



Siete pronti a tuffarvi in un calderone bollente di pixel? Benvenuti su SUGO, la vostra nuova rivista italiana dedicata ai videogiochi indie.
Perché “SUGO”? Perché, come un buon sugo, il nostro intento è quello di farvi assaporare lentamente e intensamente il meglio della produzione video ludica indipendente e non solo. Un mix ricco di sapori, a volte amari, a volte dolci, ma sempre genuini e autentici.
La scena indie è un microcosmo vibrante e in continua evoluzione, un luogo dove la creatività sboccia in mille forme diverse. Da un lato abbiamo quei giochi di successo che riescono subito a farsi strada e a conquistare il cuore dei giocatori. Dall’altro, abbiamo le storie meno note, quelle degli sviluppatori che lottano per realizzare il loro sogno, affrontando sfide e ostacoli di ogni tipo.
SUGO vuole raccontare entrambe queste storie. Vogliamo farvi conoscere i volti dietro ai giochi, le loro motivazioni, le loro passioni. Vogliamo farvi entrare nei loro studi, mostrarvi sia il caos creativo che la soddisfazione provata nel vedere il proprio progetto prendere vita.
All’interno di ogni numero troverete articoli per tutti i gusti, pensati per soddisfare persino i palati più esigenti:
● Profili approfonditi: immersioni nelle menti degli sviluppatori per scoprire le loro ispirazioni, la filosofia dei loro design e i retroscena dei loro progetti.
● Storie di vita: narrazioni personali e interviste a sviluppatori emergenti per farvi conoscere le sfide e le soddisfazioni di chi fa questo lavoro ogni giorno.
● Recensioni: valutazioni sincere e approfondite di giochi indie per aiutare a orientarvi in un panorama sempre più ricco e variegato.
● Consigli e risorse: consigli pratici, tutorial e strumenti utili per chi vuole iniziare a sviluppare videogiochi.
● Arte a tutto tondo: parleremo con gli artisti che in questo ambiente hanno il compito di dare vita alle idee con colori, suoni e narrazioni.
SUGO non è solo una rivista. Vogliamo creare uno spazio di confronto e di scambio, dove sviluppatori, artisti e giocatori possano condividere le proprie passioni.
Se volete proporre qualche articolo per il prossimo numero scrivete a: sugoredazione@gmail.com
Se vuoi una copia scarica qui il pdf
Sui ci racconta e ci svela tutti i retroscena che l'hanno accompagnato nella creazione del suo nuovo gioco Undead Smells Bad 04
Malintesi, genesi e post mortem di Aeon of Sands: 7 anni per lo sviluppo di un gioco 08
Vi sovrasta la moltitudine di giochi gratuiti su ITCH? Abbiamo selezionato alcune chicche per voi...
Come i picchiaduro si sono dati una svecchiata con delle logiche diverse. Tre giochi da provare!
8 anni con Godot: perché iniziare ad usarlo e come sono stati i primi passi con questo engine open source 12 No spoiler
Progetto di un engine 2D interamente programmato da zero. Limiti e potenzialità 14
E se alle 2 di notte vi ritrovaste a finire un gioco che in parte odiate? Allora questa è la recensione che fa per voi! 16
Partecipare a una game jam da solo. A cosa si va in contro, è fattibile?
Un progetto tutto nuovo, in divenire, ricco di shader!
SUGO è un progetto nato dall'idea di Samuele Prosser, per riunire sotto un unico cappello le esperienze videoludiche indie del panorana italiano e internazionale.
Un ringraziamento va a tutti gli autori per la loro dedizione e per la qualità degli articoli, ai redattori per le correzioni e gli appunti sulle verie stesure e a Marco Chierchia per l'aiuto
nella creazione del sito web sugo.gameloop.it
Inoltre questo progetto non sarebbe stato possibile senza la community di GameLoop.it
Raccontaci il tuo percorso nel mondo dei videogiochi indie. Chi sei e come è nata la tua passione?
Ciao gente! Sono il Sui, un tizio che crea videogiochi. Come risponderebbe chiunque, la passione per il mondo dei videogiochi è nata quando ero solo un bambino. Ero riuscito a pagarmi una PlayStation 1 con le mance ricevute alla prima comunione e quella scatoletta grigia mi faceva viaggiare in luoghi dove nemmeno i film potevano portarmi. Era tutto reale, anche se dannatamente poligonale. Ma mentirei se dicessi che ambivo a creare un gioco tutto mio. Ero un bambino e volevo solo giocare!
Poi mi sono distratto un attimo e mi sono ritrovato adulto, sposato, felice ma con un lavoro davvero noioso. È passata una vita in cui sono successe tante cose e nessuna di queste c’entra col desiderio di creare un videogioco. Solo a 33 anni ho capito che forse potevo provarci, ma lasciamo quella storia per un altro punto dell’intervista.
Qual è stato il progetto più impegnativo a cui hai lavorato finora e cosa hai imparato da questa esperienza?
Uno potrebbe pensare che il primo gioco sia il più impegnativo, in quanto i successivi beneficiano dell’esperienza pregressa, ma ho scoperto che ci sono tanti modi diversi per mettersi in difficoltà! Una volta vuoi creare un gioco più lungo, una volta vuoi arricchirlo di animazioni e aspetti tecnici oppure vuoi aggiungere meccaniche nuove o addirittura cambiare genere...
Quindi per un motivo o per un altro mi sono sempre fatto del male, ma se devo pensare
al “peggiore” probabilmente direi che è stato Moth Lake. Era il mio terzo lavoro e avevo tante idee che non sapevo come concretizzare. Ho alzato l’asticella abbastanza in alto da sbatterci le corna contro, condensando tre anni di sviluppo in due. Alla fine ho imparato a concedere più spazio alla vita e meno al lavoro.
Quali sono i tuoi giochi indie preferiti, sia italiani che internazionali?
Potrebbe esserci una convention dedicata al gaming nel mio palazzo e sicuramente io non ne sarei a conoscenza. Lo so, è una risposta triste per gli appassionati, ma il gioco più recente a cui ho giocato risalirà al 2007. Per di più conosco davvero pochi sviluppatori e solo perché mi hanno raggiunto sui social. Faccio schifo, vero?
Però, in mia difesa, uno sviluppatore non deve necessariamente essere un giocatore, così come un musicista può non andare ai concerti! Giusto? Va bene, sto zitto che è meglio.
Parlami e raccontami del tuo nuovo progetto sugli Zombie. Qual è la storia e il concetto che ci sta dietro?
È facile sopravvivere agli zombie negli Stati Uniti, trovando armi e munizioni a ogni angolo della strada, ma qualcuno si è mai posto il problema di un’apocalisse zombie in Italia? Questa è la premessa di Undead Smells Bad (I non-morti puzzano), un gioco d’avventura con elementi stealth, action e puzzle. Un gioco senza arsenale, con armi recuperate sul campo... Ho detto “armi”? Volevo dire “cose”! Arredi, elettrodomestici, ciarpame... Praticamente di tutto ma non armi, perché
intervista di Marco Chierchia a Sui Arts www.suiarts.com
appunto, qui non siamo in America!
Ci sarà una storia horror che si svilupperà attorno al giocatore e non mancherà il mio solito umorismo demenziale, ma vorrei prendere una pausa dagli interminabili script per concentrarmi soprattutto sul gameplay, creando situazioni di gioco interessanti e tanta rigiocabilità. Il giocatore dovrà districarsi tra centinaia di livelli per salvare i sopravvissuti, indagare sulle cause dell’epidemia, fare alcune scelte e, se possibile, dovrà anche salvare il mondo. Sarà un’opportunità per fare qualcosa di nuovo per i giochi con struttura a livelli… Vediamo se ce la faccio!
Quali strumenti utilizzi?
Mi considero abbastanza di vecchia scuola, perché amo costruire le cose da zero e odio le soluzioni “pronte all’uso”, quindi i miei strumenti sono pochi e elementari. Per la programmazione uso un framework opensource chiamato Solar2D. Non è un engine ma solo un insieme di librerie estremamente utili per lo sviluppo di giochi 2D multi-piattaforma. Mi trovo benissimo e non lo cambierei per nulla al mondo! Per disegnare la mia pixel-art uso Aseprite e una tavoletta grafica XP-pen 12. Per le musiche e gli effetti sonori uso FL Studio.
Quali sono state le sfide più grandi che hai incontrato?
Sfide creative, sfide tecnologiche, sfide psicologiche, sfide burocratiche... È un bel casino, e ci si passa obbligatoriamente a ogni gioco, ma non c’è nulla di insormontabile. Il segreto è affrontarle con calma, una alla volta e gridare in un cuscino, così i vicini non si spaventano. La buona notizia è che finite tutte queste sfide poi ti puoi riposare! ... Non è vero, non c’è pace. Ci sono aggiornamenti tecnici e di policy che cambiano in continuazione e non si possono ignorare.
... E infine, c’è la sfida-madre, molto grande e troppo spesso sottovalutata: farsi notare. Perché non basta dare il meglio fino al rilascio del gioco, bisogna farlo arrivare ai giocatori. Purtroppo le persone fanno una fatica esagerata a darti un’opportunità e ci sono tante aspettative da deludere là fuori! Quindi la maggior parte dei titoli restano nascosti, o affossati da poche recensioni negative. Dicono che sia fondamentale impegnarsi in questa sfida, che sia più importante di tutte le altre, ma sinceramente io schifo il marketing e tutto quel mondo. Ho aspettato che le persone usassero il passaparola, e forse sono stato solo fortunato, ma ha funzionato.
“HO LASCIATO CHE LE PERSONE USASSERO IL PASSAPAROLA, E FORSE SONO STATO SOLO FORTUNATO, MA HA FUNZIONATO.”
Ci sono stati momenti particolarmente gratificanti?
Sicuramente mentre lavoravo al mio primo gioco era tutto più romantico e magico, perché era la prima volta che vedevo i personaggi prendere vita e le mie idee concretizzarsi. Quindi tutto era gratificante, anche una semplice serie di disegni che diventavano un’animazione. Oggi è un po’ più difficile meravigliarsi, soprattutto perché faccio tutto da solo e non c’è qualcuno con cui celebrare le piccole vittorie di ogni giorno. Diciamo che ora la vera gratificazione mi arriva quando un gioco è pronto per essere giocato. È bellissimo aspettare i primi feedback. Terrorizzante e sfiancante, ma anche bellissimo.
Ci sono stati, invece, momenti particolarmente difficili e di crisi?
Spesso è difficile dare forma a un’idea e magari il risultato è distante da ciò che volevo, o addirittura non realizzabile. A volte mi stanco di lavorare su un gioco prima
del rilascio o mi stanco di lavorare e basta! Ci sono giorni in cui basta dormirci sopra, ci sono giorni in cui piagnucolo, ci sono giorni in cui mia moglie mi deve confortare, ma fondamentalmente è ciò che succede sempre, in qualsiasi lavoro e nella vita in generale. Tutto passa e passa più facilmente se hai qualcuno che ti ama o se hai una passione che ti permette di pensare a altro per un po’.
Ci sono tecnologie emergenti o innovazioni che ti entusiasmano particolarmente e che vorresti esplorare per i prossimi progetti?
Assolutamente no! Sono un vecchio brontolone che vorrebbe trovare conforto in un processo stabile e duraturo. È davvero stancante reinventarsi e dover studiare sempre. Non a caso disegno ancora in pixel-art e creo animazioni frame-to-frame come se fossimo negli anni novanta. Non voglio cambiare e soprattutto non voglio usare la dannata intelligenza artificiale! Voglio fare tutte le mie cosette senza colpi di scena, ma ahimè, presto o tardi tutto questo non sarà più possibile.
Tornando a quanto dicevi all’inizio, cosa ti ha spinto a diventare uno sviluppatore di videogiochi?
Tutti mi dicevano che ero pazzo ma io volevo provarci: nel 2018 mi sono licenziato per rincorrere un sogno. Volevo cambiare vita e avevo un progetto difficile da realizzare. Richiedeva molta dedizione e bravura (di cui non disponevo). Così ho dato tutto me stesso per diversi mesi e poi ho fallito miseramente! È stato un momento difficile, di quelli in cui ci confrontiamo con noi stessi e arriviamo alla conclusione di “non essere abbastanza”, non so se mi spiego.
A quel punto mia moglie mi consigliò di distrarmi creando un videogioco. Non so se fosse più fiduciosa nelle mie potenzialità o più stanca delle mie lagne, ma mi disse di concretizzare quella fantasia che a volte buttavo lì, senza un briciolo di realismo. Insomma, dovevo rimettermi in gioco dimostrando che “chiusa una porta si apre un portone”. A dirla tutta non sapevo di trovarmi davanti a un portone e, nonostante io sia alto due metri, non arrivavo nemmeno alla maniglia.
Guardando al passato, c’è qualcosa che faresti diversamente?
Rimpiango solo di non aver cominciato molto prima. Tipo almeno dieci anni prima.
Che consiglio daresti a chi sta cercando di entrare nel mondo dello sviluppo di videogiochi indipendenti?
Non pretendere di creare “il miglior gioco della tua vita”. Crea qualcosa con una sua personalità, senza prenderla troppo seriamente, e cerca di chiudere tutto entro 6 mesi. Questo progetto deve essere il punto di partenza e non quello di arrivo. In altre parole, per ora accontentati di creare “il peggior gioco della tua vita”.
Comunque, alla fine le diedi retta. Creai un gioco tutto mio. Non per avere successo ma per divertirmi un po’. Qualcosa che trasudava quel fatto di “non essere abbastanza” per essere tra i migliori, ma che tutto sommato era abbastanza per essere apprezzato da qualcuno.
Così, senza ambizioni, senza pretese, senza sapere che c***o stavo facendo di preciso, creai Dentures and Demons, che segnò l’inizio della mia vita di sviluppatore.
“SENZA
AMBIZIONI, SENZA PRETESE, SENZA SAPERE CHE C***O STAVO FACENDO... CREAI DENTURES AND DEMONS...”
Quali emozioni provi quando lavori su un progetto? Come influenzano il tuo processo creativo?
Una volta, quando ero alle elementari, la maestra mi definì “creativo”.
Ora che ci penso probabilmente quello era un eufemismo per non dire “Questo bambino è pazzo!” fatto sta che quella parola divenne una missione per me. Quel giorno capii che io ero nato per essere creativo!
E quel bambino c’è ancora. Più alto e peloso, ma grossomodo identico. Con l’ego gonfio di creatività ogni volta che lavora a un nuovo gioco. È davvero stimolante potermi esprimere in questo modo. Sono entusiasta e divertito, e non mi sembra di lavorare nemmeno quando lo faccio per 15 ore di fila! Mi sento più come se stessi cazzeggiando con impegno.
Che sentimenti provi nel vedere il tuo gioco completato e giocato da altri?
Gli sviluppatori possono lavorare anche decenni a un gioco, ma nulla è reale finché un giocatore non l’ha completato.
Tutto quello che facciamo è privo di significato se nessuno arriva a quella schermata con i titoli di coda. A quel punto, è come ricevere una targa che ti certifica come uno sviluppatore vero e non come uno stramboide che lavora dal divano di casa sua, in mutande.
In che modo lo sviluppo di videogiochi ti permette di esprimere te stesso? C’è un messaggio o un tema personale che cerchi di comunicare attraverso i tuoi giochi?
Non importa quanto un mio gioco sia sciocco o voglia sembrare leggero. Cerco sempre di infilare dentro i miei pensieri e i miei messaggi più o meno nascosti sotto qualche strato. Ovviamente questo non significa che tutto ciò che viene detto rifletta il mio modo di pensare. Al contrario, mi piace rappresentare cose e persone diverse, a volte molto distanti da me, a volte terribili. Però c’è sempre qualcosa di mio, che sia una critica alla società o solo una battuta ignorante.
Puoi parlarci di un progetto particolarmente significativo per te e del perché lo consideri tale?
Moth Lake è un gioco che narra le vicende di 6 adolescenti alle prese con tante cose. La storia di fondo è un’avventura alla ricerca di un bambino scomparso e il tutto culmina con la scoperta di un mondo nascosto che vuole essere una critica alla società in cui viviamo. Nulla di nuovo da questo punto di vista, ma ho voluto dare una profondità a quei ragazzi. Qualcosa di intimo e personale, che funge da sottotrama e che dona una vera e propria anima a quelle facce pixelose.
Ognuno di loro ha un vissuto più o meno doloroso e dovrà uscirne, altrimenti non arriverà in fondo alla storia. Ho voluto toccare dei temi controversi e intimi abbastanza insoliti per un videogioco, ma familiari a tante persone con qualche capello grigio.
Mi è stato detto che è un gioco che i giovani non capiscono ma che i trentenni rivivono. Io, come sempre, mi accontento che piaccia a qualcuno!
“LA STORIA DI FONDO È UN’AVVENTURA ALLA RICERCA DI UN BAMBINO SCOMPARSO, E IL TUTTO CULMINA CON LA SCOPERTA DI UN MONDO NASCOSTO CHE...”
Pensi che lo sviluppo di videogiochi abbia influenzato la tua vita personale e la tua crescita come individuo?
Quando fai qualcosa tutto il giorno, ogni giorno, è inevitabile che questo ci condizioni e influenzi. Per certi versi contribuisce a mantenermi giovane, per altri mi dà l’opportunità di riflettere molto più di quanto avrei fatto nella mia routine al vecchio lavoro. Per certi versi sono lo stesso che ero da bambino, per altri sono una persona diversa da quella che ero prima di iniziare questo lavoro.
È strano, sembra che questa cosa stia riallineando alcuni pezzi di me, lasciandone altri come sono, ma sicuramente mi sta rendendo davvero felice.
… E se mi chiedi di parlare di me, la prima cosa che mi verrebbe da dire è: “Ciao gente! Sono il Sui, un tizio che crea videogiochi”.
di Marco Pedrana marcolomeo.artstation.com
Nel 2012, a 36 anni, arrivo da anni di illustrazione e pittura, ho esperienze casuali di videogioco, un affetto per i giochi di ruolo per Amiga, e nessun interesse per lo sviluppo di videogame.
Incontro per caso sul forum di Grimrock Florian Fischer, software designer con un suo engine in C++; regge sprite arbitrari su una griglia che simula una prospettiva centrale, supporta multiplayer e multicam sullo stesso schermo o online. Gli sprite sheet, i livelli e tutto il gameplay sono strutturati su pagine Lua.
Decidiamo di collaborare. Escludiamo il multiplayer, e optiamo per il gioco di ruolo real time come Eye of the Beholder, con grafica tra la pixelart e l’illustrazione (un “blobber” 2.5D) a cui aggiungiamo una narrazione tipo libro game: trama e gameplay dipendono dalle scelte del giocatore.
Aeon of Sands esce nel 2018.
Il pubblico lo ama o lo detesta.
Le convenzioni del genere, accettabili nei primi anni novanta (la ricerca di leve e bottoni nascosti e muri segreti, la “combat dance” per schivare gli attacchi tipica dei blobber real-time), la scelta di rivolgersi occasionalmente al giocatore nei dialoghi e il tono irriverente di questi, polarizzano il pubblico.
Abbiamo ad oggi l’87% di review positive su 101 provenienti da sale, ma recensioni e commenti fuori da Steam sono spesso estremi in un senso o nell’altro, sui punti qui sopra.
Lavoriamo 7 anni per un totale di circa 5.000 copie vendute (contro le circa 15.000 di obiettivo, le circa 30.000 di media pura, tra AAA e indie, di un gioco su Steam nel 2012, e le 80.000 necessarie a un completo recupero dell’investimento).
Già dal 2013, a causa della quantità di lavoro prevista e dello scarso interesse dei social network (Twitter, Facebook), sappiamo che AoS sarà un grave insuccesso commerciale.
Per capire l’insistenza nel svilupparlo, vale la pena considerare il mio carattere. Sono un disegnatore e un artista per un ma-
linteso fondamentale: la ricerca di una dignità personale in uno spazio, quello creativo e narrativo, che pure offrendo espressione, non può sostituirsi alla pratica del vivere.
Ciò porta a un sacco di ossa rotte nell’arco di una lunga peregrinazione, ma è finora il meno peggio. Nel 2013, AoS non è definito nel dettaglio, ma è già imponente nella silhouette, è immenso.
Devo imparare a integrarmi velocemente in una pipeline di sviluppo e a crearne altre di nuove relative alla mia parte di lavoro che si integrino a quella di produzione.
Dal plot design in LucidChart ai testi in-game e ai dialoghi in Twine (250 per 120.000 parole totali circa), alla documentazione di variabili narrative divise in montagne di fogli di calcolo; al loro legame con il level design, alla meccanizzazione di wallset in colossali action cue in Photoshop per ogni singolo muro, al taglia e cuci dell’audio e al suo timing con le azioni, all’infinita iterazione della GUI, al marketing, al betatesting arrivando infine alla enorme parte illustrativa che mi interessa. Il tutto attraverso migliaia di task su GitHub e decine di migliaia di email.
Per sette anni, tra AoS e freelancing, lavoro 50 ore alla settimana.
Sono solo, isolato e addolorato. Escluso, o autoescluso, ho poca, disordinata e sconclusionata vita sociale e sentimentale. Faccio terapia di gruppo per la mia difficoltà a vivere: ne esco sfiduciato, arrabbiato. Sono paralizzato tra desiderio, esperienza, memoria, impossibilità. Né credo possibile o accetto di cambiare: sono infelice e immobile.
La mia giornata tipo inizia alle 10, ancora prima di colazione incespico in email o task di GitHub di Florian che modificano i piani del giorno. Le nostre email mostrano un tiro alla corda estenuante su metodo e pipeline: Florian è frustrato dalle mie eccezioni o dalla mia mancanza di definizione di problemi di design. Io sono frustrato dalla sua resistenza: a risolvere le task, a rivolgersi a un publisher, a delegare test e marketing a me. Tutt’intorno: i vicini di casa sbraitano come ossessi dalle tre del mattino, palloni da calcio demoliscono porte di garage, cani abbaiano, tosaerba tosano, gatti compiono ecatombi sui pavimenti, fratelli versano cemento nei lavandini. Insomma, succedono cose.
Dopo un pranzo veloce produco per circa tre, quattro ore (pezzi di grafica, dialoghi, level design o GUI).
Dopo le 17 ricomincio con i task che Florian mi ha rimpallato: in una giornata sono almeno una ventina. Di solito sono definizioni, oggetti logici, puzzle. Altre volte problemi più ampi: balancing, combattimento e magie, implementazione di variabili, dialoghi e livelli. Dopo le 22, se non abbiamo la solita videocall settimanale di due ore, mi metto a fare le mie cose. Saltuariamente, le faccende di casa. Sto davanti a uno schermo tra le 10 e le 16 ore, vado a letto alle 3, con la mente che cerca di percorrere la pipeline del giorno dopo. Dormo male.
Il punto di partenza è l’engine del 2012: per una scelta della prototipazione di Florian, dettata dalla disponibilità di asset esemplificativi, esso allestiva wallset e ingombri 1:1 con quelli di Eye of the Beholder.
Per semplicità, quindi, e non per ragionamento di design, abbiamo da subito costruito su quegli ingombri, precludendoci di impostare un gioco con azione a tutto schermo, grave errore già nel 2012.
Mentre la struttura della griglia di Eye of the Beholder è stata ampiamente ricercata già in occasione della sua conversione VGA - AGA del 2006, a cui collaborai, l’implementazione di posizioni di oggetti sulla griglia e timing delle azioni, su tavole Lua e della GUI intorno all’azione – in considerazione anche di risoluzione schermi degli utenti – si fa via via più complessa e restrittiva: ci siamo messi in un angolo sia sulle possibilità di gameplay sia su quelle di mantenimento e portabilità del gioco.
utilizzare un engine moderno e 3D, invece da farci guidare da un senso di disponibilità privo di ricerca: disponibilità di esempi di stile, di engine e di capacità tecniche (nel 2012 non sapevo nulla di 3D, ma solo poco di più di pixelart).
Detto questo, c’è già da essere felici di alcune innovazioni che abbiamo portato nel genere (sistema di magie, companion con abilità speciali inserite nella GUI, elementi della narrazione e della sua integrazione con le mappe, stravolgimento del sistema di level-up), della reattività di gioco e dalla relativa mancanza di bug dell’esito.
Un'altra restrizione è data dalla dipendenza delle condizioni di gioco (mappe e variabili interne) dai dialoghi: il giocatore si trova spesso limitato nell’esplorazione a causa di scelte oscure nei dialoghi e sperimenta da un terzo a metà delle mappe durante un’avventura intera. Inoltre non è invogliato a rigiocare, data la presenza di mappe obbligatorie in ogni playthrough, espansive e dal gameplay ripetitivo.
La scelta di utilizzare Twine per i dialoghi e di inserire testi descrittivi e di feedback in tavole Lua ha causato una tale frammentarietà da rendere troppo onerosa la localizzazione. Alla fine abbiamo dovuto tagliare parte dei sistemi previsti e realizzati solo parzialmente, per limiti di tempo e di implementazione: sidequest, puzzle che stravolgessero l’esplorazione (per esempio incroci di cinque strade su una visualizzazione che ne può mostrare solo quattro), moduli della GUI interattivi con oggetti trovati nell’esplorazione (per esempio un ratto raccolto nel mondo di gioco che, trascinato sulla GUI, corre su una ruota attivando una bussola speciale).
La scelta corretta sarebbe stata quella di
movimenti pg
Una parte della ragione di aver perseverato con AoS è l’ossessione di controllo di una narrazione, sia per proteggere la mia espressione che per strutturare il tempo, evadere. Faccio, quindi sopravvivo.
Quale narrazione? Il mondo post-apocalittico di AoS ha contorni favolistici: remoto, dai bordi volutamente non definiti, le tempeste di sabbia ne cancellano la dimensione temporale, le piccole storie al suo interno hanno forma paradigmatica di sghembe parabole. Sono consapevole di ciò mentre ci lavoro? Sicuramente la favola mi attira: rappresenta un mondo internamente coerente, accogliente. Come nichilista (per brevità, se non accuratezza), la fede nella narrazione, nell’essere umano come essere narrativo, è un salvagente. Ciò non significa che la sappia padroneggiare. Crederlo è una forma di arroganza. In AoS il livello della narrazione è diseguale.
1) Prendere un oggetto/prodotto che credo migliorabile (analizzandone solo il piano emotivo, di gratificazione personale dell’esperienza) e aggiungergli pezzi (branched storytelling, grafica con principi interni) che credo arbitrariamente di valore e credere che questi bastino al prodotto.
2) Sapere che non è sostenibile economicamente, ma credere che tenermi occupato solo facendo queste cose sia la mia strada.
Il risultato è un mostro di Frankenstein: ha conquistato un pubblico lontano da quello degli amanti del genere blobber 2.5D. Sono giocatori che apprezzano l’esplorazione libera o che amano piccoli aspetti accidentali del gioco a cui non ho dato particolare peso come, per esempio, un companion inusuale, che riveste di emotività personale.
Riguardo il pubblico che l’ha apprezzato, in parte, si tratta di un accidente statistico: non del tutto cercato nello sviluppo di un oggetto commerciale, non ci si può basare su questo tipo di casualità.
Circa il secondo punto: ecco un’espressione del mio disagio, del mio disadattamento, che si ripropone uguale in quasi tutte le cose che faccio.
In conclusione? Gli aspetti che ho descritto fanno parte del carattere personale e non so quanto modificabili. Se vi ci ritrovate la mia proposta è: qualunque cosa facciate, siate onesti con voi stessi sul perché.
Design
“... QUALUNQUE COSA FACCIATE, SIATE ONESTI CON VOI STESSI SUL PERCHÉ.”
AoS, di Florian Fischer e Marco Pedrana, è stato pubblicato il 04/12/2018 in sola lingua inglese. A oggi, ha raggiunto 18.803 wishlist, 4.838 copie vendute, 86% di review positive su 103. Stati con il maggior numero di copie vendute: U.S.A., Germany, U.K. In Italia ha venduto 74 copie.
Chiaro fallimento commerciale, è un successo di sviluppo: il tentativo riuscito di dare uno sfogo costruttivo al disagio dello stare fermi, o, quanto meno, la distrazione che ho creduto di potermi permettere. Per il resto, pace.
Il mio punto zero, come per molti altri, fu una ricerca web del tipo “come sviluppare un videogioco”. Arrivai su Indievault.it, un forum pieno di sviluppatori che scrivevano ogni giorno messaggi su giochi, codice, progetti fan-made, nuove tecnologie in arrivo come Vulkan e nuove console da poco uscite sul mercato come Ouya. Era circa il 2015.
Leggendo le discussioni trovai l’ispirazione per cominciare a studiare SFML, un semplice framework per realizzare applicazioni multimediali in C++. Quelli furono i miei primi tortuosi passi nel mondo dello sviluppo dei videogame. Ricordo tante difficoltà anche solo per compilare un progetto di partenza, oltre che per creare la logica di base di un top down 2D. Dopo aver provato per un po’ di tempo SFML decisi di provare un game engine, qualcosa che, in teoria, avrebbe dovuto rendermi la vita più facile.
900MB di davcri crystalbit.it
Scelsi Unreal Engine, non ricordo nemmeno per quale motivo. Ricordo però che su Indievault un utente lo stava usando per ricreare alcuni ambienti di Final Fantasy VIII e rimasi impressionato dal suo lavoro. Seguii qualche tutorial e, sebbene quello che vedevo a schermo fosse impressionante, non trovavo Unreal né intuitivo né comodo: chiaramente si trattava di un prodotto complesso pensato per essere usato da professionisti del settore e non per uno sviluppatore inesperto come me, che si sarebbe accontentato di creare a schermo delle piccole idee di gioco. Oltre questo aspetto non riuscivo a usare agevolmente il software con il notebook (un Acer con 4GB RAM, Intel i7 2630QM, NVIDIA GT 540M) che avevo all’epoca: la ventola andava al suo massimo e la mia curva di apprendimento era ripida anche per via dei lunghi tempi di iterazione tra una modifica e la sua visualizzazione a schermo.
Nello stesso periodo leggendo Phoronix scoprii Godot quasi per caso dal post “Godot 2.0 Is Out, But Godot 3.0 Will Be Even More Exciting” e, incuriosito, decisi di scaricarlo subito.
In meno di 40MB trovai un renderer 2D e 3D, un level editor intuitivo, gestione UI con temi configurabili, un linguaggio di scripting di cui vi parlerò più avanti e, soprattutto, una documentazione offline consultabile rapidamente dall’engine stesso.
Il software non richiedeva nessuna installazione, bastava un doppio click e si poteva cominciare a creare le proprie scene (ed è così ancora oggi).
Phoronix.com - dove scoprii Godot 2.0
Licenza MIT
Linguaggi supportati ufficialmente
File size (senza dipendenze per export)
Peso export templates (necessari per creare eseguibili Linux, OSX, Windows, HTML5 del gioco)
GDScript, C++ e C# (ma ancora non è supportato l’export web con C#)
50MB (Linux, Windows) o 100MB (OSX Universal per x86 e ARM)
I contributor di Godot avevano anche realizzato dei tutorial per principianti e non davano nulla per scontato, spiegando tutti quei concetti che sono alla base di qualsiasi videogame come input, scene tree, viewport, matematica, UI, filesystem, ecc.
Oltre questo, aiutava molto la presenza di buone demo ufficiali e una community molto aperta verso i nuovi arrivati.
Avevo trovato un software con cui riuscivo a avere confidenza e rapidità di apprendimento nel mentre sviluppavo i piccoli giochini che mi venivano in mente.
Dal 2016 sono passati 8 anni ma in realtà il core di Godot è rimasto solido e quanto ho raccontato finora è ancora accostabile a questo engine, con il plus che negli anni c’è stata una buona attenzione da parte degli sviluppatori a supportare gli upgrade path tra versioni, oltre che un discreto livello di supporto per le vecchie edizioni tramite backport di funzionalità e fix.
Oggi Godot è un game engine 2D, 3D, multipiattaforma sviluppato in C++ ma con possibilità di scrivere logica di gioco tramite C++, C# o più comunemente con GDScript, un linguaggio di scripting ispirato a Python/ Lua e sviluppato appositamente per integrarsi al meglio con Godot. Chi vuole può utilizzare anche altri linguaggi integrati da terze parti ma per cominciare la scelta migliore è rimanere sulle tecnologie scelte dal team di Godot.
La release 4.3 ha diverse novità tra cui un renderer Direct 3D 12 per Windows e Xbox, il supporto a Wayland su Linux (opzionale), nuovi nodi per gestire soundtrack
dinamiche/adattive e supporto all’interpolazione della fisica 2D. Quest’ultima è particolarmente interessante perché permette di ridurre il peso del gioco calcolandone la fisica a un frame rate inferiore a quella di rendering, mantenendo però la fluidità grazie appunto all’interpolazione delle posizioni e rotazioni tra un tick fisico e l’altro. Il vero focus della versione 4.3 però è nella stabilità. Rémi Verschelde, il project manager storico di Godot ha infatti scritto:
“This release turned out to be a massive one [...] but for good reasons to address many critical issues that users identified since the 4.0 release.The user experience should be much stabler and more polished than in previous releases.”
Approfondiamo quindi queste migliorie che agevolano ulteriormente il workflow. Iniziamo dalla UI che permette ora maggiore flessibilità nel posizionamento delle dock. In particolare si può creare un layout più simile a quello di default di Unity facendo click sui tre puntini della dock “Filesystem” e selezionando “Move to bottom”.
Sul fronte dei formati supportati c’è ora il supporto nativo ai modelli 3D FBX. In precedenza, con la versione 4.2, era possibile utilizzare modelli FBX ma era necessario convertirli tramite il tool FBX2glTF in fase di import. Il tutto ora dovrebbe essere più robusto dato che è stato migliorato anche il processo di import delle animazioni dai modelli FBX.
Vari fix sono stati fatti per rendere più
affidabili:
● il caricamento multithreading delle risorse
● il pathfinding
● il rendering 2D della pixel art
● il rendering della UI in XR
● le performance di rendering grazie all’acyclic rendering graph
L’ultimo fix di cui voglio parlarvi è quello che reputo più importante e riguarda l’export web che storicamente ha creato più grattacapi rispetto agli altri export desktop. Chi di voi l’ha usato in passato avrà notato dei problemi come audio gracchiante o esecuzione del gioco bloccata per una configurazione errata per accedere agli SharedArrayBuffer o problemi di caricamento su OSX e altre cose di questo tipo. Esistevano delle modifiche in grado di mitigare i problemi ma l’esperienza non è mai stata lineare come esportare un gioco per Windows, Linux o OSX.
Dalla versione 4.3 sarà finalmente più semplice eseguire un gioco sul web visto che il team di Godot ha risolto il problema della riproduzione audio gracchiante tramite un nuovo sistema di AudioSample che si integra perfettamente con i nodi AudioStreamPlayer (sarà quindi totalmente trasparente agli sviluppatori) e inoltre hanno deciso di usare come default la configurazione singlethreaded che offre maggiore compatibilità con le varie piattaforme di hosting, ad esempio il famoso itch.io.
Ci sarebbero ancora moltissimi altri aspetti da esplorare, come gli aggiornamenti ai nodi Tilemap e Parallax2D, ma vi invito a consultare il blog post ufficiale per maggiori dettagli. Se non avete mai provato Godot, spero che quanto avete letto vi abbia suscitato curiosità e che decidiate di dargli una chance. Magari, come accadde a me quasi dieci anni fa, anche voi apprezzerete le caratteristiche di questo engine o invece, chissà, odierete i suoi difetti e limiti. In qualsiasi caso sono curioso di sapere cosa ne pensate e spero di poterne parlare prossimamente sul Discord di GameLoop.it, ciao!
Il mese di giugno ha visto l'nCine superare le mille stelle su GitHub. Ottenere questo riconoscimento da parte della community è stata per me una grande soddisfazione, dopo cinque anni dalla pubblicazione sulla piattaforma.
La genesi del progetto, però, risale a molto prima, correva infatti l'anno 2011. Avevo iniziato il mio percorso nella game industry da giusto un anno, ma non mi piaceva per niente la direzione che avevo preso come sviluppatore, stritolato com’ero dai bisogni di quella piccola azienda indie.
Sognavo di fare programmazione grafica e di lavorare agli engine dei grandi giochi AAA su console, ma tutto ciò che potevo toccare con mano a lavoro, in quel periodo, erano GUI. Certo, si trattava di interfacce grafiche per le più svariate piattaforme desktop e mobile, ma pur sempre di interfacce grafiche.
Decisi allora di prendere in mano la situazione e scrivermi un mio engine, qualcosa di molto piccolo, per fare pratica, per studiare concetti tecnici e, per sognare un giorno, di approdare a quel mondo e farlo di mestiere.
E così mi ritrovavo di giorno ad annoiarmi con menù e bottoni, mentre di notte, su un piccolo portatile Lenovo da 13 pollici sul quale girava Arch Linux, lavoravo incessantemente al mio progetto.
Fin da subito decisi di limitarmi al 2D, volevo gestire una parte grafica relativamente semplice per potermi concentrare maggiormente su tutti gli altri aspetti che insieme formano un engine e sui quali non mi ero mai dedicato prima.
Fin da subito puntai molto sull'aspetto cross-platform: per me era di vitale importanza far girare lo stesso codice di gioco su più piattaforme possibili. Android fu presto una di queste. A quei tempi vedevo ovunque spuntare nuovi dispositivi di gioco basati su questo sistema (come Ouya o lo Shield) e averle come target rappresentava in parte quel sogno di lavorare su console.
Continuai a sviluppare l’nCine anche quando ormai lavoravo all’estero e, di posizione in posizione lavorativa, ero sempre più vicino al sogno di essere engine e graphics programmer. La voglia di fare qualcosa di mio, di avere piena libertà sia nella fase di ricerca che di esecuzione, sono desideri che conservo tuttora e che riesco a mettere davvero in pratica solamente nel mio progetto open source. Progetto che inizialmente non era a codice aperto, al principio perché non mi sentivo
pronto a mostrarlo al pubblico e, successivamente, quando finalmente era maturo, perché la compagnia dove lavoravo al tempo non me lo permetteva.
Fu anche un po’ per questo che abbandonai quel lavoro (e quel paese) per concentrarmi quasi due interi anni nella crescita dell’nCine. Abbracciai il sogno indie e senza lavoro, senza nessun introito, e vivendo solo di risparmi, mi dedicai anima e corpo, sette giorni su sette, al suo sviluppo.
Furono forse gli anni più produttivi della mia carriera, che videro lo sviluppo di un prototipo di un gioco isometrico a turni di nome ncIsometric, di SpookyGhost, un tool per l’animazione procedurale degli sprite, e la collaborazione con Jugi. Fu grazie a lui, alla sua attività di testing e al progetto che stava curando ai tempi, che mi accorsi di quanti problemi aveva il mio motore.
Lo stress testing che il supporto a JugiMap, il suo editor di mappe simile a Tiled, comportò, rese l’nCine un framework solido e affidabile per muovere sprite in giro per lo schermo! La collaborazione con lui è ancora in atto e cela nuove sorprese...
Un altro utente la cui collaborazione è stata molto fruttuosa è DeathKiller, la nuova versione del suo Jazz² Resurrection, una reimplementazione di Jazz Jackrabbit 2, un vecchio platform di Epic Games, si basa infatti su una versione modificata dell’nCine. Anche in questo caso, la conoscenza profonda che ha maturato nel framework, mentre lo rivoltava come un calzino, gli ha permesso di fornirmi preziosi consigli e nuove idee per lo sviluppo.
Tra i pochi, ma valorosi utenti, bisogna per forza anche menzionare Fahien, un membro della community di GameLoop che fu il primo a provare l’nCine. In quel periodo non distribuivo ancora il codice sorgente, ma solo degli archivi binari che conservavo su Google Drive e linkavo nel mio server Discord. Suoi sono ncRogue, il primo progetto di gioco fatto con l’nCine, è ncJump, un platform in cui il giocatore ha a disposizione un editor per modificare in tempo reale il livello di gioco.
Sono passati più di tredici anni dal primo commit, ma mettermici a lavorare un po’ ogni giorno è il trucco per mantenere la costanza, la motivazione e l’entusiasmo.
La mia lista di cose da fare non finisce mai ma, tra le voci alle quali vorrei dedicarmi presto, trovano spazio un editor, fondamentale per avvicinare ancora più utenti, e un paio di task tecnici che possono migliorare le performance, un altro aspetto importante sul quale mi sono concentrato molto per differenziare la mia offerta da altre opzioni quali MonoGame, LÖVE, Raylib o LibGDX.
Ad oggi il framework è abbastanza maturo per creare prototipi di giochi 2D in C++ o Lua, per creare tool usando l’integrazione con Dear ImGui, o per essere studiato e sviscerato dall’interno. Qualsiasi sia il tuo scopo, dagli una possibilità e vieni a parlarci delle tue esperienze sul nostro server Discord!
Encelo
Stanotte ho finito Völgarr the Viking, clone di Rastan comprato tempo fa e mollato perché troppo difficile. Ieri per l’ennesima volta ho provato a cercare un trainer per togliermelo di mezzo e per l’ennesima volta non ne ho trovato uno che andasse con l’ultima versione del gioco, così sono andato nei forum di Steam per cercare se qualcuno avesse notizie di trainer o cheat, e mi sono imbattuto in una guida motivazionale per nabbi che tra le altre cose suggeriva di considerare il gioco un puzzle dove ogni incontro con i nemici va studiato per essere affrontato nel migliore dei modi.
Forte di questo nuovo approccio basato più su analisi e memorizzazione dei pattern che non su riflessi e reazioni istantanee, mi ci sono messo e dai e dai alle quattro di stamattina l’ho finito, ovviamente finale cesso, ci sono anche modalità più difficili e finali migliori ma ho fatto una mezza prova e ho detto “ok mi basta così” anche perché a difficoltà hard si hanno un tot di tentativi laddove a livello normale si può ripetere all’infinito da ogni checkpoint (per quanto ce ne sia solo uno per livello, a metà).
Il gioco in sé è molto carino e ben fatto, riprende il gameplay di Rastan e lo amplia con uno scudo con cui si possono parare i colpi nemici, una rotolata per schivate skillate e, soprattutto, una lancia che si può usare come arma dalla distanza ma che si può anche conficcare nei muri per poi usarla come piattaforma per arrivare all’inarrivabile, complice il doppio salto, per cui piano piano si arrivano a fare acrobazie abbastanza importanti nei livelli. Come altri giochi basati sulla memorizzazione (ad esempio il benemerito R-Type) ogni volta che si viene colpiti si perdono i vari potenziamenti (scudo, elmo, spada di fuoco) per cui più si è scapocchioni più il gioco diventa difficile, ma al tempo stesso è un modo per incentivare la precisione nelle azioni e evitare che il giocatore diventi troppo sloppy.
Sta a 10 euro su Steam e non so se lo consiglierei, io all’epoca lo presi sull’onda della nostalgia vedendo che richiamava Rastan e non so se tornando indietro lo rifarei, ma visto che ce l’avevo lì ogni tanto ci tornavo e finalmente ieri sono riuscito a “capirlo”. Come ogni gioco difficile dà una gran soddisfazione arrivare ai titoli di coda, certo però vivevo uguale anche senza, per cui boh? Il 9 agosto è uscito il seguito e quasi quasi ci faccio un pensiero!
di Bruno B.
Walking simulator
Un’esperienza rave senza uno scopo preciso se non capire che qualcuno preferisce darsi fuoco piuttosto che passare del tempo con te. Si mangia molta pizza e si beve del punch. Esistenziale.
FORZA
DESTREZZA
INTELLIGENZA
UPDOG
Typing game
Che belli i cani, soprattutto quando volano. In questo simulatore di dogsitting dovrai tentare di tenere a terra i cani che ti sono stati affidati. Magnetico.
FORZA
DESTREZZA INTELLIGENZA
ANIMAL FACTORY
Visual novel
In una nazione dove gli scoiattoli sono operai soggiogati dal sistema capitalistico, sei solo un piccolo ingranaggio. Come ti comporterai? E cambierà qualcosa? Ha un discreto comparto artistico. Sindacalista.
FORZA
DESTREZZA INTELLIGENZA
MOON
Puzzle platformer
Luce e ombra, due lati della stessa medaglia. Filosofico vero? Certo, ma in Moon dovrete accendere torce, ragionare e saltare al momento giusto per raggiungere la fine. Classico.
FORZA DESTREZZA INTELLIGENZA
di Andrea “Jens” Demetrio
Giochi di botte. Per quelli che, come il sottoscritto sono nati e cresciuti negli anni novanta (altrimenti noti come “fossili”), questo genere è intimamente connesso con i cabinati al bar, quelli che ci cacciavi dentro 500 lire (altrimenti note come “il vecchio conio”) per farti mazzolare da un’AI ipertrofica o da un amico che ne sapeva molto più di te, mentre tentavi (inutilmente) di eseguire una mossa speciale. Da quasi quarant’anni a questa parte, i giochi di combattimento ricadono sotto la categoria “giochi per masochisti che amano slogarsi il polso”. Nonostante questa nomea di giochi da sudatoni, per molto tempo i vari Street Fighter, Tekken e Mortal Kombat hanno dominato le sale giochi, per poi spegnersi lentamente e essere relegati a una nicchia grazie anche alla morte delle arcade. Il genere è tuttavia ancora vivo, vegeto e più attivo che mai, sebbene abbia perso quella posizione dominante di cui godeva nel suo periodo d’oro. Tekken vende ancora milioni di copie (con Heihachi che non vuole rimanere morto), Street Fighter è arrivato al suo sesto capitolo numerato (e Bison è tornato in vita altrettante volte), Guilty Gear è uscito dalla nicchia entrando nel mainstream (cosa impensabile
Incrociate un cartone dei primi anni Duemila, un webcomic e un gioco di cazzotti della PlayStation 2. Questa è la prima impressione che ho avuto scaricando Duels of Fortune (Cosmic Hat Games, PC, gratis su Steam e itch.io). Questa produzione britannico-canadese ha tutto quello che si potrebbe chiedere a un gioco del genere: un cast numeroso, modalità arcade, minigiochi, missioni, boss cazzuti/infami e un’estetica unica. Duels of Fortune si diverte con la sua caratterizzazione fumettosa, mettendo in mostra una serie di personaggi inusuali e colorati (tra cui, per esempio, un alieno culturista senza gambe e con la testa quadrata). Il sistema di combattimento ricorda molto una fusione tra Smash Bros e Guilty Gear, con movimenti rapidi e mosse speciali lanciate alla pressione di un singolo tasto. L’unica pecca di Duels of Fortune è la mancanza assoluta di modalità online ma, onestamente, per un gioco gratuito sviluppato da un team di esattamente due persone, non gliene si può fare una colpa. Se non altro, il focus sulle modalità a singolo giocatore riporta alla mente i giochi di botte della metà degli anni 2000, farciti all’inverosimile di modalità, personaggi e costumi extra.
anche solo dieci anni fa). Ma l’aspetto forse più interessante è che la scena indie non è stata a guardare: nel 2024 esiste (ancora?) un florido sottobosco di sviluppatori che si dilettano nel genere, con risultati più o meno buoni. In rari casi, come quello di Skullgirls e Them’s Fighting Herds, il successo è stato anche commerciale – purtroppo, trattasi di eccezione e non di regola. Combattere contro pesi massimi come Street Fighter per un gruppo sparuto di sviluppatori è praticamente impossibile e il numero di giocatori attivi in contemporanea raramente supera i cento utenti per le produzioni indie, nonostante modalità online perfette e una assoluta ricchezza di contenuti per singolo giocatore.
Molti di questi giochi meritano una chance, anche solo per la creatività messa in mostra o l’assoluta assurdità del cast. Quindi, senza troppe divagazioni, ecco a voi una serie di chicche che dovete assolutamente recuperare se siete fan del genere e avete accesso a un PC comprato negli ultimi dieci anni.
Da provare se: avete nostalgia dei giochi PS2, vi piace Super Smash Bros e vorreste che fosse più simile ad un gioco di combattimento tradizionale.
Si prenda un dungeon crawler roguelike (troppe parole inglesi, non me ne vogliate) e si aggiungano incontri uno contro uno in cui si mazzullano i mostri come in un gioco di mazzate, il tutto con un’estetica demoniaca urbana – graffiti, musica dance e angeli caduti compresi. Beatdown Dungeon (PC, gratis su itch.io) è opera di un singolo sviluppatore tedesco, Phil Airdash, che ha deciso di unire la sua passione per Shin Megami Tensei con quella per Guilty Gear, creando un gioco decisamente unico nel panorama dei picchiaduro. Beatdown Dungeon ha sette personaggi giocabili e una decina di assistenti selezionabili, più un sistema di medaglie che modificano le statistiche del personaggio o aggiungono abilità. Durante la campagna singolo giocatore, i personaggi salgono di livello e sbloccano la possibilità di equipaggiare più medaglie, con risultati spesso fuori di testa. Gli assistenti causano effetti al limite del degenerato, tra paralizzare o congelare l’avversario, svuotargli la barra super, eseguire un attacco imparabile e così via. Così come Duels of Fortune, neppure Beatdown Dungeon ha modalità online, ma tutti i personaggi possono essere usati nella modalità versus locale e in addestramento. Uno dei personaggi, Custom Demon, ha persino la possibilità di avere un moveset personalizzato, scegliendo tra diverse combinazioni di mosse speciali. Phil Airdash sta lavorando a un sequel, Beatdown Dungeon Demon Day (demo disponibile su itch. io), che sostituisce una modalità RPG al dungeon crawling del primo capitolo e aggiunge ben tre personaggi giocabili al cast.
Da provare se: avete mai desiderato di poter macellare mostri a mani nude in incontri da picchiaduro mentre giocavate a The World Ends With You.
Ovviamente no. Ci sono decine e decine di giochi di mazzate indie che meritano di essere giocati, ma l’angusto spazio di questo articolo non mi permette di elencarli tutti. La prossima volta che aprite Steam per lanciare Street Fighter, magari leggete la lista dei picchiaduro e giochi simili che lo store di Valve vi mostra. Potreste trovare qualche altra gemma grezza da smezzare con i vostri amici. C’è un mondo di giochi di botte là fuori che aspetta solo di essere scoperto.
Andrea “Jens” Demetrio
Vi ricordate Mai Dire Banzai? Se siete della mia generazione o giù di lì sarete probabilmente incappati nelle prodezze di allucinanti (allucinati?) atleti nipponici, immortalate dal leggendario commentario della Gialappa’s Band. Ultra Fight Da! Kyanta 2 (PC, gratis su Steam) è l’equivalente di Mai Dire Banzai nel campi dei picchiaduro indie: manda a quel paese tutte le convenzioni di genere senza mai però stravolgerle del tutto, in un risultato esilarante e fuori di testa. I personaggi possono camminare attraverso l’avversario, tenere premuto un pulsante fa partire le mosse in continuazione fintanto che non lo lasci, il danno è astronomico e le combo completamente esagerate. Kyanta sembra disegnato con Paint, assale i sensi con flash epilettici e effetti sonori chiaramente registrati a voce dallo sviluppatore (una persona sola anche qui, il giapponese Haramaself). Ciononostante (o proprio per questo), Kyanta è un gioco affascinante che si presenta come un The King of Fighters sotto abbondante uso di stupefacenti, con la possibilità di scegliere le dimensioni del team (da uno a tre personaggi) e un nutrito cast che definire unico è poco. Con controlli semplici, meccaniche pazzoidi, boss segreti da bestemmie incrociate e modalità online più che decenti, Kyanta è sia il gioco giusto da portare a una festa tra amici dopo una ventina di gin tonic che un ottimo gioco competitivo con notevole profondità.
Da provare se: vi piace The King of Fighters ma vorreste che fosse più folle e avesse più animali antropomorfi.
di rsgriffith rsgriffith@mailfence.com
A gennaio di quest’anno il mio migliore amico si è suicidato. Una sera, da solo, a casa sua. L’espressione “il mio migliore amico” già mi pone dei problemi: esiste una “Leaderboard” degli amici? E se esiste, in caso di “Game Over” – come questo – ci appare di fronte agli occhi, magari con la visuale che si muove dal basso verso l’alto rivelando piano piano la prima posizione? Ma soprattutto, se “il/la migliore” svanisce, il nostro migliore amico/a diventa immediatamente quello sotto? É necessario quindi notificargli/le formalmente questa “carica”? Può sembrare comico ma queste sono domande che mi sono fatto, e a un certo punto queste domande mi hanno fatto riflettere sul come la nostra vita assieme si sia incrociata continuamente, a volte anche inaspettatamente, con il medium videoludico. Ci sono tipi di giochi che forse per sempre collegherò a lui, e alcune sono tipologie che personalmente vedo sviluppate poco o sempre meno. Questo articolo è quindi un post-mortem videoludico come forse mai ne avete letti – duro e crudo, come piace a SUGO – che dalla conclusione di una vicenda personale cerca fantasmagoricamente di trarre spunti per rilasci futuri di videogiochi. Chissà che qualche lettore non decida di prendere nota per davvero.
Chi dalla periferia si iscrive alle superiori in centro città spesso le inizia sapendo che ritroverà in classe pochissime facce note: io ne riconobbi una sola, un amico che comunque cambiò scuola alla fine di quell’anno. L’età (e forse gli ormoni) complicano la situazione: si è troppo giovani per sapere come sviluppare un rapporto profondo ma troppo grandi per poterne fare a meno. Chi ha oggi 15 o 20 anni non ci crederà ma le “catene di Sant’Antonio via e-mail” erano a un certo punto parecchio “cool” e furono per quelli del mio anno il modo principe per scoprire “i 10 cantanti che non posso fare a meno di ascoltare” o “la più grande figura di merda fatta” dei nostri neo-compagni di classe e quindi per fare amicizia. Ma soprattutto tra i maschi della mia scuola (o chi si riconosceva come tale) un altro strumento fondamentale fu la modalità online di Diablo 1. Essa offriva tutto il necessario: lobby pubblica ma game privati, sangue e satanismo “pop” ma comunque un minimo “da fighi”, la possibilità di vantarsi del proprio equip superiore con gli altri giocatori, una chatbox (con zero filtri) e, per finire, il funzionamento anche con una connessione 56k. Io e BonziBuddy - il nick rubato a un ambiguo software del tempo che era allo stesso tempo una chatroom e
un trojan – abbiamo cominciato a parlarci seriamente così. In classe le ricreazioni erano passate in silenzio o a farci battute dementi, ma a fine giornata ci si assicurava chi si sarebbe connesso a Diablo e si interagiva “seriamente” lì. Ora, che MMORPG e simili furono poi i primi “social network” è assodato. Ma quel Diablo era qualcosa di un po’ diverso: quasi per sbaglio, sembrava essere perfetto non per sostituire ma per far sviluppare rapporti che partivano o esistevano prettamente fuori dal digitale. Le partite su istanze sempre separate e private non portavano alla confusione e dispersione tipica degli altri MMORPG e spingevano a giocare con gente che già si conosceva. Il gameplay ripetitivo e la storia breve con endgame di fatto assente permettevano, o quasi stimolavano, il concentrarsi sulle conversazioni più che sul gioco. E ovviamente, il tanto odiato termine “micro-transazione” non esisteva – il termine più vicino a quello che conoscevamo al tempo era “micro-pene”, un concetto non proprio analogo. Oggi c’è una grande discussione in atto su quanto chi entra nella (pre-)adolescenza accompagnato principalmente dai social network, o Roblox, sembrerebbe avere poi problemi a socializzare: io invece a 14 anni ho socializzato con l’amico più importante della mia vita grazie a Diablo e so di non essere stato il solo. Mi chiedo se questo possa essere ancora possibile, se ci possa essere una voglia, forse silenziosa ma diffusa, di esperienze online che siano giochi, non “social network”, con avatar che non sono foto di noi sotto i filtri di Snapchat e che sono progettati non per farci produrre asset/minigiochi da rivendere a sconosciuti ma per farci passare tempo con gente che già, almeno un po’, conosciamo e che conosceremo sempre di più dopo ogni partita. Giochi che, tra l’altro, considerando queste restrizioni, sarebbero anche alla portata di sviluppatori più piccoli.
Nei ventitré anni a seguire, io e “Bonzi” abbiamo condiviso ogni genere di esperienza, nei paesi più disparati e con persone sempre diverse. Le partite di calcetto notturne scavalcando i cancelli della Lunetta, la leucemia. Abbiamo deciso di trasferirci all’estero, con l’idea di partire verso la stessa meta: non siamo poi partiti assieme e non verso la stessa meta. A un certo punto abbiamo quasi smesso di essere amici. Lui che stava male senza riuscire a spiegare perché. Io che stavo male perché volevo aiutarlo, ma non riuscivo. Ci siamo ritrovati, 11 anni dopo quella prima superiore, in un appartamento “studio” nei pressi del
Marais, a Parigi, che era nei fatti una grande stanza con un WC dentro uno sgabuzzino. Per provare a divertirci, neppure da soli ma assieme a altri, come ci era capitato spesso in passato. Invece siamo finiti a stare da soli e in realtà Bonzi voleva stare totalmente solo, perché aveva promesso che quel giorno si sarebbe ucciso. Siamo stati svegli tutta la notte in silenzio, io ho letto per intero il manuale di istruzioni di un frigo, tra le altre cose. Me ne sono andato quando sono arrivati i suoi familiari, senza salutarci.
Pochissime settimane dopo quell’episodio ho iniziato a lavorare a un gioco su quanto successo in quei giorni. Era un’avventura testuale fatta con Twine, nel farla sono diventato un “esperto” di nomi e categorie di psicofarmaci. Nonostante il lavoro spezzettato durato più di un anno, non l’ho mai realmente finita e, in ogni caso, temevo sarebbe risultata noiosissima ai più. Però, ora capisco, mi fece bene. Qualche anno dopo, quando ancora avevamo pochi contatti a seguito di quella notte, giocai poco dopo l’uscita a The Beginner’s Guide. Fu incredibile. Il gioco è brutto, lento e corto, ma io ero sbalordito perché a ogni passo mi sembrava parlasse di noi. Anzi, più che altro ero terrorizzato. Ricordo che molte recensioni parlavano di quanto quel “walking simulator” intimista semi-autobiografico fosse noioso, non convincente e arrogante. Per me fu un punto di svolta più di molti psicologi in quanto mi mise di fronte, con scritte molto semplici e grafica stilizzata, a prospettive importanti: è possibile che sia “quello che vuole aiutare il malato” il villain della storia? Come convivono l’amore e l’amicizia con la voglia assistenzialista? Che poi, questo è pure uno dei temi secondari del gioco. Alcune persone mi hanno raccontato di episodi simili legati al gioco Cibele, altro gioco “brutto e pretenzioso”. Eppure, quanti ne vorrei vedere di giochi noiosi e brutti che parlano di quanto ci succede senza che la storia “convinca” perché non va, effettivamente, da nessuna parte. Come nella mia avventura fatta con Twine e mai finita. Come il breve gioco fatto da me che mandai l’anno dopo a Bonzi il giorno del suo compleanno, per dirgli che gli volevo bene. Di nuovo, mi chiedo se sono l’unico a avere voglia di questi giochi.
Molti in passato sono morti dopo avere vissuto vite piene di teatro o musica: noi siamo la prima generazione che morirà avendo, a volte, vissuto vite piene di videogiochi. Nel bene o nel male, sembra ci sia un videogioco per accompagnare ogni momento della nostra giornata: mattine, sere, viaggi, a volte pure i pasti. Durante gli anni in cui io e Bonzi ci siamo frequentati a dispetto dei brutti episodi avuti – perché nonostante tutto ci volevamo bene e avevamo bisogno l'uno dell’altro –indubbiamente soffrivamo nel comunicare e usavamo i videogiochi per farlo. In due, seduti nella stessa stanza anche se non troppo vicini, magari uno su un divano e uno per terra, a guardare assieme uno schermo e non l’un l’altro, almeno uno di noi due con un joypad in mano. Sullo schermo qualcosa di veloce, non troppo facile, ma non troppo “punitivo”. Spesso, onestamente, PES o FIFA. Diablo 1 era un modo per rompere il ghiaccio o approfondire una conoscenza, anche a volte cooperando nel gioco. FIFA era un modo per fare uscire quelle cose che sapevamo che dovevamo dirci, e che almeno io volevo dire, ma che seduti allo stesso tavolo, da soli, anche con una birra o una canna, uno davanti all’altro, non sarebbero uscite. Ora, se vi aspettavate un articolo di rigoroso elogio al videogioco indipendente e/o non mainstream, mi spiace avervi deluso. Personalmente, penso che FIFA, NBA 2K, e in qualche misura pure CoD, debbano una parte importante del loro successo al loro facilitare la conversazione tra due o più maschi. Penso sarebbe interessante esplorare questa tipologia di gioco senza “tabù”, ovvero progettare videogiochi fatti in primis per stimolare conversazioni profonde tra individui con disabilità emozionali – come molti maschi italiani – o con ferite emozionali. Quali elementi dovrebbero avere? Non ne ho idea, però so che dopo pomeriggi e sere
a giocare a FIFA e a parlare poco, a un certo punto io e Bonzi siamo tornati, seduti ai tavoli, a parlarci guardandoci negli occhi, o a casa sua ma con la tv spenta, e poi pure in vacanza, e in vacanza con le nostre fidanzate, e con alcuni suoi nuovi amici e colleghi che mi aveva fatto conoscere, in posti sempre più eleganti.
E così è stato, fino al tuo ultimo giorno. Perché forse avremmo dovuto continuare a parlarci così, noi due, invece di passare agli aperitivi in enoteca dove si bevono i vini per prepararsi al prossimo livello WSET, magari con qualche collega di qualche startup che sta pensando di “provare un cambio radicale” e diventare product manager, ma non ne è sicuro. O ai messaggi su WhatsApp tipo “Auguri in ritardo”. Avremmo dovuto continuare a usare videogiochi brutti per raccontare all’altro le esperienze che si sono vissute in solitaria e che non si riescono a esprimere facendo uscire suoni dalle labbra. Se lo avessimo fatto, saremmo ancora assieme?
Me lo chiedo mentre sto seduto su una panchina che ha una targhetta in metallo con il tuo nome inciso sopra, nascosto in parte da una scritta fatta probabilmente con un Molotow nero che dice “PD MERDA”.
É sera ma si vede ancora il parco tutto attorno perché è estate, con me ci sono i nostri compagni delle superiori con le barbe o i capelli imbiancati che bevono birra e mangiano ciliegie. Me lo sto chiedendo in silenzio. Segretamente so che se lo stanno chiedendo anche gli altri, che ce lo chiederemo tutti. Perlomeno, fino al prossimo Game Over
di MattLovelace
Notti in bianco, ramen istantaneo mangiato di fretta davanti al PC, occhi che bruciano, isolamento sociale autoimposto. Sovente, così viene dipinta l’esperienza di una game jam. Magari condita con una punta di orgoglio – machismo? – nel ricordare le sofferenze e il sacrificio per creare la propria opera. Ma è davvero così? E se invece vi dicessi che la game jam può essere tutt’altro, si può finire l’esperienza senza sentire il bisogno di prendersi una settimana di ferie.
Per la GMTK Game Jam 2024 mi sono lanciato in un esperimento. Purtroppo il mio solito gruppo aveva altri impegni e l’unica possibilità era provarci da solo. I dubbi mi assalivano: potevo davvero farcela? Avevo già un discreto numero di giochi alle spalle, ma sempre come programmatore. Non potevo più contare sull’aiuto del mio storico amico e designer e degli altri artisti e musicisti. Che ne sapevo di game design, colori e arte?
Così il venerdì sera fu il mio banco di prova: appena annunciato il tema – “Built to scale” – cominciai a considerare diverse idee: un incrocio tra Donut County e Katamari Damacy, un “god game” in cui devi portare in salvo i tuoi uomini usando oggetti ingranditi e rimpiccioliti. Nella mia mente tutto funziona, ma un veloce giro di prototipi mostrò le limitazioni: o il gioco era troppo vago o troppo complicato. Mancavano 48 ore.
Cominciavo a essere un po’ avvilito. Ma ecco che si fece strada un’idea: e se facessi invece un gioco in cui devi incastrare oggetti in un cestino, con la particolarità di poterli ingrandire e rimpicciolire? Tetris, ma con i pezzi ridimensionabili. All’inizio era sembrata un’idea scialba, ma ripensandoci poteva funzionare. Non sarebbe stato niente di troppo rivoluzionario ma era fattibile e nella peggiore delle ipotesi avrei imparato qualcosa di nuovo. Ormai però erano già le due di notte, non avevo più forze. Stanco ma elettrizzato mi addormentai.
L’indomani lo passai a testare il nuovo prototipo, a mia sorpresa si rivelò buono. L’idea era semplice, quasi banale, ma si adattava bene al tema e era piacevole.
La sera avevo pronto il prototipo con il game loop base. Ora che tutto funzionava, potevo… andare a fare festa con i miei amici! Quindi passai sabato sera tra amabili chiacchiere e tranci di pizza. Anche quella notte dormii in abbondanza.
Di conseguenza domenica restai tutto il giorno a casa: il progetto era promettente ma dovevo ultimarlo. Tuttavia mi imbattei in un ostacolo: quale sarebbe stato l’obiettivo?
Inizialmente l’idea era di prendere spunto dalla meccanica di Papers, Please. Un gioco in cui durante il giorno con la tua attività si racimolano abbastanza soldi per arrivare a fine giornata, sfamando la famiglia e pagando le tasse. Questo però avrebbe cozzato con l’atmosfera “chill” e complicato ulteriormente il gameplay.
Dopo diverse considerazioni ebbi il momento eureka: e se non ci fosse un game over, se non ci fosse nessuna tassa da pagare, ma i soldi si potessero usare a propria discrezione per aiutare le persone del mini-villaggio in cui si opera? Ancora meglio, è proprio il potere di ridimensionare le cose a essere usato per soddisfare tali richieste. L’idea funzionò bene, perché era ridotta, semplice e avrebbe evitato la necessità di un bilanciamento ben studiato. A fine giornata avevo il core del gioco grossomodo sviluppato, ma era ancora un mondo silenzioso e spento. Mancava dell’arte e della musica, come avrei risolto?
Cercai foto di oggetti vari da ricalcare – scaglie di drago, anici stellate, zampe di cavalletta – e con Sketchbook sul mio tablet mi improvvisai artista. Onestamente il risultato finale lascia molto a desiderare, però fu un’esperienza divertente. A ogni modo, quasi tutti gli asset furono fatti interamente da me, il che era già di per sé una piccola conquista. L’unica e l’ultima sera utile a finire il gioco sarebbe stata quella di lunedì. Il gioco era ancora silenzioso. Per quanto io ami la musica
ho sempre avuto la tendenza a sottovalutare gli effetti sonori. Ma il mio caro amico designer mi diceva sempre quanto fossero importanti per rendere il tutto più vivo. Per cui mi sforzai di trovare degli effetti sonori adatti, il che fu un’impresa più difficile del previsto. Non è affatto facile trovare un suono adeguato da accompagnare a una certa azione. Spesso non trovavo il suono che corrispondeva a quello che avevo in mente, altre volte mi sembrava troppo fastidioso. Ma dopo diverse ore e innumerevoli siti, trovai un asset pack che faceva al caso mio. Dopo avere aggiunto gli effetti sonori, il gioco cominciò finalmente a prendere vita. Ridimensionare gli oggetti produceva un piacevole tic-tac, far scorrere avanti e indietro il cestino emetteva un leggero fruscio.
La resa artistica era accettabile, il gameplay piacevole. Così consegnai un’ora prima della scadenza – cosa mai vista prima nelle mie jam precedenti – e passai il resto del tempo a abbellire la pagina del gioco.
Il giorno dopo tornai a lavorare con le solite energie. Non sembrava fossi reduce da una game jam, ero fresco e riposato. Gli ingredienti erano semplici: divertirsi, prendere un’idea piccola e semplificarla, usare il tempo risparmiato per fare polishing, prendersi cura di sé e perché no uscire anche con gli amici per bere una birra. Infine dormire, il sonno rende più produttivi e allunga la vita!
Una settimana e mezza dopo arrivarono i risultati basati sui voti degli altri partecipanti. Ma ancora prima di aprire la pagina, sapevo già che partecipare divertendosi era la mia vera vittoria!
dal prototipo al definitivo
Questo è un progetto a cui sto lavorando da inizio luglio, nel tempo libero.
Into the Corpse, così si chiama il gioco, è un roguelike con combattimento a turni, dove l’obiettivo è pagarsi l’affitto.
L’elemento fantastico è la vita del tuo personaggio, ha studiato in una scuola di avventurieri per diventare eroe, ma ha fallito e rimedia un po’ di grana stanando mostriciattoli nei sottoscala di pensionati rompiscatole.
Capendo che questa mansione non gli rende, e con la prospettiva di non arrivare a fine mese, decide di partire per un'avventura.
Non troppo lontano da dove vive, un enorme essere demoniaco è caduto dal cielo e giace morto stecchito sulle alture della città. Si vocifera che fosse un dio, ma nessuno è riuscito a identificarlo. Il suo corpo sembra un labirinto che nasconde una fortuna, il che ha attratto molti a saccheggiare le sue frattaglie colme di tesori.
Così il tuo personaggio considera l’idea di unirsi alle ricerche, sebbene si dica che il posto sia sorvegliato da creature strane e pericolose.
L’idea del loop di gioco è semplice: inizi con un equipaggiamento base e intraprendi una spedizione per una settimana. Nel labirinto affronti mostri e raccogli bottini casuali. Il combattimento è un 1 contro 1 a turni. Ogni 4 missioni devi aver raccolto abbastanza tesori per pagare la quota d’affitto di casa altrimenti hai perso. Questa quota aumenta con l’addentrarsi nel labirinto. I soldi rimanenti possono essere usati anche per procurarsi potenziamenti, utensili o per migliorare le armi a tua disposizione.
Il gioco è interamente sviluppato in Godot 3.6. Ho preferito questa versione dell’engine in quanto lo shader che sto utilizzando è compatibile solo con la versione 3.x dell’engine. Lo shader che ho utilizzato sovrappone un livello di texture noise per dare del movimento come nelle televisioni crt. inoltre limita i colori a quelli di una palette predefinita. Se siete interessati a usarlo anche voi nei vostri progetti cercate Ash K’s Chunkiest Juice template su itch.io, il prezzo è veramente conveniente.
Cosa mi ha spinto a ricercare un’estetica di questo tipo? Da quando ho provato PRODUCER (2021) di Stuffed Wombat, ho cambiato prospettiva su come fare i videogiochi.
Trovo affascinante l’estetica “pixel junk” e soprattutto è molto soddisfacente da creare. Mi diverte fare photobash con quello che trovo su online Pexels o simili. Cos’è il photobash? É una tecnica che consiste nell’utilizzare più risorse digitali come immagini, texture e modelli 3D per creare opere d’arte dall’aspetto nuovo, una specie di collage digitale per intenderci. La mia ricerca consiste nel creare immagini imperfette e trovare un’estetica che sia “buona abbastanza” e accattivante al tempo stesso.
L’idea del gioco in sé invece nasce da un tentativo di partecipare alla nota game jam 7DRL, la jam principe per quanto riguarda i giochi roguelike. Il gioco purtroppo non è stato completato a suo tempo ma ha avviato l’idea del “dio deceduto”, inoltre sotto consiglio di No-Eye Dev ho deciso di completare questa idea.
Sempre da No-Eye Dev e in particolare dal suo gioco NO-SKIN nasce l’idea di semplificare il gioco e trasformare il combattimento in 1 contro 1 e caratterizzare le meccaniche e l’atmosfera in creepy. Questo gioco mi ha dato la vera spinta a riprendere in mano Into the Corpse.
Prima avevo creato molteplici prototipi di combattimenti a turni alla Final Fantasy, con più personaggi e nemici. Limitare il numero di combattenti a 2 semplifica a livello di programmazione, ma rende più complicato l’aspetto di design e variazione nel combattimento. Ma un’altra lezione che ho imparato da NO-SKIN (e dai svariati giochi di ruolo cartacei di stampo old school) è: un game loop può essere incentrato sul gestire le proprie risorse piuttosto che sullo sconfiggere ogni avversario. Potresti trovare nemici fuori scala e l’opzione più giusta sarebbe fuggire.
SUGO Magazine da un progetto di Samuele Prosser
Redazione: Samuele Prosser
Luca Albani Valentina Prezzi
Sito web: Marco Chierchia
Autori:
Sui – Stefano Mazzotta
Marco Pedrana
davcri – Davide Cristini
Encelo – Angelo Theodorou
Bruno B.
Stavros – Elia Coan
Andrea “Jens” Demetrio
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MattLovelace – Matteo Silvestro
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