Anno 1 - Numero 3-4

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Anno 1 - Numero 3 - 4 Novembre - Dicembre 2012 Foglio di collegamento a cura del Servizio Diocesano Musica e Canto Diocesi di Napoli

ote dello Spirito Area Carismatica 1. Musica ed evangelizzazione 2. Il canto del Benedictus

Area Liturgico - Musicale 1. Il tempo di Avvento: Attendere e vegliare 2. Il tempo di Natale: «Si è manifestata la gloria di Dio» 3. Il tempo di Avvento e il tempo di Natale 4. Prospettive musicali a partire dalla terza edizione del Messale Romano 5. Il Motu Proprio di Pio X (1903)

Area Tecnica 1. 2. 3.

La voce e il canto I 4 parametri fondamentali del suono Impariamo a suonare un canto 417 Loderanno i popoli

Gli strumenti musicali nella Liturgia 1. L’amplificazione della chitarra 2. Il decalogo del chitarrista

Gli strumenti musicali nella Bibbia 1. Arpa e Cetra, gli strumenti dell’Antico Testamento

Animazione Domenicale 1. Canti per il Tempo Liturgico 2. Al Servizio della Parola: Salmodie

EDITORIALE Siamo così spesso immersi e consumati dalle nostre attività e dal nostro lavoro che dimentichiamo di dare a Dio il ringraziamento e la lode. La lode non è solo un momento durante l’incontro di preghiera in cui cantiamo e tanto meno è qualcosa che possiamo offrire quando ci succede qualcosa di bello. L’uomo è stato creato per lodare Dio perché a Dio appartiene la gloria (Is 48,11) in eterno. Noi non esistiamo per noi stessi, per scoprire chi siamo, e ancor meno per indulgere alle nostre passioni. Noi esistiamo per dare a Dio la lode, conoscere chi Egli è e darGli la gloria per ciò che Egli è e per ciò che Egli ha fatto, fa e farà.


AREA CARISMATICA

Sulle note dello spirito

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MUSICA ED EVANGELIZZAZIONE

di Domenico Visconti, già delegato regionale per lo spettacolo multimediale di evangelizzazione “Una Speranza Nuova”, già membro dell’equipe nazionale Colonna di Fuoco, della corale regionale e nazionale, attualmente coordinatore della comunità Lumen Christi di Eboli (Sa).

Proprio ieri, 9 giugno, ricorreva il 33° anniversario dell’espressione “nuova evangelizzazione”, coniata per la prima volta da GPII nel 1979 a Nowa Huta, quartiere industriale di Cracovia divenuto famoso per la lotta dei credenti contro il comunismo. Il concetto di «nuova evangelizzazione» fin dall’inizio accomuna l’impegno e il servizio di tutti i battezzati nella società e nel mondo cosicché la professione di fede e la sua diffusione non sono prerogativa di specialisti o funzionari, ma spettano a tutti i membri del popolo di Dio. Senza dubbio non può essere la diffusione o la popolarità di un concetto a garantire che esso venga realmente recepito o attuato sino in fondo. Anzi, talvolta viene annacquato, offuscando il messaggio originario.

Sarebbe, allora, interessante tirare un pò le somme e capire cosa e quanto è stato fatto dopo 33 anni visto che Papa Benedetto ancora parla di “urgenza” di nuova evangelizzazione (Messaggio di Sua Santità Benedetto XVI per la Giornata Missionaria Mondiale 2008).

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Nell’evangelizzazione non è sufficiente proclamare valori cristiani. Per poter parlare di evangelizzazione è necessario che essa riguardi contenuti della fede: «Ciò avverrà se il nome, l’insegnamento, la via e le promesse, il mistero, in una parola il Regno di Gesù di Nazareth, redentore dell’uomo, saranno proclamati con nuovo coraggio, senza facili riduzioni opportunistiche e ambiguità» (GPII Roma 1989).

Mettiamoci alla scuola della Parola e in ascolto dello Spirito, perché solo da essi può scaturire la missione. (At 8, 26-40; 16, 9-10; Gal 1, 15-16; Ger 1, 8) Vale a dire che, come leggeremo tra poco da S. Paolo, non è un incarico che mi abilita all’evangelizzazione, non un sentimento, non uno stato d’animo, bensì un “dovere” che non è una costrizione esterna a me (non mi viene imposto dal di fuori), ma emerge dal di dentro e risiede nella «…GRAZIA e la VOCAZIONE propria della Chiesa, la sua IDENTITA’ più profonda. Essa esiste per EVANGELIZZARE …» (Paolo VI - Evangelii Nuntiandi, num. 14). Dunque, io esisto per evangelizzare.


Infatti, in forza del battesimo io sono innestato in Cristo, dunque entro a far parte della comunità cristiana, cioè Santa Madre Chiesa, ed ecco che la sua vocazione diventa la mia. Giovanni Paolo II, nel documento Redemptoris Missio al num. 77, con risolutezza completa dicendo: “Nessun credente in Cristo, nessuna istituzione della Chiesa può sottrarsi a questo DOVERE SUPREMO: annunziare Cristo a tutti i popoli... Membri della Chiesa, IN FORZA DEL BATTESIMO, tutti i cristiani sono corresponsabili dell’attività missionaria”. E potremmo completare dicendo che, in forza del battessimo, non solo NESSUNO può sottrarsi dal dovere di evangelizzare ma anche che NESSUNO può IMPEDIRE AD UN FRATELLO DI EVANGELIZZARE. Con un esempio capiamo che non c’è da fare discernimento se evangelizzare o meno (forse sulla forma, l’espressione, le modalità si!). Trovandoci a passeggiare sulle rive di un lago, ci accorgiamo che un uomo sta annegando. Cosa faccio? Discerno se soccorrerlo o meno? Senza dubbio ci adopereremmo per salvargli la vita. Evangelizzare significa portare la Speranza, la Vita, la Salvezza a chi annega nel mare del mondo, nella sua disperazione, nel suo non senso. Allora? Vogliamo discernere se andare a soccorrere questi fratelli o meno? Ma è chiaro che dobbiamo precipitarci per portare loro questo annuncio di salvezza. Sentiamo quanto ci dice Paolo nel noto passo 1 Cor 9, 16: Non è infatti per me un vanto predicare il vangelo; è un dovere per me: guai a me se non predicassi il vangelo!

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Parliamo di DOVERE di evangelizzazione NON di vanto, perché ho ricevuto un comando che m’interpella: Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi. (Gv 20 , 21) Quindi manda me, te, lui, lei, … tutti siamo mandati. E a fare cosa siamo mandati? La nostra missione, evidentemente, sarà la medesima di Gesù. E questa la conosciamo bene. Lo spirito del Signore Dio è su di me perché il Signore mi ha consacrato con l'unzione; mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l'anno di misericordia del Signore, … (Is 61, 1-2)

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Quindi, se io sono stato chiamato dal Signore, se sono stato suscitato in mezzo al suo popolo, in questi tempi e in questo luogo, non è solo per me stesso ma perché io porti agli altri la salvezza di Gesù, perché la ricchezza della Vita Nuova contagi altri fratelli (don Livio Tacchini). Pertanto, NON è sufficiente conoscere Gesù: bisogna farlo conoscere agli altri! Nel documento del Concilio Vaticano II, Ad Gentes, al num. 35 si dichiara che la Chiesa intera è missionaria e il lavoro di evangelizzazione è dovere fondamentale del Popolo di Dio.

Ora, però, capiamo cosa c’è dietro a questo mandato. Vogliamo passare in rassegna alcuni di questi grandi “va” di Dio agli uomini. “Va” non è mai la prima parola di Dio, è quasi sempre la conclusione di un dialogo. Il primo è proprio il “va” rivolto a Mosé: “Ora va, io ti mando, fa uscire dall’Egitto il mio popolo”.

ora è interessante, come sempre, vedere cosa precede. Prima c’è questo misterioso incontro di Dio nel Roveto Ardente, un’esperienza bruciante della VIVENTE REALTÀ di Dio. È un momento che cambia completamente la persona di Mosè. Fino a quel momento abbiamo sentito che Mosè è un uomo che guida lui gli eventi: “voglio vedere perché” si pone domande, vuole spiegazioni perché il roveto non brucia; poi dopo che ha sentito il suo nome pronunciato due volte, cambia completamente, si vela gli occhi, diventa sottomesso, remissivo, diventa la creatura che si trova alla presenza del Creatore. Cioè, PRIMA DI OGNI INVIO, Dio ha bisogno di far fare un’esperienza di se stesso. L’invio, la missione nasce da un incontro per cui quello che poi questo inviato dirà non sarà per sentito dire, non annuncerà una dottrina, non porterà un messaggio scritto, ma parlerà di una persona. Nella sua voce si sentirà l’eco di un incontro personale con Dio. Come sappiamo, Mosè esprime tutta la sua fragilità, la sua inadeguatezza, ma Dio gli dice: “Io sarò con te”

E questa è la parola di rassicurazione che Dio dice costantemente a quelli che manda. Anche nel caso di Saulo, Dio pronuncia due volte il nome. Quando Dio pronuncia due volte il nome nella Bibbia c’è sempre qualcosa di importante che segue. Dunque la chiamata di Saulo ha qualcosa di analogo, anche questa si conclude con “Vai, io ti mando, egli sarà per me un inviato, un apostolo davanti ai re e alle genti”. ma prima c’è stato l’incontro sulla via di Damasco. “Poi udii la voce del Signore che diceva: Chi manderò, chi andrà per noi?” ed io risposi: “Eccomi, manda me”. Egli disse:

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“Va e parla a questo popolo”.


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Anche qui è importante vedere cosa precede questa missione di Isaia: un’esperienza bruciante della SANTITÀ di Dio nel tempio, che si manifesta con i segni comuni, abituali di una teofania, il fumo, il fuoco, il terremoto, e Isaia si scopre come un peccatore in mezzo a peccatori. L’inviato deve sentirsi non un privilegiato, ma sempre un peccatore tra gli altri peccatori. Sempre gli inviati, a qualsiasi titolo, andranno con questo spirito di essere uomini come gli altri. Dice la lettera agli ebrei: “Ogni sacerdote è scelto in mezzo al popolo e inviato al popolo. In tal modo egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore essendo anche egli rivestito di debolezza”. “Tu figlio dell’uomo ascolta ciò che ti dico, non essere ribelle come questa genia di ribelli. Apri la bocca e mangia ciò che io ti dico, non essere ribelle come questa genia di ribelli”. Io guardai, ed ecco una mano tesa verso di me che teneva un rotolo, lo spiegò davanti a me e all’interno e all’esterno vi erano scritti lamenti, pianti e guai. Mi disse: “Figlio dell’uomo mangia ciò che hai davanti”. Io aprii la bocca ed egli mi fece mangiare quel rotolo dicendomi: “Figlio dell’uomo nutrisci il ventre e riempi le viscere con questo rotolo che ti porgo”. Io lo mangiai e fu per la mia bocca dolce come il miele. Poi egli mi disse “Figlio dell’uomo va, recati dagli israeliti e riferisci loro le mie parole”.

Anche qui prima del “va” c’è un’esperienza: il profeta deve mangiare il rotolo che simbolicamente contiene la parola di Dio che deve annunciare. Questa immagine dice che prima di proclamare la parola, la dobbiamo mangiare, ce ne dobbiamo riempire le viscere. Giovanni nell’Apocalisse dice che quella parola, quel rotolo mangiato era dolce sulle labbra ma amaro come il fiele nelle viscere. C’è una differenza enorme tra un libro letto, studiato, sviscerato e un libro mangiato, digerito, di cui ci si riempite le viscere. Questo vuol dire che la parola prima deve incarnarsi in chi la deve proclamare. Deve diventare carne della sua carne, sangue del suo sangue, deve poter aver ferito dentro, poter tagliato dentro. Questo spiega l’amarezza, perché la parola prima deve essere dolce come il miele sulle labbra perché la parola di Dio è dolce. Prima però bisogna aver sentito l’amarezza, cioè bisogna essersi lasciati giudicare dalla parola. Chi ha mangiato il rotolo e se ne è riempite le viscere è Maria. Non ha letto la parola di Dio, non l’ha studiata, l’ha accolta nel cuore, se ne è riempita le viscere e l’ha data al mondo. Lei dunque può essere davvero la stella dell’evangelizzazione perché ci presenta la caratteristica essenziale dell’annuncio: aver prima mangiato, digerita la parola, averla incarnata nella propria vita. Aveva ragione Paolo VI di dire che il mondo non ha bisogno solo di maestri ma soprattutto di testimoni. Testimone è colui che prima la parola l’ha vissuta, si è sforzato di viverla. Ora, però, nessuno riuscirà mai a vivere prima tutta la parola di Dio, altrimenti dovremmo tacere tutti e nessuno dovrebbe mai predicare perché mai nessuno può dire di avere già messo in pratica.

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“Ma l’angelo disse alle donne: non abbiate paura voi, so che cercate Gesù il crocefisso. Non è qui, è risorto come aveva detto. Venite a vedere dove era deposto. Presto andate e dite ai suoi discepoli che è resuscitato dai morti”.


La prima volta che questo verbo è risuonato nel mondo, al passato "è risorto" il mondo cambiava. Questo plurale ci dice che la missione di Dio anche quando è rivolta ad una sola persona è rivolta a tutta la comunità, a tutto un popolo. È il corpo che è mandato, è la Chiesa che è mandata, forse anche per questo Gesù dirà agli apostoli “Andate in tutto il mondo” ma è chiaro che quell’andate si rivolge a tutta la Chiesa perché tutta la Chiesa è inviata La grande piccola parola che Dio si aspetta da coloro che chiama, da colui a cui ha rivolto questo suo invito “va”, “andate”, è “Eccomi”. È come quando si fa un appello ed ognuno scatta in piedi dicendo “presente!”. “Eccomi” vuol dire “Signore sono qui, non fuggo dalla tua presenza, sono disponibile, ti ascolto, il mio cuore è pronto”, come dice un Salmo: “Il mio cuore è pronto per te Signore”. Io non mi appartengo più. Alla chiamata del Signore noi siamo tenuti solo a rispondere “Eccomi”, tutto il resto lo farà Lui. Non fare domande, come Mosè: dove? Con chi? Come? Quando? Non più defezioni in questo campo! Nessuno si defili poiché il rischio è grande. Paolo VI, nella Evangelii Nuntiandi, al num. 80, afferma: “Ma potremo noi salvarci se per negligenza, per paura, per vergogna … trascuriamo di annunziarlo [il Vangelo]?”. Giovanni Paolo II, nella Redemptoris Missio, al num. 11, rincara la dose: “Coloro che sono incorporati nella Chiesa Cattolica DEVONO sentirsi … impegnati a testimoniare la fede … Se non corrispondono a questa grazia col pensiero, con le parole e con le opere, lungi dal salvarsi, saranno più severamente giudicati”.

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Dunque, conclusione di tutto questo discorso è che Dio, PRIMA DI OGNI INVIO, ha bisogno di farti fare un’esperienza di SE STESSO, così che quello che porterai non saranno i tuoi fallimenti, la tua umanità, te stesso, ma UNA PERSONA, Gesù! Allora la domanda che possiamo farci è: MA NOI ABBIAMO FATTO INTIMAMENTE ESPERIENZA DELLA VIVENTE REALTA’ DI DIO, DELLA SUA SANTITA’, POTENZA, CONSOLAZIONE, GUARIGIONE, … ? Credo che il fatto stesso di essere qui è la prova che quest’incontro “intimo” con Dio c’è stato. Allora possiamo sentirci anche “inviati”. È il battesimo che ce lo impone! È la Chiesa che ce lo chiede! Sono i nostri responsabili che ci sollecitano! “Guai a me se non …” cantassi il Vangelo … se non fossi il giullare di Dio … se non annunciassi la bellezza di questa Vita Nuova nello Spirito che io sto vivendo nel Rinnovamento. E forse non c’è maniera migliore di comunicare questa esperienza dell’amore di Dio se non attraverso i nostri bellissimi canti (Io e la mia famiglia siamo testimonianza vivente di come il canto ci abbia attirato nel RnS). L’arte in genere è un “mezzo comunicativo” molto efficace per evangelizzare, difatti essa ha sempre avuto una dimensione di annuncio del Vangelo, e particolarmente di annuncio ai poveri (cfr. Luca 4). Pensiamo alle vetrate nelle cattedrali: vero annuncio per chi non sapeva leggere. L'iconografia: “svela” un parte del mistero divino, è porta aperta sul Cielo ovvero uno squarcio di Cielo, di eterno sulla terra. La musica da parte sua è stata probabilmente la prima forma d'arte impegnata nell’evangelizzazione. La Liturgia era il 1° luogo d'evangelizzazione... Nel Medio-Evo, non erano poco diffusi gli spettacoli sui sagrati delle chiese, delle cattedrali, veri spettacoli di evangelizzazione. Rispetto ad oggi le modalità sono cambiate, i mezzi, la tecnologia, ma la sostanza e lo scopo sono sempre gli stessi: raggiungere il cuore dell'uomo per aiutarlo ad aprirsi al Signore, al Mistero, al Regno.

Ecco a cosa servono le nostre note e i nostri canti: a ricondurre l’uomo a Dio; è sempre il gesto del Battista che indica l'Agnello! Dobbiamo imparare e maturare la capacità di SPARIRE (cfr At 8, 26 - 40). Non dobbiamo attirare la gente a noi, con i nostri virtuosismi, con le nostre performances tecnicamente perfette! Non c a v a l - chiamo l ’o n d a del successo, ma ricordiamo di essere come dei segnali stradali che indicano la via verso Dio. Gesù è il centro della nuova evangelizzazione; la musica è e deve essere soltanto un veicolo del messaggio Cristocentrico. Dunque i nostri canti sono veicolo efficace per far vibrare le corde più nascoste e intime del nostro cuore. E di questo ci da testimonianza S. Agostino nelle sue Confessioni.

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33.49. I piaceri dell’udito mi hanno coinvolto e soggiogato più tenacemente, ma tu me ne hai sciolto e liberato. Ora nella musica che anima le tue parole, quando le canta una bella


voce d'artista, lo confesso, trovo un certo appagamento, ma non al punto da lasciarmene incatenare: mi riscuoto quando voglio. Tuttavia per accedere a me con i pensieri di cui la musica vive, esige che io le trovi nel mio cuore un luogo non privo di decoro: e faccio fatica a offrirgliene uno adeguato. A volte mi sembra di concederle dignità maggiore di quanta non le convenga, pur rendendomi conto che più intensa è la fiamma di devozione accesa nelle nostre menti dalle stesse parole divine quando sono cantate a quel modo, che quando non lo sono, e che tutta la gamma dei nostri sentimenti trova, nella sua varietà, una corrispondenza di ritmi nella voce e nel canto, ritmi che con la loro segreta affinità evocano i diversi sentimenti. Ma questo piacere carnale, cui non è opportuno la mente si conceda se diventa snervante, spesso mi seduce: quando la sensazione non si limita ad accompagnare pazientemente il pensiero cedendogli il passo, ma per il solo fatto di esser stata ammessa per grazia sua, tenta addirittura di precederlo e guidarlo. Qui pecco senza accorgermene, e me ne accorgo in seguito. – 50. A volte invece in uno sforzo esagerato di evitare questa seduzione erro per troppa severità: ma molto raramente. Allora vorrei bandire dalle mie orecchie e da quelle di tutta la Chiesa tutte le melodie che danno fascino al canto con cui si accompagnano i salmi davidici: e mi sembra più sicuro il sistema che ricordo di aver spesso sentito attribuire al vescovo Atanasio di Alessandria, il quale faceva modulare così poco la voce al lettore dei salmi, da far parere il suo canto più simile a un recitativo. Quando però mi ricordo le lacrime che mi fece versare il canto dei fedeli ai primordi della mia fede ritrovata, e ripenso all'emozione che non il canto, ma le cose cantate mi danno se è una voce limpida a cantarle in un registro appropriato, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica. Oscillo così fra il rischio del piacere e l'esperienza del bene che fa, e propendo maggiormente anche se non irrevocabilmente verso l'opinione che approva la consuetudine del canto fra i fedeli, perché anche un cuore un po' incerto trovi in questa carezza per l'udito un incentivo a sollevarsi più in alto nella devozione. Se tuttavia mi accade di sentirmi colpito più dal canto che da ciò che si canta, io confesso il mio peccato e la pena da pagare, e allora preferirei non udire il cantore.

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S. Agostino Le Confessioni Ora se è vero che i nostri canti ci elevano, sciolgono la durezza dei nostri cuori nelle nostre assemblee, nella liturgia, nei gruppi, dove questa soglia di “appagamento” è già alta, ancor più accade ad extra dove invece la soglia della “bellezza” è ancora molto bassa e quindi questo pro-

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cesso di apertura del cuore può realizzarsi (es. passaggio dal buio pesto alla luce, si percepisce in maniera forte; il passaggio da una luce ad un’altra più luminosa, è meno evidente). Recentemente il card. Ravasi ha affermato: L’uomo di oggi ha bisogno della musica. La musica è “uno dei linguaggi fondamentali della comunicazione, soprattutto per i giovani”. La musica è un linguaggio universale che conduce alla riscoperta della fede. Ecco che emerge la valenza evangelizzante della musica e del canto. Il rapporto tra queste due realtà affonda le sue radici nella notte dei tempi, come riferisce il libro dei Proverbi: “… danzando e cantando Dio creò l’armonia dell’universo”.

Dalla Genesi all'Apocalisse melodie, strumenti musicali, canti e cori angelici risuonano negli episodi più indimenticabili delle Scritture. La Bibbia è come un immenso spartito le cui note accompagnano non solo i grandi interventi di Dio nella storia, ma anche tutte le opere e le azioni più importanti dell'uomo: la nascita e la morte, il riso e le lacrime, la pace e la guerra, l'amore e il lavoro. (Il canto della rana - Gianfranco R avasi, David Maria Turoldo)

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Dunque, la creazione è un evento sonoro. La creazione è armonia. E l’armonia viene espressa attraverso una forma musicale. Dovrebbe sempre risuonare – continua – la frase del Salmo 47 che dice: “Cantate a Dio con arte”, cioè adattandosi ad intercettare l’evoluzione della musica, del canto, della cultura in genere Anche S. Agostino parlava di “bella voce d’artista”, “melodie che danno fascino al canto”, il che ci dice l’importanza di cantare con arte, ovvero, coltivare l’arte del cantare. E questo nostro cantare con arte, cioè bene, si riflette anche e soprattutto nell’evangelizzare attraverso la musica. Così che, parafrasando Giovanni Paolo II, potremo parlare di evangelizzare con arte o l’arte di evangelizzare, esprimendo con ciò la “capacità” di ben evangelizzare, l’“abilità” di ben presentare Gesù Cristo affinché sia accolto con favore, cioè applicare “tecniche, destrezza, ingegno, maestria, talento” all’annuncio kerigmatico.


Ma soprattutto, “evangelizzare con arte” vuole significare, evangelizzare con passione, con cuore, con mente, con zelo, con ardore, considerando l’evangelizzazione non un PESO o un OPTIONAL, bensì una GRAZIA e il PRIVILEGIO di essere collaboratori della missione salvifica di Gesù (cfr 1 Cor 3, 9). Da ragazzo, andare in chiesa e trovare il gruppo di vecchiette che recitavano il rosario, di certo non mi attirava. Incontrando il RnS, con i suoi canti, la sua gioia, la possibilità di dare sfogo all’estro musicale etc etc. mi ha subito catturato. Ma c’è una condizione: io sono ENTRATO in chiesa. Oggi che in chiesa i giovani entrano molto raramente, occorre USCIRE dai nostri cenacoli ed ESPORTARE la bellezza del RnS fuori, nelle piazze, sui muretti delle città, per le strade, nei pub, nelle discoteche dove i giovani s’incontrano … Mentre nelle chiese, nei nostri convegni, gruppi facciamo una pesca diciamo “a riva”, con i concerti di evangelizzazione ci predisponiamo a “pescare” in alto mare. Gesù, infatti, vuole farci “pescatori di uomini” (cfr Mt 4, 19) e in questo siamo tutti pastori – ad immagine del Buon Pastore – mandati a cercare il gregge smarrito (le 99 perdute e non più 1 sola). Ma a noi, forse, amiamo pescare in riva al mare, comodamente seduti: se qualcuno abbocca l’amo bene, altrimenti... pace! Tuttavia, la pesca abbondante si ottiene andando al largo, lasciando la sicurezza della riva, remando verso l’alto mare e gettando le reti “sulla sua Parola” certi di raccogliere a piene mani! Bisogna scomodarsi. Si capisce che, in linea di principio, l’animazione musicale e l’utilizzo di canti non può essere la stessa cosa se fatta durante la liturgia, la preghiera comunitaria o all’esterno in un evento di evangelizzazione. C’è un canto che è conforme alla LODE e l’ADORAZIONE, e richiede scelte ed esecuzioni appropriate: Qui ci si rivolge direttamente a Dio, se ne contempla la Maestà, si adora la sua Presenza, si onora la sua Santità.

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C’è un canto per la LITURGIA, con scelta di canti ed esecuzioni consone al luogo e al culto: in questo caso i canti e le esecuzioni (non devono sovrastare la Liturgia ma a sono a servizio di essa) devono essere in sintonia con il tempo liturgico, la celebrazione e devono favorire la partecipazione del popolo.

C’è, infine, un canto per l’evangelizzazione e la testimonianza della propria fede, annuncio di valori, proclamazione di speranza, promozione di rapporti fraterni: qui, fondamentalmente si parlerà di Dio, degli insegnamenti di Gesù, dei valori cristiani, …, di come è cambiata la mia vita da quando ho fatto il famoso “incontro” e ovviamente sarà una testimonianza gioiosa.

Ciò determina anche una diversificazione di atteggiamento e di stile a seconda del caso in cui ci troviamo. Per i concerti di evangelizzazione: •

Immagine.

Atteggiamento.

Stili e arrangiamenti del repertorio.

1. Spettacolo multimediale di Evangelizzazione (annuncio puro): prima fase non esplicita, parte centrale di annuncio kerigmatico, fase finale di festa. 2. Concerto preghiera (es. in festa patronale, ovvero in presenza di un uditorio senz’altro amico). 3. Concerto da richiamo (con cellule di evangelizzazione e Roveto Ardente in chiesa). Repertorio molto fine e ricercato, magari internazionale.

Ogni concerto di evangelizzazione è una missione caratterizzata da un costante ed intenso combattimento spirituale, e il palco va inteso non come spazio per la propria esaltazione o vetrina dove mettersi in mostra, ma come una sorta di altare dove tu ti metti in gioco per Gesù, ti esponi come credente, offrendo il tuo talento, la tua testimonianza, i tuoi sacrifici. Ancor oggi Papa Benedetto XVI invita a “riflettere sull’URGENZA che PERMANE di annunciare il Vangelo anche in questo nostro tempo”. Viviamo in tempi di squilibri, di inquietudini ed è quindi un “DOVERE” impellente per tutti di annunciare il Vangelo (Messaggio di Sua Santità Benedetto XVI per la Giornata Missionaria Mondiale 2008). Ma già Giovanni Paolo II, nel suo pontificato, aveva dichiarato “… ora è venuto il momento di dedicare tutte le forze ecclesiali alla nuova evangelizzazione ed alla nuova missione ad gentes (Redemptoris Missio, num. 3). Si tratta di avere orecchie e sensibilità spirituali. Dio ha ascoltato il grido dell’umanità, il suo lamento:

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“ho visto la sofferenza del mio popolo, ho sentito il suo grido”


Ed ha mandato il suo Figlio Gesù Cristo. Nello Spirito, anche noi possiamo ascoltare il grido di tanti giovani, uomini e donne, che vivono nel “non senso” e nei quali lo Spirito di Dio che è in loro è soffocato dalle spine che il mondo e il peccato ha fatto crescere in loro. L’uomo di questo nostro tempo grida e attende PROPRIO NOI che gli portiamo l’annuncio che Dio li AMA e che Gesù Cristo è l’unica ancora di salvezza: “... Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato. Ora, come potranno invocarlo senza aver prima creduto in lui? E come potranno credere, senza averne sentito parlare? E come potranno sentirne parlare senza uno che lo annunzi?” (Rm 10, 13-14). Ma come facciamo? Non mi sento pronto! Non sento la chiamata! Siamo pochi, inesperti! “ECCOMI”, è l’unica cosa che dobbiamo dire. Al resto ci pensa Dio. Allora Gesù chiamò a sé i discepoli e disse: “Sento compassione di questa folla: ormai da tre giorni mi vengono dietro e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non svengano lungo la strada”. E i discepoli gli dissero: “Dove potremo noi trovare in un deserto tanti pani da sfamare una folla così grande?”. Ma Gesù domandò: “Quanti pani avete?”. Risposero: “Sette, e pochi pesciolini”. Dopo aver ordinato alla folla di sedersi per terra, Gesù prese i sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò, li dava ai discepoli, e i discepoli li distribuivano alla folla. TUTTI MANGIARONO E FURONO SAZIATI. Dei pezzi avanzati portarono via sette sporte piene (Mt 15, 32-37). Noi DIAMOCI: poi sarà Gesù a moltiplicare. Bisogna cominciare: EVANGELIZZANDO SI IMPARA AD EVANGELIZZARE!

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Nell’esperienza

campana, l’equipe dello spettacolo multimediale di evangelizzazione “Una Speranza Nuova”, abbiamo co minciato nel 98 con 1 tastiera, 3 fiati, 2 chitarre. Cammino facendo, nelle piazze stesse abbiamo trovato batterista, bassista, violinista, ballerini, …

«Chi avverte in sé questa sorta di scintilla divina che è la vocazione artistica … avverte al tempo stesso l’obbligo di non sprecare questo talento, ma di svilupparlo per metterlo a servizio del prossimo e di tutta l’umanità» (GPII - Lettera agli artisti). Allora, coraggio fratelli “… e al lavoro”, non sprechiamo questo meraviglioso carisma del canto e della musica, ma con generosità e fiducia spendiamoci nella nuova evangelizzazione.

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2.

IL CANTO DEL BENEDICTUS

di Nicola Montuori, già delegato regionale musica e canto della Campania, membro anziano della corale nazionale, coordinatore del gruppo amicizia di Pscinola (Na)

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Il Cantico intonato dal padre di Giovanni Battista, Zaccaria, allorché la nascita di quel figlio aveva mutato la sua vita, cancellando il dubbio che l’aveva reso muto, una punizione significativa per la sua mancanza di fede e di lode. Ora, invece, Zaccaria può celebrare Dio che salva e lo fa con questo inno, riportato dall’evangelista Luca in una forma che certamente ne riflette l’uso liturgico all’interno della comunità cristiana delle origini (cfr Lc 1,68-79). Lo stesso evangelista lo definisce come un canto profetico, sbocciato attraverso il soffio dello Spirito Santo (cfr 1,67). Siamo, infatti, di fronte ad una benedizione che proclama le azioni salvifiche e la liberazione offerta dal Signore al suo popolo. È, quindi, una lettura «profetica» della storia, ossia la scoperta del senso intimo e profondo dell’intera vicenda umana, guidata dalla mano nascosta ma operosa del Signore, che s’intreccia con quella più debole e incerta dell’uomo. Il testo è solenne e, nell’originale greco, si compone di due sole frasi (cfr vv. 68-75; 76-79). Dopo l’introduzione, segnata dalla benedizione laudativa, possiamo identificare nel corpo del Cantico quasi tre strofe, che esaltano altrettanti temi, destinati a scandire tutta la storia della salvezza: l’alleanza davidica (cfr vv. 68-71), l’alleanza


abramitica (cfr vv. 72-75), il Battista che ci introduce nella nuova alleanza in Cristo (cfr vv. 76-79). La tensione di tutta la preghiera è, infatti, verso quella meta che Davide e Abramo indicano con la loro presenza. Il vertice è appunto in una frase quasi conclusiva: «Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge» (v. 78). L’espressione a prima vista paradossale col suo unire «l’alto» e il «sorgere», è in realtà significativa. Infatti nell’originale greco il «sole che sorge» è anatolè, un vocabolo che in sé significa sia la luce solare che brilla sul nostro pianeta, sia il germoglio che spunta. Entrambe le immagini nella tradizione biblica hanno un valore messianico. Da un lato, Isaia ci ricorda, parlando dell’Emmanuele, che «il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (9,1). D’altro lato, ancora riferendosi al re-Emmanuele, lo raffigura come il «germoglio spuntato dal tronco di Iesse», cioè dalla dinastia davidica, un virgulto avvolto dallo Spirito di Dio (cfr Is 11,1-2). Con Cristo, dunque, appare la luce che illumina ogni creatura (cfr Gv 1,9) e fiorisce la vita, come dirà l’evangelista Giovanni unendo proprio queste due realtà: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4). L’umanità che è avvolta «nelle tenebre e nell’ombra della morte» è rischiarata da questo fulgore di rivelazione (cfr Lc 1,79). Come aveva annunziato il profeta Malachia, «per voi cultori del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (3,20). Questo sole «dirigerà i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79). Ci muoviamo, allora, avendo come punto di riferimento quella luce; e i nostri passi incerti, che durante il giorno spesso deviano su strade oscure e scivolose, sono sostenuti dal chiarore della verità che Cristo diffonde nel mondo e nella storia. Vorremmo, a questo punto, lasciare la parola a un maestro della Chiesa, a un suo Dottore, il britannico Beda il Venerabile (VII-VIII sec.) che nella sua Omelia per la nascita di san Giovanni Battista, così commentava il Cantico di Zaccaria: «Il Signore… ci ha visitati come un medico i malati, perché per sanare l’inveterata infermità della nostra superbia, ci ha offerto il nuovo esempio della sua umiltà; ha redento il suo popolo, perché ha liberato a prezzo del suo sangue noi che eravamo diventati servi del peccato e schiavi dell’antico nemico… Cristo ci ha trovato che giacevamo “nelle tenebre e nell’ombra della morte”, cioè oppressi dalla lunga cecità del peccato e dell’ignoranza… Ci ha portato la vera luce della sua conoscenza e, rimosse le tenebre dell’errore, ci ha mostrato il sicuro cammino per la patria celeste. Ha diretto i passi delle nostre opere per farci camminare nella via della verità, che ci ha mostrato, e per farci entrare nella casa della pace eterna, che ci ha promesso».

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Infine, attingendo ad altri testi biblici, il Venerabile Beda così concludeva, rendendo grazie per i doni ricevuti: «Dato che siamo in possesso di questi doni della bontà eterna, fratelli carissimi, …benediciamo anche noi il Signore in ogni tempo (cfr Sal 33,2), perché “ha visitato e redento il suo popolo”. Sulla nostra bocca ci sia sempre la sua lode, conserviamo il suo ricordo e a nostra volta proclamiamo la virtù di colui che “dalle tenebre ci ha chiamato alla sua ammirabile luce” (1Pt 2,9). Chiediamo continuamente il suo aiuto, perché conservi in noi la luce della conoscenza che ci ha portato, e ci conduca fino al giorno della perfezione». AMEN, ALLELUY !!

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1.

IL TEMPO DI AVVENTO: ATTENDERE E VEGLIARE

Il Tempo di Avvento è costituito da quattro domeniche e settimane precedenti il 25 dicembre. Domenica Prima Gli ultimi tempi Domenica Seconda Prima domenica del Battista: “Convertitevi” Domenica Terza: «Gaudete» Seconda domenica del Battista: “Sei tu colui che deve venire?” Ferie pre - natalizie (17 - 24 dicembre) Domenica Quarta Nascerà da Maria

Le letture domeniche

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Le letture del vangelo hanno nelle singole domeniche una loro caratteristica propria: si riferiscono alla venuta del Signore alla fine dei tempi (I domenica), a Giovanni Battista (II e III domenica); agli antefatti immediati della nascita del Signore (IV domenica). Le letture dell’Antico Testamento sono profezie sul Messia e sul tempo messianico, tratte soprattutto dal libro di Isaia. Le letture dell’apostolo contengono esortazioni e annunzi, in armonia con le caratteristiche di questo tempo (OLM 93).


Le letture dei giorni feriali Si ha una duplice serie di letture: una dall’inizio dell’avvento fino al 16 dicembre, l’altra dal 17 al 24. Nella prima parte dell’avvento si legge il libro di Isaia, secondo l’ordine del libro stesso, non esclusi i testi di maggior rilievo, che ricorrono anche in domenica. La scelta dei vangeli di questi giorni è stata fatta in riferimento alla prima lettura. Dal giovedì della seconda settimana cominciano le letture del vangelo su Giovanni Battista; la prima lettura è invece o continuazione del libro di Isaia, o un altro testo, scelto in riferimento al vangelo. Nell’ultima settimana prima del Natale, si leggono brani del Vangelo di Matteo (cap. 1) e di Luca (cap. 1), che propongono il racconto degli eventi che precedettero immediatamente la nascita del Signore. Per la prima lettura sono stati scelti, in riferimento al vangelo, testi vari dell’Antico Testamento, tra cui alcune profezie messianiche di notevole importanza (OLM 94). Le caratteristiche del Tempo d’Avvento L’avvento escatologico e l’avvento natalizio Il tempo d’Avvento, ultimo nato tra i periodi dell’anno liturgico, è colorato da due tonalità. La prima parte orienta agli ultimi tempi, la seconda parte, a partire dal 17 dicembre e con la IV domenica prepara immediatamente la solennità del Natale. Così si esprime il prefazio dell’Avvento I: Al suo primo avvento nell’umiltà della nostra natura umana egli portò a compimento la promessa antica, e ci aprì la via dell’eterna salvezza. Verrà di nuovo nello splendore della gloria, e ci chiamerà a possedere il regno promesso che ora osiamo sperare vigilanti nell’attesa. Le tre venute: nella carne, nel sacramento, nella gloria «Le tre venute di Cristo sono i perni sui quali si costruisce la teologia dell’Avvento, tre venute che si relazionano e si spiegano a vicenda. La prima venuta di Cristo nell’umiltà della nostra carne ci ricorda la sua ultima venuta alla fine dei tempi... La prima e l’ultima venuta del Signore diventa- no manifestazioni attuali nella celebrazione liturgica che attua lizza il mistero della parusia come quello dell’incarnazione. In questo modo l’avvento si collega con il mistero della manifestazione del Signore (Natale-Epifania) in una tematica teologica comune: la venuta del Signore per la nostra redenzione» (D. Borobio (ed.), La celebrazione nella Chiesa, vol. 3, LDC, Leumann (Torino) 1994, 203- 204).

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Isaia e Giovanni il Battista Il libro del profeta Isaia e la predicazione del Battista sostengono i passi della chiesa in questo tempo di vigilanza. La Chiesa, come Israele in esilio a Babilonia, è in attesa di una nuova e definitiva liberazione. Ci vuole un nuovo esodo, deve aprirsi una nuova strada, affinché i deportati ritornino a ricostruire Gerusalemme e il tempio. Il Battista, ultimo dei profeti, ricorda come, se pur non emergente, l’invito alla conversione fa parte delle caratteristiche del tempo d’Avvento. Ogni tempo è tempo di prepararsi alla manifestazione dell’inviato di Dio. Per cogliere i segni del nuovo, occorre rinnovarsi interiormente. Maria e Giuseppe Soprattutto la Madre diventa modello di attesa, insieme al giusto Giuseppe. Il tempo d’Avvento è il tempo mariano per eccellenza dell’anno liturgico. Maria, prima tra gli umili e i poveri del Signore è

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modello della Chiesa. Anch’essa è madre e vergine che, attendendo il compimento delle promesse del suo Signore, ha fede nella sua parola. Vegliare nella notte, sperare nel compimento, gioire per la salvezza Gli atteggiamenti spirituali che l’Avvento suscita e richiede sembrano ben espressi da questi tre verbi: vegliare, sperare, gioire. Vegliare perché il buio c’è ancora e occorre essere sentinelle vigili del vangelo. Colui che veglia porta in sé da una parte la certezza che “il Signore è vicino”, dall’altra l’incertezza di non poterlo “vedere” mai in piena luce. Il Signore si manifesta sempre in nodi e forme inaspettati, in luoghi e persone che nessuno considera, in tempi e momenti che nessuna sa … La nostra attesa – come dice S. Agostino – non serve ad aspettare la sua venuta, ma ad orientare il nostro sguardo nella giusta direzione della sua presenza. Colui che attende con pazienza vedrà che la presenza del Signore pian piano si fa più viva, la fede nell’attesa si rafforza, gli avvenimenti di ogni giorno acquistano un significato davanti al Signore, lui stesso – il Signore – ci sembra meno lontano, diviene più familiare... Colui che attende non resta deluso, vede gli indizi e continua a cercare con perseveranza. La gioia dell’attesa – è vero – non è la gioia dell’incontro realizzato. Quest’ultima è piena e definitiva, è sicura e stabile, non verrà mai meno: è la gioia degli ultimi tempi. Ma non meno vera è la gioia che si prova nel cercare, nell’incamminarsi verso la meta, nel vedere anche solo parzialmente. In questa vita non ci è concessa una gioia “pura”; essa è sempre mescolata con la fatica; non ci è data una gioia definitiva, ma sempre per momenti e per gradi:

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«Padre santo, che mantieni nei secoli le tue promesse, rialza il capo dell’umanità oppressa da tanti mali e apri i nostri cuori alla speranza, perché sappiamo attendere senza turbamento il ritorno glorioso del Cristo, giudice e salvatore» (Colletta della I domenica, anno C).


2.

IL TEMPO DI NATALE: «SI È MANIFESTATA LA GLORIA DI DIO»

dI Daniela Piazzi

Diversamente dai tempi dell’anno liturgico analizzati prima, il ciclo del Natale non dipende dal computo lunare, ma dalla divisione in mesi del computo solare. Per questo cardini della struttura di questo periodo dell’anno sono giorni fissi del mese: 24 dicembre sera Vigilia

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25 dicembre Natale del Signore Ferie tra l’Ottava Domenica fra l’Ottava (o 30 dicembre) S. Famiglia 1 gennaio Ottava di Natale - S. Madre di Dio [Seconda domenica dopo Natale] 6 gennaio Epifania del Signore Domenica dopo il 6 gennaio Battesimo del Signore

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L’ordinamento delle letture ha caratteristiche peculiari, poiché al centro delle solennità sta l’evento che esse celebrano: Solennità, feste e domeniche Per la messa vigiliare e per le tre messe di natale, le letture profetiche e le altre letture sono scelte dalla tradizione romana. Nella domenica tra l’ottava di natale, festa della santa famiglia, il vangelo è riferito all’infanzia di Gesù, le altre letture alle virtù della vita familiare. Nell’ottava di natale e solennità di Maria ss. Madre di Dio, le letture si riferiscono alla vergine Madre di Dio e all’imposizione del santissimo nome di Gesù. Nella II domenica dopo natale, le letture trattano del mistero dell’incarnazione. Nell’epifania del Signore, la lettura dell’Antico Testamento e quella del vangelo conservano la tradizione romana; per la lettura dell’apostolo si usa un testo sulla vocazione delle genti alla salvezza. Nella festa del battesimo del Signore, i testi si riferiscono a questo mistero (OLM 95).

Ferie Dal 29 dicembre, si fa la lettura continua della prima lettera di Giovanni, già iniziata il 27 dicembre, festa dello stesso san Giovanni, e proseguita il giorno seguente, festa dei santi Innocenti. I vangeli si riferiscono alle varie manifestazioni del Signore. Si leggono così, dal Vangelo di Luca, i fatti dell’infanzia di Gesù (29 e 30 dicembre), poi il primo capitolo del Vangelo di Giovanni (31 dicembre - 5 gennaio), quindi le principali manifestazioni del Signore dai quattro vangeli (7-12 gennaio) (OLM 96).

Le caratteristiche del Tempo di Natale Attraverso le espressioni dei Prefazi del Tempo di Natale, chiediamo alla liturgia di spiegarci il mistero, l’opera di Dio che celebriamo in questo periodo dell’anno liturgico. Il Verbo invisibile apparve visibilmente nella nostra carne (Prefazio di Natale II) Se si vuol vedere Dio, ora bisogna guardare alla persona e alla vita nel tempo e nella carne di Gesù di Nazaret. L’eternità di Dio e la finitezza dell’uomo non sono un ostacolo. Cristo è la ragione ultima di tutte le cose. Lui è la risposta chiara alla domanda di senso dell’uomo e dell’universo. Dio non ci ha risposto con una filosofia, ci ha fatto «vedere» nella vita concreta di Gesù come si vive da figli di Dio rimanendo e divenendo uomini in pienezza. La strada per arrivare a Dio è l’umanità. Risplende in piena luce il misterioso scambio che ci ha redenti (Prefazio di Natale III) Il mistero del Natale è un evento di «illuminazione». Si svela, si pone in piena luce chi è Dio e chi è l’uomo. Il Verbo si è fatto uno della nostra umanità e noi siamo diventati figli di Dio. Ora tutto è pervaso da questa dimensione «teandrica» ( cioè umano- divina): il tempo è luogo in cui il disegno di Dio si svela, l’uomo diviene tempio di Dio, la Chiesa è il popolo di Dio, i sacramenti sono segni della sua azione. Non Dio contro l’uomo o l’uomo senza Dio, ma Dio e l’uomo ora sono «insieme». Così prega la colletta del giorno di Natale:

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O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti, fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana.


Cominciò ad esistere nel tempo per reintegrare l’universo nel disegno del Padre (Prefazio di Natale II) «Il mondo, che ha cominciato ad esistere col “fiat lux” (sia la luce) della Genesi, è come rifatto da questa seconda nascita della luce. Il cosmo intero, e non solo l’umanità, è toccata dal mistero dell’incarnazione. La redenzione non riguarda soltanto una parte dell’uomo, l’anima, ma tutto l’uomo e tutti gli uomini. La manifestazione di Dio nella realtà umana ha uno scopo ben preciso: riportare l’uomo e attraverso di lui tutto il creato al Padre. Il Verbo di Dio, afferma il Concilio Vaticano Il, per mezzo del quale tutto è stato creato, fattosi uomo lui stesso, venuto ad abitare sulla terra degli uomini, entrò nella storia del mondo come l’uomo perfetto, assumendo questa e ricapitolandola in se ( GS 38)11 (A. Bergamini, Cristo festa della Chiesa, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1991, pp. 273-274). Per questo il Natale si orienta alla Pasqua. In quell’offerta totale, preceduta dal «sì» del Figlio che entra nel mondo per fare la volontà del Padre, si avrà la piena reintegrazione dell’uomo nell’obbedienza al progetto di Dio. Per una personalità cristiana attenta alla storia Il mistero dell’incarnazione celebrato dal Natale, spingendoci a riflettere sulla nostra comunione con la natura divina, diventa paradossalmente un invito ad assumere una spiritualità della storia. La concretezza degli eventi e delle persone non è un elemento accessorio alla fede. Anzi, solo nella concretezza del tempo si può discernere il progetto di Dio. E’ certo, faticoso, ma ogni credente, soprattutto adulto, deve incarnare Dio nel tempo, perché la realtà creata ritorni a colui che l’ha voluta, amata e redenta.

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3.

IL TEMPO DI AVVENTO E IL TEMPO DI NATALE

1. Il tempo della beata speranza Se il Triduo Pasquale è il centro dell’anno liturgico e il tempo di Pasqua ne è per così dire la risonanza continuata, il tempo di Avvento è opportunamente posto ad apertura della scansione annuale del mistero di Cristo: la domenica successiva alla solennità di Cristo Re dell’Universo (una celebrazione di recente istituzione ma ben inquadrata, oggi, nella prospettiva di salvezza cosmica enunciata dal numero 45 della costituzione conciliare GS), la Chiesa di Dio pellegrina sulla terra continua infatti il suo cammino verso il Regno tornando a celebrare – in maniera eguale e insieme nuova, combinando la ritualità circolare dell’anno liturgico con la linearità inarrestabile dell’uomo e del mondo – un tempo che « ha una doppia caratteristica », come ci avverte Norme 39, preparando non solo «alla solennità del Natale, in cui si ricorda la prima venuta del Figlio di Dio fra gli uomini», ma rappresentando, «contemporaneamente», anche «il tempo in cui, attraverso tale ricordo, lo spirito viene guidato all’attesa della seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi». L’Avvento è dunque il tempo in cui la Chiesa canta in maniera straordinariamente puntuale il senso sacramentale di tutto il suo agire liturgico: «annunziamo la tua morte, Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta». Cristo, infatti, –– ––

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verrà incontro a noi, nella sua gloria di Risorto, al termine dell’esistenza terrena di ognuno e al chiudersi delle vicende del mondo; nel contempo, però, egli viene pure a rischiarare ogni giorno della nostra vita quotidiana, luminosamente celato nel volto dei fratelli, nei segni sacramentali, nelle parole di sapienza e di discernimento che ci offrono la Scrittura e la liturgia: e tutto ciò perché colui che viene e verrà è lo stesso Gesù che è già venuto «nella pienezza del tempo» (Gal 4,4) e che la liturgia ci conduce perciò progressivamente a commemorare attraverso una dialettica costante di già e non ancora, continuamente attenta a tutto il mistero del Signore, dalla sua venuta nella storia al suo ritorno alla fine dei secoli.

La Pastorale dell’Avvento – e, per quel che ci riguarda, la sua animazione liturgica e musicale – è dunque, in primo luogo, la pastorale della beata speranza oltre che della vigile attesa e del risveglio paolino: la tensione verso il Cristo venturo non deve essere meno forte e sentita della memoria del Cristo venuto. L’Atteso è il Presente, ma è anche il Trovato da cercare e (non ultimo) da annunciare “a tutte le genti”. Una comunità che perde di vista l’orizzonte escatologico e vive tutto l’Avvento come mera “preparazione al Natale” è una comunità che “ricorda” ma che non “commemora”, che non fa “memoriale” del suo Signore, venuto una volta per tutte, presente in mezzo ai suoi e che tornerà nella gloria «per giudicare i vivi e i morti». 2. L’animazione musicale dell’Avvento

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È evidente perciò, anche da queste note sommarie, che il carico d’attesa dell’Avvento è molto più profondo e impegnativo della semplice “attesa di Gesù bambino”, che pure gli compete; solo


nell’orizzonte del mistero integrale di Cristo acquista senso, fra l’altro, il peculiare cammino di purificazione cui ci invita la liturgia, tingendo di viola i paramenti e privando la messa dell’usuale Gloria in excelsis: una purificazione che non è la mortificazione quaresimale, ma che esprime piuttosto l’atteggiamento di coloro che vogliono “preparare le vie del Signore” prima in se stessi e poi nel mondo, in vista dell’eschaton e di una missionarietà credibile ad intra non meno che ad extra. L’animazione liturgica del tempo e, in concreto, la scelta dei canti e delle musiche, di conseguenza, rifletterà la «doppia caratteristica» del tempo tramite un’oculata selezione dei testi prima ancora che delle melodie. Come dice bene la «Presentazione» al RN, «mentre le musiche, nella linea della grande tradizione ecclesiale, sono volentieri lasciate alla molteplice creatività dei compositori, un testo destinato al canto liturgico richiede un tale insieme di valori e una tale convergenza di qualità, da meritare la massima cura e un impegno di alta responsabilità»; è necessario «reperire canti che segnino un certo distacco rispetto al quotidiano e ai più correnti modi espressivi, facendo appello alla fede di chi celebra, in modo da favorire il rimando al mistero cristiano»: ma, nel contempo, occorre «scegliere canti che siano eloquenti, effettivamente e culturalmente cantabili oggi, in modo da favorire la comunione e consentire a tutti di identificarvisi». V’è da augurarsi, pertanto, che scelte così importanti sotto il profilo non solo rituale e celebrativo, ma anche - e non secondariamente antropologico e teologico si compiano sempre più in gruppo, in anticipo e attingendo a tutti i mezzi sussidiari disponibili: il primo dei quali, mi sembra, dovrebbe divenire d’abitudine proprio RN, cui sarà opportuno rivolgersi come a cartina di tornasole anche qualora la situazione contingente dell’assemblea faccia poi propendere gli animatori verso prodotti musicali affatto differenti. In concreto, per il canto qualificativo della celebrazione – il canto d’ingresso – si potrà puntare a seconda dell’opportunità su un’efficace “sigla”, mantenuta per tutte le quattro domeniche (si prestano ottimamente allo scopo, ad esempio, i nn. 5, 6, 12, 16, 17 e 20 RN, e il celebre corale di Poma/Croft Tu quando verrai, RN 249; l’opzione definitiva andando ovviamente calibrata sulle possibilità ricettive e vocali della propria assemblea), oppure su una coppia di testi più direttamente collegati alla sommaria bipartizione cronologico-tematica che solca a tutt’oggi l’Avvento (I domenica-16 e 17-24 dicembre), come sono rispettivamente etichettati i nn. 3 (I e II domenica) e 7, 8, 11 e 14 (III e IV domenica), sempre di RN. Peso non eccessivo, a mio avviso, conviene invece riservare all’atto penitenziale, onde evitare che esso colori troppo di sé i riti di introduzione e l’intera celebrazione; la formula migliore, in questo tempo più che in altri, può essere la terza, rinvigorita da tropi non stereotipati – liberi naturalmente da espressioni moralistiche o da rigurgiti di terrorismo spirituale à la “dies irae” – e conclusi sempre dall’appropriata risposta in canto: breve, semplice, diretta, e (per la verità del genere) mai musicalmente espansa. Il canto di comunione o di ringraziamento, infine, può essere un’ulteriore occasione per ribadire con la forza connotativa che gli conferisce la sua peculiare collocazione rituale il legame prezioso e profondo, fra Eucaristia ed eschaton; fra Cristo venuto, veniente e venturo; fra liturgia terrena e liturgia celeste; fra il già e il non ancora entro cui si gioca gran parte della liturgia non solo d’Avvento, ma della liturgia tout court e di tutta la vita cristiana, giusta l’insegnamento di SC 2 e 8.

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3. Maria, icona delle attese della Chiesa Il tempo d’Avvento, ancora, è anche la stagione liturgica più ricca di suggestivi riferimenti alla Madre di Gesù, vera e propria icona della Chiesa che attende prima e poi contempla il suo Signore. Nell’arco di poche settimane vengono così proposti all’attenzione dei fedeli la solennità dell’Immacolata Concezione (8 dicembre), il ricordo dell’annuncio dell’angelo (20 dicembre) e della

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visita a Elisabetta (21 dicembre) e l’esplosione di gioia del Magnificat (22 dicembre): ma tutto il tempo, si può dire, vive di accenni e allusioni alla Vergine Madre, fino all’esplosione dei giorni dell’attesa immediata (17 al 24 dicembre), allorché sia i formulari delle messe che gli inni e le antifone della liturgia oraria si riempiono di richiami che, nel loro insieme, disegnano la figura di una vergine Figlia di Sion che assume a poco a poco i tratti della madre del Redentore: «sotto questa luce, essa vien già profeticamente adombrata nella promessa, fatta ai progenitori caduti in peccato, circa la vittoria sul serpente (cfr. Gn 3, 15). Parimenti, questa è la Vergine che concepirà e partorirà un figlio, il cui nome sarà Emmanuele (cfr. Is 7,14 e Mi 5,2-3; Mt 1,22-23). Essa pri-meggia tra gli umili e i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da Lui la salvezza. E infine con lei, eccelsa Figlia di Sion, dopo la lunga attesa della promessa, si compiono i tempi e si instaura la nuova Economia, quando il Figlio di Dio assunse da Lei la natura umana, per liberare coi misteri della sua carne l’uomo dal peccato» (LG 55). Sembra chiaro, quindi, che anche l’animazione musicale dell’Avvento possa e debba lasciar spazio alla lode di Dio per la Vergine Madre: in maniera certamente misurata, tale per cui le tematiche sopra accennate non vengano mai meno – neppure, vorremmo dire, nel giorno dell’Immacolata e negli ultimi istanti d’attesa –; in maniera tuttavia sensibile, posto che mai come nell’Avvento il ricordo di Maria è veramente liturgico, potendo direttamente esplicitarsi nella memoria della sua cooperazione al mistero della redenzione. Il repertorio, in questo caso, non manca, ed è anzi costantemente arricchito di nuove proposte assembleari che chiedono soltanto di essere speri-mentate e provate; gli animatori valuteranno la collocazione rituale più opportuna per ogni brano, in funzione della forma e del contenuto di ciascuno: tenendo conto del fatto che, proprio nel periodo d’Avvento, qualche solido canto mariano può integrarsi nel tessuto celebrativo con maggior facilità e logica, e può così occupare anche posizioni meno solite dell’usuale, come dimostra la stessa tradizione gregoriana. 4. La “Novena di Natale”

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Nei giorni dal 17 al 24 dicembre il ricordo di Maria si coniuga inoltre con la tradizionale novena di Natale, cara a tutt’oggi a molte generazioni di cristiani e per la quale pure esistono diversi repertori collaudati, sia di lungo corso che di diffusione più recente e locale. Secondo il dettato di SC 13, essa va armonizzata il più possibile, quanto a tono e a tematiche, alla liturgia dei giorni che l’accolgono: bandendo risolutamente, ove fosse necessario, ogni abbandono devozionale o sentimentale, soprattutto dai testi cantati - i più pronti a scivolare su quelle chine se non adeguatamente vagliati e controllati; a evitare derive del genere, tuttavia, soccorre ancora una volta il paradigma “gregoriano”,


assolutamente limpido nella sua concentrazione laudativa e cristologica e che dunque, al di là del restyling che si riterrà appropriato, sarebbe bene fosse conservato quanto meno nelle sue linee fondamentali, specialmente allorquando lo svolgimento della novena è slegato dalla celebrazione della messa vespertina. Si potrebbe valorizzare maggiormente, ancora, la serie delle antifone «O», dense di significato e il cui testo l’uso liturgico attuale ha replicato, assegnandolo non solo alla Liturgia delle Ore, come consuetudinarie antifone al Magnificat, ma anche al sacrificio eucaristico, in qualità di strofe dell’acclamazione al vangelo (se la novena è unita alla messa, o la messa ai vespri, si rammenti perciò la duplicazione, vuoi per, eliminarla in radice vuoi per rafforzarla con coscienza di causa). Nel caso non augurabile la novena non potesse essere conservata, o dovesse essere ridotta ai minimi termini, si valuti almeno l’eventualità di utilizzare l’antico “canto delle profezie” come canto introitale e/o in qualche modo integrato nei riti d’ingresso - eseguito cioè dopo il saluto del presidente o dopo l’atto penitenziale, preceduto da una sintetica monizione ad hoc. 5. Il “mirabile scambio” del Natale di Cristo Dopo l’Avvento, quindi, il Natale. Ciò che era “prima” viene celebrato “dopo”, affinché la persistenza del “prima” nell’oggi dell’uomo orienti tempo e storia verso il “dopo” – tempo e il “dopo” – storia. La teologia del Natale è ancora fondata, si può dire, sulle intuizioni di Leone Magno, come lo è, del resto, l’eucologia di non poche celebrazioni, tesa ad affermare la realtà dell’incarnazione in un linguaggio essenziale eppur colmo di precisione dogmatica che la riforma liturgica del Vaticano II ha lasciato sostanzialmente inalterato, nonostante l’aggiunta di nuovi testi e l’introduzione o il rinnovo di ricorrenze significative – la messa vespertina nella vigilia della Natività, la divina maternità di Maria (tornata a caratterizzare, col grado di solennità, il primo gennaio, ottava del Natale), la festa della Sacra Famiglia e la festa del Battesimo del Signore –, in grazia delle quali il ciclo natalizio è divenuto con evidenza maggiore del passato il luogo della rivisitazione memoriale di tutto il mistero della rivelazione di Dio all’uomo. Il piano storico della nascita di Gesù e il piano “economico” del mistero salvifico realizzato con e in quell’evento storico si intrecciano e si sovrappongono così continuamente nelle liturgie del tempo, alimentati dalla contemplazione del “mirabile scambio tra umanità e divinità”, dalla contemplazione del «Dio che si è fatto uomo perché l’uomo diventasse Dio», secondo la celebre formulazione di Agostino. Uno scambio compiuto una volte per tutte nell’umanità di Cristo e nel contempo ancora in atto, nella nostra personale e reale adesione alla natura divina del Verbo che ci ha rigenerati come figli di Dio. Uno scambio, inoltre, che unisce senza soluzione di continuità il Natale alla Pasqua, dato che il Figlio assume un corpo per offrirsi in sacrificio al Padre e restaurare con ciò la fi-gliolanza divina che l’uomo aveva perduto. Uno scambio, infine, che diviene il principio della Chiesa, la radice principale della solidarietà fra gli uomini e la ragione ultima del rinnovamento universale: il natale del capo è il natale del corpo, come dice Leone Magno, e in esso tutto viene ricapitolato e reintegrato nel progetto iniziale del Padre.

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6. L’animazione musicale delle feste natalizie Una tale ricchezza di tematiche liturgiche – non c’è bisogno di dire – dovrebbe essere riflessa, in qualche misura, anche dall’animazione musicale, per la quale converrà dunque coniugare repertorio tradizionale e nuove proposte testuali e musicali a tutti i livelli della ministerialità celebrativa. Il primo rischio dell’animazione del Natale, infatti, è il ricorso acritico e abitudinario a un repertorio sedimentato per secolare inerzia più che per validità e congruenza liturgica. Proprio l’abbondanza del materiale a disposizione, invece, dovrebbe risvegliare negli animatori il senso del

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discernimento pastorale e funzionale, da esercitare (ripeto) sui testi non meno che sulle musiche. A un serio esame, molti di questi, associati all’una o all’altra melodia favorita o topicamente “natalizia”, potrebbero rivelarsi del tutto inadeguati sotto il profilo liturgico e andranno quindi espunti dalla centralità del rito per essere collocati – se proprio non si vuole rinunciarvi – in posizioni ritualmente neutre o comunque poco strategiche – la fine della messa, per esempio, o il preludio a essa –; oppure andranno modificati o sostituiti, sulla falsariga di molte pubblicazioni recenti che hanno saputo affrontare seriamente la questione proponendo testi nuovi o rinnovati per melodie antiche e ben co-nosciute. Quanto alle musiche, non tutte quelle che siamo soliti associare al Natale sono buone per la liturgia, non essendo in grado di assicurare, per la mole di connotazioni originarie e/o assunte, quel basilare «stacco dal quotidiano» menzionato anche nell’introduzione a RN (allo stato attuale delle cose, in altri termini e a titolo d’esempio, una melodia come Jingle Bells difficilmente potrà essere introdotta nella liturgia, anche ove le si accompagnasse il più alto e “sacro” testo: perché, se è vero che una melodia non è mai sacra o profana in sé, le vicende della sua storia e il contesto in cui siamo soliti inquadrarla possono certamente favorirne o impedirne ogni cristiana ritualizzazione). Per il resto, gli interventi di musica e canto non necessitano, in questi giorni, di regole di comportamento che li distinguano sensibilmente dall’animazione accorta di una “normale” liturgia domenicale. Ricordino tuttavia i responsabili della celebrazione – e non solo gli animatori del canto – che nella notte di Natale entreranno in chiesa molti non-frequentanti per i quali la messa di mezzanotte è un’occasione rara (o addirittura unica) di contatto con la liturgia cristiana; una celebra-zione che tenti di far partecipare anche costoro, per quanto essi vogliono o possono, è una celebrazione almeno potenzialmente aperta alla missione anche verso questi vicini-lontani: una che li veda soltanto passivi spettatori, al contrario, rivela una comunità che, forse, non si è posta neppure il problema. In barba a MS 11, secondo cui la «vera solennità» di un’ azione liturgica è funzione della partecipazione attiva e non del numero o della qualità estetica dei canti. Gli strumentisti – e in particolare gli organisti – facciano infine attenzione a non riempire ogni spazio liturgico affidato alla loro cura con musiche “pastorali” a base di cornetti, cromorni e sei ottavi: l’iper-connotazione che si verrebbe a creare finirebbe inevitabilmente per risultare stucchevole anche alle orecchie più disponibili, con conseguenze immaginabili sull’intera animazione rituale, non importa quanto diligentemente preparata. 7. I giorni della manifestazione

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Giova rammentare, ancora, che Epifania e Battesimo del Signore sono feste di manifestazione; in esse i canti più propriamente legati alla natività lasceranno perciò spazio a canti incentrati su tematiche di annuncio e di universalismo: «Alza gli occhi intorno e guarda: tutti costoro si sono radunati, vengono a te» (Is 60, 4). Egualmente connessa a tali tematiche, anche se temporalmente slegata dal ciclo natalizio, è in ultimo la festa della Presentazione del Signore al tempio (2 febbraio), di cui la riforma liturgica ha riaffermato con forza il carattere cristologico: in quel giorno «i fedeli vanno incontro al Signore portando lumi accesi e acclamando a Lui, unitamente a Simeone, che per primo riconobbe nel Cristo la “Luce che illumina le genti”»; la luminosa epifania del nuovo e vero tempio li sollecita così a «camminare in ogni circostanza della vita come figli della luce, per essere segno della luce di Cristo per tutti gli uomini ed essi stessi fiaccole ardenti di opere di santità» (CE 241). La processione con la quale si dà inizio alla celebrazione esprime dunque visibilmente l’idea della sequela del Cristoluce e, grazie alle candele accese, diviene insieme il simbolo concreto dell’impegno di ciascuno a farsi riflesso vivente di quella luce presso tutti gli uomini. La verità del rito esige dunque una vera processione, o quanto meno un “ingresso solenne” nel quale il presidente, i ministri e un gruppo scelto di fedeli possano davvero avanzare processionalmente (non quindi una “benedizione delle


candele” nel o dal presbiterio, che distrugge il segno vivo dell’incedere e concentra fatalmente l’attenzione dei partecipanti sulla candela, ridotta a “cosa sacra” da portare a casa, magari il meno consumata possibile dall’uso liturgico). L’animazione musicale, di conseguenza, asseconderà la simbologia liturgica adottando per la processione canti indirizzati a Cristo luce del mondo (e non alla Vergine Maria, la cui “purificazione” non è più né il titolo né il fulcro del mistero celebrato), e contribuendo per il resto a costruire un rito d’inizio unitario, principiante con un’antifona o un breve inno durante l’accensione delle candele e culminante nel canto gioioso del Gloria allorché il presidente e i ministri hanno raggiunto l’altare della chiesa (principale) e da esso la sede della liturgia della Parola. D. Sabaino, Animazione e regia musicale delle celebrazioni, CLV-Edizioni Liturgiche, Roma 2008, pp. 41-51.

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4. prospettive musicali a partire dalla terza edizione del messale romano dI Mons. Felice Rainoldi

La rinnovata Institutio che introduce la terza edizione del Messale – che sostanzialmente asseconda la linea programmatica delle precedenti redazioni dei Praenotanda – intende favorire un accostamento teologico/spirituale a questo che è tra i principali libri liturgici, per un suo uso pertinente – fruttuoso in prospettiva pastorale – da parte dei celebranti tutti, secondo il ministero loro affidato o l’esercizio del diritto-dovere partecipativo. Ancora una volta l’offerta del testo della Institutio costituisce un kairos autentico, per un rilancio sacramentale e cultuale. E induce anche a rivisitare la riflessione sul canto liturgico e perché ne sia attuata una prassi corretta, e spiritualmente e pastoralmente efficace: e, nel contempo, possano essere ricucite quelle smagliature verificatesi qua e là durante questi primi quarant’anni di recezione della riforma liturgica. Vi sono invero casi di fallita recezione: laddove non sono stati approfonditi i ‘principi’ e sono state ignorate o sottovalutate le ‘norme’. A modo di osservazione previa attiro l’attenzione su tre vistosi aspetti formali della nuova Editio typica del Messale. La loro semplice enunciazione, già di per sé stessa, possiede una straordinaria eloquenza, pur prescindendo dai singoli elementi contenutistici (alcuni dei quali verranno analizzati in seguito), per cogliere delle stimolazioni che ne derivano ed evidenziare le problematiche che comportano:

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a) Tra i 399 paragrafi della sola Institutio il sintagma ‘cantare’ (declinato come verbo e variamente sostantivato) nella traduzione italiana ricorre – salvo errori – la bellezza di 149 volte. b) Fatto ancora più eclatante: sulle 1318 pagine complessive dell’esemplare latino (in effetti però su 903 pagine se si escludono introduzioni e indici), ben 180 pagine – a prescindere dai possibili o necessari ‘rimandi’ – sono occupate totalmente o parzialmente da tetragrammi notati, che riportano toni recitativi, antifone, intonazioni, proclamazioni ed acclamazioni varie. Sommamente significativa e paradogmatica è l’inclusione della melodia (la più semplice, ovviamente) del Sanctus, con la rubrica che prescrive di eseguirlo clara voce e una cum populo. c) La quasi totalità di queste melodie e toni – destinati al presbitero che presiede (solo una piccola parte al diacono) è stata collocata a luogo proprio, entro il formulario delle solennità o delle feste o all’interno dell’Ordo Missae (salvo il corpus di ‘toni comuni’ giustamente raggruppato alla fine, in quanto ad esso sono riferibili tutti i testi non notati altrove, come i prefazi domenicali, i toni orationum o i toni lectionum che si volessero adottare secondo opportunità circostanziale). È significativa la riaffermazione di questo posizionamento, che è conforme ad una tradizione quasi millenaria, mentre il Messale di Paolo VI (dal 1971 in poi) accorpava alla fine del libro i Cantus in ordine Missae occurrentes, oppure supponeva il rimando a libri o a fascicoli complementari. Il che segnala inequivocabilmente come la celebrazione – in quanto


animata dal canto di chi la presiede che ha il suo culmine nella Prex eucaristica – costituisca il modello primario e, di conseguenza, come devono essere rettamente gerarchizzati tutti gli altri interventi vocali all’interno di una comunità che fa eucaristia. Questi aspetti, vistosamente riproposti, appaiono sorprendenti e persino esagerati a molte persone – anche tra il Clero – le quali, dopo il Concilio Vaticano II, hanno incontrato e vissuto, piuttosto, l’esperienza di uno stato di frattura – verificatasi per tante cause – in rapporto alla situazione del preconcilio. Alludo a quel modus celebrandi che era ‘normale’ nella ritualità praticata in tutte le parrocchie, quando il canto dei ministri era alquanto più presente, e quando l’educazione nei Seminari ad un minimo di competenza nel settore, veniva considerata una parte integrante della formazione ‘professionale’ del presbitero. In sostanza si parlava meno di ‘comunicazione’; ma tra presbiterio e navata essa veniva abitualmente stabilita, con una vivacità quale oggi ha riscontri meno frequenti. La caduta del supporto linguistico latino di tali interventi ha coinvolto, fino a metterla in discredito, la loro modalità attuativa. La enunciazione ritualizzata dei dialoghi, dei testi di preghiera, delle letture, dei prefazi è stata sommariamente marchiata (almeno a volte e da alcuni), quale tara ‘ritualistica’; poi rimossa come prassi anacronistica, incompatibile col regime della comunicazione mediante le lingue vive. In più simili ‘dogmatismi’ – dal momento che non è stato effettuato un collaudo serio che fosse basato su distinzioni opportune e sulla formazione attitudinale degli attori in gioco – sono riusciti ad imporsi e ad apparire come certezze illuminate, dimostrazioni e attuazioni di ‘aggiornamento culturale’. Questo consenso di dubbio valore, tra l’altro, favoriva un lassismo di impegno da parte di chi presiedeva i sacri riti. Mi rendo conto che la mia affermazione possa figurare come incautamente provocatoria, ma questa è appunto la mia intenzione. Un certo provocare è giustificato, se può indurre a qualche revisione per maturare una migliore coerenza. Ipotizziamo pure assodata la necessità di rimuovere anche nei riti più solenni – con la buona fede avvallata da ragioni ritenute culturalmente valide – il canto del celebrante e dei ministri e le conseguenti risposte a dialoghi ed acclamazioni assembleari. Ma quale, allora, il compenso? quale l’alternativa seria? Nella fattispecie ecco incombere, perlomeno, un impegno di approfondimento teorico dello statuto orale della comunicazione, accompagnato da un’opera formativa per una qualificazione della prassi attuativa del codice verbale, del dire, rivolta a tutti i partecipanti e ministri, estesa a tutti i livelli, secondo tutti i registri, a servizio di tutti i generi letterari. Ma coloro che hanno intrapreso un cammino del genere, con tentativi almeno empirici, sono statisticamente pochi. E tra di essi qualcuno – messo mano all’aratro – si è poi voltato indietro. Nessuna meraviglia che abbia potuto diffondersi, come virus occulto, una prassi vocale-orale sostanzialmente caotica e, soprattutto, l’assuefazione a tale largo degrado. Intendo dire che in luogo di una alternativa tesa a sanare l’accusato ‘ritualismo’, si è affermata una specie di gioco senza regole, senza verifiche, senza controlli; e in più, a volte, auto-giustificato mediante etichette chiamate ‘creatività’, ‘genuinità’, ‘attualizzazione’. Parole, queste, che ‘riempiono la bocca’ e seducono gli inesperti o i furbi; ma che alla resa dei conti risultano camuffamenti delle povertà prodotte dallo

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spontaneismo e dalla soggettività. La pretestuosa ipotizzata necessità di smantellare un ‘rituale arcaico’ riesce talora a decadere in comodo appiglio, per una invenzione pressapochistica. È così che hanno trovato terreno utile, secondo i gusti personali o secondo le prassi idiolettiche dei gruppi, delle vocalità pietistiche, o stentoree, o utopicamente aggiornate mediante una maldestra ortoepia, o abbandonate alla sorte di adempimenti poco più che burocratici... In contemporanea si sono affermati alcuni stili di neoritualismo – questo sì alquanto grave – ed in più una assuefazione a reazioni di tipo comportamentista da parte di coloro, che in una situazione o l’altra, sono implicati nell’ascolto o nelle risposte. Purtroppo queste cose, di norma, non si ha il coraggio di affermarle: o perché non ci si accorge, o perché vengono relegate (“i problemi seri – dicono i soloni – sono ben altri!”) nel catalogo dei ‘pallini’ propri di tipi maniacali appartenenti al mondo degli esperti liturgici... La realtà oggettiva diffusa è comunque poco sana. Dico paradossalmente che il ‘volto sonoro’ della maggior parte delle celebrazioni cristiane, oggigiorno, è di profilo a volte inferiore a quello che si riscontra – amabilmente però! – in un saggio di scuola materna... Chiedo scusa per questo ‘lamento’. Non è mai stato o almeno normalmente non è un genere prediletto sulla mia bocca, ma quando una cosa ci vuole, ci vuole. E perché non diventi nota dominante, ecco che cambio decisamente registro. Per un rinnovato ethos vocale e sonoro delle celebrazioni Varie sono le considerazioni che possono essere ripresentate a servizio di una pedagogia e di una prassi ‘positivamente’ orientate. Si potrebbero delineare ed illustrare almeno tre piste fondamentali e focalizzarne singolarmente i percorsi: a) quella normativo-rituale, o – se si vuole – anche ‘storica’. Consiste in un riesame e in una presa di coscienza, ai fini operativi, di dettati che derivano sia dalle leggi vigenti e della lezione di esperienze ecclesiali d’altri tempi, ma non così anacronistiche come ci si immaginerebbe. La Instructio è carica di suggestioni e di suggerimenti in proposito. b) Quella di natura più teorico-culturale, tesa ad esaminare la gamma amplissima delle forme di parlato in relazione alle situazioni vitali, alle emozioni, ai generi letterari del testo, alle finalità esplicite o occulte della comunicazione... In questa direzione, durante il precedente incontro degli Uffici di liturgia tenuto a San Marino, mi sforzai già di avanzare delle osservazioni opportune e di sollecitare una rinnovata attenzione ai problemi connessi. La relazione si intitolava: “Il suono della parola”. L’orientamento alla cura del codice vocale – sebbene affermato entro un contesto che si estendeva più ampiamente al canto – era tuttavia presentato come una base irrinunciabile, ed il dettato suonava positivo e propositivo. Tuttavia questa tematica restò totalmente inosservata e nella discussione seguita al contributo; ancora una volta, prevalsero le solite ‘geremiadi’: per fortuna non fatte da me e da me un poco ‘subite’.

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Non sarebbe inutile rivisitare alcuni stimoli di quella proposta, che partivano dalla declinazione delle forme della vocalità umana, rituale e liturgica, e affrontavano ogni centimetro di percorso – per così dire – nel dispiegamento a ventaglio delle espressioni sonore.


c) Una terza pista si colloca ancora più in posizione di base, per mettere a fuoco la necessità di una ‘competenza’ di natura spirituale-ministeriale, come fondamento e come condizione previa di ogni adempimento giuridico e di ogni acquisizione tecnica. Dal momento che si impone una scelta – attirerò l’attenzione, con tratti certamente non esaustivi, su questo terzo punto: è un nucleo fondativo, e quindi un primario centro d’interesse. – in seguito passerò alla illustrazione di altri problemi più direttamente incombenti alla proposta e alla realizzazione collegata alla prossima attesa edizione italiana del Messale. E tuttavia le mie osservazioni sul tema di fondo si muovono entro un ambito ben delimitato in quanto si soffermano, peculiarmente, sulle qualità ministeriali di canto spettanti a colui che presiede la celebrazione. Non mi occuperò invece, direttamente e con sufficiente dettato, del canto dell’Assemblea, se non in quanto essa è polo di un intercambio dialogale o viene animata a porre dei brevi interventi acclamatori. Questo limite mi è suggerito anche da una maggiore aderenza al tema, dal momento che il Messale è, anzitutto e soprattutto, ‘libro da altare’ e da ‘sede di presidenza’. Tu “resti muto senza la nostra voce”. Una prima affermazione generale alla quale vorrei attribuire la massima sottolineatura è la seguente: quando il prete eleva la voce, seppure avendo sotto gli occhi una pagina di tetragrammi o di pentagrammi, il suo rapporto immediato non è alle note, e nemmeno alla formulazione letteraria di un contenuto, ma è in rapporto ad un Tu e, simultaneamente, ad un Voi. Dio, nella celebrazione dei Misteri, è del tutto padrone di casa, ed ospita la sua famiglia. Ci si trova in stato di densa presenza relazionale con dei soggetti santi, e non con degli oggetti sacri. Il prete adempie un ruolo carismatico e ministeriale: e si vorrebbe da lui, consequenzialmente, la capacità di un irraggiamento spirituale rivelatore della condensazione del suo animo; poi, nel contempo l’esempio di un ingaggio somatico, atto a mettere in moto tutte le risorse segniche disponibili. Torna interessante, in merito, evocare quella antica espressione di Giustino, quando accenna all’atteggiamento eucaristico del prestos: atteggiamento dotato di tutto il vigore che gli è possibile. Per attualizzare minimamente questo ideale si pensi al presidente dell’eucaristia, che è culmen et fons, come primario testimone del mistero della Trinità, nella sua dispensazione salvifica, e – parallelamente – come paradigma (per i credenti o non), del senso della vita umana come laus gloriae Eius. Allora ogni voce che egli emette è come un lampo rivelativo che sfolgora dall’alto, è veicolo/dono attestante la divina presenza. Oppure è, in dimensione ascendente, offerta di un brandello d’anima che interpreta e traduce i sospiri dell’umanità ed i gemiti del creato. In altri termini, il celebrante presbitero partecipa, con il somatismo e la spiritualità della sua voce, ad una mediazione salvifica che abbatte o accorcia le distanze tra cielo e terra. Perfino ai cuori più duri ed ai soggetti più distratti egli può comunicare la scintilla che penetra i meandri dell’intimo, predispone all’accoglienza ed accende la risposta. Di questa dimora egli e il ‘mistagogo’, di questa risposta egli è ‘l’intonatore’. La ministerialità vocale dell’emittenza del celebrante, che presuppone ognora delle parole pronunciate come ‘doni’ ed ‘impegni’, come distriubutrici dello spirito, deve percorrere, con delicatissimo interscambio e con significativa alternanza, le piste di una plurima direzionalità, sorretta da peculiari tipi di intenzionalità. La trama da intessere è complessa, è variamente articolata. Non vi sono abituali pratiche parallele nella comunicazione umana. In questo senso la liturgia è un opus unicum che vive di uno specificum comunicazionale.

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Alcune esemplificazioni:

• Anzitutto, allo stadio di emittenza, la mediazione presidenziale costituisce il prete come ‘protagonista’ simbolico a più livelli: per semplificare dirò ‘al singolare’ ed ‘al plurale’. Egli invero interpreta ed impersona il Tu divino, per renderlo significante dell’’Io’ – dell’unico originario locatore – che in condiscendenza interpella il ‘suo popolo’. • Corrispondentemente egli rappresenta e coinvolge, nelle formulazioni laudative e deprecative, il dinamismo eucaristico-dossologico e l’epiclesi del ‘noi’ Assembleare, come capo del Corpo del Signore. Ecco il prete che saluta o che benedice i suoi fratelli in persona Christi o Dei Omnipotentis. Ed eccolo come avamposto orante di questa fraternità secondo lo spirito, con la serie dei plurali eucologici, che non sono plurali maiestatici... Altre volte, poi, non è che sé stesso in veste di pastore o di animatore, votato a sollecitare la plenitudine corale-gestuale di un servizio nel quale più palesemente si autoimplica. • Dall’altro lato, qualora si considerino il/i destinatari, la situazione non è meno complessa. I messaggi che partono dalla sede o dall’altare non sono mai rivolti ad un soggetto unico. Sono ognora compresenti un destinatario diretto ed un destinatario – per così dire – ‘obliquo’, eppure non meno interessato ed importante: in una successione di interventi che costituiscono un continuum ma con la possibilità di inversione dei poli. Così il prete normalmente si rivolge al Padre – ed eccezionalmente a Gesù Cristo – ma a nome ed in rappresentanza degli adstantes che partecipano a partire dal coinvolgimento ‘uditivo’. Questo vale, in modo eminente, per la preghiera eucaristica, circa la quale la Institutio generalis avverte (n. 78):

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“Il sacerdote invita il popolo a innalzare il cuore verso il Signore nella preghiera e nell’azione di grazie, e lo associa a sé nella solenne preghiera, che egli, a nome di tutta la comunità, rivolge al Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Il significato di questa Preghiera è che tutta l’assemblea si unisca insieme con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio. La Preghiera eucaristica esige che tutti l’ascoltino con riverenza e silenzio”.

Non per mania di sottigliezza, ma come stimolo esemplificativo ad una analisi dettagliata, si noti però come nel dialogo prefaziale il destinatario diretto è costituito dall’Assemblea. Essa, mediante esortazioni è come indotta e ‘veicolata’ a ri-situarsi davanti al Padre santo. Ed ecco che, con l’inizio del Vere dignum, l’interpellato diretto cambia: è Lui, visivamente assente eppure inneggiato come presente nell’hic et nunc, mentre l’Assemblea visivamente presente viene coinvolta ma con contatto ‘obliquo’. Nelle preghiere presidenziali si verifica lo stesso fenomeno, col passaggio dall’Oremus al corpo della preghiera formulata. Consapevole che questa non è questa la sede – e nemmeno mi sentirei dotato di competenza sufficiente – per una analisi dettagliata dell’Ordo Missae condotta in tale prospettiva, le semplici annotazioni che ho osato avanzare sono a suffragio e a buon supporto del comprendere la necessità di una totale ‘implicazione’, anche sotto questo aspetto, della persona del presiedente.


A questo punto si iscrive il ruolo del codice sonoro, come componente di rilievo insorrugabile, seppure non necessitante, per arricchire e potenziare la comunicazione verbale. E non è primariamente questione di ‘canto’, ma di una proferazione del tutto rispettosa della densità intrinseca di ciò che si pronuncia e della dignità di coloro a cui è indirizzato il messaggio. È ovvio che l’arricchimento dell’atto sonoro del proferire (mediante un preciso timbro, un ritmo, una altezza notale: elementi tutti in simbiosi con i significanti verbali e interagenti con molteplici codici non verbali...) esaltando i significanti, concorra a far percepire l’intensità e la profondità dei significati. La vocazione propria del codice sonoro in questo caso consiste precisamente nel favorire e nell’attuare un travalicamento del limite dei significanti. Il denotato concettuale è caricato con vibrazioni vitali che, a modo di armonici, irraggiano un surplus altrimenti ineffabile. Nessuna sfida, con questo impiego, viene intentata al raziocinio, alla denotazione; ma si produce un fecondo innesto nella dinamica della totalità personale, alla quale partecipa il calore del cuore: fucina di connotazioni e di rimandi simbolici. Il primato del Verbum resta così assoluto che è, addirittura, pericoloso parlare di ‘canto’, quando il termine venga inteso – senza opportune distinzioni – secondo l’accezione più comune, specialmente se di prescindere dalla interazione e dalla simbiosi di tutte le componenti in gioco e magari persino delle formefunzioni che lo reggono. E poi, ancora una volta, va notato che oggigiorno si tratta di un’arte che non ha corrispondenza nelle pratiche sociali vigenti, ma solo analogie con qualcuna. Si parla di ‘arte cantillatoria’: questo sembra il moderno sintagma meno inadatto per esprimere l’intenzionalità di un gesto che deve ritualizzare la parola, elevandola e staccandola dall’ordinaria proferazione, ma conservandole tutto lo spessore semantico per una percezione agevole e densa di meraviglia. Si capisce come già a livello di questa primaria stilizzazione sonora si pongano esigenze di una straordinaria misura e controllata finezza. Con il termine ‘misura’ indico un esito di impegno personale il quale, paradossalmente, si deve nutrire della dimenticanza di sé. Col termine ‘finezza’ connoto soprattutto quel pudico collocarsi del ministro dietro le parole, perché l’io soggettivo – pur necessario per donare loro corpo sonoro – non emerga, non si auto-affermi a modo di idolo e tanto meno venga interpretato come tale. In altri casi e in altri momenti celebrativi è previsto che all’Assemblea tocchi propriamente anche l’ascolto diretto di un ‘cantore’ o di un ‘coro’; in questo caso no. La comunità celebrante – per così dire – deve percepire primariamente se stessa, come vocata, convocata, presieduta per essere interpellata da un Io che non è solo io umano; e, d’alto lato, interpretata e rappresentata da un orante autentico, da un maestro della preghiera il cui uditore è il Padre. Questo plesso di considerazioni, una volta recepite ed interiorizzate come convinzioni, diventano la sola base sicura sulla quale edificare ogni ulteriore sforzo operativo, ad ogni livello: certamente quello dell’arduo approntamento di ‘modelli operativi’ pertinenti da parte di responsabili che codificano questa sezione dei libri liturgici; ma poi quello della loro concreta ed efficace messa in opera nei sacri riti da parte dei sacri ministri. Qui poi si iscrive anche la necessità di acquisire un bagaglio tecnico, da esercitare nella misura ottimale, sia secondo le capacità personali, sia secondo le oggettive esigenze dettate – in modo più o meno impellente – dal genere dei singoli interventi e dalla globale forma celebrativa che

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viene assunta dai santi misteri. Ed a proposito di questo aspetto non mi sembra inutile richiamare un altro passaggio di Musicam Sacram nel quale, seppur con delicato senso realistico, viene risegnalata l’idealità ed illustrato – insieme ad altri passaggi – lo stile della bellezza quale intesa dalla riforma liturgica: 8. Ogni volta che, per una celebrazione liturgica in canto, si può fare una scelta di persone, è bene dar la preferenza a coloro che sono più capaci nel canto; e ciò soprattutto quando si tratta di azioni liturgiche più solenni, di celebrazioni che comportano un canto più difficile o che vengono trasmesse per radio o per televisione. Se poi questa scelta non è possibile, e il sacerdote o il ministro non è capace di eseguire convenientemente le parti di canto, questi può recitare ad alta voce, declamando, l’una o l’altra delle parti più difficili a lui spettanti; ma ciò non deve favorire solo la comodità del sacerdote o del ministro.

Sarebbe tempo di superare davvero lo stadio di nebulosi e forse utopici pia desideria circa la formazione, in questo settore dei presbiteri (e dei diaconi): per ritornare – anche col supporto di un intervento disciplinare accompagnato da verifiche opportune – almeno allo stadio proposto dal Concilio di Trento. Si sentono infatti voci di auspicio ‘perché si insegni la musica nei Seminari’. Ma allo stato attuale delle cose questa mèta non è attuabile – realisticamente parlando – secondo la pienezza delle finalità e delle prescrizioni ottocentesche, che ebbero continuità fino al Concilio Vaticano II. Si intendeva ‘clericalizzare’ al massimo la gestione musicale dei riti sacri, sia per un più facile controllo, sia per più agevole lotta contro la musica profana ed operistica, sia per una più capillare diffusione degli stili e dei repertori ‘osservati’ ed ‘osservanti’ proposti dal Movimento Ceciliano. I Seminari – si sa – erano stracolmi: i seminaristi ed i chierici fruivano, normalmente, di un iter didattico e di una esperienza liturgico-musicale protratti per almeno dodici anni. Il Concilio di Trento non ebbe queste pretese e stabilì per i clerici un impegno che può essere interpretato secondo una misura minima, ma ben precisa. Prescrive la conoscenza obbligatoria del ‘cantus’. “Grammatices, cantus, computi ecclesiastici aliaque bonarum artium disciplina discant”. Il termine “cantus” rimandava primariamente al gregoriano e, in questo caso specifico, soprattutto alla conoscenza teorica e all’attitudine ben assimilata in ordine all’eseguire i toni recitativi inscritti nel Messale. Et de hoc satis. Le prospettive musicali nel lavoro per l’Edizione del Messale italiano

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Le considerazioni che seguono intendono elencare le principali problematiche ‘musicali’ emergenti nel momento che si è alle prese con il lavoro di adattamento e di traduzione italiana della nuova Editio typica. Esse riguardano in gran parte il canto del prete e dei ministri. Alla fine sarà dedicato un punto a qualche prospettiva aperta per quanto riguarda più direttamente il canto delle Assemblee. Attualmente è all’azione un gruppo di lavoro, il quinto, con specifico incarico di occuparsi delle ‘parti musicali, immagini e revisione stilistica’. Do relazione dello status attuale dei lavori, dopo alcuni incontri di chiarificazione e di programmazione. Nelle sedute preparatorie è stata studiata la mappa dei problemi ed è stato valutato il peso degli impegni. Delle linee sono già pacificamente condivise dai sette membri incaricati, vari orientamenti operativi sono già stati individuati, alcuni incarichi affidati. Inoltre è stata messa in cantiere l’elaborazione di una precisa importante proposta di cui dirò alla fine. Restano invece dei particolari (dei dubia) necessitanti un ulteriore impegno di approfondimento.


Si attende un momento più maturo per una equilibrata valutazione in ordine alle scelte definitive. Questa sede di incontro nazionale offre l’opportunità di raccogliere elementi per un giudizio a più vasto campo, in vista di un più affermato futuro consenso e di un più condiviso impegno attuativo degli esiti che deriveranno. Mi pronuncio ora per proposizioni sintetiche, quasi redigendo un indice dei principali nodi da risolvere, omettendo molte delle considerazioni concomitanti o marginali che nascono dagli argomenti. Dono una numerazione ai vari punti, al fine di facilitare un preciso e più rapido riferimento nelle domande o nelle osservazioni che questa intenderà rivolgere, in un colloquio auspicabilmente ricco anche di apporti propositivi. Quanto ai toni del celebrante e dei ministri 1. Conviene che il sostanziale contenuto e la stessa disposizione dei ‘toni musicali’ come sono proposti dall’Editio latina – dato il suo ruolo tipico – siano sostanzialmente presenti anche nella ri-edizione del messale italiano. Il che comporta certamente il rispetto, per quanto possibile, della precisa ‘collocazione rituale’ (ovvero aderente agli specifici formulari propri) delle parti cantate. Comporta altresì il rispetto della tipologia degli interventi. Non sembra invece imitabile e riproponibile il fattore ‘quantità’ degli elementi repertoriali della typica in relazione a quelle intonazioni che presuppongono un largo uso delle melodie latine e ‘gregoriane’ da parte delle assemblee. 2. Non si potrà, tuttavia, prescindere dall’inserire alcune parti in lingua latina con la relativa intnazione, secondo le istanze più volte avanzate dai documenti normativi e secondo l’esempio dato da sussidi già autorevolmente compilati. 3. Quanto all’Ordo Missae l’edizione latina adduce, con una progetto/programma davvero massimalistico, gli schemi melodici che permettono di intonare tutti i singoli passaggi previsti da proferire elata voce in ognuna delle parti della messa (ad eccezione dell’omelia, e inspiegabilmente delle due acclamazioni anamnetiche in alternativa al Mortem tuam amnuntiamus). Non è agevole condividere tale scelta di fondo. Essa dona l’impressione di essere tributaria di una visione eccessivamente sacrale del rito, al punto che, probabilmente, risulta difficilmente plausibile anche con l’uso totale della lingua latina. Vale l’attenuante del fatto che questo ‘insieme’ non si presenta a modo di dato precettivo: è ‘possibilità’ e non un modello cogente. La valutazione della ‘tipicità’ riguarda il libro come repertorio nel suo complesso, e non un eventuale modello celebrativo che esso offre la possibilità di porre in atto, con effetto ipoteticamente macchinoso (e noioso). Sembra pertanto opportuno che già a priori, nella edizione italiana, intervenga con calcolata ‘politica di anticipo’, una selezione basata su criteri di rispetto dei dinamismi comunicazionali entro i singoli segmenti rituali, di attenzione ai generi letterari ed auspicabilmente rispettosa della varietà delle forme vocali. Si può così concorrere a limitare anche il pericolo di eventuali massimalismi inconsulti. Le private decisioni ed i giudizi discrezionali lasciati ai singoli possono rischiare la indiscrezione... 4. D’altra parte si affaccia la necessità di proposte atte a realizzare degli ‘insiemi’ coerenti ed organici, che almeno impediscano alle sequenze rituali di vestire un abito di Arlecchino, e musicalmente, anche mediante coerenza stilistica, le differenzino da un potpourri tanto giocoso quanto insensato. Si potrebbe esemplificare questa istanza prendendo in considerazione delle infrazioni invalse in rapporto alle componenti e al il dinamismo di tensionedistensione delle singole successive sequenze rituali e al loro calibrato relazionarsi in crescendo/decrescendo, entro la totalità rituale. Non minore è l’effetto squallido di collage mediante interventi di canto stilisticamente eterogenei all’interno di un percorso che richiede coerenza e organi-

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cità. Non vi è esperto che non comprenda da sé questi problemi. Resta il fatto che mentre si auspicano soluzioni ideali o almeno plausibili ci si accorge come il dominio dei molteplici elementi di insieme resti di ardua soluzione e tenda a sfuggire ad un controllo panoramico. Come esempio toccherò due punti almeno:

La convinzione che un simile trattamento, di matrice archeologica, non sia trasponibile alla traduzione ed esecuzione del testo in lingua viva nasce spontaneamente. Ma si comprenda la difficoltà di reperire una alternativa equilibrata, ed una soluzione rispettosa delle dinamiche dei singoli formulari. Il messale in uso contiene la proposta del prefazio, del racconto istitutivo (comodo per le concelebrazioni) e della dossologia. Lo sbilanciamento che deriva da ciò è una certa svalutazione segnica dei gesti epicletici e del paragrafo di memoriale/offerta. Anche queste parti devono essere pronunciate da tutti i concelebranti! Resta aperta la domanda del come muoversi tra il ‘troppo’ della typica e il probabile ‘troppo poco’ del nostro messale già in uso. Un

5. Le scelte circa le proclamazioni dal Lezionario. Il messale latino – nella linea della tradizione – offre la possibilità di intonazione per ogni categoria di esse (profeta, apostolo, evangelo). I toni lectionum (pp. 1237-1240) – ciascuno con colore differenziato (risorsa simbolica) e con schemi varianti (risorsa di indice ferialefestivo) – anche in ordine alla duttilità di applicazione al testo latino dei loro elementi strutturali sono ‘qualitativamente’ ben fatti. Il messale italiano in uso – dimentico delle nobili realizzazioni in merito attuate dagli inizi della riforma – in questo ambito si è limitato a proporre un tono – tra l’altro mal riuscito – per il canto del Vangelo. Certamente lo stesso fatto di tale ‘improprietà’ per l’utilizzo concreto, ha contribuito a rendere desueta la cantillazione di almeno questa pericope principale, culmine dell’annuncio. Nessun progresso, dunque, ma solo un deficit rituale in più. La questione, in ordine alla proposta futura, è ancora problematica; tanto più perché su questo punto i pareri sono piuttosto discordi. Non sembrerebbe comunque soluzione buona quella di omettere i toni per le prime due letture. Allora il problema diventa quello tecnico della loro soda e duttile fattura e diverrà quello pedagogico-registico per un loro uso equilibrato e significativo. Una ritualizzazione della lettura biblica, affidata in certe situazioni a ministri specifici, arricchirebbe la prassi ora ridotta unilateralmente all’uso del codice vocale perlopiù da parte di lettori di fatto. Che una comunicazione liturgica in lingua italiana eseguita in forma ‘cantillatoria’ di testi narrativi, o profetici, o sapienziali sia cosa riprovevole per principio è cosa tutta da dimostrare. 6. Altro punto scottante: le preci eucaristiche. Il messale latino le presenta integralmente e uniformemente notate, da cima a fondo. Ne deriva un effetto di sacralizzazione esasperata, favorita pure dal modalismo musicale, ingenerante senso di monotonia e di appiattimento. Il guadagno che sembrerebbe provenire della creazione di un blocco rituale unitario è contrappesato da altri elementi sfavorevoli, anche oggettivi, quale la mortificazione dei gesti orazionali redatti, tra l’altro, con linguaggio letterariamente vario. Questa soluzione annulla quasi, occultandola, la specificità della stessa struttura diversificata che giustifica la coesistenza nel messale di più formulari, e le peculiarità interne ad essi. La loro ‘peculiarità’ rischia non apparire e la differenza in tal modo è appare un banalissimo prevalente fatto di durata cronometrica.

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blocco plausibile da privilegiare potrebbe essere selezionato – e melodicamente composto – a partire dalla suggestione derivante dal plesso orazionale contenuto del tonus solemnis nel Canone romano. La proposta ispiratrice di questa possibilità, nella edizione tipica, sta a pag. 638. 7. Altra questione: il numero degli schemi melodici per tutte o per alcune singole sequenze. Basta uno schema? O è bene che ne siano presenti almeno due, o forse tre, anche data la moltiplicazione odierna delle celebrazioni eucaristiche? E vale la pena di coniugare la lingua italiana con il tono pensato per il latino? E quali salvare, tra i recitativi del messale in uso, che hanno comunque bisogno di complementi? O comporre delle melodie daccapo? usufruendo di un tonalismo o del moralismo?... Queste domande sono estensibili ai moduli per le Orationes presidenziali, nonché a quelli per l’intervento del canto assembleare nelle acclamazioni anamnetiche e nel Pater noster... I canti per la Schola e l’Assemblea Mi pare opportuno prendere le mosse dal bel paragrafo di Liturgiam authenticam, n. 108. “I canti e gli inni liturgici costituiscono elementi di importanza ed efficacia particolari. Soprattutto la domenica, ‘giorno del Signore’, i canti del popolo dei fedeli radunati per la celebrazione della santa messa non sono meno importanti delle orazioni, delle letture, dell’omelia, per la comunicazione autentica del messaggio della liturgia, perché fomentano il senso della fede comune e della comunione nella carità. Affinché siano più diffusi tra i fedeli, bisogna che siano abbastanza stabili, onde evitare confusione tra il popolo. Entro cinque anni dalla pubblicazione di questa Istruzione le conferenze dei vescovi dovranno preparare la pubblicazione di un direttorio o repertorio di testi destinati al canto liturgico, con il necessario aiuto delle Commissioni nazionali o diocesane interessate, e quello di altri esperti. Questo repertorio dovrà essere trasmesso alla Congregazione per il Culto divino e la disciplina dei sacramenti, per la necessaria recognitio”. Un vecchio auspicio, già formulato vari anni orsono nel IV Convegno di questa serie (Ariccia, ottobre 1996), è ora divenuto istanza normativa. Ed è stato preso in seria considerazione dal gruppo di lavoro: si tratta della prima elaborazione di un ‘antifonario della messa’ in italiano, che proponga i ‘testi destinati al canto liturgico’. Finalmente, dopo tanto agitarsi a partire dalle ‘musiche’ e dai gusti musicali, si ritorna a valutare l’importanza primaria di un testo ufficiale, ritenuto atto a dire la fede e ad esprimere la lode della comunità, in sostituzione delle bizzarrie devote dei singoli. Già la selezione eseguita dal recente ‘Repertorio nazionale’ aveva riservato una buona ma non totale attenzione ai testi: per cui si impone la necessità di una ‘scrematura’. Si dovrà approfondire il problema di un tipo di ‘ufficializzazione’ tale da ottenere il buon effetto di una certa stabilità, ma che nello stesso tempo non cristallizzi l’impegno di una creatività. Essa dovrà continuare con prospettiva di arricchimento e sforzo di affinamento. Occorreranno poi un collaudo di esperienza e la saggezza del discernere.

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Intanto l’orientamento dei lavori del gruppo – in accodo con il ‘piano superiore’ – si è assestato su un progetto che prevede quanto segue: 8. Per le classiche antifone di Introito e di Comunione, quali figurano come sopravvivenza assai rattrappita dell’Antifonarium Missae, la soluzione italiana entro il corpo del messale sarà il rispetto della scelta operata dalla typica. Questi antichi canti sono stati riproposti a modo di ‘antiphonae legendae’. Se ne è conservato il contenuto fondamentale ma è destrutturata la loro forma musicale. La traduzione biblica adottata sarà, per quanto possibile, quella della nuova versione C.E.I. Questo orientamento agevola i lavori e facilità l’esito positivo della recognitio ufficiale. Ciò tuttavia non esclude la possibilità che questi testi possano essere ripresi e rielaborati, secondo necessità, da responsabili che sono in grado di dare loro una forma musicale funzionale, salvo il loro contenuto sostanziale. 9. Verrà altresì salvaguardato e completato il corpus delle antifone evangeliche di comunione, che non figura nella tipica ed è un apporto originale dell’adattamento già eseguito ed approvato con l’edizione italiana del 1983. 10. In ottica orientata più decisamente al canto ecco le soluzioni concordate: – Un adattamento di vari brani classici dell’Antifonario o del Messale stesso, per testi antifonici o responsoriali tali da comportare una efficacia sia mediante una loro buona proclamazione, sia mediante la loro musicazione. Alcuni strettamente propri per una solennità, ed altri utilizzabili in più circostanze nell’arco di un tempo liturgico. – La redazione nuova, o la selezione tra i materiali già prodotti, di un certo numero di composizioni formalmente di natura strofico-ritmica, per un canto di orientamento più innico o più conforme a gesti processionali. – Una riscrittura (oltre quella letterale del testo del messale) delle antifone evangeliche di Comunione perché i contenuti di questa ricchezza tipica del Messale italiano possano essere più agevolmente rivestiti di melodia.

Si ipotizza – per svariate ragioni – che questo ‘antifonario’ si configuri come un fascicolo ‘affiancante’ il volume del nuovo Messale in italiano, e tuttavia come parte integrante di esso – a motivo della auspicata approvazione episcopale e della recognitio. Non nuoce il fatto di una soluzione che presenta un fascicolo editorialmente separato. Ciò è proprio anche delle edizioni latine. A partire soprattutto da questi testi ‘nazionali’ e ufficiali i musicisti creeranno nel futuro prossimo delle melodie opportune, variamente adatte alle circostanze di tempo e di luogo. La loro qualità e la loro funzionalità, recepita e gradualmente socializzata, diventeranno dei fattori determinanti per la loro diffusione. In vista dell’attuare, in modo naturale e non precettivo, entro un certo tempo, quella ‘relativa stabilità’, preziosa in quanto esprime un fatto comunionale ed è veicolo efficace di valori affettivi e simbolici.

Conclusione

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Così pongo fine a questa esposizione il cui contenuto assai rapsodico è debitore della situazione in cui ci troviamo a lavorare. Un pensiero conclusivo dettato dalla mia personale visione e dal mio atteggiamento di spirito e dalle mie convinzioni, è il seguente, e lo comunico con semplicità a modo di testimonianza. La sostanza e lo spirito della riforma liturgica del Vaticano II sono un fatto ecclesiale irreversibile: credo che nessuna porta dell’inferno potrà prevalere.


Non mi fa meraviglia più di un tanto se un fatto ecclesialmente e culturalmente così rilevante come il cammino della riforma liturgica subisca, a tratti, delle scosse che sembrano dei dissesti. In realtà anch’essi possono contribuire a verificare la fedeltà e a determinare, gradualmente, ad un assetto più solido e pacifico. Certo si deve lottare per rimanere nelle zone di luce dei principi e delle loro irradiazioni; e si deve optare per il meglio nella disciplina e per l’optimum nel realizzare degli strumenti celebrativi. Tuttavia non è precisamente quello dei ‘mezzi per’ o del perfezionismo degli strumenti l’elemento più determinante e necessitante. Esso coincide invece con il dono di sé stessi, sorgivo per una spiritualità che sa trasfigurare tutto e tutti. In fondo la vera bellezza per Dio e la lode autentica davanti a Dio siamo noi stessi, con i nostri fratelli di fede, ringiovaniti da perenne conversione.

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5. il motu proprio di pio x (1903): una persistente attualità di Angelo Corno Proveniente da studi filosofici, consegue presso il Pontificio Istituto Ambrosiano di Musica Sacra di Milano il Magistero in Canto Gregoriano sotto la guida di Luigi Agustoni e Fulvio Rampi. Collabora a riviste specializzate di canto gregoriano (Note Gregoriane) e canto corale (La Cartellina e Choraliter). Viene chiamato regolarmente a tenere lezioni su liturgia e canto gregoriano. È responsabile della musica liturgica della Parrocchia Santi Cosma e Damiano di Concorezzo.

Continua dal numero Anno 0 - Numero 8-9-10

Sarà Pio X, eletto papa nell’agosto del 1903, a condurre a termine il movimento di restaurazione del canto gregoriano con il decisivo aiuto del Padre Angelo De Santi sia per la redazione del Motu Proprio che per la creazione della Commissione Vaticana incaricata della riforma dei libri liturgici di canto gregoriano. Nei mesi che precedettero la stesura del documento, Pio X fu molto esplicito nelle sue dichiarazioni a favore del canto gregoriano: “è necessario che le Chiese principali, che hanno dei buoni manoscritti, siano in grado di farne delle edizioni manuali, risuscitando dappertutto le antiche melodie” (23 settembre a Mons. Respighi); “il canto gregoriano tradizionale possiede in effetti la verità e l’arte, due qualità indispensabili al canto sacro: è dunque questo che bisogna restaurare” (18 ottobre all’editore Pustet).

Il Santo Padre era al di sopra delle questioni di editori e edizioni: egli voleva la restaurazione del canto tradizionale della Chiesa, indipendentemente da ogni edizione particolare. Le fonti del documento. Nel novembre del 1903 il Papa decise di rendere partecipe il Padre De Santi della preparazione di un documento pontificio che doveva dare l’avvio alla riforma della musica sacra. Il Padre De Santi propose che si utilizzasse a questo fine l’Istruzione sulla musica sacra contenuta nel Votum del 1893 e che divenisse un documento pontificio per la Chiesa intera. Il Papa approvò e incaricò il De Santi di riordinare il documento. Non c’era bisogno di ricercare il Votum: il De Santi l’aveva già nelle sue carte. Lo conosceva bene questo Votum presentato dal cardinale Sarto alla Congregazione dei Riti nel 1893 e che aveva ispirato la Lettera Pastorale del Patriarca di Venezia sulla musica sacra nel 1895. Fu egli stesso a redigerlo: si trattava soltanto di aggiungere le prescrizioni riguardanti il canto gregoriano. In quale modo sappiamo di questi rapporti del Motu Proprio con il Votum del 1893? A rivelarci tutto questo è ancora il Padre De Santi in una conferenza tenuta a Venezia nel 1910:

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“il Motu Proprio, nella sua parte sostanziale e dispositiva, altro non è che il Votum, o meglio l’ultima parte del Votum, che aveva per titolo Istruzioni per la musica sacra, che l’E.mo Sarto, a richiesta della Sacra Congregazione dei Riti, inviava a Roma, pochi mesi dopo la sua elevazione alla porpora e al Patriarcato di Venezia. La S. Congregazione intendeva allora provvedere al miglioramento delle condizioni della musica sacra in Italia con un nuovo Regolamento che si pubblicò di fatto nel 1894, dopo aver chiesto un parere a un buon numero di maestri italiani ed esteri e a tutti gli arcivescovi d’Italia. Il Votum del card. Sarto, senza dubbio il migliore, fu tenuto in grande considerazione, ma messo prudentemente da parte, perché si riteneva che non fossero maturi i tempi per accogliere una riforma così ampia e radicale”.


Il Voto, in concreto, fu composto sulla base di una “memoria” sulla riforma della musica sacra e sulla base di un “progetto” di nuovo regolamento preparato da Padre De Santi, in parte con l’aiuto dei suoi amici di Solesmes. Il tutto riunito in un solo documento: La Memoria: 1. Considerazioni generali sul ruolo della Chiesa in materia di musica religiosa. 2. Osservazioni particolari sulle riforme auspicabili. Il Regolamento: 3. Istruzione sulla musica sacra; documento di 15 pagine che De Santi trasmise al Cardinale Sarto nel luglio del 1893. Quest’ultima parte fu integrata nel Motu Proprio del 1903 e promulgata per tutta la Chiesa. È chiaro che, a distanza di dieci anni, a Padre Da Santi fu consentito qualche ritocco, vedremo “sostanziale”, conformemente alle intenzioni che papa Pio X andava manifestando sul canto gregoriano. È per questo che il Motu Proprio dichiara: il canto gregoriano che la Chiesa “ha gelosamente conservato dopo tanti secoli nei suoi manoscritti liturgici” e che “i lavori più recenti hanno così felicemente restituito nella loro integrità e purezza” (cioè i lavori di dom Pothier e dom Mocquereau) è sempre stato considerato “come il modello più perfetto della musica sacra”; bisogna dunque “che sia restituito largamente nelle funzioni del culto”. Il Papa inoltre diede forza di legge al documento, come è scritto nella Introduzione al Motu Proprio, quasi fosse una prima applicazione del programma pastorale del pontificato di Pio X “instaurare omnia in Christo”, e per conseguenza le affermazioni concernenti il canto gregoriano rivestono qui un’importanza singolare: il canto gregoriano diventa un efficace strumento del programma, quasi uno strumento di catechesi. L’utilizzo della S. Scrittura e in particolare del Libro dei Salmi, la preghiera per eccellenza della Chiesa, nella modalità gregoriana deve costituire un criterio permanente per la musica sacra. Riferirsi alla Parola rivelata significa riferirsi a Cristo, centro immutabile della storia della salvezza e punto di partenza di una nuova ed efficace liturgia: da questa fonte il canto liturgico prende corpo e sviluppa la sua vera essenza. Insomma è certo che l’estensore materiale del Motu Proprio fu Padre Angelo De Santi. Nonostante l’amore del papa verso la buona musica sacra e il canto gregoriano (nessun cardinale si era occupato come lui di questioni musicali e gregoriane), il pontefice non avrebbe potuto impegnarsi personalmente e in così breve tempo in una ricerca così vasta e minuziosa che avrebbe messo a dura prova qualsiasi musicologo. Il Motu Proprio è un capolavoro di informazione canonica, musicale, liturgica: il suo redattore doveva possedere una competenza di prim’ordine sulla legislazione musicale ecclesiastica, oltre ad avere a cuore la causa gregoriana: Padre Angelo De Santi. Possiamo dire che il Documento fu il frutto di un’armonica collaborazione di entrambi: il Papa va considerato con pieno diritto l’autore morale, anche se De Santi gli fornì i materiali adatti presi dai propri scritti, dai propri articoli, dalle proprie convinzioni.

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Struttura del Motu Proprio. Esso si presenta come un documento composito, che riepiloga tutta la legislazione precedente in materia, perciò ricevette il titolo di codice giuridico della musica sacra attribuitogli nel proemio e confermatogli più tardi dall’enciclica Musicae sacrae disciplina di Pio XII. Si tratta di un documento senza eguali in tutta la storia della musica sacra, nel quale non fu mai raggiunta una visione così limpida dei principi e una successione così lineare delle disposizioni pratiche. Per la prima volta fornisce le ragioni teologiche di fondo di una riforma della musica in chiesa, illustra i principi su cui deve basarsi il rapporto musica- liturgia (l’una è parte integrante dell’altra della quale condivide anche i fini); chiarisce come debba essere la vera musica liturgica, elencando tre qualità indispensabili: santità, bontà di forme, universalità; infine addita i modelli storici meglio riusciti: il canto gregoriano e la polifonia classica. Nell’Introduzione si esprime la necessità di mantenere e promuovere il decoro della casa di Dio, proteggendo la liturgia dal pericolo della “mondanità” che può turbare la pietà dei fedeli. Si auspica che i fedeli radunati attingano al vero spirito cristiano dalla sua prima e indispensabile fonte, che è

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la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa. Pio X giustifica l’efficacia della sua attuazione in materia di musica sacra, basandosi sull’importanza decisiva che ha per la vita cristiana tutto ciò che accade nel tempio, dove i fedeli vanno per partecipare ai sacri misteri, fonte prima e indispensabile del vero spirito cristiano. Questa frase è stata profetica: in essa hanno trovato appoggio gli orientamenti di teologia liturgica della prima metà del secolo scorso, a partire da dom Beauduin, Odo Casel, fino all’art. 14 della “Sacrosanctum Concilium”. Il primo definisce la Liturgia “culto della Chiesa”, in quanto è “sociale, gerarchica, universale, continuazione di Cristo, santificatrice e composta di uomini”. Inoltre “il soggetto unico e universale del culto della Chiesa è il Cristo resuscitato e glorioso, che sta alla destra del Padre…È lui che esercita il nostro culto, unico mediatore tra Dio e l’umanità, che compie, qui sulla terra, tutta la nostra liturgia. Per effetto della presenza attiva di Cristo, il culto della Chiesa si rivela come esercizio del sacerdozio di Cristo e diventa storia della salvezza in atto, poiché ci costituisce “sua comunità” e quindi noi partecipiamo alla salvezza in quanto membri del “suo corpo mistico”. O. Casel, sviluppando il concetto di “mysterium-sacramentum”, scopre che il culto cristiano, realizzatosi nella forma del mistero, non è tanto un’azione dell’uomo che cerca un contatto con Dio, quanto un momento dell’azione salvifica di Dio sull’uomo. In altre parole, nella Liturgia, e cioè nella forma rituale segno-realtà, l’avvenimento stesso della salvezza viene reso presente e attivo per gli uomini di ogni tempo e luogo. La Sacrosanctum Concilium, dopo aver ripreso queste posizioni teologiche sulla natura della sacra liturgia agli art. 5, 6, 7, definisce la Liturgia, all’art. 14, come “la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possano attingere il genuino spirito cristiano”, ripetendo le stesse parole di Pio X. Ciò depone a favore dell’attualità del documento circa l’aspetto teologico della Liturgia. Alla fine dell’Introduzione, come è stato detto, viene data forza di legge al documento come ad un codice giuridico della musica sacra, imponendo a tutti la più scrupolosa osservanza. L’Istruzione vera e propria contiene 29 paragrafi che affrontano questioni riguardanti principi generali, generi di musica sacra, testo liturgico, forma esterna delle sacre composizioni, cantori, organo e strumenti musicali, ampiezza della musica liturgica, mezzi precipui, conclusione. Di questi paragrafi saranno analizzati soltanto quelli che si occupano del canto liturgico. Un commento particolare sarà rivolto ai primi due capoversi del par. 3, vero fulcro di tutto il documento, il punto più importante, più originale, il più decisivo, e senz’altro il più realistico a condizione di essere inteso nel senso che gli attribuiva chi per primo lo ebbe ad enunciare. Ma già al par. 1 ci sono dei pronunciamenti di grande interesse:

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“La musica sacra, come parte integrante della solenne liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli… e siccome suo officio principale è di


rivestire con acconcia melodia il testo liturgico che viene proposto all’intelligenza dei fedeli, così il suo primo fine è di aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo…”. Per Pio X, come per tutta la Chiesa in duemila anni, il primato appartiene al testo liturgico, l’elemento musicale è visto come un mezzo per dare risalto alla Parola, per favorirne una più adeguata comprensione, si unisce alla Parola con un vincolo così stretto che non se ne può concepire uno maggiore. Ne segue che la musica così intesa non è solo ornamento o un elemento accessorio, ma parte integrante della liturgia. In altri termini, la Parola, che è la sostanza della liturgia, acquista la sua perfezione con il canto che la interpreta, la esalta, ne amplifica il senso, rende onore a Dio e opera il bene dei fedeli. Questo punto va sottolineato perché da una parte conferma il legame stretto con i documenti del passato, e dall’altra aiuta a comprendere l’evoluzione successiva di questo principio. Il par. 2 precisa le qualità della musica sacra: la santità, la bontà delle forme e l’universalità. La prima caratteristica (santità) deve essere vista primariamente nella prospettiva tradizionale della Chiesa che si è costantemente preoccupata di proteggere la liturgia da insidie ricorrenti di “profanità”. Anche il Concilio di Trento era intervenuto nel conflitto culturale allora in atto e aveva ristabilito la norma secondo la quale nella musica liturgica l’aderenza alla parola fosse prioritaria, limitando così in maniera sensibile l’uso degli strumenti e indicando anche una chiara differenza tra musica profana e musica sacra. In maniera analoga Pio X stabilisce una netta distinzione tra musica liturgica e musica religiosa in generale, analogamente a quel che accade per l’arte figurativa, che nella liturgia deve seguire criteri diversi da quelli dell’arte religiosa genericamente intesa. Il concetto di “santità”, in tale contesto, coinvolge da una parte le proprietà di uno stile (grave, interiore, pacato) e dall’altro l’adozione di un repertorio preferenziale, lontano da contaminazioni teatrali o profane. Oltre a mettere in rilievo questa proprietà intrinseca della musica per il culto, il documento si rivolge anche ai compositori: la musica è santa in quanto fa “santi” coloro che l’ascoltano, la eseguono, la compongono. Si esige inoltre che le forme siano appropriate, proporzionate, giuste: la musica non deve alterare, con una “propria” forma sonora, la struttura letteraria di un testo, così “formato” e “configurato” dalla tradizione per obbedire ad un’esigenza specifica della liturgia o ad un momento specifico della celebrazione. E qui il rimando al compilatore delle melodie gregoriane è immediato: noi sappiamo quanto il canto gregoriano sia il frutto non solo di una sapienza musicale ma anche biblica, teologica e liturgica profondamente radicata e vissuta dal nostro monaco medievale. Sappiamo che chi ha avuto il compito di trascrivere le melodie gregoriane sulla pergamena era preoccupato non tanto di riportare un dato musicale e nemmeno di creare un’opera d’arte in sé e per sé, ma di consegnare il “modo sonoro di proclamare quel preciso testo con quel preciso significato in quel preciso contesto liturgico”. Pensiamo alla

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straordinaria varietà delle “forme gregoriane”: un Inno, un Introito, un Gloria, un Alleluia, un Pater noster, la salmodia, la cantillazione, le sequenze: ciascuno di questi canti possiede caratteristiche testuali e formali ben definite e funzionali al contesto liturgico. Guardiamo invece all’attuale abuso di “pseudo-salmodie” per riempire ogni passaggio o di strutture “ritornellanti”adottate in modo acritico con il pretesto della popolarità (Gloria di Lourdes), oppure alla povertà letteraria dei testi attuali combinata a una forma musicale spesso inadeguata e quasi sempre banale. Anche il concetto di universalità nel pensiero di Pio X viene ricondotta al canto gregoriano, quando dichiara che ogni “riproduzione” fedele ai modelli gregoriano e polifonico avrebbe assicurato una qualità “cattolica” alla musica. A questo proposito il card. Sarto affermava nella sua “Lettera Pastorale” del 1895: “la Chiesa ha avuto costante riguardo all’universalità della musica da essa prescritta, in forza di un principio tradizionale, che come una è la legge del credere, così sia una la forma della preghiera, e per quanto è possibile la norma del canto”, “canto (e qui il cardinale si riferisce al canto gregoriano), che per la santità della sua origine e delle sue forme è il solo che la Chiesa propone come veramente suo, e quindi il solo che accoglie e prescrive nei suoi libri liturgici”. Questa osservazione della “Lettera Pastorale” sulla Musica sacra del 1895 è sviluppata nel par. 3, che costituisce il cardine su cui è imperniato tutto il Motu Proprio:

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“Queste qualità (santità, bontà di forme, universalità) si ritrovano in sommo grado nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto che essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici, che come suo direttamente propone ai fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza”.

“Per tali motivi il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”. “L’antico canto gregoriano tradizionale dovrà dunque restituirsi largamente nelle funzioni del culto, tenendosi da tutti per fermo, che una funzione ecclesiastica nulla perde della sua solennità, quando pure non venga accompagnata da altra musica che da questa soltanto. In particolare si procuri di restituire il canto gregoriano nell’uso del popolo, affinché i fedeli prendano di nuovo parte più attiva all’officiatura ecclesiastica, come anticamente solevasi”. Il riferimento alla “Docta sanctorum patrum” è evidente: il canto gregoriano viene definito il canto proprio della Chiesa Romana poiché affonda le proprie radici nella liturgia delle primitive comunità cristiane, si sviluppa e si forma all’epoca dei grandi Padri della chiesa, si consolida e si costituisce come repertorio universalmente riconosciuto nel periodo carolingio, quando cioè la struttura della Messa, con le letture, le orazioni, i canti, è sostanzialmente conclusa. È a questo periodo, sembra dire il Motu Proprio, che bisogna fare ricorso per apprendere di quale spirito debbano essere informate le parti cantate della celebrazione. È il canto gregoriano, quello dei nostri monaci sangallesi o metensi, che può fornire le indicazioni più attendibili per decidere la finalità liturgica a cui deve rispondere ogni nuova composizione.


A proposito dei testi liturgici cantati i paragrafi 7 - 8 - 9 del documento sottolineano l’esigenza di mantenerli intatti così come la tradizione ce li ha custoditi e tramandati: non sono ammesse alterazioni, omissioni o modifiche di sorta. È sintomo di una particolare sensibilità verso la sacralità del testo liturgico e della capacità di vedere un legame strettissimo tra Liturgia e Sacra Scrittura. Sappiamo che la Sacra Scrittura è una componente essenziale della Liturgia cristiana: l’avvenimento che si legge nella Scrittura, è quello stesso che si attua nella Liturgia: in essa la Parola scritta assume il ruolo di annunzio-proclamazione di un avvenimento di salvezza presente. È per questo che il gregoriano, che attinge a piene mani alla Sacra Scrittura, è qualcosa di più di un canto che accompagna la Liturgia, è qualcosa che ci è stato rivelato perché è Parola di Dio, è per definizione rivelazione, e quindi espressione sempre viva ed efficace della Chiesa. Se per un attimo riandiamo alla concezione che i monaci medievali avevano di preghiera liturgica e preghiera privata, scopriamo che la preghiera liturgica, quindi anche il canto, era costantemente alimentata dalla lectio, mentre la seconda (la preghiera privata) non faceva altro che continuarne la funzione e conservarne i frutti in maniera più duratura. Ciò che noi chiamiamo “vita liturgica” mirava essenzialmente alla meditazione personale, laddove la “lectio” privata era inquadrata in modo totale nella prima, di cui costituiva un prolungamento. Molto significativi a questo riguardo i testi medioevali che parlano di “cantare in silenzio”, “cantare segretamente”, “salmeggiare, leggere, pregare”, basati su una terminologia così singolare da far concludere che non esisteva separazione tra le due forme di preghiera. L’obiettivo fondamentale era aderire al testo e allo spirito della S. Scrittura, che serviva pienamente alla conoscenza e alla lode di Dio. La liturgia costituiva una preghiera biblica, la Bibbia una lettura orientata verso la liturgia, offrendo entrambe alla comunità monastica la possibilità di contemplare il mistero di Cristo. Sempre valorizzato era il Salterio, considerato come contenente la somma dei più alti misteri della fede cristiana. Gregorio Magno afferma che “è nella salmodia che il Signore rivela alla mente attenta il senso della profezia o le concede la grazia della compunzione; perciò è scritto nel salmo: “sacrificium laudis honorificabit me, et illic iter est quo ostendam illi salutare Dei” (Ps.49,23). È noto che “salutare” nella lingua latina corrisponde al nome di Gesù nella lingua ebraica. Nel sacrificio della lode perciò si ha la via (iter) per arrivare a Gesù salvatore. Ancora una piccola osservazione. Le lacrime della compunzione, per Gregorio, sono il risultato della partecipazione viva al sacrificio eucaristico: la Messa appare come il vero e autentico momento della pietà del monaco, a cui egli risponde mediante la contrizione del cuore e l’immolazione di se stesso, nell’imitazione di Colui che viene ricordato nei divini misteri. Siamo certamente molto lontani, nelle nostre celebrazioni, da questo spirito per il quale la Sacra Scrittura e la Liturgia garantiscono l’oggettività della nostra preghiera. Come pensiamo che questo testo: “Avevo tanta voglia di viaggiare/ Tu mi dicesti: vai, ed io partii/ “Son vivo”, dissi allora ad una donna/ a te, amico mio, pensaci tu/” (da “Canta e cammina” della diocesi di Bergamo, 1985) possa diventare materiale per la nostra catechesi o la nostra lectio divina? Quanto più proseguono gli studi attuali nel campo della liturgia, tanto più si verifica che nell’unità tra preghiera liturgica e preghiera privata vive lo spirito dei Padri, del monachesimo antico e medievale, e questo è garanzia di autenticità. Questa è la Tradizione: anche oggi, come allora, il binomio Bibbia-Liturgia deve alimentare sempre più la pietà cristiana, poiché non c’è dubbio che il nostro principale incontro con la Parola di Dio avviene nella quotidiana o domenicale celebrazione liturgica. Ed è qui che la Parola esercita tutta la sua efficacia sacramentale, quando viene proclamata solennemente o viene cantata, come sappiamo, per darle maggiore forza di penetrazione nei cuori. Naturalmente, questo è un ideale da raggiungere ma non sempre facile da attuare. Tuttavia, la vita cristiana fondata sulla Liturgia e sulla S. Scrittura è la giusta via per arrivarci, ed è anche un ritorno alla più pura tradizione della Chiesa: in questo senso il canto gregoriano è storicamente un punto di riferimento consolidato e sicuro!

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Significato e valore del Motu Proprio I meriti del Motu Proprio non si esauriscono nell’aver definito le caratteristiche della musica sacra: il suo vero pregio sta nell’aver concepito la restaurazione di tutta la musica sacra in funzione dell’archetipo gregoriano. La via indicata dal documento papale per conciliare la musica moderna con le esigenze del culto è proprio quella di riconoscere la supremazia di questo modello; perché della liturgia, quale fu ideata dalle origini, il canto gregoriano è la conseguenza storica e l’incarnazione vivente. Come viene intesa questa supremazia? A mio parere, in due modi: questo pronunciamento ha una valenza ideale nel senso che il canto gregoriano è inteso come il naturale fondamento di ogni musica liturgica e quindi la musica per il culto “è tanto più sacra e liturgica quanto più si accosta nell’andamento, nell’ispirazione, nel sapore al canto gregoriano”. Non si tratta di costringere la musica moderna, per altro ammessa durante la celebrazione, a procedimenti melodici e strutturali equivalenti al canto gregoriano; ma di invitare i compositori a scrivere musiche che siano “compatibili” con lo spirito della liturgia, sforzandosi di acquisire la stessa sensibilità liturgica che ha presieduto alla redazione del canto gregoriano. Ma poi sono evidenti delle disposizioni pratiche e molto concrete che prescrivono il ritorno puro e semplice al canto tradizionale. Dal paragrafo (3) si ricava che “l’antico canto gregoriano tradizionale dovrà dunque restituirsi largamente nelle funzioni di culto”. Dunque il canto gregoriano è per eccellenza il canto della Chiesa, anzi il solo canto che essa propone come veramente “suo” (testuale nel documento) e che prescrive nei suoi libri liturgici. Inoltre: –– ––

–– ––

viene condannata la musica teatrale di stile soprattutto italiano, poiché “presenta la massima opposizione al canto gregoriano” (par. 6); vengono distinti diversi tipi di composizione liturgica: “le singole parti della messa…devono conservare…quella forma che la tradizione ecclesiastica ha loro dato e che trovasi assai bene espressa nel canto gregoriano” (par. 10); viene esclusa la musica figurata in particolari momenti della celebrazione: nell’officiatura dei Vesperi “si prescrive il canto gregoriano per la salmodia” (par. 11); viene limitata l’ampiezza del Gloria e del Credo: “il Gloria e il Credo, secondo la tradizione gregoriana, devono essere brevi” (par. 22).

Si può dire che il canto gregoriano è il filo conduttore che si dipana lungo le singole sequenze del documento. Esso appare insomma la chiave di volta che incentra in sé tutta la raggiera delle prescrizioni che da quel pensiero centrale s i dipartono. È necessario anche dire che tale affermazione di Pio X fu “superata” dall’art. 112 della “Sacrosanctum Concilium”, che afferma: “la Musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica”.

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Questo pronunciamento del Concilio Vaticano II sembra temperare l’affermazione perentoria di Pio X. Ma se noi pensiamo al canto gregoriano come “al modo sonoro di proclamare quel preciso testo con quel preciso significato in quel preciso contesto liturgico”, riesce difficile immaginare il canto gregoriano disgiunto dall’azione liturgica, data la sua insuperabile aderenza al senso profondo della Parola proclamata nella liturgia, Parola che la Chiesa è chiamata a custodire e trasmettere fedelmente.


Effetti immediati del documento papale. Nel 1904, un secondo Motu Proprio dichiarò che “le melodie della Chiesa dette gregoriane si dovranno restaurare nella loro purezza e integrità secondo la tradizione dei manoscritti più antichi, ma tenendo anche un conto particolare della legittima tradizione contenuta nel corso dei secoli nei manoscritti, così come dell’uso pratico della liturgia attuale”. Si procedette quindi alla nomina di una Commissione Pontificia con a capo Dom Pothier con lo scopo di giungere alla pubblicazione “tipica” delle melodie gregoriane. Edizione “tipica” significa ufficiale, definitiva, edizione che fa testo, edizione modello, a cui tutte le altre edizioni devono fare riferimento, perché ha il marchio della suprema autorità ecclesiastica. In un certo senso è opera della Chiesa: nulla deve essere aggiunto, tolto, cambiato. Questo voto fu dichiarato esplicitamente dallo stesso pontefice. La Commissione, insediata nell’aprile dello stesso anno 1904, non poté arrivare a soluzioni veramente critiche dal punto di vista della restaurazione melodica per l’incompatibilità di due tendenze: quella di Pothier, che si ispirava al concetto di “tradizione vivente”, considerando come tradizione legittima anche la lezione melodica presente nei manoscritti meno antichi, segnati da varianti e adattamenti. quella di Mocquereau, il quale era un convinto assertore della assoluta necessità del riferimento prioritario ai più antichi esemplari notati per garantire l’obiettività e permettere una corretta restaurazione sotto ogni aspetto melodico, modale, ritmico. La preoccupazione della “praticabilità pastorale” del canto gregoriano indusse la Santa Sede a privilegiare ed avallare la tesi di Pothier (le melodie “evolute” erano ancora vive e più facili da eseguire), alla cui diretta responsabilità venne affidata la redazione dei libri liturgici. I lavori della Commissione portarono alla pubblicazione: nel 1908 del Graduale Romanum che contiene i canti del Proprio della Messa. Nella disposizione dei canti viene seguito il calendario liturgico tradizionale: dapprima il Proprio del Tempo (Temporale): Avvento, Natale, Quaresima, Pasqua, Domeniche dopo Pentecoste; poi il Proprio dei Santi (Santorale), il Comune dei santi e, infine il Kyriale (canti dell’Ordinario). nel 1912 dell’Antiphonale Romanum che contiene tutti i canti dell’Ufficio dalle Lodi alla Compieta. In queste edizioni ufficiali stampate ed edite dalla Tipographia Polyglotta Vaticana le melodie vengono riportate su tetragramma in notazione quadrata senza l’ausilio di segni aggiuntivi, peraltro già apparsi in edizioni private, tranne le cosiddette stanghette che hanno la funzione di interpunzione della frase letteraria, poiché servono a punteggiare le frasi verbo-melodiche o anche semplicemente melodiche (melismatiche), indicando la gerarchia in cui le frasi stesse si trovano fra loro e rispetto all’intero brano. In realtà la traduzione grafica delle indicazioni ritmiche intrinseche alla notazione antica non trovò piena realizzazione poiché sfuggiva il quadro generale del fenomeno ritmico con tutta la gamma di sfumate e molteplici differenziazioni. Mi riferisco in particolare ai raggruppamenti neumatici variamente configurati, il cui fenomeno più leggibile era certamente quello dello stacco iniziale, agli episemi e alle lettere aggiuntive, ai segni liquescenti, agli elementi neumatici di forma cosiddetta “speciale”. La Vaticana si limitò a codificare gli spazi-distanza tra le note attraverso un sistema “proporzionale” e a privilegiare alcuni aspetti piuttosto “quantitativi” del ritmo, mediante l’adozione delle stanghette di quattro tipi. Da quegli anni in poi nelle chiese d’Europa tornarono a risuonare le melodie recuperate al loro antico splendore: questi due libri liturgici (il Graduale e l’Antifonale) sono ancora oggi la base a cui riferirsi per cantare il gregoriano nelle nostre liturgie. Fu un traguardo straordinario che coronò lo sforzo immane

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di tanti monaci benedettini che dedicarono la vita intera alla causa gregoriana, nella piena consapevolezza di svolgere un compito prezioso per la comunità ecclesiale. Essi compresero l’urgenza di ripristinare la melodia originale del canto gregoriano, spinti dalla convinzione che solo in tal modo poteva essere recuperata anche l’autentica manifestazione del significato testuale. In sintesi possiamo dire che: Guéranger volle recuperare il testo, Pothier volle recuperare la melodia, Mocquereau il ritmo. Questi tre elementi sono legati in modo così stretto che ciascuno di essi non può vivere di luce propria: un testo recuperato cantato con melodia impropria rischia di essere incompreso nel suo pieno significato, così come una melodia gregoriana declamata con ritmo improprio rischia di diventare una melodia senza senso. Dunque l’Edizione Vaticana è la conclusione di tutto questo lavoro di ricerca e di studio iniziato nel 1833 sotto l’impulso del grande abate benedettino dom Guéranger. Nonostante i disaccordi irriducibili di due opposte fazioni tale edizione raggiunse un risultato certamente migliore della pure apprezzabile edizione di Pothier (Liber Gradualis). Non solo, ma l’impegno assunto da Solesmes per la redazione della Vaticana produsse una immensa mole di documentazione, di studi, ricerche, riviste specializzate, tableaux comparativi dei migliori manoscritti d’Europa che hanno rappresentato il vanto dell’atelier di Solesmes e che suscitarono in tutto il mondo un interesse enorme e sempre crescente per il canto gregoriano.

Attualità del Motu Proprio

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Dall’inizio del secolo XX ad oggi la Chiesa ha emanato sette importantissimi documenti sulla Musica sacra e sono in ordine cronologico: Il Motu Proprio di Pio X 1903 La Divini cultus sanctitatem di Pio XI 1928 (Costituzione Apostolica) L’Enciclica Mediator Dei di Pio XII 1947 L’Enciclica Musicae Sacrae Disciplina di Pio XII 1955 L’Istruzione De Musica sacra et sacra Liturgia 1958 (SCR) La Costituzione Sacrosanctum Concilium 1963? L’Istruzione Musicam sacram 1967 (SCR) È un numero considerevole, ma ogni documento possiede un valore specifico in base al fine che intende raggiungere. Pensiamo alla differenza che esiste, per esempio, tra il Motu Proprio e l’Istruzione del 1958 o quella del 1967. In modo sintetico potremmo dire che il documento di Pio X riguarda solo la musica sacra, in quanto espressione di culto, mentre le Istruzioni più recenti riguardano soprattutto il culto, che trova una sua espressione privilegiata nella musica. Il cambio di prospettiva non è di poco conto poiché testimonia la lenta maturazione che si è raggiunta


attraverso il movimento liturgico. Tuttavia gli sviluppi innovativi e profondissimi dei pronunciamenti conciliari sulla Liturgia trovano ispirazione in due principi che Pio X, con spirito profetico e vitalità provvidenziale, inserì nel Motu Proprio e che hanno valore assoluto e attualissimo: 1) il principio della partecipazione attiva, e 2) la definizione di musica sacra. 1)

La partecipazione attiva.

Per la prima volta un documento pontificio inculca la partecipazione popolare alla liturgia e al canto (par. 3), un aspetto trascurato dai commentatori: si raccomanda di “restituire il canto gregoriano all’uso del popolo, affinché i fedeli prendano parte più attiva…alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa”. E nell’Introduzione si afferma: “…i fedeli si radunano per attingere tale spirito dalla sua prima e indispensabile fonte, che è la partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa”. In realtà ha origine dal Motu Proprio la pastorale che porterà l’assemblea dei fedeli ad essere maggiormente “partecipe” al mistero liturgico. Dopo una dozzina d’anni questo seme era ancora vivo se il cardinale Gasparri, segretario di Stato di Benedetto XV, potè scrivere all’abate di Monserrat, il 15 marzo 1915: “Diffondere tra i fedeli la conoscenza esatta della liturgia, istillare nei cuori il gusto sacro per le formule, riti e canti, con cui, uniti alla Chiesa, prestano culto a Dio, attrarli ad una partecipazione attiva dei misteri sacri e delle feste ecclesiastiche..”. Fu il primo accenno esplicito al canto dei fedeli, nell’ambito della partecipazione attiva, dopo il dettato di Pio X. Nella Costituzione apostolica di Pio XI (1928) è espressamente indicato nel canto del popolo, in unione al clero e alla schola, il mezzo più efficace per fare partecipare attivamente tutti i fedeli al divino culto: “Il popolo cristiano…comincia a prendere parte più attiva al rito eucaristico, alla preghiera pubblica e alla salmodia sacra”. E ancora: “Affinché i fedeli prendano una parte più attiva al divin culto, il Canto gregoriano, in ciò che spetta al popolo, sia restituito nell’uso del popolo”. Nella Enciclica MSD di Pio XII (1955) la teologia della partecipazione troverà sviluppo e piena affermazione sia con le prospettive di un autentico apostolato compiuto dagli attori del rito, sia nel forte richiamo all’arte e agli artisti a non svincolarsi dal fine ultimo delle azioni umane: la gloria di Dio. Nella Istruzione MS et SL del 1958 il principio della partecipazione attiva è portato a maturazione non solo perché ispira e informa tutto il documento, ma per la particolareggiata analisi dei gradi di partecipazione con cui si può realizzare, sia rispetto ai ministri che vi concorrono con diversa responsabilità, che secondo i mezzi proposti per facilitarla. Ecco i tre punti fondamentali: a) questa partecipazione deve essere in primo luogo interna, attuata cioè con devota attenzione della mente e con affetti del cuore, attraverso i quali i fedeli “strettissimamente si uniscano al Sommo Sacerdote… e con Lui e per Lui offrano il sacrificio e con Lui si donino”. b) La partecipazione però dei presenti diventa più piena, se all’attenzione interna si aggiunge una partecipazione esterna, manifestata cioè con atti esterni, come la posizione del corpo, i gesti rituali, le risposte, le preghiere, il canto… c) Finalmente la partecipazione attiva diviene perfetta, quando vi si aggiunge anche la partecipazione sacramentale, per la quale i fedeli presenti partecipano non solo con affetto spirituale ma anche con la Comunione sacramentale…

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La Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II ha dedicato un intero capitolo sulla musica sacra, il capitolo VI, perfezionando i principi enunciati nei documenti pontifici che lo hanno preceduto. Al par. 113 si conferma che l’azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente in canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo. Al par. 14 si dice: “È ardente desiderio della Madre Chiesa che tutti i fedeli vengano formati a quella piena, consapevole ed attiva partecipazione alle celebrazioni liturgiche, che è richiesta dalla natura stessa della Liturgia ed alla quale il popolo cristiano, “stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo di acquisto” ha diritto e dovere in forza del Battesimo. A tale piena e attiva partecipazione di tutto il popolo va dedicata una specialissima cura nel quadro della riforma e dell’incremento della Liturgia: essa infatti è la prima e indispensabile fonte dalla quale i fedeli possano attingere il genuino spirito cristiano…”. (citazione dal Motu Proprio).

Al par. 29: “Anche i ministranti, i lettori, i commentatori e i membri della schola cantorum svolgono un vero ministero liturgico”. Al par. 30: “Per promuovere la partecipazione attiva, si curino le acclamazioni dei fedeli, le risposte, la salmodia, le antifone, i canti…”.

In questi e altri articoli troviamo puntualizzato il pensiero teologico della Chiesa, che giunge a conclusioni definitive in merito alla partecipazione attiva ai sacri misteri, che sono così riassumibili: a) i fedeli, per partecipare attivamente, devono essere convenientemente istruiti ed educati e devono sentirsi responsabili, nei limiti delle loro attribuzioni ministeriali e comunitarie; b) tutti i cristiani partecipano in qualche modo, in virtù del carattere battesimale, al regale sacerdozio di Cristo negli atti comunitari collettivi (…) senza distinzione di privilegio o limitazione in base alla stirpe, al sesso, al censo, alla persona; c)il popolo cristiano ha il fondamentale diritto di comprendere il segno, il rito, la parola liturgica; il clero perciò deve istruirlo e dargli un’adeguata formazione, mentre la S. Sede, per parte sua, ha giudicato opportuno concedere, in ampia misura, l’uso della lingua volgare; d)il popolo di Dio è costituito da tutti i popoli della terra, riuniti in una sola famiglia; è quindi giusto che, negli atti di culto, siano usate anche le più nobili forme di espressione scenica, letteraria e musicale delle varie civiltà, sotto il controllo dell’Autorità Ecclesiastica locale. L’Istruzione Musicam sacram del 1967 ribadisce: “L’azione liturgica riveste una forma più nobile quando è celebrata in canto, con i ministri di ogni grado che svolgono il proprio ufficio e con la partecipazione del popolo. In questa forma di celebrazione, infatti, la preghiera acquista un’espressione più gioiosa, il mistero della sacra Liturgia e la sua natura gerarchica e comunitaria vengono manifestati più chiaramente, l’unità dei cuori è resa più profonda dall’unità delle voci…e tutta la celebrazione prefigura più chiaramente la liturgia che si svolge nella Gerusalemme celeste” (IMS, art. 5).

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All’art. 15 si conferma che la partecipazione deve essere prima di tutto interiore, ma anche esterna attraverso le acclamazioni, le risposte, il canto, e l’ascolto di ciò che i ministri o la schola cantano. Infine all’art. 16:


“Non c’è niente di più solenne e festoso nelle sacre celebrazioni di un’assemblea che, tutta, esprime con il canto la sua pietà e la sua fede”. È interessante ciò che si dice in questi ultimi articoli: quando il popolo non canta deve “saper ascoltare” religiosamente, ossia deve “innalzare la mente a Dio” attraverso la partecipazione interiore: è sottinteso quindi che i musicisti e la Schola devono sapere far pregare! Come si pone il canto gregoriano nei confronti di questo principio assolutamente imprescindibile della partecipazione attiva? È opportuno ricordare che per raggiungere il fine della gloria di Dio e la santificazione dei fedeli, Pio X si riprometteva dalla musica sacra un particolare effetto ministeriale: rendere più intensa l’efficacia del testo liturgico, sì che questo esercitasse una influenza più durevole sull’uditore. Il documento aveva colto nel segno: era impossibile pensare al canto gregoriano sganciato dalla sua ineliminabile associazione al testo liturgico, anzi se c’era un rivestimento sonoro che esaltava il testo liturgico, quello si chiamava canto gregoriano. Da qui derivava una logica conseguenza, l’assunzione del canto gregoriano a modello insuperato di canto liturgico e quindi il mantenimento del latino nella celebrazione liturgica: il testo liturgico era in latino ed il testo liturgico doveva essere rispettato. Come conseguenza del principio della partecipazione attiva, dichiarato da Pio X in poi, il Concilio Vaticano II confermò ampiamente le aspettative circa l’introduzione della lingua volgare. Tale conferma, nonostante fosse accompagnata da pronunciamenti netti sul mantenimento del latino e del canto gregoriano, definito ancora una volta canto proprio della liturgia romana, aprì la strada verso l’uso quasi esclusivo della lingua volgare. Per quanto si riferisce al canto, la prima vittima fu il canto gregoriano, condannato senza appello in nome di quella “participatio actuosa”, della quale si è data spesso una interpretazione univoca e falsata. Quel canto gregoriano, restaurato nella sua antica purezza melodica e nella sua più genuina espressività, dichiarato modello supremo del canto liturgico, a distanza di 60 anni, fu rifiutato ed estromesso da quella liturgia per la quale era stato concepito. Questa spregiudicata decisione travolse qualcosa di molto importante: quel testo liturgico del quale la musica doveva esaltare il senso e fare l’esegesi. Ma, come conciliare tutto ciò con la partecipazione attiva? È stato detto che l’azione di grazia di Cristo può aver luogo se sono presenti la partecipazione esterna (il fatto di esserci, di essere presente all’atto liturgico con gesti, atteggiamenti, canti) e la disposizione interna, cioè la capacità di associare la propria esistenza a quella del Cristo. Entrambi gli elementi costituiscono la partecipazione attiva, che diventa perfetta quando è concomitante la partecipazione sacramentale. Quindi la “actuosa participatio” (è questo il termine usato nei documenti pontifici) è qualcosa di molto diverso dalla “activa participatio”, sia dal punto di vista linguistico che dal punto di vista sostanziale. Gli aggettivi latini in-osus rimandano ad una pienezza interiore di significato: la partecipazione esterna (partecipazione attiva) deve risultare per così dire da se stessa come conseguenza della partecipazione interna, rimanendo un presupposto per l’efficacia della grazia. Il fine da raggiungere non è la partecipazione dell’assemblea sempre e comunque al canto, ma la comunione sacramentale con Cristo: questa è la vera “participatio actuosa”. È davvero così indecoroso che il coro canti un Kyrie eleison, stimolando la risposta dell’assemblea, oppure si esprima in uno jubilus, interpretando la pienezza di gioia di tutto il popolo di Dio nel rivolgere l’ineffabile lode all’unico Padre? Oppure, alla prima domenica di Avvento, esegua “Universi qui te expectant, non confundentur”? Tutto ciò compromette la partecipazione attiva dell’assemblea oppure qualifica e definisce il senso della celebrazione a lode e gloria di Dio e per la santificazione dei fedeli?

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2)

Definizione di Musica Sacra.

Il Motu Proprio di Pio X è stato così esatto nel definire la natura della musica sacra che il relativo dettato non ha subito in seguito variazioni sostanziali. Prendiamo, per esempio, l’IMS del 1967 all’art. 4: “Musica Sacra – enuncia il documento – è quella che, composta per la celebrazione del culto divino, è dotata di santità e bontà di forme”.

Il Motu Proprio definì per primo che: “ La musica sacra, parte integrante della solenne liturgia… deve possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà di forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità”.

L’Enciclica MSD ripropose alla lettera le citate espressioni di Pio X ma ne fece seguire un ampio commento, che andava in una direzione più consapevole circa il concetto di “sacro” in ambito musicale: “Questo canto infatti (si parla di canto gregoriano) non solo si adatta strettamente, grazie all’intima armonia delle sue melodie alle parole del testo, ma trasmette per così dire anche il suo forte influsso…”.

“Sacer”, dunque, comincia ad apparire come una qualità che viene partecipata alla musica in forza con la sua intima connessione con il testo sacro e che la musica, a sua volta, irraggia in qualche modo all’esterno. La Costituzione liturgica del Vaticano II ripete le precedenti definizioni, riassumendo e completando così il contenuto:

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“..il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria e integrante della Liturgia solenne… Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia esprimendo più dolcemente la preghiera e favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggiore solennità i sacri riti”.

Si noti la forza della dizione “canto sacro unito alle parole” per affermare il primato del Logos sul melos, di origine antica: è soprattutto attraverso questo legame con il Verbum che la musica stessa può diventare parte integrante della celebrazione. Inoltre sia la Costituzione conciliare, con il noto pronunciamento sul canto gregoriano, che la Istruzione sulla Musica Sacra del 1967 ribadiscono quali sono i generi “esemplari” della Musica sacra: canto gregoriano, polifonia sacra antica e moderna, musica sacra per organo e altri strumenti ammessi, canto popolare sacro. Così la tradizione è saldamente riaffermata, le buone innovazioni sono accolte e legalizzate, e il divenire della Musica Sacra è sostenuto dalla ricchezza del passato, ma anche affidato al genio creativo e religioso dell’uomo di oggi e di domani. I recenti documenti pontifici fanno dunque appello alla Tradizione ma sono anche orientamento al futuro e al nuovo. Essi si fanno interpreti delle aspirazioni dell’uomo d’oggi, e facendosi guida, offrono l’avvio a soluzioni future. Così era stato per i documenti passati (Docta sanctorum Patrum e Motu Proprio), il confronto con i quali non svela contraddizione ma sviluppo. Così vuole l’armonioso evolversi della Chiesa che non è mai rivoluzione e distruzione, ma costruzione e incremento. Il principio della partecipazione cosciente richiede certo la comprensione: l’autorizzazione all’espressione della preghiera liturgica nella lingua volgare non poteva essere procrastinata, così come la semplificazione dei riti e il ritorno alla semplicità delle origini si imponevano ormai come soddisfazione di una giusta esigenza di questo nostro tempo. È chiaro tuttavia che, accanto a nuovi testi liturgici che, a mio parere, devono


germogliare dalle forme già esistenti in modo logico e organico, il documento mantiene fede a “depositi” che alla Chiesa provengono dalle età precedenti e la cui attualità considera ancora viva ed efficace. Così è per la Chiesa latina l’uso della lingua latina, previsto dalla Istruzione all’art. 47 nelle celebrazioni liturgiche nei seminari e nelle Messe solenni, dove “i fedeli sappiano cantare anche in lingua latina le parti dell’Ordinario che loro spettano”. L’Istruzione accetta e convalida tutto quanto “corrisponde allo spirito dell’azione liturgica e alla natura delle singole sue parti” (IMS, 9). Viene accettato, della musica sacra passata e recente, tutto ciò che entra in consonanza con tali principi. Perciò, accanto alle nuove musiche si conservino – non certo nei cassetti degli archivi – quelle che nel corso dei secoli hanno man mano accresciuto il tesoro musicale di inestimabile valore e anzi siano coltivate le esecuzioni da parte soprattutto delle Cappelle che ornano le basiliche, le cattedrali, i monasteri e le altre chiese maggiori (IMS, 20). Tradizione e novità non si oppongono: si completano vicendevolmente e contribuiscono in accordo allo splendore della Liturgia. È necessario un orientamento comune da parte di tutti i ministri interessati: un’unità visibile in campo liturgico e una particolare cura nella preparazione delle celebrazioni rappresentano un fortissimo e significativo segno di comunione. È auspicabile anche una maggiore prudenza: soluzioni più equilibrate e meditate hanno dimostrato la possibilità di un recupero delle forme musicali tradizionali, senza che ciò disattenda il principio della partecipazione intelligente, attiva e fruttuosa dei fedeli. Anzi, come ha affermato recentemente Fulvio Rampi, “nulla più del canto gregoriano promuove un’autentica “partecipazione attiva” al culto divino. Certo una partecipazione non banalizzata e ridotta alla caricatura di un attivismo liturgico, ma segno di un radicale “essere in sintonia”.

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1.

LA VOCE E IL CANTO

Tanti modi di cantare

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Vi sono tanti diversi modi di cantare, così come vi sono tanti diversi modi di danzare. Nello stesso paese, a seconda delle epoche, o del genere musicale, il modo di cantare varia profondamente. Tanto per fare un esempio: lo stile vocale di un cantante d’opera è totalmente diverso da quello di un cantante di jazz, che a sua volta è diverso da quello di un cantante di rock, di folk ecc. In certe regioni d’Europa prevale il canto solistico, fiorito di vocalizzi, in altre quello corale, più semplice e austero. Caratteristiche sono anche le diverse tecniche di impostare la voce: nasale, spiegata, vibrata ecc., allo scopo di ottenere determinati effetti. Un esempio ben noto è lo jodel o jodler del Sud Tirolo (un caratteristico modo di cantare in cui la voce compie degli improvvisi salti d’intervallo – di sesta, settima, ottava – passando dalla intonazione normale al falsetto) e di certe regioni della Spagna. Se poi lasciamo il nostro continente e volgiamo l’attenzione alle culture extraeuropee, come l’araba, l’indiana, la cinese, la giapponese e così via, troveremo modi di cantare incredibilmente lontani dalla nostra sensibilità, tanto che è necessario “farvi l’orecchio” per poter apprezzare la qualità. Anche il linguaggio esercita una notevole influenza sullo stile del canto. La musica di ogni popolo ha infatti delle caratteristiche ritmiche e melodiche che dipendono in buona parte dagli stretti rapporti che esistono tra il canto e la parola. La lingua italiana, ricca di vocali chiare, rende possibile una forma di e legato estremamente dolce e melodioso che, soprattutto nell’opera lirica esercitato per alcuni secoli un predominio incontrastato. Anche per queste qualità musicali, grandi compositori stranieri di un tempo scrivevano le opere in lingua italiana anziché in quella del loro paese. Abbastanza vicino al canto italiano è quello francese, anche se il suono delle vocali, soprattutto la e muta e la frequenza delle nasali, rendono questa lingua meno adatta a sfruttare tutte le possibilità melodiche della voce. Lo stesso può dirsi, benché per ragioni diverse, per altre lingue “latine” come lo spagnolo e il portoghese. Di altra natura è il canto tedesco, caratterizzato dall’abbondanza di consonanti, di suoni gutturali e cupi che danno alla frase un andamento vigorose e incisivo. E una lingua che pare poco melodiosa ma che è invece capace di profonde e prolungate suggestioni sentimentali. Qualcosa di simile si può dire per la lingua inglese, con i suoi suoni poco definiti e certe consonanti gutturali, che ci stanno tuttavia diventando familiari. Il canto inglese presenta comunque notevoli caratteri di originalità e raggiunge, in particolare negli spirituals negri e nei songs irlandesi, espressioni di altissimo valore poetico e musicale. Un cenno particolare merita il canto russo, la


cui lingua, come quella italiana si presta alla chiara emissione della voce. Inoltre il popolo russo è straordinariamente dotato di qualità musicali e vocali e dai tempi più antichi ha sempre coltivato il canto, soprattutto corale. Tipiche di questa terra sono certe voci di basso, capaci di raggiungere suoni eccezionalmente gravi. Classificazione delle voci Come gli strumenti musicali, anche le voci umane vengono classificate secondo l’estensione. Salendo dal grave verso l’acuto abbiamo la seguente gamma di voci:

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Mediamente, nel linguaggio parlato, l’estensione della voce è compresa nell’ambito di un’ottava, vale a dire entro frequenze comprese fra 100 e 240. Nel canto tale estensione aumenta sino a circa due ottave. Complessivamente le frequenze della voce umana vanno da 162, nota più grave della voce di basso, a 2070, nota più acuta della voce di soprano. Una prima grande suddivisione viene fatta tra voci maschili e voci femminili. Le voci maschili sono: Basso: copre l’estensione più grave della voce umana. Baritono: copre l’estensione intermedia maschile. Tenore: copre l’estensione acuta maschile. Le principali voci femminili sono: Contralto: copre l’estensione più grave della voce femminile. Mezzosoprano: copre l’estensione intermedia femminile. Soprano: copre l’estensione più acuta della voce umana.

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Il canto solista: la melodia La melodia trova nel canto solista la sua espressione più naturale. Prima ancora d’essere in grado di costruire strumenti capaci di “intonare” un numero adeguato di suoni diversi, l’uomo cantava e con la sua sola voce componeva melodie. Pare quasi incredibile l’enorme quantità di forme musicali diverse chili canto a una sola voce ha saputo originare nel corso della storia umana. Come una danzatrice solitaria, la voce solista ritma liberamente i suoi passi, i suoi salti da una nota all’altra, ora accelerando ora ritardando, e dà vita così a una varietà di movenze e di figure. Il canto è quindi come una “danza” della voce, così come la danza può essere paragonata a una “melodia” di movimenti del corpo. Ninnenanne, filastrocche, stornelli, canzoni ballabili e quasi tutta la musica primitiva e popolare devono la loro origine al canto solista. Anche se eseguita da una voce sola, la melodia contiene infatti tutti gli elementi della musica: il ritmo, la frase, l’espressione, il senso dell’armonia. Lo stesso vale per la musica colta: canzoni trovadoriche, romanze, arie, lieder, recitativo drammatico, tutte forme che avremo modo di conoscere in seguito sono composte per voce solista con e senza accompagnamento di strumenti. Qualunque sia il genere musicale, il canto solistico è sempre portato, in misura maggiore o minore, al virtuosismo. Questo consiste non solo nella bellezza e nell’estensione della voce, ma anche nella sua agilità nell’esecuzione dei più difficili vocalizzi. Il virtuosismo vocale ebbe il suo periodo d’oro soprattutto nel Settecento, quando, con l’affermarsi dell’opera lirica o melodramma, sorsero in Italia, le famose scuole di “bel canto”. L’esibizionismo dei cantanti finì però per togliere al canto solistico tutta la sua bellezza e sincerità, riducendolo sovente a un noioso sfoggio di acrobazie vocali. Fortunatamente questa moda fu superata e già dall’inizio del secolo scorso compositori e pubblico, pur continuando ad apprezzare le reali qualità del bel canto, tornarono a chiedere a esso l’originaria naturalezza e semplicità espressiva. Il canto collettivo: l’armonia

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Tante voci che cantano insieme danno un senso di grandezza e di solennità. Se il canto solista è la manifestazione di un sentimento individuale, quello collettivo esprime invece la commozione di tanti esseri umani legati fra loro da un sentimento comune, da un unico ideale. Come la danza, il canto unisce. Da questa unione nasce l’armonia, non solo musicale, ma anche affettiva, spirituale. Abbiamo cominciato a intuire l’armonia nella stessa natura che ci circonda: tante cose, tanti esseri diversi che pute, tutti insieme, contribuiscono alla bellezza del creato. Coloro che cantano insieme non possono che essere amici. Nel canto collettivo le voci devono formare un insieme armonico, che può essere infinitamente vario, ma pur sempre ordinato. Come dei danzatori in gruppo compiono gli stessi passi, gli stessi movimenti, molte voci possono cantare contempemente la stessa melodia. Si dice in questo caso che esse cantano all’unisono ed è questo il modo più semplice per cantare insieme. Conosciamo però anche danze di gruppo nelle quali i ballerini eseguono passi e movimenti differenti, che però si svolgono in un ordine perfetto. In un canto collettivo anche le voci possono eseguire contemporaneamente note diverse, melodie diverse. Questo intreccio di parti prende il nome di contrappunto e il loro insieme è l’armonia. Possiamo dire quindi che, mentre la melodia è la figlia del canto individuale, l’armonia è la figlia del canto collettivo. Lo sviluppo di tutta la musica occidentale, i suoi grandi capolavori - che hanno finito per conquistare civiltà e culture diverse anche più antiche della nostra - sono stati possibili grazie alla scoperta delle regole che governano l’armonia, scoperta favorita dall’esperienza del canto corale. Successivamente, quelle stesse regole sono state applicate anche alla musica per orchestra, un complesso che, grande o piccolo che sia, altro non è che un “coro” di voci strumentali. Elemento primario di tutti i generi musicali, sacri e profani, il coro ha una parte di spicco nell’opera lirica (celebri sono i cori delle opere di Giuseppe Verdi), nell’oratorio, nelle cantate e in alcune sinfonie


(la Nona di Beethoven, tanto per citare un esempio illustre). Grande suggestione suscita il coro nelle canzoni e nella musica popolare in genere. Famosi sono i cori di montagna, i già citati spirituals dei negri d’America, i cori dei Cosacchi. Il coro La parola “coro” proviene dal greco khoréia, termine che originariamente stava a significare sia la danza sia il gruppo dei danzatori. In un secondo tempo il medesimo vocabolo acquistò un significato più vasto e designò sia il gruppo dei danzatori-cantori, sia il canto e le evoluzioni che essi compivano (coreografie), sia infine il luogo dove si svolgevano le danze. Nella tragedia greca il coro aveva la funzione di commento epico o morale agli eventi, collegando un episodio all’altro. Ai tempi nostri, “coro” sta a significare tanto il gruppo dei cantori quanto il brano che essi eseguono. È sopravvissuta, ma quasi esclusivamente nel genere “leggero” (rivista, operetta, film musicale), l’antica funzione coreografica: i ballerini, almeno in apparenza, danzano e cantano insieme in genere i ballerini fingono di cantare, poiché la musica è affidata alla cosiddetta tecnica del play-back). Sin dall’antichità, la musica corale fu intesa come espressione dei sentimenti di solidarietà, degli ideali di fede e di amor patrio di un popolo. Per questo le si attribuì una funzione religioso-politica. Egizi, Assiri, Ebrei, Greci, Romani celebravano le grandi solennità nazionali e religiose oltre che con giochi e danze anche con canti collettivi. L’attitudine al canto corale è tanto più radicata in quei popoli nei quali più profondi sono la fede religiosa, l’amore per la propria terra, l’attaccamento alle tradizioni. Nulla più del coro dà il senso dell’unità. È noto il significato patriottico attribuito ai cori delle opere verdiane e l’entusiasmo popolare da essi sollevato negli anni del Risorgimento. Nelle canzoni collettive, soprattutto quelle più semplici e sincere, la ragazza di filanda, l’emigrante, l’oppresso, il soldato di paese ritrovano con il proprio simile la gioia e la consolazione alla soffereza e alla nostalgia. Il coro può essere monodico, quando tutte le voci eseguono la stessa melodia come nel caso del canto gregoriano, oppure polifonico quando le varie voci eseguono contemporaneamente parti diverse (madrigale, mottetto ecc.). A seconda delle voci che lo compongono, abbiamo:

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coro a voci uguali o pari:

coro di bambini (voci bianche), coro femminile, coro maschile; •

coro misto o a voci dispari,

generalmente formato da quattro voci: voci femminili (soprani, contralti), voci maschili (tenori, bassi).

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aschili (tenori, bassi). Esistono composizioni a sei, sette, otto voci e persino per due cori. È chiaro però che, aumentando il numero delle parti vocali, più difficile diviene distinguerle nell’insieme. La formazione più usata è quella a quattro voci.

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Il coro puro – senza cioè accompagnamento di strumenti – prende il nome di coro a cappella. Quando invece è accompagnato dall’orchestra o da uno strumento come organo, pianoforte ecc. si chiama coro concertante. Il coro è una compagine molto versatile e suscettibile di creare tanti effetti musicali ed espressivi. Abbiamo così il coro a bocca chiusa, sommesso e profondamente suggestivo, il coro vocalizzante, in cui le voci cantano delle semplici vocali, senza pronunciare parole, il coro parlato, in cui le voci non cantano ma declamano ritmicamente il testo, e infine il coro battente o spezzato, nel quale il complesso dei cantori viene diviso in vari gruppi distanziati in modo da ottenere un effetto “stereofonico” tra le parti che si rispondono da vari punti dello spazio. (Romano Becatti - Emma Bisson)


2.

I 4 PARAMETRI FONDAMENTALI DEL SUONO

Le caratteristiche fisiche dei suoni Ogni suono è caratterizzato essenzialmente da 4 elementi: ALTEZZA : il parametro sonoro o la qualità che ci fa distinguere un suono acuto (alto) da un suono grave (basso); nel linguaggio verbale, essa risponde essenzialmente alla “intonazione utilizzata” per esprimere un determinato significato nella comunicazione. La voce si muove infatti verso l’alto o verso il basso producendo “linee melodiche” che sottendono sfumature capaci di attribuire ad uno stesso messaggio un significato completamente diverso: Esclamazione - Interrogazione - Rassegnazione - Timore - Incredulità… In acustica e scientificamente l’altezza è legata al NUMERO DELLE VIBRAZIONI meglio alla frequenza TP1 PT espressa di Hz (Hertz). INTENSITÀ: il parametro sonoro che ci permette di misurare il volume sonoro e la forza del suono. Esso ci fa distinguere un suono forte (intenso) da un suono piano (meno intenso). L’intensità è espressa con alcuni segni grafici appartenenti alla dinamica detta colore del suono: p- pp (piano pianissimo) f- ff (fortissimo) cresc.- dim. (crescendo, diminuendo)… In acustica e scientificamente l’altezza è legata all’AMPIEZZA DELLE VIBRAZIONI meglio dalla grandezza dell’onda; onda più grande = suono forte; onda più piccola = suono piano e dipende anche dalla DISTANZA della fonte sonora. Il volume del suono si misura in decibel (dB), l’orecchio umano può percepire una soglia e limite di circa 10 dB; oltre i 130 dB è posta invece la soglia di dolore ; sempre più spesso oggi si parla di inquinamento acustico e tra i giovani e per gli eccessivi volumi della musica nelle discoteche si presentano disturbi all’udito.

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TIMBRO: è il parametro sonoro che ci permette di individuare e riconoscere la fonte sonora cioè l’oggetto, strumento, persona, animale, da cui proviene il suono proviene ed è prodotto. Grazie al timbro noi riconosciamo il suono di una voce maschile distinguendola da quella femminile o da quella di un bambino; percepiamo il suono di uno strumento differente da quello di un altro. Esso dipende: • •

dalle “caratteristiche della fonte” (materiale, forma, dimensione) dal modo di produrre il suono (percussione, sfregamento, strofinamento, scuotimento…)

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I 4 parametri fondamentali del suono In acustica e scientificamente il timbro è legato al concetto di armonica. I suoni (eccetto quelli elettronici e quello del diapason LA 440 Hz )che ci circondano sono formati da più onde sonore concomitanti e vengono originati a partire da una frequenza con una intensità prevalente cui si sovrappongono suoni di frequenza doppia, tripla, ecc…cioè più acuti e di intensità molto inferiore impercettibili ad “orecchio nudo”; ognuna di queste frequenze costituisce un armonica. DURATA: è il parametro sonoro che ci indica e permette di misurare l’estensione(durata) nel tempo di un evento sonoro: essa ci consente di riconoscere un suono lungo o un suono breve.

La durata legata al Ritmo e al Tempo esprime essenzialmente il cuore ritmico della musica tecnicamente definito pulsazione. “Andare a tempo” infatti non significa altro che muoversi, cantare, suonare …mantenendo la regolarità scandita dalla pulsazione. Il metronomo è lo strumento che esprime la agogica musicale cioè l’andamento veloce o lento della musica; possiede un meccanismo di orologeria che scandisce pulsazioni regolari espresse in aggettivi corrispondenti a numeri crescenti dal basso verso l’alto in corrispondenza di alcune tacche. Largo 40 pulsazioni al minuto; Laghetto 60-66; Allegro 120-168 Presto 168-200; Prestissimo 200-208

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TP PT Frequenza: il numero dei periodi che la frequenza compie in un secondo; e’ misurata in Hz cioè in Hertz Periodo: detto anche vibrazione è il movimento di andata e ritorno che il corpo vibrante compie. 1


3.

IMPARIAMO A SUONARE UN CANTO CON LA CHITARRA

di Marcello Manco (musicista e compositore) In questa sezione di volta in volta verrà proposto un canto del libretto “Dio della mia lode” per aiutare tutti coloro che suonano la chitarra. Le frecce sono l’aiuto più immediato ed efficace. La freccia in basso (battere) rappresenta la pennata in basso, la freccia in alto rappresenta la pennata in alto (levare). Nel canto di specie, c’è anche una tablatura. I numeri sulla tablatura rappresentano i tasti della tastiera della chitarra mentre i numeri all’inizio della tablatura rappresentano invece le note.

417 LODERANNO I POPOLI

(Niccolò Luciano Valerio Salvemini-Annabella Luciana Leone)

© 2012 Servizi Rinnovamento nello Spirito Santo S.c.p.l.–Italia CD RCD26 “Grazie”

Intr. Mi

Re/mi

La/mi

Mi

Mi Re/mi La/mi Mi Loderanno i popoli la tua santità, Mi Si-7 Re Mi grideranno gli uomini la tua fedeltà. Mi Si-7 La Mi Guariranno i deboli dalle infermità, Mi Si-7 Re Si Gioiranno gli ultimi per la tua bont

x2 Si-7/mi

Re

Mi

(lode a te) (lode a te) (per la tua bontà)

Mi La2/do# DAVANTI A TE (DAVANTI A TE) Si2/re# Mi4 Mi Mi La Si4 Mi SI PROSTRERANNO POPOLI E GENTI PER L’ETERNITÀ, Mi La2/do# Si2/re# Mi4 Mi TU REGNERAI (TU REGNERAI) SUL MONDO IN F ESTA, Mi La Si4 Mi La2 Si2 GRANDE SIGNORE SU TUTTI GLI DEI. Mi7 La Si4 Mi GRANDE SIGNORE TU REGNERAI.

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Mi4 Mi

Strum. Re/mi La/mi Mi Si-7/mi Re Mi 4 4 8 4 4 4 Ogni nostra lacrima certo asciugherai, dal buio delle tenebre ci libererai. (lode a te) Cieli e terre nuove tu ci mostrerai, (lode a te) di un’aurora eterna c’illuminerai. (c’illuminerai) Splenderanno i giusti nella verità, conteranno gli angeli la tua regalità. (lode a te) Gusteranno i martiri la tua eredità, (lode a te)

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Sulle note dello spirito

Ogni nostra lacrima certo asciugherai, AREA TECNICA dal buio delle tenebre ci libererai. (lode a te) Cieli e terre nuove tu ci mostrerai, (lode a te) di un’aurora eterna c’illuminerai. (c’illuminerai) Splenderanno i giusti nella verità, conteranno gli angeli la tua regalità. (lode a te) Gusteranno i martiri la tua eredità, (lode a te) brilleranno i santi dell’umanità. (dell’umanità) (coda facoltativa)

Mi La2/do# DAVANTI A TE (DAVANTI A TE) Si2/re# Mi4 Mi Mi La Si4 Mi SI PROSTRERANNO POPOLI E GENTI PER L’ETERNITÀ, Mi La2/do# Si2/re# Mi4 Mi TU REGNERAI (TU REGNERAI) SUL MONDO IN F ESTA, Mi La Si4 Mi La2 Si2 Mi4 Mi GRANDE SIGNORE SU TUTTI GLI DEI. 4 4 2 2 Mi7 La Si4 Do7+ Si-7 Mib GRANDE SIGNORE TU REGNERA I. Mib Lab2/sib DAVANTI A TE (DAVANTI A TE) Sib/re Mib4 Mib Mib Lab/mib Sib/mib Mib SI PROSTRERAN - NO POPOLI E GENTI PER L’ETERNITÀ, Fa# Si/re DAVANTI A TE Do#/fa Fa#4 Fa# Fa# Si Do#4 Fa# SI PROSTRERAN - NO POPOLI E GENTI PER L’ETERNITÀ. Fa# Si DAVANTI A TE (DAVANTI A TE) Do# Fa#4 Fa# Fa#7 Si Do#4 Do# Re/do# SI PROSTRERAN - NO POPOLI E GENTI PER L’E - TERNITÀ. Fin. Mi/si Fa# 4 8

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1.

L’AMPLIFICAZIONE DELLA CHITARRA

Bisogna amplificare la chitarra? Perché no? In fin dei conti anche l’animatore, il lettore o il sacerdote che presiede sono ricorsi all’aiuto dei microfoni, quando un tempo tutto veniva fatto... a viva voce. Non bisogna aver paura di aiutarsi con gli strumenti dell’amplificazione; piuttosto si tratta di stare attenti a come li si usa. Limiti sonori Il volume sonoro prodotto dalla chitarra, lo sappiamo, non è molto elevato; tra l’altro è normale che chitarre di buona fattura, con materiali pregiati (es.. tavola armonica in cedro canadese o abete) producono un timbro migliore e un volume di suono maggiore rispetto a chitarre economiche, magari con la tavola in compensato.. Ora, se è vero che chi studia seriamente prima o poi acquista uno strumento di qualità, in grado di rispondere adeguatamente ale sue esigenze e alla musica che suona, la gran parte dei ragazzi e giovani che accompagnano i canti durante la messa non possiede strumenti particolarmente pregiati, e quindi il volume si fa ancora più precario. Se poi una chitarra si trova a suonare insieme con altri strumenti, rischia di essere sovrastata al punto da diventare pressocché inudibile. Lo stesso capita anche nel caso, abbastanza frequente, di suonare all’interno di chiese di vaste dimensioni, con grande dispersione del suono. Il problema, ormai, non si può più ignorare: anche nel mondo del chitarrismo concertistico classico cominciano ad esserci alcuni esecutori che suonano in concerto con strumenti amplificati.

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GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

Il microfono La prima cosa da fare è quella di verificare il tipo e la qualit dei microfoni a disposizione in chiesa. Vari tipi di microfono Esistono diversi tipi di microfoni, che funzionano fondamentalmente in tre direzionalità. C’è il microfono omnidirezionale o panoramico, utilizzato spesso nelle sale di registrazione per sonorizzare un coro o un’orchestra, che svolge funzione corrispondente a quella del grandangolo della macchina fotografica. Esso raccoglie il suono «diretto» di uno strumento e anche le sue riflessioni sulle pareti circostanti: è quindi prezioso in quanto fornisce immediatamente un’immagine dell’ambiente in cui sta suonando, ma non riesce ad isolare uno strumento dall’altro. Non è casuale il riferimento alle sale di registrazione: il microfono panoramico si utilizza normalmente in ambienti ben sonorizzati, che non presentano problemi acustici come il riverbero o l’«effetto Larsen».

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GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

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Non è il caso della maggioranza delle nostre chiese, soprattutto quelle di non recentissima costruzione. Per questo è opportuno per il nostro scopo non far cadere la scelta su questo tipo di microfoni. C’è, poi, tutta una serie di microfoni unidirezìonali (la famiglia cosiddetta cardioidi), utilizzati per la sonorizzazione di un piccolo gruppo di cantori o di singoli strumenti. Servendoci ancora di un esempio fotografico, questi modelli svolgono la stessa funzione del teleobiettivo della macchina fotografica. Si tratta di microfoni sensibili ai suoni prodotti davanti alla capsula, e insensibili a quelli provenienti da dietro. Grazie a questa sua direttività questo tipo di microfono è in grado di non captare (o di captarlo solo in minima parte) il suono emesso da altri strumenti vicini o dalle voci del coro, e di ridurre ii più possibile il rischio del rientro nell’ampIificatore. Per queste sue caratteristiche il cardioide è il tipo di microfono più adatto per chiese. Il terzo tipo di microfono si pone a mezza strada due ed è chiamato bidirezionale (o a figura di otto). Come si comprende dal nome, esso può essere utilizzato per amplificare due chitarre (o altri strumenti) oppure due solisti che cantano uno di fronte all’altro. Schematizzando: ––

«un microfono panoramico riceve egualmente bene i suoni provenienti da tutte le direzioni;

––

il cardioide esclude quelli provenienti esattamente dalla “coda” del microfono;

––

l’ipercardioide è quello che meglio riesce a discriminare l’emissione di un singolo strumento posto esattamente innanzi ad esso ed escludendo quelli vicini;

––

il supercardioide ha caratteristiche intermedie fra i due, ed è il modello che meglio permette di raccogliere ciò che proviene dalle zone davanti la capsula escludendo invece quelle retrostanti.

––

Infine il microfono a figura di otto: la sua caratteristica è di essere bidirezionale, perciò riceve egualmente bene i suoni provenienti da due direzioni allineate e opposte, e non riceve quelli emessi lungo l’asse posto a 90°, con quello di massima sensibilità».

L’interruttore

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Tutti questi modelli vengono posizionati davanti allo strumento montati sul supporto di un’asta. È importante prevedere che il microfono sia munito di un interruttore; qualsiasi spostamento o sistemazione durante una celebrazione si potrà fare senza recare disturbo, se si può spegnere il microfono prima di spostarlo. Tra un canto e un altro, quando non è in uso il microfono, è utile spegnerlo (sempre attraverso l’interruttore) perché molti microfoni aperti durante una celebrazione rischiano di nuocere alla qualità generale della sonorizzazione.


Regolare la distanza Normalmente nell’usare il microfono ci si limita ad alzare o abbassare il volume dell’amplificatore o del mixer. In realtà, dopo aver stabilito un volume di suono sufficiente per essere udito nelle varie parti della chiesa senza effetti di distorsione, c’è una seconda operazione da compiere, ancora più importante: regolare la distanza dallo strumento. Il colore del suono dipende, infatti, in gran parte dalla distanza in cui ci si pone. Il microfono di tipo cardioide, infatti, ha la proprietà di esaltare le frequenze più basse man mano che lo si avvicina alla sorgente. Questo permette al chitarrista di ottenere un suono più brillante semplicemente «giocando» sulla distanza fra chitarra e microfono.

Come posizionare il microfono davanti alla chitarra? Normalmente lo si colloca davanti alla buca. In realtà per ottenere un suono fedele e pulito conviene spostare leggermente il microfono dalla zona della buca e orientarlo verso una delle zone basse della tavola armonica, evitando comunque di allontanarlo troppo dalla buca. Mentre infatti, davanti alla buca, il microfono riceve quasi solamente le vibrazioni trasmesse dall’aria, direzionandolo verso la tavola armonica esso sarà grado di raccogliere sia le vibrazioni del legno sia quelle propagate dall’aria.

Sulle note dello spirito

GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

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GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

Sulle note dello spirito

Il microfono: un orecchio Possiamo immaginare il microfono quasi come un orecchio in cui si può sussurrare, parlare o gridare il proprio discorso. Il microfono non si regola: è chi suona (o chi parla o canta) che deve regolare la distanza dal microfono e l’intensità del suono per ottenere ciò che desidera.

Microfoni applicati sullo strumento Per amplificare il suono della chitarra si può ricorrere all’uso dei microfoni applicati a molla sulla buca (pick ups) o attraverso una pasta adesiva alla base del ponticello (microfoni «a contatto»). Si tratta di soluzioni utili quando la necessità è quella di ampliare il volume del suono; se però si ricerca anche un suono pulito e chiaro è meglio preferire soluzioni diverse. Si stanno moltiplicando in questi anni modelli di chitarre elettroacustiche, cioè strumenti di tipo classico o ritmico con il microfono applicato non all’esterno ma all’interno della cassa armonica, sotto il ponticello (microfono piezoelettrico). In molti casi il suono ottenuto è abbastanza fedele a quello originale. Diciamo abbastanza perché in ogni caso questo tipo di microfono raccoglie solo vibrazioni della tavola ma non quelle dell’aria, dando luogo a un suono amplificato dall’originale, specialmente sulle note più gravi.

L’amplificatore Il suono captato dal microfono arriva all’amplificatore talmente debole che sarebbe del tutto inudibile; scopo dunque dell’amplificatore è quello di riportare il suono alla medesima intensità con cui è stato emesso dallo strumento, e inviarlo così amplificato agli altoparlanti. Nell’uso dell’amplificatore è necessario fare attenzione a aspetti; 1)

se la chitarra utilizza un microfono a contato o un piezoelettrico è necessario interporre un pre-amplificatore;

2)

se vuole mantenere una certa fedeltà di suono bisogna evitare utilizzare amplificatori per chitarra elettrica in quanto dotati di particolari filtri che «mascherano» il suono (esigenza della chitarra elettrica che essere in grado produrre suoni particolari, anche distorti, comunque carichi di effetti...).

Quando lo scopo è di amplificare il suono così com’è, è meglio utilizzare un amplificatore da tastiera o una cassa spia.

Gli altoparlanti

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Servono a il suono amplificato nei vari punti dell’ambiente, favorendo l’ascolto delle parole e dei suoni. In generale per la loro sistemazione si usano i seguenti criteri: –– ambienti molto sonori, si installano numerosi altoparlanti di piccola potenza, usati a basso volume, e abbondantemente distribuiti nell’ambiente: è il caso della maggioranza delle nostre chiese; –– in ambienti «sordi», si possono usare pochi altoparlanti, di maggiore potenza, usati a volume sostenuto. Questa soluzione è generalmente usata nei teatri e nelle sale da concerto, oppure in occasione delle grandi manifestazioni all’aperto;


––

una particolare attenzione meritano le chiese a più navate, con cupola, con molte cappelle, e, soprattutto con colonne o pilastri molto grossi (che rompono le onde riflesse): in tali vasti e articolati ambienti, l’intelligibilità cambia radicalmente, a seconda delle varie posizioni d’ascolto; ci possono essere addirittura «zone d’ombra»), in cui non si percepisce nemmeno una parola. In tali zone vanno collocati dei piccoli altoparlanti supplementari, orientati secondo necessità di quel particolare «angolo».

Conclusione Attenzione al volume Quale soluzione preferire per aumentare il volume di suono della chitarra durante le celebrazioni? Se vengono utilizzati i microfoni dell’impianto fisso della chiesa, basta ricordare che, essendo i diffusori numerosi e disseminati nelle varie zone della chiesa, sarà sufficiente un volume minimo. Attenzione a non esagerare: non siamo ad un concerto e la chitarra, in ogni caso, accompagnare e non sovrastare! Non sbilanciare la sonorizzazione Se, invece, si ricorre ad impianti ausiliari rispetto a quello della chiesa, il rischio di una sonorizzazione sbilanciata – troppo forte vicino alle casse e quasi nulla verso il fondo della chiesa – è enorme. Inoltre la presenza di pochi altoparlanti in ambienti spaziosi chiede un volume alto; questo accentua e aumenta l’effetto di riverbero, tipico di molte chiese, con l’accavallamento dei suoni e la conseguente incomprensibilità di tutto ciò viene amplificato. Cassa spia A mio parere la presenza di un impianto ausiliario, o comunque di qualche cassa amplificata, dovrebbe servire sia per favorire ii ritorno del suono (cassa spia) per il coro e per gli strumentisti, come effettiva sonorizzazione per l’assemblea. Piuttosto può essere prezioso collegare l’uscita del mixer, o comunque della cassa, con un’entrata dell’amplificatore della chiesa. Anche in questo caso il segnale d’uscita dovrà essere contenuto.

Sulle note dello spirito

GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

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GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

Sulle note dello spirito

2.

IL DECALOGO DEL CHITARRISTA

Indicazioni per migliorare il nostro modo di suonare e il nostro servizio

I Mantenere la chitarra sempre accordata Accordare bene una chitarra non è un’operazione facile, serve allenamento. Per favorire l’accordatura dello strumento è utile correggere e sistemare di continuo le corde (evitando di accordarle una volta ogni tanto); in questo modo lo strumento si abitua a rimanere «in tensione» e mantiene meglio l’accordatura. Per lo stesso motivo si abbia cura di mantenere lo strumento il più costantemente possibile in 440 MHZ, dando la possibilità ai legni di adattarsi alla frequenza suono e di rispondere meglio alla vibrazione.

Le corde vanno sostituite periodicamente Non bisogna aspettare che... saltino! Dopo un periodo di tempo (all’incirca due o tre mesi), anche se quanto a tensione sono ancora resistenti, le corde perdono precisione del suono per cui, sopratutto quando si accordi su posizioni alte, non tengono l’accordatura e producono un suono cupo, scarso di armonici. Attenzione agli sbalzi di temperatura

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I legni della chitarra sono particolarmente sensibili. Il passaggio da un ambiente freddo a uno caldo provoca una «crescita» nei suoni prodotti dallo strumento. Se, quindi, d’inverno si parte da casa per recarsi in chiesa a suonare, conviene spostarsi un pò in anticipo rispetto alla messa, in modo da dare il tempo allo strumento di abituarsi alla nuova temperatura. In caso contrario servirà a ben poco accordare lo strumento alI’inizio, perché dopo il primo canto bisognerà ripetere l’operazione (e durante la messa non è molto opportuno!).


II È necessario acquisire un buon senso del ritmo: siamo troppo presi dal ritmo della «canzonetta». La musica che vogliamo suonare, il canto che vogliamo accompagnare, devono essere rispettati (nel senso che devono essere suonati con il «loro» ritmo, che non necessariamente è sempre veloce e sfrenato ...). Se in liturgia viene dato valore primario al testo da cantare, da esso (oltre che dallo stile musicale) va dedotto anche il modo di accompagnare. Ogni canto ha il suo ritmo: teniamo presente che dalla opportuna o inopportuna scelta del ritmo dipende molta parte della partecipazione al canto da parte dell’assemblea. Se è vero che l’assemblea spesso fa fatica a cantare, è altrettanto vero che in molti casi l’assemblea è «costretta» al silenzio da un accompagnamento troppo carico e caotico, o da una esecuzione troppo veloce del canto. È il ritmo che deve adattarsi al canto e non (come purtroppo accade molto spesso!) il contrario.

III

Per acquisire precisione e padronanza di soluzioni ritmiche diverse è necessario procedere gradi. Prima di fare ritmo direttamente sulla chitarra è opportuno allenarsi con degli esercizi di solfeggio ritmico senza strumento. Non dimentichiamo che le mani vengono comandate dal cervello, quindi è meglio allenare prima di tutto quest’ultimo! Troviamo, durante la settimana un pò di tempo per fare un pò di solfeggio parlato, o battendo la mano sul tavolo.

Sulle note dello spirito

GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

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GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

Sulle note dello spirito

In un secondo momento, siccome dobbiamo imparare a scandire le pulsazioni con regolarità, sarà utile allenarsi con il metronomo. Togliamoci dalla testa l’idea che questo «aggeggio» sia riservato ai soli concertisti: se si vuole riuscire a mantenere un canto alla stessa velocità, senza cedimenti, dall’inizio alla fine (salvo i cambiamenti o i rallentamenti previsti dallo spartito) bisognerà provare anche i ritmi più semplici (es. battere o suonare i 4/4 ad accordi sgranati) con il metronomo: è meno facile del previsto. Provare credere!

IV

Uno dei requisiti di base del chitarrista accompagnatore consiste nel saper cambiare gli accordi in sincronia con il canto. I problemi riguardano entrambe le mani: la destra deve mantenere regolari le pulsazioni sia per quanto riguarda la velocità che la dinamica; la sinistra che deve tenere l’accordo all’ultimo istante per poi portarsi in velocità alla posizione successiva, in modo che non si percepiscano dei vuoti nell’accompagnamento. Questo sia per l’accompagnamento ritmico sia per l’arpeggio. Anche qui c’è un solo modo risolvere il problema: studiare!

V

Attenzione alla velocità di esecuzione del canto. Oltre al fatto, detto sopra, che ogni canto ha un testo che «chiama» una velocità precisa, si deve fare attenzione anche al tipo di assemblea che vuole animare. Più l’assemblea è numerosa, più fatica a correre! Quindi lo stesso canto (soprattutto se ritmico veloce) va trattato in modo diverso a seconda se a cantare c’è un gruppo o una grande assemblea. Lo stesso si può dire quanto riguarda il ritmo: più grande è l’assemblea da guidare e più essenziale dovrà essere il ritmo. In caso contrario la chitarra invece di aiutare il canto! contribuirà a far... confusione.

VI

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Gli accompagnamenti meglio riusciti sono quelli che legano sonorità vicine. Per cui, ad esempio, il salto


improvviso dal Mi+ prima posizione) al Si+ (in settima posizione... perché si conosce solo questa), risulta poco piacevole all’orecchio. Per questo motivo è utile non accontentarsi di un’unica posizione per accordo, ma (aiutandosi magari con qualche prontuario) conoscere un pò alla volta gli accordi nelle diverse posizioni della chitarra (le possibilità sono molte più di quanto possiamo immaginare!).

VII Per principio nessun canto è impossibile da accompagnare con chitarra. Ma non tutti i canti adattano in modo uguale ad un accompagnamento chitarristico: ––

i più adatti sono quelli maggiormente ritmici, con andamento vivace, corrispondenti a un atteggiamento di lode, di festa, di ringraziamento; –– ci sono poi canti più meditativi, la cui partitura riporta l’indicazione degli accordi (ciò supporta meglio un accompagnamento in arpeggio piuttosto che a ritmo); –– ci sono canti con andamenti ritmici molto particolari, esplicitamente indicati dall’autore; –– a n c h e alcuni corali sono accompagnabili con la chitarra, usando però una tecnica diversa, con alcuni leggeri accordi strappati.

VIII Un approfondimento merita l’accompagnamento dei salmi: qui l’uso di uno strumento a corda, come la chitarra, può rivelarsi molto prezioso. La predominanza, nel rapporto tra testo e musica, è chiaramente della parola, per cui è assai efficace (forse più che non l’uso dell’organo, che al suono tenuto) uno strumento a corda, dato il suono, una volta pizzicata la corda, si spegne in modo naturale lasciando fluire liberamente la parola. È chiaro, però, che anche in questo caso la chitarra non viene utilizzata come strumento ritmico (del resto è tutto da dimostrare che questa sia la sua vera natura, dato che l’uso esclusivamente ritmico della chitarra è, un frutto della musica pop/rock e ha solo qualche decennio di vita).

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IX Oltre all’aspetto tecnico, peraltro importantissimo per il ruolo chiamato a svolgere, il chitarrista deve coltivare anche una dimensione interiore, in particolare dovrà cercare di vivere la sua attività con spirito di servizio. –– In tutto quello che fa non deve cercare tanto la soddisfazione personale, quanto il bene e la crescita dell’assemblea. –– Dovendo, con le sue scelte, in qualche modo, interpretare la vita e la fede della comunità, il chitarrista partecipa alla vita della parrocchia e in particolare all’attività del gruppo liturgico.

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GLI STRUMENTI MUSICALI NELLA LITURGIA

Sulle note dello spirito

––

Per svolgere questo servizio con competenza, oltre allo studio tecnico dello strumento, affiancherà uno studio, almeno di base, della liturgia con le sue leggi e le sue esigenze, e farà in modo di conoscere la struttura dei diversi riti che si troverà ad animare e del significato delle parti li compongono.

X

Lo strumentista partecipa pienamente alla liturgia suonando e accompagnando (il meglio possibile) i canti previsti durante le celebrazioni; ma questo non basta. Teniamo sempre presente questa raccomandazione, valida per tutti coloro svolgono un compito particolare aIl’interno della celebrazione, come il presidente, il lettore, il cantore, e che è ancora più incombente gli strumentisti, soprattutto quelli che hanno molte preoccupazioni tecniche, come la preparazione dello strumento, delle partiture ecc.: non dobbiamo essere interessati solamente a quello che dobbiamo eseguire, ma anche e soprattutto a quello che si svolge nella liturgia: prima di essere chitarristi siamo dei cristiani convocati dal Signore per ascoltare la sua Parola, per rispondere e pregare insieme. Quando conclude un canto e finisce, quindi, almeno il momento, il compito del chitarrista, continua il suo compito di cristiano che insieme agli altri ascolta, risponde, prega ecc. Al di là del suo atto musicale, il chitarrista è chiamato a dare soprattutto e anzitutto testimonianza di cristiano che celebra nella fede.

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1.

ARPA E CETRA, GLI STRUMENTI DELL’ANTICO TESTAMENTO

Il primo riferimento alla musica nella Bibbia si trova poco dopo il racconto della creazione: insieme alla pastorizia e all’artigianato essa riveste un ruolo di primo piano come primordiale manifestazione di civiltà. In Genesi 4,21, infatti, Iubal, uno dei discendenti di Caino, ci viene presentato come «il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto», mentre i suoi fratelli Iabal e Tubalkàin incarnano rispettivamente «il padre di quanti abitano sotto le tende accanto al bestiame» e «il fabbro, padre di quanti lavorano il rame e il ferro». In questa prima menzione degli strumenti musicali appartenenti alla tradizione ebraica, si può facilmente notare una non casuale distinzione fra strumenti a corda (la cetra) e strumenti a fiato (il flauto). Pare che una simile suddivisione non fosse priva di significato: i primi, tra cui la lira, l’arpa e la cetra, che servivano ad accompagnare il servizio liturgico, erano gli strumenti propri dei leviti, incaricati dell’esecuzione musicale all’interno del Tempio, mentre i secondi e in particolare il corno, generalmente di ariete o di capro, mai di bue, e la tromba, realizzata in metallo prezioso, erano destinati ai sacerdoti, a causa della loro notevole componente simbolica. Con uno strumento a fiato, infatti, lo jobel, o «tromba dell’acclamazione», si dava inizio all’anno giubilare, mentre il corno d’ariete, lo shophar, aveva accompagnato la rivelazione di Dio a Mosè sul monte Sinai (Es 19,19) e, insieme alla tromba, la hazozrah, aveva manifestato la sua potenza devastatrice in contesti di guerra. Durante la presa di Gerico da parte di Giosuè, infatti, sette sacerdoti per sette giorni suonarono questi strumenti, guidando l’esercito in marcia intorno alle mura della città; al settimo giorno, al segnale dello shophar, il popolo di Dio lanciò il grido di guerra e le mura di Gerico crollarono. Le trombe dovevano accompagnare gli olocausti e i sacrifici pacifici, così come era avvenuto al momento dell’ingresso dell’arca dell’alleanza a Gerusalemme (2 Sam 6). La consacrazione del Tempio di Salomone (2 Cr 5,12-13), invece, era stata celebrata da una vera e propria orchestra, in cui i leviti suonavano cembali, arpe e cetre all’unisono con centoventi sacerdoti muniti di

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trombe. È da questa lunga tradizione, legata a contesti eccezionali, a momenti di penitenza, ma anche di gioia e di incontro con Dio, che la tromba, nel libro dell’Apocalisse, potrà diventare lo strumento deputato ad annunciare la fine dei tempi e l’imminente arrivo del giorno del Signore. Per quanto riguarda il culto e la liturgia del Tempio, gli strumenti più usati erano il kinnor e il nebél, che si è soliti identificare con l’arpa e la cetra. Davide era abilissimo nel suonarli, la sua musica aveva addirittura potere terapeutico: soltanto lui riusciva ad alleviare le pene del re Saul «quando lo spirito cattivo lo investiva» (1 Sam 16,23). Davide fu il riorganizzatore della musica cultuale: a lui è attribuita gran parte dei Salmi, ma anche l’invenzione di molti nuovi strumenti musicali (Am 6,5); egli stabilì che 4000 leviti suonassero i suoi strumenti per rendere lode al Signore (1 Cr 23,5) e creò classi di cantori e suonatori addetti alla liturgia (1 Cr 15,16-24). Oltre che dagli strumenti a corda, «l’orchestra» del Tempio era composta anche da alcuni strumenti a fiato, come l’oboe doppio, e da percussioni: cembali, timpani e sistri, più volte citati nel libro di Samuele e nei Salmi. Accanto agli strumenti di carattere liturgico il popolo ebraico ne conosceva altri, «laici», usati nelle feste tradizionali, durante i matrimoni o per allietare la mietitura e la vendemmia: vari tipi di flauti, fatti di canna, osso o legno, tamburelli, sistri e timpani, particolarmente adatti ai ritmi sostenuti e allegri delle danze. Pare che questi strumenti fossero strettamente legati al mondo femminile: dopo il passaggio del mar Rosso, Maria, sorella di Mosè, guidò le danze delle donne al suono dei timpani (Es 15,20), mentre, al ritorno di Davide dalla vittoria su Golia, le donne di Israele cantarono e danzarono incontro al re Saul, accompagnandosi «con i timpani, con grida di gioia e con sistri» (1Sam 18,6). Manifestazioni di giubilo come queste dovettero apparire assolutamente fuori luogo al popolo ebraico durante la deportazione babilonese, quando le cetre furono appese ai salici (Sal 137,2), ma soprattutto dopo la distruzione del secondo Tempio nel 70 d.C., quando, in segno di lutto, tutta la musica strumentale fu proibita dai rabbini: la liturgia delle sinagoghe al tempo della diaspora fu limitata all’esecuzione vocale. Nacchere e incenso: lo strano caso di Siviglia Nella Bibbia si suona, si canta e si balla. Secondo il libro dell’Esodo, dopo il prodigioso attraversamento del Mar Rosso, la profetessa Miriam, sorella di Mosè e di Aronne, formò con le donne cori di danze. Un modo per rendere grazie a Dio, come avveniva ed avviene nella maggior parte delle religioni del mondo. Nel Nuovo Testamento, invece, la danza viene associata ad un contesto negativo: chi balla è la figlia di Erodiade, in un ambiente contaminato dal peccato e la ricompensa per quella esibizione è la testa di Giovanni il Battista. La danza asssume in questo caso connotazione negativa: la sua dimensione di linguaggio del corpo, la sua evidente carica di sensualità fecero sì che essa rimanesse fuori dal rituale cristiano. Tuttavia l’apocrifo Protovangelo di Giacomo racconta che Maria, portata al Tempio a tre anni, ballò con i suoi piedini davanti all’altare e forse, se si interpreta bene un celebre passo di Giovanni Crisostomo, viene il sospetto che nella Costantinopoli del sec. V qualche traccia di un ritmico muoversi in chiesa ci fosse. Nella splendida cattedrale di Siviglia, invece, ancora oggi avviene qualcosa di assolutamente eccezionale, per la festa del Corpus Domini e dell’Immacolata. Al suono delle nacchere, dieci ragazzini di età non superiore ai dodici anni, data che segna la fine dell’infanzia e l’inizio della maturità fisica, si scatenano in un flamenco. Sono i mitici Los Seises, perché un tempo erano sei. Tutto inizò nel XIII secolo, quando Urbano IV, nell’istituire la solennità del Corpus Domini, raccomandò a tutti i fedeli di celebrare nella gioia la festa del Signore. A Siviglia non se lo fecero dire due volte e obbedirono con la danza che è parte integrante della civiltà andalusa. Il papa ne prese atto con qualche perplessità e permise che si continuasse la tradizione finché non si fossero consumati i costumi. Ma i sivigliani furbi, rifacendo orli, sostituendo maniche, rinforzando bottoni, obbedirono a modo loro al pontefice: nella loro cattedrale esprimono da secoli in maniera coerente la loro letizia e la loro fede con nacchere e battito di tacchi.

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CONOSCERE IL REPERTORIO È ormai noto che il RnS ha finalmente pubblicato il libro Dio della mia Lode rivisto e rivisitato. Dopo anni di lavoro, il Repertorio si presenta in tre modalità: il libro dei fedeli, l’accompagnamento organistico e un CD di MP3, esso sarà in libreria nel mese di ottobre. Il Repertorio Nazionale è un sussidio ufficiale che segnala alle comunità italiane quanto di buono è stato prodotto in 45 anni dalla Costituzione Sacro - sanctum Concilium. L’operazione Repertorio è una vera necessità e un autentico servizio che si offre, per alcuni motivi: occorre qualche segnale di carattere normativo per arginare un falso concetto di creatività liturgica; il Repertorio Nazionale ha una funzione pedagogica perché suggerisce alcuni criteri di scelta dei canti per un loro corretto inserimento nel rito. La pubblicazione del Repertorio dovrebbe significare che si vuol fare sul serio, che il canto liturgico va ripensato in un progetto-programma liturgico generale e non come un “a sé” libero e indipendente. Il Papa Benedetto XVI ha più volte rimarcato la preoccupazione di recuperare la bellezza e la verità celebrativa anche attraverso il canto sacro. E nel maggio scorso, durante l’Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, ricevendo il Repertorio dalle mani del presidente Cardinale Bagnasco, ha detto che lo “aspettavo e lo terrò nella mia cappella”. L’ULN ha pensato di presentare alcuni fascicoli, scegliendo dei canti da sottoporre alla verifica delle nostre comunità. Il primo fascicolo comprende 6 canti di Avvento e 4 di Natale da utilizzare per il prossimo Avvento anno C. Sono stati scelti canti in latino, in gregoriano, canti per assemblee più giovanili; le forme musicali scelte sono diverse, strofa e ritornello, lauda, ostinato, corale. Abbiamo preparato delle schede di presentazione e di utilizzo degli stessi canti, e le abbiamo affidate a giovani musicisti, tutti diplomati presso il Corso di perfezionamento liturgico musicale dell’ULN (Coperlim). Vogliamo così individuare dei collaboratori futuri in questo settore del canto liturgico. Auspichiamo che questi canti possano introdurre e accompagnare le nostre comunità liturgiche nel nuovo anno liturgico con il prossimo Avvento 2009.

Sulle note dello spirito

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Sulle

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Sulle note dello spirito

1. CANTI PER LE DOMENICHE DEL MESE DI novembre Questa sezione vuole essere d’aiuto e di indicazione per la scelta dei canti per la Celebrazione Eucaristica considerando la liturgia del giorno e il tempo liturgico. La numerazione è riferita al libretto Dio della mia Lode anno 2011.

01 NOVEMBRE - TUTTI I SANTI Ingresso 327 Canto al Vangelo 23 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 153

kyrie M Gialloreti Offertorio 196 Dossologia Agnello di Dio 6 Conclusione 372

Gloria 26 Santo 234 Padre Nostro 203 Comunione 383

04 NOVEMBRE - XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) Ingresso 323 Canto al Vangelo 15 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 219

Kyrie 347 Offertorio 77 Dossologia Agnello di Dio 7 Conclusione 321

Gloria 27 Santo 233 Padre Nostro 203 Comunione 59

11 NOVEMBRE - XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) Ingresso 41 Canto al Vangelo 23 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 361

Kyrie (Sorgente di salvezza) Offertorio 70 Dossologia Agnello di Dio (Sorgente di salvezza) Conclusione 245

Gloria 145 Santo 235 Padre Nostro (Sorgente di salvezza) Comunione 219

18 NOVEMBRE - XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B)

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Ingresso 85 Canto al Vangelo 20 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 331

Kyrie 352 Offertorio 129 Dossologia Agnello di Dio 7 Conclusione 362

Gloria 364 Santo ex 120 Padre Nostro 203 Comunione 137


25 NOVEMBRE - XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) Ingresso 02 Canto al Vangelo 18 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 154

kyrie M Gialloreti Offertorio 186 Dossologia Agnello di Dio 6 Conclusione 160

Sulle

Gloria /// Santo 235 Padre Nostro 203 Comunione 143

Sulle note dello spirito

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ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

Sulle note dello spirito

1. CANTI PER LE DOMENICHE DEL MESE DI DICEMBRE Questa sezione vuole essere d’aiuto e di indicazione per la scelta dei canti per la Celebrazione Eucaristica considerando la liturgia del giorno e il tempo liturgico. La numerazione è riferita al libretto Dio della mia Lode anno 2011.

02 DICEMBRE - I DOMENICA DI AVVENTO (ANNO C) Ingresso 119 Canto al Vangelo 23 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 153

kyrie M Gialloreti Offertorio 196 Dossologia Agnello di Dio 6 Conclusione 372

Gloria 26 Santo 234 Padre Nostro 203 Comunione 383

08 DICEMBRE - IMMACOLATA CONCEZIONE Magnificat Canto al Vangelo 15 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 219

Ave Regina 382 Offertorio 174 Dossologia Agnello di Dio 7 Conclusione 321

Gloria 27 Santo 233 Padre Nostro 203 Comunione (Giovane Donna)

09 DICEMBRE - II DOMENICA DI AVVENTO (ANNO C) Ingresso 319 Canto al Vangelo 23 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 361

Kyrie (Sorgente di salvezza) Offertorio 70 Dossologia Agnello di Dio (Sorgente di salvezza) Conclusione 225

Gloria 145 Santo 235 Padre Nostro (Sorgente di salvezza) Comunione 219

16 DICEMBRE - III DOMENICA DI AVVENTO (ANNO C)

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Ingresso 363 Canto al Vangelo 20 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 331

Kyrie 352 Offertorio 129 Dossologia Agnello di Dio 7 Conclusione 245

Gloria 364 Santo ex 120 Padre Nostro 203 Comunione 137


23 DICEMBRE - IV DOMENICA DI AVVENTO (ANNO C) Ingresso 02 Canto al Vangelo 18 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 154

kyrie M Gialloreti Offertorio 186 Dossologia Agnello di Dio 6 Conclusione 160

Gloria /// Santo 235 Padre Nostro 203 Comunione 143

24 DICEMBRE - MESSA DELLA NOTTE SANTA

COME DA TRADIZIONE 25 DICEMBRE - NATALE MESSA DEL GIORNO

COME DA TRADIZIONE

Sulle note dello spirito

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30 DICEMBRE - LA SACRA FAMIGLIA Ingresso 02 Canto al Vangelo 18 Anamnesi Embolismo Ringraziamento 154

kyrie M Gialloreti Offertorio 186 Dossologia Agnello di Dio 6 Conclusione 160

Gloria /// Santo 235 Padre Nostro 203 Comunione 143

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Sulle note dello spirito

2. AL SERVIZIO DELLA PAROLA Il salmo responsoriale è strettamente legato alla prima lettura. Si presenta come un’eco di essa. Si tratta di un testo poetico che si esprime ritmicamente e che ha bisogno di calma, pause, silenzio. Ecco perché è bene differenziare il lettore della prima lettura da chi proclama o canta il salmo. Si tratta di due stili diversi: uno in prosa, in narrazione, l’altro in poesia pregata (o preghiera poetica). Il salmo non deve apparire come una lettura supplementare, ma una risposta lirica dell’assemblea alle meraviglie che Dio sta realizzando in lei. Il salmo e, in particolare, il ritornello ripetono per lo più una o l’altra delle parole che sono state proclamate. Il popolo risponde al Signore riutilizzando le Sue parole appena ascolta- te. Il ritornello introduce il salmo e gli dà il suo colore, dando anche la chiave di interpretazione principale della lettura appena proclamata (nel contesto liturgico). Il salmo normalmente sia cantato, possibilmente sia nel ritornello (solista con assemblea) che nella strofa (solista). Ma almeno il ritornello sia sempre cantato la domenica e nelle solennità. È possibile prevedere alcune “melodie-tipo” che possono adattarsi a diversi ritornelli. Potrebbe essere la soluzione di partenza, da superare poi, pian piano, con l’impegno di insegnare e cantare melodie diverse per ogni salmo (ecco il senso della raccolta diocesana dei Salmi).

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SALMODIE

01 NOVEMBRE - Tutti i Santi Tratto dal Salmo 23 - Ecco le generazione che cerca il tuo volto, Signore.

Del Signore è la terra e quanto contiene: il mondo, con i suoi abitanti. È lui che l’ha fondato sui mari e sui fiumi l’ha stabilito. Chi potrà salire il monte del Signore? Chi potrà stare nel suo luogo santo? Chi ha mani innocenti e cuore puro, chi non si rivolge agli idoli. Egli otterrà benedizione dal Signore, giustizia da Dio sua salvezza. Ecco la generazione che lo cerca, che cerca il tuo volto, Dio di Giacobbe.

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04 NOVEMBRE - XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno B) Tratto dal Salmo 17 - Ti amo, Signore, mia forza.

Ti amo, Signore, mia forza, Signore, mia roccia, mia fortezza, mio liberatore. Mio Dio, mia rupe, in cui mi rifugio; mio scudo, mia potente salvezza e mio baluardo. Invoco il Signore, degno di lode, e sarò salvato dai miei nemici. Viva il Signore e benedetta la mia roccia, sia esaltato il Dio della mia salvezza. Egli concede al suo re grandi vittorie, si mostra fedele al suo consacrato.

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11 NOVEMBRE - XXXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno B) Tratto dal Salmo 145 - Loda il Signore, anima mia.

Il Signore rimane fedele per sempre rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati. Il Signore libera i prigionieri. Il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge i forestieri. Egli sostiene l'orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi. Il Signore regna per sempre, il tuo Dio, o Sion, di generazione in generazione.

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18 NOVEMBRE - XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno B) Tratto dal Salmo 15 - Proteggimi, o Dio in te mi rifugio.

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice: nelle tue mani è la mia vita. Io pongo sempre davanti a me il Signore, sta alla mia destra, non potrò vacillare. Per questo gioisce il mio cuore ed esulta la mia anima; anche il mio corpo riposa al sicuro, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra.

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25 NOVEMBRE - XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (Anno B) Tratto dal Salmo 92 - Il Signore regna, si riveste di splendore.

Il Signore regna, si riveste di maestà: si riveste il Signore, si cinge di forza. È stabile il mondo, non potrà vacillare. Stabile è il tuo trono da sempre, dall'eternità tu sei. Davvero degni di fede i tuoi insegnamenti! La santità si addice alla tua casa per la durata dei giorni, Signore.

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02 DICEMBRE - I DOMENICA DI AVVENTO (Anno C) Tratto dal Salmo 24 - A te, Signore, innalzo l’anima mia, in te confido.

Fammi conoscere, Signore, le tue vie, insegnami i tuoi sentieri. Guidami nella tua fedeltà e istruiscimi, perché sei tu il Dio della mia salvezza. Buono e retto è il Signore, indica ai peccatori la via giusta; guida i poveri secondo giustizia, insegna ai poveri la sua via. Tutti i sentieri del Signore sono amore e fedeltà per chi custodisce la sua alleanza e i suoi precetti. Il Signore si confida con chi lo teme: gli fa conoscere la sua alleanza.

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08 DICEMBRE - IMMACOLATA CONCEZIONE Tratto dal Salmo 97 - Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie.

Cantate al Signore un canto nuovo, perché ha compiuto meraviglie. Gli ha dato vittoria la sua destra e il suo braccio santo. Il Signore ha fatto conoscere la sua salvezza, agli occhi delle genti ha rivelato la sua giustizia. Egli si è ricordato del suo amore, della sua fedeltà alla casa d’Israele. Tutti i confini della terra hanno veduto la vittoria del nostro Dio. Acclami il Signore tutta la terra, gridate, esultate, cantate inni!

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09 DICEMBRE - II DOMENICA DI AVVENTO (Anno C) Tratto dal Salmo 125 - Grandi cose ha fatto il Signore per noi.

Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si riempì di sorriso, la nostra lingua di gioia. Allora si diceva tra le genti: «Il Signore ha fatto grandi cose per loro». Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia. Ristabilisci, Signore, la nostra sorte, come i torrenti del Negheb. Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia. Nell’andare, se ne va piangendo, portando la semente da gettare, ma nel tornare, viene con gioia, portando i suoi covoni.

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16 DICEMBRE - III DOMENICA DI AVVENTO (Anno C) Tratto dal Salmo Is. 12 - Canta ed esulta, perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele.

Ecco, Dio è la mia salvezza; io avrò fiducia, non avrò timore, perché mia forza e mio canto è il Signore; egli è stato la mia salvezza. Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza. Rendete grazie al Signore e invocate il suo nome, proclamate fra i popoli le sue opere, fate ricordare che il suo nome è sublime. Cantate inni al Signore, perché ha fatto cose eccelse, le conosca tutta la terra. Canta ed esulta, tu che abiti in Sion, perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele.

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23 DICEMBRE - IV DOMENICA DI AVVENTO (Anno C) Tratto dal Salmo 79 - Signore, fà splendere il tuo volto e noi saremo salvi.

Tu, pastore d’Israele, ascolta, seduto sui cherubini, risplendi. Risveglia la tua potenza e vieni a salvarci. Dio degli eserciti, ritorna! Guarda dal cielo e vedi e visita questa vigna, proteggi quello che la tua destra ha piantato, il figlio dell’uomo che per te hai reso forte. Sia la tua mano sull’uomo della tua destra, sul figlio dell’uomo che per te hai reso forte. Da te mai più ci allontaneremo, facci rivivere e noi invocheremo il tuo nome.

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24 DICEMBRE - VIGILIA DI NATALE Tratto dal Salmo 88 - Canterò per sempre l’amore del Signore.

Canterò in eterno l’amore del Signore, di generazione in generazione farò conoscere con la mia bocca la tua fedeltà, perché ho detto: «È un amore edificato per sempre; nel cielo rendi stabile la tua fedeltà». «Ho stretto un’alleanza con il mio eletto, ho giurato a Davide, mio servo. Stabilirò per sempre la tua discendenza, di generazione in generazione edificherò il tuo trono». «Egli mi invocherà: “Tu sei mio padre, mio Dio e roccia della mia salvezza”. Gli conserverò sempre il mio amore, la mia alleanza gli sarà fedele».

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25 DICEMBRE - NATIVITA DEL SIGNORE Tratto dal Salmo 95 - Oggi è nato per noi il Savatore.

Cantate al Signore un canto nuovo, cantate al Signore, uomini di tutta la terra. Cantate al Signore, benedite il suo nome. Annunciate di giorno in giorno la sua salvezza. In mezzo alle genti narrate la sua gloria, a tutti i popoli dite le sue meraviglie. Gioiscano i cieli, esulti la terra, risuoni il mare e quanto racchiude; sia in festa la campagna e quanto contiene, acclamino tutti gli alberi della foresta. Davanti al Signore che viene: sì, egli viene a giudicare la terra; giudicherà il mondo con giustizia e nella sua fedeltà i popoli.

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30 DICEMBRE - LA SACRA FAMIGLIA Tratto dal Salmo 83 - Beato chi abita nella tua casa, Signore.

Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! L’anima mia anela e desidera gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente. Beato chi abita nella tua casa: senza fine canta le tue lodi. Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio e ha le tue vie nel suo cuore. Signore, Dio degli eserciti, ascolta la mia preghiera, porgi l’orecchio, Dio di Giacobbe. Guarda, o Dio, colui che è il nostro scudo, guarda il volto del tuo consacrato.

Sulle note dello spirito

ANIMAZIONE DOMENICALE - SALMI RESPONSORIALI

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Sulle note dello spirito


Dio onnipotente, Signore del cielo e della terra, nell’alito dello Spirito e nella Parola fai vivere e camminare ogni creatura, perché cresca nella speranza. Nel Figlio incarnato manifesti la tua provvidenza e godiamo la tuà fedeltà: non ci abbandoni nella solitudine e ci fai dimorare nell’Amore. Guarda l’uomo pellegrino, travolto dalle oscurità e dalle incertezze della vita: sostienilo nel tuo respiro, perché non si lasci mai appesantire. Orientaci a contemplare il tuo Amore fatto uomo e a vivere nel Mistero: l’esultanza che inebria il nostro cuore non conosce tramonto. Sorretti da te, ci lasceremo riscaldare dal Fuoco fedele che fa gustare l’eterno e ci fa sognare la pienezza. Nel cuore verginale, con il gusto dei nostri limiti, canteremo quell’obbedienza che è comunione gloriosa con te e libertà nel feriale. Ricolmi di gratitudine, a te offrimao la lode con tutte le creature che nel Cristo e nello Spirito glorificano il tuo nome. Amen! (A. D.)

Progetto grafico e impaginazione: Francesco Angioletti


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