Proprio prima che

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Joanne Richoux

PROPRIO PRIMA CHE

Traduzione di Margherita Petrini
I think it’s tough to be alive now. I think societal collapse is in the air. It smells like it.

RESPIRI

Two Feet, Love Is a Bitch

C’è una sirena, più forte delle precedenti. No, non più forte, ma sempre più vicina. Per strada è pieno di camion che corrono a tutta velocità, sono ambulanze o sbirri o l’esercito. La luce dei lampeggianti si riversa nella sua stanza, bagliori blu lambiscono i mobili e poi le foto attaccate con lo scotch sull’intonaco. L’arredamento è di dubbio gusto, tutto in bianco e nero. Nudi artistici, paesaggi invernali, la luna, esplosioni nucleari. Quest’accozzaglia crea un’atmosfera inquietante, la camera è uno scrigno di incubi. Tante frecce arancioni trafiggono i vetri e rimbalzano contro il letto. Noi siamo sopra, stravaccati. Dalle lenzuola, dalla coperta, trasuda un tepore. Quello del suo corpo che dorme qui di notte, che si stiracchia all’alba e suda leggermente, in un’umidità di stoffa e di pelle. La settimana scorsa, quando me ne sono andata da casa sua, ha protestato con voce flebile. Vorrei dormire con te. Ma non conta, la settimana scorsa era in una brutta fase depressiva.

Gli vibra il telefono, risponde.

Cerco di non ascoltare. È maleducazione origliare. Quindi mi guardo le gambe, le unghie, mi concentro sulla musica. Ha fatto partire una playlist, suoni techno e sensuali che qualcuno rallenta con dei software. Mix del genere dovrebbero essere udibili solo dagli insonni che si fumano le paglie alle quattro del mattino. Udibili dalla pioggia, dagli innamorati. Mio malgrado colgo alcuni frammenti della conversazione. Dal tono capisco subito che è sua madre. Quando lo chiama lei, parla con una voce più grave, come se le sillabe emergessero dallo stomaco e pesassero una tonnellata. Sussurra dei “mmh”, degli “ok”. Sposto lo sguardo dalle mie mani alle sue, porta un braccialetto di ossidiana, un anello con sigillo. Ha le dita spigolose, forti, vellutate, fatte per sciogliersi dietro la nuca. E cazzo, quanto si sciolgono: si è scopato quasi tutte le ragazze della classe. Lo so perché siamo insieme dalla seconda media. Non insieme in quel senso, siamo amici. Abbiamo un rapporto “fusionale”, secondo più o meno tutti. È scattato tutto un martedì. Stavo piangendo nel corridoio del terzo piano. Perché piangevo? Boh, i soliti singhiozzi del martedì o del terzo piano. Avevo gli occhi puntati a terra, su quel linoleum verdastro di merda su cui si cammina in milioni di licei tutti uguali. Lui si è piantato davanti a me, mi ha tirata su per il gomito, brividi improvvisi, e ha sussurrato che aveva finito i fazzoletti. Nessuno glielo aveva chiesto. Io no di certo. Mi è sembrato buffo e mi è scappato da ridere, ma mi è colato il naso. Avrei ucciso per un cazzo di fazzoletto. Vicino a noi c’era un cubo rosso sul muro, un pulsante di allarme – per

incendi o attentati, non li distinguo più. Ho teso l’indice verso il bottone e ne è seguito un frastuono angosciante. Come quello che si sente stasera fuori dalla finestra. Le sirene risuonano dappertutto, i vetri vibrano del loro ruggito.

Dev’essere roba per noi, il caos.

Da quell’allarme in poi siamo diventati inseparabili.

Letteralmente: in cortile non lo perdo di vista un attimo, se no si mette a chiacchierare coi piccioni, con la direttrice, con l’asfalto o con le nuvole. È capace di fare amicizia persino al supermercato. Forse questo appetito per gli altri lo distrae dai suoi incubi. Per quanto mi riguarda io preferisco la solitudine. Riflettere al riparo dal rumore. Già un battito di cuore mi disturba.

Ancora al telefono, il mio migliore amico è irrequieto.

Gli pulsa una vena sul collo e ha caldo, molto caldo, il suo odore si diffonde in tutta la stanza. È un profumo delicato, per bambini. Sa di corteccia, di ginocchia sbucciate o di abiti di cotone. È il suo respiro.

“Ah? E la tua macchina?”

Impallidisce, solo le labbra restano rosa, se si guarda bene. E io lo guardo eccome. Fuori suonano i clacson. Tiro giù le maniche che nascondono il mio tatuaggio, un torsolo di mela sul polso. Finalmente riattacca e le lenzuola gridano sotto di noi, sotto il peso dell’angoscia.

“Tutto bene?”

“Sì.”

La sua voce mente, ma non la mascella, che trema.

“Mia madre sta venendo qui.”

“A piedi?”

“Per forza.”

I mezzi a motore sono vietati ai civili fino a venerdì.

Fino a nuovo ordine.

Non voglio mettere il dito nella piaga.

“Ci metterà almeno quaranta minuti.”

“Eh?”

“Tua madre, ci metterà quaranta minuti. Più o meno.”

“Sempre che la situazione non peggiori.”

Con il mento, accenna al cielo fuori dalla finestra.

Indaco, pesante, screziato di stelle.

Una notte dipinta, che strilla.

“Devo andare.”

Sua madre, la odio. Vivono murati in casa, il padre se n’è andato mentre era incinta, non si è mai più fatto vedere, scomparso, silenzio stampa. Lei invece colleziona contratti da impiegata a tempo determinato e, a periodi alterni, frequenta degli “amici”. E soprattutto, si confida con il figlio. Problemi in ufficio, acciacchi, traumi di gioventù, amici con il pisello moscio. C’è da spararsi. Ha un sacco di cose da rimproverargli, tipo che non passa abbastanza tempo con lei o che sembra triste quando lei si sfoga. Quel bastardo di tuo padre ne ha fatti di danni. Sua madre non capisce il nesso tra quello che dice e lo sguardo triste del figlio. Anche tu mi racconti i fatti tuoi. Fantastico, ora sono sullo stesso piano. Magari sì, il mio migliore amico avrà raccontato una cosa o due senza darci troppo peso, ma lei probabilmente le ha recepite, ha dispensato un consiglio di merda, poi gli ha presentato il conto. Io parlerò di tuo padre, ok, ma anche tu mi racconti i fatti tuoi. Sullo stesso pia-

no. Cosa ne penso io? Dal punto di vista emotivo gli adulti sono quasi tutti degli idioti. Purtroppo per noi, sono loro ad averci tenuti nella pancia per nove mesi. Questo gli fa credere che siamo in debito con loro, che li ripagheremo. Loro ci fanno, noi li aggiustiamo. Bella roba. Quale ragazzino saprebbe sostenere un peso del genere? Nessuno. Ma esistono famiglie dove è così, i genitori soffrono e i figli raccolgono i cocci. Perciò, più che figli, sono dei poveri malcapitati messi lì a fare da arbitri o da spugne.

Potresti anche fare lo sforzo di sorridere ogni tanto.

Ecco, il mio migliore amico spugna, cresce consumandosi.

E schiaffa foto strane sulle pareti.

“Devo andare.”

“Sì. O scappiamo tutti e due?”

Con un gesto delicato, cala il cappuccio della felpa sui capelli. La sua felpa troppo vecchia, azzurro spento. Fa movimenti appena accennati, sfumano verso la fine. Questo è il nostro sogno proibito: scappare, io e lui, l’anno prossimo. Ma non succederà mai, non abbiamo un soldo e sua madre morirebbe se lui la lasciasse. È una promessa. Un ricatto. In questo periodo, litigano ventiquattr’ore su ventiquattro per l’università. Dovrà tornare nei week-end, scriverle, telefonarle. Lui può già sentirla. Sei lontano, proprio come tuo padre, tu hai l’opportunità di studiare, io non ho più niente, potresti almeno chiamarmi, spero tanto che avrai buoni risultati, è per questo che hai abbandonato tua madre. Sarà costantemente con lei, persino in aula, perfino agli esami, perfino con me. Anche adesso, lo conosco, ha delle ombre negli occhi.

Certe persone sono tossiche.

Anche se divorassero il sole, non diventerebbero più luminose.

“Dov’è tua madre adesso?”

“In centro. È un bordello.”

Il piumone si increspa sotto i suoi pugni chiusi.

E se… gli accarezzassi il braccio? Il mio migliore amico aggrotta le sopracciglia. Nella sua testa si scontrano due parti, una che ne ha le palle piene della madre e l’altra che ci casca in pieno. Poverina. Lei ne approfitta, ne sono testimone, mangio alla loro tavola cinque sere a settimana. È un po’ dissociata dalla realtà. A sentirla, a volte sembra una martire, altre volte una cattiva madre, e il giorno dopo è il figlio a dimostrarsi insofferente. Sei solo un ingrato. Poi c’è la questione del padre. Quando lei ne parla male, il mio migliore amico deve essere d’accordo, e quando lo dipinge come un eroe, lui deve essere d’accordo lo stesso. Se lui vuole incontrarlo, lei si sente tradita; se riceve un assegno o una cartolina, lei si mette a frignare. E certi giorni, quelli delle litigate, va completamente fuori di testa. Vacci pure da quel bastardo. Le minacce variano a seconda dell’umore, di come le gira, del tempo. Essere così in balia del caso lo distrugge. Anche solo quello, quel disagio, non saper distinguere il vero dal falso, sarebbe un motivo sufficiente per darsi alla fuga.

Ma lui ha un lucchetto al cuore.

“Anche in centro? Un bordello come qui?”

“Peggio.”

“Lei sta bene?”

“No, sta dando di matto.”

“Sei preoccupato?”

“Un casino.”

“Gliel’hai detto?”

“Mmh.”

“E lei cos’ha risposto?”

Sospira lui, sospiro io.

E io allora? E io? È il prezzo da pagare quando lui dice che sta male o che ha paura, perché tutto gira intorno a lei, non importa se è lui ad avere un problema.

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