Souvlaky

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Souvlaki: la terza antologia di racconti illustrati di Tapirulan o, se preferite, il terzo catalogo di illustrazioni raccontate di Tapirulan. Leggetelo, sfogliatelo, guardatelo, annusatelo, assaggiatelo. SÏ, perchÊ la parola souvlaki denomina un gustoso e vario spiedino proprio della cucina ottomana e poi greca moderna. CosÏ, come il cuoco mette nello spiedino tutto quello che ha di buono, senza troppa cura dell’armonia di gusti e di colori, allo stesso modo abbiamo infilato in un bastoncino racconti tutti diversi che ci sono sembrati commestibili, per condirli poi con la salsa delle illustrazioni e rosolarli al fuoco del giudizio del lettore.


Associazione Culturale Tapirulan www.tapirulan.it



S Marco Alfano Andrea Andolina Claudio Arisi

o Elena Bertoncini Luca Cantarelli Paolo Cappelletti Giacomo Cardelli

u Guido Casamichiela Andrea Cirillo Carolina Crespi Saverio Cristiani

v Elvis Crotti Daniele De BattĂŠ Luigi Di Legge Andrea Ferretti Marina Girardi

l Fabio Iaschi Rosaria Iorio Giovanni Locatelli Silvia Marutti

a Alexander Nurulaev Arianna Papini Maurizio Russo Marco Sebastiani

k Trap Lucio Villani Daniela Volpari

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Souvlaki Antologia del «Concorso di racconti Tapirulan» © 2010 Associazione Culturale Tapirulan www.tapirulan.it | info@tapirulan.it | racconti@tapirulan.it Coordinatore editoriale Alberto Calorosi Presidente di giuria Marco Sartori Redazione Alberto Calorosi, Enrico Cantino Roberto Stradiotti, French Progetto grafico French Stampa Fantigrafica, Cremona, aprile 2010 Edizioni Tapirulan ISBN 978-88-902767-9-8


Indice

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Prefazione di Marco Sartori

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Tanto per fare racconto di Guido Casamichiela illustrazione di Alexander Nurulaev

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Ho rapinato una banca racconto di Andrea Cirillo illustrazione di Daniele De BattĂŠ

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Il testamento della signorina Amelia GullĂŹ racconto di Silvia Marutti illustrazione di Elena Bertoncini

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La maestrina dalla pen-drive rossa racconto di Trap illustrazione di Daniela Volpari

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Cavedani racconto di Elvis Crotti illustrazione di Marina Girardi


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Un uomo felice racconto di Luigi Di Legge illustrazione di Rosaria Iorio

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Lussazioni e rotture racconto di Andrea Ferretti illustrazione di Lucio Villani

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Angoli custodi racconto di Marco Alfano illustrazione di Arianna Papini

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A memoria d’uomo racconto di Saverio Cristiani illustrazione di Fabio Iaschi

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La pecora e l’organo racconto di Giovanni Locatelli illustrazione di Claudio Arisi

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La donna delle colazioni racconto di Paolo Cappelletti illustrazione di Maurizio Russo

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Johnni Stantuffo racconto di Carolina Crespi illustrazione di Marco Sebastiani

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Proctologia e dentismo racconto di Guido Casamichiela illustrazione di Giacomo Cardelli

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Errata Corrige racconto di Luca Cantarelli illustrazione di Andrea Andolina

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Scrittori e illustratori - Note biografiche


Nota introduttiva

Cyclette, la prima antologia di Tapirulan, vide la luce nella primavera del 2007: dodici racconti illustrati da altrettanti artisti selezionati tra coloro che popolano la vetrina virtuale del sito dell’Associazione. Il riscontro fu incoraggiante, così che l’anno successivo, con analoga formula, nacque il secondogenito, Bufanda. Nel 2009 l’Associazione bandisce il primo concorso letterario in prosa, sulla falsariga dei più consolidati bandi relativi a illustrazione e poesia. Partecipano circa centottanta autori con quasi quattrocento racconti. L’arduo compito della giuria è quello di selezionare i “magnifici quattordici”da inserire in Souvlaki, il terzogenito. Ma non è tutto. A ciascun racconto la Redazione abbina un illustratore scelto tra una rosa di candidati proposta dall’autore stesso. L’illustratore interpreta il racconto, talvolta reinventandolo. Ecco, dunque, nelle vostre mani Souvlaki, la terza antologia di racconti illustrati di Tapirulan o, se preferite, il terzo catalogo di illustrazioni raccontate di Tapirulan. Leggetelo, sfogliatelo, guardatelo, annusatelo, gustatelo. Porta con sé l’odore pungente della carne abbrustolita e l’aroma salmastro del mare. Riuscite a sentire lo sciabordio delle onde in lontananza? Provate ad accostare Souvlaki all’orecchio...



Prefazione di Marco Sartori

Ci insegnano che il gusto di raccontare è proprio della natura umana. Che i nostri antenati nelle grotte di Lascaux forse non volevano simulare riti animistici, trovare simbologie esoteriche, o anche solo propiziare il bottino, ma semplicemente raccontavano di cacce ai grandi animali e di avventure, e queste cacce le ordinavano in una narrazione e secondo un gusto che anche oggi possiamo definire estetico. Abbiamo visto Omero, il padre Omero, rinunciare al racconto delle avventure del suo Ulisse, ma lasciare che fosse l’eroe stesso a narrarle alle orecchie avide dei Feaci, e della vergine Nausicaa. Sappiamo anche che i primi storici non caddero nella trappola dei concetti astratti, delle idee più o meno progressive, degli ismi più o meno disputati; furono anch’essi narratori, e come i poeti epici trovarono un senso al loro narrare nelle gesta dei grandi uomini, e una protezione nelle Muse e in Apollo – divinità di chi vuole scoprire territori del passato o del futuro, sconosciuti agli uomini. Ci sono modi diversi di raccontare. Lo storico ama il seguito ordinato degli eventi, le estati della guerra dopo gli inverni della politica e delle assemblee; le batta9


glie e i discorsi; i suoi puntelli sono le fonti che elenca con diligenza e le sue fondamenta le architetture geometriche del finalismo, o delle sorti progressive dell’umanità. I grandi romanzieri a loro volta preferiscono la polifonia di voci discordanti eppure armoniose, lo slancio continuo e sempre nuovo di una cattedrale gotica, i ponti arditi che superano corsi d’acqua maestosi e profondi, e mettono in contatto uomini, cose, mondi diversi. Con il puntiglio ostinato di una ricamatrice che chiude il disegno di un velo o di una tovaglia non trascurano nessun personaggio, o trama, o esito, ma inseguono i destini di ogni loro creatura come l’Ariosto fa convergere i caroselli dei suoi cavalieri e le fughe delle sue donne. L’incipit e il finale più o meno lieto, più o meno logico, segnano i loro trionfi, e la loro soddisfazione è il gesto compiaciuto del lettore e il tonfo sonoro che chiudono un libro. Tanto che gli eretici del romanzo moderno proprio queste parti hanno eliminato, e i romanzi non hanno più avuto un finale. Altri invece preferiscono le semplici melodie, una sola voce, un solo strumento. O anche le architetture più modeste. Come chi ama i cottage di campagna e non le magioni avite, chi insegue i profumi del giardino dietro casa e fugge i faticosi parchi all’italiana disegnati dagli architetti, chi cerca le pievi dei paesi e non gli ori delle chiese delle capitali. Spesso accade che un modesto giardino nasconda cose più misteriose dei labirinti di siepi nei giardini formali, e che una cantina sia affollata di ricordi più della sala di un ballo. Così, dunque, c’è chi scrive racconti brevi. Sono scrittori che non spiegano, non dicono. Tolgono, con arte. Sono refrattari all’aggettivo, banale e usato, quasi più di un declamatore futurista; hanno in scarsa simpatia l’avverbio, troppo lungo e impegnativo. Non parliamo poi di congiunzioni o preposizioni, inutili e troppo comode discese. Il punto è il segno di interpunzione preferito e il collage di frasi la trama più spesso seguita. L’Atlante che regge il loro discorso è il verbo, sentimento o azione.Alla retorica non torcono il collo perché non sanno nemmeno cosa sia. I confini dell’epigramma e dell’aforisma sono superati senza rimorsi, quasi con noncuranza. Hanno il veleno nella coda 10


e beato il lettore che lo capisce.Altrimenti si arrangi. Non innalzano ponti arditi, solo brevi passerelle: l’anticipazione più o meno allusiva o il flashback illuminante hanno un posto ridotto nel loro modo di narrare. Quel che c’è stato prima o sarà dopo non importa. Il tempo è una variabile trascurata.Vale lo stesso per lo spazio. Fatti storici e paesaggi scompaiono, e la vicenda appartiene solo al qui e all’oggi. Del resto, chi si aspetta da questi narratori il ramo del lago di Como? La reggia di Versailles? O la battaglia di Waterloo? E l’eroe? L’eroe è morto. O conduce vita grama senza che nessuno si prenda la briga di costruirgli intorno una guerra di Troia o di trovargli una Penelope. L’autore non ha tempo per indagare cosa passa nella sua mente. Che faccia qualcosa e si sbrighi. Che deve iniziare il racconto successivo. Riteniamo che gli scrittori che presentiamo in questa antologia abbiano almeno alcune di queste virtù. Condensano e alludono; tolgono e non spiegano; conoscono solo il presente e niente della storia. Le loro porte Scee sono banche, cantine, macellerie, ospizi, studi medici, cucine, tinelli, strade, supermarket. Le loro lance il telecomando, gli scontrini di cassa, la canna da pesca, la penna e una zucca, anche una corda per impiccarsi. Le loro Angeliche, le loro Lucie, le loro Bovary si travestono da anziane dell’ospizio, da profughe somale, da clienti col cagnolino, da vecchie cassiere. Anche da ammiccanti signorine del dentista. Cantano la vita quotidiana, che forse ha in sé più tragedia dramma epos comicità o lirismo dei corrispondenti generi letterari. E comunque fa perdere meno tempo.

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Tanto per fare racconto di Guido Casamichiela illustrazione di Alexander Nurulaev RACCONTO VINCITORE DEL CONCORSO

Ero appena uscito dall’autobus quando ho sentito un botto. C’era un ragazzo a terra. Si teneva il piede e si lamentava. Una macchina era ferma lì vicino. Ne è uscito un signore. Gli ha detto non ti preoccupare chiamo subito l’ambulanza. Il ragazzo ha detto ahiahia, ahiahia. Poi il signore gli ha detto però anche tu potevi stare più attento hai attraversato senza guardare. Dopo mi ha guardato come per avere conferma di qualcosa. Io ho annuito. Tanto per fare. Il ragazzo ha detto ha ragione tutta colpa mia ma chiami l’ambulanza mi fa molto male il piede. Io ho pensato è molto carino da parte del ragazzo assumersi certe responsabilità in un momento come questo. Un vecchio poco distante stava dicendo a un altro vecchio è una vergogna quello prima l’investe e poi lo tratta male. Il vecchio mi ha guardato e io ho annuito anche a lui. Tanto per fare. L’autobus da cui ero sceso si era fermato anche se non era coinvolto nell’incidente, e dietro c’era una lunga fila di macchine. Si vedeva che gli autisti delle macchine incolonnate erano combattuti tra la voglia di protestare e il rispetto per il ferito che però si vedeva che era un ferito lieve e quindi meritava rispetto, sì, ma solo fino a un certo punto. Anche un autista delle macchine incolonnate mi ha guarda13


to. Ho annuito anche a lui. Tanto per fare. Io stavo abbastanza vicino all’investito, ma non così vicino da essere coinvolto nei soccorsi al ragazzo. L’investitore intanto stava chiamando l’ambulanza dicendo presto venite in via Giotto c’è un ragazzo che ha avuto un incidente è ferito ha molto male. Io ho pensato l’autista è un bel vigliacco a dire così e non piuttosto presto venite che ho investito un ragazzo. Poi ho anche pensato che però si era fatto perdonare la vigliaccheria lasciando intendere ai centralinisti del 118 che il ferito fosse grave, quando al massimo poteva essersi rotto il piede. In un certo senso, ho pensato, questo investitore sta raccomandando al 118 l’investito per far arrivare prima l’ambulanza. Come il gestore di un ristorante che fa saltare la fila ai suoi clienti preferiti. Questo è il motivo per cui quando l’investitore appena chiusa la telefonata mi ha guardato, io ho annuito nuovamente. Come per dirgli tranquillo che così vai bene l’hai fatta grossa ma hai recuperato. Lui però non ha risposto con uno sguardo benevolo, anzi. Mi ha guardato come pensando ma tu cosa ci fai ancora qua? Che ruolo hai? Io per esempio ho il ruolo dell’investitore, questo per terra ha il ruolo dell’investito, mentre tu? Tu cosa ci fai qui? A quel punto ho distolto lo sguardo dall’investitore, ho fatto un passo indietro come per indicare che capivo e accettavo il fatto che in quell’incidente io non avevo un ruolo di primo piano, e ho ripreso a guardare l’investito. L’investito dopo un po’ ha ricambiato il mio sguardo. Neanche il suo sguardo era benevolo, anzi. Mi guardava come pensando ma tu sei ancora qui? Non te ne sei ancora andato? L’investitore almeno ha chiamato l’ambulanza e ha lasciato intendere che sono un ferito grave, ma tu? Persino quel vecchio che scuote la testa laggiù si immischia meno di te. Insomma te ne vai tu che non hai neppure la scusa dell’età? A quel punto ho fatto ancora un passo indietro, per far capire a tutti che sapevo di avere come unico ruolo quello del curioso sul luogo di un incidente e che quindi rispettavo gli sguardi poco benevoli di tutti, ma non ero disposto ad andarmene perché quella era una strada pubblica e io avevo il diritto di starci come gli altri e non mi era vietato stare lì solo perché non ero stato investito, né avevo investito nessuno, e che oltre ad avere il diritto di starci ne 14


avevo anche tutta l’opportunità, perché non avevo nessun impegno urgente. Allora anche i vecchi hanno preso a guardarmi di traverso, soprattutto uno dei due che sicuramente si sentiva molto sicuro di sé dopo aver visto che sia l’investito sia l’investitore ce l’avevano con me e non con lui. Proprio mentre mi stavo chiedendo se sfidare il vecchio e fare un passo avanti è arrivata l’ambulanza. Nessuno ha più fatto caso a me. L’ambulanza ha preso a occuparsi dell’investito. Stavo per avvicinarmi un po’, approfittando della ritrovata invisibilità, e mi sentivo tutto preso dalla curiosità di scoprire se quel ragazzo si era rotto il piede o se si trattava solo di una botta da niente, quando ho visto arrivare i vigili e mi sono detto chi se ne importa della frattura o non frattura del piede, è molto più importante capire se l’investitore passerà dei guai per un incidente di cui ha poca responsabilità lui che forse pensa di poterne uscire pulito solo per aver allarmato oltre misura il 118. Quindi mi sono avvicinato lentamente all’investitore che ora era accanto ai vigili. Quando ero alla distanza giusta per sentire tutto senza destare sospetti mi sono fermato e ho fatto finta di essere impegnato a guardare dei sassolini per terra. Ma dopo poco che guardavo i sassolini mi è venuta la curiosità di vedere la scena. Ho alzato la faccia giusto in tempo per accorgermi che mentre l’investitore raccontava i fatti a un vigile, l’altro vigile mi guardava come pensando è inutile che fai finta di guardare i sassolini, se vuoi sentire cosa ci stiamo raccontando noi vigili e l’investitore devi avere almeno il coraggio di avvicinarti senza fare finta di nulla, altrimenti ti mando a guardare i sassolini di un altro quartiere. Allora, non sapendo che fare, ho annuito anche al vigile. Tanto per fare.

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Ho rapinato una banca racconto di Andrea Cirillo illustrazione di Daniele De Batté

Ho rapinato una banca. Con pistola, passamontagna, e tutto il resto. Quando sono entrato ho gridato «Ora il mondo sono io.» Nessuno mi ha degnato di uno sguardo. Hanno continuato a fare la fila. Ho preso anch’io un numerino. Sono rimasto seduto a guardare le pubblicità dei mutui e dei finanziamenti a tasso zero. Accanto avevo una signora con un barboncino bianco di nome Marilù. Mentre il cane mi fissava scodinzolando, la signora mi ha chiesto se ero lì per un prelievo o un versamento. Quando il cassiere ha chiamato il c41 mi sono alzato e lei mi ha fatto l’occhiolino. Non è andata come pensavo. Mi hanno dato i soldi e basta. Mi hanno anche chiesto se desideravo aprire un conto, che al giorno d’oggi tutti quei soldi non è sicuro tenerli in casa. Non era questo che avevo immaginato. Sono uscito e mi sono tolto il passamontagna. Voltato l’angolo ho buttato via tutto in un bidone della spazzatura. Pistola, passamontagna, soldi. Tutto. 17



Il testamento della signorina Amelia Gullì racconto di Silvia Marutti illustrazione di Elena Bertoncini

Da quando – in seguito a una furibonda lite causa una poco chiara eredità – il ramo della famiglia Gulli si era divaricato, il secondo aggiungendo un accento che lo distinguesse per sempre dal primo, la signorina Amelia Gullì aveva speso la sua lunga esistenza di ricamatrice zitella apostrofando i suoi interlocutori sulla pronuncia del suo cognome: «Gullì. Per favore, Gullì. Non Gulli.» Ne aveva fatto una questione di principio persino nei confronti dei presidenti di giuria alla consegna di alcuni premi letterari minori, sconosciuti ai più, ma che per lei avevano assunto nel tempo il valore di un Nobel. Neppure don Calogero Pasquì (che pure doveva intendersene di accenti), nobile personaggio fra i pochi non ancora decaduti, fu risparmiato per tale distrazione al momento del ritiro del corredo della figlia prediletta che andava sposa a un notabile della città. Sebbene don Calogero avesse appoggiato sulla consolle dell’ingresso una busta rigonfia di grossi biglietti da centomila lire (che avrebbero assicurato alla signorina Amelia Gullì una certa agiatezza), sulla soglia dell’uscio al momento dei saluti e del baciamano venne redarguito sull’uso dell’accento. 19


Ora che i trentadue chilogrammi della signorina Amelia Gullì giacevano sul letto di un ospizio dal nome profetico “Verso il sereno”, ella ripensava a quel puntiglio, sorrideva e un poco si rammaricava di aver provocato imbarazzo a tante persone che in buona fede non ponevano l’accento sulla “i” del suo cognome. Quella domenica – come tutte le domeniche da quando era approdata alla casa di riposo (ma da quando?) – la signorina Amelia Gullì si era svegliata al suono della campanella della cappella, confinante con la sua stanza, che gagliarda annunciava la messa festiva. Adagiata sopra un modernissimo materasso antidecubito ad aria, il cui meccanismo era misteriosamente alimentato da una lucina rossa intermittente, la signorina Amelia Gullì, a intervalli regolari, scendeva e saliva nel letto, pur senza muoversi, seguendo il respiro artificiale del materasso. Due robuste sponde di metallo cromato la custodivano per impedirne la caduta dal letto. Evento assai improbabile, giacché la signorina Amelia Gullì era da tempo immobilizzata in seguito ad una tetraparesi. A vederla così, quasi completamente rannicchiata in una posizione che pareva di difesa, ricordava un grande neonato raggrinzito. Al collo un elastico bianco sorreggeva un tovagliolo che raccoglieva la parte di frullati non deglutita mentre, sotto le lenzuola, un pannolone raccoglieva il frullato ingerito alla fine del suo breve percorso. La finestra della sua stanza si affacciava sopra un cortile interno invaso da possenti oleandri multicolori. Ne scorgeva le cime fiorite attraverso le sbarre delle inferriate poste al di là del vetro per scoraggiare eventuali velleità di trapassi spontanei da parte di ospiti stanchi di aspettare non so cosa o non so chi agli ordini di giovani infermiere che invadevano la loro intimità con una professionalità tanto eccellente quanto impudica. La porta quasi sempre chiusa, le sbarre alla finestra, le sponde del letto, avevano portato lentamente la signorina Amelia Gullì alla convinzione di trovarsi in carcere senza conoscere la pena che doveva scontare. Vuoi vedere, si chiese quella domenica mattina, che la causa 20


di tutto questo era proprio quell’accento su cui si era tanto accanita? Ci pensò un po’ troppo la signorina Amelia Gullì e si agitò di conseguenza troppo. Al punto che il suo cuore esibì una raffica di tonfi e risalite che la lasciarono disorientata. Il monitor cui era sempre collegata emetteva fischi sempre più insistenti, mentre l’infermiera di turno si precipitava nella stanza. «Signorina Gulli, signorina Gulli, mi sente?», chiedeva tastandole il polso quasi inesistente. Si può dire che la signorina Amelia Gullì fosse già lontana da quel letto ma, lasciando interdetta l’infermiera, si riservò un ultimo momento di fiato per quella sua interlocutrice che così accoratamente la chiamava: «Benedetta ragazza... Gullì, per favore... Gullì... non Gulli...» Poi, in segno di rispetto, il monitor smise di fischiare sull’eco degli ultimi rintocchi della campanella della chiesa. Nel cassetto del comodino fu rinvenuta una busta ingiallita dal tempo. Conteneva un foglio di quaderno sul quale la signorina Amelia Gullì, con la sua calligrafia obliqua e lieve, aveva redatto il proprio testamento: Perché si sappia da qui all’eternità che non Gulli ma Gullì è stata Amelia, signor marmista a lei mi raccomando: incida a fondo l’accento sopra il marmo.

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La maestrina dalla pen-drive rossa racconto di Trap illustrazione di Daniela Volpari

Rho. O Vimercate. Ma poteva essere anche Sesto San Giovanni. Uno di quei paesotti lì, che i turisti li vedono col lanternino, ecco. Grigi, fumosi. Non me lo ricordo più bene. Cosa volete farci, a 94 anni la memoria, come un farfallone amoroso, si lascia sedurre da chimere spesso ingannevoli. Un diario, sì, lo tenevo. Lo tenevo chiuso in un piccolo scrigno in legno: India, o Kenya... o magari veniva via dalla Brianza. Lo tenevo sempre chiuso a chiave, perché ero gelosissimo della mia intimità (oggi si dice privacy, ma allora la conoscenza dell’inglese era un optional per pochi eletti. Che poi manco si sapeva cos’era, un optional). Avevo così paura che gli altri mi guardassero dentro, che il diario lo tenevo chiuso a chiave e non ci scrivevo mai niente. Capite perché non lo so, dove ero? L’anno, poi. Ero dove ero nell’anno che era. Entro nel bordello del paese e... Cos’è, quelle facce? Allora ci si andava senza tante storie, si usava così. Ogni epoca ha le sue mode: allora, i casini; oggi, magari, i salotti. Solo che allora lo sapevano e lo dicevano tutti che quello era un troiaio. 23


Come tutti, avevo la mia preferita, io: si chiamava Geppetta, perché era ragazza-madre di un figlio che era una testa di legno. La cerco, ma al presente, mi dice la madama, la Geppa è occupata con un sciùr dell’Alta. Osti, dico io, loro c’hanno i loro, di casini, perché viene qui a portarci via le ragazze a noi? Perché è un caporione del fascio, dice la madama: lui va con le figlie del popolo perché dice che ci piace fottere il popolo. E si sganassa dalle risate. Che son battute che le senti solo al Bagaglino; ma a quei tempi, tu dicevi Pippo Franco e tutti a pensare a un qualche fratello scemo del Francisco. Aspetto, dico io, che i sciùr son buoni solo a far su le sveltine. Intanto, giro un po’ qua un po’ là, anche se il posto lo conosco a memoria. Potevo anche dire “a menadito”, ma eran parole che in quei locali, a quei tempi, ti guardavano storto. La mobilia, non ce n’era tanta: era un bordello per gente del popolo, messo su alla buona. C’era il suo bel mobile bar, con dentro il fernet per quando le signorine non digerivano qualche cliente. La madama rideva sempre, quando diceva questa battuta. Per farci vedere ai clienti i suoi due denti d’oro, dicevano maligne le ragazze. Che poi, la scema, a un certo punto ha dovuto donarceli alla Patria e andava in giro con due buchi nella dentiera, che se ci mettevi in bocca una lampadina, sembravano i fanali di una Balilla. Te’ che sul tavolino delle riviste – certi primi piani di polpacci... – hanno messo lì anche dei libri. Dei libri!? Sarà che mi sento un po’ intellettuale di provincia, ci butto l’occhio, che quasi mi resta lì incollato: osti, sono due miei romanzi! Peccato che all’epoca io di pubblicazioni non avevo ancora fatto nemmeno quelle di matrimonio. Come faccio a dire che sono miei, allora? Perché l’autore, scritto bello grande, è un certo Eleuterio Ingraziadiddio, che sarebbe il mio nome. E non ce n’è in giro tanti... Mi chiamo così perché mi hanno trovato in una cestella davanti al portone di un convento di frati. Con una spilla la mia mamma aveva attaccato al camicino un biglietto: Sono sicura che lo lassio in grazzia diddio. 24


Da cui, fatta salva la “z” di meno. I titoli sono come due schiaffi, chi ne ha mai letti così: Metti la tua pen-drive nella mia porta USB e La maestrina dalla pen-drive rossa. Rabbrividisco davanti a tutte quelle parole straniere: all’epoca lo yacht si chiamava panfilo, il garage rimessa, e se volevi un 78 giri di Louis Armstrong dovevi chiedere di Luigi Fortebraccio. Se qualcuno associa il mio nome a quei titoli forestieri, facile che finisco all’Indice prima ancora che ho pubblicato una sola riga. Mi guardo in giro come se niente fosse, proprio come un bambino che sta per rubare un biscotto dalla biscottiera e tutti glielo leggono in faccia. Ho deciso di infilarmi in tasca i due volumi, prima che mi possano tradire; ma sarà che ladri si nasce, te’ che uno mi scivola a terra. Impietrisco, proprio come il bambino del biscotto. Curioso: non mi arriva lo scappellotto, nessuno dice niente, nessuno ha notato niente. Con indifferenza raccatto il libro da terra, ma mentre mi tiro su incrocio le pupille dilatate della madama che mi fissano col sottotitolo: «Che cazzo stai facendo?», salvo che all’epoca la censura sbianchettava cinque lettere. Mi chiede con fare dubbioso: «Ha perso qualcosa?» «Be’... ecco... mi era caduto il libro.» «...?...» «Sì... uno di... quello che stava lì, sul tavolino.» L’espressione da sbianchettare le ricompare nello sguardo in grassetto: «Libri, qui, non ne circolano proprio! I miei clienti, caro lei, non sfogliano libri: spogliano ragazze!» Condisce il tutto con una risata fra l’etereo e il macabro. Capisco che non è il caso di insistere: meglio per me se non s’è accorta dei libri. Mentre penso così, mi arriva alle spalle un conoscente: «Hai problemi alla mano, che la tieni così rigida?» «Reggo il... il... libro» gli balbetto. A quello gli si stampa in faccia un’espressione tipo: «Uno di 25


noi due ha un problema. E non sono certo io.» Dice: «La biblioteca del MinCulPop è un paio di isolati più in là, ma a quest’ora è chiusa. Comunque, occhio che se ti aggiri qua dentro con le dita piegate a quel modo, a nessuno gli verrà in mente che è un libro, quello che hai appena mollato», e se ne va ridendo della sua arguzia. Come un fulmine, infilo il volume in tasca, bofonchio una scusa alla madama e me la filo fuori. Muoio dalla voglia di dare un’occhiata a quei libri misteriosi con quei titoli così insoliti e pericolosi. In strada viene proprio nella mia direzione un pulotto. Sono tempi difficili, la diffidenza si respira come il polline a primavera. E sarà che ho il collo un po’ contratto e gli occhi dilatati, sarà che la destra nella tasca trema come se stessi abusando di me stesso, sta di fatto che il pulotto concentra il suo sguardo su di me – no, proprio sulla tasca terremotata. Fissa. Concentra. Di botto i suoi occhi si trasformano in specchi ustori che concentrano i raggi del sole sulla mia tasca. Sui libri. La carta prende fuoco.Vedo le fiamme levarsi dalla tasca con un guizzo. Sento la pelle bruciare. Cerco di scaraventare altrove la fonte dei miei guai e in quell’istante il pulotto mi spara. Mi spara, anche se la mia mano stringe solo se stessa, in un desolante afflato di autocommiserazione. (Invecchiando, cosa non si riesce a scrivere). Rotolo a terra. L’impatto col freddo ostinatamente granitico del pavimento raggela anche il sogno più ardente. Piombato nella cruda, ghiaccia realtà della notte casereccia, recupero in rapida sintesi la trama degli eventi. Ero appollaiato sul mio Stokke Variable ergonomico, senza braccioli... Mi ero addormentato di botto e lo sparo mi ha scaraventato di sella. Quando sei giovane, se non crolli dal sonno non andresti mai a letto. Io, invece, a cavalcioni fra i novanta e i cento, mi addormento dovunque, in qualsiasi momento, senza preliminari. Anche davanti al computer. È che, cristo!, quell’affare è rimasto acceso tutta la notte... e 26


già ieri sera la pen-drive era diventata rossa, tanto si era surriscaldata. «O si cambia il catorcio o qui finisce tutto a puttane» penso. Sveglio per sveglio, tanto vale sistemare quel raccontino che ho buttato giù prima di addormentarmi. Certo, già il titolo... La maestrina dalla pen-drive rossa.

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Cavedani racconto di Elvis Crotti illustrazione di Marina Girardi

Ti sei mai chiesto cosa accadrà il giorno in cui ti resterà la metà dei giorni da vivere? Questa mattina il Mera scorre tranquillo. All’orizzonte, canneti velati da umide nebbie nascondono le sue sponde selvagge. Sospensione è la cornice di questa dinamica fluida e ripetitiva: la navigazione placida di una barca, il corpo inclinato in avanti del rematore, l’affondare sincrono dei remi nell’acqua. Sulla sponda opposta del fiume uno sconosciuto osserva, in silenzio, un tronco d’albero andare alla deriva. La pesca al cavedano si pratica con ami Cristal del dodici, una fila di piombini per far scivolare l’esca in profondità e un galleggiante a penna d’istrice sottile, ma così sensibile da propagare in superficie il primo morso incerto della preda. Per tuo padre, la pesca diventava emozionante quando il pesce abboccava. Difficile contraddirlo. Quell’attimo decisivo era preceduto da meticolosi preparativi: la montatura dei piombini dal più grande al più piccolo, la chiusura dell’asola, scorgere nell’acqua il ribollire di un nugolo di alborelle, il lancio della lenza, le attese silenziose. Il verme è l’alleato sacrificale. Morto per 29


morto meglio innescarlo a dovere altrimenti il cavedano lo succhia via dall’amo e allora addio. Socchiudi gli occhi, concentri lo sguardo fra il susseguirsi dei riflessi del sole sull’acqua e l’increspatura di piccole onde mosse dalla brezza, nello sforzo di controllare il movimento del galleggiante. Ti chiedi se sia proprio questo il luogo esatto. Giovanni era stato perentorio per quanto poteva esserlo un vecchio malfermo e taciturno. Con la matita aveva tracciato, sulla cartina, un segno nero parallelo alla strada provinciale. Un asterisco sbilenco indicava l’inizio del sentiero. Giovanni ricordava concitato quel giorno di trentasette anni prima, i suoi occhi acquosi e gli acciacchi non riuscivano a scalfire la nitidezza dei ricordi: Quella mattina tuo padre era raggiante, sembrava veramente felice. Faceva caldo. Eravamo partiti all’alba, in moto. Lui non aveva chiuso occhio per tutta la notte, eppure guidò sicuro fino a Lecco. Una sosta per un caffè, al bar dei motociclisti, quello di fronte all’imbarcadero, una nazionale senza filtro aspirata a fondo e poi via. Giovanni ricordò,chilometro dopo chilometro,l’avvicinamento al fiume: la statale trentasei snodarsi vicino alle sponde del lago, il gocciolio perenne delle gallerie scavate a mano, la luce accecante dell’estate alla fine dei tunnel, Lierna e la sua spiaggia sassosa, le arcate chiare del ponte del passo, il greto del Mera visibile sotto l’acqua trasparente, la casa dai quattro camini che adesso era un ristorante. Senza la presenza dell’uomo, la natura si trasforma con livida e implacabile lentezza. Dall’altra sponda, lo sconosciuto si sbraccia per richiamare la tua attenzione: vuole soltanto salutarti, o avvertirti di un imminente pericolo? Ha un corpo magro, le braccia robuste, la faccia bruciata dal sole.Assomiglia allo zingaro che incontri, ogni giorno, al semaforo di piazza Sicilia, con un bicchiere di plastica in mano e due occhi che ti scrutano pietosi e incalzanti. Tu, ogni volta che si avvicina, istintivamente blocchi le portiere dell’auto, sfiori l’acceleratore, guardi avanti in un punto imprecisato dell’in30


crocio, fissi lo sguardo sul semaforo in attesa del verde. Ti volti all’erta, i muscoli tesi, recuperi, il filo di nailon brilla nella luce del mattino. Appoggi la canna all’argine scosceso, ti guardi intorno:anche alle tue spalle non c’è anima viva. Risali con gli occhi il sentiero ripido.Per terra,ritrovi soltanto:bossoli di plastica gialla, cicche di sigarette, orme di stivali come fossili rinsecchiti nel fango. Nessun rumore. Cerchi lo sconosciuto, inutile chiamarlo, non ti sentirebbe. Lo vedi riapparire dalla boscaglia, con un bastone in mano. Ripercorri con gli occhi l’ampiezza del fiume, individui il luogo esatto dove vorresti calare l’esca. Sotto le scarpe, la riva esala il puzzo marcescente delle canne. Con la lingua segui i segni sottili e verticali lasciati dal nailon sui polpastrelli. Distingui il sapore ferroso del sangue. Anticipi il lancio, spostando la canna sul lato destro del corpo e liberando la lenza con una frustata secca che traccia un arco contro il cielo e s’inabissa in mezzo al fiume, nel luogo esatto che avevi prescelto. Sinceramente, oggi non t’importa nemmeno che un cavedano abbocchi. Sei qui per lui. Sei qui per cercare di saper qualcosa in più sul suo conto. Questo è il destino dei figli che non hanno mai avuto il coraggio di chiedere spiegazioni ai genitori: non conoscere le loro speranze da adolescenti, com’è nato il loro amore, le promesse, i litigi da sposati, la loro prima vacanza al mare, la tua nascita. Recuperi con il mulinello un po’ di filo, lo fai variando velocità e direzione per vincere la diffidenza della vittima. Il galleggiante beccheggia ancora, assediato da piccole onde consecutive e imprevedibili. Le parole di Giovanni riemergono nel silenzio rotto dal rumore del fiume. Tuo padre, quando pescava, sembrava ritrovare un po’ di pace: sigaretta riparata a coppa nella mano, occhi scuri stretti in una fessura, lo sguardo che seguiva la tensione dal filo dal cimino alla superficie dell’acqua. Pescavamo sempre vicini. Più che parlare, bisbigliavamo. Ti sembra ancora di sentirla la sua voce, il tono cupo che tratteneva un rancore ignoto, i suoi rimproveri: 31


«Quando si pesca, non si parla!» E allora tu, dodicenne, con la tua bolognese lunga due metri tacevi, attento a non far impigliare la lenza nelle alghe che galleggiavano a pelo d’acqua. Cercavi di essere indipendente, attendevi la sorpresa dell’abboccata, il pesce uscire dall’acqua sospeso al filo, l’odore delle squame al centro della mano. Ti distraevi guardando i raggi del sole sbucare da nuvole grigie, immaginavi che dietro quelle scie luminose potesse nascondersi Dio. Oggi come allora riscopri l’incanto del fiume, il suo defluire lento da millenni, i voli radenti e sonori delle libellule. Perché è la voce la prima cosa che si dimentica delle persone che ci lasciano? Il sole implacabile occhieggia sull’acqua, la punta del galleggiante s’inclina a sinistra per poi affondare perentoria. Per un istante, senti nelle braccia la forza del cavedano, l’istinto disperato della preda in trappola. Lo strattone è deciso. Ora, dentro e fuori di te, si espande un microcosmo perfetto. Un vento leggero increspa le acque. Cerchi nella memoria i suoi consigli, e la sua voce per incanto riemerge nitida: «Non avere fretta, lascialo stancare.» Assecondi il ricordo delle sue parole, cammini sulla riva cercando di favorire il movimento dell’avversario. Recuperi qualche metro, il cavedano lo senti ancora nelle braccia, con forza cerca di scendere in profondità verso il letto del fiume, cambia direzione in modo repentino: combatte per divincolarsi. Allora gli concedi altro filo e lui sembra placarsi, ricomincia a nuotare leggero, immagini le pinne muoversi nell’acqua scura, caute e rallentate. In quest’istante di tregua apparente cominci a intonare la canzone preferita da tuo padre, quella che lui cantava a mezza voce, la domenica mattina, chiuso in bagno. La sussurri appena: Pugni chiusi per tutto e per sempre in me c’è la notte più nera. Occhi spenti nel buio del mondo per chi è di pietra come me.

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Ora capisci che in quelle parole c’era la sua essenza, la rabbia mal celata, tutta la malinconia dei suoi silenzi. Quelle parole incarnavano la dignità di uomo d’altri tempi, la tessera di partito numero centoquarantasette, la fatica del lavoro in fabbrica, gli scioperi, le delusioni politiche, l’indignazione per l’Italia dei giorni nostri. L’ennesimo strattone ti coglie impreparato, la canna quasi ti sfugge dalle mani e per non lasciarla cadere entri in acqua, ti avvicini al cavedano. Tremi. Lo sconosciuto sull’altra sponda cammina senza pace, gesticola usando il bastone come una falce contro nemici invisibili. In pochi istanti, la canzone dei Ribelli svanisce e con essa la voce di tuo padre. Riacquisti faticosamente la posizione, l’odore del fiume pizzica le narici, la sorpresa lascia spazio alla rabbia. Tu invece di respirare e riprendere il controllo perdi la pazienza. Sei certo di aver ferrato il cavedano a dovere, sei convinto di averlo stancato, vuoi portarlo a riva nel più breve tempo possibile. Allora, non gli concedi pace: recuperi senza sosta, immagini di vederlo apparire dalle acque sconfitto, sfinito con la coda che si muove lentamente nell’acqua bassa. Invece, ora come mai, la parte superiore della canna segue la trasformazione geometrica di un arco in un ricciolo appena accennato. Il cavedano resiste e combatte, tanto che i bicipiti ti fanno male per i suoi scarti disperati e repentini. A un tratto, il galleggiante risale improvviso in superficie, per sparire per sempre. Uno strattone violento e sfuggente ti svuota d’energia le braccia. Dalla mollezza del filo, intuisci la fuga del cavedano in acque più profonde. Percorri con lo sguardo il movimento monco della lenza sull’acqua. Ti auguri di vedere il cadevano tramortito, spinto a riva dalla corrente. Ti scuote un brivido di freddo. Hai i piedi completamente bagnati. Le lacrime ti scendono improvvise sulle guance per la durezza della sua assenza, per tutte le occasioni perdute, quegli abbracci rimasti contratti in piccoli avvicinamenti mai definitivi.

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«Lo faccio per tuo bene.» Così diceva quando ti rimproverava. Tu non credi di essere diventato un uomo migliore di lui. Ti asciughi la faccia con il dorso della mano ma gli occhi continuano a bruciarti. Lo sconosciuto sull’altra sponda del fiume è scomparso. Il vento tiepido ti accarezza inconsolabile: sei solo al mondo. E proprio, verso le undici del mattino, quando stavamo per andarcene tuo padre ha ferrato un cavedano. Mi sembra ancora di vederlo: la canna appoggiata al bacino, il dito sull’archetto del mulinello. Recuperava con lentezza e poi lasciava un paio di metri di filo. Più che una lotta sembrava un corteggiamento. Tuo padre costringeva il cavedano a nuotare controcorrente, il pesce invece cercava la profondità rimanendo al centro del fiume. Assecondare e recuperare, concedere filo per costringerlo alla resa. Una tattica vincente: dieci minuti più tardi, il cavedano è risalito in superficie, esausto e lucente, gli occhi fissi, la coda quasi immobile. Tuo padre allora si è chinato, l’ha accolto fra le mani, l’amo gli aveva trafitto il labbro. Con delicatezza, gli ha aperto la bocca per liberarlo, con un movimento rotondo della mano, dall’inganno. Gettato di nuovo nel fiume, il cadevano è rimasto per qualche secondo immobile, nell’acqua bassa, a boccheggiare spaesato, poi ha ricominciato a nuotare con lentezza verso acque più fonde. Non c’è più tempo, disse tuo padre. Adesso dobbiamo proprio tornare. L’alba del giorno in cui sei nato, tuo padre viveva il suo tredicimilaseicentotrentunesimo giorno di vita. Aveva lasciato tua madre in ospedale ed era andato a pescare per qualche ora con Giovanni, il suo migliore amico. Sapeva che da quel giorno avrebbe vissuto giornate ancora più impegnative, poco tempo per gli amici, la politica, la pesca. Finalmente era nato suo figlio: l’atteso e possibile riscatto di una vita. Nessuno poteva immaginare che esattamente tredicimilaseicentotrentuno giorni do34


po quella giornata di luglio, tuo padre si sarebbe spento in un letto anonimo d’ospedale, nel silenzio pudico e dignitoso in cui si rinchiudono i vecchi quando soffrono, lontano da tutti gli amici, i buoni propositi della giovinezza, i risentimenti e le acque lente e irrequiete del fiume.

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Un uomo felice racconto di Luigi Di Legge illustrazione di Rosaria Iorio

Lavorando alla cassa di un supermercato si imparano tante cose. La prima è che i clienti rubano, e anche quelli che non rubano vorrebbero rubare. Molti non lo fanno per pigrizia, altri per incapacità, ma io ho capito che la maggioranza non ruba per paura di fare una brutta figura. Se fossero sicuri di scamparla, si porterebbero via anche le scaffalature. La seconda cosa che impari è che rubano anche i tuoi colleghi. I macellai fanno sparire le confezioni di carne; i fruttivendoli le buste di zafferano; il ricevitore modifica le bolle di consegna d’accordo con il fornitore; le cassiere sottraggono piccole somme o imbrogliano il cliente sul resto; gli scaffalisti rubano quello che possono. Il capocassiere spesso dimentica di controllare le cassiere che rubano, o di pagare la sua spesa. Il direttore ruba direttamente dalla cassaforte. L’ispettore smaterializza le forme di grana per farle riapparire da qualche altra parte. Io sono un cassiere onesto e integerrimo. Non ho mai, e dico mai, preso un centesimo. Sul mio contratto c’è scritto Ausiliario alla vendita. Fin dal primo giorno di assunzione ho lavorato in cassa, sono cassiere da più di vent’anni. Amo il mio lavoro. Sono sempre puntuale, faccio tutti gli straordinari che mi 37


chiedono e sono disponibile a sostituire le mie colleghe in situazioni di emergenza. Mi presto gentilmente a cambiare il turno e non nego qualche favore a nessuno. I clienti prediligono la mia cassa, sanno che sono veloce e preciso.Apprezzano la mia cortesia e il mio sorriso. E io contraccambio. Sorrido e batto i tasti. Sorrido e batto i tasti. Sorrido e batto i tasti. Non mi limito ad essere scrupoloso sul posto di lavoro, faccio di più. Ho portato a casa una cassa difettosa, l’ho aggiustata e nelle ore libere mi alleno. In sala ho riprodotto una piccola barriera cassa; indosso la divisa, sorrido e batto i tasti. Al supermercato la mia cassa è sempre la più pulita e luccicante. Durante una visita di controllo, l’ispettore la vide e disse: «Bravo Mereghetti! L’efficienza di un mercato si vede dai dettagli.» È scomparsa la DC, è crollato il muro di Berlino e io rimango sempre in cassa. Quando un direttore passa le consegne al suo successore, la prima informazione riguarda me: «Non spostare il Mereghetti dalla cassa.» Sono il miglior cassiere di Milano. Lavoro sei giorni su sette. La domenica mi esercito a casa. Quando arrivo al mercato sono sempre fresco e concentrato. Per riposarmi trascorro le ferie in piccoli borghi, mi piacciono le valli bergamasche. Vado in graziosi paesi dove trovo mini-market con vecchi registratori di cassa, con i tasti color avorio e numeri grandi, nerissimi. Alcuni conservano ancora la cromatura grigia, fanno pensare alle casse di un emporio del vecchio west. Aspetto con trepidazione la chiusura del conto per ascoltare quel suono meraviglioso del tiretto che si apre: stac. I miei colleghi mi vogliono bene, anche se l’espressione del mio viso li disorienta. Forse mi considerano un pazzo buono. Con loro condivido volentieri la pausa caffè, mi siedo e ascolto i loro discorsi. Talvolta mi coinvolgono facendomi qualche domanda banale, io sorrido cortesemente e rimango in silenzio. C’è sempre qualcuno che risolve l’imbarazzo dicendo: «Lascia stare il Claudio, lui vive nel suo mondo.» Certo che vivo nel mio mondo, molto meglio del loro. Un mondo sereno, pieno di soddisfazione. Li capisco, non sono poi così stralunato come credono. So che devono fare i conti con le 38


bollette sempre più salate, con le rate della macchina, con i libri di testo per i figli. So che devono lavorare. So che non sono stati fortunati come me. Ho sempre conosciuto il mio amore per la cassa e provo piacere a farmi chiamare cassiere. C’era in me, fin dalla nascita, quella fiammella che si accende quando qualcuno dice: «Che bravo cassiere», oppure «andiamo alla cassa del Claudio.» Già da bambino, sul seggiolone, muovevo alternativamente le dita delle manine. Battevo i tasti su qualsiasi giocattolo mi regalassero. Un trenino, i soldatini, niente da fare li usavo come tastiere. Mia mamma non si accorgeva, era troppo distratta da qualunque uomo le gravitasse nel raggio di cinque metri. Forse la mia gentilezza l’ho ereditata da lei, sempre così accomodante con quegli uomini che la stimavano e tornavano spesso a trovarla. Quando si accorse della predisposizione che il Signore mi aveva voluto donare, avevo undici anni. In un colloquio scolastico il professore di storia le disse che il mio rendimento complessivo era ottimo, bisognava solo analizzare i motivi della bizzarra fissazione relativa a casse e tasti. «Cara signora, il Claudio, a una domanda sul sistema commerciale degli antichi Romani sa cosa mi ha risposto? Gli antichi Romani non conoscevano lo zero perché non avevano i registratori di cassa. Be’, io approfondirei.» La mia mamma, che mi voleva tanto bene, iniziò ad accompagnarmi in posti con la croce rossa, piena di uomini con il camice bianco che mi facevano un sacco di domande, e alla fine tutti dicevano la stessa cosa: «Signora, a suo figlio piace battere i tasti.» Allora lei, da pragmatica meneghina qual era, comprò un piccolo pianoforte giocattolo. Mi misi a piangere.Tra i singhiozzi gli dissi: «Voglio una cassa con il cassetto che si apre, come quella dei negozi.» Vidi piangere anche lei. «Oh! Amore piccolo. A Milano non si trova quel tipo di giocattolo. Ora la tua mamma chiede dove trovarla e te la compra.» 39


Uno dei suoi amici gliene trovò una in un negozio di Lugano, e me la regalò a Natale. Per la prima volta fui felice. Mi diplomai con sessanta sessantesimi e mia madre disse: «Ora posso morire serena.» Qualche giorno dopo morì. Presentai domanda di assunzione in vari supermercati. Mi assunsero subito. Il primo giorno di lavoro quando il direttore mi provò in cassa strabuzzò gli occhi e mi disse: «Mereghetti, finisci il conto del signore, arrivo subito.» Sono vent’anni che lo aspetto. Ora sono un uomo, alto e robusto. Qualche signora viene alla mia cassa anche se la coda è più lunga, mi chiede di aiutarla a portare la spesa a casa, ma io sono un cassiere corretto e non posso lasciare il mio posto durante l’orario di lavoro. Un giorno una di queste signore mi rispose che un mio collega l’aveva aiutata ugualmente. «Mi dispiace signora. Sono fatto così.» I miei compagni di lavoro ultimamente li vedo preoccupati, discutono spesso di nuove tecnologie. Ora in pausa caffè parlano con voce alterata e ho notato che le mie colleghe cassiere sono le più nervose. Un giorno una mi dice: «Uè Claudio, lo sai che la direzione vuole sostituire le casse con i lettori ottici e con gli scanner! Servirà meno gente, rischiamo che ci licenziano.» Lettori ottici e scanner mi facevano tornare in mente i titoli dei film di fantascienza anni Sessanta. Annuii e continuai a zuccherare il mio caffè. «Il Claudio fa finta di niente» intervenne cattiva un’altra cassiera, «proprio lui che vive per la cassa.» Come al solito non riescono a vedere al di là del loro naso, sono troppo occupati a sopravvivere per distinguere altro, mediocremente concentrati su se stessi, sulle loro famiglie o sulla nuova lavastoviglie. Li sorprenderei se gli ricordassi che a me non interesserebbe molto se mi dovessero spostare, o peggio ancora licenziare. La vita, come dicevano gli antichi Greci, è come una partita a dadi. Io gioco e ho anche un piccolo segreto. 40


Ero in vacanza nel solito paesino di montagna. I negozietti chiudevano causa apertura di un enorme centro commerciale. Chiesi a una stanca bottegaia se mi rivendeva la cassa e la signora mi disse: «Se vuole ne ho anche un’altra in magazzino, però è rotta.» Gliele comprai tutte e due. Ora le ho sistemate e funzionano come l’orologio della NASA. Incantevoli come due scrigni; oliate e scattanti. Quando Milano regala certe serate limpide e si vedono le stelle (sì, anche Milano ha serate simili, sono i milanesi che non alzano il collo per vederle) carico i miei tre registratori di cassa in macchina ed esco. Ho scoperto una radura tra gli alberi dell’Idroscalo, parcheggio e apro le due portiere. Creo una minuscola barriera casse all’aperto, sapeste che gioia sentire il ticchettio delle battute e lo stac del cassetto, nel silenzio della sera. E non sono solo. Da qualche tempo arriva anche un’anziana cassiera, l’Angiolina, che parcheggia vicino alla mia auto, attiva la sua cassa e inizia a picchiettare sui tasti. Abbiamo fatto immediatamente amicizia. Non passiamo tutta la notte a battere in cassa. Ci prendiamo i nostri tempi, come dicono le frenetiche signore milanesi andando a fare fitness. Quando siamo affaticati, chiudiamo e andiamo al baretto dell’Idroscalo. L’Angiolina ordina un vermouth o una chinamartini, io una caipiriña, a volte due. Poi torniamo in cassa. Sorridiamo e battiamo i tasti. Sorridiamo e battiamo i tasti. Sorridiamo e battiamo i tasti. Sono un uomo felice.

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Lussazioni e rotture racconto di Andrea Ferretti illustrazione di Lucio Villani

Io di spaccamaroni ne ho conosciuti in vita mia. Mi ricordo il prof. Zampera Burlato al liceo, che tutte le volte che mi interrogava andava avanti con le domande finché non sbagliavo la minima, trascurabile, infinitesima argomentazione e allora mi faceva la paternale, «se non hai capito questo, significa che il resto l’hai imparato a memoria» e mi schiaffava un sei meno meno anche se sapevo tutto. O zia Concepita, che ci veniva a trovare tutte le domeniche alle sette di mattina e ci chiedeva se magari stavamo ancora dormendo, e ce lo chiedeva urlando nel citofono talmente forte che avrebbe potuto anche non usarlo, il citofono. Oppure mio cognato, assicuratore, che a ogni ritrovo familiare prima mi gira intorno un po’, mantenendosi alla distanza, poi piano piano si avvicina, con l’occhio garbato di un’aquila, mi serve due domande di circostanza sulla salute e sul tempo, chiude il preliminare con una battuta idiota sulle donne, poi come un rapace vola in picchiata sul suo vero obiettivo: martellarmi fino alla sfinimento con grafici, percentuali e rendimenti oltremodo improbabili per farmi sottoscrivere l’ennesima polizza assicurativa assolutamente inutile (una volta voleva appiopparmene una anche per la moto, e io la moto non ce l’ho). 43


Di spaccamaroni, dicevo, ne ho conosciuti parecchi. Ma uno come Lanzanacci non mi era mai capitato. Lanzanacci apparve dal nulla nel primo mattino del quattro agosto di due anni fa all’ombrellone H8 del Bagno Sirene di Milano Marittima. Io ero sdraiato sul mio lettino dell’ombrellone H7, immerso nel sano piacere della lettura mattutina e della quiete silenziosa della spiaggia semideserta. Per comprendere appieno quanto fosse molesto Lanzanacci, è opportuno contestualizzare adeguatamente la sua apparizione: da quando sono diventato padre di due gemelline, cinque anni fa, ho scoperto il fascino della spiaggia nelle prime ore della giornata. Uscire quatto quatto di casa alle sette meno un quarto, concedersi un bombolone e un cappuccino, godersi due orette di giornali, libri e corroborante ozio per poi tornare a casa alle nove, svegliare moglie e bimbe e collaborare fattivamente alla giornata familiare. È inutile sottolineare che quelle due ore di solitudine sono un tesoro prezioso per la mia vacanza. Di solitudine, appunto. Quella mattina, però, la lettura fu bruscamente interrotta da una voce talmente gracchiante che di primo acchito cercai di individuare una radio mal sintonizzata. «Io mi chiamo Lanzanacci, te come ti chiami?» Era lui, Lanzanacci, una massa arrossata dal sole, un po’ informe e molto pelosa, con in testa il cappellino rosso e blu di una ditta di autotrasporti. Indossava una canottiera bianca e un costume di due misure troppo stretto. «Mi chiamo Ferretti», risposi raccattando qualche cencio di buone maniere. Mi guardò per qualche istante senza parlare, e io riportai lo sguardo sul libro, confidando che il disturbo non avesse un seguito. Mi sbagliavo. «Feretti, lo sai che io nel mojito ci verso anche un bicchiere di lambrusco e una volta per una scommessa ne ho bevuti diciannove uno dietro l’altro?» Stavo ancora elaborando una risposta eloquente riguardo il mio completo disinteresse per la vicenda, ma non riuscii neppu44


re a concludere l’iniziale «A parte che mi chiamo Ferretti con due erre...» che Lanzanacci aveva già iniziato il racconto del delirante aneddoto. «Era una sera che vado al bar e incontro Gimoni e Putridati che mi dicono:“Veh, Lanzanacci, te che bevi i mojiti col lambrusco dentro, scommettiamo che noi ne beviamo più di te?” e allora io gli ho detto: “Che ti venisse niente, vedrai che vi fermate prima voi di me, merde che non siete altro” e allora lui mi ha detto...» La narrazione, inframezzata da risatacce, urla e imprecazioni non sempre timorate, continuò per tre eterni quarti d’ora, con un sonoro rutto a mo’ di chiusa. Con la stessa sensazione che immagino provi chi è stato travolto da una valanga, raccolsi attonito libri e giornali, feci per avviarmi verso casa, approfittando del momentaneo silenzio. «Grazie delle chiacchiere, ma devo proprio andare», biascicai senza guardarlo. «Ciao Feretti.» Quando tornai, dopo le dieci, con le bimbe e mia moglie, constatai con grande sollievo che l’ombrellone di Lanzanacci era vuoto. E così rimase tutto il giorno. Pensai che Lanzanacci fosse uno di quei personaggi che si fanno un giretto in spiaggia la mattina presto, si fermano in un ombrellone a caso lungo la spiaggia, importunano il malcapitato, poi spariscono, alla ricerca di nuovi ombrelloni e nuovi malcapitati. In effetti in occasione della sua raccapricciante apparizione avevo notato che non aveva nulla con sé, borse o teli da spiaggia, che potesse far pensare a una permanenza più prolungata all’H8 del Bagno Sirene di Milano Marittima. Rinfrancato nello spirito, il mattino dopo arrivai in spiaggia prima delle sette. L’aria fresca era piacevole, il mare placido. In spiaggia non c’era nessuno. Appoggiai lo zaino. Estrassi il telo e lo posai sul lettino, eliminando accuratamente ogni pieguzza. Scelsi il libro con cui iniziare il mio viaggio di due ore nell’infinito. 45


Mi sdraiai. Emisi un sospiro ebbro di compiacimento per la bellezza della vita e iniziai a leggere. Che bene! «Feretti, lo sai che una volta su una strada di montagna con la mia Panda 45 ho fatto un garino di retromarcia contro uno con la Ferrari e ho vinto io?» Mi voltai sconvolto e terrorizzato, mi stropicciai gli occhi, sperando che si trattasse di una bizzarra allucinazione, mi stropicciai anche le orecchie, per allontanare il suono di quella voce grifagna, ma era proprio lui, Lanzanacci. «Era una sera che vado al bar e incontro questo fighetto con la Ferrari che mi guarda con la puzza sotto il naso e allora gli ho detto “Veh, faccia da tutti i giorni, cos’hai da guardare, che ti venisse un accidente a te e alla tua macchina” e allora lui...» Arrivai esausto al triplice rutto finale, che giunse ben dopo le otto, e svicolai a casa. Veniva in spiaggia solo a quell’ora del mattino, Lanzanacci; sembrava fosse inviato da qualche oscuro nemico a rovinarmi la vacanza. E ogni giorno ne aveva una fresca: «Feretti, lo sai che ho costruito da solo un garage abusivo tutto in una notte e al mattino ho detto che c’era sempre stato?», «Feretti, lo sai che una volta a Milano ho dato un frontino a Tyson e lui non ha detto niente?», «Feretti, lo sai che da bambino mangiavo gli zampironi e poi soffiavo sulle zanzare e morivano tutte?» Non smettevo di andare in spiaggia alle sette solo perché speravo che, per qualche motivo, saltasse qualche mattina e mi lasciasse godere appieno il mio momento di quiete. I miei desideri vennero finalmente esauditi il quattordici agosto: ormai rassegnato a vedere interrotti i miei ozi da un momento all’altro e quindi sprofondato nella lettura per catturare ogni secondo disponibile, mi accorsi solo dopo un’oretta abbondante che Lanzanacci non c’era. Lanzanacci NON c’era. Non volevo illudermi troppo, perciò rimasi in diffidente attesa del suo arrivo. Ma alle nove cantai trionfalmente vittoria: Lanzanacci non si era presentato, magari era tornato a casa, magari 46


aveva semplicemente finito le vacanze, magari gli si era incastrata la chiave della camera d’albergo nella serratura e vallo a trovare, te, un fabbro il quattordici di agosto. L’importante era che Lanzanacci non ci fosse, e pazienza se avevo comunque sprecato la mattinata ad aspettarlo: la sua assenza dischiudeva nuovi, affascinanti scenari per il prosieguo della vacanza. Ubriaco di gioia rincasai zigzagando con la bici, facendo i caroselli col campanello e cantando a squarciagola Bella d’estate di Mango. Per festeggiare, acquistai doppia razione di bomboloni per moglie e bimbe e misi in fresco una bottiglia di spumante per la sera. In realtà l’uscita di scena del re di tutti gli spaccamaroni aveva risvolti più avventurosi, come seppi nel pomeriggio dal bagnino: tornando in albergo il mattino prima, Lanzanacci era stato investito da un motorino e cadendo si era fatto male a una spalla, probabilmente una lussazione. Ne parlava con dispiacere, il bagnino, ma il suo umano sconforto non mi contagiò. Anzi, e lo dico con una certa riluttanza vista l’opinione alta che ho della mia moralità, ero proprio contento. Ben gli stava, non si importuna la brava gente che si riposa. La mattina seguente, Ferragosto, arrivai in spiaggia ancora prima del solito per gustarmi il tradizionale concerto all’alba, in compagnia del consueto pubblico di assonnati mattinieri e stralunati tiratardi. Mi lasciai trasportare dalle note di Gershwin suonate da un’orchestra in livrea e piedi scalzi in riva all’Adriatico, e iniziai a volteggiare immerso in quell’atmosfera felliniana. Poi andai al mio ombrellone con una leggerezza che neanche lasciavo le orme sulla sabbia, mi sdraiai sul lettino, guardai compiaciuto per sei minuti sei l’ombrellone vuoto di Lanzanacci e poi alzai gli occhi al cielo, interrogandomi sul fascino dell’universo, delle stelle lontane, degli innumerevoli mondi possibili, e sulla meschinità di fronte al creato della nostra piccola esperienza di umani, finché, come nel più terrificante degli incubi: «Feretti, lo sai che con la spalla lussata ieri sera ho vinto una gara di braccio di ferro e ho anche dato un pugno in faccia a uno di Gambettola? Lui è arrivato e mi ha detto “Pezzo di cretino” e allora io...» 47



Angoli custodi racconto di Marco Alfano illustrazione di Arianna Papini

Le cose che fanno paura a Mario sono strane. Almeno qualcuna lo è. Il teschio sulla boccetta di tintura di iodio, certo, è naturale. VELENO, c’è scritto in stampatello. A chi non farebbe paura? E anche quell’altro, sulla cabina elettrica sotto casa di zia Flora, ancora più esplicito: PERICOLO DI MORTE. Al posto delle tibie incrociate, due fulmini, moltiplicazione acuminata del terrore. Ma a Mario fanno paura anche altre cose, più insolite. Certe lettere, ad esempio. Certe lettere dell’alfabeto. La X. La X lo rende inquieto e spaventato. Forse perché quell’incrocio di aste somiglia a quello delle tibie sotto al teschio, chissà. Oggi sta giocando col camioncino di plastica e, come fa spesso, ha sfilato dai gancetti i due assi delle ruote. Sono rimaste due coppie di dischetti neri uniti da un’asticella. Sembrano piccoli bilancieri, di quelli che usano i sollevatori di pesi. Carini, visti così. Mario immagina due piccolissimi omini baffuti e in costume intero che, usciti da chissà dove, li sollevino un po’, poi, stremati dallo sforzo, vadano a rifocillarsi lì vicino, magari nella scodella del cane. Cane peraltro, Bob, sonnolento e languido e di poca 49


compagnia, del tutto disinteressato allo spettacolo, alle ruotine, al camion reso invalido, ai microatleti. Lui, forse, sta sognando ossi, tibie. E almeno a lui lo mettono di buonumore, nel sogno. Insomma, tutto andava bene fin quando a Mario non è venuta voglia di farli incontrare, quei due assi di camion. Li ha incrociati, uno sopra all’altro. Ed è cambiato tutto. Una X enorme, un nero schifoso insetto artificiale, tutto antenne e zampe, si muove lentamente sul pavimento del salotto. E si avvicina, forse per divorarlo o avvelenarlo. Si muove girando su se stesso mentre avanza. La lettera inquietante prende vita. L’animale non ha né testa né coda, o semplicemente non si distingue quale sia l’una o l’altra. Con un grido di raccapriccio Mario dà un calcio a quella cosa, che si divide di nuovo e schizza via in due diverse direzioni. La paura si è incarnata alfabeticamente, in un segno, come già è capitato talvolta nel mondo, e come ricapiterà. Ma Mario non lo sa, anche se forse lo intuisce. Poi, tra non molto, Mario avrà un nuovo segno ad inquietargli le veglie e i sonni. È una lettera strana, anzi straniera, di una lingua diversa. Greca, gli ha detto papà. L’ha vista una volta sul fianco di un camion. Poi anche sul comignolo di una nave. Sembrava una E, ma non lo era. Era una E malata, aguzza, feroce. Una E dentata, figura di punte, lame, lampi elettrici. Come i fulmini sotto al teschio. Una E che morde. Si chiama Sigma. E si pronuncia esse. Ma Mario non vuole pronunciarla. Ha paura di tagliarsi la lingua. Ha paura di quella lettera infida, strana, che da lontano ti sembra familiare, come un cane che somiglia al tuo. Buono, da accarezzare. Ti ci avvicini e ne riconosci troppo tardi l’occhio strabico e maligno. Ti ha già staccato una mano ringhiando. La E è diventata Sigma. La M si è ribaltata su un fianco, e si rivela essere, anche lei, uno scarafaggio arrabbiato che agita frenetico le sue zampette velenose verso di te. Sigma, Ics. Paure alfabetiche. E paure geometriche s’incarnano – se fossero di carne, ma non lo sono – negli uomini rettangolari. Pupazzi, fantasie. Forse li ha visti in televisione, disegnati, animati in qualche filmino o carosello. Forse li ha solo immaginati. 50


Personaggi che hanno nel corpo esclusivamente angoli retti, riquadri chiari e scuri. Tronco e minuscoli piedi d’insetto, da sotto. Sopra, enormi faccioni rettangolari che sono insieme volto, testa, pancia. Nello sguardo quadrato, o forse nei puntini minimi delle pupille, hanno la fissità inespressiva della morte. Quella che ti viene a prendere senza parlarti. Giocano a golf, indossano cilindri – e quale altro cappello, se no? –, si muovono rigidi sulle loro zampette. Qualcuno ha i baffi, rettangolari o quadrati anch’essi. Molto tempo dopo, dentro altre, differenti paure, Mario ritroverà questa, accorgendosi che disegnando un rettangolo chiaro con al centro un quadratino nero, e un triangolo pure nero a tagliare in diagonale la fronte – un ciuffo a ghigliottina –, ciò che compare è una delle immagini del male. Come del resto la Sigma e la X fusi tra loro. Ma questo succederà più avanti. E forse sarà solo un caso. Mario ha paura anche di certi sogni che fa. Sogna di stare dentro la sigla di Carosello. Ma proprio dentro. Lui piccolo e le cose intorno grandi: i valletti con le trombe, i personaggi col flauto e il mandolino. Le porte che si aprono, le tendine, le fontane, le barchette. È tutto enorme e inospitale. Lì, così vicino, distingue la grana nebbiosa bianca grigia e nera, i puntini del teleschermo. E quella musichetta, la tarantella che tanto aspetta la sera, ora suona al rallentatore, bassa e strascicata, cupa d’echi di caverna, e gli sembra una voce terribile, di orco, proveniente da una bocca invisibile che sta per mangiarlo. Lentamente, il corridoio di cartapesta comincia a scorrere all’indietro, o forse è lui che avanza, non si capisce, e in fondo a tutto, vicino a quella specie di fontanone cogli archi, c’è per terra qualcosa che si muove piano, e si avvicina. È una X, sbucata da chissà dove: dallo spazio, dall’inferno, da sotto il camioncino. Mario si sveglia urlando. Mamma accorrerebbe, se ci fosse. Ma non c’è. È buio pesto. Solo la piccola luce dell’angioletto di ceramica lo conforta un poco. Lentamente la tensione si allenta. Lui si riaddormenta piano. Sognerà poi tigri, igloo, negretti, e un mare agitato. Sogni senza parole. E senza suoni.

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A memoria d’uomo racconto di Saverio Cristiani illustrazione di Fabio Iaschi

Non avrei dovuto essere lì, non quel giorno, non a quell’ora. Mi aspetta un fine settimana di vacanza con gli amici dell’oratorio. Insieme a don Giulio raggiungeremo il resto della compagnia al campo estivo dove andiamo ogni anno. Avviandomi di corsa in cantina a recuperare le scarpe da calcio che ho dimenticato di mettere in borsa ieri sera, noto subito che la porta, abitualmente chiusa, è adesso semplicemente accostata. Dall’interno proviene un rumore indistinto, come un ansimare strozzato misto a struscio d’abiti. La luce che entra dalla finestrella posta in alto, vicino al soffitto, disegna solitamente un ampio quadrato luminoso sul pavimento e io, sbirciando dalla fessura, vedo su questa superficie un’ombra confusa muoversi freneticamente. Mi avvicino piano. Scostando la pesante anta, con cautela mi immergo nel microscopico pulviscolo illuminato dai raggi del sole che entrano prepotenti di traverso. Dietro alla polvere, lui. Appeso per il collo a una vecchia corda fissata al soffitto, ha l’aspetto di una marionetta folle. Le gambe scalciano all’impazzata facendolo ondeggiare sempre più disordinatamente, men53


tre con le braccia cerca di afferrare il vuoto. Dalla bocca grugniti indistinti e un sottile filo di saliva a bagnare la barba incolta. Poco distante, rovesciata a terra, la sedia impagliata sulla quale mamma mi allattava appena nato. Ci guardiamo per un lungo, interminabile attimo: sul suo volto compare un’espressione di sorpresa, subito seguita da un’implorazione nascosta di aiuto. «Papà...», riesco solo a dire, più stupito che impaurito, non sapendo se chiedere aiuto alla casa vuota o cercare di sollevarlo prendendolo per le gambe. La ragione mi dice che non riuscirò ad alzarlo con le sole mie forze e ogni mio tentativo di salvarlo sarà inutile. Le sue mani smettono di brancolare. Si aggrappano alla fune tesa sulla sua testa in un gesto di estremo pentimento. Continuando a fissarmi, cerca con la voce di dirmi qualcosa. Vedo espresso in quei gesti frenetici il terrore cieco di chi ha varcato la soglia oscura dell’irrimediabile e nello stesso tempo si aspetta un semplice aiuto, un piccolo gesto insignificante, come quello di rialzargli sotto i piedi la sedia ribaltata lì vicino. Piccolo, ma tanto grande quanto una nuova vita ottenuta in regalo dalla fortuna. Io sostengo quella disperata richiesta di soccorso per qualche secondo. Quasi sperando si tratti di uno scherzo architettato nei miei confronti, lentamente gli giro intorno, vado all’armadio, prendo le scarpette e le infilo nella borsa, senza distogliere la vista un attimo dai suoi grigi occhi sbarrati che adesso osservano qualche punto lontano sul pavimento. Irrazionale come solo una speranza può essere, mi attendo l’impossibile: un sorriso di scherno, come a dirmi ci sei cascato, eh? Ma quel sorriso non arriva e non arriverà, simile ai tanti altri mai ricevuti nei miei dodici anni di vita. Con un ultimo grugnito e un sussulto improvviso le braccia cedono allo sforzo, ricadono lungo i fianchi. Il corpo abbandonato inizia a dondolare tendendo la corda in maniera definitiva, mentre con crepitio argentino una chiazza di liquido maleodorante si forma sul pavimento, colando dai 54


pantaloni sino alla punta dell’unica scarpa rimastagli ai piedi. La testa piegata in modo innaturale e quei vestiti che mi sembrano adesso troppo grandi mi fanno pensare a un fazzoletto annodato in un angolo e da lì, gocciolante, appeso ad asciugare. Senza dargli le spalle esco dalla porta.Voltandomi repentinamente verso le scale ho l’impressione di sentire il suo sguardo fisso sulla mia schiena, come un richiamo ineludibile, come un filo d’acciaio teso piantato tra le scapole. Sulla pelle, lo stesso formicolio di quando mi portava a letto da piccolo e, iniziando a raccontarmi una fiaba – sempre la stessa –, gli si arrochiva la voce e cominciava ad accarezzarmi; prima lentamente, poi con sempre maggiore vigore. Io restavo in silenzio, inutilmente fingendo di addormentarmi per non vedere l’altra sua mano muoversi frenetica nei pantaloni e cercando di scacciare dalla mente quello che sapevo mi sarebbe successo poco dopo. Quando esco al sole c’è il pulmino ad aspettarmi, con tutta la squadra al completo, chiassosa e spensierata come sempre. Alla guida il Don che, osservandomi, e alzando la voce per farsi sentire nella cagnara, mi apostrofa con fare ironico: «Ti sei scordato niente, stavolta?» Mi volto impercettibilmente verso la porta appena chiusa dietro di me, senza rallentare il passo. La borsa è diventata pesantissima tra le mie mani. Salgo deciso e con un gesto di diniego del capo, rispondo a bassa voce: «No, Padre. Non ho dimenticato nulla.»

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La pecora e l’organo racconto di Giovanni Locatelli illustrazione di Claudio Arisi

E anche oggi mi trascino una pecora macellata, pulita dentro e fuori, per le vie di Zadar, su questa carriola arrugginita, sotto il sole feroce del primo pomeriggio. Quando capita che una cliente decide di comprarsi una pecora intera per farci la jagnjetina, lo spiedo tradizionale, Darko la impacchetta in un sacco di plastica nero, proprio come una salma rimpatriata dal fronte, e me la dà in consegna, con l’indirizzo. Io tiro fuori la carriola dal retrobottega, ci carico sopra la carcassa e mi avvio lentamente, per evitare che le buche del terreno la facciano rimbalzare e poi perché non ne ho voglia. Così passo dalla piazza Petra Zoranica e mi infilo nelle strette vie del centro, con l’animale che sembra controllare da dentro il sacco e alle volte mi dà anche indicazioni, se sono incerto, ma nessuno ci fa caso e nemmeno io me ne stupisco. Oggi, di diverso dal solito c’è che incontro Tania e i suoi capelli lunghi. Che vergogna, non era mai capitato prima di fermarmi a parlare con lei sotto gli occhi del cadavere. Molto imbarazzante, avrei preferito non fermarmi, ma è andata così e, finché ho potuto, ho fatto finta di niente. Avessi trovato un sistema qualsiasi per sbarazzarmi dell’animale, l’avrei usato, a costo di 57


abbandonarla in autostrada, come i cani estivi, o di consegnarla a un indirizzo a caso. Josip il vecchio importuna sempre i passanti, regalando la copia di un giornale vecchio di un mese. «Alla vigilia delle Olimpiadi, la Russia attaccherà la Georgia in appoggio all’Ossezia.Vedrete... sta scritto!» Chi non lo conosce lo guarda con aria imbarazzata e cerca di allontanarsi per evitare noie. Gli abitanti del quartiere provano a dissuaderlo dalle sue preoccupazioni, con scarsi risultati. «Josip, lascia stare, è già successo, in agosto. Siamo in settembre, adesso...» «Ciao ragazzi, cosa ci fate in giro con una pecora?» Eccolo lì! Ed io che ero riuscito a non nominarla per tutto il tempo. «Devo consegnarla a una cliente...» «È tardi ormai... non è che avete perso tempo nascosti dietro qualche siepe?! Bravi, bravi... Uh, lo sentite questo suono? Sapete cos’è?» L’organo marino, a pochi passi da loro, emette quella melodia aliena e ipnotica così caratteristica per gli abitanti di Zadar, generata dal passaggio dell’aria, spinta dalle onde, attraverso le canne dell’organo stesso, a pelo d’acqua sotto le lastre di marmo del molo. Sono solitamente note basse e fluide, eppure oggi c’è qualcosa di sinistro nella vibrazione e di triste come se il mare volesse esprimere un ammonimento. «È l’organo di Nikola Basic» dice Tania con aria saputa. «Macché! Quella dell’organo è una copertura, un sipario per nascondere la verità!» «Josip, questa è un’altra delle tue trovate...» «Lì sotto c’è un drago. Oggi si sta lamentando. Usa la pecora come esca. Farei così anch’io...» «Va bene, Josip, va bene. Poi ti facciamo sapere come è andata...» «Non serve... Lo leggerò sul giornale!» È l’alba. Mirko e Tania sono a pelo d’acqua con maschera e 58


boccaglio, legati alla barca con una corda, mentre la pecora, zavorrata, scende lentamente negli abissi. Mirko crede di aver paura, crede che Tania ne abbia persino più di lui, loro che si facevano beffe della storia di Josip, lui che voleva sbarazzarsi della bestia, loro che poi hanno deciso di provare e vedere quel che sarebbe successo. Poco a poco si intravede un’ombra, prima piccola, poi sempre più grande e la pecora smette di scendere e resta a mezz’acqua. Tania è immobile, forse trattiene il respiro, Mirko viceversa respira affannosamente, aspirando sorsate d’acqua salata che dovrebbero soffocarlo, se solo ci facesse caso. L’ombra si è ingigantita, è come una palla e si muove, ma non si sposta, tutta intorno alla pecora. Non è una sola creatura, sono migliaia di piccoli pesci che, uno dopo l’altro, sbocconcellano la carcassa. Il banco è inspiegabilmente numeroso, non si sono mai visti così tanti pesci da quelle parti, e si sono radunati in pochissimo tempo. Dove si nascondevano? È questo il mostro di cui parlava Josip? E il loro respiro è il respiro del mare, il suono dell’organo? La pecora è completamente spolpata. Il banco, così come si è improvvisamente composto, improvvisamente si scioglie. Mirko e Tania emergono contemporaneamente, si tolgono la maschera e si guardano negli occhi ancora emozionati. Quello che hanno visto ha dell’incredibile e si capisce che vorrebbero parlarne, ma Mirko ha fretta, deve asciugarsi, cambiarsi ed arrivare prima possibile in macelleria per parlare con Darko e giustificare in qualche maniera la mancata consegna. Potrebbe dirgli che è caduta in mare. È il caso di parlargli dei pesci? E se si inventasse qualcosa di più grosso? Potrebbero montare un caso, ne parlerebbero i giornali. Magari si riesce a racimolare un po’ di soldi. Giusto per ripagargli la perdita. «Mirko sbrigati! Sei in ritardo e c’è una cosa di cui ti devo parlare...» «Sì, lo so, ma posso spiegare... Non ho fatto apposta...» «Lascia stare, qualunque stronzata hai combinato... È successa una cosa in città, hai sentito? Ne parlano tutti... Stanotte, il mare sembrava ribollire, nei pressi dell’organo che suonava come 59


non ha mai fatto, note fortissime, bassi, acuti, ultrasuoni. I cani stavano impazzendo, si sentiva anche dall’altra parte della città vecchia. Non l’hai sentito, tu?» «No, ma...» «Impossibile! Non senti mai niente, non ti accorgi di nulla, chissà dove vivi! Comunque, non si sa perché, in molti hanno perso la testa: qualcuno si è gettato dalla finestra, qualcuno ha fatto fuori la moglie. Poi, gente sparita, matrimoni improvvisati, sesso per le strade, feste... un gran casino. Adesso si parla persino di smantellare l’organo, perché non capiti più una cosa simile... Comunque, anch’io ho fatto pensieri strani, non riuscivo a dormire, mi sentivo soffocare... A un tratto ho capito e ho deciso: mollo la macelleria. Non so cosa farò, forse compero un po’ di terra e la coltivo, forse altro, non ho fretta di decidere...» Darko si sta confessando tutto d’un fiato e Mirko non riesce a credere di essere scampato impunemente alla bravata. E di aver provocato un tal casino. «Però tu dovrai trovarti altro da fare, non è detto che chi compera il negozio abbia bisogno d’aiuto... E poi non puoi rimanere qui tutta la vita a fare commissioni. Cos’è che ti piacerebbe fare?» Non ne ha la minima idea, non ci ha mai pensato. E, anche se a tutti sono venuti strani pensieri sotto l’effetto dell’organo, lui non l’ha sentito, con le orecchie sott’acqua. Ieri invece l’unica cosa che gli importava era di baciare Tania e non c’era riuscito. Stesi nell’erba, all’ombra di un pino, nel pomeriggio avevano passato un paio d’ore così, praticamente immobili, lui senza dire una parola, senza ascoltare e Tania che parlava in continuazione, lui con in mente fantasie irrealizzabili e la pecora sulla carriola a due passi (poteva persino sentirne l’odore) ad osservarli, severa, e non ancora recapitata. Per finta era riuscito a toccare Tania, a toccarle una coscia, come se niente fosse, lei indossava un vestito leggero, che lasciava scoperte le gambe.Voleva dirle qualcosa, ma non poteva pensare ad altro, la sua mano era scivolata sotto l’elastico degli slip, adesso sentiva il ventre, morbido e i primi peli. Cosa avrebbe dovuto fare, gio60


carci o fare finta che non ci fossero? Tania avrebbe stretto a sé la sua mano e lui non avrebbe più potuto fermarsi. Infilare un dito e sentirlo risucchiato in un taglio quasi più stretto del suo dito e udire Tania a cui sfuggiva uno squittio e un sospiro, che eccitavano Mirko più di quello che toccava e dell’odore acre che annusava nell’aria. Era mica la pecora che stava frollando sotto il sole? Non poteva pensare alla carcassa adesso, voleva risentire il miagolio e immergersi di nuovo nel sesso. E di nuovo Tania, che lo ricompensava con un singulto di piacere e una risata. Ancora e ancora, da perderci la testa, se non fosse stata solo una fantasia. Ma nella realtà non aveva avuto nemmeno il coraggio di baciarla. Sapeva tutto del sesso, l’aveva visto mille volte nei siti porno in internet, chissà cosa le avrebbe fatto, se non ci fosse stata quella maledetta bestia a guardarlo.

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La donna delle colazioni racconto di Paolo Cappelletti illustrazione di Maurizio Russo

Flognard di prugne e zenzero. Pane nero, spuma di burro erborizzato. Sablés alle olive nere. Omelette con frutti di bosco, ricotta e zucchero di canna caramellato. Tè verde matcha, una polvere di tè verde e sottile che Marie usa anche per la preparazione dei biscotti (quelli tondi, zuccherati sopra). Petit four, croissant. Composta di zucche e cardamomo. Una tazza di caffè nero, lungo e bollente. Un solo cioccolatino, belga. Una foglia di marzapane, un tovagliolino azzurro... Marie cucina le mie colazioni. Io sono Alban, il suo uomo. Lavoro in colorificio, preparo colori. La mia azienda ne fa di bellissimi. La mia giornata comincia alle tredici e finisce alle ventidue. Faccio una pausa di un’ora fra le sei e le sette del pomeriggio. 63


Chiamo Marie e stiamo al videotelefono un po’. Siamo sposati da quattro anni ma stiamo insieme da quando di anni ne avevamo diciotto. Da qualche mese hanno spostato il turno di lavoro di Marie. Lei è infermiera. Ora inizia alle sei e finisce alle quindici. Perciò, durante la settimana, io e Marie non ci vediamo mai. Se lei è sveglia, io dormo. Se io sono sveglio, è lei a dormire. Stiamo insieme, dormiamo insieme. Contemporanemente solo un paio d’ore per notte. Marie dorme dalle dieci fino alle quattro di mattina. Sei ore solamente. Io dormo di più: da mezzanotte alle dieci. Così, quando rientro a casa, la sera, la trovo già addormentata. È buio, mi spoglio, fumo una sigaretta e lavo i denti. Mi metto subito a letto con Marie. Lo faccio per non sentire la solitudine. Prima però mi cospargo di profumo: Jo Malone, pepe nero e melograno. 97 euro al flaconcino, sono solo 50 ml. Costa molto, ma è il mio profumo. Voglio essere profumato per Marie, anche se dorme. Lei può sentire che vicino ha un uomo profumato. Il pepe nero passa sotto le lenzuola e le pizzica le dita delle mani. Il melograno le scivola sui seni, lascia succo sui capezzoli e ci porta lontani da qui. Lì dove andiamo possiamo anche toccarci, senza che uno dei due stia dormendo. 13 gennaio Mentre dormo lei si sveglia e va in cucina. Nel sonno sento i rumori che fa. I cassetti si aprono e tira fuori coperchi. Sposta teglie. Accende i fuochi e fa bollire l’acqua. 64


Apre le finestre, arieggia. Cammina dalla cucina alla dispensa strisciando i piedi. Mi arriva il rumore del silenzio sulle pareti. Lavora alle mie colazioni, usa solo ingredienti scelti. Miele, soprattutto tanto miele. Senape mielata su carpaccio di salmone e mele croccanti. Mandorle calde. Caramellarsi di zuccheri sulle pere al forno. Noci affogate in un mare di yogurt e di... miele. Marmellate: fichi&coriandolo, ribes, fragole&lavanda. Mi fa impazzire quella al limone, aspra, terribilmente amara. La spalmo sulle fette di pane tostato che Marie lascia in forno. Anche il pane lo fa lei. Tiene il lievito madre nella tinozza del bagno. È come una materia informe, tiepida e ondeggiante. Trattiene il ricordo della parte spezzata. La guardo muoversi ogni giorno nel cilindro della tinozza. Conserva l’impronta delle dita di Marie che l’hanno lavorata. Quella pasta di lievito respira calda, nella nostra casa. Anche Marie è una donna calda. Scotta ed è elastica quando facciamo l’amore. Il lievito madre è il sesso di Marie rimasto a casa. Lo lascia qui. Resta con me. 17 gennaio Oggi Marie ha fatto le madeleine. Sono i fiori di fuoco che inaugurano il giorno più bello della miglior vita possibile. Ho annusato l’aria intorno alle conchiglie. Dio come amo le madeleine... 31 gennaio Quando mi sveglio la prima cosa che faccio è lavare i piatti. Marie lascia in cucina una montagna di cose da pulire. Nel lavandino delle cose sporche tutto profuma sempre di agrumi e di burro. Sulle pareti della tortiera, sul fondo dei pirottini in silicone. 65


Il burro è nella frolla. È nell’aria della cucina. Sulle cose è difficile da mandar via. Nei miei sogni Marie e io siamo in cucina. Lei ha la sua divisa da infermiera e io ho le mani imburrate. Giochiamo a Ultimo tango a Parigi... 6 febbraio Questa mattina una strana colazione. Il tavolo è ricco ma nel lavabo ci sono meno stoviglie rispetto al solito. Davanti ho una tazza di tè, una spremuta di pompelmo rosa e una fetta di tarte tatin, adagiata su un piattino di Limoges. Queste sono cose che ha cucinato Marie. Poi ci sono dei biscotti di meliga, un paio di gallette e dei croissant. Queste sono cose che Marie ha acquistato in un negozio. Forse non ha avuto tempo di cucinare. Forse a Marie non è suonata la sveglia... 7 febbraio Ancora più strano. Direi peggio di ieri. Nel lavabo quasi nulla. Sul tavolo due pancake scongelati con sopra dello sciroppo d’acero. Accanto un bicchiere di latte di mandorla. La confezione del latte è stata gettata fra i rifiuti. Ho mangiato un pancake e sciacquato il bicchiere. Ho preso il cappotto e sono uscito. 8 febbraio Come ieri: pancake e latte di mandorla. Accanto al bicchiere del latte ho trovato un biglietto lasciato da Marie: Mi dispiace tesoro. Durante la pausa l’ho chiamata e ho chiesto spiegazioni. Mi ha risposto che tutto è come sempre, è solo un po’ stanca. Marie è sempre stata perfetta, fino ad oggi. Non mi ha mai tradito un giorno. 66


Anche con quaranta di febbre le sue colazioni sono sempre state impeccabili... 11 febbraio Questa mattina la tavola è vuota. Marie ha un amante. Lo credo. Lo immagino. Ne sono sicuro. L’ho capito per via del profumo. Il mio profumo ora le dà la nausea. L’altra notte si è alzata dal letto ed è corsa in bagno. Credo che non voglia più dormire con me. Il mio profumo le ricorda che io ci sono. Mi ha chiesto di non metterlo. È probabile che non riesca più a reggere questo doppio gioco. In fondo Marie è una donna onesta... 12 febbraio Troia! Ancora niente colazione. Nemmeno un bicchiere di latte, una tazza di caffé. Ha avuto fretta di andarsene. Per la rabbia ho chiuso forte la porta della cucina dietro di me. La chiave è caduta a terra e io l’ho scaraventata contro il muro. Mi sono spogliato in fretta. Il lievito. Era vivo come il ventre caldo di Marie. Ho impastato pasta e sperma. Sono quindici giorni che io e Marie non facciamo l’amore. 16 febbraio Ho chiamato Mathieu. Mi ha detto di troncare, darci un bel taglio netto. Anche se è difficile, anche se viviamo da così tanto tempo insieme da sembrare fratelli. Tutto quello che io e Marie possediamo l’abbiamo acquistato insieme. Casa, mobili, pallone da volley... 67


Naturalmente sarà lei a doversene andare... 20 febbraio Oggi non ho fatto colazione nemmeno con quel poco che ho trovato sul tavolo. Non ho bevuto il caffè. Non ho toccato i biscotti. Mi sono dato cinque giorni. Poi qualcosa succederà... 21 febbraio Ho comprato una valigia. Andrò a stare da mia madre, o da mio padre. Non ha importanza dove. Non voglio più vivere sotto lo stesso tetto di Marie... Ancora quattro giorni. Sono troppi... 22 febbraio Non aspetto più, oggi me ne vado. Marie è già uscita. L’ho vista sfilarsi dalle coperte e indossare una vestaglia. Per un attimo ho avuto la sensazione che mi cercasse con un sorriso. Ho subito stretto gli occhi. L’ho sentita camminare intorno a me e poi allontanarsi. Andava avanti e indietro dalla camera, stando attenta a non farsi sentire. Quando ho sentito girare la chiave nella toppa ho aperto gli occhi e mi sono alzato. Sono passato dalla camera al bagno, ho acceso il termosifone. Ho aperto il rubinetto dell’acqua calda per la doccia. Mi sono spogliato. Mi sono lavato. Sono rientrato in camera e ho tirato fuori la valigia. Ho raccolto le mie cose, le ho sistemate con ordine. Precisione di fuga. 68


Ho tralasciato di prendere il paio di gemelli che mi aveva regalato Marie. Ancora nudo mi sono spostato in cucina. Sulla tavola nulla. Nulla sopra i fornelli. Nulla nel forno, nulla nel microonde. Solo accanto al lavabo c’era qualcosa. Due confetti. Uno rosa e uno azzurro, tenuti insieme da un biglietto: Alban, presto la tua Marie ti darà un figlio. C’era anche il disegno di una torta di mele, accanto. Ho raccolto il biglietto e l’ho piegato. Una volta, due. Ho aperto il rubinetto e messo l’acqua sul fuoco. Una quantità sufficiente per tre tazze di tè. Ho preso la tovaglia dalla cassettiera, l’ho distesa. Ho sistemato i cucchiaini, lo zucchero, il miele sul tavolo. In camera ho indossato la camicia e chiuso i polsini nella presa dei gemelli. Poi mi sono seduto. E ho chiamato Marie.

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Johnni Stantuffo racconto di Carolina Crespi illustrazione di Marco Sebastiani

Johnni Stantuffo rideva di gusto. Col sale grosso in pugno e gli spaghetti nella faretra, pronti a scoccare al suono del gong. Niente a che vedere con l’intorno, Johnni avrebbe riso comunque. Vittima di una strana patologia, sembrava condannato alla felicità; e quando per un nonnulla il riso lo travolgeva, tendeva a nasconderlo fra le mani come un attacco di tosse. Poi, com’era venuto, il riso se ne andava e Johnni incideva con l’unghia e la meticolosità di un restauratore di carillon due tacchette ben ritte affondate nel legno marcio del frigorifero di casa. Restavano così marcati l’inizio e la fine dell’evento, in corrispondenza di numeri e caselle che facevano dell’antico elettrodomestico, adibito a guardaroba, una tabella a doppia entrata. Talvolta il riso s’allargava fino a trasformarsi in pianto, mentre non succedeva mai il contrario, giacché a Johnni Stantuffo mai era capitato di piangere e poi ridere senza motivo, ma solo di piangere dal ridere senza che nulla accadesse in principio. Hadda, instancabile, faceva la staffetta tra il bagno e la cucina, gridando a intervalli regolari se il signor Johnni avesse bisogno che chieda e altre frasi di cortesia. Intanto Johnni sbrigava 71


le faccende di pulizia del corpo. Radersi allo specchio, Hadda diceva, è la sua Somalia signor Johnni, con tutti quei rischi di uscirne dilaniato e gocciolante di corposo sangue vivo misto a baffi sradicati e ad altre porcherie. Il ridere per nulla certo non giova a chi s’impegna in una mansione di precisione. E Johnni Stantuffo, una volta sbarbato, era un quadro di Picasso lasciato alla folla impazzita durante una guerra civile. Hadda amava parlare di guerra. Lo sentiva come un bisogno e un gesto di lealtà. Parlava di guerre in famiglia, di guerre d’emozioni, di guerre coi fatti. Le guerre coi fatti erano quelle che succedevano nelle piazze delle città, che prepotenti s’allargavano fino a capitarti fra i piedi, nel cortile di casa e talvolta a valicarti l’uscio. Quando le guerre t’entravano in casa, diceva, si mischiavano con le guerre in famiglia e con quelle di emozioni e tutto il tuo pensiero diveniva una funzione della guerra. I tempi della spesa, della scuola, delle feste e della preghiera. Tutto il tempo diveniva tempo di guerra. In guerra, conveniva Hadda, non c’è mai abbastanza tempo per nulla ed è un tempo che si spera sempre finisca presto. Ma non finisce mai. Quando col signor Johnni s’erano messi a guardare la tv sul divano verde con Mogadiscio annebbiata dalla guerriglia dei Signori della Guerra, Hadda s’era parecchio imbarazzata. Come se la stessero spiando dal buco della serratura. Voialtri se la guerra non l’avete, vi portate in casa quelle altrui, gli aveva detto con la voce tremula rotta dal dispiacere. E lui l’aveva abbracciata, ridendo a crepapelle fra le lacrime, e dicendole di venire con lui di là, nell’altra casa, senza l’elettricità e senza un televisore, dove nessuna guerra li avrebbe raggiunti. Da qualche mese a questa parte Johnni si sentiva sempre meno a suo agio alla luce del giorno. Uno storico che scriveva in latino raccontava che i Germani non contassero per giorni ma per notti, sembrando ad essi che la notte precedesse il giorno. Johnni Stantuffo venendo a conoscenza di questo fatto s’era intestardito nel voler conoscere questo popolo tanto strano seppur così simile a lui e, quando gli s’era detto che i Germani d’oggi po72


co avevano in comune con Arminio e compagni, era piombato nella delusione più nera e gli attacchi di riso erano triplicati. Hadda spesso faticava a comprendere quell’uomo tanto particolare e tentava di tirargli su il morale raccontandogli le peggiori sventure, in modo da risvegliare almeno per contrasto, quel buon senso che come il senno troppe volte se ne andava sulla luna. Non sempre le sue vicende servivano a riportare il signor Stantuffo alla realtà quotidiana, ma perlomeno Hadda trovava in lui un interlocutore tanto saggio almeno quanto matto. Ci fu una volta in cui entrambi sedevano sul divano della catapecchia sorseggiando del tè, fermi ad ascoltare il ronzio delle mosche d’agosto, ognuno rapito dalla mollezza estiva dei propri pensieri. Ad un tratto il signor Johnni l’aveva fatta partecipe di quanto l’osservare inerme il lento finire del vociare al crepuscolo lo rendesse irrequieto. Forse per l’imminente calar della sera che li avrebbe sorpresi, immobile e silenziosa. Hadda aveva strabuzzato gli occhi, rispondendo come ciò fosse possibile, come una tal pace potesse risvegliare il tumulto nei cuori. E, infastidita, aveva fatto presente al signor Johnni che la quiete era un dono di cui pochi godevano gratuitamente. Gli aveva poi ribadito il fatto del bambino mai nato, che aveva dovuto lasciare di nascosto fra i liquidi viscosi di una camera clandestina a Mogadiscio, e di quanta irrequietezza le aveva causato perdere la stima e la considerazione di colui che amava. Più della sua vicinanza.A causa di una gravidanza inopportuna, che ansie e legami di parentela avevano strozzato insieme al suo rapporto amoroso.Con l’occhio un po’ lucido e morsicando dal nervoso un biscotto di pasta di mandorla, Hadda gli aveva puntato il dito contro sentenziando di pensare bene prima di definirsi un poverino irrequieto. A questa sfuriata in crescendo erano seguiti un paio di minuti di silenzio intervallati solo dal croccar sotto i denti della granella di pistacchio. Al ché ridendo sommessamente Johnni Stantuffo s’era scusato, dicendo che aveva semplicemente cercato un’esemplificazione della sua condizione di noia e inadeguatezza esistenziale diurna. Stato emozionale che, effettivamente, non corrispondeva a realtà, sentendosi, lui, a suo agio più la sera che di giorno. Come i Germani, per l’appunto. Poi, alzandosi per pren73


dere il cappello e andare a coricarsi nella casa in fondo alla strada dei Cedri, le aveva detto con un fil di voce che succedeva spesso che fare l’amore fosse disfare l’amore e che da un uovo strapazzato poteva, seppur a fatica, uscir fuori un ripieno regale. Vi era stato un tempo in cui Johnni Stantuffo era arcinoto per una vicenda di zucche. Qualche tempo addietro infatti, il signor Johnni con l’aiuto di un paio di amici era riuscito nell’impresa di vincere la gara di zucche giganti di un paese non lontano dal villaggio e di comparire sui giornali del borgo con la zucca sottobraccio posata su di un carretto. I 300 chilogrammi della sua creatura avevano fatto il giro della valle ma Johnni non era un uomo sensibile alle adulazioni e alla notorietà, e se ne stava volentieri ritirato nella catapecchia di largo Savonarola a fumar sigari tra le risa e progettar carretti per ortaggi. Ricordiamo che la mansione dello Stantuffo in gioventù era stata appunto quella di costruire immobili mobili, ossia strutture munite di ruote per qualsivoglia fine, dal movimento su carreggiata al cavar numeri telefonici. La scrivania stessa era stata modificata al suo arrivo con l’aggiunta di rotelline retrattili alla base delle quattro gambe massicce (cosa che peraltro rendeva l’arnese parecchio ridicolo essendo le rotelline grandi come biglie e le gambe spesse come le caviglie d’un pachiderma). Ma anche la vicenda delle zucche ebbe vita breve e fu avvallata da una cocente delusione che trascinò Johnni al noto stadio umorale della noia nera e del riso continuo. Dopo settimane di cura per quella che aveva tutte le carte in regola per essere la zucca della svolta, lo Stantuffo e i suoi due compari furono obbligati a trasmettere alla stampa il seguente sciagurato comunicato: Siamo a darvi la triste notizia che alcuni giorni fa abbiamo notato dalla base della zucca presentarsi della muffa, abbiamo ispezionato scavando e ci siamo resi conto che aveva una zona di marciume larga 15 cm e che ormai era spacciata. Sono stati interrotti sia i trattamenti sia le annaffiature ed è stata lasciata lì come concimazione per i prossimi anni, ci dispiace molto, ci tenevamo a questo frutto ma questa stagione è troppo crudele con loro e noi non sappiamo cosa fare. 74


E il signor Johnni ricominciò ad appartarsi nella catapecchia, fumando come un bollito e molleggiando furibondo sulla sedia a dondolo, anch’essa munita di rotelline bigliformi e per questo scomoda come una lastra di ghiaccio sotto i pneumatici di una Twingo. Dal giorno del decreto sugli incroci autoregolantesi, il rischio di bruciarsi le dita che il signor Johnni correva ogni mattina all’incrocio tra la strada dei Cedri e largo Savonarola era triplicato. Con la regola che stabiliva che chi per ultimo arrivava all’incrocio per ultimo doveva attraversarlo, regnava un’indecisione tale che l’immobilismo era la norma. Giacché colui che giunge a un incrocio, sa per certo che qualcuno potrebbe esser giunto prima di lui su una sponda differente del medesimo incrocio, ed è quindi portato a guardarsi attorno al fine d’accertarsi che nessuno l’abbia preceduto. Solo dopo questa operazione, egli può dunque attraversare in tutta sicurezza e appigliarsi a un diritto inviolabile nel malaugurato caso che si trovi ad esser vittima d’un sinistro. Ora, Johnni riteneva di dover attendere a lungo il suo turno, benché il vigile, le strisce e tutti i simboli d’interfaccia che la legge dei teoreti usa per mediare col cittadino praticone, cercassero in ogni modo di consentirgli l’attraversamento. Quella mattina dunque, solo quando si sentì oltremodo sicuro, Johnni passò lesto dall’altra parte e, posata la caffettiera sul davanzale della finestra, estrasse la chiave dal taschino ed entrò nella catapecchia a fare colazione. Monica l’aspettava nascosta sotto il lavabo. Al goffo tintinnare della tazza sul legno saltò su come una molla. Dammi una sigaretta o sparo. E a tracolla aveva un fucile da caccia. Fu così che avvenne la dipartita dello Stantuffo. Noto fumatore di sigari toscani per nulla generoso con le ragazze a modo. Freddato come un fagiano, nel bel mezzo dei gelidi giorni della merla. 75



Proctologia e dentismo racconto di Guido Casamichiela illustrazione di Giacomo Cardelli

Parcheggio Differente. Dal proctologo il parcheggio era quasi pieno ma c’erano due posti liberi che ho fatto finta di non vedere per dieci minuti in modo da guadagnare tempo finché non è arrivato il custode del parcheggio che mi ha indicato i posti e la recita con me stesso è finita. Dal dentista sono andato in bici e ho parcheggiato subito. Accoglienza Abbastanza simile. L’assistente del proctologo sorrideva rilasciando un opuscolo sull’utilità dell’anoscopia. L’assistente alla poltrona del dentista sorrideva senza rilasciare opuscoli sull’utilità dell’anoscopia. Musica presente nella stanza Identica. Musica classica trasmessa a un volume non sufficientemente alto da coprire eventuali urla.

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Compito da svolgere durante la visita da parte del professionista preposto a fornire la prestazione medica Differente. Dal proctologo anoscopia per sospette emorroidi. Dal dentista pulizia dei denti. Sintomatologia Piuttosto differente. Dal proctologo bruciore dovuto alla presenza di piccole palline o olivette sui bordi dello sfintere da me considerate emorroidine. Dal dentista denti sporchi. Aspetto del professionista addetto alle operazione mediche Tutto sommato simile. Entrambi quarantenni maschi sbarbati e pettinati. Attenzione prestata da me alle mani del professionista e in special modo alle dita al momento della stretta di mano di presentazione Differente. Dal proctologo molta. Dal dentista poca. Stati d’animo collegati alle osservazioni delle mani e in special modo delle dita Differenti. Dal proctologo un certo disagio connesso al grosso diametro delle dita e alla presenza di piccoli bitorzoli su due delle dita stesse. Dal dentista nulla. Aspettative sulla posizione da tenere durante la visita Molto differenti. Dal proctologo mi aspettavo di dovermi mettere alla pecorina. Dal dentista mi aspettavo di dover stare sdraiato sulla poltrona del dentista. Posizione reale da tenere durante la visita Differente ma in modo diverso rispetto alle aspettative. 78


Dal proctologo posizione sul fianco con le gambe leggermente raccolte verso il busto. Dal dentista sdraiato sulla poltrona da dentista. Immagine di sé fornita in riferimento alla discrepanza tra aspettative e realtà nella posizione da tenere durante la visita Molto differente. Dal proctologo quando mi ha detto si metta in posizione stavo per mettermi alla pecorina ma poi il proctologo mi ha fermato e mi ha detto aspetti l’aiuto e quindi ho dato l’impressione di essere uno pratico e forse addirittura voglioso di mettersi alla pecorina non appena si presenti uno straccio d’occasione. Dal dentista mi sono sdraiato sulla poltrona con la sola indecisione sulla posizione dei piedi che non sapevo se appoggiare sulla pediera o farli penzolare ai lati della pediera, per poi decidere di appoggiarli sulla pediera per via del fatto che la pediera era coperta con uno strato di plastica che sembrava indicare la possibilità di appoggiarci le scarpe sopra senza suscitare scandalo. Sostanze utilizzate per aiutare le operazioni mediche Differenti. Dal proctologo un gel spalmato sulle dita di un guanto e sull’anoscopio. Dal dentista una sostanza granulosa da spalmare sui denti per renderli più brillanti. Pensieri collegati alle sostanze utilizzate per aiutare le operazioni mediche Differenti. Dal proctologo pensieri sul fatto che il proctologo stava spalmando il gel non su un solo dito del guanto ma su due e che quindi aveva in programma di usare non un solo dito ma due. Di seguito pensieri sul fatto che l’anoscopio che aveva intenzione di utilizzare era costituito da una prima sezione del diametro corrispondente a quello di un dito e mezzo circa del proctologo e una seconda sezione del diametro corrispondente alla somma dei diametri di due dita qualsiasi del proctologo, con esclusione dei mignoli e dei pollici. Dal dentista pensieri 79


sul fatto che quella sostanza granulosa aveva la consistenza di una sostanza che solitamente viene indicata come sostanza che si attacca al lavoro del dentista e quindi sembrava che il dentista stesse remando contro se stesso, anche se certamente non era così. Strumenti utilizzati per le operazioni mediche Differenti. Dal proctologo un anoscopio a due sezioni. Dal dentista strumenti da dentista come spazzoline giranti e microspruzzatori d’acqua per gli interstizi tra dente e dente. Alterazioni delle sensazioni fisiche durante la visita Per certi versi simili. Dal proctologo sensazione che l’anoscopio stesse provocando l’esplosione di tutta la zona rettale fino alla creazione di una sorta di cratere coi seguenti confini: in alto inizio della riga del sedere; in basso sacchetta scrotale. Dal dentista sensazione che la rotellina puliscidenti avesse la forma di una rotella dentata di quelle utilizzate dalle massaie per tagliare la pasta sfoglia. Presenza di dolore Simile e differente. Dal proctologo piccoli dolori nella prima fase in cui il professionista ha tastato le piccole palline o olivette scambiate da me per emorroidi per via della mia scarsa esperienza in fatto di palline olivette o emorroidi, e dolore in parte fisico ma ancor più morale al momento dell’inserimento prima delle dita e poi dell’anoscopio a due sezioni nella cavità sfinterica. Dal dentista piccolo dolore fisico al momento della pulizia del colletto di un incisivo slabbrato e nessun dolore morale. Persone presenti nella stanza Quasi identiche. Dal proctologo io, un dottore quarantenne e un’assistente graziosa. Dal dentista io, un dottore quarantenne e un’assistente molto graziosa. 80


Stratagemmi utilizzati per gestire un disagio che seppur differente è stato presente in entrambe le operazioni mediche Simili. Dal proctologo immaginare che l’assistente dicesse al dottore ora la smetta di ficcar arnesi nel culo nel paziente e pensi al mio di culo che ha delle esigenze anche lui e per l’occasione la prego di rispolverare l’anoscopio delle grandi occasioni il cosiddetto cilindrone e se il paziente volesse riprendersi dalle invasioni anali dandomi una ripassata non sarò certo io a dirgli di no. Dal dentista immaginare che l’assistente dicesse al dottore va bene la pulizia dei denti ma se le interessa la mia opinione le dico che anche altre parti del corpo di questo signore devono essere pulite e io guarda caso mi trovo in possesso di una lingua che è fatta apposta per pulire non so se mi spiego. Conseguenze possibili ma nella realtà non avvenute dei due stratagemmi Le stesse. Dal proctologo l’erezione. Dal dentista l’erezione. Conseguenze possibili ma nella realtà non avvenute delle conseguenze possibili ma nella realtà non avvenute dei due stratagemmi Estremamente differenti. Dal proctologo una mia erezione sarebbe stata facilmente equivocata come un segno di eccitazione per l’intrusione digitale e anoscopica posteriore, anche alla luce della mia solerzia nel posizionarmi alla pecorina. Dal dentista tutt’al più sarei stato scambiato per un masochista. Momento peggiore della visita Differente e simile. Dal proctologo quando al momento del passaggio alla sezione maggiore dell’anoscopio mi è sfuggito un verso che sembrava quasi un verso di piacere o di giubilo per il salto di qualità ma in verità era un verso di stanchezza e di umiliazione, un mugolio che ha spinto l’assistente a guardare il dottore che armeggia81


va dietro di me con una specie di complicità divertita. Dal dentista quando ha tolto il tubicino aspirasaliva e a furia di tenere la bocca aperta mi è venuto un crampo non riuscivo a chiuderla e sono rimasto con la bocca spalancata e la bava che mi cadeva sul grembiule come un piccolo filo estensibile e l’assistente si è messa a guardare sia me che il filo estensibile per poi sorridere guardando il dentista che rideva pure lui ma con la mascherina davanti alla faccia quindi con un po’ più di discrezione. Durata della visita Simile. Dal proctologo mezz’ora. Dal dentista quaranta minuti. Durata percepita della visita Oltremodo differente. Dal proctologo diciotto mesi. Dal dentista tre ore e un quarto. Situazione clinica emersa dalla visita Differente. Dal proctologo è emerso che non ho le emorroidi ma piccoli rigonfiamenti che possono darmi noia quando mi siedo ma niente di serio. Piccoli rigonfiamenti che dovrebbero andare via con alcune applicazioni di una pomata che il proctologo mi ha regalato. Piccoli rigonfiamenti causati certamente da una stitichezza ormai cronica per la quale dovrò fare qualcosa: mangiare più frutta più verdura e bere molta acqua innanzitutto. Dal dentista è emerso che lo smalto dei miei denti è abbastanza poroso e che quindi si macchiano in fretta. Poche settimane. Postura al termine della visita Differente. Dal proctologo un po’ curva e con le gambe leggermente divaricate. Dal dentista normale. Riflessione consolante al termine della visita Differente. Dal proctologo riflessione sul fatto che sono riuscito a non 82


scoreggiare nemmeno una volta. Dal dentista riflessione sul fatto che dopo la visita per qualche settimana avrò denti più bianchi. Bilancio Differente. Dal proctologo bilancio positivo, perché sono sopravvissuto a un esame invasivo con una certa dignità, a parte la questione della pecorina e quella del mugolio. Dal dentista bilancio neutro, perché mi hanno solamente fatto una pulizia dei denti e non c’è da vantarsi. Facilità nel trovare il mezzo nel parcheggio Simile. Dal proctologo trovata subito la macchina. Dal dentista trovata subito la bici.

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Errata corrige racconto di Luca Cantarelli illustrazione di Andrea Andolina

Può non essere apprezzato, non essere pubblicato e morire di fame, essere costretto, per tenere insieme anima e corpo, a fare ogni genere di lavoro, può essere ignorato dai critici e denigrato dal pubblico. Ma [uno scrittore] rimane sempre uno scrittore. Isaac Asimov

Sono un racconto disgraziato, questa è la verità. L’immagine della letteratura rifratta da innumerevoli specchi scheggiati. Il resto sono inutili ciance da bar, come quelle sul tempo e sulle vecchie stagioni che non ci sono più e non torneranno. Non c’è verso, no, grazie. Non provateci neppure. Sarebbe tempo sprecato. Non c’è modo di consolarmi. Chi ci ha provato, certamente spinto dalle migliori intenzioni, non ha fatto altro che acuire il mio disagio. «Che vuoi che sia, sono cose che capitano...» «Non è la fine del mondo...» «Però, ci sono perfino due erre, significherà qualcosa.» Non ditemi niente, per favore. Compatitemi stando in religioso silenzio. Tutt’al più, se proprio volete, leggetemi. Ma sottovoce, mi raccomando: come foste in chiesa durante l’omelia. Altrimenti, pax et bonum. Amici come prima. Diciamocelo. I presupposti c’erano tutti. Il mio autore si era spremuto le meningi a lungo per ricavarne succo di fantasia e olio di lirica extravergine. Aveva scartabellato i dizionari più ag85


giornati alla ricerca delle parole più confacenti (come questa, appunto: con-fa-cen-ti; che suono, che ritmo!), talvolta auliche, curiali; altre, invece, più modeste e d’uso comune. Aveva deciso di inserire, qua e là, un pizzico di latinorum e un riferimento ai miti greci, che fanno sembrare lo scrittore (e di riflesso la sua opera) colto e raffinato. Inoltre, per garantire alla narrazione il mantenimento della giusta tensione, aveva deciso di racchiudere la storia in poche pagine, tre o quattro al massimo. Non una riga di più. La vecchia margherita della macchina per scrivere era stata opportunamente sostituita da una più giovane e moderna, con tutti i “petali” a posto, per così dire, in grado di stampare caratteri chiari e limpidi, privi di sbavature. Persino il nastro d’inchiostro era stato scelto con meticolosa cura tra un’infinità di marche d’importazione, nell’assurda speranza che una semplice fettuccia imbevuta di rosso e nero potesse valerci un successo internazionale. La mia stesura avvenne a una dozzina di chilometri di curve e rotonde dalle distrazioni mondane. L’ora era tarda (avvertite il suono di queste erre ripetute a breve distanza l’una dopo l’altra, a significare l’incastro dei meccanismi della creatività, come tanti ingranaggi di un orologio? L’oRa eRa taRda...). Successe al tramonto, quando i rumori del giorno si assopiscono in un sussurro gravido di ispirazione (tRamonto, Rumori, gioRno, sussuRRo gRavido di ispiRazione). Fu un’operazione lenta e ricercata, un amplesso di vocali e consonanti abbracciate in un unico afflato d’amore. La mattina seguente, lo scrittore mi portò sotto braccio alla stamperia. Anche in questo caso non si trattava di un posto qualunque. Era una bottega con antichi torchi restaurati e con pietre litografiche riesumate da vecchi orti e giardini per risorgere a nuova gloria. I fogli stessi destinati alla mia riproduzione erano di carta pregiata, prodotta a mano con le migliori fibre vegetali. 86


Ma, come avvertivano gli antichi Romani, in cauda venenum: il veleno sta nella coda... Tutto era pronto per il mio esordio in società. I quotidiani della zona e le riviste specializzate preannunciavano la mia imminente uscita. Io tremavo come un tenore a una prima al Regio o una fanciulla che si appresti al ballo delle debuttanti. In Inghilterra la chiamano “febbre del cancello”. La sperimentano i carcerati nei giorni che precedono il rilascio, quando, per l’impazienza di varcare la soglia della libertà, l’ultimo breve periodo di detenzione diviene il più lungo e pericoloso di sempre. Difatti, la tragedia era in agguato. Senz’altro meno originale del peccato di Adamo ed Eva e meno cruento della vicenda di Caino e Abele, ugualmente per il sottoscritto si trattò di un evento apocalittico. Fu spaventoso. Un incubo ricorrente tramutato in realtà. Lo stesso scrittore, al di là di ogni ragionevolezza, si ritrovava a sperare che fosse solo un brutto sogno da cui potersi miracolosamente svegliare. Come il vecchio Dedalo, che nonostante tutto quello che aveva visto con i propri occhi, s’illudeva che suo figlio potesse avercela fatta. Che magari una nuvola si fosse frapposta tra i raggi del sole e le effimere ali di Icaro. Che la cera avesse tenuto. O semplicemente che il mare in cui era precipitato fosse solo la continuità dello stesso cielo, anch’esso azzurro, e che suo figlio avesse così potuto proseguire il volo lì, in quel cielo rovesciato. Magari all’inizio aveva dovuto sbracciare tra le onde, ma poi aveva di sicuro trovato rifugio su di una barca di pescatori che lo avevano portato in salvo. Ma entrambi, Dedalo prima e il mio autore in seguito, dovettero rassegnarsi: le cose andavano male. Proprio come sembrava. E io, invece? Come mi sentivo allora? Più o meno come adesso. Nessun paragone epico, purtroppo, si addice alla mia condi87


zione. Sono solo un insetto, una mosca finita per sbaglio nel bicchiere d’acqua linda e fresca di un assetato. E se, com’è ovvio, la mia presenza risulta a dir poco sgradita a chi si appresta a bere, figuratevi quanto possa piacere la medesima situazione alla mosca, specialmente se è ancora in vita... Eppure mi avevano osservato attentamente, prima di pubblicarmi in una sequenza di copie scorrettamente identiche. Mi lessero con attenzione dall’inizio alla fine in una sorta d’interrogatorio di terzo grado perché ammettessi le mie colpe. Cosa cercavano? Adesso lo so. Lo so io, lo sanno loro, lo sa l’autore, lo sa chi mi ha già letto fino in fondo. Ma allora non lo trovarono. Credendo nella perfezione dell’opera che tenevano sotto gli occhi smarrirono quel briciolo di concentrazione in più ch’era invece necessaria. Così arrivò il benestare, quell’imprimatur che rappresentò la mia condanna. Me misero, me tapino. Ogni volta la stessa scena. Mi sviluppo felice tra verbi e aggettivi, tra intuizioni e richiami, finché il lettore non lo scorge e subito ritrae lo sguardo con disgusto. Allora, chi avrebbe dovuto applaudire ai miei acuti, fischia quell’unica stecca, mi abbandona appoggiato a casaccio da qualche parte, furioso per aver perso tempo nel leggere una storia che termina in maniera tanto indecorosa. A nulla vale dire che figurano ben due erre, l’una vicina all’altra. Non sono pignolo quando sostengo che un paio è troppo poco: non basta! Credetemi. Perché alla fine, proprio all’ultima parola, a un solo passo dal trionfo, si presenta un terribile refuso di stampa: un unico, impietoso, infamante erore.

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Scrittori e illustratori


Note biografiche

Marco Alfano È nato nel 1964 a Napoli, dove vive e lavora. Ha lavorato per molti anni come musicista professionista, dapprima con il gruppo dei Panoramics e successivamente come solista, realizzando anche lavori per cinema, tv e teatro, collaborando tra gli altri con Mario Martone, Peppe Servillo, Andrea Renzi, Enzo Moscato. È collaboratore del periodico letterario Storie. È membro del laboratorio di scrittura creativa Lalineascritta, diretto da Antonella Cilento. Ha ricevuto diversi riconoscimenti in premi letterari a livello nazionale. Andrea Andolina È nato a Dolo (Ve) il 14 febbraio 1976, vive e lavora a Padova. È grafico e illustratore. Asseconda la passione per il disegno fin da piccolo, e si diploma poi in Grafica Pubblicitaria. Artista multidisciplinare, gli interessa tutto ciò che è creativo, partecipa 90

a importanti rassegne nazionali e internazionali, dal disegno umoristico al disegno per l’infanzia. Ha ottenuto importanti premi e riconoscimenti in varie esposizioni collettive. Oltre al disegno gli interessa la fotografia, come ricerca artistica personale. In particolare è affascinato dalla danza contemporanea. Tutti i giorni se non ha una matita in mano, non è contento. Claudio Arisi È nato a Torricella del Pizzo (CR) nel 1957, vive e lavora a Cremona. Attivo in vari campi espressivi: realizza installazioni, opere grafiche e illustrazioni. Produce in proprio comics underground; vincitore nel 2004 del concorso Centro Fumetto Andrea Pazienza. Fa parte della redazione della fanzine Bakelite. www.bakenet.net Elena Bertoncini Trent’anni, è nata a Parma. Si è laureata all’Accademia di Brera a Milano, ottenendo anche il diploma superiore presso la scuola di comunicazione e grafica Ateneo Creativo. Ora vive a Parigi, dove lavora presso uno studio di grafica e svolge attività di illustratrice (sua vera passione). Nel tempo libero suona la chitarra, costruisce originali mostri in plastilina, dando libero sfogo alla sua inesauribile creatività, e coltiva amicizie con ragazzi e artisti provenienti da ogni angolo del mondo. Luca Cantarelli Nato a Parma il 12 giugno 1970. Quindi è del segno dei Gemelli. Come tale, conduce una vita ricca di sfaccettature contraddistinta da due sole costanti: la moglie e la scrittura. È in quest’ultimo ambito che dà il


meglio di sé (o almeno così crede). Tra le sue pubblicazioni citiamo: Nel cielo ventisette stelline, Lumi sul Po (vincitore del Premio Speciale Sixia 2006), Come scrivere un libro e salvarsi la vita e il recente L’urlo del grano (vincitore del Premio Wolfe 2008). Con Tapirulan ha già pubblicato il racconto La notte prima contenuto nell’antologia Bufanda. Paolo Cappelletti Nasce mancino il 26 dicembre 1976, a Milano. Da bambino studia dalle suore e le contesta, da ragazzo si iscrive all’Istituto Tecnico Agrario e sviluppa una violenta forma di allergia alle graminacee. Finalmente trova la sua strada e nel 2000 si laurea in Filosofia Teoretica, pubblicando la sua tesi in Francia, Romania e Brasile. L’anno dopo scrive Food Connection (Ed. Cinetecnica), un saggio di enogastronomia cinematografica. Da allora si dedica a campi d’interesse diversi fra loro, spaziando dalla letteratura al cinema, dalla cucina al teatro d’improvvisazione senza mai tralasciare il suo amore costante e irreversibile per l’Inter. Giacomo Cardelli Toscano, classe 1977, disegnatore e colorista per diverse case editrici. Lavora nel mondo dei cartoni animati per film, cortometraggi e pubblicità. È membro del sito giornalistico VJ Movement per il quale collabora con le sue illustrazioni. Guido Casamichiela È nato nel 1974 all’ospedale civile di Imola. A circa 25 anni gli è venuto in mente che sarebbe stato molto prestigioso svolgere nel futuro la professione di romanziere. Questo non gli ha impedito, nei seguenti 91

quattro o cinque anni, di limitarsi a scrivere lettere agli amici o numeri di telefono. Successivamente si è svegliato un po’, ma senza perdere del tutto un certo torpore sospetto. Andrea Cirillo Nasce nel 1982 e vive a Parma, dove si è laureato in Lettere Moderne. Suoi racconti sono stati pubblicati su riviste come La Luna di traverso e Maltese Narrazioni. È uno degli autori de I Lunatici - 15 nuovi scrittori italiani (Mup Editore, 2006), mentre l’anno successivo è tra i poeti di Star (ed. Tapirulan, 2007). Nel 2007 fonda assieme a Marco Musso il Teatro di Minosse con il quale scrive, dirige e porta in scena i suoi spettacoli. Nel 2009 crea assieme ad Andrea Tebaldi Adunanze Poetiche, un modo per condividere la poesia. settesusei.blogspot.com Carolina Crespi È nata nel 1985 a Busto Arsizio (MI) dove scrive e sopravvive. Ha pubblicato una raccolta di racconti dal titolo Quello che mi rimane (Ed. Giraldi, 2008) e altri racconti su quotidiani nazionali. Studia filosofia a Milano, ma ha quasi finito. Intanto lavora a tempo perso in una Bottega del Mondo, nell’attesa di un eroe. Ama il latino, i formaggi stagionati e le radiosveglie. Saverio Cristiani Nato a Medesano (PR) il 10 gennaio 1957. Ha alle spalle studi tecnici ma attualmente lavora come commerciante. Fa parte di diverse formazioni jazz di Parma. In qualità di scrittore ha partecipato con ottimi risultati a diversi concorsi a carattere nazionale. Alcuni suoi racconti sono stati pubblicati da quotidiani locali,


una sua poesia sull’olocausto è presente nel volume Res (Ed.Tapirulan, 2008); recentemente ha pubblicato Tre Lune (Ed. Rupe Mutevole, 2009), il suo primo volume di racconti. Elvis Crotti Informatico,quarantenne ha scoperto, da qualche anno, che ci sono storie che meritano di essere raccontate. I suoi racconti più riusciti si possono leggere sulla rivista La luna di traverso e su alcune antologie di racconti (Lama e trama, I Lunatici, Amore e eros, Onda lunga). Abita a Sulbiate, in provincia di Milano. Non possiede animali domestici. Daniele De Batté Nasce a Genova nel 1976. Appassionato di arti grafiche e design, inizia a lavorare come grafico freelance. Ama il disegno e attraverso le sue illustrazioni dà vita a storie nonsense e curiosi personaggi. Nel 2003 fonda, insieme a Davide Sossi, Artiva Design. Artiva lavora in diversi settori del design grafico e della comunicazione multimediale. www.danieledebatte.it Luigi Di Legge Nato a Milano il 29 novembre 1960. Residente a Rozzano (Mi). Diplomato presso l’Istituto Tecnico Turistico Claudio Varalli a Milano. Funzionario di vendita della Kraft. Tra i 28 e i 30 anni ha collaborato con riviste di settore, pubblicato cronache di calcio sul Giornale di Brescia e articoli vari su alcuni settimanali regionali. Ora si considera un sereno scrittore e poeta dilettante. È stato premiato in diversi concorsi a livello nazionale con opere di poesia e prosa. Alcune antologie hanno pubblicato sue poesie,racconti,aforismi e haiku. 92

Andrea Ferretti Classe 1971, ingegnere elettronico, ingegnere delle telecomunicazioni e dottore in Comunicazione e Marketing, già giornalista per il Resto del Carlino, imprenditore, attore nel Laboratorio Permanente del Teatro dell’Orsa, burattinaio dilettante, Ferretti ha pubblicato il romanzo Il sorriso maldestro di Giulio Mariani Cobseschi (Pendragon, 2008), oltre a diversi racconti su riviste a antologie. Non ama scrivere le sue note biografiche, e preferisce definirsi papà orgoglioso di Amelia e Adele. Marina Girardi È nata in provincia di Belluno nel 1979. Ha frequentato il corso di Fumetto e Illustrazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna, la Scuola di Comics di Firenze, i corsi per illustratori di Sarmede (TV) e i laboratori dell’Associazione Mirada a Ravenna. Nel 2008 ha vinto il primo premio a Komikazen - Festival del fumetto di realtà. Per la collana Frontiere di Comma 22 Editore ha realizzato Kurden People. Le sue illustrazioni sono comparse sulla rivista Illywords (Corraini Editore, Mantova) e sulle guide escursionistiche di Tamari Edizioni (Padova). Disegna, per la Casa Editrice Aìsara (Cagliari), le copertine della collana Yakamoz. Conduce laboratori creativi per bambini e ragazzi. www.magira.altervista.org Fabio Iaschi È nato a Parma nel 1980, trascorre l’infanzia disegnando. Dal 1994 al 1999 frequenta l’Istituto d’Arte Paolo Toschi di Parma. Senza sapere nulla di computer e internet, viene assunto da un’azienda IT in qualità di web designer, ricevendo negli anni


alcuni prestigiosi riconoscimenti. Dal 2008 è consulente artistico freelance. Curiosità: Fabio Iaschi è anche noto come Torakiki. www.torakiki.net Rosaria Iorio Ha frequentato la Scuola Italiana di Comix di Napoli dal 2000 al 2004, con cui adesso collabora. È stata selezionata in numerosi concorsi nazionali e internazionali tra cui: il concorso Calendario Tapirulan (per cui, nel 2009, ha ricevuto il Premio della Critica), Scarpetta D’oro, Pictor, Lucca junior, D.O.T. di Teheran e Disegni al sole, di cui quest’anno ha vinto il primo premio. Ha partecipato a numerose mostre collettive, esponendo, tra gli altri, a Castel dell’Ovo e nel Palazzo delle Arti Moderne di Napoli (PAN). Ha pubblicato per le edizioni Coccole&Caccole, in un albo collettivo chiamato Disognamo. Giovanni Locatelli Cremona, 6 settembre 1977. Trentatreenne, basso, impiegato, insistente, empatico, razionale, non credente,Vergine, celibe, magro, mutevole, ingegnere, infedele, scettico, pessimista, castano, curioso, viaggiatore, egoista, scrittore, chitarrista. Silvia Marutti Nata il 13 novembre 1957 a Parma dove tuttora vive. Alcuni suoi racconti brevi sono stati presentati dal quotidiano Gazzetta di Parma nella rubrica Il racconto della domenica. Ha pubblicato il romanzo breve Il cestino delle ciliegie (Battei, 2003), la raccolta di poesie Caleidoscopio (Silva, 2007) e, in seguito all’esperienza della malattia oncologica, il libro illustrato Buonanotte Blu - Rime, fiabe e filastrocche (Silva, 93

2009), patrocinato dal dottor Guido Dalla Rosa Prati, il cui ricavato è stato devoluto all’associazione di volontariato Verso il Sereno operativa presso il Centro Oncologico dell’Azienda Ospedaliera di Parma. Alexander Nurulaev Nato il 10 giugno 1972 in Russia. È stato il miglior pittore su seta della Grande Russia Sovietica, illustratore di libri per bambini, scenografo, stilista, designer, arredatore... Dal 1999 vive in Italia, dove si è dedicato anche al teatro lirico, prima col ruolo di mimo e ora come cantante. Si occupa inoltre di fotografia digitale.Dipinge ritratti utilizzando una particolare tecnica di invecchiamento della tela. Ultimamente sta lanciando un lussuoso servizio di cura per le scarpe, che grazie a questi trattamenti si trasformano in opere d’arte. Arianna Papini Vive a Firenze, è laureata in Architettura e ha effettuato la formazione in Art Therapy Italiana a Bologna. Dal 1988 lavora per la casa editrice Fatatrac, attualmente come direttore artistico. Scrittrice, illustratrice e pittrice, collabora con scuole e biblioteche e tiene ogni anno numerosi laboratori artistici con i bambini e corsi di aggiornamento per insegnanti. Ha scritto e illustrato più di sessanta libri (per La Nuova Italia, Fatatrac, Edicolors, Lapis Edizioni, Città Aperta, Carocci Editore, Avvenire), con i quali ha vinto numerosi premi. Ha partecipato a più di cinquanta mostre tra personali e collettive, in Italia e all’estero. È volontaria ospedaliera, alcuni suoi testi sono messi in scena dall’attrice Miriam Bardini nei reparti pediatrici degli ospedali. www.ariannapapini.com


Maurizio Russo Alias Mau Russo, livornese, inizia la sua carriera di creativo e illustratore grafico nel 2000 creando il character per il primo canale digitale soft erotico di SKY Superpippa Channel. Dal 2003 al 2006 inoltre illustra hentai manga per web e un fumetto, Trailer Park of Horror, per il mercato americano. Dal 2007 al 2009 lavora come creativo grafico per Last Planet, software house di Pisa. Nel 2009 realizza l’immagine e la grafica per il musical Montecristo. Tra fine 2009 e inizio 2010 vive un’esperienza lavorativa a Tokyo come grafico progettista. Realizza inoltre papertoy, ovvero simpatici personaggi di carta. www.maurusso.com Marco Sebastiani Nato nel 1975, ha studiato con il maestro Niso Ramponi presso l’Istituto Cine-tv di Roma. Esordisce nell’animazione tradizionale, al ritmo di 24 fotogrammi per ogni secondo di proiezione. Esplora il mondo del fumetto: anche in questo caso innumerevoli vignette da inchiostrare ma rispetto all’animazione andiamo già meglio! Giunge all’illustrazione con l'obiettivo di evocare miriadi di emozioni in singole immagini (visti i precedenti potrebbe sembrare una scelta dettata dalla pigrizia più che da un senso artistico... e forse è così). Schiavo del tratto e del colore, non vede il confine tra l’illustrazione e la pittura, ammesso che esista. www.marcosebastiani.it Trap Coetaneo di Miguel Bosè (nessuno è perfetto), Trap è un GIP (Grigio Impiegato Pubblico). Anonimo per nascita e vocazione. Consuma vita e suole delle scarpe in quel di 94

Roma, dopo aver guadato non poche nebbie in terra orobica. Non ha mai dato libri né alla luce né alle stampe. Solo una ventina di racconti in antologie tematiche.Troppo poco per il Nobel. Lucio Villani Nato a Roma il 17 marzo 1980. Veterano di ambienti underground lontani dalla grande distribuzione, scarsissimo diplomatico, antitesi del presenzialismo, riesce a non disegnare (pur volendo) per medio-lunghi periodi in virtù di una credibile copertura di contrabbassista grazie alla quale riesce a finire spesso in posti ai confini della realtà, testimone dell’improbabile. Autoproduzioni realizzate dal 1999: Lampi Grevi 1 e 2, Krakatoa A, B e C, Marziano NO, Manuele Bambinello, Ominotondo contro i Cristoidi. Fonda con Alessio Spataro, Valentina Pettinelli,Tuono Pettinato e Federica del Proposto il gruppo Baffi. www.bombilozombi.com Daniela Volpari Nata il 27 giugno 1985 a Roma. Dopo il liceo artistico si diploma con il massimo dei voti alla Scuola Internazionale di Comics al corso triennale di Illustrazione. È stata selezionata in diversi concorsi del settore quali Scarpetta D’Oro, Illustrissimi, Lucca Comics & Games e nel 2010 si aggiudica il Premio della Critica al concorso Calendario Duemila10 di Tapirulan, la cui giuria era presieduta da Sergio Toppi. Principalmente illustratrice per bambini e ragazzi, ha all’attivo alcune pubblicazioni in Italia. Attualmente sta collaborando con un editore francese e con un editore neozelandese. danidani.carbonmade.com



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Edizioni Tapirulan Cyclette Star Bufanda Res Bunker Souvlaki

N.B. Se trovi questo libro – o qualsiasi altro libro delle Edizioni Tapirulan – in giro, in un bar, su una panchina, per strada, in treno, in autobus, dentro un tombino, sotto una sedia, in mezzo al mare, insomma ovunque, portalo via con te, leggilo, se vuoi commentalo, correggi gli errori,fai un tuo disegno, e poi rimettilo in circolo; abbandonalo in un luogo qualsiasi, altre persone potranno trovarlo e leggerlo. Puoi anche collegarti a www.tapirulan.it e scriverci un tuo parere o dei consigli.


L’Associazione Culturale Tapirulan è attiva dal 2004 per promuovere e per dare visibilità agli artisti contemporanei. Sul sito internet dell’Associazione, www.tapirulan.it, vengono regolarmente pubblicati nuovi autori: pittori, scultori, fumettisti, illustratori, scrittori, poeti, fotografi, musicisti, teatranti e videomakers trovano tutti spazio nella galleria virtuale di Tapirulan. L’obiettivo dell’Associazione e del suo progetto editoriale è soprattutto quello di incentivare la collaborazione tra artisti che operano in differenti forme espressive. Seguendo questo principio nasce Souvlaki, risultato della collaborazione tra scrittori e illustratori.



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