: nel caso di Ludwig, in quella della scultura figurativa che va dal monumento celebrativo alla scultura funeraria, mentre per Quattro cani morti in quella delle ceramiche decorative da salotto o giardinetto. Il lavoro, in questi casi, più che con una pratica e con un processo scultorei si relaziona con un immaginario. Si relaziona con il senso che queste tradizioni definiscono, attraverso la forma che i loro processi di produzione e di distribuzione hanno preso negli anni e in determinati contesti economici, sociali e geografici. Nel caso specifico della scultura Ludwig, e in relazione con la precedente e omonima opera video, credo che la produzione dell’elemento in marmo
sottolinei un aspetto importante del lavoro esposto al MAXXI (il video, n.d.r.), escludendo quelli che riguardano in maniera diretta l’immagine in movimento. Per questo la scultura è un’opera autonoma rispetto al video. Ludwig è una sorta di monumento alla fragilità. Il fiammifero che il bambino tiene in mano e protegge è molto delicato. Basta una leggera pressione delle dita per spezzarlo. L.C.V.: Abbiamo parlato di rottura e continuità rispetto a un certo immaginario, nel caso di Ludwig quello prodotto dalla tradizione celebrativa del monumento pubblico, catalogabile tra i due poli della glorificazione festosa delle gesta del soggetto rappresentato e la commemorazione luttuosa della sua perdita. A questo proposito, il luogo in cui hai deciso di posizionare Ludwig, ovvero il cortile adiacente alla galleria ZERO... lo carica a sua volta di una molteplicità di narrazioni. Come osservato da Michele D’Aurizio nel testo di presentazione alla mostra, trasportatori, ragazzini, clubber e visitatori si alternano in momenti diversi della giornata in questa immaginaria piazza, coercitivamente condivisa. Come si traduce la tua attenzione
Arte
39
Arte
40
Arte
Credo che la mostra non sia niente di scioccante, ma che possa forse essere capace di operare un leggero spostamento di sguardo.
Diego Marcon, Ludwig, 2018 Statuario Altissimo, 33x49x179 cm Veduta dell’installazione, ZERO…, Milano, IT Courtesy Fondazione Henraux e ZERO…, Milano Foto di Roberto Marossi
allo spazio di presentazione del lavoro in questo luogo dalle connotazioni variabili e solo parzialmente prevedibili? D.M.: Ancora una volta, tutti gli elementi che concorrono a dare forma a un “contesto” – per noi la mostra – sono utilizzati come elementi narrativi. Fin dalle prime visite alla nuova sede della galleria ZERO… – che da qualche mese si è spostata all’interno di un grande cortile condiviso con diversi altri soggetti nella periferia sud-est di Milano – ho pensato che l’opera andasse allestita lì fuori, immersa nel discreto brulichio di tutte le attività che circondano la galleria e sostanzialmente visitabile 24 ore su 24, 7 giorni su 7. La mostra si costituisce quindi non tanto – o non solo – dell’opera scultorea e delle sue specifiche formali, ma di questa precisa scelta e dei suoi minimi gesti. Non mi interessano le eventuali re-
azioni dei differenti spettatori di Ludwig al di fuori del pubblico consueto dell’arte, non nello specifico almeno – e comunque non potrei conoscerle. Mi interessa che quel pubblico, quantomeno per noi, per gli operatori culturali – i frequentatori dell’arte – sia presente, anche solo come sfondo. Lo stesso sforzo del visitatore di raggiungere la galleria e la sua posizione di trovarsi poi davanti alla sola statua in un cortile alla periferia di Milano, magari al gelo e sotto la pioggia, sono elementi significanti che portano l’opera a compimento. Credo che la mostra non sia niente di scioccante, ma che possa forse essere capace di operare un leggero spostamento di sguardo. A ben guardare, il cuore della mostra è per me una piccola domanda. Perché mi alzo ancora ogni mattina?
41
Architettura
A UNCE! LA LIZZATURA DEL MARMO, UN MESTIERE PERDUTO DI COSTANTINO PAOLICCHI
Una minuziosa disamina descrive una delle manovre più faticose dell’intero ciclo produttivo del marmo, abbandonata dall’Henraux di Cidonio nel 1956: la lizzatura, che comprendeva tutte le operazioni di spostamento dei blocchi di marmo estratti dalla cava.
42
Un lizzatore, Carrara, anni Trenta del Novecento Prima dell’introduzione dei cavi d’acciaio, per la lizzatura si adoperavano grosse corde di canapa (canapi) Foto Archivio Bessi
43
Architettura
Lizzatura di un blocco di marmo di oltre venti tonnellate sul Monte Altissimo. Si tratta dell’ultima lizzatura effettuata il 22 maggio 1957 dalla Compagnia Lizzatori di Azzano Foto Archivio Henraux
44
Architettura
La Società Henraux, di cui aveva da poco assunto la direzione Erminio Cidonio, decideva nel 1956 di porre fine all’antichissimo metodo della lizzatura, realizzando un’ardita strada di arroccamento per raggiungere le cave alte della Fitta, Macchietta e Tacca Bianca sul Monte Altissimo. Cidonio è stato il lungimirante amministratore unico che aveva creato all’interno dell’azienda a Querceta un centro artistico internazionale, coinvolgendo tutti i più noti e celebrati maestri a livello mondiale della scultura contemporanea negli anni Sessanta del Novecento. A lui è intitolato il premio internazionale di scultura istituito dall’Henraux S.p.A. e dalla Fondazione Henraux. Già conosciuta dagli egizi e poi ampiamente utilizzata dai romani nelle cave di Luni, la lizzatura risultava ormai antieconomica e inadeguata rispetto alle moderne esigenze produttive. Comportava inoltre una fatica disumana per le maestranze, sottoponendole ad un rischio professionale molto elevato tant’è che ha sempre rappresentato l’operazione più difficile e rischiosa dell’intero ciclo produttivo del marmo. Molti degli incidenti mortali che si verificavano nel comparto lapideo, avvenivano proprio durante le fasi della lizzatura. Realizzando la strada, ancora una volta l’Henraux metteva in evidenza non soltanto la propria capacità innovativa nel campo delle tecnologie aziendali, ma anche una particolare sensibilità verso i propri dipen-
denti già ampiamente dimostrata in passato. Prima del 1893, ad esempio, soltanto la Ditta Eredi Sancholle Henraux di Querceta aveva provveduto, nell’intero distretto minerario, ad assicurare gli oltre seicento suoi operai; l’esempio fu seguito da poche altre ditte versiliesi nel 1894. Analogamente, nessuna forma previdenziale era prevista per la vecchiaia e il problema cominciò ad essere avviato a soluzione soltanto nel 1903, quando ottemperando agli obblighi assunti con contratto di lavoro del 1902, la ditta Eredi S. Henraux, per prima in Versilia, iscriverà alla Cassa nazionale di previdenza per la vecchiaia 300 suoi operai. Nel 1957 la Compagnia Lizzatori di Azzano effettuava per l’ultima volta, lungo la terribile via di lizza della Tacca Bianca, una spettacolare lizzatura di cui oggi si conserva una serie di bellissime immagini fotografiche. Erano i discendenti di quegli uomini che cinquecento anni fa – nel 1518 e nel 1519 – avevano calato, lungo una primitiva via di lizza, le colonne destinate alla chiesa fiorentina di San Lorenzo che Michelangelo aveva estratto dalla cava da lui aperta nel monte di Trambiserra. In una parete del monte, appena sotto la cava della Macchietta, nel punto forse più difficile e ripido dell’intero percorso, i lizzatori vollero incidere – a perenne memoria – un’iscrizione con una data: 22-5-1957 ore 10 Compagnia Lizzatori Azzano. “Con il nome lizzatura si comprendevano tutte le operazioni di spostamento dei bloc-
Molti degli incidenti mortali che si verificavano nel comparto lapideo, avvenivano proprio durante le fasi della lizzatura. Realizzando la strada, l’Henraux metteva in evidenza una particolare sensibilità verso i propri dipendenti già ampiamente dimostrata in passato.
45
Architettura
La lizza delle cave apuane era di fatto una quotidiana competizione degli uomini con la montagna e con il destino. Durante le fasi della lizzatura, sull’orlo del precipizio, i lizzatori bestemmiavano come indemoniati. Giunti alla fine della fatica e del pericolo, si segnavano con la croce e ringraziavano Dio e la Madonna.
46
chi di marmo estratti e abbattuti dal fronte di cava, sia sui piazzali delle cave stesse che, più in particolare, lungo le ripidissime vie di discesa. Il nome deriva dallo strumento principale di questo sistema di trasporto, e cioè la lunga slitta di legno, ricavata da tronchi robusti di legno forte, detta appunto lizza” 1. Nel dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli2, si legge che il termine lizza discende da una voce dialettale settentrionale l’ilza con concrezione dell’articolo, derivazione del latino tardo helcia, “corda per trainare”. Tuttavia la lizza era il recinto destinato alle prove d’armi, e “scendere in lizza” significava prendere parte a una gara, a una competizione. La lizza delle cave apuane era di fatto una quotidiana competizione degli uomini con la montagna e con il destino. Durante le fasi della lizzatura, sull’orlo del precipizio, i lizzatori bestemmiavano come indemoniati. Giunti alla fine della fatica e del pericolo, si segnavano con la croce e ringraziavano Dio e la Madonna. Il termine lizza, riferito in origine alla sola slitta, in un secondo momento fu esteso anche ai piani inclinati lungo i quali le cariche di marmo venivano fatte discendere, che presero nome di vie di lizza o vie a lizza e poi semplicemente lizze. Per poter muovere i blocchi ancora sul piazzale di cava, e quindi lungo un piano orizzontale, era necessario sottoporli a due procedimenti: il primo consisteva nell’armamento dei blocchi mediante particolari accorgimenti in grado di diminuire la resistenza al movimento; il secondo era rivolto ad applicare ai blocchi una forza capace di farli muovere nella direzione voluta. La carica da lizzare, che poteva essere costituita da un solo blocco di grandi dimensioni o da una serie di blocchi più piccoli, veniva predisposta facendo poggiare la sua base sulle soqquadre, ovvero su pile di detriti o di piccoli massi che la tenevano sollevata da terra, in modo da consentire – nella fase successiva – l’introduzione al di sotto di essa della lizza. Nel preparare la carica
formata da più blocchi di varie misure, si disponeva in genere il blocco più grande in basso, a formare il piano di carica. Gli altri blocchi venivano accuratamente sistemati sopra il piano di carica, collegati tra loro e saldamente legati con catene o spezzoni di funi (le braghe), secondo il peso della carica e secondo la pendenza della via di lizza. La lizza vera e propria era costituita da tre robusti tronchi di lunghezza variabile da 4 a 7 metri, con una sezione di circa 15x15 centimetri. Si utilizzava in genere legno di faggio o di cerro per la costruzione sia delle lizze che dei parati (pezzi di legno di circa un metro e mezzo di lunghezza, con la stessa denominazione di quelli, simili per forma e dimensione, adoperati per calare in mare e risospingere a terra le imbarcazioni). La carica, una volta pronta, aveva un peso complessivo variabile tra 12 e 20 tonnellate; eccezionalmente si raggiungevano anche 26 e più tonnellate. Lo scivolamento della lizza avveniva sempre per mezzo dei parati, che venivano cosparsi di sego o di sapone. Quando la carica si trovava ancora sul piazzale di cava, per muoverla veniva esercitata una spinta mediante la forza muscolare di vari uomini muniti di pali o mediante uso di argani. Raggiunto l’imbocco della via di lizza, la carica era assicurata a robusti canapi mediante un giunto (il grillo): a seconda del peso della carica e dell’inclinazione della via di lizza, il numero dei canapi poteva variare da due a sei. I canapi avevano la funzione di trattenere la carica durante la discesa; anticamente e fino agli anni Venti del Novecento erano costituiti da canapa o iuta, con un diametro variabile da 40 a 50 millimetri e una lunghezza di circa 50 metri. Dopo gli anni Venti furono progressivamente sostituiti da cavi d’acciaio. Il peso della carica e la pendenza della discesa determinavano la scelta del numero dei cavi da utilizzare. Nelle parti a monte delle vie di lizza in genere si utilizzavano tre cavi, e nelle parti più facili solo due, ma non mancavano casi in cui – aumen-
Monte Altissimo, un tratto della vecchia via di lizza delle cave Macchietta, Fitta e Tacca Bianca Foto Costantino Paolicchi
Monte Altissimo, l’iscrizione che ricorda l’ultima lizzatura, incisa nel monte lungo il tratto piÚ impegnativo della stessa via di lizza Foto Costantino Paolicchi
47
I fianchi ripidissimi del Monte Altissimo lungo la via di lizza poco al di sotto della cava Macchietta. Da notare il “piro” di marmo che reca i segni dello sfregamento dei canapi Foto Costantino Paolicchi
Operai “mollatori” durante le fasi di una lizzatura. I cavi d’acciaio che trattengono la carica sono avvolti intorno ai piri di legno Foto Archivio Bessi
48
Architettura
tando il peso della carica – i cavi potevano diventare quattro e anche sei, nei tratti di maggiore pendenza. La via di lizza era ordinariamente tracciata sui ravaneti, soprattutto a Carrara, oppure costruita lungo il pendio della montagna mediante una massicciata “a secco”, che veniva poi lastricata con una tecnica detta a ricciato. A volte, per lunghi tratti, la via di lizza veniva scavata direttamente nella roccia del monte. Nei casi di maggiore pendenza, i parati venivano lasciati fissi lungo il tracciato, ancorati al monte, per facilitare il lavoro dei lizzatori. Ai lati della via di lizza, a intervalli variabili da un minimo di pochi metri a un massimo di quaranta e più metri, venivano collocati i piri, robusti pali lunghi poco meno di un metro e saldamente infissi nella viva roccia o in grossi blocchi di marmo o di pietra detti forti. Il piro era costruito di legno, generalmente castagno: aveva forma quadrangolare e andava conficcato in un foro quadrato di circa 30-40 centimetri di lato e profondo 20-30 centimetri, scavato con scalpello, subbia e mazzuolo nella roccia. Questa forma impediva al piro, sottoposto a fortissime trazioni, di ruotare su se stesso. Intorno al piro venivano poi disposte delle zeppe di rinforzo, spesso ottenute dal legno di acacia, molto resistente all’attrito. Anche le zeppe erano inserite nella roccia mediante uno scavo di forma ottogonale realizzato tutto intorno al foro da piro, per bloccarle saldamente al tronco principale, detto anima del piro. Anticamente, quando si faceva uso di canapi, i piri erano realizzati molto spesso di marmo, sapientemente lavorati in forma di tronco di cono con la base maggiore rivolta verso l’alto. La superficie del piro di marmo, più liscia rispetto a quella del piro di legno, consentiva al canapo di scorrere producendo minore attrito; inoltre i piri di marmo avevano una durata superiore, mentre quelli di legno dovevano essere sottoposti a costante manutenzione e periodicamente sostituiti.
I cavi principali utilizzati per trattenere la carica durante la discesa venivano avvolti in più spire intorno ai piri. In questo modo si procurava un attrito sufficiente a trattenere la lizza con poco sforzo dei mollatori, gli operai addetti allo scorrimento dei canapi. Infatti era sufficiente aumentare o diminuire il numero delle spire del canapo avvolto sul piro per far muovere o per trattenere l’enorme peso della carica. Dunque i canapi si svolgevano intorno ai piri, man mano che la carica discendeva spinta dal proprio peso; se i canapi – ad esempio – erano tre, due venivano mantenuti in trazione per sostenere la carica, consentendo ai mollatori di svolgere e riavvolgere il terzo canapo al piro sottostante. L’intera manovra della lizzatura si basava sull’uso alternato dei canapi. Una squadra di lizzatori si componeva in media di dieci, tredici uomini, che obbedivano agli ordini di un capo-lizza. Il capo aveva il compito delicatissimo di dirigere tutte le operazioni, e in più doveva collocare i parati davanti alla carica, coadiuvato da un sotto-capo. Impartiva inoltre gli ordini ai mollatori, usando parole convenzionali che venivano pronunciate con grida gutturali: “fort” per indicare di trattenere la carica, “a unce” per mollarla. Almeno quattro operai erano addetti a recuperare i parati lasciati liberi dalla carica, a mantenerli insaponati e a passarli al capo e al sottocapo della squadra che li ponevano di nuovo davanti alla lizza. La lizzatura, oltre a costituire un’operazione difficile e pericolosa, era anche una delle più faticose dell’intero ciclo produttivo. Il lavoro iniziava nelle prime ore della giornata, molto presto soprattutto in estate, quando la temperatura ancora bassa offriva maggiori garanzie di resistenza della canapa all’attrito dei piri. Terminata la lizzatura, che occupava gran parte, se non tutta la giornata lavorativa, gli operai dovevano caricarsi in spalla canapi, parati e lizze e riportali in cava ripercorrendo, in genere, lo stesso tracciato ripidissimo utilizzato per la discesa dei blocchi.
N OT E 1 F. Bradley, E. Medda, Le strade dimenticate. Vie di lizza e discesa del marmo nelle alte valli massesi, Marina di Massa 1995, p. 11. 2 G. Devoto, G. C. Oli, Dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 1990.
49
Design
IL BAUHAUS È ANCORA TRA NOI, DOPO 100 ANNI DI ALDO COLONETTI
Il Bauhaus celebra il suo centenario conservando inalterata la sua portata di attualità. Nell’affermare una Weltanschauung che fissa al centro del sapere l’arte in dialettica con le altre discipline, insiste sulla relazione tra maestro e allievo come trasferimento di pratiche e di visioni.
50
Design
51
Design
Il Bauhaus è durato quattordici anni, dal 1919 al 1933, e i suoi studenti sono stati 1250. Parliamo quindi di numeri non importanti, ma tuttavia il suo pensiero e la sua esperienza didattica mantengono una centralità e un’attualità che nessun altro movimento di questo tipo è stato in grado di produrre. L’aveva compreso perfettamente Giulio Carlo Argan, con il suo famoso saggio del 1951 “Walter Gropius e la Bauhaus” (testo ancora oggi insostituibile per comprendere la complessità del suo percorso), la cui introduzione coglie l’essenza filosofica di questa scuola: “L’arte diventa il carattere d’ogni umano impulso positivamente vitale o costruttivo; e, come perenne volontà di coscienza, è l’antitesi di ogni brutale volontà di potenza, spirito di pace contro spirito di guerra, virtù contro furore”. Parole straordinariamente attuali, e forse questa è la ragione per cui il 2019 non è soltanto un centenario, ma rappresenta un’occasione per ripensare il rapporto, fondamentale, tra l’arte e tutte quelle discipline che, specializzandosi sempre di più, hanno invaso la nostra esperienza quotidiana, trasformando la dimensione estetica in una sorta di passepartout, necessaria per parlare di ogni cosa, quasi a determinare la relazione tra noi e il mondo. Ecco, lasciando agli storici il rigore della ricostruzione del fenomeno che, come sappiamo, ha avuto tre fasi fondamentali – Weimar 1919-1925, Dessau 1925-1932, Berlino 1932-1933 – poi definitivamente chiusa dai nazisti, e tre direttori – il fondatore Walter Gropius, Hannes Meyer, Mies van der Rohe – proviamo ad entrare come
52
Le poltrone Barcelona di Ludwig Mies van der Rohe
54
Bauhaus Museum a Dessau
55
Il logo della Volkswagen
56
archeologi della cultura materiale nel grande fiume di questa scuola che non è stata soltanto un luogo di formazione, ma un modo di relazionarsi con il sistema produttivo e le sue dimensioni politiche e sociali, cercando di individuare quegli aspetti ancora attuali, necessari per comprendere le “oscillazioni del gusto”, e non solo, del nostro tempo. Non è un caso che il nostro Paese, protagonista assoluto nell’ambito delle arti applicate che si sono guadagnate la centralità nel mercato internazionale, rappresenti, probabilmente, il laboratorio dove, più indirettamente che direttamente, è stata ed è protagonista la filosofia della scuola tedesca, nonostante siano solo tre gli italiani che l’hanno frequentata: Augusto Cernigoj, italiano di lingua slovena, Alfredo Bortoluzzi e, soprattutto, Ivo Pannaggi di
Macerata, senz’altro quello più coerente e che ha testimoniato fino alla sua scomparsa, 2001, una sorta di matrice modello Bauhaus. In primo luogo, pur nelle differenze teoriche e pedagogiche, rimane centrale il riferimento all’arte, nella definizione di Argan di “perenne volontà di coscienza”. Oggi abbiamo soprattutto bisogno, con la diffusione della cultura e dei linguaggi digitali che ci conducono a specializzazioni tecnologiche sempre più sofisticate, di avere un orizzonte conoscitivo più ampio, dove l’arte, sia come pratica sia in quanto riflessione teorica, costituisca una sorta di bussola d’orientamento. Non sono passati invano nelle aule del Bauhaus, pur all’interno di un dibattito duro e diretto che ha portato anche a scontri ed espulsioni, artisti come Klee, Kandinskij, Feininger, autore del primo
Design
manifesto della scuola, Itten, Moholy-Nagy, Albers, Schlemmer che creò il famoso logo del Bauhaus statale. È un tratto comune, quello dell’arte, presente anche quando l’architettura, in modo particolare dal periodo di Dessau in avanti, diventa la disciplina di riferimento, protagonista di una vera e propria rivoluzione che porterà in seguito negli Stati Uniti, a Chicago con Mies, a definire la rappresentazione urbana delle grandi città nordamericane. Accanto al ruolo dell’arte, altro dato fondamentale è la centralità, in qualsiasi percorso formativo e progettuale, della relazione tra allievo, maestro e artigiano, nel suo significato più alto di trasferimento non solo di pratiche ma di visioni del mondo. Ed è proprio questo tipo di “pedagogia” che spiega il valore “del mito che
zione teatrale di Oscar Schlemmer e arrivare infine all’architettura che “implica sempre il possesso dello spazio”, come scrive Walter Gropius, “in quanto la costruzione è determinazione dell’idea spaziale”. È un programma ancora attuale, perché, come sempre, quando in un movimento le opere, pur fondamentali, rappresentano solo in parte il pensiero sul quale è fondata una visione, questo significa che non si è esaurito nel proprio tempo; oggi abbiamo soprattutto bisogno di rileggere il Bauhaus in quanto, se tutto è connesso, dobbiamo ritrovare le mappe, i fili d’Arianna, il senso delle cose. In particolare, ripercorrendo la ricerca, i progetti, le opere del Bauhaus, in riferimento anche ai materiali naturali e non solo, che erano al centro dei laboratori,
l’industrial design riconoscerà e individuerà nell’oggetto, al di là della sua stessa funzionalità”, come scrive lo stesso Argan. Una terza eredità del Bauhaus, che dovrebbe essere incisa come una sorta di epigrafe nella cultura progettuale contemporanea, è pensare sempre il particolare all’interno dell’universale, a cominciare dalla tipografia che è un mezzo con il quale apprendiamo fatti e concetti, indipendentemente dalla forma dei segni della scrittura, per passare poi agli oggetti, alla rappresenta-
proviamo a indicare una serie di oggetti e prodotti che sono arrivati fino a noi, non soltanto come ambasciatori di un altro secolo, ma in quanto contemporanei al gusto di oggi, a dimostrazione che le “oscillazioni”, come scriveva Gillo Dorfles in suo famoso saggio, vanno e vengono, mentre alcune valori rimangono come classici senza tempo. Basti pensare al carattere tipografico “Futura”, senza grazie, di Paul Renner che sta alla base della comunicazione pubblicitaria
È un programma ancora attuale, perché, come sempre, quando in un movimento le opere, pur fondamentali, rappresentano solo in parte il pensiero sul quale è fondata una visione, questo significa che non si è esaurito nel proprio tempo.
Le casette di marmo realizzate da Henraux per la mostra 999 Una collezione di domande sull’abitare contemporaneo
57
58
Design
Ma direi anche tutto il modo in cui vengono costruite le immagini, le sequenze iconografiche delle narrazioni del nostro telefono portatile, deriva dalle ricerche di Piet Zwart, dove linee, forme geometriche, numeri, lettere dell’alfabeto rappresentavano la grammatica e la sintassi della comunicazione visiva.
Un francobollo postale stampato in Germania (1998 ca.) mostra Glassware di Peter Behrens, Teapot di Marianne Brandt, Desk lamp di Wilhelm Wagenfeld, Wassily chair di Marcel Breuer
contemporanea (ad esempio il logo della Volkswagen), ma non solo. I nostri attuali computer utilizzano una scrittura che deriva da questa ricerca, in quanto tutta la composizione del linguaggio scritto verbale fa derivare le forme direttamente le une dalle altre, secondo regole compositive semplici. Ma direi anche tutto il modo in cui vengono costruite le immagini, le sequenze iconografiche delle narrazioni del nostro telefono portatile, deriva dalle ricerche di Piet Zwart, dove linee, forme geometriche, numeri, lettere dell’alfabeto rappresentavano la grammatica e la sintassi della comunicazione visiva. I giochi intelligenti per i bambini, realizzati in legno o in altri materiali come la pietra – penso ad esempio alle piccole casette in marmo bianco disegnate e prodotte da Henraux in occasione della mostra 999 Una collezione di domande sull’abitare contemporaneo in Triennale – derivano dai lavori di Alma Buscher, influenzati da una grande pedagogista italiana: Maria Montessori. La sedia “Wassily” di Marcel Breur, in onore di Kandinskij, è un’icona, che dal 1925 è presente dovunque, come un sorta di piccola architettura, accanto all’altra straordinaria poltrona di Mies Van Der Rohe, Barcellona (1929), vero emblema dell’incontro tra alcuni elementi costruttivi, tipici dell’architettura di Mies, con la cultura artigianale che sta alla base del “ta-
glia e cuci” manuale, necessario per realizzare la trapuntatura a bottoni. Questo anche per ricordare che l’innovazione senza il recupero di alcuni elementi che derivano dal fatto a mano, non è in grado di resistere nel tempo; non solo per il cuoio, basti pensare alla lavorazione del marmo. Lampade uniche come quelle di Wilheim Wagenfeld, o la piccola teiera di Marianne Brandt, fatta rivivere fino ai giorni nostri da Alessi, e altri oggetti e prodotti che fanno parte della nostra vita quotidiana, probabilmente senza saperlo, derivano da questa straordinaria esperienza, e qui risiede la forza di un pensiero rivoluzionario perché è andato oltre il proprio tempo. Infine, non dimentichiamo che il landscape urbano deriva dall’immaginario progettuale sia di Mies che di Walter Gropius, il fondatore del Bauhaus, in particolare nell’utilizzo compositivo di elementi costruttivi che permettono una relazione totale da dentro e fuori, tra disegno della città e verticalità architettonica, in modo tale che la luce possa definire i pieni e i vuoti, la superficie trasparente come gli elementi strutturali. Le città contemporanee che crescono giorno dopo giorno in spazi senza storia e si sviluppano nel segno di una modernità efficiente sono tutte figlie e nipoti di questa filosofia. Quindi il Bauhaus è tra noi e dovremo dialogare ancora per molto con questa storia centenaria.
59
UN’INTRODUZIONE ALLA PIETRA DI MIRIAM SLEEMAN E TOM SLOAN
I designer dello studio Miriam and Tom raccontano l’ultimo progetto realizzato a Taikoo Place per Swire Properties, scegliendo la pietra come materiale fondamentale. Il marmo Versilys traduce in arredamento la toponomastica, cinese e inglese, di Hong Kong.
60
Taikoo Place, Swire Properties, Hong Kong
61
Architettura
La nostra sfida è stata quella di inserire nuovi elementi che fossero in sintonia con un progetto di arredi interni già esistente, un progetto che mirava a riprodurre la natura e gli elementi naturali nello spazio.
In alto e a destra, alcuni momenti della realizzazione del progetto all’Henraux
62
Siamo incredibilmente orgogliosi degli arredi in pietra creati per Swire Properties a Taikoo Place. Collaborare con un cliente come Swire Properties e con un’azienda artigiana come Henraux, entrambi aperti a esplorare un design concreto e razionale e nuovi processi di lavorazione, è stato un grande privilegio. Swire Properties ci ha commissionato la creazione di una serie di pezzi unici di arredo, in particolare i banconi per la reception e le sedute per le sale d’ingresso di One Taikoo Place, l’ultima ristrutturazione del complesso commerciale di Swire Properties a Hong Kong. La nostra sfida è stata quella di inserire nuovi elementi che fossero in sintonia con un progetto di arredi interni già esistente, un progetto che mirava a riprodurre la natura e gli elementi naturali nello spazio. Avendo questo chiaro in mente, c’erano due obiettivi fondamentali che volevamo raggiungere con il nostro design. Il primo era trarre ispirazione dalle stratificazioni storiche del posto. Come molti luoghi di Hong Kong, anche questo ha due nomi, uno in cinese e uno in inglese, ognuno dei quali riflette una storia diversa. Il suo nome cinese, tsak yue chung, si riferi-
sce a un piccolo ruscello dove la gente del posto pesca le carpe cruciane. Il suo nome in inglese, giustamente chiamato Quarry Bay, si riferisce all’epoca in cui l’area veniva utilizzata per estrarre il granito, per fornire materi-ale da costruzione alla città in via di sviluppo nella parte occidentale. Il nostro desiderio era quello di rivelare ed evidenziare la connessione di quel luogo con l’acqua e le sue qualità di morbidezza, potenza e riflettanza; e la connessione invece con la cava e le sue caratteristiche di stratificazione, taglio e lavorazione. Il secondo era quello di trovare una forma che ricordasse il passato del cliente e il suo legame con il commercio marittimo, e la storia di John Samuel Swire, che arrivò a Quarry Bay nel tardo 1800 per sviluppare ed espandere la sua compagnia di navigazione mercantile e la società di commercio di zucchero. Ancora oggi, Quarry Bay rimane il timone di Swire, ospitando il loro quartier generale. La sua storia ha rinforzato l’importante e potente legame con l’acqua, oltre a fornire sia l’idea di una nave che trasporta e che contiene sia l’idea di un qualcosa che ha a che fare con il movimento, l’evoluzione e la tradizione. Allo stesso tempo, il modulo doveva avere
63
Architettura
Operai di Henraux al lavoro sul progetto dello Studio Miriam and Tom per Taikoo Place
64
Architettura
la praticità di un bancone da reception, la comodità di sedute per l’accoglienza e soprattutto doveva essere accessibile a tutti. Per noi era importante che le forme non confinassero né distinguessero le persone in base alle diverse competenze. Per ovviare a questo, abbiamo usato ingressi sinuosi e versatili, altezze e profondità come parte integrante della forma, con il desiderio di rendere i banconi di ricevimento raggiungibili e accessibili da ogni punto. Di conseguenza, abbiamo progettato i mobili come se fossero sculture funzionali e abitabili. Abbiamo creato pieni e vuoti, volumi e movimenti che sia nella forma che nel materiale, rispecchiassero e valorizzassero la narrazione ispirata alla natura dell’atrio dell’edifico, il ricco contesto storico del luogo e la posizione di Swire in quel contesto storico. I posti a sedere dovevano apparire come un’unica superficie continua di materiale, mentre volevamo che i banconi fossero ricavati da un ammasso di pezzi accatastati l’uno accanto all’altro, in modo da rappresentare le componenti fondamentali che oggi formano il conglomerato dello Swire Group. Abbiamo voluto che fossero indipendenti, complementari, forti, di grande effetto e preziosi come oggetti d’arte. Per riuscirci, il materiale doveva essere all’altezza dell’ambizione della forma, valorizzarla attraverso i colori, fondersi con le finiture interne e relazionarsi al contesto. La pietra è stata subito la scelta naturale. Tale scelta ci ha portati da Quarry Bay a Hong Kong in un’altra cava, quella di Henraux a Seravezza, in Italia. Qui ci siamo imbattuti nell’abbondanza. Di carattere, fascino, storia, conoscenza, arte, artigianato e pietra. Arrivare nella cava di Henraux è stato entusiasmante. Trovarsi sotto la sua “cattedrale” è stato un momento davvero intenso, reso ancora più incredibile dal panorama mozzafiato del paesaggio circostante e dal passato delle persone che ci hanno lavorato, che hanno estratto la pietra dalla montagna e l’hanno lavorata creando alcune delle più potenti e suggestive opere d’arte della storia.
65
Architettura
66
Architettura
In alto, Taikoo Place, Swire Properties, Hong Kong, dettagli A sinistra, Taikoo Place, Swire Properties, Hong Kong
67
Taikoo Place, Swire Properties, Hong Kong
Architettura
Architettura
La scelta di Versilys è diventata ancora più evidente dopo aver visto gli studi iniziali tagliati dai blocchi per testare i dettagli di giunture e bordi. È un materiale che prende vita non appena viene lavorato, perché solo così viene alla luce la bellezza della sua composizione geologica.
Taikoo Place, Swire Properties, Hong Kong
Scendere dalla montagna e arrivare allo stabilimento di Henraux è stato ugualmente impressionante. L’intera azienda funge da galleria per mostrare i vari possibili usi della pietra, e come tale è particolarmente organizzata grazie ai macchinari, alla competenza, all’ingegneria, all’artigianato, alla passione e a un labirintico cortile pieno di pietre provenienti da tutto il mondo. Girovagando per il piazzale di Henraux ci siamo imbattuti in un blocco di marmo di Versilys che veniva usato come base per un’altra scultura. La sua ricchezza e le sue venature di colore si abbinavano perfettamente a quelli dell’atrio interno e, insieme all’immensa varietà e alla profondità dei suoi strati, ci ha immediatamente colpito perché poteva essere il materiale ideale per i pezzi d’arredo. La scelta di Versilys è diventata ancora più evidente dopo aver visto gli studi iniziali tagliati dai blocchi per testare i dettagli di giunture e bordi. È un materiale che prende vita non appena viene lavorato, perché solo così viene alla luce la bellezza della sua composizione geologica. Nel corso dei mesi successivi Henraux ha
unito l’arte e l’ingegneria per dare vita ai pezzi. I blocchi di Versilys sono stati tagliati dalla montagna, trasportati fino all’azienda lungo strade strette e tortuose, valutati per la fattibilità, tagliati in pezzi più maneggevoli, spostati, profilati, spostati di nuovo, ruotati, fresati con macchine CNC, spostati ancora una volta, rinforzati, sagomati, abbinati e organizzati, rifiniti a mano e imballati meticolosamente, pronti per essere spediti a Hong Kong. A Hong Kong i mobili sono arrivati via mare e l’istallazione degli elementi all’interno dell’edificio è stata già di per se una performance. È stato il meraviglioso apice e coronamento di mesi di duro lavoro. Ripensandoci, il patrocinio di Swire e la passione di Henraux hanno reso questo progetto quello che è. In ogni momento sono state coinvolte mani esperte per consentire a questo progetto di diventare realtà, per questo desideriamo allargare i nostri ringraziamenti all’intero team. Fortunatamente per noi, tutto questo ha reso possibile una magnifica introduzione alla pietra come materiale.
71
Arte
FRANCESCO ARENA E DAVID HORVITZ. INTERVISTA PER DUE DI LORENZO BENEDETTI
Francesco Arena e David Horvitz sono due dei tre vincitori dell’ultima edizione del Premio Henraux. Per realizzare le loro opere, hanno lavorato il marmo bianco dell’Altissimo nelle cave e negli stabilimenti Henraux a Querceta. Lorenzo Benedetti li ha intervistati per noi.
72
Francesco Arena (in alto) e David Horvitz (in basso) Foto di Nicola Gnesi
73
FArena Francesco Arena Lorenzo Benedetti: Nell’opera Metro cubo di marmo con metro lineare di cenere si presenta la combinazione tra materiali diversi. Marmo e cenere, materie estreme, risultano bilanciate in un loro preciso equilibrio, come spesso accade nei tuoi lavori. Come nasce quest’opera? Francesco Arena: Metro cubo di marmo con metro lineare di cenere è un’opera sul tempo o meglio sui tempi. Non esiste un unico tempo, il tempo dell’uomo non è quello della pietra e viceversa. I materiali hanno i loro tempi. Il tempo del marmo è quello della terra: ere geologiche, gigantesche forze contrapposte che generano il materiale duro, resistente, che gli uomini hanno da sempre usato per costruire dimore che abbiano una vita più lunga di chi le ha costruite e abitate; un materiale usato per realizzare monumenti che servono per rendere duraturo il momento di una vita e una memoria a questa legata. La cenere dei sigari che fumo è il tempo di un momento, una frazione piccola di tempo che in qualche modo lo scandisce con il suo ripetersi quotidiano. La cenere è quello che resta di un respiro, la parte fisica che puoi toccare, è leggerissima ma
74
resistente, può volare via con un soffio ma è praticamente indistruttibile, come anche il marmo, che puoi ridurre in polvere ma non puoi fare scomparire. I due materiali informi nella loro naturalità, uno sotto forma di montagna e l’altro sotto forma di cumulo instabile, nell’opera sono “ordinati” secondo una regola data dall’uomo, una misura, quella del metro cubico o lineare, che usiamo per stabilire lo spazio che occupiamo nel mondo, per dare un ordine al caso. L.B.: Il marmo che usi ha un carattere specifico. Le sue venature riprendono i movimenti del fumo. Questo elemento estetico del marmo è legato anche alla combinazione di elementi diversi che mettono spesso in dialogo l’uomo con il paesaggio. Quando hai utilizzato per la prima volta questa combinazione di materiali? F.A.: I movimenti del fumo durano un attimo, l’aria disperde immediatamente i disegni grigi e irregolari del fumo, mentre le venature del marmo hanno un tempo lunghissimo, eterno. L’opera nasce da questi confronti ed è anche per questo che la linea tracciata e riempita di cenere è diritta, completamente differente dall’astrazione
delle linee curve delle venature o delle volute di fumo. Ho utilizzato la cenere e il marmo insieme per la prima volta in Metro cubo di marmo con metro lineare di cenere ma successivamente ho realizzato Ash Horizon dove cenere e pietra sono usati insieme. L’opera è un blocco di pietra non lucidato ma lasciato del suo colore grigio cenere da cui è stata tagliata una colonna/plinto alta 166,5 cm, la mia altezza, larga 20 cm e profonda 20. La colonna a 8,5 cm da una delle sue estremità è stata nuovamente tagliata con un disco che durante il taglio porta via 11 mm di materiale, lo sfrido. In questo modo la colonna è stata divisa in due pezzi, una alta 157 cm – quanto la distanza da terra alla base dei miei occhi – e un altro pezzo di 8,5 cm – quanto la distanza dalla parte superiore dei miei occhi alla parte superiore del cranio. Quando la scultura viene composta, lo sfrido di 11 mm portato via dalla sega, viene sostituito da 11 mm di cenere di sigaro raccolti nel corso del tempo. In questo modo la colonna/plinto ricomposta ha nuovamente la mia stessa altezza e il centimetro di cenere di sigaro corrisponde alla posizione dei miei occhi, il mio orizzonte. Prima di questi lavori avevo usato il marmo
Dall’alto, in senso orario: Francesco Arena, Cube (Petrolio), 2018, marmo, libro, cm 21x21x21 Courtesy Galleria Raffaella Cortese, Milano Foto di Lorenzo Palmieri Francesco Arena, Lost Horizon, 2016, pietra, libri, cm 157x32,5x16 Courtesy Sprovieri, London Foto di Roberto Marossi Francesco Arena, Marble between 80 Years, 2018, marmo, 2 agende, cm 16x12x16 Courtesy Studio Trisorio, Napoli Foto di Roberto Ruiz
75
Arte
Francesco Arena, Metro cubo di marmo con metro lineare di cenere, 2018, marmo macchietta, cenere di sigaro, cm 100x100x100 Foto di Nicola Gnesi
76
Arte
Il tempo del marmo è quello della terra: ere geologiche, gigantesche forze contrapposte che generano il materiale duro, resistente, che gli uomini hanno da sempre usato per costruire dimore che abbiano una vita più lunga di chi le ha costruite e abitate.
o la pietra insieme ad agende di anni diversi, aperte ad angolo retto e unite tra di loro in modo da formare un solido. Un blocco di pietra è tagliato in modo da riempire lo spazio vuoto tra le due agende, come in Marble between 80 years. L.B.: Nelle tue opere è spesso presente la figura umana. Geometrica, tradotta in un modo per misurare le distanze, il peso o il tempo. C’è anche un chiaro riferimento al punto di vista dell’artista, l’orizzonte da cui guarda e misura il mondo. Nel momento di trasformazione del figurativo in astratto si trova una specie di linguaggio universale, che è astratto ma allo stesso tempo crea legami con tempi, luoghi e culture diverse. Si possono interpretare le tue opere spesso come una serie di autoritratti astratti?
F.A.: La forma e le dimensioni di molte opere sono legate alle dimensioni del mio corpo, sono degli autoritratti in sottrazione dove non è cercata la verosimiglianza con il mio aspetto, ma la fedeltà con un dato spazio occupato nel mondo. La scultura è un altro corpo con il quale cerchiamo una relazione, è un oggetto la cui fruizione non è solo visiva ma che richiede anche la percezione delle caratteristiche fisiche dei/del materiale con cui la scultura è realizzata. L’apparente astrazione degli autoritratti è in realtà il risultato di un processo di graduali sottrazioni che servono a mettere in evidenza un dato spoglio e secco, per esempio l’altezza del mio orizzonte visivo, che nell’opera aspira ad essere un punto di riferimento condiviso.
77
David Horvitz, A Mountain / A Sea, 2018, Statuario Altissimo, dimensioni variabili Foto di Nicola Gnesi
78
79
80
DHorvitz David Horvitz
Quando prendono una pietra, vi scrivono il loro nome. Chiedo solo il nome. Non voglio che sia una persona definita, un’identità certa. Un “David” invece di un “David Horvitz”. Non voglio che l’attenzione vada su chi ha la pietra, ma solo sul fatto che ce l’ha qualcuno.
David Horvitz, A Mountain / A Sea, 2018, Statuario Altissimo, dimensioni variabili Foto di Nicola Gnesi
Lorenzo Benedetti: Per il progetto alla Fondazione Henraux l’anno scorso hai presentato l’opera intitolata A Mountain / A Sea in cui hai ribaltato l’idea comune che vede il marmo come un materiale pesante. Nel tuo progetto questo materiale sembra diventare più una forma di comunicazione. Come è iniziato il progetto? David Horvitz: Si tratta di una storia. Una specie di corrispondenza che ho riportato nel lavoro. Il movimento del marmo, delle persone e delle storie. Potrebbe essere un pezzo di pietra che porta con sé una storia. Ho messo un pezzo di marmo su un lato di un’autostrada di Los Angeles, collegando due luoghi. Per me, questo era il lavoro principale, questo piccolo gesto, documentato in foto e in un testo, tradotto. La traslazione, la traduzione, si muove tra due punti, come la pietra che si muove tra due punti. Alla mostra c’era un cumulo di pietre frantumate. Provenivano tutte da un unico blocco di marmo bianco. Le persone potevano portarne a casa un pezzo. Questo atto, questo movimento, doveva essere un parallelo con quello fatto a Los Angeles, e la montagna sarebbe scomparsa, si sarebbe dispersa, anche se è ancora lì, in pezzi, in una forma decentrata e ripartita. Forse su uno scaffale o nella tasca di qualcuno. L.B.: Nella tua pratica c’è una forma di entropia. Dispersione / diffusione sono la traduzione da una pietra a una storia. Hai un modo per documentare la dispersione, la distribuzione del lavoro? D.H.: C’è un quaderno che le persone hanno a disposizione per scrivere il proprio nome. Quando prendono una pietra,
vi scrivono il loro nome. Il libro rimane come un documento di nomi che ancorano al luogo le pietre che non ci sono più. Chiedo solo il nome. Non voglio che sia una persona definita, un’identità certa. Un “David” invece di un “David Horvitz”. Non voglio che l’attenzione vada su chi ha la pietra, ma solo sul fatto che ce l’ha qualcuno. Il libro funge da ancora che mantiene il peso delle pietre, o delle storie. L.B.: Nel tuo progetto hai a che fare con il concetto di monumento in un modo diverso. Un blocco di marmo acquisisce uno status diverso quando si muove e riesce a collegare luoghi e storie diverse. Esiste una relazione tra migrazione di persone e migrazione di pietre. La pietra bianca che ora è allo svincolo tra due autostrade proviene da una famosa cava in Italia. La montagna è frammentata e la gente porta la pietra con sé come un frattale di un paesaggio. Sembra quasi che lo “scomparire” sia una forma di rappresentazione. Come l’atto di scolpire una montagna ne fa nascere la forma. Credi che il vuoto sia una forma? D.H.: Dipende da come concepiamo il vuoto. Per me l’opera ha una forma, la sua forma è in movimento. Il vento ha una forma? Ovviamente sì, ce l’ha. Ma in ogni momento quella forma è l’aria che viene dispersa attraverso un paesaggio. Per quanto mi riguarda, forse il termine più appropriato non è “vuoto” ma “dispersione” o “spargimento”. Magari è assente in un luogo, ma è presente in un altro.
81
Architettura
82
Architettura
SELFRIDGES PUBLIC REALM: MARMO URBANO DI ALESSIA DELISI
Schizzo del progetto A sinistra, l’ingresso dei magazzini Selfridges di Duke Street, Londra Courtesy Djao-Rakitine
A Londra, nel quartiere di Mayfair, il progetto di David Chipperfield per l’ingresso dei grandi magazzini Selfridges dialoga con una panca e una fontana in prezioso marmo italiano. A firmarle lo studio di architettura del paesaggio Djao–Rakitine.
83
Architettura
Una piazza è simbolicamente dominata da due elementi scultorei, una panca di marmo e una fontana, mentre quattro alberi definiscono lo spazio architettonico, confondendo natura e artificio. Siamo a Londra, di fronte al nuovo ingresso dei grandi magazzini Selfridges di Duke Street. A progettarlo l’architetto britannico David Chipperfield che, oltre all’ingresso, ha immaginato un ambiente dedicato agli accessori, nell’ala orientale della struttura la cui storia di successo ha inizio nel 1909. Giocando su toni scuri, in aperto contrasto con la pietra color crema degli edifici adiacenti – rispetto ai quali è leggermente arretrato – il progetto di Chipperfield riporta Selfridges al suo antico splendore, mantenendone al contempo l’autonomia estetica. L’imponente vetrata che sovrasta l’ingresso, e che si estende in altezza per tre piani, è infatti incorniciata da sottili colonne rivestite di bronzo e poggia su una struttura nera in calcestruzzo prefabbricato, con i due monumentali pilastri a scandire il portico. Essenziale, geometrico, rispettoso del patrimonio storico dell’edificio e rappresentativo della sua importanza culturale – fu il primo negozio a fare dello shopping un’esperienza seducente, fatta di attese, cortesie, vetrine allestite come opere d’arte e illuminate giorno e notte – il disegno di Chipperfield fa parte di un più ampio piano di riqualificazione volto a rafforzare l’identità del negozio, migliorando da un lato la sua presenza urbana e dall’altro la circolazione pedonale. All’interno, colonne portanti in gesso, pavimenti e soffitti immacolati richiamano l’architettura neoclassica dell’edificio originale e, come le luci – eleganti sfere in vetro che si rifanno all’illuminazione in voga negli anni Venti –, mantengono la loro indipen-
84
denza rispetto al sistema espositivo. La pietra chiara di questi spazi al piano terra è poi ripresa esternamente, dove pavimenti in terrazzo bianco sembrano ampliare lo spazio, accentuando il senso di continuità con il grande magazzino. In questo elegante contesto si colloca il progetto di Djao–Rakitine con Henraux. Studio di architettura del paesaggio fondato nel 2015, Djao–Rakitine ha lavorato a Mosca (con Strelka KB) e Lussemburgo (con Promobe), sviluppando soluzioni originali per committenti privati anche in Cina, Slovenia e altre città della Russia. La sua fondatrice, Irene Djao–Rakitine, ha alle spalle un’esperienza presso lo studio londinese VOGT (dal 2009 al 2015) e un’altra presso il prestigioso Atelier Jean Nouvel di Parigi (dal 2006 al 2009). Convinta che il disegno a mano sia essenziale per lo sviluppo di idee e progetti, mentre quello digitale permetta di coordinare con precisione tutti gli altri membri del team di progettazione, anche per Selfridges, Djao–Rakitine si è focalizzata sulle caratteristiche specifiche del sito, analizzandone gli aspetti storici, sociali, economici e naturali e realizzando per ciascuna fase prototipi e modelli. Il risultato è una suggestiva opera di arredo urbano che dialoga apertamente con l’ingresso ideato da Chipperfield su Duke Street. Posto di fronte alle maestose colonne nere che dominano il portico, il progetto di Djao–Rakitine si compone infatti di una panca e una fontana di marmo, ma comprende anche la riqualificazione dell’intera esperienza stradale – dagli ampi e rinnovati pavimenti fino all’illuminazione – racchiusa entro i confini simbolici di quattro alberi ad abbellirla. La piazza figura così come un punto di riunione e ritrovo, un luogo che, pur sorgendo
Il progetto di Djao– Rakitine si compone infatti di una panca e una fontana di marmo, ma comprende anche la riqualificazione dell’intera esperienza stradale – dagli ampi e rinnovati pavimenti fino all’illuminazione – racchiusa entro i confini simbolici di quattro alberi ad abbellirla.
Veduta frontale della panca e della fontana. Courtesy Djao-Rakitine
Sezione del progetto
85
Architettura
Entrambi gli arredi sono realizzati in prezioso marmo italiano; attraverso la loro forma smussata, essi contribuiscono a dare l’idea di un ambiente naturale che si estende potenzialmente oltre la vista, in contrasto con una delle zone più trafficate di Londra.
Render A destra, l’ingresso dei magazzini Selfridges di Duke Street, Londra Courtesy Djao-Rakitine
86
all’interno della città, permette di sostare lontano dal suo trambusto. In una metropoli in cui la maggior parte delle fontane pubbliche è scomparsa, la fontana di Djao–Rakitine offre ai visitatori, agli abitanti e ai dipendenti del distretto la piacevole opportunità di riempire d’acqua le loro bottiglie, riducendo in questo modo il proliferare di bottiglie di plastica. Grazie alle sue quattro differenti forme e dimensioni, la panca fornisce invece a persone diverse un posto dove incontrarsi o riposare. Entrambi gli arredi sono realizzati in prezioso marmo italiano; attraverso la loro forma smussata, essi contribuiscono a dare l’idea di un ambiente naturale che si estende potenzialmente oltre la vista, in contrasto con una delle zone più trafficate di Londra. In un simile suolo infatti la possibilità di far
nascere e crescere degli alberi era molto limitata. Ecco perché le specie selezionate sono il frutto di un accurato studio del terreno che comprende anche la creazione di griglie in grado di ottimizzare la crescita dei fusti. Ed ecco anche perché la scelta del marmo da utilizzare per i due monoliti è ricaduta sull’antico Verde Luana, un particolare tipo di pietra caratterizzato da sorprendenti venature ondulate di diverse tonalità di verde, interrotte da alcuni inserti di colore bianco. Estratto dalle Alpi Apuane, in Toscana, dove si è formato circa 25 milioni di anni fa, il Verde Luana è quindi il materiale che meglio si addice a evocare, con la sua consistenza serpentina e il movimento continuo e trasversale, un paesaggio montuoso fatto di acqua e pietra.
Architettura
87
Architettura
88
Architettura
La panca e la fontana di Irene Djao–Rakitine, sebbene concepite come oggetti unici, portano con sé – per via delle tecniche utilizzate – il germe della riproducibilità. Non stupisce quindi come sempre più aziende oggi scelgano il marmo per progetti dal forte richiamo identitario e il sicuro impatto visivo.
In alto, alcuni dettagli della panca e della fontana A sinistra, l’ingresso dei magazzini Selfridges di Duke Street, Londra Courtesy Djao-Rakitine
Come spiega Irene Djao–Rakitine, che nell’utilizzarlo ha scelto di smussare gli angoli, puntando sull’organicità della forma, la creazione della panca e della fontana ha visto il susseguirsi di molte fasi: “Ho iniziato facendo degli schizzi a mano. Quindi ho modellato e scolpito i due elementi con l’argilla. Molte volte, con molte varianti. Quando sia noi dello studio che Selfridges e David Chipperfield Architects siamo stati soddisfatti dell’estetica, delle proporzioni, della funzionalità e complementarietà di entrambi gli oggetti, abbiamo scansionato i modelli in 3D e iniziato a rifinire i dettagli digitalmente. I modelli digitali in 3D sono stati poi utilizzati per tagliare i blocchi di pietra con una macchina CNC. Infine, ho lavorato alle rifiniture manuali delle sculture con Dorel Pop, un artigiano molto esperto, e Lorenzo Carrino, che ci ha assistito nel processo di fabbricazione, fatto interamente in Toscana presso Henraux”. Grazie a questa straordinaria combinazione di tecniche e competenze, Djao–Rakitine realizza un’opera che, pur rimanendo in linea con l’ethos generale di Westminster e la gamma di materiali che lo caratterizza, si presenta come un momento unico nel quartiere di Mayfair, il cui punto di rottura è anzitutto nel sapiente connubio di tecnologia e artigianalità che rivela. Pur nel loro essere massicce, sicure, le forme create da Djao–Rakitine evocano un senso di leggerezza, accentuato dal colore
chiaro e l’estrema levigatura del marmo. Le sue caratteristiche di non riproducibilità, nonché il legame con il territorio di estrazione, ne fanno poi un materiale prezioso, per certi versi unico. Il contributo che può dare al design – inteso come produzione di oggetti in serie – è perciò nei termini di un valore aggiunto che si somma al talento e all’estro del progettista, le cui creazioni diventano così assimilabili a opere d’arte. Possono essere lette in questo senso anche la panca e la fontana di Irene Djao–Rakitine che, sebbene concepite come oggetti unici, portano con sé – per via delle tecniche utilizzate – il germe della riproducibilità. Non stupisce quindi come sempre più aziende oggi scelgano il marmo per progetti dal forte richiamo identitario e il sicuro impatto visivo. Del resto, come domandava qualche tempo fa il designer Martino Gamper, perché venerare un oggetto prodotto industrialmente se ne esistono ancora centinaia di copie? L’incontro di marmo e design fa questo: concilia ciò che è solo apparentemente inconciliabile e lo fa in un momento in cui il dibattito sulla sostenibilità e la creazione di oggetti dal ciclo di vita più lungo è particolarmente acceso. In un mondo in cui l’abbondanza di rifiuti costituisce l’altra faccia del consumismo, il marmo è infatti tra i pochi materiali capaci di tracciare una linea, durevole nel tempo, che unisce in modo esemplare l’uomo – le sue abilità artistiche e tecnologiche – alla natura.
89
Design
BROKEN NATURE. LA XXII TRIENNALE DI MILANO SECONDO GILLO DORFLES
DI GILLO DORFLES, A CURA DI ALDO COLONETTI
“Ogni persona è soggetto di libertà”, così si conclude il contributo illuminante e inedito di Gillo Dorfles, raccolto poco prima della sua scomparsa da Aldo Colonetti, a proposito della dialettica tra artificio e natura, estetica ed etica, al centro della XXII Triennale di Milano.
90
Gillo Dorfles Foto di Nicola Gnesi
Design
Partiamo da questa considerazione: l’uomo esiste di per sé come oggetto, ma nello stesso tempo è in grado di creare a sua volta altri oggetti, che non sono necessariamente oggetti artistici, ma che sono trasformazioni della natura.
Birdsong, Khaled Malas, Salim Al Kadi, Alfred Tarazi con Jana Traboulsi di Sigil con Aamer Ibrahim, Emad Madah e il Fateh Moudarres Center for Art and Culture, 2019
92
Broken Nature è il titolo della XXII Triennale di Milano, aperta dal 1° marzo al 1° settembre di quest’anno, curata da Paola Antonelli, responsabile del design e dell’architettura del MOMA di New York. Uno dei primi documenti che stanno alla base di questa ricerca è rappresentato dall’ultimo scritto di Gillo Dorfles, poco meno di un mese prima della sua scomparsa, avvenuta il 2 marzo 2018. È un lungo dialogo con Aldo Colonetti, che ruota intorno a uno dei suoi saggi più importanti, “Artificio e Natura” (1968), una delle prime riflessioni a livello internazionale intorno alla trasformazione della natura da parte dell’uomo, al centro della quale il ruolo del progettista è fondamentale. Dorfles torna dopo cinquant’anni su questo tema, indicando da un lato un problema sempre più diffuso e dall’altro proponendo una nuova prospettiva progettuale in cui, come scrive Paola Antonelli, “etica ed estetica possono convivere e prosperare, con esempi di design a tutti i livelli il cui spessore morale non comporta una mortificazione estetica e sensuale. Al centro, una natura intesa come il migliore creatore, ingegnere e costruttore. Nella sua pratica di progettazione, la natura considera la bellezza e l’efficienza, pianifica con intelligenza e sensibilità e opera secondo un approccio cradle to cradle, costruendo con determinazione e secondo una visione del futuro a lungo termine”. Presentiamo di seguito alcuni passaggi di quel dialogo inedito, rimasto finora solo un materiale di studio, che sono, come sempre, illuminanti per leggere e operare concretamente in un futuro prossimo. Gillo Dorfles: Partiamo da questa considerazione: l’uomo esiste di per sé come oggetto, ma nello stesso tempo è in grado di creare a sua volta altri oggetti, che non sono necessariamente oggetti artistici, ma che sono trasformazioni della natura. Non esistono in natura ma sono “oggettualizzazioni” di qualcosa, da cui prende il via la tensione progettuale, lo sviluppo incessante della progettazione e della produzione, il sistema delle “cose” che sempre più diventano protagoniste trasformandosi da “oggetti” a “soggetti”. È necessario comprendere che, purtroppo, Broken Nature non è soltanto il risultato di un determinato sistema economico: appartiene, e proprio
da questa consapevolezza è necessario riformare la pratica progettuale, alla natura dell’uomo e in modo particolare alla sua “autonomia creativa” che è nello stesso tempo la sua forza ma anche il suo limite. Inventare ex novo al di là di ogni limite, rispetto a tutti modelli precedenti: una serie infinita di oggetti/prodotti che, pur partendo da un modello o da una necessità funzionale, che è sempre in prima istanza anche una necessità simbolica, progressivamente assumono una propria autonomia, allontanandosi dai linguaggi della natura, anzi trasformando spesse volte la natura come se fosse un artificio, ovvero intesa anch’essa come un prodotto dell’uomo. Come dicevamo, l’attitudine dell’uomo di assumere su di sé questa sorta di dominio sul mondo è sempre esistita, ma è soprattutto in questi ultimi decenni, con lo sviluppo delle nuove tecnologie, che assistiamo a fenomeni preoccupanti. Questa tendenza è da ricondurre a una condizione particolare dell’uomo di oggi: l’identificazione totalizzante con il concetto di “creare”, che si è esteso dalle arti tradizionali alle arti applicate che non rimangono nei musei ma determinano lo sviluppo della società, dalle nostre case alle città che abitiamo, dai trasporti al posto di lavoro, dal modo in cui comunichiamo fino alla realizzazione di un uomo artificiale. Queste trasformazioni, a parte gli immensi benefici materiali che hanno apportato all’umanità, costituiscono una totale diversificazione nelle condizioni di equilibrio tra uomo e natura, creando una serie di effetti negativi, sia nel nostro mondo industrializzato sia in altri ambiti geografici, dove lo sviluppo, pur non essendo presente, utilizza il “capitale naturale” trasferendolo altrove. Credo che da questo punto di vista sia necessario intervenire, per ristabilire un nuovo equilibrio tra artificio e natura, in sostanza per tentare di ricucire, anche parzialmente, “la natura spezzata”. È necessario fare in modo che arte e attività progettuali comunichino tra loro, senza però sconfinamenti di campi, altrimenti la moltiplicazione degli oggetti sarà implacabile e infinita. Non dobbiamo mai perdere l’originalità di ogni nostra azione progettuale, evitando le inutili imitazioni e le repliche autoreferenziali. Moltiplicare è positivo, senza però perdere l’originalità che è insita
Broken Nature, veduta dell’allestimento Courtesy La Triennale di Milano Foto di Gianluca Di Ioia
Arte
Si tratta di considerare “natura” non più soltanto la natura allo stato selvaggio, ma soprattutto tutte queste nuove forme di natura meccanizzata, elettronicamente integrata, “internettizzata”.
Totems, Neri Oxman e il Mediated Matter Group al Massachusetts Institute of Technology, 2019 Courtesy La Triennale di Milano Foto di Gianluca Di Ioia
96
nel fatto che la natura dell’uomo è quella di creare incessantemente. Non è possibile tornare indietro, come se fosse esistita una sorta di Eden del progetto, siamo nella storia e nella storia dobbiamo agire. Dobbiamo, quindi, per ottenere un miglioramento della situazione attuale, “riscattare l’innaturale”, trasformare eventi artificiali in eventi naturali, o “naturalizzati”, attraverso un’azione di volontà e di conoscenza. Si tratta di considerare “natura” non più soltanto la natura allo stato selvaggio, ma soprattutto tutte queste nuove forme di natura meccanizzata, elettronicamente integrata, “internettizzata”. Occorre che le costruzioni artificiali dell’uomo vengano progressivamente “rettificate”, subendo quel processo di naturalizzazione che solo può conferirgli una nuova valenza creativa e simbolica, tenendo presenti e sempre sott’occhio tutte le ricerche e le invenzioni rispetto ai nuovi materiali, ai nuovi
processi produttivi che tengano conto sia del consumo dell’energia sia dello spreco delle risorse. Senza mai, comunque, rinunciare alla libertà creativa: più autonomia nel segno della conoscenza, meno eteronomia perché porta alla ripetizione e all’imitazione di ciò che già esiste. Avremo sempre più bisogno di “oggetti nuovi” che, pur avendo la loro ragione d’essere dentro la cultura materiale preesistente, siano in grado di parlare il linguaggio di un futuro concreto, riconoscibile e nello stesso capace di dialogare con l’autonomia conoscitiva e interpretativa che ogni persona possiede, indipendentemente dalla lingua, dalla religione, dal livello economico. Ogni persona è soggetto di libertà; questa è la sua fondamentale dimensione naturale; ricomporla progressivamente significa agire nel segno di una natura non più “broken”.
otiziario
Notiziario
1
PREMIO DI SCULTURA HENRAUX 2018 QUARTA EDIZIONE
Si è svolta nell’estate 2018 la quarta edizione del Premio Internazionale di Scultura Henraux. È stato un anno particolare e ricco di emozioni che ha visto un radicale cambio dei componenti della Giuria, a partire dal suo presidente, Edoardo Bonaspetti, che è stato affiancato da altri autorevoli nomi dell’arte contemporanea internazionale: Ilaria Bonacossa, direttrice di Artissima, Eike Schmidt, direttore della Galleria degli Uffizi, Roberta Tenconi, curatrice alla Fondazione Pirelli Hangar Bicocca e Andrea Viliani, direttore del Madre, Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina. All’Accademia dell’Altissimo è approdata Cristiana Perrella, direttrice del Centro Pecci di Prato, mentre sono stati riconfermati Jean Blanchaert, Aldo Colonetti, Mikayel Ohanjanyan e Costantino Paolicchi dalla precedente edizione. Dei settantasette artisti candidati – provenienti dall’Italia e dall’estero: Spagna, Francia, Bulgaria, Austria, Inghilterra, Ucraina, Belgio, Polonia, Corea del Sud, Armenia, Turchia, Cina,Giappone, Russia e Stati Uniti – sono stati nominati vincitori Francesco Arena, David Horvitz e Diego Marcon. In via del tutto eccezionale, è stata poi
98
assegnata una menzione speciale al collettivo Anto. Milotta - Zlatolin Donchev. Se certi capisaldi del concorso sono rimasti invariati - come l’opportunità per i vincitori di realizzare i propri progetti in collaborazione con gli ingegneri e le maestranze di Henraux, lavorando il marmo nelle cave e negli stabilimenti dell’azienda all’interno dello storico distretto di Querceta di Seravezza – le novità sono state numerose e profonde. Che sia arrivata aria nuova s’intuisce dalle parole che lo stesso Bonaspetti ha usato nel catalogo pubblicato per l’occasione: “Il Premio Fondazione Henraux è un progetto ambizioso e articolato, rivolto allo sviluppo della ricerca attorno alle potenzialità del marmo. Le proprietà di questa materia non sono solo legate alla scultura in senso tradizionale ma ad ambiti di pensiero e di creazione innovativi”. E infatti le opere vincitrici che per due anni, fino alla prossima edizione, rappresenteranno Henraux nel mondo, esprimono una nuova visione e inviano un messaggio forte e chiaro: la celebrazione della storia e della tecnica dell’azienda, protagoniste delle scorse edizioni, lascia ora il posto a un nuovo
universo simbolico cha ha più a che fare con l’innovazione, con l’eccellenza, con un orizzonte internazionale. In una parola: con il futuro. Perché è a questo, e a molto altro di più intangibile, di più legato alla dimensione dell’incanto, che l’arte contemporanea e i nuovi linguaggi espressivi, danno accesso: un mondo pregno di segni cui un’azienda come Henraux – piena di storia e di storie da raccontare – può attingere per arricchire la propria identità. “Le preziosità del marmo, le sue intrinseche valenze materiali hanno stimolato forme diverse di progettualità e creatività. Il Premio Henraux, nato per unire il Bianco dell’Altissimo all’essenza del territorio, ha presentato il lavoro di quattro artisti che sperimentano ricerche concettuali diverse ma che hanno rintracciato nel marmo uno stimolo fondamentale da trasformare in scultura”. Così ha commentato Paolo Carli, Presidente di Henraux e Fondazione Henraux. Non resta che attendere l’appuntamento della quinta edizione del Premio, vera e propria anteprima delle celebrazioni per i duecento anni di storia dell’azienda.
Notiziario
Dall’alto, in senso orario: Francesco Arena, Metro cubo di marmo con metro lineare di cenere, 2018, Bianco Altissimo, cenere di sigaro, cm 100x100x100
Anto. Milotta - Zlatolin Donchev, Libro di vetta, 2018, Arabescato Cervaiole, cm 100x90x55
David Horvitz, A Mountain / A Sea, 2018, Statuario Altissimo, dimensioni variabili
Diego Marcon, Ludwig, 2018, Statuario Altissimo, cm 33x49x179
99
Notiziario
2
LUCIO MICHELETTI
Lucio Micheletti, Vento
Lucio Micheletti è architetto, designer, artista. Figura crossdisciplinare. In arrivo dal mondo dell’automotive, impegnato nel settore della progettazione nautica da poco meno di dieci anni – dove si è fatto portatore di visioni inaspettate –, ha anche una precisa identità artistica che predilige il linguaggio della scultura. In quale di queste definizioni Micheletti si riconosce di più? Parlare di me, mi risulta sempre difficile, complesso, forse perché nonostante sia architetto e progettista e il mio studio operi in diversi settori – dai progetti di hotel e teatri, al design – mi ritengo più un artista. Amo viaggiare a fari spenti e lavorare con il mio team dedicandomi solo alla progettazione, fatta di segni e pensieri, di tecnologia e di studi intorno all’uomo.
100
Dopo due anni di progettazione, a giugno verrà messo in acqua Canova, il nuovo Baltic 142. Può dirci qualcosa di questo progetto? Ogni barca ha un suo comfort dinamico e assoluto, ha un suo stile, una sua lettura e un suo percorso progettale. Il B142 è una barca pensata per dialogare con il vento, fornita di DSS e motore elettrico con piano velico di nuova visione, porta il comfort in mare. Abbiamo disegnato e seguito la costruzione del 142 plasmando volumi e creando vuoti e pieni, e parlando e presentando la barca abbiamo capito che cambiando la materia, il punto di vista, la gente inizia ad ascoltare le tue visioni. Ho sempre pensato che fosse importante offrire un’altra prospettiva, un’altra visuale.
Di quale nuova prospettiva si fa portatore il Baltic 142? Quando a gennaio al Düsseldorf Boot Show, abbiamo presentato il progetto alla stampa, sentivo la necessità di portare l’attenzione al design come elemento di equilibrio, capace di ricalibrare gli spazi, mitigando la tecnologia. C’è qualcosa in questi spazi che ti dona energia che ti crea benessere, e per me era diventato importante trasmetterlo, comunicarlo. Sempre a Düsseldorf lei ha scelto di portare una sua scultura in marmo per presentare il lavoro da progettista. Può spiegarci questa scelta di servirsi del linguaggio artistico, e di un materiale come il marmo, per raccontare il linguaggio del design? Dopo la Biennale di Venezia, e Open 20, dove avevo portato una scultura
Notiziario
Lucio Micheletti
di marmo, ho deciso di portare avanti un discorso artistico più completo, più aperto. A Düsseldorf, ho preparato un’altra opera sempre di marmo dalle dimensioni generose, che riassumesse il mio lavoro nautico. Avevo bisogno di una scultura, non di un modello, volevo un dibattito, un dialogo con la gente. Volevo parlare di forme e di profili, di masse e di vuoti. Raccontare come i volumi dialogano con i colori, con i materiali e mettendo tutto in equilibrio. Questa è la nostra nuova e vera sfida, l’equilibrio, non la perfezione. Volevo dare un messaggio forte, ma leggero, il marmo con la sua (in)sostenibile leggerezza, era perfetto. La nostra attenzione si posa sempre sui materiali. Il suo approccio ad essi è
L’imbarcazione Canova
differente a seconda che li usi nell’ambito della progettazione, dell’architettura o dell’arte? Non riesco a fare una distinzione netta tra architettura, design e scultura. Nella composizione architettonica navale, dobbiamo dialogare con materiali sempre più sofisticati, leggeri, quasi metafisici, in arte è diverso. Il team di Henraux mi ha insegnato a leggere il marmo in maniera nuova con trasparenze inedite. Ho lavorato tanto intorno a questa barca (la scultura Vento, n.d.r.), ma la parte più difficile è stato plasmarla, renderla dinamica. Io lavoro con il carbonio, con l’alleggerito, uso materiali nobili naturali ma sempre alla ricerca della leggerezza. Quando invece parlo di arte penso che la sua forza sia nella pesantezza. Vedo l’arte come oggetto architettonico, che prima di essere decorazione,
ha la funzione di portare i carichi a terra. Allora perché non fare una scultura che riprenda il lavoro fatto, i volumi tracciati, i calcoli ripassati? Una scultura in marmo che in un certo qual modo immortala questo lavoro. Una semplice opera ricavata dal vento e dal mare. La leggerezza del messaggio viene esaltata dalla pesantezza del materiale. Mi piace far rileggere volumi, con il marmo. È un materiale che ha una indelebile bellezza, incredibilmente drammatica. Forse l’arte è una bellezza collaterale alla nostra vita. Canova è il nome della barca. Vento il nome dell’opera.
101
Notiziario
3
I MARMI DI HENRAUX A SAN MINIATO
La monumentalità della Collezione Henraux ha incontrato, in questi mesi invernali appena trascorsi, il fascino medioevale delle piazze, dei monumenti e degli intonaci di San Miniato, in una mostra collettiva en plein air di sculture in marmo, opera di artisti contemporanei, italiani e internazionali: Fabio Viale, Mattia Bosco, Giovanni Manganelli, Francesca Pasquali, Daniele Guidugli, Mikayel Ohanjanyan, Kim De Ruysscher, Park Eun Sun e Helidon Xhixha. In un’intervista doppia abbiamo chiesto a Paolo Carli, presidente di Henraux, e a Vittorio Gabbanini, sindaco della città di San Miniato, di raccontare il progetto che ha installato la collezione di opere della Fondazione versiliese – in crescita, edizione dopo edizione, grazie al Premio Biennale per la scultura – all’interno del centro storico del borgo toscano trasformandolo in un museo diffuso di scultura contemporanea. La mostra ha originato un percorso storico-artistico, tra antichità e futuro, dove ha albergato la bellezza senza tempo. “I marmi di Henraux a San Miniato”: come è nato questo accordo fra la Fondazione Henraux e il Comune di san Miniato? Paolo Carli: Le sculture che compongo-
102
no la collezione della Fondazione Henraux, quasi tutte monumentali, sono state particolarmente apprezzate dal Comune di San Miniato con il quale abbiamo progettato la mostra. La mission della Fondazione Henraux è di rendere fruibili al pubblico le proprie sculture, di presentarle in spazi aperti e pubblici, per questa ragione il progetto è nato con l’intento di trasformare le vie e le piazze di San Miniato in un museo temporaneo di scultura contemporanea. Vittorio Gabbanini: Siamo stati invitati ad un evento della Fondazione Henraux, una serata dedicata al marmo e al suo molteplice utilizzo. E quando siamo entrati in contatto con questa realtà ci siamo accorti della straordinaria bellezza che avvicina questo materiale al nostro territorio. Così abbiamo iniziato a pensare come sarebbe stato bello creare un percorso attraverso l’arte del marmo, lungo il centro storico. E da qui è iniziato tutto. Il marmo nella sua forma contemporanea si mostra per le vie di San Miniato con le opere della collezione Henraux, cosa cambia nella visione delle vie e dei luoghi storici della città? P. C.: La scultura contemporanea, anche quando prende forme singolari, trattiene in sé un valore intrinseco: quello della bellezza del marmo. La
Mattia Bosco, Bue Tractor
Notiziario
103
Notiziario
pietra scultorea per eccellenza rende preziose le forme. Per queste ragioni le opere degli artisti contemporanei creano una connessione eccelsa fra il passato e il presente, fra l’idea di bellezza e monumentalità dei secoli scorsi e quella dei giorni nostri. La San Miniato storica è stata arricchita e completata dal linguaggio artistico contemporaneo. V. G.: Con il marmo le strade di San Miniato mettono ancora più in evidenza
proprie opere. Nel marzo del 1518, dava avvio alla strada che si inoltrava in direzione del Monte Altissimo per giungere alle cave. Ma il 20 febbraio del 1520, inaspettatamente, papa Leone X sollevava Michelangelo dall’incarico di realizzare la facciata di San Lorenzo a Firenze, rimasta per sempre incompiuta, così lo scultore è costretto a lasciare la Versilia. Michelangelo, tuttavia, aveva dato avvio all’escavazione del marmo in Versilia e oltre quarant’anni
la loro ricchezza storico-artistica. Non esiste angolo del centro storico dove non ci sia un pezzo di storia, un frammento di arte da cogliere ed assaporare. Per questo la maestosità e la grandezza di un materiale così prezioso, non fanno altro che metterne in luce le straordinarie qualità.
dopo – nel 1568 – il duca Cosimo I Medici fece completare la strada aperta da Michelangelo fino ai piedi del Monte Altissimo, attivando cave storiche del “Gruppo Polla”. Per D’Annunzio, l’Altissimo, la montagna di Michelangelo, era il sogno infranto di un immenso scultore che vedeva nelle sue profondità di marmo “… un popolo di statue addormentate”. V. G.: ”Nel mille cinquecento trentatré. Ricordo come oggi a dì 22 di settembre che andai a Santo Miniato al Tedesco a parlare a papa Clemente che andava a Nizza; e in tal dì mi lasciò Sebastiano del Piombo un suo cavallo”. È proprio Michelangelo che scrive di
Michelangelo è nella storia di San Miniato ed Henraux. Qual è il ruolo del Divino scultore nelle due singole storie? P. C.: Nel 1517 Michelangelo aveva individuato nei giacimenti di statuario del Monte Altissimo, un marmo bellissimo, di grana fine e compatta, docile allo scalpello: il materiale ideale per le
104
Da sinistra Fabio Viale, Arrivederci e grazie Daniele Guidugli, Moby Dick (vertebra) Francesca Pasquali, Frappa
A destra Park Eun Sun, Colonna infinita
Notiziario
questo incontro nei suoi manoscritti. Papa Clemente VII dà all’artista fiorentino l’incarico di affrescare la Cappella Sistina proprio nell’incontro di San Miniato, commissione che venne poi confermata anche dai pontefici che si succedettero. La Città della Rocca lega quindi profondamente il proprio nome all’artista fiorentino: avere esposte opere in marmo è un modo per rendere omaggio al suo lavoro e a tutto ciò che ancora oggi rappresenta. Artisti contemporanei internazionali mostrano opere straordinarie e monumentali per le vie della città. Può nascere da questa mostra un progetto futuro creato appositamente per San Miniato? P. C.: Abbiamo trovato a San Miniato un’accoglienza fantastica per le nostre opere. Dagli spazi storici che vedono il connubio vero e proprio con la nostra collezione, alla volontà di rendere il progetto un evento per la città e i suoi visitatori. Ci auguriamo che i marmi siano apprezzati dai cittadini di San Miniato e dai turisti, e che rappresentino un completamento ideale alla bellezza della città, da cui far scaturire nuovi progetti. V. G.: Spero proprio di sì. San Miniato è un palcoscenico a cielo aperto, un luogo dove l’arte torna a casa. Ogni volta che abbiamo inaugurato mostre o installato opere d’arte all’aria aperta, ci siamo resi conto della fortuna di avere a disposizione un “salotto” pronto ad accoglierci, un centro storico con molti spazi disponibili e bellissimi, che aspettano soltanto di essere, se è possibile, valorizzati una volta di più. Un percorso tra i marmi è ciò che ci mancava e, grazie a Henraux, oggi avveriamo un nostro grandissimo desiderio.
105
Notiziario
Aurelio Amendola e Paolo Carli durante le fasi di allestimento
4
Schiavo ribelle fasi di allestimento
ANIMA E CORPO.
MICHELANGELO NEGLI SCATTI DI AURELIO AMENDOLA
L’estate 2018 è stata per Henraux e per la Fondazione, un momento di grande fermento. Oltre all’inaugurazione del nuovo showroom, il cui progetto porta la firma dello Studio Archea, e della quarta edizione del Premio di Scultura Internazionale, foriera di numerosi cambiamenti, l’antica segheria si è trasformata in un suggestivo spazio espositivo che ha visto protagonisti gli straordinari scatti di Aurelio Amendola dedicati a Michelangelo. Curata dall’architetto Mario Botta, l’esposizione ha celebrato i cinquecento anni del trasferimento di Michelangelo da Carrara a Seravezza. Ricordiamo questo momento prezioso con i testi che il curatore Mario Botta e Paolo Carli hanno scritto per l’occasione.
106
Notiziario
MICHELANGELO: ANIMA E CORPO DI MARIO BOTTA
Le fotografie in bianco e nero di Aurelio Amendola, presentate presso l’antica segheria Henraux nello stabilimento di Querceta nell’estate 2018, permettono alle figure di Michelangelo di ritrovare un’atmosfera amica. È infatti sulle pendici del Monte Altissimo, poco sopra Seravezza, che cinque secoli fa lo scultore di Firenze cercava il marmo Statuario, “carne viva” delle figure che per lui già esistevano dentro la pietra e che restituiva alla luce togliendo il “superchio”. Ora, le fotografie di quelle creature raccontano di un vero e proprio ritorno alla terra-madre dopo aver peregrinato per secoli e aver meravigliato altri uomini, affascinati dalla bellezza, dal talento, dalla potenza e dalla grazia di quelle pietre dove anima e corpo sono un tutt’uno; presenze vive emerse dalle superfici levigate dal “soffio” creativo dell’artista. Attraverso le immagini incise nel rigore bianco e nero di Amendola si riaffaccia – irrefrenabile – la seduzione della bellezza fuori dal tempo, come fosse un anelito
assoluto di cui noi, arrancando nel globale, abbiamo ancora un infinito bisogno. Le figure dei corpi sono forme che appartengono al nostro immaginario e alla nostra identità; segni riconoscibili della cultura occidentale dove è ancora possibile coltivare un territorio di memoria in grado di rivivere nell’attualità. Grazie quindi a Henraux, che riesce a continuare una tradizione secolare, e grazie al lavoro affascinante di Amendola, che da decenni insegue luci ed ombre dentro le pieghe misteriose che accompagnano Michelangelo nella sua forma poetica.
“IO E TE!”
DI PAOLO CARLI Quando si parla di marmo e si parla di arte con la passione che Aurelio Amendola ha sempre portato nei suoi scatti, non può che nascere qualcosa di bello e sincero. Quella con l’amico Aurelio è un’amicizia recente ma profonda e resa forte anche dalle nostre visioni così simili nei confronti dell’Arte, della bellezza, della vita,
al nostro spiritoso modo di confrontarci, da veri toscani. E proprio quasi scherzando è nata l’idea di questa mostra, nell’antica segheria Henraux, con le sue particolari luci e i suoi muri che mostrano tutti i segni dell’età: “Portiamo Michelangelo in Henraux, io e te!”, ci siamo detti. “Io e te” un motto che spesso abbiamo poi ripetuto, a ricordare i nostri obiettivi, il nostro desiderio di mostrare, ognuno a proprio modo, la straordinaria bellezza del marmo. In questo anno così speciale, il cinquecentenario del trasferimento di Michelangelo da Carrara a Seravezza (marzo 1518), ho voluto rendere omaggio all’Artista e a chi lo ha raccontato con scatti di incontestabile forza e bellezza. Un duplice omaggio in un contesto, l’antica segheria Henraux, che abbraccia ed enfatizza il bianco e nero tanto caro ad Aurelio. Il bianco e nero in fotografia evoca la memoria e per noi di Henraux la segheria è luogo di memoria che ci riporta a una storia vissuta, a un senso di appartenenza, di identità e quindi di legami profondi.
107
Notiziario
5
UN GIORNO ALLA CAVA CERVAIOLE Il marmo protagonista di un evento che celebra i valori e l’eccellenza condivisi da Antonio Lupi Design e Henraux
La cava delle Cervaiole, situata nella parte sud del Monte Altissimo, è un luogo magico e pieno di suggestione. Giunti sulla sommità della cava, lo sguardo abbraccia un paesaggio che toglie il fiato: dalle Alpi Apuane fino alla costa, da La Spezia a Livorno, la natura appare in tutta la sua prepotente bellezza. Intorno, i volumi composti e geometricamente ordinati dei bancali di marmo. Da quasi duecento anni da questa cava si estrae un marmo pregiato e ricercato, bianco e venato di grigio, l’Arabescato, a cui la storia di Henraux è indissolubilmente legata: una pietra di eccellenza attraverso la quale l’azienda da lungo tempo dialoga con i più grandi architetti e artisti del nostro tempo, in Italia e all’estero. L’incontro fra Henraux e Antonio Lupi nasce da questa radice comune: l’apprezzamento concreto per la materia e per il luogo di origine del
108
marmo che scopriamo anche protagonista di molte delle recenti collezioni di Antonio Lupi Design. La sinergia fra le due aziende toscane ha prodotto, sul finire dell’estate 2018, un evento unico nel suo genere: alla Cava delle Cervaiole, Antonio Lupi ha infatti ospitato oltre 150 persone alle quali ha presentato alcuni pezzi delle proprie collezioni immersi in un’atmosfera quasi surreale, nel luogo ideale in cui la materia è pura e il progetto perfetta espressione formale che con la materia deve confrontarsi. Alle Cervaiole, cornice di prestigio e di grande impatto scenografico, il fascino e l’imponenza delle cave hanno riportato l’attenzione dei presenti sul valore originario della materia e sul fascino senza tempo dell’incontro fra marmo e progetto. Il confronto tra Antonio Lupi Design e Henraux non ha dato vita solo a un evento unico, ma è
diventato anche incontro progettuale da cui è nato Plissé, lavabo freestanding interamente realizzato in Bianco macchietta. L’oggetto s’inserisce in un percorso intrapreso da qualche tempo da Antonio Lupi e il designer Paolo Ulian per indagare il rapporto tra un materiale naturale come il marmo e le tecniche di lavorazione a controllo numerico. La solidità del materiale è ingentilita dai segni paralleli che si ripetono longitudinalmente sulla superficie. Le tracce della lavorazione diventano ornamento, il loro sviluppo rende la struttura più leggera senza rinunciare all’eleganza. Il volume di Plissé ripropone l’estetica di un tessuto pieghettato, con andamento verticale, come un plissé appunto. Una superficie che sembra muoversi con leggerezza grazie al variare della luce e al gioco di luci e ombre determinato dall’effetto a rilievo. Un oggetto dal design iconico che sembra un panneggio scultoreo.
Notiziario Antonio Lupi Design, PlissĂŠ Design di Paolo Ulian
109
Notiziario
110
Notiziario Antonio Lupi Design, PlissĂŠ Design di Paolo Ulian
111
All rights reserved. No parts of this publication may be reproduced or transmitted, in any form or by any means, without prior permission of the publisher. Every effort has been made to trace all copyright holders. It has not been possible, however, to securely identify the origin of every document reproduced. Anyone wishing to assert their rights in this matter is requested to contact the publisher. Progetto grafico e impaginazione Thetis Srl Via Oliveti 110 • 54100 Massa Finito di stampare nel mese di Maggio 2019 presso Bandecchi & Vivaldi, Pontedera, Pisa
ISBN 9788894350227