FARCORO, May-September 2011

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Tariffa Associazioni Senza Fini di Lucro “Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in Abbonamento Postale - D.L. 353/2003 (convertito in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 2, DCB Bologna”

Quadrimestrale dell’AERCO Associazione Emiliano Romagnola Cori

N° 2 - 3, Maggio — Dicembre 2011

Farcoro



Farcoro - indice

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EDITORIALE

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SPECIALE 40° I festeggiamenti a S. Cristina della Fondazza

di Andrea Angelini

di Puccio Pucci

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DIDATTICA Musica come terapia La sciatica si guarisce suonando il flauto nell’armonia frigia sulla parte dolorante

16 Marco Enrico Bossi: non solo un organista........

di Walter Marzilli

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DIDATTICA Marco Enrico Bossi L’altra metà dell’organista, il compositore per coro di Ennio Cominetti

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NOTIZIE Dal Gregoriano all’orchestra, attaversando la laringe Il Corso AERCO per direttori di coro

22 Il corso AERCO 2011: un successo!

di Matteo Unich

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COMPOSIZIONI O dolcissime rose di Rocco De Cia

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DOSSIER L’estetica del suono al tempo di Monteverdi di Mauro Uberti

43 L’estetica del suono al tempo di Monteverdi


FARCORO

Quadrimestrale dell’Aerco Associazione Emiliano Romagnola Cori Maggio-Dicembre 2011 Edizione online: www.farcoro.it Autorizzazione del Tribunale di Bologna N° 4530 del 24/02/1977 Spedizione in abbonamento postale DL 353/2003 Art. 1, comma 2 DCB, Bologna Direttore Responsabile Andrea Angelini Comitato di Redazione Fedele Fantuzzi Giacomo Monica Puccio Pucci Edo Mazzoni Matteo Unich Stampa Tipografia Giusti, Rimini Sede Legale c/o Aerco – Via San Carlo 25-f 40121 Bologna Contatti Redazione: farcoro@aerco.it +39 347 2573878 I contenuti della Rivista sono © Copyright 2009 AERCO-FARCORO, Via San Carlo 25-f, Bologna - Italia. Salvo diversamente specificato (vedi in calce ad ogni articolo o altro contenuto della Rivista), tutto il materiale pubblicato su questa Rivista è protetto da copyright, dalle leggi sulla proprietà intellettuale e dalle disposizioni dei trattati internazionali; nessuna sua parte integrale o parziale può essere riprodotta sotto alcuna forma o con alcun mezzo senza autorizzazione scritta. Per informazioni su come ottenere l’autorizzazione alla riproduzione del materiale pubblicato, inviare una e-mail all’indirizzo: farcoro@aerco.it.


Farcoro - editoriale

Dall’estetica alla terapia... “Omnia tempus habent!”

della commissione artistica e agli allievi che hanno permesso il realizzarsi di questa magnifica esperienza. Non preoccupatevi, non è finita, ritorneremo!

Le cose migliori passano rapidamente nella vita e ciò si addice anche alle celebrazioni per i festeggiamenti del quarantesimo dell’AERCO!

Leggendo oltre troverete due interessanti articoli sulla didattica scritti da valenti musicisti italiani. Il primo, di Walter Marzilli, tratta, in maniera abbastanza atipica, delle proprietà terapeutiche della musica. Leggetelo, non è il solito articolo sulla musicoterapia: accanto alle componenti emozionali Walter ci trasporta nei meandri della fisica e dell’acustica.

E’ stato un anno impegnativo quello che sta per concludersi con innumerevoli attività che hanno visto un cospicuo dispiego di forze in campo e un alto consume di energie. Naturalmente nulla è stato vano! Troverete nel presente numero di FARCORO un paio di relazioni che evidenziano abbastanza nei particolari a cosa mi riferisco... La prima, scritta dal nostro Segretario Puccio Pucci, racconta la giornata “ufficiale” dei festeggiamenti, il 22 Maggio.

Il secondo articolo, che mi ha trasmesso Ennio Cominetti, racconta di un Leggendo oltre troinedito e sorprendente verete due interesMarco Enrico Bossi, di santi articoli sulla cui ricorre quest’anno il 150° della nascita. Bossi didattica............ è per lo più conosciuto come organista. Spero che grazie a questo testo i nostri lettori ne apprezzeranno anche le capacità compositive corali. Ricordo che il felsineo Coro Euridice ha registrato per la Tactus, alcuni anni fa, la sua bellissima “Missa pro defunctis”.

Questa data, se prima era importante per me perchè, da buon interista, la ricordo per il raggiungimento della terza coppa UEFA da parte del team milanese e anche perchè è la ricorrenza di Santa Rita da Cascia, ora ha un valore aggiunto! Peccato che non tutti voi eravate presenti... Naturalmente cercheremo di offrirvi un’opportunità ancora più grandiosa tra dieci anni quando ci sarà il “big bang” del cinquantesimo...

Per finire vi invito, oltre a stampare e ad eseguire la partitura “O dolcissime rose” di Rocco De Cia, a fare tesoro dei suggerimenti sulla vocalità monteverdiana che con sempre tanta maestria Mauro Uberti ci ha inviato. Bologna, 4 Dicembre 2011

L’altro articolo a cui mi riferisco è stato scritto da Matteo Unich che fa un riepilogo e una valutazione sulle lezioni della prima annualità del corso per direttori. Il mio grazie va a tutti i relatori, i membri

Andrea Angelini Direttore di FARCORO andrea@angelini.cc

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Farcoro - speciale 40°

I festeggiamenti per il 40°: Convegno e Concerto a S. Cristina della Fondazza di Puccio Pucci (*)

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uarant’anni di amatorialità e di passione musicale profusa dalle migliaia di componenti i gruppi corali in Emilia-Romagna. Se ne sono accorti anche i cittadini che non sono soliti frequentare questo tipo di musica, ma ne sono rimasti colpiti. Bologna era, infatti, tutto un brulicare di coristi, appassionati e simpatizzanti nel quartiere di S. Stefano, intorno a Via della Fondazza e a Via del Piombo, perché nello splendido Auditorium di S. Cristina della Fondazza si è tenuto domenica 22 Maggio un concerto di 5 complessi a coronamento di un convegno che celebrava i 40 anni di attività dell’AERCO (Associazione Emiliano Romagnola Cori). Era esattamente il 16 maggio 1971 quando il compianto M° Giorgio Vacchi, Bologna era, infatti, direttore ininterrottatutto un brulicare di mente fino a tre anni del Coro Stelutis coristi, appassionati fa di Bologna, riunì a e simpatizzanti ..... Ferrara altri cinque direttori di Cori: Leone XIII di Bologna, Monte Toccacielo di Porretta Terme (BO), Valdolo di Toano (RE), Val Padana di Casumaro (FE) e Giuseppe Verdi di Argenta (FE) per costituire una associazione regionale che operasse per i complessi di ispirazione popolare. Molti altri cori si aggiunsero fin dai primi momenti, perché era chiaro il vantaggio di far parte di un’entità che poteva rispondere a domande di crescita musicale, conoscenza di diverse espe-

rienze, servizi di tipo organizzativo e gestionale. Questa prima associazione regionale ha fatto poi da traino alle altre sorte nel giro di quindici anni in tutt’Italia, che si confederarono in FENIARCO (Federazione Nazionale dei Cori), sempre aggiornandosi per corrispondere alle nuove esigenze che si manifestavano. Decisivo è stato il riconoscimento ottenuto dall’AERCO nel 1985 dalla Regione Emilia-Romagna a rappresentare ufficialmente il movimento corale che organizza corsi di formazione, concerti, convegni.

Gli ospiti intervenuti al Convegno per il 40° dell’AERCO

A suggellare tutto questo era presente al convegno di domenica scorsa la rappresentante del Consiglio Regionale Dott.ssa Paola Marani, il Presidente Nazionale e di Europa Cantat Sante Fornasier e molti dirigenti Aerco ovvero i Presidenti che hanno seguito Giorgio Vacchi: Giovanni Torre, Direttore del Coro T.L. de Victoria di Castelfranco Emilia (MO), il prof. Pierpaolo

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Scattolin, Direttore del Coro Euridice di Bologna, l’attuale Presidente Fedele Fantuzzi, direttore del Coro La Baita di Scandiano.

hanno cessato l’attività in questi anni): la Corale Giuseppe Verdi di Argenta, diretto da Andrea Bandi, il Coro Monte Toccacielo, diretto da Walter Chiappelli, il Coro Leone diretto da Pierluigi Piazzi e il Coro Stelutis, diretto dalla figlia del fondatore, Silvia Vacchi.

L’organizzazione degli interventi e l’illustrazione delle tappe significative di AERCO sono stati curati dal Segretario Puccio Pucci, attuale Presidente del Coro Stelutis, animatore e memoria storica dell’Associazione, mentre Il Prof. Torre e il Maestro Scattolin hanno ricordato le esperienze vissute in AERCO nel corso della loro Presidenza. Dopo gli interventi molto apprezzati della Dottoressa Marani e del Presidente Fantuzzi, Sante Fornasier ha terminato, con sentite parole di stima e apprezzamento, i lavori dell’evento.

Infine l’esibizione del Coro Mikrokosmos diretto da Michele Napolitano, ha rappresentato l’apertura della coralità a nuove esperienze, quali la multietnicità, fenomeno presente nel nostro tempo.

La grande attenzione prestata al Convegno si è poi stemperata nel magnifico concerto di quattro tra i primi soci fondatori (due purtroppo

(*) Segretario AERCO e Presidente del Coro Stelutis di Bologna.

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Farcoro - didattica 1

Musica come terapia

La sciatica si guarisce suonando il flauto nell’armonia frigia1 sulla parte dolorante di Walter Marzilli (*) 1  L’articolo è apparso sulla rivista: “Lo Spettacolo”, edita dalla SIAE, a. XLVI, n° 3, lugl.-sett. 1996, pp. 315-328.

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ra il II secolo a. C. quando Athenaios faceva questa affermazione a proposito di musicoterapia,1 ma prima di lui molti studiosi si erano già espressi su ..........l’orecchio questo argomento. umano non ha nes- Nel IV secolo a. C. sun merito consa- Aristotele ammettepevole nell’azione va, nella sua Politica, la divisione delle meterapeutica....... lodie secondo l’ethos, definito come potenzialità emozionale delle varie scale musicali, mentre nella Metafisica egli specificava come alcune scale avessero il potere di rendere tristi gli uomini, come la Misolidia, altre ne indebolissero la mente, altre inducessero alla serenità, come la

Dorica, altre ancora producessero entusiasmo come la Frigia.

1  Secondo altri studiosi l’affermazione sarebbe da attribuire ad Aulus Gellius, grammatico latino vissuto anch’egli nel II secolo a. C.. Nei suoi scritti egli si rivela un attento cronista delle tradizioni antiche ed è stato attraverso la sua opera che abbiamo potuto conoscere antichi usi e vecchi costumi del suo tempo. Per questo motivo è pensabile che egli abbia soltanto riportato quanto accadeva nel frattempo nella lontana Grecia in materia di musicoterapia. Disponiamo infatti di numerosi esempi e verificate prove secondo le quali molti secoli fa, nonostante gli scambi e le comunicazioni potessero avvenire attraverso mezzi poco sicuri e tutt’altro che veloci, la diffusione della cultura e delle scienze viaggiava a velocità insospettabili.

2  L’altezza assoluta era irrilevante, potendo una scala iniziare da qualunque nota. In realtà tali differenze si esprimevano anche attraverso micro-intervalli che il nostro orecchio “temperato” ha perduto la capacità di riconoscere ed analizzare. E’ proprio a causa (o sarebbe meglio dire “in virtù”?) di questa perdita di sensibilità che possiamo inconsapevolmente sopportare che si sia assunta come intervallo di seconda maggiore una nota stonata, la cui altezza è inferiore di quattro centesimi di semitono rispetto al valore reale. Nondimeno stonate risultano essere le altre note della nostra scala temperata, con escursioni che vanno dai due ai dieci centesimi rispetto alla scala pitagorica.

Ad un orecchio moderno, le differenti caratteristiche delle varie scale ed il relativo diverso ethos ad esse collegato, sembrano dipendere solamente dalla posizione che poteva assumere il semitono tra i vari gradi della scala, essendo questo l’unico fattore variabile.2 Per questo motivo appare adesso improbabile la possibilità di attribuire all’odierna tonalità di SOL Maggiore una caratteristica emozionale propria, diversa da quella di FA Maggiore, dal momento che in entrambi i casi il semitono mantiene la stessa posizione, e solo una persona in possesso di un orecchio assoluto3 può riconoscerne la differenza, al di là

3  Capacità di riconoscere i suoni che si odono, dando loro il

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della sensazione di maggior brillantezza del suono nel caso di un ascolto consecutivo nelle due tonalità. L’unica reale possibilità di differenziazione emozionale nella tonalità è limitata alla differenza tra accordo Maggiore e Minore.4 Si dice comunemente che le tonalità maggiori siano in grado di suscitare umori ed emozioni dal sapore solare, festoso, eroico, mentre quelle minori saprebbero condurre in un contesto più intimistico, crepuscolare, malinconico. Sembrerebbe in questo senso più giustificato parlare delle relazioni emotive legate alla melodia quale retaggio degli antichi modi gregoriani, nei quali il semitono si spostava facilmente in alcune posizioni, più numerose rispetto a quelle della moderna tonalità, portandosi dietro il sapore emotivo delle melodie.5 Ancora prima di Aristotele, fu Pitagora di Samo (VI secolo a. C.) a lasciare una traccia indelebile. Oltre ad aver codificato una scala musicale usata

incessantemente fino al XVII secolo ed ancora oggi perfettamente attuale negli strumenti non polifonici ad intonazione non temperata come gli archi, i fiati e la voce,6 egli assumeva tra i princìpi fondamentali della sua filosofia la ricerca della catarsi,7 e la musica assumeva in questo intento il ruolo di una medicina insostituibile.8 Eropilo di Alessandria asseriva invece di essere in grado di regolare la pressione sanguigna utilizzando particolari scale, intonandole in relazione all’età dell’ammalato. Benché non siano arrivate fino a noi le modalità pratiche attraverso le quali egli riuscisse ad ottenere tale risultato, è ormai fuori di dubbio l’inopportunità di considerare le antiche pratiche musicoterapeutiche come i tentativi delle civiltà primitive di muoversi in un campo sconosciuto affidandosi solo all’immaginazione, alla magia o all’esoterismo, pur rappresentando, questi ultimi, approcci collaterali dai quali tali pratiche non dovevano probabilmente essere esenti. E’ altrettanto fuori di dubbio il manifestarsi di particolari reazioni collegate all’ascolto della musica: che si stia comodamente sdraiati su una

nome secondo la frequenza assoluta, al pari di quando, vedendo un colore, lo si classifica all’interno dello spettro delle frequenze visive; la qual cosa, a differenza del primo caso, risulta normalissima. In questo senso, rispetto al non saper riconoscere le altezze dei suoni, si potrebbe parlare di daltonismo uditivo, ma la percentuale dei “malati” è altissima rispetto a quella degli autentici daltonici visivi. 4  In questo caso cambia la posizione del semitono e con essa l’approccio emotivo. 5  La nostra odierna tonalità non conosce più, ad esempio, la posizione del semitono tra I e II grado della scala (l’antico Deuterus autentico), che fornisce alla melodia un colore particolarmente malinconico e dolente. Commetterebbe comunque una leggerezza chi desiderasse adottare anche nella modalità gregoriana la classificazione della terza maggiore come sinonimo di festosità e della terza minore come equivalente di mestizia: basti vedere come l’Introito “Resurrexi” della solennità della Pasqua, dal quale ci si aspetterebbe una esplosione di gioia, inizi invece con un “mesto” intervallo di terza minore, mentre, al contrario, l’Introito della Messa da Requiem, “Requiem aeternam”, si apra con la pienezza di un intervallo di terza maggiore. Non resta che riconoscere alla terza minore del Resurrexi la forza esplosiva della commozione interna che scuote l’anima per l’ineffabile mistero della resurrezione, e alla terza maggiore del Requiem un sapore tanto salvifico quanto commovente per concludere che il Maggiore ed il Minore portano in sé la reazione emotiva che ognuno soggettivamente gli attribuisce, in relazione allo stato d’animo e alla propria consapevolezza. Questo non significa negare alla melodia il potere di suscitare umori e reazioni emotive, la qual cosa è così facilmente verificabile ed oggettivamente riconoscibile da non necessitare di alcuna proposizione giustificatrice.

6  Tale scala, detta pitagorica dal nome del suo codificatore, era ottenuta dalla sovrapposizione degli intervalli di quinta, in relazione al valore delle consonanze di ottava (2/1), di quinta (3/2) e di quarta (4/3). Tali rapporti, come si vede, si limitano all’uso dei primi quattro numeri interi, rispettando una antica concezione filosofica (Tetraktýs). In conseguenza di questo fatto restavano esclusi l’intervallo di terza maggiore (5/4) e quello di sesta maggiore (5/3), che saranno invece adottati venti secoli dopo da Zarlino per creare la sua scala, ideale continuazione delle antiche esperienze fisico-musicali di Didimo di Alessandria (I sec. d. C.). 7 Raggiungimento dello stato di purezza sia del corpo che dell’anima, inteso come condizione necessaria per il cammino verso la conoscenza.  8  Allo stesso Pitagora si attribuisce l’idea che i pianeti, nel loro moto spaziale, producano dei suoni. Passando attraverso Boezio (VI sec.), Isidoro di Siviglia (VII sec.), Keplero (XVII sec.), fino ai giorni nostri, questo argomento ha tenuto deste le menti di molti studiosi, alla ricerca del suono di ogni corpo celeste quale elemento melodico all’interno dell’armonia planetaria, della quale fa parte anche ogni essere umano, alla ricerca della sua armonizzazione cosmica.

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chaise longue ad ascoltare Mozart, o immersi nel frastuono di una discoteca, il nostro corpo reagisce in maniera differente, alterando non soltanto il suo universo emotivo e immaginifico, ma anche il suo stato puramente fisico e fisiologico. A distanza di tanto tempo dobbiamo infatti ammettere che le affermazioni di Eropilo non sembrano essere prive di fondamento, dal momento che numerose ricerche scientifiche effettuate in questo secolo hanno confermato come l’ascolto della musica possa provocare diverse alterazioni dello stato fisiologico della persona, che vanno proprio dalle variazioni della pressione sanguigna e della frequenza respiratoria fino all’influenza sull’energia muscolare. Il problema nascerebbe nel momento in cui si volesse indagare su “come” possono avvenire tali interferenze tra un elemento così impalpabile come la musica, che non è altro che un soffio d’aria, e un’entità così tangibile come le membra del corpo umano. A giudicare dalla frase di Athenaios in apertura di questo scritto, a proposito della pratica apparentemente empirica di avvicinare il flauto alla parte dolorante, si potrebbe immaginare che, per compiere la sua funzione terapeutica, il suono possa penetrare nel corpo umano non soltanto attraverso l’organo preposto a questa funzione che è l’orecchio, ma anche per mezzo di un ipotetico canale extrauditivo. Dalla pur rudimentale affermazione di Athenaios può scaturire una serie di riflessioni che vale la pena di percorrere, per tentare di fare luce sulla questione. Cominciamo con il definire il fatto che la capacità uditiva dell’uomo abbraccia un campo di udibilità relativamente ristretto, compreso entro i limiti di un determinato intervallo di frequenze - detto appunto gamma delle frequenze udibili - che vanno approssimativamente da 16

a 16.000 Hertz.9 Al di sopra e al di sotto di tali valori l’orecchio umano conosce solo il silenzio, nonostante queste zone di non udibilità siano popolate rispettivamente da una miriade di ultrasuoni e infrasuoni che il nostro organo non è in grado di avvertire.10 Le api emettono infatti suoni di 40.000 Hertz, mentre i pipistrelli di 45.000, ma sembra che tutti gli insetti siano in grado di emettere ultrasuoni, così come numerosi pesci. In medicina, peraltro, tali ultrasuoni non udibili trovano già utile applicazione nella cura di numerose patologie quali artrosi, flebiti, nevralgie, asma bronchiale, nonché nella cura di alcuni tumori e dei calcoli renali di dimensioni contenute. Le vie dell’azione terapeutica degli ultrasuoni sono apparentemente due: una di natura termica e l’altra vibratoria, in sinergia tra di loro. Entrambe si manifestano a livello cellulare in seguito all’emissione di qualcosa che possiamo nemmeno troppo arditamente definire “musica”, consistente in una unica nota di frequenza altissima. Benché l’esistenza di questi processi curativi attraverso (ultra)suoni sia una realtà, l’orecchio umano non ha nessun merito consapevole nell’azione terapeutica, non essendo esso un canale cosciente della captazione sonora. Probabilmente questo fatto può contribuire a dare credibilità a simili terapie, minimizzando l’effetto placebo; pur tuttavia esse sono tuttora in fase di studio e di sperimentazione, non essendo esauriti i necessari approfondimenti. Occorre a questo punto sottolineare che, come siamo sordi ai suoni oltre una certa frequenza (ultrasuoni) e sotto ad un’altra (infrasuoni), così siamo ciechi ai colori prima del rosso (raggi infrarossi) e dopo il violetto (raggi ultravioletti) nello spettro sola9  Secondo alcuni studiosi, questi valori conoscono delle fluttuazioni, specie per quanto riguarda il limite inferiore, pur rimanendo nell’ordine di poche decine di Hertz. 10  E’ una fortuna possedere un udito così “poco sensibile”, altrimenti il nostro cervello sarebbe incessantemente invaso giorno e notte da mille sibili, fischi, ronzii e brontolii provenienti da ogni dove che, fortunatamente, non riusciamo a sentire perché troppo acuti o troppo gravi.

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re. Nonostante il fatto che non le vediamo, entrambe queste radiazioni hanno un effetto ben visibile sul corpo umano, e trovano già numerose applicazioni in campo medico e industriale: esattamente come i suoni.11 La diffusione del suono dipende dalla presenza di un mezzo fisico che permetta la propagazione delle onde sonore. In genere tale mezzo è rappresentato dall’aria, ma qualsiasi elemento può ugualmente trasmettere un suono: maggiore è la densità molecolare del mezzo e più alta sarà la velocità del suono nell’attraversarlo; è per questo che nell’acqua il suono si propaga con una velocità che è circa cinque volte maggiore rispetto all’aria. Fatta questa premessa, e considerato che il nostro corpo è formato per il settanta per cento di acqua, acquista dunque maggior spessore il fatto che il suono possa correre attraverso di esso in modo più rapido e incisivo, anche se non percorre il consueto canale auricolare. In effetti alcuni allievi di Carl Orff (1893), oltre che a dare vita ad un pensiero pedagogico finalizzato all’insegnamento della musica ai bambini, hanno lavorato con successo sui sordomuti, basandosi sulla trasmissione delle vibrazioni sonore per via ossea. Abbiamo visto come i non udibili ultrasuoni possano causare alterazioni molecolari usate a scopi terapeutici; ma è lecito aspettarsi gli stessi risultati per canali extrauricolari, nel caso in cui la sollecitazione sonora sia di frequenza più bassa degli ultrasuoni e rientri nel normale campo di udibilità umano? In altre parole: il flauto di Athenaios che suona su una parte dolorante del nostro corpo, è davvero in grado di guarirla?

La nostra pelle possiede miliardi di pori sempre aperti,12 i quali mettono in comunicazione le nostre cellule interne con il mondo esterno: si tratta di vedere quale reazione molecolare può provocare un suono di solo qualche centinaia di Hertz.13 In questo caso tali reazioni di ordine termico e vibratorio, riscontrabili nel caso degli ultrasuoni, saranno di proporzioni probabilmente irrilevanti a causa della grande diversità di frequenza,14 ma non possiamo escludere che si possano avere riscontri di altro genere. In questo senso può essere interessante introdurre il concetto di risonanza. Tale fenomeno consiste nella capacità posseduta da un corpo silente e immobile di entrare in vibrazione se investito da un suono. Perché ciò avvenga deve verificarsi che il naturale periodo della vibrazione del corpo silente sia uguale a quello del suono emesso o ad uno dei suoi primi suoni armonici: in altre parole il suono deve essere in qualche modo compatibile con la frequenza propria dell’oggetto silente.15 Se questa caratteristica fisica 12  E’ noto che una loro chiusura provocherebbe gravi conseguenze ai danni dell’organismo. 13  Considerando ad esempio la tessitura delle voci umane, dal basso profondo al soprano leggero, essa copre uno spettro che va generalmente da 50 Hertz a 1500 Hertz, variando di poco in relazione alle possibilità soggettive. 14  La terapia ultrasonica prevede l’utilizzo di “suoni” di frequenza dell’ordine di centinaia di migliaia di Hertz. Per particolari applicazioni extraterapeutiche, esistono apparecchi in grado di produrre frequenze di milioni di Hertz. 15 ����������������������������������������������������������� Per rendere più chiaro il fenomeno pensiamo ad un diapason da tavolo (La3 = 440 Hertz), cioè di quelli posti sulla loro piccola cassa di risonanza. Se suoniamo un Sol al pianoforte in prossimità del diapason, quest’ultimo rimane muto (il La è infatti il 9° suono armonico rispetto alla nota fondamentale Sol); ma se suoniamo un La o un Re, il diapason comincerà ad emettere il suo La, poiché tale nota rappresenta il suono armonico 1° e 2° rispetto al La del pianoforte e il 3° rispetto al Re. Se suoniamo un Fa, del quale il La rappresenta il 5° armonico, il diapason avrà già un movimento molto meno rilevante. In questo caso occorre anche dire però che il La del pianoforte, inteso come intervallo di terza maggiore dal Fa, differisce dal suono armonico reale di 14 centesimi di semitono, a causa del temperamento adottato per l’accordatura degli strumenti a tastiera. Non risulta ancora scientificamente provata l’esistenza degli armonici inferiori (cfr. a questo proposito: Michelangelo Abbado, Presenza e udibilità degli armonici inferiori e conseguente spiegazione del terzo e quarto suono, in:

11  E’ curioso notare come siano sette i colori dello spettro solare (rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco e violetto) e pure sette siano le note, anche se, osservando altre culture geograficamente lontane dalla nostra, si nota come esse possano essere in numero minore o anche maggiore.

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può essere stata innocuamente usata in acustica musicale per la costruzione e la modifica degli strumenti,16 si rifletta sul fatto che, sulla base dello stesso fenomeno, il collaudo di un ponte nuovo può essere effettuato facendo stazionare su di esso alcuni autocarri con il motore tenuto al numero minimo di giri: se la somma delle frequenze vibratorie incontra quella del ponte, esso comincia a vibrare,17 permettendo di testare la sua resistenza. E’ per questo motivo che abitualmente un plotone di soldati in marcia rompe il passo prima di attraversare un ponte, proprio per non rischiare di sollecitarlo con una cadenza ritmica uguale alla sua. In relazione a questo fenomeno viene da pensare che, ipotizzando di conoscere la frequenza di risonanza del nostro corpo o, più profondamente, dei nostri organi, e sottoponendolo/i a tali frequenze o multipli di esse, se ne potrebbe ottenere la vibrazione per risonanza, determinandone un incremento dell’energia cinetica e quindi di quella termica, con benefìci sul piano della vitalità e della funzionalità. In questo caso l’incremento energetico non deriverebbe dalla microscopica eccitazione cellulare, come nel caso degli ultrasuoni, ma dalla condizione macroscopica della vibrazione per risonanza. E’ infatti molto antica la tradizione orientale di associare un particolare suono vocalico ad ogni organo interno del nostro corpo, come pure la prassi di attribuire facoltà guaritrici alla continua emissione cantilenante di questi suoni (raga, mantra, ohm).18 Senza superare i confini dell’esoteri-

smo, si può pensare al canto vero e proprio e al suono né più né meno come ad un massaggio diretto in determinate parti del corpo e accorgersi che, ad esempio, la casistica di disfunzioni alla tiroide nei cantanti risulta irrilevante rispetto a quella delle persone che non svolgono questa professione.19 In questo caso sembrerebbe possibile ipotizzare questo come il risultato delle vibrazioni sonore che giungono fino alla tiroide,20 ricordando che il nostro organismo risulta essere un ottimo conduttore acustico, sia in virtù dell’alta percentuale di acqua in esso contenuta che per la presenza dell’impalcatura ossea che attraversa l’intero corpo, anch’essa ottimo mezzo di propagazione del suono. L’ipotesi collaterale a questa, non meno intrigante, è quella che il nostro corpo stesso sia in grado di generare una frequenza sonora. In realtà ogni movimento crea energia cinetica la quale, a sua volta, genera un suono: in effetti sembrerebbe impossibile, in condizioni normali, osservare da vicino un’auto in movimento senza udirne il suono (in questo caso il rumore) o, nel piccolo, il tamburellare delle dita su un tavolo senza udirne i battiti. In questi casi, che possiamo definire macroscopici, si tratta di suoni ottenuti per attrito o percussione ma, scendendo nel mondo microscopico, si può riflettere sul fatto proprio un andamento incessante e cantilenante come il raga o il mantra e lontana dal calarsi in una filosofia di vita che invita alla meditazione e alla calma. Soltanto in alcuni ambienti monastici si mantiene tuttora il canto della salmodia gregoriana, avvicinabile, per ritmo cadenzale e ripetitività, alle tradizioni orientali dalle quali deriva. Chi ha provato una volta l’esperienza di ascoltare una sera il canto dei Vespri o della Compieta in un monastero, si sarà accorto del formidabile potere rasserenante che tale canto possiede, e dell’acuirsi delle capacità meditative che esso produce.

Musica d’oggi, a. VIII, n. 3, marzo 1965, pp. 76-78), ma questo non impedisce di pensare che possano esistere. In questo caso aumenterebbero notevolmente le possibilità di risonanza, anche per oggetti o corpi dalla frequenza propria molto bassa.

19  La percentuale di disfunzioni alla ghiandola tiroide nelle donne italiane risulta essere altissima, pari al 70%. Quella degli uomini sta subendo un allarmante aumento proprio in questi ultimi anni.

16  Si pensi alle corde esterne al manico in alcuni strumenti antichi come la viola d’amore, oppure al pedale di destra del pianoforte.

20  Non si confonda in questo caso la cartilagine tiroide, il cosiddetto Pomo d’Adamo a diretto contatto con le corde vocali, con la ghiandola tiroide, posta alla base della laringe, ad una certa distanza dalle corde vocali.

17  Nel ferro, elemento diffusissimo in edilizia, il suono si propaga con una velocità 15 volte maggiore rispetto all’aria. 18  La civiltà occidentale odierna sembra restia a sentire come

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che il nostro organismo è composto di cellule in perenne movimento, il cui stato di moto deve necessariamente generare un suono. Approfondendo questa ipotesi, alcuni studiosi avrebbero finito per ottenere alcuni risultati interessanti: il corpo umano emetterebbe costantemente un suono della frequenza di circa 7 Hertz, mentre il cervello passerebbe da una frequenza di circa 20 Hertz21 in attività vigile, ad un valore compreso tra 0.5 e 3.5 Hertz durante il sonno.22 In questo caso la miglior medicina per tutti i malanni potrebbe essere quella di identificare la propria frequenza e sottoporsi all’emissione di un suono uguale, causando così il fenomeno della risonanza spontanea all’interno del corpo, in perfetta armonia con il proprio “ritmo” bio-fisiologico23 e l’attivazione di tutte le energie statiche, eventualmente addormentate.24 Potrebbe esistere in questo senso una assonanza con i metodi di cura orientali come l’agopuntura e tanti altri, i quali ricercano la guarigione attraverso lo sblocco e la

riattivazione dei canali energetici eventualmente interrotti. La musica non ha poteri descrittivi come la pittura. Un brano non può creare di per se stesso un’immagine, perché i suoni appartengono ad un’altra dimensione sensoriale che è quella acustica, completamente estranea da quella visiva. Ad essi però si riconosce la possibilità di muovere gli umori, attivando la memoria di esperienze vissute, di ricreare lo stesso umore o una emozione simile a quella provata nelle condizioni di un precedente ascolto, anche molto remoto, attraverso una elaborazione che appartiene all’area extrasensoriale.25 Ludwig van Beethoven scrisse la sinfonia n° VI in Fa Maggiore op. 68, indicando in seguito precisi riferimenti a situazioni campestri da lui vissute.26 La sua musica evocava in lui le sensazioni provate in quelle occasioni, non le occasioni stesse. Nel pur improbabile caso di un ascoltatore che udisse la sinfonia ma non avesse mai vissuto scene campestri in ambienti simili a quelli descritti dall’autore, questi si troverebbe nella impossibilità di ricostruire gli stessi paesaggi pastorali descritti dal compositore. La musica non sarebbe quindi un mezzo descrittivo con possibilità figurative, ma solo evocative. E’ proprio questa capacità evocativa

21  A giudicare dal numero di Hertz si tratterebbe di un suono estremamente grave, ma pur sempre udibile, essendo 16 Hertz il limite inferiore del campo di udibilità. Occorre però ricordare la differenza che esiste tra la frequenza delle vibrazioni sonore, la cui unità di misura è appunto l’Hertz, con la quale si stabilisce l’altezza del suono, e la pressione acustica, ossia il cosiddetto volume del suono, il quale dipende dall’ampiezza di tali vibrazioni. Evidentemente, nel caso delle onde sonore del cervello, tale ampiezza è infinitesimale.

25  La cosiddetta “canzone del cuore”, oppure una melodia che riporti nei luoghi di un viaggio, sono “chiavi” che ci permettono di aprire delle porte rimaste chiuse anche per molti anni, e di riscoprire intatte le stesse emozioni provate allora. Meno romanticamente, anche la pubblicità e la sua musica adoperano le stesse chiavi per facilitare determinati collegamenti, anche inconsci e subliminali.

22  Secondo una delle note leggi della fisica acustica, più gravi sono i suoni, più grande deve essere la cassa acustica. Infatti basta pensare alla famiglia degli archi (violino, viola, violoncello e contrabbasso) e alle loro casse acustiche per rendersi conto di questo. Ma allora sembrerebbe lecito ipotizzare che le grandi cattedrali gotiche siano state costruite proprio per essere adatte a far risuonare suoni estremamente gravi, per esempio dell’ordine di quelli ipotetici emessi dal nostro corpo. Sarà forse questo il motivo per cui si è solitamente invasi da quel particolare senso di “armonia interna” camminando silenziosamente dentro quei luoghi di culto?

26  Così si esprimeva Ludwig van Beethoven nel 1807 a proposito della VI sinfonia: “...Ogni pittura perde, quando è spinta troppo oltre, nella musica strumentale. Sinfonia pastorella. Chi ha riportato qualche impressione della vita campestre può pensare da solo, senza che occorrano molti sopratitoli, a ciò che vuole l’autore. Anche senza descrizione si può conoscere il carattere generale dell’espressione [das Ganze], più come espressione che come pittura dei suoni. ...Sinfonia pastorale: nessuna pittura, ma vi sono espresse le impressioni che il godimento della campagna suscita negli uomini, per cui si descrivono alcuni sentimenti della vita campestre”. Citazione tratta da: A. Della Corte-G. Pannain, Storia della Musica, vol. II, UTET 1964, p. 506.

23  Il tentativo di intervenire su tale ritmo personale, espandendolo verso i confini della più vasta armonia cosmica, resta un sogno che l’uomo insegue dai tempi di Pitagora. 24  E’ opportuno ricordare che la possibilità che esistano i suoni armonici inferiori accennata in precedenza (cfr. nota 16), renderebbe questa ipotesi facilmente realizzabile, e allargherebbe notevolmente l’intervallo delle frequenze dei suoni ai quali sottoporsi.

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che fa della musica un mezzo per “regredire” nel tempo e riappropriarsi di emozioni lontane anche a scopi terapeutici e non solo nostalgici. Se infatti una vecchia canzone riporta di colpo alle prime amicizie, una filastrocca infantile può ricondurre il proprio sentire emotivo all’infanzia, e una particolare ninna nanna adagia la mente nella dimensione onirica dell’abbraccio della madre. Spingendo ulteriormente a ritroso questo procedimento, alcuni studiosi affermano di riuscire a far regredire una persona adulta fino allo stato prenatale, liberandola dai traumi psicologici legati alla nascita. E’ sorprendente notare come, a detta di tali studiosi, ciò possa avvenire attraverso particolari tecniche incentrate sull’ascolto del proprio ritmo respiratorio. Si tratta di un ritmo ternario (inspirazione-espirazioneapnea),27 come ternario è quello del cuore (tono sistolico-tono diastolico-riposo).28 Nel buio calmo e dilatato delle lunghe giornate della vita prenatale ognuno di noi ha avuto tutto il tempo per ascoltare a lungo entrambi questi suoni: il battere profondo del cuore della madre ed il lento fruscio del suo respiro.29 Secondo tali pratiche terapeutiche si tratterebbe di immergersi nell’acqua disponendosi al confine tra stato me-

ditativo e dimensione onirica, e ascoltare questi suoni provenienti dall’interno del nostro corpo. Questo procedimento permetterebbe di cambiare la prospettiva d’ascolto: non sarebbero più i suoni a giungere all’orecchio, ma il corpo ad essere immerso in essi, come il feto nel grembo materno, all’inseguimento di un processo di regressione emotiva che giungerebbe fino allo stato di abbandono prenatale.30 Il bambino sogna più dell’adulto, ma più del bambino sogna il feto, nella dimensione metafisica di chi non ha mai provato gli stimoli derivanti dalla fisicità delle cose viste e toccate, ed espleta la sua attività cerebrale solo attraverso i sogni: per questo motivo tali tecniche aiuterebbero l’uomo a tornare nel limbo onirico. In questo senso si tratterebbe di alterazioni dello stato di coscienza dovute alla dilatazione dei parametri del tempo, situazione intorno alla quale si dovrebbero ulteriormente approfondire le ricerche, per scoprirne se esistono i meccanismi per poter associare una determinata musica ad ognuno dei livelli di coscienza dell’essere umano. Resta però verificato in questo ambito il potere della musica nei confronti dello stato di coscienza e delle sue modificazioni: basti pensare ai numerosi e relativamente frequenti stati meditativi ai quali si può giungere attraverso l’ascolto di determinate musiche quali il canto gregoriano, nonché allo stato di trance ottenuto mediante particolari stimolazioni sonore di carattere percussivo protratte nel tempo,31

27  I movimenti respiratori visibili sono apparentemente soltanto due (inspirazione-espirazione). Il ritmo ternario è dato dalla necessità di un terzo momento di riposo, durante il quale avviene il vero e proprio scambio gassoso tra ossigeno e anidride carbonica. Una respirazione senza tale riposo sarebbe a lungo andare impossibile da sostenere; è infatti il caso della iperventilazione dei subacquei prima dell’immersione. Essa prevede due soli momenti, ma non può essere protratta a lungo senza conseguenze negative. 28  In realtà la reale successione fisiologica del battito cardiaco prevede quattro momenti, esistendo un piccolo silenzio tra la sistole e la diastole, contrapposto al grande silenzio che nel testo soprastante è indicato come riposo. In effetti però il piccolo silenzio è così breve da passare inosservato, cosicché il risultato all’ascolto dall’esterno è di due colpi ravvicinati (di cui il secondo più secco e deciso), seguiti da una pausa.

30  In relazione al ritmo ternario che accompagna la vita prenatale dell’uomo, può essere interessante notare come ad esempio nelle musiche legate al Natale, o che comunque siano inserite in un contesto tale che debbano suscitare la serenità e la gioia interiore di chi le ascolta, tale ritmo sia usato così frequentemente da diventare in quelle occasioni pressoché sistematico. Potrebbe trattarsi di un richiamo inconscio, una sorta di positivo messaggio subliminale.

29  A questo proposito può essere interessante notare come l’udito sia il più precoce tra i sensi dell’uomo: i tre ossicini dell’orecchio medio, martello, incudine e staffa, sono infatti perfettamente sviluppati e funzionanti già al quarto mese di gravidanza. Ben più lento risulta essere l’organo della vista, il quale tarda molto ad acquisire pienamente la sua funzionalità ancora dopo la nascita.

31  Alcune ricerche svolte nella prima metà di questo secolo avrebbero verificato come alcuni cerimoniali rituali nei quali si faceva uso di tamburi, adottassero un ritmo variabile dai sette ai tredici cicli al secondo. Tale ritmo corrisponderebbe alle onde alfa emesse dal cervello e una tale stimolazione causava proprio il raggiungimento dello stato di trance.

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tipiche di certi rituali. Occorre aggiungere a questo punto la constatazione di come l’ascolto puramente sensoriale e diretto della musica attraverso l’orecchio possa tuttavia percorrere due diramazioni, conducendo il suono verso due diverse zone del cervello che hanno specifiche funzionalità anch’esse diverse. Semplificando le conoscenze a riguardo, si può affermare che una di queste zone è quella dei pensieri, dei processi cognitivi e della coscienza, alla quale arrivano le informazioni dei sensi per essere decodificate e poi ricodificate secondo le personali strutture di pensiero. E’ l’emisfero del giudizio oggettivo e cosciente, della critica razionale. L’altra parte del cervello è invece quella che potremmo definire meno “sotto controllo” da parte dell’io cosciente: è l’emisfero dell’intuito, delle emozioni. Quando una musica vi giunge non possiede più i connotati fisici della semantica né la sua forma geometrica, ma soltanto quella astratta. Essa è pronta per mettere in moto le emozioni, dare vita ad un ricordo, ricreare le impressioni. Questa è la parte del nostro essere che è oggetto della musicoterapia metafisica, mentre l’altra entra in funzione ogniqualvolta è richiesto un atteggiamento di analisi cosciente e razionale. Quest’ultimo qualifica e determina l’atteggiamento di ascolto adottato normalmente dal musicista il quale, pur nell’estremo coinvolgimento emotivo dell’esecuzione, non dimentica il dominio sulla materia musicale intesa come linguaggio intelligibile, o al limite si lascia abbandonare totalmente all’incoscienza emozionale solamente in particolari circostanze. Probabilmente è una delle poche figure che ha la possibilità consapevole di ascoltare la musica con entrambe le zone del cervello, quella razionale e quella emozionale, anche contemporaneamente. Ci si può domandare se questo fatto possa avere una qualche relazione con la ben nota longevità dei musicisti. Di certo questa categoria gode

di alcuni particolari privilegi, tra i quali quello di fare un lavoro appassionante, scelto con trasporto e per volontà, e che possiede la caratteristica di rinnovarsi ad ogni esecuzione, durante la quale ogni musicista è in grado di compiere il miracolo di resuscitare un’opera dal suo stato inerme, richiamandola alla vita dalla condizione di catalessi in cui, per la natura stessa della musica, giace una partitura quando è muta sulla carta. Oltre a questi fattori, che già di per sé eserciterebbero un notevole effetto benefico su chiunque, occorre aggiungere la circostanza che, godendo i musicisti di un approccio raziocinante e comunque impegnativo con la musica, ne deriva che un ascolto si rivela loro sempre con maggior penetrazione e più cosciente incisività rispetto ad una percezione distratta o superficiale, con tutti gli approfondimenti e le implicazioni che ne conseguono. Di norma, infatti, una conoscenza più profonda dà la possibilità di un coinvolgimento emotivo più intenso e una partecipazione attiva maggiore, permettendo quindi di raggiungere un risultato maggiormente incisivo sul piano delle reazioni all’ascolto, siano esse di natura psicologica che fisiologica. Occorre anche aggiungere a questo proposito un importante fattore legato al fenomeno della risonanza: a causa della sua stessa professione, il musicista è sottoposto con notevole frequenza e assiduità ad una sorta di prolungata terapia sonora che investe il suo corpo con un numero notevolissimo di suoni dalle frequenze più diverse.32 Le probabilità di sollecitare per risonanza i suoi organi interni o l’intero organismo sono sensibilmente maggiori, e lo sono ancora di più se, come abbiamo visto, si 32  Il raggio delle frequenze dipende dagli strumenti con i quali egli è quotidianamente a contatto: un direttore di coro, abbiamo visto, ha a disposizione uno “strumento” in grado di emettere suoni dalle frequenze comprese tra i 50 e i 1500 Hertz. Un direttore d’orchestra ha davanti a sé uno spettro di frequenze ben più ampio: dai circa 40 Hertz del contrabbasso ai circa 4000 dell’ottavino. Per un pianista il fronte si allarga di poco: all’incirca da 30 a 4000 Hertz. E’ l’organista ad avere a disposizione lo spettro più ampio di frequenze: da 20 a 16000 Hertz.

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considera l’ipotesi dell’esistenza dei suoni armonici inferiori. Nel panorama delle proprietà terapeutiche della musica occorre anche collegarsi alla ben nota teoria che attribuisce alle emozioni inespresse la capacità di alimentare uno stato di stress, indebolendo addirittura le difese dell’organismo. Liberarsi di una emozione, specialmente se negativa, allenta i nodi nella sfera dei pensieri e aiuta a riconciliarsi con il mondo esterno. In questo senso la musica, come causa scatenante di un processo disinibitore delle emozioni che, come si sa, può portare facilmente alla commozione, al pianto, alla gioia, al ballo ecc., manifesta appieno tutta la sua forte valenza terapeutica e guaritrice. Nei processi curativi contro lo stress non si può non menzionare il silenzio. Nel perenne tentativo dell’uomo di raggiungere uno stato di quiete e di serenità, esso è da sempre così prezioso e ricercato, che tutta la forza terapeutica della musica verso lo stesso fine sembra essere messa in discussione. In fondo si può affermare che alcuni benefìci raggiunti con l’utilizzo dei suoni si possono ottenere proprio attraverso il mezzo opposto, vale a dire il silenzio. Non bisogna però dimenticare che esso rappresenta pur sempre una ben precisa condizione sonora. Prendendo in prestito una realtà dalla matematica possiamo affermare che il silenzio sta alla musica come lo zero sta ai numeri: non solo esso appartiene a tutti gli effetti alla serie dei numeri, ma la sua posizione ha una enorme influenza sui loro valori. Così anche le pause sono musica a tutti gli effetti ed hanno, come i suoni, una frequenza ben definita che è uguale a zero Hertz. E’ la sensibilità dell’ascoltatore a riempire il silenzio, a dargli un valore ed un significato attraverso la propria libera fantasia, invadendo questo spazio fluttuan-

te con il suono dei pensieri, a volte assordante.33 Abbiamo visto come, a causa del perpetuo movimento cellulare, il nostro corpo sembri emettere costantemente un suono di bassissima frequenza. Consideriamo comunque il fatto che ogni corpo fisico, se percosso, può emettere un suono più o meno definito (come quello dell’urto tra due bicchieri) o un rumore indefinito (come il bussare ad una porta): sembra dunque lecito pensare al nostro corpo come ad un oggetto continuamente “percosso” ogni giorno da migliaia di battiti del cuore, il quale possa per questo emettere, pur debolissimo, un suono. Probabilmente vale la pena di fare in merito una considerazione finale, seppure apparentemente marginale, e ritenerla una suggestiva ipotesi difficile da verificare: e se fosse proprio la consonanza o la dissonanza tra il proprio suono e quello emesso da una persona appena conosciuta a determinare inconsapevolmente la nascita di un rapporto di simpatia o antipatia, di vicinanza o lontananza spirituale che, come si sa, sono spesso tanto reciproche quanto involontarie? (*) Docente di Direzione di Coro nel biennio specialistico del Conservatorio F. Cantelli di Novara e di Vocalità Corale presso il Conservatorio F. Cilea di Reggio Calabria. Insegna Psicoacustica presso l’Accademia Mediterranea di Arti-terapia di Salerno, specializzazione in Musicoterapia, e Direzione di Coro presso la Scuola Superiore per direttori di coro della Fondazione Guido d’Arezzo. È professore Ordinario di Direzione Corale presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra di Roma.

33  Rapito dalla profondità del silenzio di certi luoghi sacri, così si esprimeva Joseph Samson, maestro di cappella della Cattedrale di Dijon, al Congresso Internazionale di Musica Sacra di Parigi del 1957: “Si le chant n’a pas la valeur du silence qu’il a rompu, qu’on me restitue le silence”. Vale a dire: “Se il canto non ha il valore del silenzio che interrompe, allora ridatemi il silenzio”. Citazione tratta da: Joseph Samson, Propositions sur la qualité, in: Actes du Troisième Congrès International de Musique Sacrée, 1er-8 Juillet 1957, Edition du Congrès, Paris 1959, p. 182.

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Farcoro - didattica 2

Marco Enrico Bossi

L’altra metà dell’organista, il compositore per coro... di Ennio Cominetti (*)

M

arco Enrico Bossi (Salò, 25 aprile 1861-Oceano Atlantico, 20 febbraio 1925), di cui ricorre quest’anno il centocinquantenario della nascita, riconosciuto come uno dei più celebri organisti italiani, ebbe un rapporto privilegiato con la città di Bologna, che lo ricorda avendogli intitolato la sala dei concerti del suo Conservatorio. Bossi fu nella città felsinea in due momenti fonda.........Ben 35 sono i mentali della sua vita brani corali che Bos- avendovi iniziato la si lasciò all’archivio sua formazione mudella Cattedrale sicale presso il Liceo Comasca....... Musicale (pianoforte con Giovanni Poppi) ed essendovi tornato in qualità di direttore ed insegnante di composizione fra il 1902 e il 1911. Bossi è ricordato principalmente come autore di importanti opere per organo ma, in realtà, il Maestro dedicò parecchi dei suoi sforzi compositivi anche al coro, specialmente quando si trovava a Como in qualità di Maestro di Cappella della Cattedrale (1881-1889). Terminati gli studi presso il Conservatorio di Milano, col pragmatismo che distinse tutta la sua famiglia, cercò immediatamente un posto di lavoro sicuro. Forte dell’esperienza paterna (suo padre, Pietro, era

organista presso la Collegiata di San Giovanni in Morbegno e Marco Enrico era nato a Salò dove il padre era organista prima di trasferirsi in Valtellina), aveva concorso a quel posto con in mano i diplomi in Composizione ed in Pianoforte, classificandosi secondo e ottenendo l’incarico per la rinuncia da parte del vincitore, Napoleone Carozzi. Un articolo del capitolato che regolava il rapporto fra il Maestro di cappella e Organista del Duomo, obbligava l’artista a “presentare all’Archivio della Musica di questa Cattedrale i seguenti pezzi nel giro di cinque anni da rimanere di proprietà della fabbriceria; e cioè nel primo anno una Messa intiera, nel secondo un Kyrie e un Gloria in excelsis; nel terzo un Credo ed un Mottetto; nel quarto un Salmo ed un Magnificat pel Vespro, e nel quinto un Sanctus, Litanie della Beata Vergine ed un Tantum Ergo; e terminato questo giro, ogni quinquennio nel caso di continuazione del servizio si tornerà da capo, potendo però la Fabbriceria variare i pezzi onde aumentare l’archivio musicale”.34 Bossi non possedeva una preparazione specifica per quanto riguarda la musica corale (anche perché la Scuola di Direzione di Coro era ancora ben lungi dall’essere istituita presso le scuole musicali italiane) e il coro in chiesa non era an34  cfr. A.Picchi, “Marco Enrico Bossi a Como” in Rivista Internazionale di Musica Sacra, Anno 5 n.3,4; Milano, 1984.

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Rieter-Biedermann). Fra questi: a) il ponderoso Tota Pulchra op. 96 per coro a 4 v.m. e organo; b) l’Inno di Gloria, conosciuto anche come Cantate Domino, op. 76a (il num. d’op. 76 si riferisce alla versione per organo solo del medesimo brano), lavoro dal carattere vigoroso e solenne di cui esistono svariati adattamenti secondo uno stile proprio del compositore che amava rielaborare i propri pezzi meglio riusciti adeguandoli alle varie esigenze esecutive; la versione per coro a 4 v. m. (con le voci raddoppiate, soprattutto nel finale), con organo concertante a cui in qualche caso viene aggiunto un quartetto di ottoni, è quella più nota; esiste, tuttavia, anche una rielaborazione per coro ad una voce con accompagnamento di grande orchestra che venne eseguita nella Thomas Kirche di Lipsia nel 1895. c) la Missa pro defunctis a 4 v.m. e organo, composta quando il Maestro si trovava a Napoli ad insegnare Organo nel Liceo Musicale ed eseguita al Pantheon di Roma il 9 Gennaio 1893 in occasione della annuale commemorazione del re Vittorio Emanuele II oltre che il 14 Marzo 1906, allorché si celebrarono i funerali del re Umberto I. d) la Mossa d’averno op. 87, su testo di S.S. Leone XIII, composta a Napoli nel 1893 e dedicata alla Schola Cantorum del Seminario Vaticano. Interessante è pure la Missa pro Sponso et Sponsa, op. 110 per coro a più voci miste a cappella con organo o armonium ad libitum, composta su commissione del Ministro della Pubblica Istruzione, Emanuele Gianturco, ed eseguita in occasione delle nozze dei reali d’Italia (Savoja-Petrovich) avvenute nella Basilica di S. Maria degli Angeli a Roma nel 1896. Per la verità non si tratta di una intera Messa ma di soli tre pezzi tratti dal Proprio: il Graduale “Uxor tua sicut vitis” a 4 voci, l’Offertorio “In te speravi” a 5 voci, ed il Communio “Ecce sic benedicetur omnis” a 6 voci, nel cui ideale compositivo il Maestro, richiamandosi

cora quello che sarà dopo il Motu Proprio promulgato da Pio X nel 1903. Nella sua funzione di Maestro di Cappella Bossi doveva dirigere (o, meglio, accompagnare all’organo) 8 Cantori, 4 ordinari e 4 straordinari pagandoli col proprio salario che era di 4.500 lire all’anno e dei quali 1.350 erano destinati ai cantori.

Torre Civica, Broletto e Cattedrale di Como in una stampa d’epoca

Ben 35 sono i brani corali che Bossi lasciò all’Archivio della Cattedrale comasca: si tratta di composizioni liturgiche, fra cui si contano ben 5 Messe intere, svariati Mottetti e brani per la Settimana Santa, per lo più destinati a gruppi di voci miste con accompagnamento d’organo e in qualche caso con la presenza di voci soliste. Di questi brani, nei quali si evince la già solida preparazione nel campo della musica sacra del giovane musicista, si distingue il Mottetto Tu es Petrus per basso e coro a 4 v.m. e organo del 1888. Altri brani sacri vennero pubblicati da edizioni italiane e tedesche (Capra, Bertarelli e

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alla grande tradizione polifonica italiana mostra (per la verità in compagnia di altri grandi autori come R.Wagner [autore del ricupero di una nota Salve Regina palestriniana a 8 voci] e persino di G.Verdi!) di aver ben assimilato la lezione del

Benché di impostazione differente, anche la Messa da requiem op. 90 per 4 voci virili, archi, arpa, organo o armonium, composta a Napoli per i funerali del nobile mecenate Benedetto Maglione, rispecchia la volontà di ricalcare gli stilemi dei grandi polifonisti del passato (secondo Giovanni Tebaldini “Bossi compose questa Messa animato dal proposito di farsi conoscere dai maestri della scuola napoletana d’allora per il contrappuntista che era”) pur tendendo l’occhio verso le nuove frontiere linguistiche che si stavano delineando agli albori del nuovo secolo. Ma l’opera corale bossiana annovera inoltre lavori di ancor più ampio respiro come Il Cieco, op 112, per baritono, coro a sei voci e orchestra, su testo di Giovanni Pascoli, o il Canticum canticorum op. 120, cantata biblica per mezzosoprano, baritono, coro, orchestra e organo composta a Venezia nel 1898-99, ritenuta l’opera bossiana fra le meglio riuscite, che ebbe, fra le altre, importanti rappresentazioni come quella del 14 Marzo 1900 nella Thomas Kirche di Lipsia, con direttore Georg Gehler, e quella del 26 e 27 Aprile 1903 al Teatro Comunale di Bologna sotto la direzione dell’Autore (Maestro del coro Vittore Veneziani). Pur tralasciando la magniloquente enfasi tipica del tempo con cui il critico Luigi Torchi recensisce il brano sulla Rivista Musicale Italiana, non possiamo esimerci dal condividere che lo stile di Bossi sia “elevato e il suo sentire profondo” e che nel brano si possono riscontrare “la potenza di effusione personale del compositore, comune a tutte le scene, più sensibile in quelle di amore e di dolore, esempi di delicatezza e di eccitabilità musicali squisite. Alla efficacia pronta della sua musica molto hanno giovato la libertà e l’arditezza della forma; la più ingenua, come la più elaborata polifonia e la monodia più toccante, sono animate da questo alito di libertà”.35 È però Alessandro Picchi a fare, a no-

Ritratto fotografico di Marco Enrico Bossi con dedica “a Giovanni Tebaldini che in un / momento angoscioso di mia vita / artistica si è dimostrato più che / amico fratello; col più caldo affetto / offre M. Enrico Bossi / Napoli 6 / 7 90”.

bolognese Alessandro Busi, conosciuto in gioventù, e noto quale antesignano della moderna riscoperta dei classici italiani.

35  cfr. L.Torchi, “Il Cantico dei Cantici di Bossi” in Rivista Musicale Italiana, anno VII Fasc. 4°, Fratelli Bocca Editori, Torino, 1900.

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stro avviso, una più esaustiva analisi del brano: “l’opera è la conferma della capacità di Bossi nel trattare le voci, nell’impostare il dialogo fra coro, solisti e massa orchestrale. Si aggiunga la sapienza nel guidare i temi, che si riassumono nella dialettica continua della frase melodica “Ecce Panis Angelorum”, tolta dalla sequenza gregoriana Lauda Sion, e da una melodia ebraica derivatagli dal XV Salmo di Benedetto Marcello”.36 Certo del grande valore del prodotto, e sicuro che avrebbe apportato dei vantaggi anche alla sua immagine, Bossi inviò la partitura del Canticum Canticorum ad alcuni fra i più celebri compositori europei del tempo. Camille Saint-Saëns gli rispose con una lettera da Vienna il 23 Aprile 1092: “Cher Monsieur et Illustrissimo Maestro! C’est une vraie fête, que vous avez voulu me procurer: la connaissance avec votre Canticum Canticorum. Voilà un’ouvre magistrale et sublime sans une page superflue, intéressant de la première jusq’à la dernière note. J’y trouve reuni forme (contrepoint naturel et admirable) et couleur d’une manière étonnante. Toute mon admiration et mes remerciements de coeur pour la grande joie que vous avez donné à votre bien devoué”. Giudizio altrettanto ammirato, e neppure troppo di circostanza, gli giunse da Parigi il 21 Maggio 1902, insieme con gli auguri e i complimenti per il nuovo incarico assunto quale direttore del Liceo Musicale di Bologna, da un altro celebre organista francese, Théodore Dubois, il quale, soffermandosi sul Canticum Canticorum, afferma: “La pensée en est très élevée, le developpement très logique et très complet, le parti que vous avez tiré di thème de “Ecce panis” très ingegneux et à effet, les harmonies très substantielles et serré sans être oscure, l’absence de tout banalité (…) Bravo donc, chèr Monsieur Bossi, et merci de m’avoir donné la joie de lire un’oeuvre d’un bon style, claire et distinguée comme la votre”. Altro lavoro di grande levatura è

l’Oratorio Il Paradiso perduto op. 125, per soli, oro, orchestra e organo il cui testo è tratto dall’omonimo poema di John Milton nella versione italiana di Luigi Alberto Villanis. Composto a Venezia ed eseguito ad Augsburg il 5 Dicembre 1903 con la direzione di Wilhelm Weber, l’Oratorio venne recensito dalla Neue Zeitschrift für Musik in modo esaltante soprattutto per la capacità di Bossi di “trattare la massa corale saldando sapientemente le esigenze contrappuntistiche con la ricerca espressiva”. Riguardo a questi due ultimi lavori si segnala una affettuosa corrispondenza di Arrigo Boito che, in data 8 Novembre 1901, scrive a Bossi: “Intanto mi rallegro con vivo e forte compiacimento per la conquista che Ella ha fatto della Germania con quella splendidissima opera d’arte che è il suo Canticum. Dopo la Germania sarà la volta degli Stati Uniti e dell’Inghilterra e del Belgio e d’ogni altra nazione musicalmente civile. Non dubito che il Paradiso Perduto arrivi a pari altezza e gloria; dico pari perché maggiore non mi sembra possibile, benché tutto sia possibile ai grandi intelletti che hanno raggiunto la completa maturità della loro potenza e del loro sapere; e questo è il caso suo”. Composta fra il 1911 e il 1913 a Breccia, un sobborgo di Como, dove Bossi possedeva una casa che non aveva mai abbandonato anche durante le sue peregrinazioni in quel di Napoli, Venezia, Bologna , Genova e Roma dove aveva abitato per motivi di lavoro, la Cantata Giovanna d’Arco op. 135, è in forma di poema sinfonico-vocale, stile per altro già riscontrabile in simili lavori del grande Perosi, quali il Mosè e Il Giudizio Universale. Bossi ebbe modo di passare molto tempo insieme al futuro Maestro della Cappella Sistina quando i due musicisti si incontrarono nella città lagunare, uno in qualità di Maestro della Cappella Marciana e l’altro in qualità di docente di Composizione al Liceo Musicale Benedetto Marcello (anzi, documenti alla mano, sappiamo che fu Perosi stesso a raccomandare

36  cfr. A.Picchi “Marco Enrico Bossi organista e compositore”, Casa Editrice Pietro Cairoli, Como, 1966.

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Bossi affinché potesse ottenere quel posto!). Possiamo dunque dedurre che oltre all’ammirazione vi fosse pure fra i due amici una sorta di positiva emulazione reciproca. Secondo Roberto Zanetti “Giovanna d’Arco nacque da quel momento d’approfondimento linguistico e tecnico che l’arte del Bossi conobbe intorno al 1910, come risposta personale a quanto andava avvenendo anche da noi e così impegnando il musicista nel trattamento quasi impressionistico della materia sonora, conseguendo soluzioni linguistiche, tecniche e espressive più avanzate e più varie che non quelle ottenute nel Canticum Canticorum e nel Paradiso perduto, ma anche una concezione architettonica globale più libera e meglio articolata”.37 Il Mompellio vi rileva inoltre “idee più decisamente personali, sviluppo sempre basato sul principio tematico ma meno rigido e nelle simmetrie meno sillogistico. Maggiore curiosità nella continuazione delle melodie, maggiore libertà d’atteggiamenti, a cui molto contribuisce la rinnovata concezione armonico-tonale del compositore”.38 Ultimo brano corale in ordine cronologico, ritenuto dal Mompellio39 “pregevole nella sua spontanea scorrevolezza, ma senza un posto di rilievo nella produzione del Bossi”, è la Cantata a Siena, op. 141 per baritono, coro femminile, piccola orchestra e organo. Il brano, su testo del poeta senese Ezio Felici, venne eseguito nel 1923 per il concerto di inaugurazione del salone dei concerti del Palazzo Chigi Saracini (odierna sede della Accademia Chigiana) al quale Bossi partecipò sia in qualità di organista che di compositore. Il catalogo delle musiche corali di Marco Enrico Bossi, tuttavia, non si esaurisce qui. Alcuni lavori su testi profani, ad eccezione dei Tre Cori a due voci femminili con pianoforte (oppure con piccola orchestra) op. 67, pubblicati da

Ricordi nel 1883 e da Grey nel 1925, vennero riportati nei cataloghi autografi (sono tre, conservati presso la Biblioteca del Conservatorio di Milano, grazie alla donazione del figlio Renzo, anch’egli affermato musicista) senza un preciso numero d’opera tanto da farci pensare che il Maestro non li ritenesse di primaria importanza al pari delle opere summenzionate. Essi trovarono tuttavia il favore di alcuni editori, non solo italiani, dell’epoca ed evidentemente di gruppi corali disposti ad eseguirli. Qualche titolo: Primavera classica (testo di G.Carducci, ed. Rieter –Biedermann, 1907); Quiete meridiana, a 4 voci virili (testo di A.Fogazzaro, ed. Schirmer, 1914); A Raffaello divino, a 4 v.m. con pianoforte (testo di F.Salvatori, ed. John Church, 1921); Il brivido, a 4 voci virili con pianoforte (testo di G.Pascoli, ed. Pizzi, 1922); Le rondini, a 4 voci virili (testo di Autore Ignoto, ed. Zanibon, 1925). Purtroppo oggi la maggior parte di queste partiture, ormai fuori mercato, non è più reperibile se non in qualche sperduta e polverosa stanza di qualche biblioteca musicale, lungi dall’essere investigata da sensibili e illuminati direttori dei cori di casa nostra. Così la ponderosa opera corale del grande organista italiano attende di essere ricuperata e diffusa, allorché passerà qualche moda e si inneschi quella giusta. Per la verità qualcosa si sta muovendo, soprattutto grazie all’impegno di più di una casa editrice italiana; ci si augura che lo sforzo degli editori trovi l’interesse anche dei nostri Cori e, soprattutto, dei loro direttori. (*) Organista, direttore di coro (Soli Deo Gloria e Coro Accademico Lombardo) e d’orchestra. E’ direttore e docente del corso di musica sacra presso l’Arts Academy di Roma. Ha scritto una biografia di Marco Enrico Bossi pubblicata dalle Edizioni “Gioiosa”. Oltre alla attività concertistica, discografica, pubblicistica, organizzativa e divulgativa, Ennio Cominetti si occupa oggi anche della direzione artistica della casa editrice EurArte.

37  cfr. R. Zanetti, “La musica italiana nel Novecento”, Bramante Editrice; Busto Arsizio, 1985. 38  cfr. F. Mompellio “Marco Enrico Bossi”, Ulrico Hoepli Editore; Milano, 1952. 39  ibidem.

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Farcoro - Notizie AERCO

Dal Gregoriano all’orchestra, attraversando la laringe Il Corso AERCO per direttori di coro di Matteo Unich (*)

E’ terminato domenica 3 aprile, con il recupero della lezione del M° Ugo Rolli sul canto gregoriano (che era stata rinviata causa neve dalla data originariamente prevista del 30 gennaio), il primo dei due anni del corso biennale AERCO per direttori di coro.

nel cammino, si sono succeduti: per il canto popolare il M° Mauro Pedrotti, direttore del coro della S.A.T. di Trento che ha illustrato la storia di questo prestigiosissimo gruppo e ha proposto ai corsisti, con l’aiuto del coro laboratorio alcuni brani celebri del repertorio popolare tridentino come “gli aizimponeri” e “fila fila”, nelle armonizzazioni di svariati compositori; il M° Giorgio Larcher, direttore della Corale Antares di Taio (Trento), che ha parlato della polifonia classica e contemporanea, coadiuvato dal coro laboratorio “I Ragazzi Cantori” di San Giovanni in Persiceto (BO); il M° Pierpaolo Scattolin, che con la collaborazione del M° Giacomo Monica (che ha illustrato le peculiarità degli strumenti ad arco, del violino in particolare) ha portato i corsisti ad approfondire il rapporto tra coro ed orchestra. Inoltre il corso ha svolto anche un incontro in trasferta, portandosi a Casazza (Bg) per una lezione sul coro di voci bianche, avvalendosi dell’apporto del M° Mario Mora e del coro “I Piccoli Musici” da lui diretto.

Rispetto al corso dell’anno passato, per molti versi sperimentale anche se apprezzato, il Direttivo AERCO ha deciso di tentare la strada della divisione in due anni del programma, molto vario e articolato. La prima, ..........Gli incontri attesissima lezione del prossimo anno è stata tenuta dal dr. saranno strutturati Franco Fussi di Ravenna, indiscusso lusulla falsariga dello minare della foniatria schema già usato italiana ed europea, nel 2011 ....... che ha letteralmente affascinato i corsisti, non moltissimi per la verità, e i ben più numerosi uditori. In tre ore (ma sono sembrati davvero pochi minuti) il dr. Fussi ha illustrato nei particolari il funzionamento dell’apparato vocale, le tecniche di riscaldamento e le particolarità della funzione fonatoria. Dopo che la neve ha impedito temporaneamente al M° Rolli di proseguire

Come detto, i corsisti non erano molti, una decina circa. Questo ha significato, in occasione delle Nella pagina a fianco: Un momento della lezione con il M° Mauro Pedrotti

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esercitazioni pratiche, la possibilità per tutti di sperimentare direttamente, attraverso la presenza dei cori laboratorio, quel che veniva espresso negli incontri mattutini. In particolare, la lezione sul coro e orchestra – che ha visto la partecipazione di una nutrita orchestra d’archi e dello splendido coro Euridice di Bologna – ha visto i corsisti concentrarsi su due soli, celeberrimi brani (l’Ave Verum Corpus K. 618 di Mozart e il Corale della Cantata 147 di J. S. Bach), permettendo loro di approfondire il complesso rapporto tra gesto, reazione del coro e reazione dell’orchestra. In ogni incontro, tuttavia, la presenza degli uditori era massiccia, e raramente le lezioni hanno visto la presenza di meno di trenta persone.

hanno offerto un ulteriore arricchimento alla formazione e hanno consentito l’instaurarsi di una solida amicizia tra i partecipanti. Il corso è biennale, quindi l’inizio del 2012 vedrà lo svolgimento di altri sei incontri, sempre nella sede della Tiz gentilmente offerta dal coro Stelutis di Bologna, nella persona del suo presidente ing. Puccio Pucci. L’offerta didattica ricalcherà in parte quella dell’anno precedente: la Commissione Artistica AERCO sta lavorando alacremente in questo senso, e l’obiettivo è quello di proporre sei momenti con argomento base uguale a quello dell’anno precedente, ma visto da altre angolazioni. Gli incontri saranno quindi, almeno allo stato attuale delle cose, strutturati sulla falsariga dello schema già usato nel 2011: la fonazione, il canto gregoriano, la coralità popolare, la polifonia classica e contemporanea, coro di voci bianche e coro con orchestra. Questo sistema permetterà agli alunni dell’anno passato di approfondire quel che già hanno appreso, e agli eventuali – ed auspicati – nuovi elementi di partire senza subire handicap di alcun genere rispetto a chi ha già frequentato. E’ possibile che ci siano cambiamenti da qui all’inizio delle lezioni, alcuni docenti certamente cambieranno ma i nuovi non saranno meno all’altezza di chi li ha preceduti. C’è anche l’intenzione di entrare più nello specifico in alcune tematiche, in particolare quella – molto sentita – della gestualità di base.

Altra nota di merito va alla giornata del Maestro Rolli, nella quale gli alunni hanno potuto accostarsi al canto gregoriano, vero pilastro di tutta la musica vocale successiva. Attraverso la spiegazione dei neumi e l’uso di pagine tratte dal Graduale Triplex, il docente ha portato i discenti a comprendere la bellezza di questo canto antichissimo ma sempre vivo e ad affrontarlo con maggiore consapevolezza artistica, rendendoli anche consapevoli della profonda differenza che esiste tra la direzione di coro della tradizione accademica (orientata prevalentemente ai brani del periodo della polifonia o del classicismo) e la tecnica direttoriale specifica del canto gregoriano. Le occasioni d’incontro, abbastanza ravvicinate nel tempo (poco meno di tre mesi per sei incontri) hanno permesso ai corsisti di scambiarsi esperienze personali e di socializzare, sia tra di loro che con i docenti. La segreteria del corso ha messo i frequentatori in grado di pranzare insieme, con la presenza dei maestri, e in questi momenti di rilassamento c’è stato un fitto scambio di esperienze, successi, situazioni, ricordi, che

Gli interessati che desiderino informazioni sono invitati a tenere d’occhio il sito www.aerco.it, dove saranno tempestivamente reperibili le informazioni relative alle date, agli argomenti e ai docenti dei vari incontri. (*) Diplomato in Trombone; dal 1982 Direttore del Gruppo Corale “Pratella-Martuzzi” di Ravenna; membro della Commissione Artistica dell’AERCO.

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Farcoro - composizioni

O Dolcissime Rose per coro a voci miste di Rocco De Cia

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l testo, di Giovanni Battista Guarini, è tolto da Baci soavi e cari, dal Libro I dei Madrigali a cinque voci di Claudio Monteverdi. Del distico “o dolcissime rose / in voi tutto ripose”, oltre alla metafora floreale, mi incuriosiva la pronuncia di “ripose”: la “o” è aperta, per fare rima con “ròse”, oppure chiusa (“ripóse”), come si usa al giorno d’oggi? L’idea musicale è un particolare “timbro” sonoro. La scelta di serrare le diverse voci in un registro molto ristretto mira a creare un “timbro nuovo”, in cui i singoli timbri si fondono l’uno con l’altro. Nella seconda parte del brano, da b. 21 in avanti, l’ambito si allarga progressivamente, pur continuando a rimanere piuttosto contenuto: la nota più grave del Basso e la nota più acuta del Soprano distano al massimo due ottave appena. Il suono è sempre esile, e va via via assottigliandosi fino all’unisono conclusivo. Il procedimento compositivo si basa su brevi frammenti discendenti: all’inizio due sole note, poi tre, quattro, per arrivare a cinque note alla fine della prima parte (bb. 17-21). I ritmi seguono semplici moduli additivi e sottrattivi: basti vedere la sequenza iniziale del Basso (bb. 1-4) che, conteggiata in crome, risulta 1+1, 2+2, 3+3; una pausa di croma separa ogni modulo. Il semitono Mi-Fa è il centro armonico di inizio brano. Con l’entrata delle diverse voci e l’introduzione di nuovi suoni, il centro armonico inizia a vagare. La seconda parte (da b. 21) trova una seconda polarità nel semitono La-Si bemolle. Interven-

gono nuove figurazioni, che oscillano attorno ai due centri armonici. Il ritmo progressivamente si anima, culminando a b. 37. Le bb. 39-40 sono una sorta di “finestra” su un brano antecedente per due voci femminili, che viene citato quasi letteralmente, e sono al contempo una parentesi utile a frammentare l’arcata formale prima della coda (ultime quattro battute). La scelta di aprire questa “finestra” è stata presa quando il brano era pressoché completo; tale scelta ha però suggerito la stesura della figurazione di Contralti Tenori e Bassi a b. 21. Questa figurazione serve a connettere la prima parte del brano alla seconda (come spesso accade, l’ordine degli eventi che ascoltiamo durante il brano non rispecchia necessariamente la cronologia della composizione).

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Il brano può essere gratuitamente fotocopiato dai lettori di FARCORO, fermo restando che ogni diritto relativo all’esecuzione ed alla registrazione rimangono di proprietà dell’autore.

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Dopo la Laurea Specialistica in Discipline della Musica, conseguita all’Università di Bologna col massimo dei voti e la lode, con una tesi sulla polifonia vocale di Orlando Gibbons, sta ultimando il Dottorato in Musicologia presso l’Università di Udine, dove conduce una ricerca sulla didattica compositiva di Franco Donatoni. Canta in varie formazioni; fa parte della Schola Gregoriana Benedetto XVI. Diplomato in Musica corale e Direzione di coro con P.P. Scattolin, studia Composizione presso il Conservatorio “G.B. Martini” di Bologna con C. Landuzzi. Fra i suoi brani: Sonata, per due pianoforti, eseguito a Bologna e a Reggio Emilia (rassegna “Compositori a confronto” 2007); Credo per coro a cappella (per il progetto collettivo Missa Eclectica, eseguito durante la rassegna “Cinque giornate per la Nuova Musica”, Milano 2009, e presentato nel 2010 nell’ambito del programma Piazza Verdi di RadioTre); Mnemosyne, per soprano e ensemble, Nostalgia, per soprano e dieci strumenti, e Trasparenze, per quindici strumenti, al Teatro Comunale di Bologna (“L’Altro Comunale” 2009, 2010 e 2011). Lilium floruit è stato eseguito dal Coro femminile del Collegium Musicum Almae Matris (“MusicAteneo” 2010 e 2011, Bologna). Esili sentieri, per venti archi solisti, commissionato dall’associazione “G.B. Martini”, è stato eseguito dall’Orchestra da Camera di Bologna (“Musica in Basilica” 2010). Il quintetto Vuoti di oblio, fra le quattro partiture selezionate per la seconda edizione del concorso di composizione AFAM, è stato eseguito dal Divertimento Ensemble diretto da Sandro Gorli (“Rondò”, Milano 2011). Dal 2011 fa parte dell’équipe del Laboratorio MIRAGE di Gorizia, in qualità di compositore ospite, per un progetto dedicato al live electronics. ROCCO DE CIA e-mail: roccodecia@yahoo.it

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Farcoro - dossier

L’estetica del suono al tempo di Monteverdi di Mauro Uberti (*)

Premessa

cioè, testimonianze relative ad un certo argomento e coerenti fra loro compaiono in periodi antecedenti e seguenti il periodo monteverdiano costituendo un ponte temporale che lo comprende, pare a me ragionevole ammettere che i caratteri dell’argomento in esame valgano anche per questo.

I

l tempo di Monteverdi è l’epoca del passaggio dalla polifonia al «recitar cantando» ma, dato che questo è un convegno organizzato dall’ARCL, ho ritenuto opportuno mettere l’accento più sull’aspetto corale che su quello solistico della voce anche perché agli inizi del «recitar cantando» la vocalità non poteva essere altra che quella usata dai cantori in quel tempo operanti, cioè da esecutori di musiche polifoniche; del resto almeno nel caso del madrigale essi cantavano già la propria parte da solisti.

La vocalità colta d’oggi E’ importante rendersi conto del fatto che la vocalità colta alla quale facciamo abitualmente riferimento è quella del teatro d’opera attuale; vocalità che è tutt’altro che omogenea, ma le Vediamo allora chi cui varietà hanno una radice comune: quella che fossero i cantori si forma attorno al 1830 all’epoca di Moned è descritta da Manuel teverdi. Erano sia Garçia nel suo Traité professionisti...... complet de l’art du chant;1 tecnica che si disperderà poi in altre e diverse tecniche così come mostra la varietà di quelle insegnate nei trattati di canto che seguiranno.

I documenti precedenti l’invenzione del grammofono, che abbiamo a disposizione per ricostruire i caratteri estetici del suono, sono ovviamente quelli specificamente musicologici e musicali, ma anche quelli letterari e, vedremo, iconografici. Trattandosi però del suono della voce, cioè di una funzione fisiologica, gli strumenti per l’analisi e l’interpretazione dei documenti sono necessariamente la fisiologia e l’anatomia così come la fonetica e l’acustica ambientale.

Questo tipo di vocalità rispondeva e risponde ancora oggi all’esigenza già evidenziata dall’Arteaga fin dal 17852 di aumentare la potenza della voce in modo

Un’altra premessa è da fare: sarebbe bello se potessimo avere a nostra disposizione tutti e soltanto documenti corrispondenti al periodo in esame, ma così non è. E’ opportuno quindi cercare testimonianze ed indizi utili alla ricerca anche nei periodi precedenti o seguenti e trarre conclusioni per estrapolazione; se,

1 Manuel Garçia, Traité complet de l'art du chant en deux parties par M.G., Paris, Chez l’Auteur, 1847. Il Traité avrà altre cinque edizioni. Sull’ultima, quella del 1872, si fonda quella italiana a cura di Stefano Ginevra, Torino, Giancarlo Zedde Editore, 2001. 2 Stefano Arteaga, Le rivoluzioni del teatro musicale italiano...,

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da farla «spiccare» in mezzo al suono delle orchestre diventate sempre più grandi e fragorose. Oltre alla potenza, il mezzo fisio-acustico naturale per mettere in evidenza il suono della voce è quello di rinforzare la cosiddetta «formante del canto», cioè il picco di intensità degli armonici vocali attorno ai 3.000 Hz al quale si deve il caratteristico smalto della voce cantata; rinforzo che nelle tecniche di canto romantiche e veriste è accentuato e che sposta l’attenzione dell’ascoltatore dal timbro specifico delle vocali a quello generale della voce del cantore. La soddisfazione dell’esigenza di fare «spiccare» la voce sopra il suono dell’orchestra ha portato anche ad un profondo cambiamento del gusto musicale, in conseguenza del quale si accetta come normale il fatto che nella voce cosiddetta «lirica» la struttura acustica dei fonemi sia più profondamente alterata rispetto a quella della voce parlata di quanto accadeva con le tecniche di canto precedenti3; si accetta cioè come normale la diminuzione della comprensibilità.4 I comportamenti fonatori adottati con le tecniche romantiche e veriste determinano pure l’accentuazione del vibrato; accentuazione che ha come effetto psicoacustico quello di trasformarlo in una vera e propria componente timbrica della voce. Caratteri questi che danno al suono della voce cosiddetta «lirica» un carattere ben diverso da quello dell’epoca di Monteverdi.

La vocalità del tempo di Monteverdi Premessi questi fatti - ma dovremmo premetterne molti altri - io ritengo di dover stabilire convenzionalmente la fine del suono monteverdiano nel 1637, anno dell’apertura del Teatro San Cassiano a Venezia, quando cioè lo spettacolo si apre al pubblico pagante e non è più riservato al principe ed ai suoi «cortegiani». A me pare che sia corretto farlo perché da quel momento l’impresario teatrale – o chi per lui – per fare soldi dovrà costruire teatri sempre più grandi in modo da accogliere il maggior numero possibile di spettatori. Creando spazi acustici sempre più grandi dovrà chiedere ai compositori di aumentare il numero degli strumenti in partitura e nell’orchestra e di conseguenza i cantanti dovranno cantare sempre più forte. Così, un passo alla volta, l’ideale estetico vocale dell’epoca della quale ci stiamo occupando cambierà e si giungerà alle proteste dell’Arteaga ed alla rivoluzione vocale degli anni ’30 del XIX secolo. Per inquadrare l’estetica del suono vocale, qualunque sia l’epoca alla quale ci si riferisce, è utile immaginare un’area di esistenza della vocalità, compresa in un triangolo che abbia come vertici la potenza, l’agilità e l’espressività (riassumendo nel termine «espressività» tutto ciò che si richiede per «esprimere», cioè la comprensibilità della parola e l’espressione vera e propria degli affetti) e nel quale il tipo di voce impiegato si sposta a volta a volta verso una delle tre caratteristiche accentuandola a scapito delle altre. Diciamo inoltre che modi diversi di cantare nei quali prevalgano a volta a volta la potenza di voce, l’agilità o l’espressività sono sempre esistiti. La citazione più antica ed evidente che io conosca è la lettera a Teofilo Fusco di Camillo Maffei il quale, lamentandosi della disparità delle opinioni e dei gusti degli interlocutori con i quali è costretto ad intrattenersi, a proposito del canto dice: «un altro non vorrebbe sentir se non passaggi di garganta - cioè di agilità - un lodare il cantare dolce e

Bologna, Trenti, 1785, II, p. 49-50: «Dal Jumella in qua… Si è multiplicato all’eccesso il numero dei violini, si è dato luogo nell’orchestra a gli strumenti più romorosi… Tra il fracasso dell’armonia, fra i tanti suoni accavallati l’uno sopra l’altro, tra i milioni di note, che richieggono il numero e la varietà delle parti, qual è il cantore la cui voce possa spiccare?». 3 Mauro Uberti, Acustica della voce in «Acustica musicale ed architettonica», Torino, UTET, 2005, p. 523. 4 Gustavo Magrini, Il canto. Arte e tecnica, Milano, Hoepli, 1926: «Dobbiamo dunque cercare di attenuare la caratteristica del timbro di ciascuna di queste tre vocali A I U, arrotondarle e rendere appena sensibile la diversità di timbro di ciascuna di esse: in altri termini, neutralizzarle e fonderle quasi fra di loro, per ottenere non più un suono naturale su ciascuna vocale, ma un suono diverso, che, pur variando alquanto a seconda della vocale, sarà più modulato, complesso, cantabile e ci porterà ad un timbro unico ed uniforme, base essenziale dell’arte del canto.

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soave, un altro il cantar nella cappella»,5 ossia a gran voce come si cantava appunto nelle cappelle. Categorie di cantori Vediamo allora chi fossero i cantori all’epoca di Monteverdi. Erano sia professionisti che, si badi bene, dilettanti. I professionisti erano cantori pagati per cantare nelle corti gentilizie e nelle «chiese o capelle» come dice lo Zacconi; i dilettanti erano invece aristocratici o almeno ricchi borghesi.6 Come sempre i professionisti erano selezionati in base alle loro doti naturali, dipendevano dalla Chiesa o da un aristocratico che li stipendiavano ed erano selezionati sia per la qualità vocale che per la professionalità musicale. Diverso il caso dei dilettanti. Oggi noi intendiamo come dilettante colui che pratica una certa attività con poco impegno e con scarso magistero; non dimentichiamo invece che, di per sé, il termine sta soltanto ad indicare chi svolge un’attività per diletto e non per lucro. Benedetto Marcello, per esempio, lo sottolineava firmandosi: «Benedetto Marcello, nobile veneto, dilettante di contrappunto». Noi sappiamo che l’educazione degli aristocratici, sia uomini che donne, comprendeva anche la musica. Basta leggere «Il Cortegiano»7 di Baldassarre Castiglione per capire quanta parte avesse la musica, nel XVI secolo, nella formazione culturale e sociale dell’uomo di corte: «io qui a fianco: Un ritratto giovanile di Claudio Monteverdi

5 Gio. Camillo Maffei, lettera «Al Molto Reverendo Padre Fra Teofilo Fusco» in Delle lettere del S.or G.C.M. da Solofra libri due. Dove tra gli altri bellissimi pensieri di Filosofia, e di Medicina, v’è un discorso della Voce e del modo d’appare di cantar di garganta senza maestro, non più veduto, n’istampato…, Napoli, Amato, 1562, pp. 198-199. 6 Lodovico Zacconi, Prattica di musica utile et necessaria si al compositore si anco al cantore, Venezia, Polo, 1592, I, c. 52v: «& chi dice che col gridar forte le uoci si fanno; s’inganna doppiamente, prima perché molti imparano di cantare per cantar piano & nelle Camere, oue s’abborisce il gridar forte, & non sono dalla necessità astretti a cantar nelle Chiese, ò nelle Capelle oue cantano i Cantori stipendiati; & questi sono i Gentlhuomini: & gli altri che non hanno dibisogno per questa uia di guadagnarsi il pane:». 7 Baldassarre Castiglione, Il Cortegiano, Venezia, Aldo, 1528 (prima edizione).

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non mi contento del Cortegiano, s’egli non è ancor musico, e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro,8 non sa di varii instrumenti».9 Che la «Donna di Palazzo» dovesse avere la stessa preparazione musicale risulta da un altro passo: «e però... non vorrei vederla usar... nel cantar o sonar quelle diminuzioni forti e replicate, che mostrano più arte che dolcezza, medesimamente gl’instrumenti di musica che ella usa (secondo me) debbono esser conformi a questa intenzione».10 Il livello di difficoltà musicale che la gente di corte sembrerebbe essere stata abitualmente in grado di superare parrebbe corrispondere almeno a quello del madrigale «Lasciare il velo» di Francesco de Layolle,11 usato come esempio didattico dal Maffei nella sua lettera sul canto della quale si parlerà ancora e che, stante il tono della lettera stessa, sembra rispondere ad un’esplicita richiesta di insegnamento da parte, appunto, di un dilettante: il Conte d’Altavilla.

una variabilità continua come ella fa per l’altezza del corpo o il colore dei capelli; il che non toglie che i compositori siano sempre stati costretti a scrivere parti vocali basse ed acute, la cui tessitura è determinata dalle leggi dell’armonia ed alla quale chi non è dotato di estensione di voce corrispondente deve adattarsi declassandosi un po’ verso il basso o verso l’acuto. Nessun autore dell’epoca di Monteverdi, a mia conoscenza, parla di modi di canto diversi a seconda della classe vocale; anzi, quando Adriano Banchieri parla delle quattro voci del «perfetto conserto musicale», che chiama «Soprana, Alta, Corista & Bassa», egli osserva che la variabilità dei comportamenti fonatori delle quattro classi vocali è uguale per ognuna di esse: «il Cantore che possiede l’una di queste, in tre condicioni la possiede, cioè voce di testa, voce di petto & voce obtusa»12 e lo spiega con un discorso che, tradotto nel gergo vocale d’oggi, significa: il cantore, qualunque sia la sua classe vocale, può essere capace di giungere al registro di testa senza incontrare la difficoltà del «passaggio», può aver voce limitata al registro di petto oppure stentare a cantare anche in questo. Senza parlare delle diverse classi vocali, diciotto anni prima Lodovico Zacconi si era posto il problema «Di qual sorte di voci si debbe far elletione per far buona Musica»13 e ne aveva riferito dicendo che «senza che nisciuno mai habbia saputo

Tipi di voce Prendere come riferimento per la vocalità colta in generale quella attuale può indurre in inganno. E’ bene tener presente che le classi vocali dell’opera lirica e in particolare i loro specifici modi di canto non si sono formati tanto o soltanto in base ad esigenze compositive, ma anche e soprattutto a quelle commerciali dello spettacolo: disponibilità per l’impresario di cantanti famosi, commissione ai musicisti di melodrammi su misura agli stessi, abbinamento delle classi vocali ai ruoli, ecc. In realtà Mamma Natura non ha mai fatto le voci divise in classi o in misure come si fa oggi per i vestiti e le scarpe, ma secondo

��������������������� Adriano Banchieri, Cartella musicale nel canto figurato..., terza edizione, Venezia, Vincenti, 1614, p. 146: «Quattro voci differenti ricercansi al perfetto Conserto Musicale, & queste sono Soprana, Alta, Corista & Bassa, il Cantore che possiede l'una di queste, in tre condicioni la possiede, cioè voce di testa, voce di petto & voce obtusa; quello che dalla natura viene dotato della prima, è Cantore perfettissimo; quello che ha voce di petto è Cantore perfetto, & chi tiene in se voce obtusa, è Cantore imperfetto, & prima: voce di testa intendesi quella, che in Soprano, senza incomodo aggiunge ad una distanza di dodeci voci, similmente le altre parti come quì. [Esempi musicali con l’estensione delle quattro voci] Voce di petto intendesi quella che giunge alla distanza di dieci voci, & volendo procedere più sú non puo & rende noia in vederlo & sentirlo, chi possiede vna di queste dui voci (che sia soaue & bene organizata) è dono particolar di Dio; della terza voce obtusa, diremmo sia quella, che in Soprano sembra vna Cattina, in Contr'alto un Ciucho, in Tenore vn Asino, & nel Basso un Bue...»

8 Cioè capace di leggere con sicurezza la musica a prima vista. 9 B. Castiglione, Il Cortegiano, Venezia, Cavalcalovo, 1565, I, p. 98: «La Musica convenirsi al Cortegiano». ������� Id., op. cit., III, p. 274: «Costumi & esercitij del corpo di diverese (sic) donne». ����������������� Pubblicato in: Cinquanta Canzoni a quatro voci di M. Francesco de Layolle… Impresse in Lione per Jacopo Moderno (s.d.). Pubblicato anche (il più delle volte sotto il nome di Layolle) in: Il Primo Libro di madrigali d’Archadelt a quatro voci… In Venetia Apresso Antonio Gardano 1546, e nelle numerose ristampe di quest’opera fino al 1654 (cfr. Vogel).

�������������� L. Zacconi, op. cit., c. 77r.

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l’intention mia sono andato ricercando i diuersi pareri altrui sopra le voci humane, allora che cantandosi di Musica le voci sogliono più dilettare & piacere: & infatti ho trouato ch’à chi né piace vna forte, & à chi un’altra: Ma in fra tanti diuersi pareri, (osseruando) ho trovato, che tra le uoci di testa & quelle di petto, quelle di petto sono le migliore per commun parere». Egli parla di «voci di testa», «voci di petto» e «voci obtuse»14 per indicare le diverse capacità vocali che, come abbiamo visto, saranno descritte più tardi anche dal Banchieri. Il suo discorso è però interessante perché egli entra nella questione timbrica dello smalto vocale che egli chiama «frangente acuto & penetrativo»15. Traducendo in termini fonetici quanto egli dice, mi par di capire che le voci troppo smaltate come sono quelle «di testa» non fossero molto apprezzate e che invece la preferenza andasse a quelle dal timbro più equilibrato, cioè quelle «di petto», il cui timbro tende a quello della voce parlata e nelle quali possono esprimersi tanto la parola e gli affetti quanto la bellezza della voce del cantore, non esclusa una giusta dose di smalto.

di quando ero ragazzo – cioè di ben più di mezzo secolo fa – e di trovarvi un tenorino solista che cantava con una splendida voce naturale, certamente affinata da uno studio sapiente ma dalla quale erano assenti gli artifici delle tecniche operistiche. A parte ovviamente la pronuncia perché cantava in russo e a parte lo stile perché cantava in un coro militare, avrebbe potuto essere uno splendido cantore da cappella. Il timbro corale è, ovviamente, la somma dei timbri vocali dei coristi che lo compongono. Dato che la formazione dei cantanti professionisti attuali è nella maggior parte dei casi quella del cantante d’opera, anche il timbro corale della Cappella Sistina dei tempi antecedenti a quelli del Concilio Vaticano II rassomigliava alquanto a quello di un coro lirico. Siamo quindi costretti a lavorare di immaginazione sulla base della nostra esperienza corale e prendendo come modello mentale voci come, per esempio, quelle del coro dell’Armata Rossa, fare mentalmente la tara alla pronuncia ed immaginare un coro di questo tipo vocale ridotto alle dimensioni di quello della Cappella Sistina.

Se noi dovessimo pensare ad una voce d’oggi che corrisponda a quanto ho detto finora, quale esempio potremmo trovare? Mi è capitato recentemente di riascoltare un disco del Coro dell’Armata Rossa16

I castrati Il 27 settembre 1589 con la bolla «Cum pro nostro pastorali munere» Sisto V autorizza formalmente la presenza di castrati nella Cappella Giulia. Il fatto che interessa in questa sede è che questo tipo di voce con il suo timbro caratteristico entra a far parte anche ufficialmente dello strumentario vocale dell’epoca. Di solito quando si vuole dare oggi un’idea del timbro dei castrati si fa riferimento alle registrazioni di Alessandro Moreschi del quale esiste oggi in commercio un CD con tutte le diciotto registrazioni da lui effettuate tra il 1902 e il 1904; registrazioni alcune delle quali si possono ascoltare anche su YouTube. Posso garantire che non è attendibile perché io posseggo una registrazione fatta direttamente da un disco originale dell’epoca – «’Domine, Domine’ del Maestro Aldega» – nel quale il timbro del cantante

14  L. Zacconi, op. cit., c. 77v.: «L’ultime che sono le meramente obtuse, sono quelle voci che per ordinario si sogliano chiamar mute, le quali fra l’altre per gagliarde che siano (che alfin possano essere) non si sentano mai, ma sono tanto quanto che se non vi fossero». �������������� L. Zacconi, op. cit., c. 77r.: «Quelle uoci che sono meramente di testa sono quelle che escano con un frangente acuto & penetrativo senza punto di fatica del producente: le quali per l’acutezza loro percuotano si gagliardamente l’orecchie nostre, che se bene ci sono delle altre voce maggiori & più gagliarde; sempre quelle appariscano all’altre superiore». ����� Il Coro dell’Armata Rossa, che dopo il collasso dell’URSS ha cambiato denominazione ed è chiamato Coro dell'Esercito Russo o Complesso Aleksandrov, fu creato dal Club Centrale dell'Esercito a Mosca nel 1928. Era ed è composto da sole voci maschili, un’orchestra e un corpo di danza. Il suo repertorio ha sempre compreso canti popolari e canti patriottico-militari russi. Ora comprende anche inni ecclesiastici ortodossi.

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è completamente diverso da quello che si sente dal CD moderno: per ripulire, cioè, dal fruscio il suono dei dischi originali sono state tagliate brutalmente le frequenze opportune, motivo per cui la voce di Alessandro Moreschi nelle due versioni della stessa registrazione risulta irriconoscibile.

richiede un discorso più complesso. Incominciamo con l’articolazione. Le rappresentazioni di cantori in atto di cantare non sono evidentemente istantanee fotografiche, ma costituiscono l’immagine ideale del cantore, quale si è costituita nella mente dell’artista grazie alle sue osservazioni dal vivo. Il modo di atteggiare la bocca costituisce la componente più evidente dell’articolazione. Quando devo dare un’idea del comportamento articolatorio ottimale per l’emissione di una bella voce naturale io uso l’immagine del cantore posto al centro del gruppo rappresentato da Luca della Robbia in una delle formelle della Cantoria del Duomo di Firenze.17

E’ ancora vivo, invece, Little Gimmy Scott (1925), cantante jazz affetto dalla sindrome di Kalmann. La sindrome di Kalmann è una sindrome rara, che può colpire individui dei due sessi e in conseguenza della quale non sono prodotti a sufficienza gli ormoni responsabili della crescita, motivo per cui le persone che ne sono affette rimangono di bassa statura, non hanno sviluppo sessuale e mancano del senso dell’olfatto. Il mancato sviluppo sessuale ha conseguenze anche sulla voce. Nel caso degli uomini, dato che non avviene la muta, la voce ha la tessitura di quella femminile ma un timbro caratteristico che è ragionevole pensare che corrisponda a quello dei castrati artificiali come Alessandro Moreschi, la voce dei quali non era diventata virile in quanto castrati appunto prima dello sviluppo sessuale. A parte il fatto che Jimmy Scott ha una ricca discografia facilmente acquistabile, su YouTube si trovano parecchie sue registrazioni e se teniamo conto del fatto che sta facendo del jazz, siamo tutti abbastanza esperti di voci per intuire quale sarebbe il suo timbro di voce se cantasse un altro repertorio; un timbro che comunque non ha niente a che fare con quello dei falsettisti con i quali oggi si sostituiscono abitualmente le voci di castrato.

E’ quella che io chiamo «tecnica vocale a bilancio energetico minimo»,18 quella, cioè, con la quale si ottiene una voce musicalmente utile per estensione, potenza ed omogeneità col minor dispendio di energie e che ritengo il comportamento fonatorio di base; comportamento sul quale si potranno poi costruire, a seconda del gusto o delle esigenze, le tecniche vocali desiderate. Per capire il senso di questa affermazione e per prendere coscienza del rapporto pneumo-fonico esistente fra la muscolatura craniale, responsabile

Tecnica vocale Non si può parlare di voce cantata senza fare riferimento alla tecnica con la quale essa è prodotta e quindi del suono vocale a monte del suo impiego musicale. Prendo in esame per prima la tecnica da chiesa per passare poi a parlare della tecnica da camera che, anche se non è sostanzialmente diversa,

���������������������������������������������������������������� La Cantoria è degli anni 1431-1438. L’esame particolareggiato degli atteggiamenti articolatori dei putti rappresentati in questa e nelle altre formelle della Cantoria, stante l’attenta osservazione e fedele riproduzione da parte dello scultore, mostra come forse in nessun altro caso della storia dell’arte la variabilità del comportamento articolatorio in soggetti che pure erano stati selezionati per le loro doti naturali. ����������������������������������������������� Cfr. M. Uberti, «Tecnica vocale naturale» in Acustica musicale e architettonica, p. 518.

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dell’articolazione e quella addominale, responsabile appunto della componente respiratoria addominale, si provi a pronunciare la parola «babbo» tenendosi una mano sull’addome immediatamente sopra il pube; si avvertirà come all’avanzamento del labbro inferiore – e quindi della mandibola – necessario alla pronuncia delle [b] corrisponda la contrazione ed il rientro di quella parte della muscolatura addominale.

E’ una statua in cartapesta di Gaetano Callani (17361809), fatta per essere portata in processione e che rappresenta la Madonna che sale al cielo cantando. Non si conosce la data esatta di quella statua; non si dimentichi, però, che il Callani è contemporaneo di Giovanni Battista Mancini del quale parlerò fra poco. Già soltanto osservando i personaggi delle immagini qui pubblicate, ma ancor più se si esaminano gli altri putti cantori raffigurati nella Cantoria (Internet ci consente di farlo agevolmente) si possono osservare tante varianti di quell’atteggiamento quanti essi sono e, dato che, come già detto, esiste una stretta correlazione fra l’atteggiamento articolatorio e la meccanica respiratoria, con l’esperienza che si può acquisire osservando i comportamenti fonatori si può anche immaginare con buona approssimazione il tipo di emissione di ognuno di essi. L’avanzamento della mandibola come nella pronuncia della [b] si risolve, per quanto riguarda l’emissione del suono, nella trazione in avanti, attraverso una catena di muscoli, ossa e cartilagini, delle corde vocali che sono così scaricate di gran parte del lavoro fonatorio; tale trazione è pure un fattore di modulazione di quello smalto della voce, la «formante del canto» della quale si è già parlato, che ritroveremo più avanti in una citazione dallo Zacconi. Sembrerebbe smentire quanto finora ho detto il personaggio raffigurato nel Cantore appassionato del Giorgione.

L’incisione «Il maestro di canto»19 è stata ripresa da un quadro del Guercino.

Pur con la barba che ne nasconde un po’ la bocca, l’atteggiamento del maestro di canto è lo stesso così come quello dei due allievi a bocca aperta che gli stanno accanto, soprattutto quello con il berretto in testa. Ancora più evidente è questo atteggiamento nella «Madonna in gloria» che si trova nella Cappella Palatina del Duomo di Colorno (Parma).

19  Il maestro di canto, incisione di Richard Dalton tratta da: EightyTwo Prints engraved by Bartolozzi &c from the Original Drawings of Guercino, in the Collection of His Majesty,
John & Josiah Boydell, London, ca. 1800.

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E’ vero che il quadro è del 1507, ma è anche vero che esso rientra nell’arco temporale preso qui in esame. L’atteggiamento articolatorio del Cantore è a bocca socchiusa e non è certo quello di chi canta a gran voce o facendo dell’agilità; se però lo mettiamo in relazione col «cantare dolce e soave» della citata lettera a Teofilo Fusco di Camillo Maffei, stante anche l’atteggiamento del cantore il conto torna e ci fa intravedere la variabilità dei modi di canto – e quindi del suono vocale – in una società così impregnata di cultura come fu quella del rinascimento italiano, della quale Monteverdi faceva ancora parte.20

mente l’attitudine e l’abitudine all’osservazione ed ha appunto osservato che il buon cantante pronuncia tutte le vocali articolandole con l’apice della lingua appoggiato agli incisivi inferiori e prescrive questo atteggiamento come sesta «regola». Per spiegare la correttezza della prescrizione ci sarebbe da fare un piccolo trattato di fonetica articolatoria. Qui mi limito ad osservare che ancora Gianbattista Mancini – e stiamo facendo un salto in avanti di più di duecento anni – dirà che: «ogni cantante deve situar la sua bocca come suol situarla quando naturalmente sorride, cioè in modo che i denti di sopra siano perpendicolarmente e mediocremente distaccati da quelli di sotto»23. Il Mancini, cioè, ci dà anche la misura dell’avanzamento della mandibola e se si osservano le immagini che ho citato – ma potrei citarne altre – si constata che la sua prescrizione e le rappresentazioni iconografiche corrispondono. Data la continuità dell’atteggiamento articolatorio che appare nelle diverse immagini mi pare ragionevole accettare la sua descrizione come valida anche per quelle dei secoli precedenti.

Camillo Maffei, medico, filosofo e musicista, nella sua lettera sul canto,21 già annunciata nel titolo del libro nel quale si trova la lettera a Teofilo Fusco, enuncia un decalogo del canto e dice: «la sesta [regola] è che il cantore distenda la lingua di modo che la punta arrivi e tochi le radici de’ denti di sotto». Il senso biomeccanico di questa «regola» è il seguente: quando il sostegno dei muscoli addominali non è sufficiente i visceri ricadono per gravità trascinando indietro e in basso anche la base della lingua e la laringe, motivo per cui le corde vocali assumono un comportamento fonatorio vicino a quello del grido e sono costrette a farsi carico di tutto il lavoro muscolare necessario ad emettere la voce. Maffei, naturalmente, queste cose non le sa ancora; è un medico, conosce bene l’anatomia – anche se all’epoca la conoscenza di questa materia da parte di un medico era ancora considerata titolo di merito, ma non indispensabile alla sua professione – e per descrivere la laringe pare avvalersi delle parole del trattato del Vesalio.22 Ha evidente-

La lettera del Maffei introduce anche l’argomento della respirazione. Egli dice che «buono anco rimedio a far buona voce è il tenere una piastra di piombo nel stomacho si come anche il medesimo Nerone facea». Se proviamo a metterci supini con, per esempio, un vocabolario appoggiato sullo stomaco e ci sforziamo di prendere coscienza della nostra respirazione quidem hoc asperae arteriae [= trachea] (…) primum tribus constituitur cartilaginibus, quarum prima maxima amplissimaque & anterior est, foris quidem gibba, intus autem sima, scuto quodammodo similis, non rotundo, sed praelongo, quali veteres in praelijs usos,& Turcarum aliquot adhuc, in navibus praesertim, uti cernimus. C. Maffei: «Il capo de la canna [= trachea] è composto di tre cartilaggini, delle quali la più grande à guisa di scudo à noi si mostra: et è quel nodo, che nella gola di ciascun'huomo si vede, la qual'essendo fatta per difesa di quello luogo cosi dura, e simile allo scudo, si fa chiamare scudiforme». Diversa fra i due è la relazione stabilita fra il nome e la causa di questo.

���������������������� L’abbigliamento del Cantore è quello di un popolano e non di un “cortegiano”, ma la classe sociale del personaggio raffigurato è fatto indipendente dal suo atteggiamento nel canto. ������������� C. Maffei, op. cit., lettera «All’Illustrissimo Signor Conte d’Alta Villa», p. 34. La lettera è pubblicata anche all’indirizzo: http://www. maurouberti.it/vocalita/maffei/lettera.html dove è possibile ascoltare la sintesi elettronica degli esempi musicali in essa compresi.

����������������������������� Giovanni Battista Mancini, Riflessioni pratiche sul canto figurato..., Terza edizione, Milano, Galeazza, 1777 p. 65. La prima edizione era apparsa a Vienna col titolo: Pensieri e riflessioni pratiche sopra il canto figurato nel 1774.

������������������ Andrea Vesalio, Andreae Vesalii bruxellensis, scholae medicorum Patavinae professoris, de Humani corporis fabrica Libri septem, Basilea, ex officina Ioannis Oporini, 1543, p. 153. A. Vesalio: «Ac caput

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scopriamo che il lavoro necessario a sollevare il vocabolario ci costringe ad una respirazione addominale. Girolamo Mercuriale, il fondatore della medicina sportiva, nel suo De arte gymnastica24 per parte sua si rifà a certe statuette bronzee di proprietà del Duca di Ferrara, rappresentanti atleti con il torso avvolto da fasce costrittive. La cosa sembrerebbe strana se nei moderni trattati di fisioterapia toraco-polmonare non si insegnasse l’uso di fasce costrittive per sviluppare la respirazione addominale.25 Negli stessi tempi il più esplicito nel mettere in relazione la muscolatura addominale con la voce è Gabriele Falloppio il quale dice che: «al grido, poi, ed alla voce potente concorrono i muscoli dell’addome».26 Di trattatisti musicali che facciano almeno accenno alla respirazione nel canto conosco soltanto l’inesauribile Zacconi il quale al capitolo «Che stile si tenghi nel far di gorgia, & dell’vso de i moderni passaggi»27 dice: «Due cose si ricercano à chi vuol far questa professione petto, & gola; petto per poter vna simil quantità, & vn tanto numero di figure à giusto termine condurre; gola poi per poterle agevolmente somministrare: perche molti non hauendo ne petto ne fiancho, in quattro ouer sei figure conuengano i suoi disegni interrompere». La frase sarebbe un concentrato di fisiologia fonatoria da sviscerare e pertanto io mi limito ad osservare quel «fiancho» che, stante la mia esperienza di maestro di canto, corrisponde alla sensazione di lavoro

che provano i cantori dotati di buona voce naturale; voce che è anche frutto di una respirazione combinata la cui componente principale è quella addominale. E’ chiaro che nessuno di questi documenti da solo potrebbe essere considerato una prova, ma se li mettiamo assieme considerando che la citata respirazione combinata è quella considerata più fisiologica dalla medicina e che, come detto, le buone voci naturali ne sono dotate per natura, possiamo dedurre che all’epoca di Monteverdi si avesse una qualche consapevolezza del fatto e che essa fosse considerata la migliore. Gli effetti sul suono vocale li possiamo sperimentare anche oggi: questo tipo di respirazione, esonerando le corde vocali dalla parte del lavoro di contrazione attiva che non sia quella necessaria all’intonazione, contribuisce a dare al suono potenza, smalto e contemporaneamente morbidezza. A conclusione di questa disamina mi pare opportuno presentare qui alcune foto di cantori odierni, scaricate da YouTube, i cui atteggiamenti articolatori, certamente naturali, richiamano soprattutto quello dei putti cantori di Luca della Robbia.

����������������������� Girolamo Mercuriale, Artis gymnasticae apud antiquos celeberrimae, nostris temporibus ignoratae, libri sex, Venezia, Giunta, 1601, p. 155. ���������������� Mauro Uberti, «Dell'esercizio della voce, e prima della vociferazione e del canto», «Hieronimus Mercurialis Forlivensis» - Colloquio in omaggio al primo medico dello sport - Olimpiadi Invernali 2006, Università di Torino - Dipartimento di Biologia Animale e dell'Uomo, Torino, 26-28 gennaio 2006. http://www. maurouberti.it/mercuriale/mercuriale.html ������������������������������������������������������������� Gabriele Falloppio (1523 ca. – 1562), citato da Bernardino Ramazzini da Carpi, in De morbis artificum diatriba, Pavia, Conzatti, 1718, p. 295: «Id potissimum in Cantoribus, & et Monachis observavit Fallopius noster: Cantores, ait ille, qui gravem vocem faciunt, Bassum vulgo vocant, necnon cucullati isti Monachi sunt ut plurimum herniosi, nam continuo clamitant, ad clamorem autem, & magnam vocem concurrunt musculi abdominis». Prima edizione: Modena, Capponi, 1700.

Cantore del Coro dell’Armata Rossa

�������������� L. Zacconi, op. cit., I, c. 58v.

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pella Dogale di San Marco, dove si faceva maggior scialo, il numero dei cantori era di «trenta et più», ma se si tiene presente il fatto che le cantorie di San Marco sono due e che Andrea e Giovanni Gabrieli, per esempio, compongono sovente a due cori, si ritorna a quindici o sedici cantori per coro. Non solo, ma si scopre anche che quei signori avevano già inventato la stereofonia; il solo fatto, cioè, di collocare frontalmente due cori che si rispondevano dai due lati della navata dava luogo ad un effetto acustico che anticipava quello dei due diffusori dei nostri impianti ad alta fedeltà. Se poi si tiene conto del fatto che Giovanni in particolare arriva a comporre per quattro cori31 – cori che con la suddivisione dell’insieme dei cantori si riducevano in realtà alle dimensioni di gruppi madrigalistici, verosimilmente distribuiti nei matronei che circondano l’interno di San Marco – gli ascoltatori erano attorniati da suoni provenienti da punti diversi; il che anticipava anche la pratica diffusasi nella musica d’avanguardia del secolo scorso, di distribuire i suonatori ai margini della sala, tutto attorno agli ascoltatori.

Joan Baez28

Quale fosse lo sforzo per ognuno di questi cantori ce lo dice il Mercuriale già citato: egli infatti osserva che i trombettieri, i cantori e i sacerdoti del suo tempo sono categorie professionali soggette all’ernia.32 Quanto cantavano dunque forte i cantori da cappella? Evidentemente tanto da farsi venire l’ernia. Che le cose non saranno cambiate dopo un secolo lo testimonierà Bernardino Ramazzini da Carpi33,

Des’rée29 I cantori da chiesa dovevano cantare in ambienti grandi come appunto quelli delle chiese e sappiamo che erano scelti per la qualità e la potenza delle loro voci; di questa, soprattutto, perché costava meno pagare pochi cantori che cantassero forte piuttosto che molti cantori che cantassero piano. Ecco quindi la spiegazione del numero ridotto di cantori – da 13 fino a 19 – della Cappella Giulia che ai tempi del Palestrina cantavano in San Pietro.30 Alla Cap-

89, pubblicati da Giancarlo Rostirolla nel suo studio La Cappella Giulia in San Pietro negli anni palestriniani (Atti del Convegno di studi palestriniani - 1975, Palestrina, 1977, pp. 172-202) appare che in quegli anni il numero dei cantori era variato fra un minimo di 13 ed un massimo di 19. ����� In Buccinate in neomenia tuba (Symphoniae Sacrae, 1615) si trovano quattro cori, dei quali tre a cinque voci ed uno a quattro.

�� ������������������������ Joan Baez, all'anagrafe ����������������������� Joan Chandos Baez (New �������� York, 9 gennaio 1941), è una cantante statunitense di musica folk.

����������������� G. Mercuriale, op. cit., III, «De Vociferatione, & risu». Cap. VII.

������������������������������������������ Des'ree, nome d'arte di Desirée Annette Weeks ����������������� (Barbados, 30 novembre 1968), è una cantautrice britannica di origine barbadiana.

����������������������������������������������������������� Il medico e trattatista Bernardino Ramazzini (1633–1714) prese in esame ed analizzò le condizioni di lavoro e le malattie da esse derivanti di un elevato numero di mestieri. La sua De

������������������������������������������������������������������ Dagli elenchi dei cantori della Cappella Giulia negli anni 1571-

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il fondatore della medicina del lavoro, il quale, rifacendosi ancora all’autorità del Mercuriale e del Falloppio, conferma che «… i maestri di canto, i cantori, … e tutti quegli altri, per i quali il canto e l’esercizio della voce è parte del mestiere… A questi per lo più è solita venire l’ernia».34 La musica da chiesa era quindi cantata prevalentemente a gran voce e sia il timbro che l’espressività dovevano necessariamente avere i caratteri conseguenti. Suscita interrogativi l’affermazione del Ramazzini secondo il quale i castrati non sarebbero stati colpiti dall’ernia (cfr. nota 34). La sola ipotesi di lavoro che mi sentirei di formulare per una ricerca sull’argomento è che centodieci anni dopo la bolla di Sisto V – quindi con la libertà concessa alla pratica della castrazione e la conseguente moltiplicazione del numero dei castrati – si fossero sviluppate una tecnica ed una didattica da teatro, rivolte sia alla potenza della voce che all’agilità e, di conseguenza, ad un corretto uso della cintura muscolare addominale. Non conosco documentazioni dalle quali si possa dedurre che ai tempi di Monteverdi le tecniche e le didattiche vocali fossero differenziate.

taliano perché ha cinque vocali soltanto), dall’abbondanza delle consonanti sonore e dall’accentazione prosodica. È comunque evidente nelle composizioni polifoniche, sia sacre che profane, l’uso timbrico dei fonemi per una sorta di strumentazione vocale. Se si prende in esame una composizione polifonica si osserva che quasi sempre il compositore tende a giocare sul contrasto dei colori delle vocali facendo vocalizzare, per esempio, una vocale chiara come la [e] contro una nota di valore cantata su una vocale scura come la [o] (o viceversa). Il che non toglie che egli sia obbligato a mettere in musica i testi stabiliti dalla liturgia e che se, per esempio, deve comporre un Kyrie le vocali a sua disposizione siano soltanto tre: [i], [e], [o]. Gli va meglio quando deve comporre degli inni perché i loro testi sono opera di signori poeti i quali hanno fatto scelte consapevoli e mirate proprio per quanto riguarda l’aspetto timbrico delle parole e dei ritmi prosodici dei loro testi. Benché cantata a gran voce, la polifonia sacra doveva dunque essere caratterizzata dall’intreccio delle diverse voci messo in evidenza dalla varietà timbrica dei fonemi e dalla prosodia del testo di ognuna.

Fonetica Per incominciare, il timbro generale della vocalità sacra era caratterizzato dalla rotunditas del latino, rotunditas che è data dal timbro delle vocali (non si dimentichi che il latino ha una minore variabilità vocalica dell’i-

Prassi esecutiva L’estetica del suono cambia profondamente a seconda della prassi esecutiva adottata nell’interpretazione delle musiche. La nostra espressività attuale è tesa, sia che si tratti di quella musicale che di quella delle altre arti. Se, per esempio, qui a Roma, si va a vedere in San Pietro i quattro Padri della Chiesa del Bernini posti attorno alla Cattedra di San Pietro si constata che i quattro personaggi sono avvolti in piviali articolati in piegone, pieghe e piegoline le quali formano una gerarchia espressiva di luci ed ombre che è funzione del luogo in cui si trovano e della luce che piove su di essi in modo calcolato. In una pur pregevole raccolta di monografie di scultura che posseggo si vede invece che per fotografarle sono stati collocati di fronte alle statue dei fari e che la luce – l’equivalente visivo

morbis artificum diatriba (Modena, Capponi, 1700) è considerata l'atto fondante della medicina del lavoro. ���������������� B. Ramazzini, op. cit., Pavia, Conzatti, 1718, p. 294: «Nullum xercitii genus reperire est tam salubre, tam innoxium, quod intemperanter adhibitum graves noxas non inferat, quod satis experiuntur Phonasci, Cantores, Oratores Sacri, Monachi, Moniales quoque ob continuam in Templis Psalmodiam, Rabulae forenses, Praecones, Anagnostae, Philosophi in Scholis ad ravim usque disputantes, & quotquot alii, quibus cantus, & vocis exercitatio Artis loco est. Hi ergo, ut plurimum, herniosi fieri solent, si Spadones excipias, quibus execti sunt testes. Ob longam enim, arctatamque aeris expirationem pro cantus modulatione, seu recitatione, musculi abdominis respirationis muneris inservientes, necnon Peritonaeum laxitatem contrahunt, unde Herniae inguinales facili negotio succedunt, non secus ac in Pueris, quibus ob nimiam vociferationem, & ploratum tumores in inguinibus apparent».

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dell’esecuzione sonora – anziché dall’alto, le colpisce frontalmente. Tutta la gerarchia di luci ed ombre che caratterizza le statue nella realtà si è appiattita mentre le pieghe hanno perso il loro significato espressivo e si sono ridotte a generica ornamentazione.

Nell’evoluzione dell’espressione artistica – che è una parte dell’evoluzione culturale dell’espressione – ci sono fenomeni comuni a tutte le arti, la cui maggiore evidenza in alcune può aiutare a riconoscerli in altre. Se ho messo a confronto il movimento dei piviali del Bernini con la linearità di quello del Messina è perché in musica è avvenuto un fenomeno analogo. Chi si sia occupato di prassi esecutiva della musica rinascimentale e barocca capisce perfettamente il senso del parallelismo: mentre l’espressività odierna è caratterizzata dalla tensione della frase musicale, i documenti di prassi esecutiva sia vocale che strumentale ci insegnano che l’espressività dell’epoca rinascimentale e barocca era caratterizzata da una modulazione ritmica e dinamica in qualche modo assimilabile ai contrasti luminosi dei quali ho appena detto e che, con un procedimento psicologico di identificazione – procedimento che per un musicista dovrebbe essere naturale – potrebbe farci da guida. Schematizzando molto ciò che si legge nei trattati, le convenzioni esecutive antiche possono essere riassunte in tre grandi gruppi: 1. la «diminuzione» o pratica di variare le melodie sostituendo più note «minute» a singole note di valore o incisi costituiti da più note di valore; 2. la «messa di voce» o pratica di eseguire le note di valore modulandone la dinamica in crescendo e in diminuendo; 3. la «ineguaglianza» o pratica di dare accenti quantitativi alle sequenze di note di piccolo valore allungando il valore di quella che cade sulla parte forte del movimento – o della suddivisione del movimento – a scapito della seconda che viene invece abbreviata. Chi è abituato a prendere gli insegnamenti alla lettera senza sforzarsi di interpretarli trasforma queste «regole» in un modo di solfeggiare diverso da quello attuale, ma pur sempre solfeggio.

Nel braccio destro dell’ambulacro della Basilica si trova pure il monumento di Francesco Messina a Pio XII, un altro personaggio avvolto nel piviale, che Messina ottenne di rappresentare come vescovo di Roma invece che come pontefice per potergli mettere in testa la mitria al posto del triregno ed ottenere una figura complessivamente conoide. L’intensità dell’espressione è ottenuta questa volta per mezzo della tensione della linea che dalla base del piviale sale fino al vertice della mitria e, mentre nel caso dei Padri della Chiesa l’emozione artistica è ottenuta con la ripetizione dello stimolo visivo, data dall’alternarsi sapiente di luci ed ombre, in quello di Pio XII è ottenuta semplificandolo ed intensificandolo.

In paleoantropologia è procedimento abituale, quando si ha difficoltà ad interpretare reperti di significato oscuro, cercare l’imbeccata in culture primitive attuali, di grado di sviluppo corrispondente. L’ine-

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guaglianza nell’esecuzione delle figure musicali «minute», scritte invece uguali, non doveva essere, mutatis mutandis, un modo espressivo sostanzialmente diverso da quello dello swing jazzistico d’oggi. L’esperienza del jazz, che ha fra i suoi mezzi di espressione la pulsazione ritmica di figure a due a due ineguali chiamata appunto swing – pulsazione che quando viene trascritta dalle improvvisazioni registrate in terzine ed è poi eseguita secondo le convenzioni del solfeggio scolastico diventa insopportabile – dovrebbe fare almeno sospettare che l’ineguaglianza esecutiva di crome scritte uguali, richiesta dai trattati rinascimentali e barocchi non era un altro modo di solfeggiare, ma il mezzo musicale per realizzare gli accenti prosodici della frase musicale. Che queste indicazioni non debbano essere prese alla lettera, ma realizzate secondo il buon senso musicale è dimostrato almeno da un esempio musicale proposto da uno degli autori che le dà: Giulio Caccini; nella prefazione alle Nuove Musiche, infatti, per rappresentare l’accelerazione delle note nel trillo e nel groppo, egli usa valori progressivamente dimezzati ed è evidente che egli non intende dire che il cantore debba passare improvvisamente dal valore della semiminima a quelli della croma, della semicroma e della biscroma, ma che semplicemente quelle note devono essere eseguite in «accelerando». Lo stesso discorso è da fare per le messe di voce prescritte dagli stessi trattati per l’esecuzione delle note di valore; messe di voce la cui esecuzione implicherebbe da parte dell’esecutore almeno la consapevolezza della diversità nella modulazione dell’intensità del suono che distingue, per esempio, un’esclamazione da un sospiro. La varietà ritmica e dinamica data dall’ineguaglianza dei valori nell’esecuzione, dalla messa di voce sulle note di valore e dalle diminuzioni che mettono in evidenza sillabe, parole, incisi o intere frasi musicali, benché ampiamente descritte nei trattati di prassi esecutiva ci lasciano immaginare – ma purtroppo soltanto immaginare – un mondo sonoro che nella pratica odierna,

almeno per quanto mi riguarda, non ho mai avuto il bene di ascoltare. Gli studi sulla prassi esecutiva, che, quando trasferiti nella pratica strumentale fanno scoprire mondi sonori così diversi da quelli insegnati tradizionalmente nei conservatori, per quanto riguarda la pratica vocale dovrebbero essere approfonditi alla luce di quanto si sa oggi dalla fonetica. Soprattutto si dovrebbe tener conto del fatto che nei trattati di prassi strumentale si dice costantemente che compito primo dello strumentista è la «immitatione della voce humana» e che, di conseguenza, ciò che si sente realizzato nell’esecuzione dai suonatori di strumenti antichi musicologicamente preparati dovrebbe costituire l’imbeccata per l’interpretazione delle musiche vocali. Nella maggior parte dei casi, però, i musicisti non hanno mentalità sperimentale, non sono disposti a prendere in esame idee diverse da quelle tradizionali e prima che si possano ascoltare nell’ambito della pratica vocale rinascimentale e barocca almeno tentativi riconducibili a quanto già avviene in quella strumentale passerà certamente del tempo. Musica profana A differenza di quanto accadeva per la musica sacra, affidata esclusivamente a cantori professionisti, nel campo della musica profana è ben documentata l’esistenza di esecutori sia professionisti che dilettanti. Dato che stiamo parlando di estetica del suono ai tempi di Monteverdi è il caso di ricordare che proprio da un suo rapporto al Duca di Mantova su un contralto da assumere35 si deduce che era normale reclutare cantori professionisti in grado di cantare, come in questo caso, sia in una chiesa delle dimensioni della Basilica Palatina di Santa Barbara, sia nelle «camere» di Palazzo Ducale. Ciò non accadeva soltanto a Mantova ed è ben noto, per esempio, che i cantori delle cappelle romane arrotondavano lo stipendio esibendosi nelle residenze private dei cardi ���������������������� Claudio Monteverdi, Lettere, dediche e prefazioni (a cura di D. De' Paoli), Roma, De Santis, 1973, p. 48.

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nali. Il Concerto delle Dame alla corte dei Gonzaga e Giulio Caccini sono forse, invece, gli esempi più noti di cantanti dediti esclusivamente alla musica profana. Mi pare però importante mettere in evidenza qui la categoria dei musicisti dilettanti, che ho già detto da quale classe sociale fosse costituita e la cui cultura umanistica era presumibilmente tale da metterli in grado di apprezzare e restituire nel canto quanto sto per dire.

l’uso di una stessa lettera per significare vocali aperte e chiuse o consonanti sorde e sonore sembrerebbe curarsi soprattutto della comprensibilità; egli però si pone anche il problema di rappresentare la prosodia delle parole dimostrando una consapevolezza completa dell’aspetto fonetico della parola. Un anno dopo Pietro Bembo37 torna ad occuparsi delle lettere e del valore estetico del loro suono prendendole in esame ad una ad una in modo non diverso da quello in cui Berlioz prenderà in esame gli strumenti dell’orchestra nel suo trattato di strumentazione ed orchestrazione.38 Ancora nel 1654 Emanuele Thesauro39, si occuperà della «sonorità» delle vocali esasperando l’analisi timbrica ed espressiva di ognuna ed è evidente che queste date chiudono un arco di tempo nel quale rientra anche quello di Monteverdi. Gli autori citati scrivono da letterati ed è certo che il poeta cammina per altri sentieri; è altrettanto certo, però, che nell’ambiente in cui il poeta dell’epoca vive si ha la consapevolezza del valore sonoro delle parole mentre l’analisi dei testi poetici mostra che egli non ne fa un uso soltanto istintivo. Se, per fare un esempio, si prende in esame l’aspetto timbrico del madrigale di Torquato Tasso «Ecco mormorar l’onde» messo in musica proprio da Monteverdi40 si può osservare che le parole sono musicate non solo in relazione al loro significato, ma anche per quanto il loro suono può esprimere o evocare; in questo caso il mormorio delle onde e lo stormire delle fronde con tutto ciò che poi segue. Tutto ciò comporta che un pubblico

Fonetica Esporre in poche parole tutti i caratteri distintivi della fonetica italiana non è evidentemente possibile. Ricordiamo però almeno quelli che la caratterizzano di più in relazione al suo impiego musicale e cioè la presenza di sette vocali che costituiscono una sorta di iride di colori fonetici fortemente caratterizzati, i quali si prestano a generare contrasti timbrici all’interno delle polifonie. Per quanto riguarda la prosodia ricordiamo poi che i tipi di accento tonico delle parole sono quattro e che gli accenti di frase principali o secondari che corrispondono alle diverse proposizioni del periodo possono essere estremamente vari per posizione ed intensità. Tutto questo dona alla loquela italiana una ricchezza timbrica e ritmica che, vista in prospettiva musicale, equivale in qualche modo a quella del materiale da costruzione in prospettiva architettonica; il musicista ha cioè la possibilità di scegliere i testi da musicare non soltanto per il loro senso, ma anche per il loro suono così come un architetto sceglie il materiale da costruzione non solo per le sue caratteristiche meccaniche, ma anche per quelle estetiche. Che i letterati abbiano coscienza di questo fatto appare dai trattati sull’argomento che emergono ogni tanto. Gian Giorgio Trissino, per esempio, proponendo nel 1524 l’aggiunta di nuove lettere alla lingua italiana36 al fine di disambiguare nella scrittura

���������������� Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, libro secondo, X, Venezia, Tacuino, 1525. ������������������ Hector Berlioz, Grand traité d'instrumentation et d'orchestration modernes: contenant le tableau exact de l'etendue, un appercu du mecanisme et l'etude du timbre et du caractere expressif des divers instrumens, accompagné d'un grand nombre d'exemples en partition, tirés des oeuvres des plus grands maîtres, et de quelques ouvrages inedits de l'auteur: oeuvre 10.me / par H. B., Paris, Schonenberger, 1843. ��������������������� Emanuele Thesauro, Cannocchiale aristotelico, ossia Idea dell'arguta et ingeniosa elocutione che serve a tutta l'Arte oratoria, lapidaria, et simbolica esaminata co’ Principij del divino Aristotele, Torino, Sinibaldo, 1654.

����������������������� Gian Giorgio Trissino, Epistola de le lettere nuovamente aggiunte alla lingua italiana, 1524. (http://hal9000.cisi.unito.it/wf/ BIBLIOTECH/Umanistica/Biblioteca2/Libri-anti1/Librianti/image230.pdf).

���������������������� Claudio Monteverdi, Il Secondo Libro de Madrigali a cinque voci, 1590.

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di esecutori quale era quello dei «cortegiani» poteva almeno tentare di restituirlo nel modo migliore. Di aperte dichiarazioni dell’opportunità, da parte dei cantori professionisti, di rispettare la correttezza della pronunzia dell’italiano io conosco soltanto quella di Pierfrancesco Tosi, più tarda di un secolo rispetto al periodo del quale ci stiamo occupando: «Sappia [il cantore] perfettamente leggere per non aver il rossore di mendicar le parole, e per non incorrere in que’ spropositi, che derivano dalla più vergognosa ignoranza. Oh quanti avrebbono bisogno d’imparar l’Alfabeto! In caso, che il Maestro non sapesse correggere i difetti della pronunzia proccuri di apprender la migliore, poichè la scusa di non esser nato in Toscana non esime chi canta dall’errore d’ignorarla.»41 Queste frasi con quelle che seguono e che qui si omettono lasciano intravvedere ancora agli inizi del XVIII secolo la stessa prevalentemente modesta estrazione sociale – e quindi la modesta cultura di base – dei cantori professionisti «dalla necessità astretti a cantar nelle Chiese ò nelle Capelle», che traspariva già più di un secolo prima dalle parole dello Zacconi più su citate. Il fatto, del resto, che la speranza di garantire ai figli un futuro migliore del loro inducesse i padri a far castrare i figli per introdurli alla professione musicale lascia intuire le condizioni culturali familiari dei cantori almeno nel caso dei castrati.

in cui si trovano applicate, le diminuzioni possono essere classificate approssimativamente in tre categorie: espressive, decorative e virtuosistiche; espressive quando sono rivolte ad accentuare l’espressione degli «affetti», decorative quando sono intese ad abbellire la linea melodica arricchendola, virtuosistiche quando sono usate per mettere in evidenza l’agilità vocale dell’esecutore. A seconda dell’intento col quale sono eseguite, le diminuzioni assumono quindi aspetti timbrici, ritmici e dinamici diversi contribuendo a variare ad ogni esecuzione l’estetica sonora che risulterebbe dall’esecuzione letterale del brano. Espressione degli «affetti» Come è noto, all’epoca di Monteverdi si usava il termine «affetti» per indicare quelli che oggi chiamiamo «sentimenti» od «emozioni». E’ questo uno degli aspetti più importanti e più dimenticati della ricerca musicologica e dell’interpretazione madrigalistica. Non l’aveva dimenticato però Federico Mompellio che nell’articolo «Un certo ordine di procedere che non si può scrivere»42 aveva raccolto una serie di citazioni di autori che vanno dal 1528 al 1592 e che dimostra al di là di ogni dubbio come l’ideale espressivo di tutto il XVI secolo – ideale che non si era certamente spento con l’anno dell’ultima citazione – fosse una teatralità del tipo di quella della Commedia dell’Arte. Anche se degli «scenari» della Commedia dell’Arte l’unico che ci rimanga in qualche modo realizzato non è una commedia teatrale ma l’Amfiparnaso di Horatio Vecchi,43 pur tuttavia i caratteri contrastanti e la vivacità dei suoi dialoghi così come la nascente disciplina della fisiognomia e trattati di mimica come L’arte de’ cenni di Giovanni Bonifacio44 ci fanno intuire l’interesse dell’epoca per l’espressività mimi-

Diminuzioni Una parte importante della «Lettera» del Maffei è dedicata alle diminuzioni e del resto sappiamo quanti altri trattati ci sono rimasti sulla pratica del «diminuire». In questa sede è importante osservare che le diminuzioni non solo contribuivano ad accentuare il carattere «intrecciato» del suono delle composizioni polifoniche, ma che, a seconda dell’uso che ne era fatto, esse ne cambiavano sensibilmente il carattere. E’ il caso di osservare che, sulla base dell’analisi dei testi

������������������������������������������������������������ Federico Mompellio, «Un certo ordine di procedere che non si può scrivere» in Scritti in onore di Luigi Ronga, Milano-Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1973 (http://www.maurouberti.it/ vocalita/mompellio/mompellio.html). ������������������ Horatio Vecchi, L’Amfiparnaso comedia armonica…, Venezia, Gardano, 1597.

41  Pierfrancesco Tosi, Opinioni de’ cantori antichi, e moderni o sieno osservazioni sopra il canto figurato, Bologna, Lelio dalla Volpe, 1723, p. 51.

���������������������� Giovanni Bonifacio, L’arte de’ cenni…, Vicenza, Grossi, 1616.

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ca ed i modi di questa. «Le tragedie e comedie che recitano i Zanni», dei quali parla Vincenzo Galilei,45 non si possono recitare con faccia da giocatore di poker e l’esperienza quotidiana ci insegna quanto la mimica facciale ed il timbro vocale siano strettamente correlati;46 se quindi noi prendiamo in esame un madrigale come «Io non son però morto» di Giaches Wert47 con il suo contrasto timbrico e psicologico fra i versi «Io non son però morto» e «anzi, ritorn’in vita» dell’episodio iniziale e ce lo immaginiamo eseguito adeguatamente sia dal punto di vista fonetico che da quello espressivo, ci facciamo un’idea dell’estrema ricchezza timbrica, dinamica ed agogica del suono che dovrebbe corrispondergli. E’ inoltre il caso di tornare a citare l’agostiniano Lodovico Zacconi che, preoccupato della moralità delle donne, vieta loro la professione di cantatrice e nel farlo ci tramanda involontariamente un bozzetto di vita che rappresenta la funzione anche sociale del canto dei madrigali, il modo in cui essi erano cantati e quindi del suono che poteva risultarne: «Oltra che fuori de canti dedicati à Dio: (che poi non si cantano in altro loco che nelle Chiese) altro omai non si canta che le doglie, le passioni, le pene gl’affanni, & gli martirij che per amor di donna patiscono gli amanti: per il che i Cantori cantandole, si sforzeriano di dirle & mostrarli ch’essi le cantano in suo fauore, quantunque anco non ci hauessero pensiero; & cosi le direbbono sì affettuose, & con sospiri si caldi, che le farebbono di se stesse invaghire, & inuaghite cadder dentro alle rete di chi fosse tra cantori piu auenturato & piu ardito; ò di chi meglio l’hauesse saputo tendere.»48

Suono e cultura Basta che noi ascoltiamo oggi la stessa composizione corale eseguita da cori di nazionalità diversa per capire quanto il suono vocale sia anche un fatto culturale, determinato da un insieme complesso di fattori. Uno di questi è la già citata espressione degli affetti. Per capire la variabilità culturale del modo di esprimere la stessa emozione è utile un esame comparativo di rappresentazioni figurative di uno stesso evento nelle diverse culture esaminandole in senso sia sincronico che diacronico. Una rappresentazione comoda per questa operazione può essere il Compianto sul Cristo morto (ma naturalmente potremmo estendere il campo di osservazione a tutta una serie di episodi evangelici, il cui testo letterario è rimasto immutato nei secoli). Il Compianto sul Cristo morto è un soggetto dell’arte sacra cristiana, divenuto popolare a partire dal XVI secolo e soprattutto nel Rinascimento. In esso viene rappresentato Gesù dopo la sua deposizione dalla croce, circondato da personaggi che ne piangono la morte e una ricerca su Internet ci offre una comoda panoramica di queste rappresentazioni. Dato che la situazione drammatica rappresentata è sempre la stessa, è facile mettere a confronto i diversi modi di esprimerla e, al di là dell’ovvia individualità dell’artista, appare evidente come i suoi modi di esprimersi dipendano in tanta parta dalla cultura alla quale egli appartiene. Per rimanere ai giorni nostri, si pensi alle differenze fra la mimica napoletana e quella inglese. Assumendo queste immagini come note di regia per la rappresentazione del dolore in un brano musicale e come suggerimenti per il «gesto vocale» – il timbro, l’intensità degli accenti, l’ineguaglianza delle note puntate, ecc. – possiamo immaginare almeno le differenze nel suono vocale da una regione o da una nazione all’altra, ma anche, allargando il discorso, da un’epoca all’altra.

�������������������� Vincenzo Galilei, Fronimo Dialogo di V.G. fiorentino [ ... ], Venezia, Girolamo Scotto, 1568, p. 30. Cfr. F. Mompellio, op. cit. ��������������������������������� Mauro Uberti- Oskar Schindler, Contributo alla ricerca di una vocalità monteverdiana: il ‘colore’, in «Claudio Monteverdi e il suo tempo". Congresso Internazionale Monteverdiano - Venezia, Mantova, Cremona: 3-7.5.1968, Scuola di Paleografia Musicale, Cremona, 1968, pp. 519-53.

Nella pagina a fianco: Niccolò dell’Arca: Compianto sul Cristo morto (1463-1490) Chiesa di Santa Maria della Vita, Bologna

���������������� Giaches Wert, Di G. de W. l'ottavo libro de madrigali a cinque voci, Venezia, Angelo Gardano, 1586. �������������������� Lodovico Zacconi, Prattica di musica, Girolamo Polo, Venezia, 1592, I, c. 54r. Ed. anastatica Forni, Bologna, 1967.

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Tecnica vocale A conclusione di quanto finora osservato è possibile fermarsi a meditare sui caratteri specifici della tecnica vocale da camera. Come già detto, salvo la minore entità dell’impegno muscolare, essa non doveva essere sostanzialmente diversa da quella da chiesa. Proprio il già citato rapporto di Monteverdi al Duca di Mantova su un contralto da assumere49 induce a pensare che la tecnica vocale di base, salvo, come detto, un diverso impegno muscolare nelle diverse situazioni, fosse fondamentalmente la stessa. Che poi a seconda della necessità o dell’opportunità sociale si studiasse per cantare in modo diverso lo abbiamo visto leggendo lo Zacconi (cfr. nota 6); il che non toglie che esistessero cantanti professionisti, che oggi chiameremmo specificamente «da camera», così come i già citati Giulio Caccini e le sue figlie o le tre cantatrici del Concerto delle Dame della Corte di Ferrara. La tecnica vocale da camera non richiede la potenza di quella da cappella perché il canto a gran voce in ambienti più ristretti di quello di una chiesa, anche se le sale gentilizie non erano certamente piccole, come appunto dice lo Zacconi avrebbe disturbato. Dalla potenza del suono di strumenti come il liuto o il clavicembalo, pensati per essere usati «nelle camere» come strumenti solisti certamente, ma anche per accompagnare il canto, si può dedurre l’intensità della voce usata in quegli ambienti. Il passo del Banchieri citato, dato il tono scherzoso (cfr. nota 12), si riferiva evidentemente ai limiti di estensione ed alla qualità delle voci dei normali cantori dilettanti, solitamente in possesso di doti vocali normali e di una tecnica meno agguerrita di quella dei cantori professionisti. Se però ci fermiamo ad analizzare le musiche scritte esplicitamente per questi ultimi, stanti le prestazioni vocali richieste dalla scrittura possiamo ricavare le potenzialità tecniche ed espressive della loro voce.

Casi emblematici sono quelli di Giulio Caccini e delle tre dame della corte di Ferrara,50 cantanti dei quali ci rimangono musiche scritte a loro misura e che, se analizzate attraverso le griglie opportune, dicono molto più della straordinaria agilità vocale che ad un primo esame sembrerebbe essere il loro carattere prevalente. Nel caso di Caccini occorrerebbe, per esempio, un’analisi semiologica dei gruppi ritmici da lui impiegati nell’espressione degli affetti e di ciò che essi implicherebbero nell’esecuzione. In quello dei madrigali di Luzzaschi,51 come già detto scritti specificatamente per le tre dame, l’uso delle vocali [i] ed [u] ai limiti inferiore e superiore dell’estensione vocale, uso peraltro contrario ai precetti di tutti i teorici, l’analisi fonetica lascia intravvedere la ricchezza appunto fonetica del suono vocale delle tre cantatrici in tutta l’estensione. Per mettere in evidenza come tutti i documenti di varia natura finora citati convergano nel configurare una tecnica vocale in cui l’agilità, la comprensibilità e l’espressione degli affetti erano portate al massimo delle possibilità bisognerebbe entrare in discorsi di fonetica e di fisiologia fonatoria. E non è questa la sede. Atti da: Convegno sulla Vocalità - ARCL “La Didattica del canto nella storia” in onore di Domenico Cieri Sabato 12 Dicembre 2009 Aula di Musica, Università Sapienza di Roma

(*) Già Docente ai Conservatori di Musica di Pesaro, Parma e Torino; Ricercatore e Direttore di Coro. ��������������������������������������������������������� Laura Peperara (1563-1600), Anna Guarini (1563-1598) e Livia D’Arco (?-?). ���������������������� Luzzasco Luzzaschi, Madrigali di L.L. per cantare et sonare a uno, e doi, e tre soprani…, Roma, Verovio, 1601.

���������������������� Claudio Monteverdi, Lettere, dediche e prefazioni (a cura di D. De' Paoli), Roma, De Santis, 1973, p. 48.

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