SUGO - Maggio 2025 - N°02

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Editoriale NUOVO ANNO

Rieccoci con un nuovo numero di SUGO!

Per i ritardatari, il nostro sito online ospita ancora il numero precedente: un’occasione per recuperare su sugo.gameloop.it

Questo numero ha riservato sorprese interessanti. Abbiamo avuto l’opportunità di dialogare con il vincitore del Red Bull Indie Forge, un appuntamento cruciale per lo sviluppo indipendente in Italia. Successivamente, ci siamo immersi in un’anteprima esclusiva di un titolo made in Italy che si preannuncia come una delle produzioni più distintive degli ultimi anni. Non mancano approfondimenti su arte digitale, le sfide della localizzazione e principi di game design. Infine, uno sguardo al lato sociale del medium videoludico: un universo apparentemente isolato che, in realtà, dischiude innumerevoli prospettive.

Non resta che invitarvi a esplorare questo denso ecosistema di pixel e a condividere le vostre impressioni su queste novità.

Samuele Prosser

COS’È SUGO?

Vogliamo farvi conoscere i volti dietro ai giochi, le loro motivazioni, le loro passioni.

Vogliamo farvi entrare nei loro studi, mostrarvi sia il caos creativo che la soddisfazione provata nel vedere il proprio progetto prendere vita.

UN MENU AMPIO E VARIEGATO

All’interno di ogni numero troverete articoli per tutti i gusti, pensati per soddisfare persino i palati più esigenti:

● Profili approfonditi: immersioni nelle menti degli sviluppatori per scoprire le loro ispirazioni, la filosofia dei loro design e i retroscena dei loro progetti.

● Storie di vita: narrazioni personali e interviste a sviluppatori emergenti per farvi conoscere le sfide e le soddisfazioni di chi fa questo lavoro ogni giorno.

● Recensioni: valutazioni sincere e approfondite di giochi indie per aiutare a orientarvi in un panorama sempre più ricco e variegato.

● Consigli e risorse: consigli pratici, tutorial e strumenti utili per chi vuole iniziare a sviluppare videogiochi.

● Arte a tutto tondo: parleremo con gli artisti che in questo ambiente hanno il compito di dare vita alle idee con colori, suoni e narrazioni.

UN PROGETTO APERTO SUGO non è solo una rivista. Vogliamo creare uno spazio di confronto e di scambio, dove sviluppatori, artisti e giocatori possano condividere le proprie passioni.

Se volete proporre qualche articolo per il prossimo numero scrivete a: sugoredazione@gmail.com

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Indice IN QUESTO NUMERO

Un capolavoro tutto italiano vincitore del Red Bull Indie Forge 04

Ci vuole proprio una scorpacciata di mostri! 08

12

14

Il carcere al centro del mondo videoludico

Alcune perle selezionate per voi dalla libreria di ITCH 17

Un corso di programmazione di grafica 3D 18

La narrazione nell'immagine 20

Cosa vuol dire progettare un gioco ortogonale?

16

E se i giochi vi facessero fisicamente male?

Lavorando sulla localizzazione dei videogiochi 22

I prossimi appuntamenti dal mondo indie, da non perdere! 23

SUGO è un progetto nato dall’idea di Samuele Prosser, per riunire sotto un unico cappello le esperienze videoludiche indie del panorama italiano e internazionale.

Un ringraziamento va a tutti gli autori per la loro dedizione e per la qualità degli articoli, ai redattori per le correzioni e gli appunti sulle varie stesure e a Marco Chierchia per l’aiuto

nella creazione del sito web sugo.gameloop.it

Inoltre questo progetto non sarebbe stato possibile senza la community di GameLoop.it

UN CAPOLAVORO TUTTO ITALIANO

Partiamo da chi sei e da com’è nata la tua passione per i videogiochi

Mi chiamo Paolo (classe 1972) e sono un programmatore con una lunga esperienza nello sviluppo software di ogni genere: lavoro professionalmente dal 1996 (e nel web dal 2000), ma fin da piccolo ho sempre avuto molto interesse per i computer. La mia passione per i videogiochi è nata proprio da bambino: ho vissuto l’epoca d’oro dell’home computing, attraversandone praticamente tutta la “scala evolutiva”. Ho iniziato con l’Atari VCS 2600, passando poi per il glorioso Commodore 64 (il mio amore indiscusso), l’Amiga e infine il PC, senza tralasciare il periodo magico dei cabinati da bar che ho vissuto dagli albori fino alla loro decadenza. Amo gli indie perché oggi sperimentano e innovano proprio come

accadeva allora. Le produzioni indipendenti sono state una riscoperta di quella magia. Quando ho visto progetti come Stardew Valley, Unepic, Undertale, Legend of Grimrock, Hollow Knight (e tanti altri), ho capito che forse non servivano enormi budget per creare qualcosa di unico. Ho realizzato che c’era spazio anche per chi, come me, voleva raccontare una storia attraverso il proprio gioco.

Quando hai capito che volevi creare il tuo videogioco?

In quasi tutti i giochi che ho sviluppato nella mia vita c’è sempre stato un processo graduale. Con questo in particolare, però, non avevo mai pensato di farne qualcosa di più grande. L’idea di The Crazy HyperDungeon Chronicles è nata quasi per caso, sperimentando con la generazione

procedurale di labirinti e con gli algoritmi di pathfinding. Poi ho creato una piccola demo in puro HTML/CSS (e naturalmente JavaScript) e mi sono divertito molto nel realizzarla. Un giorno l’ho mostrata a un mio amico che mi ha detto che secondo lui valeva la pena rielaborarne la struttura e provare a sviluppare un gioco completo.

Così ho fatto. Quando il progetto ha iniziato a prendere una forma più seria, ho coinvolto altri amici e collaboratori ed è diventato un vero videogioco.

Quali strumenti hai/avete utilizzato per lo sviluppo?

Il gioco è stato sviluppato utilizzando JavaScript e Phaser, un framework per giochi 2D, mentre per renderlo un’esperienza standalone abbiamo usato ElectronJS. So che questa scelta può sembrare insolita, ma è stata dettata dal fatto che ho una lunga esperienza nello sviluppo web e volevo lavorare con strumenti che conoscevo bene.

Phaser è un framework potente e in continua evoluzione, perfetto per il nostro progetto. Curiosamente, ho scoperto solo in seguito che il gioco italiano di maggior successo di tutti i tempi, Vampire Survivors, utilizzava la stessa tecnologia prima della sua conversione a Unity.

Per la gestione della grafica abbiamo utilizzato Aseprite, mentre per la colonna sonora Alessandro ha lavorato con strumenti digitali per ricreare sonorità autentiche dell’epoca 16-bit, mantenendo un perfetto equilibrio tra nostalgia e personalità.

Intervista di Marco Chierchia a Paolo Nicoletti

Parlaci del tuo progetto e del team

The Crazy Hyper-Dungeon Chronicles è un dungeon crawler adventure con elementi roguelite e un forte taglio umoristico, ispirato ai classici giochi di ruolo degli anni ’80 e ’90. La storia segue due cugini in competizione per esplorare l’Hyper-Dungeon, un labirinto caotico nato da un collasso magico, pieno di personaggi fuori di testa, trappole, segreti e sfide sempre diverse.

Il gameplay riprende la formula classica dei dungeon crawler: labirinti intricati, leve da attivare, pareti segrete, enigmi, armi, magie e una marea di nemici più o meno letali. A questo abbiamo aggiunto una storia ricca e dettagliata che si evolve in base alle scelte del giocatore in alcuni passaggi chiave, portando a sorprese e colpi di scena che (speriamo) rendono l’avventura ancora più coinvolgente (e anche rigiocabile).

Uno degli aspetti più particolari è il sistema degli archetipi dei giocatori, nato dai feedback molto diversi ricevuti dopo la pubblicazione della demo: c’era chi voleva più azione, chi più narrativa e chi più enigmi. Per soddisfare tutti senza snaturare il gioco, abbiamo creato tre profili distinti che modificano l’esperienza di gioco: il Distruttore affronta più nemici, ha combattimenti più difficili e dialoghi ridotti al minimo per un’azione pura; il Risolutore privilegia la narrativa, con combattimenti semplificati ma dialoghi più ricchi e opzioni di diplomazia per evitare scontri; l’Esploratore è un equilibrio tra i due, con più enigmi e sotto-quest da scoprire. Questo sistema offre tre esperienze di gioco diverse in un unico titolo, aumentando la varietà. I feedback su questa scelta sono stati estremamente positivi e ci hanno ripagato di tutto il lavoro extra necessario per implementarla.

Il team dietro il progetto è piccolo ma molto affiatato. Io mi occupo della programmazione e della direzione generale, mentre per la scrittura mi affido a Luca, che ha un talento straordinario nel creare storie e dialoghi memorabili. Per la grafica e l’UX/UI c’è Marco, che con la sua esperienza ha portato e continua a portare un netto miglioramento all’estetica e alla leggibilità del gioco. Per la musica abbiamo Alessandro, che ha composto una colonna sonora perfettamente in linea con l’atmosfera e Giorgio che si occupa delle PR e dei rapporti con i publisher.

Ognuno di noi è un professionista nel proprio campo e questo ha semplificato molte cose. Infine, ci sono altri collaboratori occasionali che ci hanno aiutato in varie fasi dello sviluppo.

Come sei riuscito a conciliare otto ore di lavoro con lo sviluppo del progetto?

La passione è stata la spinta principale ma non nego che sia stata dura. Dopo otto ore di lavoro, mettersi la sera a programmare o rifinire i dettagli del gioco non è semplice. Lo stesso vale per molti weekend. Ho sacrificato molto tempo libero, ho praticamente smesso di giocare ai videogiochi (con l’eccezione di Baldur’s Gate III che ho completato in dieci giorni giocando circa 16 ore al giorno quando moglie e figlia erano al mare) e sicuramente la mia vita sociale ne ha risentito... in negativo perché ho trascurato e sto ancora trascurando gli amici e in positivo perché ho conosciuto davvero tantissime altre persone che in qualche maniera mi hanno arricchito con la loro esperienza.

Anche nei momenti di maggiore stanchezza ho però sempre pensato che ne valesse la pena. Chi mi conosce lo sa: sono come Sentenza ne “Il buono, il brutto e il cattivo” porto sempre a termine ciò che inizio. Se so già che non posso concludere qualcosa, preferisco non iniziarla proprio.

I momenti più difficili sono stati quelli in cui, sebbene il gioco prendesse sempre più forma, sembrava non andare da nessuna parte. Era davvero difficile proporlo a qualcuno e ottenere un po’ di visibilità nel settore. Ma è comprensibile: so per certo che come me, ci sono un’infinità di sviluppatori che cercano recensioni, articoli o anche solo una citazione per far conoscere il proprio gioco.

Abbiamo comunque perseverato e siamo riusciti a pubblicare una demo giocabile con 15 livelli su Steam nel novembre 2023. Questo passo è stato fondamentale per due motivi:

1. Ora avevamo qualcosa da mostrare. 2. Abbiamo iniziato a ricevere i primi feedback.

I riscontri erano generalmente positivi anche se non sono mancate le critiche. Ricordo ancora un giocatore che pur di dimostrarmi che il gioco non era un roguelite ha completato la demo più volte. La cosa buffa è che, quando gli ho chiesto: “Ma almeno il gioco ti è piaciuto?”, lui ha risposto: “Sì! Ma non è un roguelite!”

Alla fine, abbiamo modificato la descrizione da “roguelite” a “con elementi di roguelite”. Chissà, forse ora dorme meglio la notte.

Dopo la pubblicazione cosa è successo?

Dal momento della pubblicazione della demo, è come se si fosse sbloccato qualcosa: ● siamo stati selezionati per il Rome Videogame Lab, dove abbiamo potuto esporre il gioco nell’area indie ● grazie a Giorgio (che si è davvero dato da fare) abbiamo iniziato a iscrivere il gioco a molti eventi.

La svolta più grande è arrivata con il Tokyo Game Show. Un giorno ricevo un’email che diceva, in sostanza:

“Visto che non ci avete risposto, se non volete partecipare, il vostro posto lo diamo a qualcun altro.”

Guardo bene... e scopro che qualche giorno prima avevo ricevuto una altra email che avevo completamente ignorato. Eravamo stati selezionati per il Tokyo Game Show nei “Selected Indie 80”.

Cosa sono i “selected indie 80”?

I Selected Indie 80 sono la vetrina esclusiva per le produzioni indipendenti all’interno del Tokyo Game Show, uno degli eventi videoludici più importanti al mondo. Come suggerisce il nome, vengono selezionati solo 80 titoli tra centinaia di candidature provenienti da tutto il globo.

Schermata di esplorazione.

L’interfaccia è composta da diverse finestre come lo stato del giocatore, l’inventario e cio che indossa.

Questo riconoscimento celebra innovazione, creatività e potenziale, premiando alcuni dei prodotti indie più promettenti.

Tra centinaia di candidature eravamo tra gli 80 selezionati!

Ovviamente, ho risposto immediatamente con qualcosa tipo: “FERMATE TUTTOOOOOOOO... CI SIAMOOOOOO!”.

E per la prima volta ho pensato: “Cavolo! Quello che stiamo facendo allora non è poi così male!”

Come avete trovato un publisher?

E qui veniamo all’altro grande argomento. Credo di aver collezionato più rifiuti io che Snoopy con il suo “Caro collaboratore, le rimandiamo il suo stupido racconto”.

Se ottenere visibilità nel settore è difficile, riuscire a far innamorare o anche solo interessare un publisher al tuo gioco è un’impresa titanica.

Il post-Covid ha portato a una forte contrazione del mercato, rendendo gli editori molto più cauti negli investimenti.

Con alcuni siamo andati avanti negli step, ma alla fine tutto si arenava sempre per lo stesso motivo: quando si parlava di un eventuale supporto economico per completare il gioco, venivamo più o meno rimbalzati con: “Il nome troppo lungo non va bene, bisogna

accorciarlo!”, “Ma come mai questa strana scelta di mostrare tutta l’intefaccia sempre presente a video?” ecc.

Ma Tokyo ci ha aiutato anche in questo! Abbiamo avviato una trattativa che si è tradotta in un contratto con un publisher: 2P Games, che pubblicherà il gioco nel mercato asiatico (Cina, Giappone e Corea).

Non solo: grazie alla nostra partecipazione al Tokyo Game Show, finalmente i media di settore hanno iniziato a parlarne, recensendo la demo con feedback molto positivi. Poi è arrivato il Red Bull Indie Forge.

Quando hai deciso di candidarti al Red Bull Indie Forge?

Quando ci siamo candidati, non avevo nessuna certezza. L’abbiamo fatto quasi per caso. Sapevamo che il gioco aveva valore ma la concorrenza era altissima. Quando abbiamo saputo di essere tra i finalisti è stato un momento fantastico. Solo arrivare fino a quel punto era già una vittoria: ci avrebbe dato visibilità e ci avrebbe permesso di esporre il gioco alla Milan Games Week.

E poi… abbiamo vinto. Essere premiati dalla giuria (e che giuria!) è stato un riconoscimento straordinario. Finalmente, tutto il lavoro, tutte le ore sacrificate la sera e nei weekend avevano un senso.

La vittoria ti ha portato attenzioni e altre opportunità?

Sì, assolutamente.

Ora il gioco non è più visto come un progetto amatoriale ma come un indie maturo a tutti gli effetti:

● i media ci considerano con più interesse

● i publisher sono più aperti a parlarne

● la community si è allargata.

La vittoria ha cambiato le tue prospettive future?

Ti dà più sicurezza o più pressione?

Entrambe le cose. Da un lato, vincere un premio così importante ti dà più sicurezza: significa che quello che stiamo facendo ha valore. Dall’altro, aumenta la pressione. Ora ci sono più aspettative. Ma è una pressione positiva, anche se bisogna comunque stringere i denti. Ci motiva a dare il massimo per completare il gioco nel miglior modo possibile!

“FINALMENTE,

TUTTO IL LAVORO, TUTTE LE ORE SACRIFICATE LA SERA E NEI WEEKEND AVEVANO UN SENSO.”

Che consiglio daresti a chi vuole entrare in questo mondo?

Non sottovalutare il tempo e l’energia che servono. Fare un videogioco è lungo e complesso, soprattutto per i piccoli team. Come Arthur Bloch ci insegna, le fasi iniziali di un progetto sono sempre le stesse: 1. entusiasmo

2. disillusione 3. panico.

Bisogna sforzarsi in tutti i modi di rimanere sempre nella fase 1 anche quando le cose non sembrano procedere per il meglio. E mai mollare. Se ti ci metti con impegno, puoi raggiungere qualsiasi risultato.

Inoltre, ascoltare i feedback è fondamentale. Il gioco che hai in mente potrebbe non essere esattamente quello che i giocatori vogliono, quindi bisogna essere pronti a adattarsi ma senza mai snaturare la propria visione. Ci saranno sempre persone a cui il risultato finale non piacerà ed è normale: non si possono accontentare tutti e va bene lo stesso.

Un altro consiglio che mi sento di dare è prestare attenzione ai dettagli, perché sono quelli che fanno la differenza tra un gioco amatoriale e un prodotto professionale. Faccio un esempio legato al nostro gioco: immagina un personaggio che si muove all’interno di un labirinto. Se sbatte contro un angolo o un ostacolo, dovrebbe essere accompagnato naturalmente verso l’apertura, e non rimanere bloccato a camminare sul posto. Può sembrare un dettaglio banale, ma ha un impatto enorme sulla percezione del gameplay e sulla fluidità dell’esperienza di gioco. Sono questi piccoli accorgimenti a rendere un gioco più rifinito e piacevole da giocare.

Cosa provi nel vedere il tuo gioco giocato da altri?

È sempre uno stupore. Vedere persone che ridono per un dialogo o che si appassionano al gameplay è una delle più grandi ricompense. Spero anche che oltre alla possibilità di scegliere tra tre diversi archetipi di giocatore, venga apprezzata la varietà di meccaniche: ogni livello introduce qualcosa di nuovo mantenendo il gioco sempre fresco e (speriamo) imprevedibile.

Inoltre, spero davvero che i giocatori si facciano qualche risata seguendo la storia. L’intera avventura è intrisa di umorismo eccentrico e dialoghi pungenti, arricchiti da riferimenti alla cultura pop, nerd e ai grandi classici del mondo videoludico.

Una lettera d’amore al videogioco in tutte le sue forme che speriamo possa conquistare il cuore di tanti giocatori!

Qual è stata la cosa più sorprendente che hai scoperto durante lo sviluppo?

Quanto le persone possano affezionarsi anche ai dettagli più piccoli. Ci sono personaggi che pensavo passassero inosservati e invece sono diventati i preferiti di alcuni giocatori… e anche del team!

In un paio di casi, abbiamo addirittura modificato le storyline per renderli ancora più presenti e interessanti. Ma non posso dire altro per evitare spoiler!

Un’altra cosa che mi ha sorpreso è quanto sia difficile prevedere il comportamento dei giocatori. Ci sono situazioni che pensavo fossero chiarissime e invece hanno generato confusione, oppure meccaniche che credevo marginali e che invece sono diventate le preferite di molti. Questo mi ha fatto capire quanto sia importante osservare il modo in cui le persone giocano e non basarsi solo sulle proprie idee.

Pensi che lo sviluppo di videogiochi abbia influenzato la tua vita e la tua crescita personale?

Assolutamente sì e non solo con questo progetto. Penso che fare videogiochi sia una delle cose più difficili in assoluto, perché, per quanto si possa prevedere ogni possibile scenario, ci sarà sempre un giocatore che riuscirà a ingarbugliare tutto.

Ma questo è anche il bello: ti costringe a pensare in modo diverso, a trovare soluzioni creative a problemi imprevisti.

Sviluppare un gioco ti migliora in tanti aspetti:

● problem solving: impari a gestire situazioni complesse con soluzioni pratiche

● gestione del tempo: ogni minuto conta e devi capire dove investire le tue energie

● resilienza: affronti ostacoli su ostacoli e devi trovare la motivazione per andare avanti.

E poi ti insegna anche a collaborare con gli altri, perché un videogioco è un’opera collettiva: anche se hai una visione precisa, devi essere pronto a fidarti del team e lasciare spazio alla creatività di tutti.

Quali obiettivi ti sei posto per il futuro?

Il primo obiettivo è completare The Crazy Hyper-Dungeon Chronicles nel miglior modo possibile. Poi vedremo. Ho promesso a Luca che concluderemo la trilogia di un gioco per ragazzi che abbiamo rilasciato nel 2016 (Il Segreto di Castel Lupo), quindi è probabile che sarà uno dei prossimi progetti.

Ma prima ancora di pensare a un nuovo gioco, voglio finalmente recuperare alcuni grandi titoli che sono usciti negli ultimi tre anni e che non ho avuto il tempo di giocare! Dopo tutto questo sviluppo, voglio tornare dall’altra parte dello schermo e giocare un po’!

CONTATTI

Sito internet:

https://thecrazyhyperdungeonchronicles. com/it/

Instagram: @fixabug_3x1010

Steam page: https://store.steampowered. com/app/2510490/The_Crazy_ HyperDungeon_Chronicles/

Schermata di scelta background

MOSTRI DA CUCINARE!

Come mai vi chiamate Studio Pizza?

Siamo italiani e fieri di esserlo, quindi è stato naturale dare allo studio il nome di un piatto simbolo del nostro paese nel mondo.

Prima di produrre videogiochi che facevate?

Producevamo giochi da tavolo. Il nostro progetto precedente è RAVE: un gioco di carte in cui i giocatori devono organizzare la festa migliore al tavolo.

Realizzare un prodotto fisico ci ha permesso di sviluppare molte delle skill necessarie per affrontare la produzione del videogioco, oltre che incontrare i primi valenti collaboratori: il nostro colorista Alessandro Spedicato è parte del team dal giorno uno.

RAVE: il loro primo gioco di carte.

Come è nata l’idea di Monster Chef e come si è creato il gruppo di lavoro?

Monster Chef è nato quando abbiamo scelto di partecipare al bando di Bologna Game Farm. Volevamo presentarci con un concept accattivante e abbiamo scelto di sovvertire il canone fantasy nel quale il giocatore stermina orde di mostri facendoglieli, invece, cucinare. Il team si è creato naturalmente mentre lavoravamo, integrando i talenti di cui ci siamo resi conto di aver bisogno nel corso del primo anno di lavoro.

Com’è composto il vostro team e, soprattutto, come avete trovato i componenti?

Il nostro team è composto, al momento, da sette persone: Gregorio Zanacchi Nuti (Game Designer e Art Director), Lorenzo Viglietti (Programmatore), Roberto D’Agnano (2D Artist), Anna Fasano (Animatrice), Alessandro Spedicato (2D Artist e Colorist), Giulia Scatasta (Producer, UI/UX designer e Marketing Manager) e Marco Bergamini (Compositore e Sound Designer).

Parte del gruppo si è conosciuto per lavorare a un progetto precedente Monster Chef, mentre altri sono arrivati dopo la vittoria del bando di Bologna Game Farm. In generale ci siamo trovati tutti per conoscenze comuni, senza ricorrere a recruiting sui social o su gruppi Discord.

Intervista di Samuele Prosser a Gregorio Zanacchi Nuti di Studio Pizza

Se doveste descrivere il vostro videogioco In tre parole chiave, quali sarebbero e perché?

Gusto, gusto, gusto. Perché il gameplay deve essere appetitoso.

Di cosa parla Monster Chef, c’è qualcosa di voi in questo videogioco, se sì cosa?

Il fulcro di Monster Chef è il cibo: il protagonista trasforma minacce letali in manicaretti, salvando il mondo dai mostri e dalla fame allo stesso tempo. Sicuramente l’amore per la buona cucina ci accomuna, ed è stato uno degli stimoli principali per sviluppare il concept. Le meccaniche, poi, rispecchiano quello che ci sarebbe piaciuto fare in un gioco: esplorare un enorme mondo cartoon sempre diverso, popolato da nemici, carini ma feroci, da sconfiggere. In generale, siamo convinti che ogni gioco onesto rifletta tutte le influenze e il vissuto delle persone che lo hanno creato.

Lo stile salta subito all’occhio, cosa vi ha permesso di arrivare a questo livello?

La scelta dell’artist giusto e tanto labor limae: la resa grafica è un mosaico di scelte minuscole, che si combinano a formare la presentazione definitiva. Spesso cambiare alcuni dettagli riesce a migliorare notevolmente il colpo d’occhio, la sfida è capire dove integrare e dove sottrarre. La direzione artistica di Monster Chef ha attraversato diversi cicli iterativi, ognuno indispensabile per portare lo stile del progetto al livello successivo.

“ABBIAMO SCELTO DI CONTINUARE PERCHÉ CREDIAMO NEL PRODOTTO CHE STIAMO SVILUPPANDO E SIAMO CONVINTI DELLA SUA VALIDITÀ NEL MERCATO ATTUALE...”

Qual è stato il momento più difficile che avete affrontato e come lo avete superato?

Sviluppare un videogioco senza il capitale garantito da un editore o un finanziatore è un grande problema che affrontiamo ogni giorno con molto impegno.

Qual è stata la più grande sorpresa che avete avuto durante lo SVILUPPO?

Sentire il calore delle persone che seguono il progetto e lo aspettano. Senza aver rilasciato nulla è sorprendentemente semplice perdere di vista la risposta che il gioco genera al di fuori del proprio contesto locale. Ogni apprezzamento ricevuto in fiera, commento sui social o messaggio in dm è un invito a continuare nonostante tutte le difficoltà del processo.

Cosa vi ha spinto a continuare, ci sono stati momenti di difficoltà?

Come dicevamo prima, la mancanza di fondi è una causa di problemi ricorrente e in molti momenti ha creato situazioni in cui il futuro del progetto è stato incerto. Abbiamo scelto di continuare perché crediamo nel prodotto che stiamo sviluppando e siamo convinti della sua validità nel mercato attuale, in cui abbondano copie di copie di copie.

Come avete gestito le tempistiche e le pressioni esterne?

Con rigore e consapevolezza: quando si sviluppa da indipendenti è fondamentale essere in grado di formulare un piano produzione solido, che tenga conto degli imprevisti e permetta al lavoro di arrivare alla

pubblicazione nonostante tutti gli ostacoli. Fortunatamente, trattandosi di un videogioco autoprodotto, non abbiamo nessuna parte esterna al team a cui rendere conto.

Qual è l’aspetto dello sviluppo che vi tiene sempre agganciati al progetto?

Buona parte del team è semplicemente appassionata al proprio lavoro e lo approfondisce studiando ed esercitandosi anche nel tempo libero. Il videogioco permette a tutti di esprimere il proprio talento all’interno di un progetto corale che riesce a splendere attraverso le doti di tutti.

A fianco e sotto alcune schermate di gioco di Monster Chef
Il team di Studio Pizza durante la Milano Games Week (2023)

Qual è stato il momento più critico, come lo avete vissuto e trasformato?

Sicuramente il momento in cui abbiamo dovuto scegliere di proseguire, consci del fatto che non stavano arrivando finanziamenti. É stata una decisione complessa ma abbiamo deciso di andare avanti consapevoli del valore di ciò che stiamo facendo.

Come avete trovato il modo di finanziare il gioco, quale consiglio dareste a un team alle prime armi?

Il progetto è stato finanziato con il tempo e le risorse personali di tutto il team, un processo tutt’altro che semplice che ha richiesto grande determinazione. Se state iniziando a lavorare su un gioco comparate lo scope con le vostre risorse attuali: se non bastano a completarlo state sbagliando qualcosa. E non dimenticate il marketing!

Qual è secondo voi il miglior modo per crearsi una rete di sostenitori?

Essere trasparenti e comunicare la propria passione senza filtri. Il vero riconosce il vero.

Se il vostro videogioco fosse una pizza, quale sapore avrebbe?

Domanda difficile: ne avrebbe almeno sette, uno per ogni membro del team.

Se poteste tornare indietro nel tempo e dare un consiglio a voi stessi, quale sarebbe?

Non avere alcuna fiducia negli editori: il loro modo di condurre il business è nella maggior parte dei casi antietico e predatorio. Agli scout che lavorano intrattenendo relazioni con i team di sviluppo non è richiesto nessun rispetto per le necessità o le tempistiche dei developer circa i finanziamenti, al punto che c’è chi ha trascinato uno scambio di mail completamente inconcludente per quasi un anno. In molti casi l’impressione è che si abbia attenzione unicamente alle opportunità di guadagno, dimenticando che i team sono composti da esseri umani.

Immaginate di poter mostrare a una qualsiasi persona sulla Terra il vostro gioco

Mi piacerebbe farlo provare a uno sciamano della Polinesia: se riesce a giocare senza difficoltà vuol dire che abbiamo completamente risolto l’onboarding.

Avreste quattro consigli fondamentali per chi sta sviluppando un videogioco?

Radunare un buon team, perché se in solo si sviluppa bene in team si sviluppa meglio. Essere attenti alla validità dell’idea iniziale, perché imbarcarsi nel viaggio sbagliato è un errore che si paga caro. Non sottovalutarsi mai, perché conta di più la forza di volontà che le proprie skill attuali. Ed essere pronti a tutto: il game dev è un mondo straordinario.

CONTATTI

Sito internet: www.studiopizza.net

Discord Server: https://discord.com/invite/u53bjEXKrM

Steam page: https://store.steampowered.com/ app/3063720/Monster_Chef/

VIDEOGIOCHI IN CARCERE E CARCERE NEI VIDEOGIOCHI

di Francesco Toniolo francescotoniolo.com

Qualche tempo fa ho avuto l’occasione di fare due chiacchiere con “Coso”: appassionato di videogiochi ed ex carcerato, che ha trascorso dodici anni a Rebibbia.

Era stato “Coso” (ha voluto farsi chiamare così) a contattarmi, per raccontare la sua esperienza. Ho trovato davvero preziosa la sua testimonianza e non sono stato il solo. Dopo la pubblicazione del video con la nostra chiacchierata (lo potete trovare sul mio canale YouTube) mi ha scritto più di una persona, dicendo che aveva tentato, senza successo, di realizzare qualche progetto per portare i videogiochi in carcere.

A questo punto, la domanda diventa: perché si dovrebbero portare i videogiochi in carcere? E come? Vedo che online molti si indignano, quando si viene a sapere che un certo detenuto ha fatto una partita alla Play Station. Cosa che avviene più all’estero che in Italia, per inciso. Per come viene raccontato dai media (cioè male in molti casi), passa l’idea del carcere come una sorta di albergo di lusso, in cui te ne stai bello tranquillo a giocare ai videogiochi.

La realtà raccontata da “Coso” è ben diversa. Così come sono ben diversi i progetti che erano stati proposti. Non si parla di mettere una Play Station (o una Nintendo Switch, o una Xbox…) in ogni cella. Si parla di utilizzare i videogiochi come palestre emotive, all’interno di

Video Game Therapy. Teoria e pratica clinica di Francesco Bocci, Elena Del Fante e Ambra Ferrari. UTET Università, 2024.

percorsi riabilitativi guidati. Oppure di usare i videogiochi (magari i cosiddetti “serious games”) per insegnare a programmare. Ricordiamo che, teoricamente, il carcere dovrebbe condurre a un percorso di reinserimento nella società: hai infranto la legge e per questo sei stato punito, ma al termine del percorso hai modo di tornare a integrarti. Questo in teoria. La pratica è molto diversa. Ci si trova in un ambiente alienante, in cui molti detenuti non reggono la pressione e finiscono per togliersi la vita. Quelli che resistono, escono dal carcere spesso frustrati, senza prospettive future e talvolta senza nemmeno aver compreso perché sono finiti in galera.

Da questo punto di vista, l’idea dei “videogiochi in carcere” assume un altro significato. Visto che esistono già tanti percorsi, anche terapeutici, in cui si utilizza il gaming, l’idea di fare qualcosa anche per i carcerati non sarebbe così assurdo. Parlando di questi percorsi mi viene per esempio in mente Video Game Therapy, il progetto di un gruppo di psicologi sotto la guida di Francesco Bocci (psicologo psicoterapeuta di orientamento Adleriano), giusto per ricordare che anche in Italia esistono percorsi di questo genere, non si parla solo di qualcosa che avviene nel mitologico “estero”.

Tra le righe, parlando di queste possibili iniziative, è emerso anche un discorso sulla rappresentazione delle carceri. Sono effettivamente un mondo su cui poche persone hanno una conoscenza diretta. Per molti, l’immagine mentale che hanno di simili realtà è quella fornita dai media: film, serie tv, romanzi e…ovviamente videogiochi.

"NON SI PARLA DI METTERE UNA PLAYSTATION IN OGNI CELLA. SI PARLA DI UTILIZZARE I VIDEOGIOCHI COME PALESTRE EMOTIVE, ALL’INTERNO DI PERCORSI RIABILITATIVI GUIDATI."

Faccio una veloce panoramica sulle modalità con cui troviamo il carcere all’interno del medium videoludico. Per fare ciò, sintetizzo le tre categorie che troviamo in un articolo di Mauro Salvador (Luogo, prova, espediente, punizione – Le molteplici facce del carcere nel videogame, «Comunicazioni Sociali on-line», 4, pp. 41-52) dedicato a questo argomento.

1. I casi in cui l’intero videogioco è ambientato in un carcere da cui bisogna fuggire. Un famoso esempio è Batman: Arkham Asylum, in cui Batman si trova intrappolato in un penitenziario psichiatrico in cui erano rinchiusi i suoi più acerrimi nemici.

2. Il carcere come sostituzione del game over. Invece di eliminarci, i nemici ci catturano e dobbiamo evadere dalla prigione. Lo vediamo per esempio all’inizio di The Legend of Zelda: The Wind Waker, quando Link si trova disarmato all’interno della Fortezza dei Demoni.

3. Il carcere come passaggio obbligato per avanzare nel gioco. Come in Fable II, in cui a un certo punto il protagonista viene catturato e rinchiuso nella Malatorre.

Nella maggior parte dei casi, le carceri videoludiche sono ambienti come tutti gli altri. Non vengono utilizzati per riflettere sulle reali realtà carcerarie. Sono semplicemente inseriti quando serve avere uno spazio chiuso e sorvegliato, visto che il carcere richiama immediatamente questo immaginario. E in effetti, anche se non sono esplicitamente inseriti con quella funzione, i luoghi carcerari nei videogiochi hanno qualcosa da raccontare sulla realtà, se ci si ferma un secondo a riflettere. Penso per esempio alla collocazione di queste strutture, solitamente isolate rispetto alla dimensione cittadina, proprio perché i carcerati sono esclusi dalla vita civile. Una delle grandi sfide, non a caso, riguarda proprio il loro reinserimento nella vita della comunità.

Non dimentichiamo inoltre la pervasività della sorveglianza, che ha trovato come massimo rappresentante il Panopticon, ovvero il carcere immaginato da Bentham, realizzato in modo che i prigionieri si sentono perennemente osservati ma non possono vedere il loro osservatore. Non è un caso che il Panopticon venga sempre citato, quando si parla di dispositivi di sorveglianza e controllo, tra cui le carceri reali, in cui la disparità del potere è anche una disparità “informativa”. Carceri, manicomi e dintorni sono stati progettati per favorire la sorveglianza da parte dei controllori e la già citata separazione col mondo esterno. Anche questa cosa si riflette nei videogiochi. Come detto, lo spazio carcerario è generalmente separato da tutto il resto e alle volte diventa totalizzante tanto da rappresentare l’intero mondo di gioco, che si contrappone a un generico “esterno” di cui non facciamo esperienza diretta.

Come spesso succede, di quando in quando escono dei videogiochi che provano a seguire una strada differente. Per quanto legato ai manicomi e non propriamente alle carceri, è impossibile non ricordare qui l’italiano The Town of Light, ambientato nell’ex manicomio di Volterra. A ben vedere, i punti di contatto tra carceri e manicomi sono numerosi, nell’ottica dell’allontanamento dalla società e del controllo panoptico. The Town of Light è stato apprezzato da diversi giocatori in tutto il mondo e viene citato, tra gli altri, nel libro Checkpoint: How video games power up minds, kick ass, and save lives di Joe Donnelly, su come i videogiochi abbiano il potere di salvare letteralmente la vita. Al fianco di The Town of Light possiamo ricordare, come altro esempio italiano, il più recente IncrASTible! L’incredibile Monastero di Astino. Come suggerisce il titolo, siamo davanti a un videogioco pensato per la promozione del territorio, ma una parte dell’avventura racconta la storia della “malinconica Ada” e copre il periodo in cui il Monastero di Astino divenne un manicomio.

“LO

SPAZIO CARCERARIO È

GENERALMENTE SEPARATO DA TUTTO IL RESTO E ALLE VOLTE DIVENTA

TOTALIZZANTE,

TANTO DA RAPPRESENTARE L’INTERO MONDO DI GIOCO, CHE SI CONTRAPPONE A UN GENERICO 'ESTERNO' DI CUI NON FACCIAMO ESPERIENZA DIRETTA.”

Tornando alla specificità del carcere, un primo tentativo italiano di raccontarlo tramite il medium videoludico è stato compiuto con Fammi vedere la Luna, un browser game realizzato in collaborazione coi ragazzi detenuti presso l’Istituto Penale Minorile (IPM) di Airola, in provincia di Benevento. In Fammi vedere la Luna ci mettiamo nei panni di un giocatore che, sera dopo sera, fa delle partite insieme a un altro gamer che si fa chiamare Aquila04. Conversando con lui, si scopre che Aquila04 ha sedici anni e si trova in un carcere minorile. Di Fammi vedere la Luna ha parlato anche la psicologa Viola Nicolucci in un articolo di «Valigia Blu», in cui commenta quella che è la situazione generale delle carceri italiane, tra gaming, accesso a internet e dintorni.

«That’s all folks!», diceva la sequenza di chiusura dei Looney Tunes. Per il momento è tutto, non c’è molto altro da poter dire. Varrà la pena tornare sull’argomento in futuro per vedere se nel frattempo sarà cambiato qualcosa, qui in Italia.

Il prof. Francesco Toniolo, esperto di videogiochi, insegna in diverse università e accademie italiane. Ha scritto numerosi contributi sul medium videoludico (ma anche su manga, fandom, letteratura ecc.) tra cui si ricordano una quindicina di libri, oltre 30 articoli accademici, oltre 20 capitoli in libri miscellanei e un gran numero di pubblicazioni divulgative.

Link all’intervista di Coso su youtube

Schermata di gameplay del videogioco Batman Arkham Asylum (2009)

IL DESIGN ORTOGONALE

Cosa significa ortogonale? Citando la Treccani: “In geometria elementare, detto di ciascuno dei due enti che formano tra loro un angolo retto”. Trasliamo il concetto in maniera teorica sul design. Ora pensa a un gioco. Un gioco qualunque. Poi una serie di elementi simili. Le armi, i personaggi o le abilità. Prendi due di questi elementi e confrontali: fai una lista di ciò che li caratterizza. Disponi questi risultati su diversi piani (uno per ogni oggetto). Se un piano interseca in maniera ortogonale il piano di un altro oggetto, hai ottenuto un design ortogonale a seconda delle qualità in comune e non avrai due elementi più o meno ortogonali. Tanto più l’angolo è retto, tanto più è la diversità. Due elementi di un gioco sono ortogonali se si intersecano in maniera figurata. Un concetto semplice ma interessante da approfondire.

DOOM ORTOGONALE

Lo sviluppatore Harvey Smith, nella lontana Game Developer’s Conference del 2003, ha coniato il termine “orthogonal unit differentiation” per descrivere il modo in cui Doom applica il design ortogonale ai demoni che il giocatore “fragga”.

STREET FIGHTER ORTOGONALE

Prendiamo come esempio Street Fighter o un qualunque picchiaduro a incontri. Non importa molto quale, gli esempi valgono per la maggior parte dei giochi del genere. Ryu e Ken non sono molto ortogonali: hanno sempre avuto mosse molto simili. Che poi uno sia più adatto a giocare in modo difensivo e l’altro offensivo ok, ma c’è poca ortogonalità.

Entrambi hanno un hadoken, uno shoryuken, un tatsu, pugni e calci che coprono una buona distanza, e forti attacchi aerei. Questi due, e caratteri simili, vengono definiti in gergo shoto, dallo stile di karate shotokan.

Compariamo invece Zangief e Dhalsim. Sono ortogonali al massimo, e si capisce solo a vederli. Zangief utilizza attacchi a lunga distanza e proiettili, Zangief vuole avvicinarsi e minacciarti col suo spinning

Quello che lo rende uno dei più grandi giochi di tutti i tempi non è solo l’innovazione portata nel genere degli FPS ma anche il modo in cui il design di ogni nemico rende ogni incontro un puzzle a alta tensione. Ogni nemico è ortogonale rispetto all’altro, ma cosa significa? Un cacodemone è diverso da un normale demone, che è diverso da un imp (o diavoletto). Di conseguenza, il giocatore deve adottare strategie complesse e situazionali per affrontare ognuno di essi.

Un design meno ortogonale avrebbe nemici simili che devono essere affrontati nello stesso modo. Magari hanno armi leggermente diverse, ci vogliono più o meno gli stessi proiettili per ammazzarli, ma il giocatore percepisce lo scontro come noioso e poco sfidante.

piledriver, un attacco che non può essere bloccato e si porta via un terzo della tua vita. Ancora: Dhalsim si muove in modo strano, può teletrasportarsi e levitare a mezz’aria, mentre Zangief è abbastanza lento e lineare.

di Volta Verve
Stesso set di mosse
Proiettili distanti vita alta
Proiettili da vicino vita bassa
Corpo a corpo vita media

STYLE - PON

Ora immaginiamo di aggiungere ortogonalità a un gioco. Prendiamo pong: un giocatore ha, di base, esattamente le stesse capacità dell’altro. Che poi sia o meno abile nel gioco, e che abbia strategie diverse, mettiamolo da parte.

Elettrico: se non muovi la sua racchetta per qualche istante, si supercarica dando più forza al prossimo rimbalzo.

Möbius: puoi far riapparire la tua racchetta all’altro capo dello schermo, se la muovi oltre il limite superiore o inferiore dello stesso.

Perfetto: guadagni il doppio dei punti, ma li perdi tutti se l’avversario segna.

Stretch: all’inizio del gioco, la tua racchetta è larga il doppio. Ma si riduce ogni secondo, fermandosi solo una volta raggiunta la metà della larghezza normale.

Ciambella: la tua racchetta ha un buco nel mezzo, ma ogni rimbalzo ha il doppio della forza.

Può muovere la sua racchetta digitale e colpire la palla così come l’avversario ed è soggetto alle stesse regole. Ma se non fosse così? Introduciamo Stylepong. Ogni giocatore sceglie uno stile da una lista, prima di iniziare la partita.

Questi stili non sono necessariamente bilanciati l’uno rispetto all’altro e non è detto che Stylepong sia un gioco migliore del buon vecchio Pong. Ma è diverso – più ortogonale.

PRO

Immagina di giocare a Stylepong con un amico. Fai rimbalzare la palla dall’altro lato e l’avversario, che ha lo stile Möbius, deve capire se fa prima a andare da un lato dello schermo e riapparire. Decide per la seconda opzione: la racchetta riappare proprio quando la palla sta per passare oltre, spingendola giù in verticale. Questo è gameplay emergente: una situazione totalmente nuova e singolare, forse anche non prevista dagli sviluppatori del gioco, generata dal design del stesso.

Di solito, più sono ortogonali i vari elementi di un gioco, più gameplay emergente ci sarà. Questo è uno dei tratti principali delle immersive sim o dei migliori giochi sandbox. Magari il tuo amico è molto sicuro delle sue abilità difensive e quindi sceglie lo stile Perfetto. Oppure non muove molto la racchetta, quindi Elettrico si abbina al suo modo normale di giocare. Un po’ come i diversi personaggi in un MOBA, picchiaduro o certi FPS, abbiamo dato a ogni giocatore la possibilità di specializzarsi in un aspetto del gioco, a seconda delle loro preferenze.

CONTRO

Dal punto di vista teorico, questo concetto è più facile da applicare alla parte concreta e “meccanica” di un gioco. Si potrebbe utilizzare anche per analizzare, per esempio, le diverse versioni della stessa storia possibili in una visual novel, o i diversi costumi che si possono applicare al proprio personaggio in un MMO. Ma il terreno è meno solido, si scivola, si tratta più di concetti estetici e quindi non abbiamo numeri a fare da ancora.

Dal punto di vista pratico ci sono due principali problemi: lavoro richiesto e complessità. Se stai creando un gioco open world a un giocatore consenti la scelta fra tre tipi di automobili per attraversarlo, sarebbe forse più interessante dargli invece una macchina, un elicottero e una barca...ma richiede molto più lavoro. Inoltre, cambierebbe il design del gioco stesso, che dovrebbe mettere in conto il fatto che il giocatore possa volare o attraversare specchi d’acqua, introducendo molta complessità sia per te che sei il designer, sia per praticamente ogni altra persona che lavora al gioco.

Quindi, bisogna prestare attenzione quando si vuole fare un design ortogonale. Bisogna considerare quanto aggiunge rispetto a uno più uniforme. Stylepong è molto più complicato da sviluppare di Pong e si perde qualcosa nell’abbandonare il design più minimalistico, semplice, che vuole come differenze solo l’abilità dei giocatori.

HO PAURA DEI GIOCHI CONFORTEVOLI

Quando ho visitato il Computerspielemuseum di Berlino, uno dei musei di videogiochi più grandi d’Europa, a un certo punto mi sono ritrovato fermo immobile per svariati secondi davanti a un cabinato spento. Era la PainStation, il frutto dell’esplorazione multimediale di alcuni artisti tedeschi che nel 2001, sicuramente in circostanze di estrema sobrietà, si sono detti: “Ma se costruissimo una versione di Pong in cui quando un giocatore subisce un punto si becca un piccolo elettroshock, come sarebbe eh?”. Una versione migliorata dell’opera si trova appunto al museo dal 2011 dove viene mantenuta funzionante, e la targa informa che basta contattare lo staff se si vuole accenderla per fare una partita. Lì davanti al cabinato spento, mi resi conto che volevo effettivamente giocarci. Volevo giocare a un videogioco che mi avrebbe fatto del male a ogni errore. Per un momento, mi è sembrato che fossero gli altri videogiochi a essere “sbagliati”: perché non ricevo un feedback fisico, reale, quando, messo alle strette da un gioco, sbaglio? Che senso ha quindi scegliere di immergersi in situazioni così interessanti in quanto complesse e insolite se poi, in caso di errore, non succede nulla perché “è solo un giochino” – termine usato ai miei tempi per sminuire i videogiochi.

Ho scoperto il termine Cozy Game relativamente tardi: nel 2022 mi sono svegliato stranamente presto un sabato e senza sapere che fare mi sono collegato a un importante showcase internazionale di giochi indipendenti che sapevo essere in onda. Dopo circa mezz’ora ricordo di aver pensato “ma perché tutti questi giochi mi sembrano noiosissimi?”. Ho così scoperto di trovarmi davanti al segmento dei “Cozy Games”. Definire i Cozy Games non è banale, la parola “cozy” agli anglofoni trasmette una gamma di sfumature più ampia di quanto generalmente si pensi. Volendo rimanere in Germania ci sarebbe il termine “Gemütlichkeit”, in italiano non sembra ci sia una traduzione ufficiale quindi mi ci avventurerò io, scegliendo “giochi confortevoli”. Ma tolta di mezzo la questione “definizione”, i giochi confortevoli sono, da un certo punto di vista, tra i più difficili da identificare, in quanto effettivamente trattano temi che vanno dall’agricoltura alla gestione di un bar (o “café”) fino alla salute mentale di chi fa parte di una minoranza e, allo stesso modo, prendono meccaniche da generi che vanno dagli FPS ai platform o ai gestionali. Però, paradossalmente, sono anche tra i più facili da identificare: colori pastello, bordi arrotondati ovunque, i personaggi tutti carucci – inclusi i cattivi! – e sottofondi "soft" di musica sempre allegra. Ma soprattutto, la competizione diretta è bassissima o assente, anche solo contro il tempo e in generale ogni ostacolo non fa poi così male, ad esempio perché c’è grande abbondanza di risorse. Tutto va come ci si aspetta, l’inaspettato è quasi assente. Sono, in sintesi, tutto il contrario della PainStation del Computerspielemuseum. E mi hanno fatto paura da subito.

Mi fanno paura come quei café che si vedono su Instagram e che esistono ora uguali a Bogotá come a New York, o Cracovia, o Lagos o Manfredonia, quelli che hanno il Flat White e le uova più pane con l’avocado nel menu, l’arredamento a volte anche di seconda mano o tutto spaiato ma sempre effetto (finto?) legno vivo, Bon Iver in sottofondo e le piante ovunque in vasetti – appunto – di color pastello.

E non è che mi facciano paura la uova strapazzate o le piante, mi fa paura vedere il mondo rimodellarsi, giorno dopo giorno, sotto i miei occhi, per essere più instagrammabile, ovvero il reale che si sforza di essere all’altezza del virtuale, succhiando via l’inusuale dalle città del mondo, così che entrare in una porta a Lagos o Manfredonia ti ponga davanti agli stessi identici colori, odori e alle stesse cazzo di piantine. Non mi sorprende quindi che svariati giochi confortevoli di successo si basino sul gestire un café o un ristorantino che fa brunch o, alla peggio, una classica “taverna” fantasy. Mi sembra siano questi i “santuari” che abbiamo deciso di creare in opposizione ai fast-food giganti degli anni ’90: gli arredi tutti plasticosi, assordanti rumori causa radio in sottofondo e gente che, beh, invece di ticchettare silenziosamente sui computer si urla addosso. O, nel caso dei videogiochi, in opposizione ai vari Call Of Duty uno-parte-dodici con la rappresentazione a più alta risoluzione di sempre di un fucile d’assalto calibro M67 jugoslavo con cui o spari per primo o sei il primo dei “noob”. Sembrerebbero essere i nostri luoghi di resistenza in cui possiamo barricarci fino a che non avremo abbastanza soldi da spendere a botte di 6 euro in cappuccini. É veramente questo tutto quello che ci è rimasto? L’unica contro-mossa radicale è prendersi cura di sé stessi coltivando per ore e ore ortaggi pixelati o scegliendo risposte pre-determinate alle sventure raccontateci da chi frequenta il nostro bar virtuale? É uno scenario che mi terrorizza: un mondo dove esistono solo, da una parte, videogiochi (perlopiù “mainstream”) in cui celebriamo senza reale critica la sopraffazione e il kill-or-be killed della società che ci sta, dicono, facendo impazzire, e dall’altra, solo videogiochi confortevoli (perlopiù “indie”) da usare come balsamo per le nostre vite di produci-stressati-consuma che abbiamo ormai accettato non siano riconfigurabili. Il videogioco indipendente si ridurrà a essere gli psicofarmaci che le madri avvocatesse prendevano con il cognac nei film di una volta? Non ce la faccio, mi fa troppo male.

A voi che fate giochi, sono quindi qui a chiedere: fate giochi “non confortevoli”, almeno un po’. Basta poco. Uno sprite mal disegnato tipo Void Stranger. Una faccia che senza motivo ruota da sinistra e destra durante un dialogo come in Hotline Miami. Una traccia audio che gracchia. Un pulsante del salto in un platform che a volte non funziona e ti fa perdere male perché “pure Ronaldo a volte inciampa”. Un guerriero che mena chiunque tipo Kratos che inaspettatamente ogni tanto in una cutscene si inchina per pregare verso la Mecca. Una scena di sesso alla The Witcher dove però l’eroe muscoloso, tra grugniti e prese, alla fine fa cilecca e la “principessa” accarezzandolo gli dice “tranquillo, succede anche agli eroi muscolosi”. Un mattone che senza ferire nessuno entra rompendo una finestra di un café virtuale con sopra scritto “basta cappuccini a 6 euro!” e un “head barista” che due giorni dopo decide di fare sciopero a fronte di un aumento del 30%.

Fatelo, se anche voi avete questa irrazionale preoccupazione rispetto a un mondo dominato dai giochi confortevoli. E se davvero sarete obbligati a spiegare razionalmente – impossibile – perché lo avete fatto a potenziali partner o altri sviluppatori o chiunque, non abbiate paura di sviare con qualche frase fatta. Ne stampavano una buona tanti anni fa sulle magliette da bancarella: “Non mi avrete mai come volete voi”.

Y

Piccole esperienze da itch.io giocabili

direttamente dal browser

NOTHING TO SAY

Dating simulator

Sei impacciato e devi rivivere continuamente il tuo appuntamento con Zoe fino a quando la conquisterai. Come? Frasi giuste al momento giusto a patto di avere le lettere per pronunciarle. Romantico.

FORZA

DESTREZZA

INTELLIGENZA

SORT THE COURT

Politics simulator

Un re e il suo duro compito: dare risposte, affermative o negative a semplici domande. Ce la farà a governare con saggezza ma anche rigore questo regno eterogeneo e vivissimo? Inaspettato.

LINEOFF

Bullet hell

Pochi pixel, un’atmosfera asettica e un semplice scopo: collezionare scintilline per sbloccare nuove palette di colori con le quali personalizzare la propria esperienza. Essenziale.

FORZA

DESTREZZA INTELLIGENZA

FORZA DESTREZZA INTELLIGENZA

PANDEMONIUM

Rythm game

Un pizzaiolo con una padella? Tranquilli, la padella serve solo per colpire, uno dopo l’altro, i simpatici cittadini! Tempismo e abilità! Eretico.

YFORZA DESTREZZA INTELLIGENZA

di Elia Coan

RECENSIONE: CORSO DI "3D GRAPHICS PROGRAMMING FROM SCRATCH"

Vi è mai capitato di andare nelle impostazioni di un programma e trovare la scritta “renderer” affiancata da opzioni come “fallback”, “software” o “CPU”?

A me più di qualche volta, ad esempio su Blender, su qualche desktop environment Linux (Cinnamon, Gnome, ecc.) e anche su emulatori di console come Duckstation.

Se siete curiosi di approfondire come funziona questa specifica modalità allora “3D Graphics Programming From Scratch” potrebbe essere di vostro interesse.

STRUTTURA

DEGLI ARGOMENTI

Il corso ha un approccio veramente “from scratch”: si parte da un cartella vuota e per ogni argomento vengono fornite ottime spiegazioni di teoria per poi passare alla scrittura del codice di programmazione in linguaggio C.

Gustavo Pezzi, l’autore delle lezioni, vi mostrerà come configurare l’ambiente di sviluppo creando un make file ed installando le librerie SDL; queste serviranno solamente come aiuto per creare un finestra e gestire l’input in maniera cross platform.

Dopo aver implementato game loop e color buffer, si getteranno le basi del rasterizer creando delle funzioni per disegnare a schermo un pixel, poi una griglia, un rettangolo, una linea e infine un triangolo. Man mano che saranno necessarie, verranno spiegate ed implementate strutture dati e funzioni per vettori e matrici.

Si proseguirà fino ad arrivare ad avere una scena 3D con movimento di camera, un modello 3D, texture applicate sia attraverso affine texture mapping sia attraverso una correzione prospettica (niente texture warping in stile PSX).

di Davide Cristini
Schermata di Duck Station, renderer information
Schermata del Corso “3D Graphics Programming From Scratch”

Esempio di rendering: wireframe, composizione solid e aggiunta della texture

NON SAREBBE MEGLIO STUDIARE VULKAN/

DX12/METAL?

Di base un software renderer è un programma che utilizza solamente la CPU per calcolare i colori, pixel per pixel, da inviare allo schermo per la visualizzazione. Molti di voi sapranno che le GPU sono molto più veloci delle CPU per questo genere di compiti, quindi perché seguire un corso che mostra un approccio inefficiente?

La verità è che non saprei darvi delle vere motivazioni, ma posso dirvi che personalmente l’ho fatto per uno scopo didattico: sviluppare un renderer senza usare librerie grafiche mi ha obbligato a capire ed implementare le singole parti di una pipeline grafica.

In precedenza avevo conoscenze superficiali di concetti come rasterization, clipping, determinazione delle coordinate UV, determinazione delle superfici visibili; ora sento di avere una panoramica più chiara delle parti che oggi vengono solitamente nascoste dalle GPU e le loro API.

Un ulteriore lato positivo è dato dal fatto che si ottengono le conoscenze necessarie per comprendere il codice di programmi che solitamente utilizzano un software renderer; mi vengono in mente emulatori, vecchi giochi, programmi 3D, macchine virtuali e desktop environment. Probabilmente esistono anche altri programmi che ora mi sfuggono.

CONCLUSIONI

Il corso di Pikuma è ben fatto, ma non è per tutti. Lo consiglierei a chi ha interesse a avvicinarsi alla computer grafica con un approccio didattico bottom-up. Faccio fatica, invece, a suggerirlo a chi preferisce focalizzarsi sul gameplay programming o predilige sviluppare giochi da ambienti come Construct, Unity, Godot, ecc. Alla fine non è importante come metterete a schermo i triangoli del vostro gioco, l’importante è che vi divertiate a svilupparlo. Buon gamedev!

BEFORE YOU BUY: IL PLAYER VIDEO

Su Firefox+OSX il player video web utilizzato da Pikuma non funziona correttamente, almeno al momento della scrittura di questo articolo ovvero gennaio 2025. Se comprate questo corso tenete a mente che dovrete utilizzare un altro browser per visualizzarlo.Inoltre non viene offerta la possibilità di scaricare i video per la consultazione offline. In questo caso però vi lascio un paio di riflessioni: la prima è che i browser web hanno un inspector di rete; la seconda è che esiste yt-dlp che permette di scaricare video presenti sul web.

Link al corso: https://pikuma.com/courses/ learn-3d-computer-graphics-programming

INFORMAZIONI DEL CORSO

Difficoltà: 3/5

Lingua: Inglese

Durata: 38h di video

Consigliato: a chi vuole approfondire le basi della grafica 3D attraverso la creazione di un software renderer eseguito interamente sulla CPU. Sconsigliato: a chi cerca materiale per migliorare la resa di VFX, particelle e shader. Non troverete nulla di vostro interesse

Linguaggio di programmazione: C Librerie utilizzate: SDL, upng Prezzo: circa 80$

L’IMMAGINE NARRATIVA

Secondo Georges Bataille, (Lascaux, ou la Naissance de l’Art, 1955) l’espressione creativa “artistica” nasce nella notte dei tempi come gioco, magia, celebrazione vitale, la stessa cosa che ognuno di noi ha provato individualmente la prima volta che ha tracciato un segno colorato su una superficie.

Realtà = disordine.

Racconto della realtà = tentativo di controllo, ordine.

La ricerca di espressione creativa di cui mi occupo è per natura disordinata. Gli esiti di questa ricerca sono tracce, avanzi, relitti, specchi di diversa grandezza posti a varie distanze. E nel contesto professionale oggetti di scambio, artwork. Ma andando oltre la destinazione d’uso di un artwork, c’è differenza fra un’immagine narrativa e una non narrativa? Credo di no: credo che non esista un’immagine non narrativa.

Un’immagine intenzionale, una macchia di colore, un segno. Tutto è frutto di almeno una scelta, quindi è storia.

Ma che cos’è una storia?

David Mamet nel suo Three Uses of the Knife, del 1998, ne dà una buona definizione come – parafraso – l’incontro di un protagonista con ostacolo e il conflitto seguente, ovvero l’azione principale.

Similmente, Francis Scott Fitzgerald, nelle note al suo The Last Tycoon, 1941, asserisce “azione è il personaggio” ovvero, riprendendo quanto sopra, i modi del suo confliggere definiscono la natura del personaggio. Nel nostro caso, potremmo dire che i segni di un’immagine confliggono e dialogano tra loro, e tali connessioni sono la narrazione.

NARRAZIONE IMPLICITA

Un’immagine narrativa è centrata su un’azione. L’azione e il movimento la dirigono per raccontare una storia. Vi faccio un esempio. L’altra sera stavo camminando lungo un viale, lo sguardo mi si è fermato per caso su due piante, dei cipressi. Notavo la loro forma, la loro ombra proiettata vagamente sul muro vicino, il buio, le increspature, il fitto fogliame. Ho cercato in qualche modo di interiorizzare tutte queste suggestioni, fallendo. La stessa cosa può capitare fissando pavimenti di graniglia o di marmo, si cerca di vedere il reale per

quello che è, ma la nostra mente si rifugia nella pareidolia e si figura forme conosciute, rassicuranti.

Interiorizzare l’infinita realtà così com’è risulta impossibile essendone anch’io parte: serve la mediazione di confini, senza i quali ci si immerge in un qui e ora forse piacevole, ma poco definito.

Prendiamo un mio dipinto a olio, qui sotto: è il tentativo di rappresentare un istante “interiore”, condizionato da un’impressione del momento. Non tenta di sostituire la realtà. Quindi la narrazione non è “due case, un cielo, degli alberi, dei pali della luce”, ma è il

A fianco: storyboard per agenzia, 2002.

"Si apprezzi, non la terribile immagine, ma che abbia messo a soqquadro lo sgabuzzino per trovarla".

di Marco Pedrana
Sopra: olio su tavola, 15x15 cm, 2009.

movimento guidato dello sguardo per mezzo della sintassi tipica del medium:

● che cosa è pastoso e fatto di velature e punti, perché?

● come sono realizzate le ombre?

● quali sono i valori tonali, e dove si intravede l’under painting?

● quali i colori, in rapporto alla mia idea di armonia cromatica?

Questi interrogativi sono complici di chi guarda: nascosti e immobili, fintanto che non interrompano la credibilità dell’immagine. Per mezzo della sintassi lo sguardo si muove con un senso e crea una narrazione nella testa del fruitore.

UNIVERSALITÀ

DELLA SINTASSI

Arrivo al mio terzo e ultimo punto: queste regole sintattiche fanno rima tra loro nei diversi medium. Si parla di armonia nella composizione di un brano musicale, come in quella di un’immagine: sia questa un dipinto di Rothko, di Giotto o una concept art digitale. Il ritmo è tale e quale in una sceneggiatura di Topolino, in un film di Kubrick o nella trama che compone un modello tridimensionale fatto con Blender.

Sono comuni in tutti i lavori alcuni strumenti: l’uso del contorno, del modulo, della ripetizione, del ritmo, della giustapposizione di contrasti (lontano e vicino, piano e forte, grosso e piccolo) e dello spazio negativo. Non fanno eccezione a questi principi i medium informatici quali: modelli 3D, pixelart, musica elettronica ecc.

CONCLUSIONI

Quattro domande che ti possono portare sulla buona strada:

Guardando un asset 3D mi aspetto che sia coerente con ciò che emula, ovvero che mi racconti una storia compatibile, fatta di ingombri, di illuminazione e materiali. Che mi suggerisca di chi è quell’oggetto, da quanto tempo esiste, del perché si trova in quell’ambiente e perché dovrebbe essere rilevante e, infine, che relazione ha con la storia.

Tutti i riferimenti con cui il modello deve confrontarsi devono essere condivisi, cioè riconosciuti come caratteristiche dello stesso in relazione alla storia. L’oggetto deve essere leggibile, riconoscibile da tutti, cioè essere in larga parte conforme a quello che tutti credono di conoscere, per poter aggiungere qualcosa di nuovo alla conversazione.

Quindi se vuoi comunicare dovrai farti capire parlando una lingua in comune con chi ti ascolta.

● che cosa vuoi dire?

● a chi lo vuoi dire?

● perché lo vuoi comunicare? (perché questo messaggio interessa te autore e perché dovrebbe interessare il destinatario?)

● come meglio puoi servire il messaggio?

Confrontiamo i precedenti sketch per la catena di supermarket (A) con il rendering di questa fotocamera (B), alla luce di queste domande. Che cosa vuoi dire?

A. trasmettere accoglienza e familiarità legati al concetto di quartiere e famiglia

B. ricreare un look classico, un design oggi inusuale, accoppiare nostalgia e vibrazione.

A Chi è il destinatario del messaggio?

A. ai clienti del discount, a persone che ti conoscono e che vuoi intrattenere

B. chi vedrà il mio portfolio, potenziali clienti. A delle persone che non mi conoscono e a cui devo dimostrare delle competenze. Perché lo vuoi comunicare?

A. perché mi pagano

B. perché voglio tenermi impegnato in qualcosa che mi piace, perché una rivisitazione personale di qualcosa di così estraneo è, relativamente, interessante.

Come meglio puoi servire il messaggio?

A. con chiarezza della presentazione e semplicità degli sfondi, mettendo le caratteristiche del marchio cliente al centro dell’immagine

B. chiarezza della composizione ponendo l’oggetto più rappresentativo al centro. Un logo visibile e un contesto realistico. Precisione e coerenza dei dettagli, postproduzione non contemporanea.

Insomma: ogni espressione dà confini a un caos. Nella comunicazione si aggiungono regole condivise. Queste regole, o quanto meno strumenti, sono simili tra i loro corrispondenti in tutti i medium comunicativi. Infine, questi strumenti sono intrinsecamente narrativi.

Sopra: carboncino, posa dal vero, 2003; topologia di due oggetti 3D, 2022.
Sopra: My Wall, fumetto a china, 2018.
Sopra: rendering 3D di una fotocamera Zenza Bronica, 2023.

LA LOCALIZZAZIONE NEI VIDEOGIOCHI

Presentati e raccontaci cosa fai come traduttrice di videogiochi

Ciao Samuele, sono Chiara Di Modica, anche se nel settore sono più nota come Chiara LoQAce, e mi occupo di localizzare i videogiochi (e recentemente anche qualche gioco da tavola) in italiano, ossia di renderli fruibili al pubblico italiano fornendo non tanto una traduzione fedele ai testi originali quanto un adattamento che rispecchi gli intenti originali degli autori. In parole povere mi occupo di traduzione e revisione di tutto ciò che appare in forma scritta in un videogioco: dai sottotitoli ai menu, all’interfaccia grafica, agli elementi narrativi come documenti e lettere che si possono trovare nel gioco, ai testi di marketing per Steam e altre piattaforme fino anche talvolta agli elementi grafici quali insegne, pubblicità e grafiche che appaiono su schermo.

Qual è stato il momento in cui hai scelto questa professione?

In realtà, non è stata una scelta premeditata, stavo piuttosto tentando in tutti i modi di espatriare, e la mia buona conoscenza della mia lingua madre era l’unica competenza con cui potevo effettivamente rivendermi. È stato allora che tra le mille ricerche mi sono imbattuta in un annuncio di lavoro per "tester linguistico di videogiochi". Non avevo neanche idea che esistesse una professione del genere, ma poter unire la mia competenza linguistica con la mia passione per i videogiochi sembrava un’ottima strada, ed è così che dopo un lungo processo di selezione e qualche esperienza pregressa di traduzione annunci per Amazon e Ebay sono finita a Montreal nel 2017, per un semestre tra Keywords Studios e Ubisoft che ha letteralmente cambiato la mia vita.

Com'è stata la tua prima esperienza di traduzione per un videogioco?

Il tester di localizzazione (LQA, Localization Quality Assurance) si occupa di verificare la correttezza delle traduzioni, scovare errori di battitura e incongruenze terminologiche, segnalare bug grafici che tagliano, nascondono o sovrappongono i testi, e in linea di massima assicurarsi che il tutto suoni scorrevole e naturale nella lingua di destinazione, detta “target”. Salvo piccoli ritocchi urgenti per correggere sviste dell’ultimo minuto, di traduzioni vere e proprie non ne vedevamo affatto a Montreal. Ma grazie alla presenza del mio nome nei titoli di coda di giochi tripla A a cui avevo avuto la fortuna di lavorare sono riuscita a rivendermi piuttosto bene una volta tornata in Italia. È così che nel 2018 sono riuscita a collaborare per alcuni mesi con Quantic Lab, in Romania.

Come sei passata dalle prime traduzioni occasionali a un lavoro a tempo pieno?

Tornata nuovamente in Italia ho iniziato a propormi presso numerose altre agenzie e sviluppatori come traduttrice, dato che ormai ci avevo preso gusto e preferivo di gran lunga le sfide creative che nel precedente ruolo di LQA raramente capitavano. Passando innumerevoli ore tra invii di candidature, compilazioni di test d’ingresso, pubblicazioni su LinkedIn e altri social, email, partecipazioni a interviste, spudorati sforzi di fare networking (epici per un’asociale come me) e promozioni a destra e manca sono stata ripagata con i primi clienti e i primi contratti. E in ultimo, un’altra esperienza in azienda a Malaga per un paio di mesi con Localsoft mi ha garantito qualche altro buon contatto per aumentare il mio “portafoglio clienti”.

L'IA ha cambiato il tuo lavoro?

Il mio, nel senso stretto del termine, ancora no. Ho ricevuto proposte da quasi tutti i miei clienti per i cosiddetti lavori di MTPE, (post-editing di machine translation, non propriamente IA ma stesso filone di minaccia), ma per fortuna non sono mai stata così alle strette da essere costretta ad accettarli. Se invece parliamo del settore, sicuramente ha causato un terremoto enorme. Da un lato i clienti più sconsiderati credono nel miraggio e pensano di poter tradurre con l’IA qualsiasi cosa, senza comprendere nulla del processo creativo né del fatto che l’IA difficilmente conosce il contesto del gioco da tradurre, dall’altro le agenzie più spregiudicate promettono traduzioni umane salvo poi offrire solo le revisioni umane di traduzioni automatiche per avere più margine sui ricavi pagando bruscolini ai traduttori.

Poi, per mettere i puntini sulle “i”, ci sono anche rari colleghi che convinti di non farsi beccare ne fanno ampio uso senza neanche rileggere i propri testi, facendosi sgamare immancabilmente dopo poco. Ogni traduttore ha incontrato almeno una volta tali individui nella sua vita. Alcuni sono diventati figure mitiche e leggendarie!

Che consiglio daresti a chi vuole diventare traduttore di videogiochi?

Fino a qualche tempo fa cercavo di essere propositiva e condividere tanti trucchi, e grazie ad alcune pubblicazioni su LinkedIn in effetti sono stata (e continuo ancora a esserlo) contattata da numerose persone che cercano di farsi strada in questo mondo.

Ora quando mi contattano faccio presente che è meglio cercare altre strade, almeno per chi propone traduzioni dall’inglese all’italiano: gli sviluppatori e i produttori sono sempre meno interessati a implementare la nostra lingua nei loro giochi, i titoli ideati solo per vendere e ingaggiare i giocatori nei tempi morti - vedi giochini poco impegnativi da cellulare - hanno sempre meno a cuore la qualità della lingua e si affidano sempre più alle traduzioni automatiche al grido di “basta che se capisca”, e le agenzie di traduzione impongono sempre più spesso strumenti che pre-traducono i testi, lasciando a noi soltanto la revisione di testi scialbi, privi di spessore e che tarpano qualsiasi moto di creatività. Ovviamente il tutto meno retribuito delle traduzioni normali e più dispendioso in termini di tempo rispetto alla revisione di traduzioni umane. È orribile dover scoraggiare tanto entusiasmo, ma ormai preferisco essere realistica e non dare false speranze che illudere spudoratamente.

Hai un aneddoto divertente o curioso legato a una traduzione?

Non saprei bene quale scegliere, quindi sarò rapida e farò una breve carrellata.

Sul podio c’è sicuramente il lavoro svolto su Vampire Survivors. Le genialate sono pressoché tutte farina del sacco di Poncle, ma ti lascio immaginare la follia del cercare di spiegare ai miei colleghi traduttori che lavoravano alle altre lingue concetti come la Borra di Antonella Clerici o la storia di Otto il passerotto, con tanto di video e audio vari. Poi il gusto di poter nascondere, in un luogo remotissimo di Rogue Legacy 2 raggiungibile solo con dei cheat, una easter egg che per il giocatore comune fa solo sorridere mentre per qualcuno evoca una serata sopra le righe restata negli annali. In ultimo, la soddisfazione di poter nascondere in Frog Detective, il gioco più delirante che abbia mai tradotto, citazioni da Una Pezza Di Lundini, Elio e le Storie Tese e probabilmente altre idiozie che al momento non ricordo.

Intervista di Samuele Prosser a Chiara Di Modica

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SUGO Magazine da un progetto di Samuele Prosser

Redazione: Samuele Prosser Luca Albani Valentina Prezzi

Sito web: Marco Chierchia

Autori: Elia Coan

Gregorio Zanacchi Nuti

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Illustrazione di copertina: @proxcomix

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