Costruire Relazioni (build relationships)

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RUIRE ZIONI COSTRUIRE RELAZIONI

di Tania Boa



Dichiarazione di originalità Ho consegnato questo documento per l’appello d’esame del [17/02/2012] del corso Teorie dell’interazione, tenuto da Gillian Crampton Smith con Philip Tabor alla Facoltà di Design e Arti, Università Iuav di Venezia. Per tutte le sequenze di parole che ho copiato da altri fonti, ho: a) riprodotte in corsivo, o messo virgolette di citazione al loro inizio e fine, inoltre b) indicato, per ogni sequenza, il numero della pagina o lo URL del sito web della fonte originale. Per tutte le immagini che ho copiato da altri fonti, ho indicato: a) l’autore e/o proprietario, inoltre b) il numero della pagina o lo URL del sito web della fonte originale. Dichiaro che tutte le altre sequenze e immagini di questo documento sono state scritte o create esclusivamente da me. 17/02/12 Tania Boa



COSTRUIRE RELAZIONI di Tania Boa



Indice 7 Introduzione 8 Progettare il futuro 10 Attenzione all’utente 12 Idee in libertà 14 Dall’idea alla forma 16 Chiarezza e semplicità 18 Aspettative d’uso 21 Conclusione 23 Risorse



(1) Mitchell Kapor, cap.1 A Software Design Manifesto, in Bringing Design to Software, Addison Wesley, 1996.

Introduzione Questo è un book sull’interaction design e sulla metodologia progettuale del designer. La disciplina dell’interaction design si occupa di progettare le interazioni che coinvolgono i dispositivi, i servizi, i sistemi e le persone. Essa nasce in seguito all’evoluzioni delle nuove tecnologie e si sviluppa fino ad investire molteplici campi, quali l’informatica, l’economia, il marketing, la sanità, il tempo libero. I suoi confini oggi mutano rapidamente e l’interaction design si pone sempre di più, quindi, in una posizione trasversale rispetto a tutte le altre discipline. “....Cosa è il design?....É stare con i piedi in due mondi differenti - il mondo della tecnologia e il mondo delle persone e dei bisogni umani - e tentare di combinarli insieme.”(1) All’interno di questo elaborato viene ripercorso il metodo di progettazione adottato dall’interaction designer, dalla raccolta dei dati allo sviluppo del concept, alla realizzazione del prototipo; e vengono poi trattati i principi che stanno alla base di una buona progettazione. I temi di seguito proposti sono stati trattati nel corso delle lezioni di teoria dell’interazione; il presente book è frutto della rielaborazione dei concetti acquisiti durante il corso e delle esercitazioni pratiche svolte, ulteriormente arricchite da ricerche personali e dalla lettura dei testi di riferimento consigliati. Accanto alla trattazione del capitolo riporto un esempio emblematico e di seguito alcuni esercizi svolti da me, con i relativi approfondimenti e le considerazioni personali.

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Progettare il futuro Ho usato per la prima volta un computer nel 1994 nell’ufficio di mio zio. Solo due anni dopo mi è stato regalato il primo computer fisso, ingombrante si, ma sembrava quasi impossibile ci si riuscisse a far tutte quelle cose: scrivere testi in word, salvarli in floppydisk, ascoltare musica e giocare. Quando mi sono iscritta all’università, nel 2007, ho avuto il mio primo portatile, necessario per gli studi; questo, considerato troppo lento e vecchio, è stato sostituito soltanto 3 anni dopo con un nuovissimo e potente Mac. Oggi, a casa mia, ci sono 5 computer per 4 persone. Riflettere su come la tecnologia sia prepotentemente entrata nelle nostre case coincide con l’individuare le dinamiche che hanno cambiato il rapporto tra noi ed il mondo esterno. Studi sull’Human-Computer Interaction, Interaction Design, User-experience design, User-interface engineering, Communication design, Usability engineering,... che indagano interazione tra uomo-tecnologia-ambiente stanno velocemente modificando l’ambiente in cui viviamo, guidandolo verso un contesto sempre più caratterizzato da superfici multitouch, proiezioni olografiche, dispositivi intelligenti dotati di sensori, e da sistemi ed interfacce digitali che dialogano con noi e fra di loro in una rete informativa estesa, dinamica e funzionale. Sono questi gli ambienti intelligenti (Ambient intelligence, AmI) verso cui ci stiamo dirigendo; a testimonianza di ciò possiamo osservare le future visions, cioè i prodotti e i sistemi delle grandi multinazionali come Microsoft, Apple, Nokia e Philips, che sono frutto di ricerche e sperimentazioni concettuali e pratiche che non possono prescindere dall’approccio offerto dall’interaction design. Ma cosa significa progettare per il futuro? quale metodo deve usare un Interaction Designer? Dan Saffer ci spiega che “dato che l’ interaction design è un nuovo campo, non ha molte regole salde” ma “la ricerca di design e il brainstorming sono la ricetta segreta”, dopo di questa fase “i designer devono documentare ciò che hanno imparato e procedere con la messa a punto del nuovo design”.(2)

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Productivity Future Vision 2011 (3) è il titolo dell’ultimo video della Microsoft in cui viene mostrato come potrebbe essere il mondo tra pochi anni. Si immagina un mondo in cui si potrà fare a meno delle tradizionali periferiche di input, come mouse e tastiere, sostituite da tecnologia multitouch, grazie alla quale comunicheremo con prontezza utilizzando collegamenti bluetooth e r-fid. Con questa tecnologia potremo creare e condividere tutti i contenuti al meglio, ottimizzando il nostro tempo ed i nostri desideri e aumentando la produttività che, secondo l’azienda, ci renderà più soddisfatti e felici. Questo video è stato criticato, in un lungo post pubblicato in un blog (4), dall’ex ingegnere di Apple Bret Victor, dichiarando che il futuro non è nelle “Pictures Under Glass”, riferendosi alle rappresentazioni del mondo dietro ad un touch screen. Egli afferma che le nostre mani possono sentire e manipolare le cose e che non bisogna ridurre l’esperienza ad un semplice tocco di dita, e porta come esempio le ricerche sul Touchable Holography, che seppure si riferiscono a esperienze virtuali cercano di ricreare sensazioni tattili che rimandano al mondo reale. Mi chiedo quindi: fin dove può spingersi la tecnologia? quale è il limite tra reale e virtuale? la progettazione di un ambiente virtuale potrà mai sostituire l’esperienza sensibile? Non credo di trovare una risposta “giusta”, ma una riflessione è doverosa.

Nell’ esercizio in cui ci veniva chiesto di immaginare una giornata tipo in un ambiente caratterizzato da una rete di sistemi e tecnologie sensibili e responsive alla presenza delle persone, ho proposto “Nanny”, una tata virtuale che potesse vivere nei molteplici schermi della mia casa ideale. Ho immaginato che questa tata mi svegliasse dolcemente e mi preparasse la colazione, che mi aiutasse a gestire la casa ed i suoi elettrodomestici, che mi evitasse problemi dandomi avvertimenti, che mi consigliasse sull’abbigliamento e che sopratutto fosse una “presenza” che riuscisse a darmi serenità e a mettermi di buonumore. idilliaco? forse. A lezione le osservazioni sul mio lavoro mi hanno fatto riflettere: sebbene fosse piacevole e divertente, qualche problema lo poteva creare: Se poi mi fossi abituata ed affezionata alla mia cara tata, cosa avrebbe pensato la mia mamma?

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(2) Dan Saffer, Design dell’interazione. Creare applicazioni intelligenti e dispositivi ingegnosi con l’interaction design, Milano, Pearson Education 2007.

(3) link al video: http://www.microsoft.com/office/vision/ (4) link al blog (da cui è stata presa l’immagine sottostante): http://worrydream.com/ABriefRantOnTheFutureOfInteractionDesign/

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Attenzione all’utente “L’interaction design non riguarda l’interazione con i computer (se ne occupa la human-computer interaction) o l’interazione con le macchine (è compito del design industriale). La funzione dell’interaction designer è stabilire connessioni tra le persone attraverso questi prodotti, non connettersi al prodotto stesso.”(5) Proprio perchè l’interaction designer ha il compito di progettare strumenti e dispositivi che devono essere usati da persone, deve fare particolare attenzione all’ usabilità dei suoi artefatti e non può prescindere dall’utente, dai suoi bisogni e desideri e dalle possibili reazioni e dai comportamenti che scaturiscono dall’esperienza. Per esempio è impossibile progettare dispositivi e servizi per gli anziani senza prima aver conosciuto le loro abitudini, il loro modo di comportarsi, le loro difficoltà, le loro necessità, come si approcciano agli oggetti, cosa preferiscono. Per ottenere un buon progetto bisogna cercare di comprendere le dinamiche, le motivazioni e chiedersi spesso il perchè l’utente segue determinati comportamenti. L’utente finale è talmente importante che in alcuni casi diventa l’elemento guida del progetto, come nell’approccio user-centered, che prevede il coinvolgimento del soggetto durante tutto il ciclo di ideazione, progettazione e sviluppo. Come afferma J. Rubin, tale procedimento può essere definito come la “pratica di disegnare i prodotti in modo da permettere all’utente di assolvere i propri compiti con il minimo stress e la massima efficienza”(6). Non si può quindi iniziare a progettare senza conoscere i soggetti e gli ambienti con cui si ha a che fare, perciò la fase di ricerca è una parte molto importante del lavoro del designer; egli indaga il contesto, il comportamento e le interazioni attraverso osservazioni, interviste e vari tipi di attività. Le interviste partecipative sono una fase determinante in cui è molto importante mettere a proprio agio le persone che si hanno di fronte, incoraggiandole a raccontare i fatti e le proprie emozioni, e chiedendo di immaginare nuove situazioni e nuovi prodotti; durante questa fase spesso emergono anche i bisogni latenti degli utenti che stimolano e illuminano l’immaginazione del designer. Per rendere più tangibile la figura dell’utente ed aver chiaro in mente per chi si progetta, si definiscono le persona, descrizioni archetipiche di soggetti immaginari, basate su ricerche, che permettono di dare un nome rappresentativo, un volto, e altre informazioni aggiuntive ad una serie ben definita di utenti immaginari. Le persona sono molto utili a contestualizzare il progetto nei casi d’uso, cioè nelle situazioni di possibile utlizzo, ed aiutano, come sostiene R. Reimann, “a sostenere l’empatia nel designer e negli stakeholder. le persona devono sembrare credibili e vere per massimizzare la loro efficacia come strumento di design e sviluppo” (7).

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“È essenziale, per il successo dell’interaction design, che i designer riescano a comprendere le percezioni, le circostanze, le abitudini, i bisogni e i desideri degli utenti finali” (8) con questa dichiarazione, Jane Fulton Suri, direttore creativo allo studio internazionale IDEO, definisce efficacemente l’approccio user-centered. Nel 2002, lo studio progetta le IDEO Method Cards (9), una raccolta di 51 carte che rappresentano metodi differenti e creativi con i quali tutti i membri di un team di progettazione possono comprendere e definire in modo più appropriato l’utente. Ciascuna delle carte contiene testi esplicativi riguardo al come e al quando il metodo può essere utilizzato, un breve esempio della sua applicazione ad un progettodi design reale ed un’immagine evocativa che ne chiarifica il senso. Le carte sono divise in quattro categorie: Learn, Look, Ask, e Try; Learn riguarda l’analisi dei dati raccolti nella ricerca, Look l’osservazione dei comportamenti degli utenti, Ask il metodo di coinvolgimento delle persone, e Try la simulazione di esperienze d’uso.

Durante un’esercitazione ho avuto modo di svolgere un’intervista partecipativa alla nonna di una mia amica che vive da molto tempo sola. Lo scopo dell’intervista era quello di comprendere bisogni e aspettative del soggetto, relativamente ad alcuni aspetti della sua vita. Mi ero preparata una serie di domande prima di andarla a trovare, ma come prima cosa ho cercato di creare un clima familiare e socievole per metterla a proprio agio e farla sentire libera di parlare tranquillamente come ad una cara amica o ad un familiare. Il rapporto di fiducia instaurato sin da subito mi ha permesso di entrare in confidenza e l’intervista si è trasformata quindi presto in una lunga chiacchierata, in questo modo ho potuto cogliere paure e desideri latenti dei suoi racconti, spesso anche molto personali e profondi, che mi hanno offerto degli inaspettati spunti di riflessione per future idee progettuali.


(5) Dan Saffer, Design dell’interazione. Creare applicazioni intelligenti e dispositivi ingegnosi con l’interaction design, Milano, Pearson Education 2007. (6) Rubin J., Handbook of Usability Testing, New York, John Wiley &Sons, 1994. (7) da un’intervista a R. Reimann in Design dell’interazione.

(8) in: Bill Moggridge Cambridge, Designing interactions, MIT Press, 2006; capitolo 10, § ‘ People and Prototype’ (tradotto da me). (9) link al sito (da cui è stata presa l’immagine sottostante): http://www.ideo.com/work/method-cards/

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Idee in libertà Dopo la fase di ricerca e ordinamento dei dati ottenuti, inizia la parte centrale: la definizione del progetto. In questa fase si mette in gioco la propria creatività e la propria immaginazione per generare soluzioni alle problematiche emerse in fase di ricerca, il flusso libero ed incondizionato di idee che ne consegue prende il nome di brainstorming. Questo metodo di problem-solving, descritto da Alex F. Osborn in un libro intitolato Applied Imagination del 1953, è indispensabile ed è tanto più efficace quanti più soggetti eterogenei ne sono coinvolti: ingegneri, sviluppatori, stakeholders, committenti, specialisti del settore e non soltanto quindi designer; in tal caso le idee che ne risulteranno saranno molto più varie e copiose. Infatti, come dice Oliver Wendell Holmes, “molte idee crescono meglio quando sono trasportate in un’altra mente rispetto a quella da dove sono fuoriuscite”. Le persone coinvolte nel brainstorming devono avere talento creativo e buone capacità di sviluppare analogie ed associazioni, e devono sottostare a delle regole descritte da Osborn: generare idee più velocemente possibile perchè la quantità è più importante della qualità, non aver timore di dire cose insensate poichè anche esse stimolano l’inventiva, non criticare le idee degli altri dato che tutte sono ben accette e cercare di combinarle in nuovi concept. E’ bene ricordare che il brainstorming non è una competizione ma soltano una fase di creazione a cui segue solitamente una fase di critica e analisi, dove si discutono e valutano tutte le idee e si cerca di definire il concept che verrà sviluppato in seguito. Ma come comunicare qualcosa che si ha in testa? spesso le parole ed i gesti non bastano e si deve ricorrere a quelli che sono da sempre gli strumenti del designer prima ancora del computer: carta, matite, pennarelli, post-it, lavagne. I disegni, gli schizzi, sono un modo veloce, facile e flessibile per spiegare quello che si ha in mente, si possono visualizzare le interazioni tra gli elementi attraverso linee e frecce e rappresentano un ottimo aiuto per ragionare, un modo per comunicare con se stessi in quella che Donald Schön definisce come una conversazione riflettente. “In un buon processo di progettazione, questa conversazione è riflettente. In risposta alla situazione di back-talk, il progettista riflette-in-azione per la costruzione del problema, le strategie di azione, o il modello dei fenomeni, che è stato implicito nelle sue mosse”.(10) Man mano che il progetto si definisce gli informali schizzi lasciano il posto a strumenti più definiti come gli storyboard, le flowchart, le mood board e i wireframe.

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Riporto qui di fianco alcune immagini che mostrano il percorso di progettazione di Faraday (11), una utility bike elettrica progettata dalla IDEO (un team di 5 persone dalle competenze differenti) insieme alla Rock Lobster Custom Cycles per il concorso Oregon Manifest. Ho trovato molto interessante osservare gli step pubblicati in una sorta di diario on-line che racconta le fasi del progetto: 1) I progettisti, tutti con gusti ed esperienze diverse, hanno iniziato raccogliendo dati sul mondo delle bici ed entrando nel particolare degli aspetti tecnici. 2) Nella fase di brainstorming tutto lo staff dell’IDEO ha potuto dare il suo contributo esprimendo la propria idea con pennarelli e post-it. 3) Successivamente le proposte sono state organizzate e discusse dal team incaricato del progetto. 4) L’idea è stata quindi sviluppata e dopo aver fatto diversi test e prototipi, si è arrivati a costruire il modello finale.

Per un’esercizio ci è stato chiesto di definire un progetto relativo ad un device che aiutasse le persone a cercare un ristorante in città e a riservare un tavolo. Dopo aver preso appunti su alcune idee che mi erano venute in mente, ho organizzato quelle più interessanti in uno schema logico (chi? dove? cosa? perche? come?) cercando di dare anche possibili soluzioni ai problemi. Alla fine, selezionando le idee migliori, dopo averle rielaborate e ampliate, ho definito il mio concept: un’applicazione per iphone che attraverso la selezione di alcuni parametri di scelta, come prezzo, luogo e servizi aggiuntivi (televisione a pagamento, aria condizionata,..) potesse dare risultati pertinenti con rispettive indicazioni sul come arrivare e sul numero di telefono per effettuare la prenotazione. In questa esperienza ho avuto modo di conoscere il valore del brainstorming come valida risorsa per disporre di molte idee diverse su cui riflettere e lavorare.


(10) D. Schรถn, The Reflective Practitioner: How professionals think in action, London, Temple Smith, 1983.

(11) link al sito (da cui sono state prese le immagini sottostanti): http://www.core77.com/oregonmanifest/ideo_x_rock_ lobster/

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Dall’idea alla forma “Quando i bravi designer parlano di innovazione, intendono la brillante valorizzazione di nuove idee. Non si fermano all’invenzione. Trasformano la loro ispirazione in realtà”.(12) Lo scopo del designer non è solo produrre idee o ipotizzare soluzioni, ma anche creare e realizzare concretamente qualcosa, dare una forma alle idee. Ogni processo creativo ha bisogno di continui feedback dalla realtà, dagli utenti, necessita di verifiche e test con il mondo reale fuori dallo studio di progettazione. Proprio a questi scopo il designer si avvale di uno strumento che gli permette di esplorare alcune caratteristiche del prodotto o servizio finale, per esplorarne l’appropriatezza: i prototipi, ovvero le rappresentazioni più o meno parziali del prodotto finale. Essi vengono costruiti durante tutta la fase di progettazione, accompagnando le scelte del designer, e migliorati per iterazioni successive: i primi prototipi sono versatili, veloci da produrre e modificare, semplici ed economici (solitamente cartacei), mentre man mano che le idee diventano più dettagliate vengono creati prototipi sempre più fedeli, sia digitali che fisici.

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Quando nel 1995 fu sviluppata l’idea del Palm Pilot, Jeff Hawkins, titolare dell’azienda Palm Computing, costruì questo prototipo in legno e carta (ora conservato al Computer History Museum(14) di Mountain View, California) delle dimensioni e della forma che si era immaginato. Egli andava in giro fingendo di prendere appunti, controllare gli appuntamenti con il suo “palmare” per sperimentare come sarebbe stato avere con sé uno strumento del genere. Per quanto bizzarro credo che questo sia un esempio molto efficace di come un prototipo possa mettere alla prova l’immaginazione e le idee progettuali.

Oltre che per aiutare ad analizzare le funzioni ed il design, questi strumenti sono molto utili per investigare scenari d’uso ed esplorare l’esperienza concreta che gli utenti potranno in futuro fare con l’artefatto. Con i prototipi possono essere svolti degli user test, facendo direttamente provare il prodotto o il servizio ad un pubblico che rappresenta il target di riferimento. I designer osservano, senza dare suggerimenti, come le persone si approcciano al tester e il modo in cui interagiscono con esso, e alla fine chiedono agli stessi utenti le loro opinioni, le critiche e i consigli. In questo modo possono venir scoperti errori o aree di miglioramento su cui si andrà a lavorare nuovamente. Per sottolineare quando sia importante provare il nuovo servizio o prodotto nella fase di sviluppo del progetto e ricevere feedback da parte degli utenti, vorrei riportare come esempio la messa a disposizione delle versioni alpha e beta di numerosi software e applicazioni in via di sviluppo. Persino la Apple, che solitamente rilascia prodotti finemente mesi a punto, ha rilasciato il software Siri in versione beta e Benoit Maison, ex ingegnere IBM con un esperienza di 6 anni nel campo del riconoscimento vocale, in un articolo nel suo blog (13) sostiene che il rilascio della funzione alle masse è l’unico modo per Apple di poterla migliorare.

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Durante le ultime lezioni del corso ho sperimentato di persona la creazioni del prototipo cartaceo di un dispositivo per la ricerca di ristoranti in città. Con il mio gruppo abbiamo speso del tempo a definire il progetto e disegnare lo storyboard di un possibile contesto d’uso. “Odorabile”, il nostro device, è stato pensato per permettere agli utenti di scegliere un ristorante anche in base all’olfatto e all’udito. Ci siamo quindi cimentati nella costruzione di un primo prototipo grezzo con post-it e cartone per verificare e determinare le azioni possibili ed il loro funzionamento. Poi abbiamo girato un primo video fermando di volta in volta la ripresa per scambiare i post-it che rappresentavano l’interfaccia del dispositivo. Definito con precisione il funzionamento e individuati i passaggi logici, abbiamo apportato le dovute modifiche e costruito quindi un secondo prototipo cartaceo più definito e con questo girato un secondo video (15).


(12) Simon Rucker, nell’articolo How Good Designers Think pubblicato su sito HBR (http://blogs.hbr.org/cs/2011/04/ how_good_designers_think.html). (13) link al blog: http://www.benoitmaison.org/

(14) link al sito (da cui sono state prese le immagini sottostanti): http://www.computerhistory.org/collections/ accession/102716262 (15) link del video-prototipo: http://vimeo.com/33480818

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Chiarezza e semplicità Voglio occuparmi ora delle caratteristiche di un buon prodotto di design; cosa lo fa preferire ad un altro simile? cosa lo rende un prodotto di successo? perchè? Donald Norman, nella Caffettiera del masochista, osservando il comportamento delle persone, afferma che “gli oggetti ben progettati sono facili da interpretare e comprendere: contengono indizi visibili del loro funzionamento. Gli oggetti disegnati male possono essere difficili e frustranti da usare: non offrono indizi e ne danno di sbagliati” e continua “come fa la gente a cavarsela davanti a queste complicazioni? [...] Parte (della risposta) deriva dall’abilità del progettista di rendere chiaro il funzionamento, di proiettarne un’immagine adeguata e di sfruttare altre cose che presumibilmente la gente sa per suo conto.” Quando ci troviamo di fronte ad un prodotto o servizio la sua forma, la dimensione, il peso, il colore, la disosizione degli elementi e altre sue caratteristiche ci comunicano informazioni su come esso si comporta e su come è possibile interagirci, e spesso ci trasmettono anche un contenuto emotivo. L’aspetto visivo di un oggetto è quindi una fonte molto importante di informazioni che il designer deve considerare per creare un prodotto, un servizio o un’esperienza chiara ed inequivocabile. Egli deve fare attenzione a rendere visibili le informazioni più importanti, rendere il più naturale possibile le corrispondenze tra i comandi e le loro funzioni (mapping), assicurare un feedback dell’azione che si è eseguita, costringere l’utente ad effettuare una determinata azione evitando di fargli compiere un errore, e sopratutto rendere una buona affordance. L’affordance indica “le proprietà reali e percepite delle cose materiali, in primo luogo quelle proprietà fondamentali che determinano per l’appunto come si potrebbe usare versosimilmente la cosa in questione”.(16) Essa non è una caratteristica dell’oggetto, ma una sua proprietà intrinseca che si esplicita soltanto nel momento del contatto con l’utente, è la capacità di presentare se stesso.

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Le riflessioni sull’affordance sostenute da Norman si oppongono a quelle dello psicologo cognitivo J.J.Gibson. Per il primo l’affordance è relativa alla conoscenza dell’utente cioè all’interpretazione mentale delle cose in base all’esperienza e alla conoscenza passata di chi osserva e compie l’azione; per il secondo invece l’affordance è intrinseca all’oggetto stesso e questo quindi può essere utilizzato dall’utente anche senza essere stato mai visto prima di quel momento. Credo che le esperienze passate ed i condizionamenti culturali siano rilevanti nella percezione dell’affordance, per esempio riconosco l’affordance delle bacchette cinesi perchè l’ho già visto fare e, trasferendo il concetto di affordance alle interfacce digitali, so che posso cliccare un link perchè l’ho già cliccato uno prima.

Durante il corso ci è stato chiesto di osservare con attenzione gli oggetti e i servizi intorno a noi, scegliendo fra questi degli esempi di good e bad affordance. Questo esercizio mi ha permesso di osservare ciò che mi circonda con occhi critici e di notare come spesso oggetti tecnologici, anche nuovi, non sono abbastanza intuitivi ed il loro utilizzo è quindi “incerto”. A volte queste osservazioni mi hanno indotto a preferire uno strumento manuale ad uno elettrico, proprio per via della sua inequivocabile semplicità d’uso.


(16) D. Norman, La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani, Firenze, Giunti 2009.

L’immagine sottostante è stata presa da Wikipedia

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Aspettative d’uso Per una buona progettazione, il designer deve tener conto, oltre che alla visibilità delle cose, anche di un’altro principio fondamentale: fornire un buon modello concettuale. Quando ci troviamo di fronte ad un oggetto, creiamo nella mente delle aspettative, delle idee di come esso potrebbe funzionare e immaginiamo gli effetti delle nostre azioni in una relazione di comandi e risultati. Questo è quello che Norman chiama modello dell’utente, ovvero il modello concettuale che l’utente sviluppa riguardo all’interazione con il sistema. Vi è poi un modello progettuale, del progettista, che si rispecchia nell’immagine del sistema, ovvero nella parte visibile di esso (per esempio un’interfaccia). Se l’immagine del sistema rispecchia in modo chiaro il modello mentale del progettista, l’utente riuscirà a costruirsi un modello giusto e ad utilizzare facilmente il dispositivo, si sentirà soddisfatto e magari lo preferirà ad altri simili. Questo modello concettuale che si forma nella mente dell’ utente deriva dall’interpretazione dell’aspetto visivo e delle azioni, basandosi su di un ciclo di esecuzione e valutazione. Egli decide di usare un sistema perchè ha un obiettivo e formula un piano d’azione che esegue nel mondo reale; successivamente l’utente osserva il risultato della sua azione e lo valuta rispetto all’obiettivo. Avere consapevolezza e considerazione degli stadi dell’azione può essere un valido aiuto per il progettista che si impegnerà a costruire un modello progettuale il più possibile coerente e privo di contraddizioni e a fare attenzione alla visibilità dello stato dell’apparecchio e delle alternative d’azione. Inoltre dovrà garantire un feedback dell’azione e creare un buon mapping rendendo possibile individuare le relazioni tra azione e risultato, comandi ed effetti, lo stato del sistema e l’immagine del sistema. Spesso sistemi e servizi hanno un funzionamento complesso ed articolato che risulta di difficile comprensione all’utente medio. Per facilitarne la comprensione, il designer ricorre all’utilizzo di metafore. Queste sono dei tipi particolari di modelli concettuali che utilizzano elementi e strutture già note e familiari al target di utente. “I designer stanno lottando per generare illusioni più efficaci con lo scopo di comunicare ai propri utenti il modello progettuale delle loro applicazioni.”

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Lo Xerox Star(17) è stato il primo computer commercializzato della storia (1981) ad essere dotato di interfaccia grafica GUI Desktop e Mouse. Esso utilizzava la metafora della scrivania virtuale e permetteva all’utente di manipolare elementi grafici presenti nello schermo piuttosto che scrivere i comandi con i codici del linguaggio macchina. Tramite l’utilizzo di icone, finestre, cartelle, cestino,... si aveva come l’illusione di manipolare oggetti reali nello schermo. “Il software design è l’atto di determinare l’esperienza dell’utente tramite un programma. Non ha nulla a che fare con quanto codice c’è in funzione all’interno o quanto questo codice sia lungo o breve. L’obiettivo dei designer è specificare completamente e senza ambiguità l’intera esperienza dell’utente... la più importante cosa per poter progettare correttamente è il modello concettuale dell’utente. Tutto il resto dovrebbe essere subordinato al rendere questo modello chiaro, ovvio e sostanziale. Questo è esattamente l’opposto di come gran parte dei software sono progettati.”(18)

Fare un biglietto del treno alla biglietteria automatica non è sempre preferibile ad aspettare il proprio turno allo sportello. Molte persone rinunciano ad utilizzare il servizio automatico perchè lo considerano meno affidabile e più complicato. Personalmente trovo difficoltà nell’interazione con i vari elementi che la compongono poichè le aspettative che sviluppo nella mia mente non sono poi realizzate, per esempio mi aspetto di inserire i soldi in una determinata fessura quando poi verifico che quella è destinata a tutt’altro. Considerando l’intenzione dell’utente di fare delle determinate operazioni in sequenza (scelta del biglietto-pagamento-ritiro del resto e della ricevuta), credo possa essere interessenta assecondare questa cronologia con la disposizione ordinata e logica degli elementi seguendo un flusso lineare da sinistra a destra, rendendo più semplice ed intuitive le operazioni che si fanno.


(17) sorgente dell’immagine: http://www.digibarn.com/ collections/systems/xerox-8010/index.html (18) intervista a David Liddle, cap.2, Design of the Conceptual Model, in Bringing Design to Software, Addison Wesley, 1996.

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Conclusione Chi è l’interaction designer? è un progettista, un mediatore, un semplificatore, un pensatore, un problem-solver, un programmatore, un informatico, un esploratore, un ricercatore, uno studioso, talvolta anche un sociologo, un antropologo, uno psicologo,... è un costruttore di relazioni. Disegna esperienze, comportamenti e scenari, e si occupa delle interazioni tra le persone e l’ambiente. Credo che l’interaction designer abbia un ruolo importante nella nostra società poichè ha il potere e la responsabilità di influenzare e cambiare il comportamento delle persone; ma ha anche una responsabilità etica perchè egli può migliorare, ma anche peggiorare il mondo in cui viviamo. Questa mia esperienza nel mondo dell’interaction design mi ha fatto capire ancor di più il valore di un buon metodo, mi ha dato i mezzi per osservare in modo critico l’ambiente che mi circonda, mi ha fatto crescere personalmente e professionalmente aumentando anche la consapevolezza del mio ruolo in quanto futura designer.

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Risorse Bibliografia: -Bill Moggridge Cambridge, Designing interactions, MIT Press, 2006; -D. Norman, La caffettiera del masochista. Psicopatologia degli oggetti quotidiani, Firenze, Giunti 2009; -Dan Saffer, Design dell’interazione. Creare applicazioni intelligenti e dispositivi ingegnosi con l’interaction design, Milano, Pearson Education 2007; -Bringing Design to Software, Addison Wesley, 1996; -D. Schön, The Reflective Practitioner: How professionals think in action, London, Temple Smith, 1983. Sitografia: -http://www.microsoft.com -http://www.ideo.com -http://www.computerhistory.org

Colophon Software: -Adobe InDesign CS4 -Adobe Illustrator CS4 -Adobe Photoshop CS4 Font: -Titoli capitoli: TitilliumText22L, 36pt -Testo principale: Chaparral Pro , 10 pt -Didascalie: Chaparral Pro , 8 pt

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COSTR RELAZ


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