Terra Nuova Maggio 2016 COPIA OMAGGIO INTEGRALE

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popoli nativi

di Alice Farano Survival International Italia

L’

80% della biodiversità terrestre si trova nei territori dei popoli indigeni e la grande maggioranza dei 200 luoghi a più alta biodiversità del mondo è terra indigena. È forse un caso? Nel corso delle generazioni, questi popoli hanno sviluppato stili di vita sostenibili e una conoscenza profonda delle loro terre, dalle quali dipende la loro stessa sopravvivenza. Ecco perché sono motivati più di chiunque altro a proteggere la natura e i suoi delicati equilibri. Ancor prima che venisse coniata la parola «conservazione», gli indigeni erano già conservazionisti e, evidenze lo dimostrano, a oggi rimangono i migliori al mondo a svolgere questo ruolo.

I popoli che aiutano l’ambiente In Amazzonia, ad esempio, quando i confini dei territori vengono demarcati ufficialmente e sono gestiti direttamente dagli indigeni, la protezione della foresta è molto più ef-

ficace. Le immagini satellitari mostrano chiaramente che in alcuni luoghi la deforestazione si ferma proprio laddove cominciano le zone abitate dalle tribù (vedi immagine in basso). Altri dati diffusi di recente rivelano che all’interno dell’unica riserva in India in cui una tribù si è vista riconoscere il permesso di vivere insieme alle tigri, il numero di questi animali è quasi raddoppiato, passando da 35 esemplari nel 2010 a 68 nel 2014: un incremento decisamente superiore al tasso di crescita medio nazionale1. Eppure, le terre indigene vengono spesso erroneamente considerate «selvagge» o «vergini», anche se i popoli indigeni le hanno abitate e gestite per millenni. Raramente viene ricordato, ma alcune di queste, tra le più famose al mondo, come il parco di Yellowstone negli Usa, l’Amazzonia o il Sergenti in Africa, sono in realtà le terre ancestrali di milioni di indigeni. Con l’intento di creare «aree inviolate», libere dalla presenza umana, e nella convinzione che gli scien-

L’approccio conservazionista fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non soltanto sui popoli indigeni, ma anche sulla natura che, senza i suoi tradizionali guardiani, viene costantemente messa in ginocchio.

ziati siano gli unici a sapere come agire per il bene dell’ambiente, l’approccio conservazionista fondato sugli sfratti forzati è diventato consuetudine in tutto il mondo, con impatti devastanti non soltanto sui popoli indigeni, ma anche sulla natura che, senza i suoi tradizionali guardiani, viene costantemente messa in ginocchio dal bracconaggio, dallo sfruttamento eccessivo delle risorse e dalla presenza sempre più invadente del turismo e di imprese non sostenibili. La politica degli sfratti, dunque, rischia di distruggere l’autosufficienza dei popoli indigeni o la loro stessa vita.

Yellowstone: un inizio drammatico Il parco nazionale di Yellowstone, ad esempio, è stato la prima area protetta del mondo. Quando venne creato, nel 1872, gli indigeni che vivevano lì da secoli furono inizialmente autorizzati a restare, ma cinque anni più tardi furono costretti ad andarsene. Come è facile immaginare, il loro allontanamento dal neonato parco di Yellowstone causò diversi scontri tra le autorità governative e le tribù degli Shoshone, dei Blackfoot e dei Crow; si dice che in una singola battaglia siano morte 300 persone. Oltre alle vittime e alle violenze sugli uomini, ne risentì anche il territorio del parco, e da quel momento alci e bisonti cominciarono a sfruttare i pascoli in modo eccessivo, creando uno squilibrio nell’ecosistema.

Conservazione con sfratto Con l’obiettivo di denunciare il lato oscuro della conservazione e chiedere il rispetto dei diritti degli indigeni, l’organizzazione per i diritti dei popoli indigeni Survival International ha lanciato la campagna Parks Need Peoples, letteralmente «i parchi hanno bisogno dei popoli». Nell’omonimo rapporto, l’organizzaIl parco indigeno dello Xingu (delimitato in rosa) è abitato da diverse tribù. Costituisce una barriera fondamentale alla deforestazione (in rosso) della foresta Amazzonica. ©ISA (Instituto Socioambiental)/Survival

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