Le Terre Alte del Friuli Venezia Giulia tra Confini e Frontiere

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TERRE ALTE

TERRE ALTE

del Friuli Venezia Giulia tra Confini e Frontiere

TERRE ALTE - del Friuli Venezia Giulia tra Confini e Frontiere (2022)

Realizzato all’interno del Laboratorio Terre Alte tra Confini e Frontiere Melius S.r.l. Impresa Sociale

Per informazioni: https://linktr.ee/terrealtefvg info@meliusitaly.eu tel. 0433 41943

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte dei testi e delle foto può essere riprodotta o trasmessa, senza il consenso degli autori.

T E RR E A L T E t r a C o n fin i e F r o n t i e r e
Abel Picogna Angela Puppini Silvia Roiatti Lisa Savoia
Zanier
Hanno contribuito: Giuseppe Cascino Annalisa Doriguzzi Breatta Giulio Nascimben
Aura
Laura Zucchiatti Matteo Villotta

Questo lavoro di restituzione è stato predisposto dal Laboratorio Social e Me dia che ha accompagnato l’evolversi del progetto Terre Alte fra Confini e Frontiere ed è da intendersi come una raccolta di spunti, teorici e pratici, forniti da abitanti, reti di comunità, esperti e singoli partecipanti che hanno attivamente partecipato agli eventi ed iniziative, rielaborati e reinterpretati dai giovani animatori del Laboratorio. A volte le fonti sono sta te citate esplicitamente, a volte accennate, altre volte le voci degli abitanti delle cinque località percorrono il testo sotto forma di riferimenti impliciti, ma non per questo meno importanti nel loro prezioso contributo al percorso culminante in quest’opera.

Terre Alte fra Confini e Frontiere è un progetto dell’impresa sociale Melius Srl svoltosi tra luglio e settembre 2022, che si è articolato attraverso lo svolgimento di pas seggiate di stampo antropologico in cinque località montane di confine: Pontebba-Pon tafel (Pontebba), Timau (Paluzza), Topolò (Grimacco), Prossenicco (Taipana) e Stolvizza (Resia). Le passeggiate hanno visto la partecipazione di abitanti e delle associazioni del luogo e di esperti (nelle discipline: antropologia, demografia, storia, economia, sviluppo locale, urbanistica) che hanno raccontato la storia dei luoghi e le sfide che questi devono affrontare al giorno d’oggi in quanto località poste a cavallo tra l’Austria e la Slovenia e in relazione alle dinamiche più generali che investono i territori. Il tema della trasformazione da frontiera (termine che rimanda alla divisione degli spazi) a confine (ciò che resta quan do la frontiera è ormai caduta) è stato il fil rouge che ha permesso di collegare tematica mente le cinque passeggiate e, contemporaneamente, in ognuna delle località ci siamo concentrati su un risvolto della peculiare situazione geopolitica che hanno attraversato e come si trovano ad essere oggi questi luoghi fino a misurarci e riflettere sulle questioni e tematiche emerse nel corso dell’esperienza.

Lungi dal voler essere considerato la fine di tale percorso il Fotolibro, in real tà, vuole essere un punto di partenza per la realizzazione di un’impresa tanto complessa quanto necessaria: creare, anzitutto, una nuova narrazione della montagna che sia ispi rata al concetto di speranza, alle possibilità e ai principi del bello, contro i toni impregnati di rassegnazione e pessimismo ricorrenti in molti discorsi sul presente e futuro delle aree interne e delle Terre Alte. Condividiamo con Moreno Baccichet l’idea secondo cui una nar razione a tinte fosche delle aree montane produca come risultato principale la stagnazio ne della condivisione di pensieri e progetti, un fatalismo rassegnato che nel nostro secolo sembra dominare la scena politica e sociale in relazione alle questioni più disparate, dalla crisi climatica alle questioni economiche, alla discussione sulle possibilità di innovazione sociale in montagna. Con la speranza che il progetto Terre Alte fra Confini e Frontiere abbia contribuito a smuovere le acque, a creare relazioni e connessioni e a condividere pensieri generativi, vi invitiamo a sfogliare questo volume cercando di porre attenzione alle buone pratiche, alle esperienze di successo che si stanno radicando, ai possibili svi luppi che l’impegno e la creatività possono determinare più che ai problemi e, in definitiva, a predisporre la mente al cambiamento e alla creazione di nuove prospettive.

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“Parlare delle Terre Alte significa affrontare temi di marginalità e diseguaglianze tra territori e genti. Credo molto nel recupero della coscienza dei luoghi, dei legami di comunità, nella valorizzazione della sfera ambientale. Credo che il modo migliore per ragionare sia davvero quello di connettere i giovani con gli abitanti di questi luoghi, e altresì creare un legame tra la conoscenza locale e la cultura metropolitana. Per questo le giovani generazioni devono essere sempre coinvolte per attivare innovazioni sociali e tecnologie al servizio di nuove opportunità di vita e di lavoro in queste aree”.

Marina Pittini (Presidente della Fondazione Pietro Pittini)

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Condivisione, cultura, comunità. Come dice Mauro Varotto nel suo libro Monta gne di Mezzo, “quella ricevuta in eredità dal Novecento è una montagna disabitata che va oltre la misura statistica del calo di residenti”, e i tre elementi prima elencati rappresenta no allo stesso tempo sia dei pezzi persi lungo il percorso, sia dei fondamenti da recuperare per poi ripartire.

Durante le cinque tappe di Terre Alte, i locali ci hanno raccontato che abitare in un’area marginale, poi, è una questione di cuore, di dedizione, di cura. Che è necessa rio cercare di trasmettere delle passioni, di dare la possibilità a chi arriverà un domani di rimanere ancorato a un territorio che senta suo e che sia amato perché, in fin dei conti, il fulcro di tutto è l’amore per qualcosa, che sia un territorio, una persona, un mestiere o uno stile di vita. Dobbiamo fare in modo di rendere disponibile alle future generazioni di abitanti quella passione per l’identità di confine che molti prima di loro purtroppo si sono visti negare a causa di guerre e politiche discriminatorie. È giunto il momento di creare un motore che possa far sì che ci sia sempre una massa operosa per gestire la ripresa dei territori e gli eventuali imprevisti. Più che ripopolare numericamente un territorio bisogna più che mai tentare di ricostruire una comunità che lo viva. Prima di pensare a fare nuovi bambini dobbiamo ripensare a come relazionarci con i nostri vicini, che siano della porta accanto oppure oltreconfine, perché le terre alte, appunto, sono una scelta di vita e quan do una persona decide di insediarsi nascono dei bisogni che non sono esclusivi di un nu cleo familiare o di un singolo progetto, ma vere e proprie esigenze collettive. Immaginare un proprio progetto di vita sul limes diventa un far parte di un luogo, diventa per forza di cose un trovarsi a dialogare con persone diverse.

Così come i confini, le comunità devono rimanere aperte poiché coloro che ar rivano, siano ospiti o futuri residenti, sono portatori di reti di conoscenze, esperienze nuo ve e prospettive diverse. Sono soggetti che tra virgolette vanno sfruttati per capire cosa possano dare in più alla nostra realtà, per aiutarci a trovare dei meccanismi di mutuo aiuto tra chi sta dentro e fuori dalle valli e tentare di costruire e progettare una nuova idea di futuro per i territori alpini. Come insegna la lunga storia della Stazione di Topolò, la colla borazione con altre realtà aventi identità plurime da valorizzare e consegnare alle giovani generazioni garantisce un valore aggiunto. La cultura di confine va intesa non come quel la di divisione o di barriera, ma come quella di volontà di conoscenza: essere in grado di scoprire/conoscere/condividere con ciò che sta dall’altra parte, seguendo le orme di quel che facevano i cramars e gli arrotini in un passato nemmeno così remoto. Perché dopo l’acqua, il bosco e l’allevamento, il quarto pilastro dell’economia montana è proprio quella cultura. Poiché è questa, infine, la vera risorsa delle terre alte. Una risorsa che è il capitale umano, una ricchezza potenzialmente inesauribile, un valore che prescinde dall’economia del profitto, che arricchisce senza sfruttare e senza consumare. Uno scambio di relazio ni che arricchiscono il tessuto sociale e che deve portarci a considerare come priorità le persone e il loro vissuto.

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Bruno Mongiat (Guida di Carnia Greeters)

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“Quandosisudaassiemealloraildolore tendeasparire.Inmontagnaesistesolo lasecondapersonasingolare.Oppure, ancorameglio,laprimaplurale.”
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Le economie delle Terre Alte di confine sono particolari, non sono quelle di gran de scala come nelle città e nemmeno quelle di una qualsiasi area di montagna: sono quelle di un territorio di mezzo, non una linea, ma uno spazio entro il quale le persone hanno delle relazioni, fanno dei lunghi viaggi e ritornano. Sono economie che si sviluppano a partire da sperimentazioni, laboratori dove si può provare qualcosa di nuovo e diverso, dove si pos sono infrangere le regole, puntando sull’innovazione e non solo sulla tradizione. Il prodotto che ne risulta, un progetto, un’idea o un pensiero, non dev’essere applaudito unicamente perché sorge dove prima non c’era nulla, ma perchè ha origine da valori concreti: la cura per il territorio, l’importanza delle relazioni, la volontà di dare forma ai desideri. In questi territori, infatti, non cresce di tutto, sotto tutti i punti di vista. “Fagioli, patate, mele… Tutto quello che trovo, io lo metto nel mio orto. Quello che cresce, vuole dire che ama questa terra. Quello che non cresce, vuole dire che questa terra non è buona per lei” ci racconta Maria Gilda Primosig; lo stesso vale per i settori di sviluppo.

L’economia alpina si è tradizionalmente basata principalmente su tre risorse: l’acqua, il bosco e l’allevamento. L’agricoltura di montagna è uno dei motori dell’economia verde delle Alpi: è in grado di promuovere il territorio e di migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti garantendo al contempo la salvaguardia dell’ambiente, soprattutto quando le aziende agricole che vi si sono installate seguono pratiche biologiche come nel caso di Platischis nel comune di Taipana, dove le giovani arrivate da fuori per dedicarsi alla terra hanno deciso di sposare questa filosofia aziendale per valorizzare i propri prodotti. Gli imprenditori locali devono sì avere capacità e visioni imprenditoriali, ma affinché un’idea funzioni deve basarsi sulle risorse del territorio, sui beni comuni, mettendoli a sistema con le conoscenze tacite della comunità. Ricordare i valori e trasformarli in opportunità e risorse per lo sviluppo è l’obiettivo, ad esempio, di Prossenicco e dei Riders Brothers Crew, un gruppo di giovani che sostenuti dall’amministrazione comunale hanno affrontato la frammentazione delle proprietà boschive, fatto proprie competenze della comunità locale come quella della manutenzione dei sentieri e della cura della natura e attrezzato i sentie ri della zona adattandoli alle esigenze di bikers e appassionati.

La cultura di confine richiede allo stesso tempo una responsabilità: quella di connettere assieme ad altri questa cultura, non soltanto per fare massa critica, ma anche perché ci dà la possibilità di avere uno strumento più ampio, più radicato, più esteso. Ne sono degli esempi le iniziative intraprese dalla Scuola di lingue e dall’Associazione Zavod delle Valli del Natisone che fanno perno sul valore della cultura e identità locale per col mare il vuoto dei servizi pubblici, come spesso accade nei territori dimenticati e lasciati indietro dallo Stato.

Quando si parla di montagna spesso si parla di fare qualcosa per gli anziani, quindi si è già deciso che la montagna è solo una cosa per anziani, non c’è una politica per i giovani nella montagna, un problema che deriva in primis dalla distribuzione territoriale della popolazione all’interno del Paese. Ci sono aree interne che si spopolano, nelle quali

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è difficile erogare servizi ai cittadini poiché molto costosi se rapportati ai pochi fruito ri, mentre al contempo esistono le grandi città, aree molto congestionate in cui è altret tanto difficile fornire servizi ai cittadini per via della forte pressione antropica. Abbiamo un problema di riequilibrio tra congestionamento e decongestionamento. Fondi pubblici e investimenti privati si concentrano prevalentemente sulle aree cittadine, mentre per il resto del paese si attivano le politiche di compensazione e le deroghe alle leggi regionali ma come dice Filippo Tantillo “se fai una deroga per il 60% del territorio, allora, c’è qual cosa che non funziona”. In Francia, queste aree sono chiamate terres oubliées, territori dimenticati, dimenticati dalla politica, ma anche dal mercato. Ed è molto difficile portare e pensare a un mercato come quello cittadino in queste aree. L’economia delle città oggi è fatta di economie di scala, grandi numeri. Qui non ci sono i grandi numeri, però c’è da sviluppare. Fino ad oggi non ci si è creduto abbastanza, ma stare al margine, come testi moniato dalla realtà architettonica di Topolò, tutto sommato, può rivelarsi un vantaggio. Alcuni territori sono in ritardo nello sviluppo, ma ragionare sulla ricostruzione, sul riscatto di territori marginali caricandoli di significati nuovi è molto più facile, paradossalmente, che in determinate realtà dove si tratterebbe di rifare e ridefinire tutto da zero.

Stanno sorgendo dei nuovi mestieri, nuovi metodi narrativi. “Perché ancorarsi alla concezione delle risorse, del bosco e dei lavori che vi erano in passato? Perchè inve ce non immaginare lo sviluppo futuro delle terre alte di confine in un tipo di manodopera cerebrale oltre che di quella, nota, fisica?” ci suggerisce Michele Kovatsch. Alcune figure possono avere un ruolo nel garantire la parte produttiva della foresta, mentre altre pro venienti da contesti diversi possono portare competenze in ambito digitale innovativo, permettendo così altre forme di lavoro meno tangibili . A questo concetto, si abbina la riflessione di Vida Rucli “è un po’ da distruggere questo mito della fatica, vista spesso solo come lavoro nel bosco, la fatica fisica vera. La parola fatica mi viene quasi da sostituirla con la parola ‘cura’”.

È necessario passare a una gestione attiva e condivisa del territorio. Spari te le filiere sponsorizzate dallo Stato, come ripartire creando delle filiere produttive che permettano di fare prodotti, di trasformarli in zona e magari di venderli anche all’estero e creare occupazione non per cinque persone ma cinquanta? Abbiamo legname, acqua, possibilità di avere bestiame e possibilità di un grande recupero di immobili esistenti e fatiscenti o decadenti. Ciò che può ridare respiro ai margini è proprio il loro essere spazi a disposizione in cui sono venuti a meno steccati e usi esclusivi, la loro natura insita di bene collettivo. Ed è chiaro che un progetto che mira alla riattivazione di un luogo deve asse condare questa vocazione.

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la possibilità di sviluppare delle zone in cui creare una ripartenza di un tipo di manodopera più cerebrale che fisica?”
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“E’ importante pensare a quali siano i desideri oltre alle necessità, se questi possano essere i luoghi in cui noi proiettiamo i nostri desideri, desideri che hanno più a che fare con la città. Cosa vuol dire, che devo lasciare questo luogo per andare in città? Questo non può essere un luogo contenitore di relazioni, internazionalità, di un certo tipo di incontri fertili?”

Vida Rucli (co-founder Associazione Robida)

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“Sinceramente ciò che posso dire è che tutto quello che è stato fatto è sempre stato fatto in maniera molto sperimentale, casuale. Tant’è vero che le aree interne si raccontano o come luogo del bisogno o come luogo dell’esperienza felice. Quando in realtà è un tessuto umano di persone. Le aree interne in Italia sono il 60% dell’area nazionale, 15 milioni di persone: non è esattamente un posto marginale.”

Filippo Tantillo (Esperto politiche del lavoro e del territorio)

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“E’ una scuola di lingue che conta duecento alunni, che provengono dal nostro territorio, dalle Valli del Natisone, dalle Valli del Torre, e da tutto l’hinterland. Diciamo così, facciamo finta che noi siamo la città per una volta e che il resto ci gira intorno, e di fatto questo con la scuola di lingue sta succedendo.”

Stefano Predan (Presidente del Istituto di Istruzione sloveno)

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“C’è chi ha detto ‘make kin and not kids’, ovvero non è una questione di fare bambini ma di fare alleanze, non è solo popolare un territorio di bambini ma anche di relazioni.”

Barbara Stimoli, (documentarista, coreografa e performer)

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Le lingue sono il mezzo espressivo più evidente e immediato di una cultura e le terre alte , anche in virtù della loro posizione, sono sempre state un punto di incontro molto particolare tra culture e identità linguistiche diverse. Ed è proprio attraverso la lente linguistica che la complessità di questo continuo scambio e confronto tra mondi e radici risulta particolarmente evidente: si tratta di territori dove storicamente era normale im battersi in individui che parlavano fluentemente tre o quattro lingue visto che il continuo flusso di persone dalle origini più disparate ha generato realtà ibride, in cui famiglie e co munità che differivano per lingue e radici si trovavano a convivere e interagire tra loro, separate da confini mobili e non sempre ben definiti.

Nonostante le premesse, il plurilinguismo nelle terre di confine ha seguito un percorso a dir poco tortuoso: le istituzioni che si sono susseguite con il passare del tempo hanno continuamente cercato nuovi modi e soluzioni per interfacciarsi con un mosaico di lingue e dialetti così complesso e variegato. Nella ricerca di queste soluzioni, purtrop po, non sempre il rispetto della diversità e del plurilinguismo sono state considerate una priorità. Al contrario, soprattutto a partire dal primo dopoguerra, questi elementi sono stati spesso e volentieri considerati come un elemento di minaccia e fragilità sociale, un ostacolo da rimuovere. Così, durante il XX secolo, e in particolare con l’ascesa del fasci smo, andò aumentando l’intensità con cui si cercava di appiattire le differenze linguistiche in nome di un’italianizzazione spesso forzata e del tutto incongruente con le complesse identità culturali di questi luoghi. Lingue considerate di casa, “lingue degli affetti”, diventarono “lingue del vicino” e in alcune realtà addirittura “lingue del nemico”. Si assistette alla messa al bando di alcuni dialetti, all’imposizione di termini “più italiani”, all’umiliante cam bio obbligato di cognome per molti abitanti, fino ad arrivare addirittura al rogo di strutture tradizionalmente aperte al multiculturalismo, precedentemente numerose in questi luo ghi. L’eredità di questo approccio si è protratta fino a tempi recenti ed è stata un insieme di divisioni, rancori, stigmi e pregiudizi. Come racconta Marco Stolfo “l’italianizzazione for zata creò uno stigma, una vergogna di essere anche un po’ carinziano, un po’ friuliano, di essere anche particolarmente umano, europeo. Oggi no, queste cose potremmo riuscire a farle entrambe.” Fortunatamente quel processo di rassegnazione degli abitanti locali ad un lento abbandono di parte delle proprie radici non si è mai compiuto del tutto. Negli ultimi decenni, infatti, si sta assistendo a un graduale ribaltamento di prospettiva grazie al quale iniziano ad essere sempre più chiari il valore e il vantaggi della presenza di altre lingue conosciute e parlate a fianco dell’italiano. Non più una debolezza quindi, ma punto di forza e risorsa assolutamente sottosfruttata, ora finalmente pronta per essere rivalo rizzata. Perché conoscere un’altra lingua significa aprirsi a nuovi modi di guardare il mon do e di facilitare le collaborazioni con chi vive al di là della linea di confine, la quale, tolta la barriera linguistica, sembra ancor meno marcata.

Lingua e plurilinguismo, dunque, non solo come elementi che rafforzano e re stituiscono nuova luce alla propria identità, ma come veri e propri strumenti utili a creare valore aggiunto anche in senso competitivo: la lingua può diventare un vero e proprio logo,

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quasi fosse un marchio di qualità e di riconoscimento di un territorio, dei suoi prodotti e delle persone che ci vivono.

Un’impresa che prende il nome da una tipica espressione locale, un’agenzia di comunicazione che sceglie di esprimersi in tutte le lingue della zona, un museo che va lorizza una cultura un tempo considerata “di minoranza”: le possibilità aumentano di pari passo con la capacità di restituire alle lingue la loro dignità culturale e storica. Ricomincia anche da qui, dunque, la valorizzazione delle terre alte di confine, che trovano nelle lin gue, usate per vivere assieme, un ulteriore motore di definizione e creazione della propria identità. A Pontebba sono nate associazioni con l’obiettivo di ideare modalità efficaci e alla lunga sostenibili per inserire e promuovere il bilinguismo nei programmi scolastici, attraverso l’insegnamento di alcuni moduli in lingua tedesca e la messa in atto di progetti che supportino il conseguimento di certificazioni linguistiche già a partire dalla seconda media. Invece, a Timau, la lingua locale viene tenuta viva attraverso iniziative di stampo culturale. Così il teatro, la poesia e la traduzione di testi e modi di dire diventano il mezzo ideale per rendere il timavese e i suoi costumi fruibili anche ai più piccoli. Topolò poi, con tinua a incarnare sempre più il ruolo di crocevia di lingue e culture che si incontrano in un circolo virtuoso di confronto non solo attraverso l’operato di associazioni e collettivi, ma anche tramite l’approccio strutturato di realtà come la vicina scuola di lingua slovena e lo SMO, che stanno gradualmente sostituendo i vecchi stigmi con un rinnovato orgoglio per le proprie origini. Altro esempio dei vantaggi di una contaminazione linguistica lo troviamo a Prossenicco, dove il bilinguismo facilita indirettamente molte delle iniziative realizzate in tandem con gli abitanti della vicina Slovenia, terra che si può vedere dal balcone di casa e che è separata solo dal torrente Legrada che scorre a fondovalle. A Stolvizza, infine, è particolarmente evidente la convivenza di dialetti e accenti non separati da diffidenze e pregiudizi, ma al contrario tranquillamente integrati uno accanto all’altro: è sufficiente ag girarsi per le vie del paese per imbattersi in un caleidoscopio di varianti di italiano e resia no, in certi casi piuttosto diverse, eppure unite nello spirito di comunità e nell’amore per le proprie tradizioni comuni, che diventano esse stesse una forma di linguaggio unificatore.

Quelli appena elencati rappresentano solo un piccolo scorcio sui tanti processi in atto, potenzialmente attuabili anche in altre aree desiderose di trarre il meglio dall’in credibile risorsa rappresentata dal proprio patrimonio linguistico. Oggi, ad anni di distanza dal tentato assassinio della diversità linguistica, un’impresa del genere non sembra più tanto folle. Tutto ciò nella rinnovata visione delle lingue come patrimonio di tutti e diritto di tutti, mezzo di eccellenza per conoscerele proprie radici, riappropriarsene e avanzare verso il futuro. Perché il senso di appartenenza è una cosa essenziale per la persona uma na. Dal momento in cui tu metti i piedi per terra, sai da dove vieni. E se sai da dove vieni sai dove andare e con chi andare, con chi fare il tuo viaggio.

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non è solo quest’aspetto di contrasto e di frontiera, è anche con-fine, vuol dire che siamo vicini l’uno all’altro. Per noi qui è facile essere vicini perché se passiamo al di là del confine parliamo la stessa lingua.”

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In questo nostro viaggio siamo partiti dall’analisi dei problemi e, in questo ap proccio, abbiamo notato che l’emigrazione è stata trattata unicamente come un problema poiché equivaleva a spopolamento, la piaga delle aree interne. Eppure, man mano che procedevamo nella nostra tessitura di relazioni e storie, abbiamo cominciato a considera re l’emigrazione sotto una luce diversa, avendo notato l’esistenza di nuovi abitanti in mon tagna molti dei quali figli e nipoti di chi è emigrato: vale per la figlia fiorentina di un arrotino resiano, per la ragazza bergamasca con i nonni di Prossenicco, per il militare in pensione cresciuto all’ombra della cresta di Timau che ha dovuto abbandonare seppur non riuscendoci mai del tutto, come vero figlio della montagna. La montagna si è impoverita dei suoi vecchi abitanti ma sta guadagnando nuova linfa grazie a quelli che, seguendo Annibale Salsa, abbiamo chiamato “ritornanti”. Nonni e madri hanno dovuto emigrare e cambiare vita, da un lato forse arricchendosi e dall’altro sperimentando le difficoltà del vivere in cit tà, hanno poi dovuto vedere le promesse di riscatto sociale della città infrangersi perché i loro figli e nipoti potessero tornare alla montagna: una conseguenza probabilmente non prevista da chi guardava con preoccupazione al fenomeno dello spopolamento montano nella seconda metà del ventesimo secolo.

Nei cinque incontri del progetto Terre Alte fra Confini e Frontiere c’è chi ha ten tato di spiegare il fallimento della città dal punto di vista del mancato supporto economi co, per cui i giovani che si trasferiscono per studiare a volte poi preferiscono progettare il loro atelier nel vecchio mulino del nonno piuttosto che in un costoso locale preso in affitto in città. C’è invece chi ha ipotizzato che chi emigra dalla città in montagna lo faccia per un bisogno basilare, il bisogno di comunità, disperatamente alla ricerca, per dirla con l’an tropologo Marco Aime, di un “luogo fondamentale in cui si esplica la reciprocità non inte ressata”, promossa dal senso di appartenenza che lega le persone al territorio e ai propri simili. In ogni caso, a ben vedere il movimento, sia esso tra città e montagna o tra confini, è ciò che da sempre ha arricchito queste comunità montane, in cui molti erano commer cianti e nomadi, cramars e arrotini, oltre che contadini.

Oggi gli spostamenti hanno un respiro più ampio, richiedono un tempo dilatato, si tratta di quello che abbiamo considerato come “radici che si prolungano”, ma conduco no a conseguenze simili: siamo passati dallo scandire il tempo di partenza e ritorno con il ciclo delle stagioni per scandirlo oggi con il succedersi delle generazioni. Ma i risultati non sono cambiati: i cramars portavano novità ieri così come ne portano oggi i ritornanti, siano esse nuovi mestieri, come i lavori nelle arti performative e il lavoro da remoto, o nuovi modi di affiancare alla vita contemporanea attività tradizionali, ritrovandosi ad esempio nel tempo libero a fare manutenzione di sentieri con i compaesani o badando a un gregge di capre allevate “per hobby”, che però il loro importante lavoro poi lo svolgono, aiutando a domare la vegetazione a fondovalle. D’altra parte, i nuovi abitanti che non possono van tare antenati originari dei luoghi in cui hanno deciso di trasferirsi sono chiamati da Salsa i “neorurali”, i “sognatori metropolitani della montagna”, intendendo con questo termine il prodotto di una migrazione spontaneistica di cittadini verso la montagna “ideale”, una

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montagna immaginata di cui questi non avrebbero alcuna esperienza se non forse quella del turismo mordi e fuggi o della settimana bianca. Eppure è anche grazie alle persone che mantengono un piede in città e uno in montagna e che investono nel territorio non meno di chi ha deciso di vivere la montagna a tempo pieno, che sono stati creati progetti come il circolo sportivo dilettantistico Riders Brothers Crew a Prossenicco o ancora la Stazione di Topolò o l’associazione culturale Robida, realtà transnazionali che vivono anche di perso ne di passaggio e che da queste connessioni derivano quell’energia speciale che li rende spazi di sperimentazione unici. Dove coloro che sono rimasti spesso scorgono il pericolo, il selvaggio che minaccia prati e pascoli loro familiari, i nuovi abitanti, neorurali e ritornanti, intravedono non solo il fascino del selvatico e del rovo pure nuove possibilità che si apro no. Perché per creare una nuova ecologia, per dare vita a nuove comunità radicate nella natura, è più facile partire dai margini, dove si può ricominciare da capo, dove possiamo riprovare a cercare un nuovo equilibrio diversamente da un contesto urbano, dove si deve decostruire per poi ricostruire.

Quello che possiamo fare è attrarre e creare alleanze tra chi è rimasto, tra chi è tornato e tra chi ha scoperto la montagna, rifiutando la diffidenza in favore della mutuali tà, scambiandoci doni reciproci e conoscenze specifiche. Nella convinzione che per inver tire i processi di degrado dei paesaggi e per restituirne l’integrità e l’identità è necessario agire sulle comunità che vivono e lavorano nei territori e luoghi fragili e sulle reciprocità tra chi li abita e chi è ritornato. E’ la condizione per riuscire a «tenere» contro fenomeni in atto e scenari in evoluzione ed affermare un vitale rapporto tra natura, storia, cultura e luoghi.

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“È importante rivelare la vocazione di un posto, non necessariamente viverci”.

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“Faccio fatica ad andar via, ogni volta che mi allontano dal confine mi sembra di andare in posti noiosi (…) Il confine è erotico. Erotico non nel senso banale che si può pensare, ma nel senso di desiderio di vita, di energia di vita che ti prende. Stai lì perché sta per succedere qualcosa, stai lì perché qualcosa cambierà la tua vita”.

Moreno

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narrazione del selvatico come elemento negativo molto spesso viene da gente di montagna, legata al proprio trascorso rispetto al paesaggio che conosceva.

Contemporaneamente chi è venuto ad abitare qui da fuori dice di esser venuto proprio per tutto questo verde, questo ambiente. È un gioco delle parti”.

Moreno Baccichet

(Esperto di Sviluppo locale, Università di Udine)

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“I cramars sono persone che si muovono e fanno dei viaggi lunghissimi e in questi viaggi incontrano altre persone e altre culture, infrangono le regole”.

Loredana Panariti (Docente di Storia economica e Storia del lavoro)

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“Sento questa appartenenza vera, profonda, forse quasi più di uno che ha vissuto qui, un amore viscerale, un amore che parte dalla pancia, che chiama qui e che dice ‘vai a Resia, vai a Resia, solo qui trovi quella pace quella serenità quell’amore’ (…) per me, riesco a trovare queste emozioni solo qua. Posso girare il mondo, Firenze è una bellissima città, però mai questa cosa così di pancia”.

Daniela Negro (Docente di lettere)

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“Il progetto Terre Alte tra Confini e Frontiere ha messo in luce l’importanza di disporre di comunità consapevoli e operose per immaginare i possibili futuri dei paesi e assicurare resilienza contro il declino. Sono emersi tessuti vitali e creativi che non intendono piegarsi né alla regressione demografica né all’infragilirsi delle strutture economiche che spinge le persone a trasferirsi altrove. Si conferma la necessità di far leva sui capitali e patrimoni territoriali mentre è ben vivo l’assillo a mantenere e valorizzare le radici poiché, riprendendo una bella citazione di Gustav Mahler, rappresentano la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere, e permettono, per dirla alla Victor Hugo, una continua rigenerazione” Maurizio Ionico (Amministratore Unico di Melius srl)

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Fondazione Pietro Pittini Cramars Soc.Coop. C.A.M.A. Comitato Associativo Monumento all’Arrotino APS

Associazione Culturale OCRA Associazione VIVISTOLVIZZA APS

Associazione Museo Della Gente della Val Resia Associazione Robida Comune di Paluzza Comune di Pontebba Circolo Culturale Sirio

Pro loco Prossenicco aps Radio Onde Furlane TSM Trentino School of Management / step Scuola per il Governo del Territorio e del Paesaggio Università degli Studi di Trieste –Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali, Matematiche e Statistiche “Bruno de Finetti” Università degli Studi di Udine

Questo prodotto fotografico è stato realizzato grazie alla Fondazione Pietro Pittini.

Finito di stampare a novembre 2022 Presso Skillpress S.R.L Via Golgi 2, VE, Fossalta di Portogruaro

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