Documenti e studi 14

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DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS 14


DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS

Pubblicazioni dello Studio Teologico S. Paolo – Catania www.studiosanpaolo.it www.giunti.it © 2006 Giunti Progetti Educativi, Firenze Prima edizione: ottobre 2006 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0

Anno 2010 2009 2008 2007 2006

Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato


GIUSEPPE SCHILLACI

ESSERE COME DIS-INTER-ESSE Dalla corporeità alla carità

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


«La carità… non cerca il suo interesse». (1Cor 13,5)


INTRODUZIONE

Il principio di ogni pensare è essere. Essere per pensare! È questo il problema filosofico per eccellenza così come si è dispiegato nella storia del pensiero. È questa la chiave di volta che ha sostenuto e mosso la filosofia occidentale sin dal suo sorgere, la quale ha, tuttavia, operato prevalentemente nell’ambito teoretico con una fondamentale preoccupazione: ridurre e ricondurre l’alterità all’identità. L’identità emerge così rigogliosa e forte prevaricando in tal modo su ogni accenno di alterità. In questo breve percorso abbiamo cercato di mostrare, invece, come una identità non si può pensare se non a partire dall’alterità. Il costituirsi dell’identità ha come riferimento essenziale l’alterità, la differenza. L’alterità è l’orizzonte di senso all’interno del quale ripensare l’identità stessa. Di conseguenza se abbiamo voluto prendere in considerazione percorsi e dinamiche di alterità è per dare un principio alla stessa identità. Non solo l’alterità è costitutiva del pensare e del nostro argomentare stesso, ma è anche la radice di ogni identità. L’alterità nel cuore dell’essere. L’altro per pensare ma anche per essere, per essere diversamente, per essere come dis-inter-esse. Questi i passi che ci hanno condotto in questo cammino: a) L’esistenza concreta ha la sua manifestazione nel corpo mio e altrui. L’essere non è una pura concessione teoretica, ma l’esperienza della nostra corporeità. Il mio essere un corpo è la condizione stessa perché possa non solo dire l’essere, ma anche essere nell’essere. Il corpo per pensare ed essere. L’essere si dà quindi in un corpo. E, non solo nel mio corpo, ma anche nel corpo dell’altro. La scoperta del mio corpo è la scoperta del corpo dell’altro. Più il mio corpo diventa mio più questo scopre l’alterità e viceversa più il mio corpo scopre l’alterità più diventa mio. L’altrui corpo è la condizione per riappropriarmi del mio corpo e della mia unicità. In un tempo in cui si fa fatica a trovare un senso alla vita, partire dalla corporeità ci permette di lasciare il nichilismo per assumere un dinamismo di incarnazione in cui ha sede la possibilità di accogliere e consegnare il dono. È il corpo donato che si dona. b) Vivere un’esistenza per… è la prospettiva dentro la quale abbiamo voluto pensare un essere responsabile che abbandona l’indifferenza per farsi prossimo. Ripensare l’umano non in termini di contrapposizione

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dentro cui germina la paura, ma di prossimità da cui rifiorisce la fiducia. Essere contro l’altro è il paradigma dello scontro, non solo delle civiltà, delle culture, delle religioni tra di loro, ma anche di una vita concepita come lotta, competizione e prevaricazione. In questa logica la vita si scopre sempre più minacciata, da cui nasce un atteggiamento di difesa dell’uomo contro l’altro uomo. La guerra è il necessario esisto di tale contrapposizione. Ora, all’essere contro occorre proporre la prospettiva dell’essere con e dell’essere per: la ricchezza dell’alterità. La scoperta dell’altro come compagno di strada comporta la sua accoglienza come estraneo, come altro. Dal momento in cui l’uomo accoglie l’altro come altro, egli non è più un essere contro ma un essere per l’altro, quindi è chiamato a farsi e ad essere prossimo. L’essere prossimo implica una responsabilità irremissibile nei confronti dell’altro, creatrice di responsabilità. c) L’esistenza vissuta come dono ha nella carità il nuovo orizzonte del pensare. All’interno del quale siamo chiamati a ripensare l’essere, ossia meditare, per dimorare nell’essere come dis-inter-esse in quella continua capacità di meraviglia che genera fiducia, apertura e generosità. Lo stupore alla radice del pensare stesso, ma per riscoprire un’esistenza donata gratuitamente. Non più un ritorno nostalgico che cerca una ricompensa in vista di una protezione egoistica o di privilegio, ma un’uscita radicale da sé che si consegna rispettosamente senza risparmiarsi, esponendosi anche al rifiuto, pur di lasciar crescere. Dal bisogno alla gratuità, dalla nostalgia all’esodalità, dal dono all’umiltà, in questo itinerario abbiamo voluto ripensare ciò che è semplice e dimorarvi. L’essere come dis-inter-esse che non cerca impazientemente di appropriarsi dell’altro, ma lascia un’identità venire fuori. In questo dinamismo eccedente non c’è la preoccupazione di trovare una giustificazione ed un contraccambio, ma il desiderio di riscoprire la logica del consegnarsi gratuitamente che non cerca il proprio interesse. La carità disinteressata si esibisce, umilmente e senza clamore, in un cammino che non avrà mai fine!

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CAPITOLO I

IL MIO CORPO E L’ALTRUI CORPO: L’INTERSOGGETTIVITÀ 1. PREMESSA La riscoperta del corpo nel pensiero contemporaneo porta come segno distintivo e filo conduttore la svolta antropologica, vale a dire la centralità della persona umana, vista sul piano della sua conoscenza concreta ed esistenziale. Occorre collocare in seno ad una tale dimensione antropologica l’attenzione che la riflessione odierna dedica al corpo e alla corporeità. Senza dimenticare, naturalmente, che il pensiero occidentale viene costruendosi attorno all’apporto decisivo del platonismo e del neoplatonismo, legati come sono ad una visione negativa del corpo. Il pensiero platonico e neoplatonico ha influenzato non poco la riflessione e la prassi del cristianesimo. L’epoca dei padri e il medioevo portano un segno indelebile di tale influenza, che continua, senza paura di smentite, fino all’umanesimo e al rinascimento. L’influsso del platonismo, sotto certi versi e considerate certe conseguenze, possiamo dire, giunge fino ai nostri giorni. Come reazione a questa svalutazione del corpo si è sviluppata una forma di materialismo che nel pensiero occidentale si è evidenziata in particolare nelle filosofie del seicento e del settecento: il movimento e il pensiero illuministico portano in sé il marchio di questa reazione. Con la riflessione di Galilei inizia un modo di concepire il corpo che non esisteva prima. In pratica, con l’atto fondatore della scienza galileiana nasce un modo nuovo non solo di concepire il mondo, ma anche l’uomo. La rivoluzione è posta in atto allorché Galilei «dichiara che la conoscenza alla quale l’uomo si affida da sempre è falsa e illusoria. Questa conoscenza è la conoscenza sensibile che ci ha fatto credere che le cose hanno dei colori, degli odori, dei sapori, che sono sonori, gradevoli o sgradevoli, per farla breve, che il mondo è un mondo sensibile. Mentre l’universo reale è composto da corpi materiali insensibili — estesi, dotati di forme e di figure —, in maniera tale che il suo modo di conoscenza non è la sensibilità che varia secondo gli individui e che non propone altro che delle apparenze, ma la conoscenza razionale di queste figure e di queste forme: la geometria. La conoscenza geometrica della natura materiale — conoscenza che è

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possibile (Cartesio lo dimostra senza tardare) formulare matematicamente —, tale è il nuovo sapere che prende il posto di tutti gli altri rigettandoli nell’insignificanza»1. In seno a questa modalità di conoscere, da parte di Galilei, viene posto l’atto proto-fondatore della modernità che consiste nel capire il mondo alla luce della conoscenza geometrico matematica: «la scienza galileiana non produce soltanto uno sconvolgimento sul piano teorico, modellerà il nostro mondo, delimitando una nuova epoca della storia, la modernità»2. Secondo Michel Henry, a differenza di altre civiltà, l’atto fondatore della modernità in occidente, il mondo al quale noi apparteniamo, risulta da una decisione intellettuale chiaramente formulata, alla luce della quale si scorge un universo ridotto ad un insieme di oggetti e di fenomeni materiali3. Cartesio prende le mosse da questo atto fondatore per intravedere nel corpo non altro che una res extensa, una cosa estesa, che ha delle proprietà geometrico matematiche, ossia le leggi che, ultimamente, Dio stesso ha impresso alla sua opera, alla natura. Il corpo dell’uomo rientra in questa dimensione che è altra cosa rispetto al pensiero, alla coscienza, allo spirito; esso risponde alle leggi della meccanica. Si pone così in questa separazione tra la res cogitans e la res extensa, «una delle forme più radicali del dualismo antropologico che siano mai state pensate nella filosofia occidentale»4. Il corpo esteso rientra nel campo della realtà materiale oggettiva di cui si occupa il pensiero scientifico e ne segue le leggi, mentre il pensiero, l’anima, appartiene alla realtà dello spirito che è libero da ogni costrizione esteriore. L’affermazione dell’anima libera da qualsiasi influenza del corpo induce Cartesio a dimostrare la sua esistenza senza il corpo e di conseguenza la sopravvivenza oltre la morte. Res cogitans e res extensa 1

M. HENRY, La barbarie, Paris 2001, 1. L. c. 3 «A’ la différence des autres civilisations dont les conditions d’apparition sont complexes et multiples, irréductibles au seul jeu de l’intelligence — au point qu’il est loisible de leur appliquer de l’extérieur de vagues schémas dépourvus de tout pouvoir explicatif réel (par exemple, le schéma organiciste de la naissance, de la croissance, du déclin et de la mort) —, la modernité résulte d’une décision intellectuelle clairement formulée et dont le contenu est parfaitement intelligible. C’est la décision de comprendre, à la lumière de la connaissance géométrico-mathématique, un univers réduit désormais à un ensemble objectif de phénomènes matériel, et, bien plus, de construire et d’organiser le monde en se fondant de manière exclusive sur ce nouveau savoir et sur les processus inertes qu’il permet de maîtriser» (ibid., 1-2). 4 P. PRINI, Il corpo che siamo, Torino 1991, 8. 2

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sono pertanto considerate come due sostanze, realtà, separate che non hanno nessun rapporto tra di loro. Il corpo non influenza la nostra anima. Ci sono dei movimenti che sono propriamente corporei, che non hanno alcuna relazione con il pensiero, per cui fanno riferimento esclusivo alla sfera corporea. Così il corpo viene compreso come se fosse una macchina. Nel pensiero di Cartesio vengono, però, messe in particolare evidenza le modalità dell’anima che sono più certe della realtà dei corpi: le cogitationes. La sfera della soggettività diventa più essenziale di quanto non lo sia l’universo dei corpi, oggetto di studio e competenza della scienza. La soggettività si coglie come realtà assoluta e indipendente dalla verità del mondo. Il corpo secondo questo quadro di riferimento non ha, pertanto, a che fare con la sfera soggettiva dell’esistenza. In tale contesto pratico speculativo si innesta la reazione materialistica, alla filosofia di Cartesio, del Seicento e del Settecento illuministico. Con la riscoperta del corpo nella sua materialità e fisicità viene fuori la «consapevolezza di una vitale connessione del corpo con la dimensione istintuale, affettiva e razionale e spirituale dell’uomo, contro le rigide scissioni dualistiche del passato tra la sfera sensibile, emotiva, pulsionale e la sua anima, la sua spiritualità, le funzioni superiori dell’intelligenza, della capacità di amare e di vivere in tutta la loro ricchezza, la varietà infinita delle esperienze spirituali»5. Tale consapevolezza viene emergendo, sempre più chiaramente, dopo l’idealismo tedesco che pone in essere il superamento del dualismo cartesiano dando così un particolare rilievo all’Io. Il primato dell’io si mostra palesemente nel movimento idealistico come momento fondativo della realtà stessa. La realtà, quindi anche la natura e il corpo, nelle sue diverse manifestazioni è posta e costituita dall’io. L’idealismo classico procede in questa precisa direzione, perseguendo come obiettivo quello di superare ogni forma di dualismo: «in quella stagione della filosofia classica tedesca, nell’idealismo, peraltro, si aveva il superamento di ogni concezione dualistica, comprendendo la natura e quindi anche la corporeità umana come un momento dialettico dello Spirito e dell’Assoluto, il che si rende particolarmente evidente anche nella filosofia romantica della natura. Ma natura e corporeità rimanevano, 5 L. CASINI, La riscoperta del corpo come «filo conduttore» della conoscenza dell’uomo, in Studium 3-4 (2000) 451. La rivista riporta gli atti dell’VIII Convegno culturale di Studium svoltosi a Roma il 21-23 ottobre 1999, sul tema Corporeità e pensiero, che vede il confronto, sull’antico e sempre attuale rapporto mente-corpo, tra fisici, neurofisiologi, psicologi, filosofi e teologi.

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nell’universo idealistico e romantico, una manifestazione ad extra dell’Idea, un momento dell’Io o dello Spirito»6. La preoccupazione che si evidenzia nel movimento idealistico, senza dimenticare l’influenza della riflessione kantiana, è quella dell’unità sintetica di impronta monistica: «Prototipo di questa concezione è Spinoza, che annulla la dualità cartesiana di res exstensa e di res cogitans nell’unità della sostanza divina»7. La dialettica hegeliana difatti si sviluppa tenendo presente la prospettiva dell’unità, della riconciliazione, tra pensiero e realtà, tra spirito e corpo, ricondotta sempre alla totalità del sistema che ha nel sapere la sua scaturigine fondante: «Un monismo di tipo spiritualistico sopprime la dualità in un processo spirituale. La materia viene ricondotta senza residui allo spirito e concepita a partire da esso, come autoalienazione dello spirito, che in questo modo manifesta sé stesso all’esterno e media sé a sé stesso; in definitiva tutto è un succedersi di accadimenti spirituali, secondo la concezione dell’idealismo tedesco, specialmente di Hegel»8. Le filosofie che sorgono come reazione all’idealismo, mettendo in luce la dimensione materiale e fisica, cercheranno di mantenere questa tensione unitaria, in cui naturalmente il primato è dato alla componente corporea: «le filosofie sorte in reazione o dopo l’idealismo mantennero questo rapporto unitario a partire tuttavia dal sensibile, dalla dimensione corporea e istintuale dell’uomo, riducendo, sia pur in modo troppo unilaterale, lo spessore dinamico e profondo della sua ricchezza spirituale, ma senza smarrirlo tuttavia del tutto e senza dimenticare alcune grandi valenze della lezione idealistica»9. Al monismo idealistico si contrappone dunque un monismo di tipo materialistico che «si propone di superare la dualità, riconducendo tutto alla materia e cercando di spiegare tutto a partire da essa. Dunque anche i fenomeni della vita, compresi quelli della vita psichica e cosciente devono essere compresi, mediante le leggi della successione dei fatti materiali, come semplici epifenomeni dei processi fisici. Il materialismo, a partire dal XVIII e del XIX secolo, ha assunto diverse forme, passando dal materialismo positivistico, che voleva spiegare, in modo ancora molto primitivo, anche i fenomeni psichici mediante processi fisico-chimici, al materialistico dialettico, che certo ammette salti dialettici 6

Ibid., 451-452. E. CORETH, Antropologia filosofica, trad. it., Brescia 1983, 136. 8 L. c. 9 L. CASINI, La riscoperta del corpo come «filo conduttore» della conoscenza dell’uomo, cit., 452. 7

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in modalità qualitativamente superiori, nelle quali la materia si manifesta ed agisce, ma che ugualmente vuole spiegare tutto, anche le esperienze spirituali, sulla base della materia»10. Autori come Schopenhauer, Feuerbach, Nietzsche, pur mostrando modalità e articolazioni diverse tra di loro, si muovono in questa direzione ricercando un superamento del dualismo anima corpo, pensiero realtà, spirito materia, lasciando intravedere «una comprensione più profonda delle dinamiche che connettono i due poli. Se da un lato la coscienza e lo spirito umani vengono considerati sempre più — e cadendo in facili eccessi — nei loro condizionamenti corporei e istintuali, d’altro canto il corpo non è più considerato oggetto tra oggetti o oggetto di un soggetto, ma soggetto esso stesso, sorgente di intenzionalità e di valore, realtà non meramente fisica, ma un fitto tessuto di emotività e di vitalità che si estendono fino al centro coscienziale dell’uomo»11.

2. IL MIO CORPO 2.1. La distinzione tra Körper e Leib La nostra riflessione sul corpo, per quando detto, non può prescindere, quindi nel suo punto di partenza, dal pensiero di Cartesio. Il cogito costituisce, per questa problematica, un inevitabile punto fermo e il riferimento sicuro e indubitabile. È vero, infatti, che nella riflessione di Cartesio l’io penso costituisce una chiave di volta del suo sistema; come Archimede egli cerca la leva con la quale sollevare il mondo, cerca quel punto fermo e sicuro che permetta di porre il mondo da un’altra parte. Per questo motivo il suo percorso filosofico parte da una finzione, considerando le cose che vede come false, fino al punto da essere concepite senza corpo. L’io costituisce la certezza, l’evidenza, il principio primo del suo filosofare: «questa verità: Io penso, dunque sono, è così ferma e certa che neanche tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici sarebbero capaci di scuoterla, giudicai di poterla accoglierla senza scrupolo come il primo principio della filosofia che io cercavo»12. L’io è io, però, grazie all’anima e non al corpo, 10

E. CORETH, Antropologia filosofica, cit., 136. L. CASINI, La riscoperta del corpo come « filo conduttore» della conoscenza dell’uomo, cit., 452. 12 R. DESCARTES, Discours de la méthode, in Œuvres et lettres, Paris 1953, 147-148. 11

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il quale al contrario si potrebbe pensare come se non esistesse, cosicché Cartesio può continuare con certezza dicendo che: «esaminando con attenzione ciò che ero, e vedendo che potevo fingere di non avere nessun corpo, e che non ci fosse nessun mondo e nessun luogo dove io fossi, ma che non potevo per questo fingere di non esserci, al contrario dal fatto stesso che io pensavo a dubitare della verità delle altre cose, ne seguiva in modo molto evidente e in modo molto chiaro che io ero […] conobbi di conseguenza che ero una sostanza di cui tutta l’essenza o la natura consiste nel pensare, e che per essere non ha bisogno di nessun luogo, né dipende da alcuna cosa materiale»13. Quando si rivolge alla conoscenza di sé Cartesio non pensa al corpo. L’identità del sé risiede, nel suo percorso speculativo, nell’anima stessa, che è assolutamente distinta e assolutamente differente dal corpo14. Il punto di partenza sarebbe questa identità: io penso, alla prima persona, dunque sono! L’io sono scaturisce dal cogito; l’identità viene fuori dall’io penso che viene posto come origine dell’identità stessa. Il cogito cartesiano viene configurandosi essenzialmente come affermazione di sé, come potenza dell’io penso, il quale è posto non solo nella condizione di essere signore e padrone della natura, ma assume la presunzione di Protagora di essere misura di tutte le cose. L’io è il principio e la spiegazione di tutte le cose. Questo principio viene messo in questione dalla filosofia dell’esistenza — significativamente rappresentata da Heidegger15, da Marcel16, da Jaspers17 — che richiama la filosofia stessa al suo compito fondamentale: porre la questione del senso in modo radicale confrontandosi con la propria condizione umana corporea: «la filosofia dell’esistenza parte dalla certezza oscura e globale del nostro essere incarnati dentro l’atmosfera esorbitante del mondo, come dice il Marcel, o, secondo Heidegger, del nostro emergere come questione della verità che ci riguarda, in mezzo a ciò che è meramente fattuale e semplicemente ‘è ciò che è’, alla maniera delle stelle che ruotano nel cielo o degli animali che stanno in mezzo alle cose e le utilizzano per la propria sussistenza. È infatti da cercare nell’ambiguità del Cogito l’origine e la prima ragione di quel 13

Ibid., 148. Il corsivo non è nel testo. Cfr l.c.: «ce moi, c’est-à-dire l’âme, par la quelle je suis ce que je suis, est entièrement distincte du corps, et même qu’elle est plus aisée à connaître que lui, et qu’encore qu’il ne fut point, elle ne laisserait pas d’être tout ce qu’elle est». 15 Sein und Zeit, 1927. 16 Journal Métaphysique, Paris 1927. 17 Philosophie, Berlino 1932. 14

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processo d’evasione o d’isolamento all’infinito dall’esistenza, che caratterizza gran parte delle istanze antimetafisiche del pensiero moderno. Il Cogito è l’atto mediante il quale la coscienza empirica si trascende ponendosi come contenuto o oggetto di un soggetto che non è propriamente Monsieur Descartes in persona, ma un ‘Io penso’ in astratto, ossia isolando l’esperienza in un rapporto soltanto formale e non più esistenziale»18. La filosofia dell’esistenza ha avuto il merito di spostare l’attenzione da una preoccupazione eminentemente conoscitiva, che ricerca una validità di tipo epistemologico, alla evidenza della esistenza stessa, cioè al fatto che qualcosa esiste. Ciò che è indubitabile, incontrovertibile, è dunque l’esistenza, ma una esistenza che coincide con l’esistente. Lo sforzo di Marcel, in questo senso, è quello di mostrare «l’indissolubile unità dell’esistenza e dell’esistente»19. Partire dalla priorità della esistenza significa essenzialmente constatarla, riconoscerla, distanziarla dal cogito per lasciar emergere un ordine, anche metafisico, differente: «la realtà che il cogito rivela — senza per altro fondarla analiticamente — è di un ordine tutto differente dall’esistenza di cui tentiamo qui non tanto di stabilire quanto di riconoscere, di constatare metafisicamente la priorità assoluta»20. L’atto di esistenza precede l’atto con cui l’io riduce o riconduce a sé quanto è altro da sé, il mondo esterno. Ridurre l’altro ad oggetto è proprio di un soggetto che conosce e conoscendo oggettiva, in quanto si distanzia dall’oggetto stesso, così da definire nello stesso tempo i contorni dell’oggetto, secondo i criteri del razionalismo scientifico: «La critica del sapere dal punto di vista della sua evasione esistenziale significa per il Marcel, in definitiva, il recupero di un concetto concreto, e precisamente corporeo della soggettività, in sostituzione dell’‘Io penso’ puramente astratto del razionalismo epistemologico. Nel suo primo manifesto metodologico, Esistenza e oggettività, apparso la prima volta nella Revue de Mètaphysique et de Morale e poi in appendice alla prima parte del Journal métaphysique, egli ha osservato che questo non tener conto del soggetto corporeo nella sua singolarità è la stessa definizione dell’oggettività scientifica: ‘Un oggetto come tale […] è dato ad un pensiero che fa astrazione da ciò che ha in sé 18

P. PRINI, Pensiero ed esistenza, in Studium 3-4 (2000) 473-474. G. MARCEL, Journal Métaphysique, cit., 313. 20 Ibid., 315: «Le cogito — prosegue Marcel — nous introduit dans un système d’affirmations dont il garantit la validité; il garde le seuil du valable, et c’est seulement à condition d’identifier le valable et le réel qu’on peut parler, comme on l’a fait si souvent sans prudence, d’une immanence du réel à l’acte de penser» (l. c.). 19

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d’individuale; l’oggetto in quanto tale è definito come indipendente dai caratteri che fanno che io sia io e non altro. È dunque essenziale alla natura stessa dell’oggetto di non tener conto di me. […] Il Cogito è l’affermazione di sé come potenza universale di determinazione intellettuale’»21. Un atteggiamento speculativo che pone il sapere come unico portatore di senso conduce la riflessione filosofica occidentale ad una forma di concupiscenza del soggetto conoscente che fagocita ogni cosa conosciuta. Ci troviamo dinanzi ad un atteggiamento del pensiero che incentra tutto sulla conoscenza, per cui il protagonista resta ancora l’io penso, etereo, quasi immateriale, concepito senza corpo o al più con un corpo che non viene ancora riconosciuto come tale. Il punto fermo resta ancora il soggetto conoscente che riconduce tutto a sé, in particolare riconduce a sé il mondo esistente al quale, però, inevitabilmente appartiene. È, invece, il riconoscimento di una soggettività corporea che ci mette nelle condizioni di riconoscere e incontrare l’esistenza: «le cose esistono per me nella misura in cui io le cose le guardo come i prolungamenti del mio corpo. Ma d’altra parte io li penso come oggetti solo nella misura in cui io mi pongo dal punto di vista degli ‘altri’, di ‘chiunque’ e finalmente di ‘nessuno’»22. La realtà, che mi circonda dentro la quale io esisto, è per me in quanto io sono un corpo. Il mio corpo coglie la realtà in quando è dentro la realtà stessa, ma nello stesso tempo perché ne è il punto di vista. Giunti a questo punto, è necessario, tuttavia, distinguere tra un corpo oggetto e un corpo soggetto. La lingua tedesca, distinguendo tra Körper e Leib, ci permette di chiarire meglio questi due aspetti della realtà corporea. Il corpo in senso fisiologico o biologico è espresso con il termine Körper, mentre il corpo come realtà vissuta ed esperimentata è espresso con il termine Leib. Husserl, nelle sue Meditazioni cartesiane23, introduce questa distinzione che non troviamo nelle altre lingue: «Tra i corpi di questa ‘Natura’, ridotta a ‘ciò che mi appartiene’, trovo il mio proprio corpo organico (Leib) che si distingue da tutti gli altri corpi per una particolarità unica; è, in effetti, il solo corpo che non è soltanto corpo, ma precisamente corpo organico»24. Con il temine Körper si intende quindi il corpo 21

P. PRINI, Pensiero ed esistenza, cit., 474. G. MARCEL, Journal Métaphysique, cit., 273. 23 Cfr E. HUSSERL, Méditation cartésiennes, Paris 1986, §§ 44-52 24 Ibid., 80. Nella nota i traduttori precisano: «Les termes allemandes: Körper et Leib, n’ayant qu un seul équivalent français, corps, nous traduirons Körper par ‘corps’ et Leib par ‘corps organique’». Tra i traduttori figura E. Levinas. Da notare pure che la traduzione in 22

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oggetto, cioè quello che noi percepiamo nella nostra esperienza, la realtà fisica con cui veniamo a contatto, mentre con Leib si intende il corposoggetto, cioè il mio corpo, quello che ciascuno di noi sente nella propria pelle. Quando parliamo del mio corpo ci riferiamo pertanto alla dimensione del soggetto e non a quella dell’oggetto25. È il soggetto psichico che percepisce altro da sé e sé come corpo. Il corpo non come oggetto sensibile ma come soggetto che sente. Il corpo che percepisce se stesso come corpo è pertanto la condizione esistenziale per riconoscere la realtà esistente. Il mio corpo è la condizione del mio essere che si sente corporeo, per cui egli non solo esiste, ma percepisce il mondo come esistente. Il corpo che prova se stesso è il soggetto incarnato26. Nella riflessione dell’ultimo Henry, che riprende la sua ricerca giovanile su Maine de Biran27, è espressa questa manifestazione di un corpo vivente in cui è palese il tentativo di superare ogni forma di dualismo. Secondo il filosofo di Montpellier la corporeità originaria ha la sua essenza propria nella vita; la via di accesso al corpo non è più l’ek-stasi dal mondo, ma la vita28. Il principio è la vita; nella vita tutto ha valore perché originato dalla vita e in vista della vita. Ora, la vita si coglie nella sua concretezza in un corpo che sente, e particolarmente nel mio corpo che sente; il mio corpo lingua francese di queste lezioni, tenute alla Sorbona da Husserl tra il 23 e il 25 febbraio del 1929, è del 1931, mentre il testo originale appare nell’edizione tedesca nel 1950. 25 Sulla distinzione tra corpo oggetto e corpo soggetto si veda pure l’ampia prima parte del volume di M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Paris 1945, 80-232. 26 Si veda a proposito il saggio di M. HENRY, Incarnation. Une philosophie de la chair, Paris 2000. Facendo proprie le analisi di Husserl, Henry distingue tra corpo e carne. Il corpo qui corrisponde al termine tedesco Körper mentre la carne corrisponde al termine Leib. J.L. Marion nel suo saggio Le Phénomène érotique ritorna su questa distinzione husserliana riprendendo quella propria di Henry: «La chair s’oppose aux corps étendus du monde physique, non seulement parce qu’elle touche et sent les corps, tandis que les corps ne sentent pas, même si un toucher le sent; mais surtout parce qu’elle ne touche les corps qu’en se sentant elle-même les toucher autant, voire plus, qu’elle ne les sent. La chair ne peut rien sentir sans se ressentit elle-même et se ressentir sentante (touchée, voire blessée pare ce qu’elle touche); il peut même arriver qu’elle sente en se ressentant non seulement sentante, mais aussi sentie (par exemple, si un organe de ma chair touche un autre organe de ma propre chair)» J.L. MARION, Le Phénomène érotique, Paris 2003, 69. 27 Cfr M. HENRY, Philosophie et phénomenologie du corps. Essai sur l’ontologie biranienne, Paris 1965. Un libro pubblicato nel 1965 ma che in effetti fu redatto negli anni 1948-1949. All’inizio questo saggio era stato concepito come un capitolo della sua grande opera L’Essence de la manifestation, Paris 1963. Da non trascurare l’altro suo saggio Phénoménologie matérielle, Paris 1990 28 Cfr M. HENRY, Incarnation, cit., 167-171.

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non è più percepito come realtà esteriore sentito da me, come una cosa tra le cose, un oggetto tra altri oggetti, ma come principio di percezione delle cose e degli oggetti, dell’esistenza; questo è il corpo vivente. Il corpo proprio fa un tutt’uno con il soggetto che prova se stesso, che sente la propria pelle, che sente se stesso vivere. Io sono il mio corpo che prova se stesso, per cui non viene assorbito nel regno delle cose o degli oggetti che, perché tali, possono essere modificati o controllati come si vuole. La condizione che mi porta a dire: io sono il mio corpo non cade perciò sotto il dominio dell’oggetto, ma è un’apertura ad altro da sé: «Quando dico che io sono il mio corpo, questo significa che nessuna relazione della cosa alla cosa (o anche dell’essere all’essere) è applicabile qui: io non sono il signore o il proprietario o il contenuto del mio corpo ecc. Perciò non appena io tratto il mio corpo come una cosa, io esilio me stesso all’infinito: giustificazione negativa del materialismo; al limite si giunge alla formula seguente: il mio corpo è (un oggetto), io non sono niente»29.

2.2. Il mio essere nel mondo Il mondo esiste nel momento in cui io sono un essere che sente, che percepisce, ossia un corpo vivente. Ora, prima di prendere di mira qualsiasi oggetto il corpo percepisce se stesso: «Se io sono il mio corpo, questo è in quanto io sono un essente che sente; e mi pare si possa precisare ancora e dire che io sono il mio corpo nella misura in cui la mia attenzione si porta su di lui innanzitutto, cioè prima di potersi fissare su qualsiasi altro oggetto. Il corpo beneficerebbe dunque di ciò che mi si permetterà chiamare una priorità assoluta»30. La priorità assoluta del corpo soggettivo e incarnato, che prova se stesso, costituisce la condizione essenziale ed esistenziale perché esista un mondo. Il mondo esiste per me ed io esisto nel mondo come un essere nel mondo, come Dasein al dire di Heidegger. Il mio essere nel mondo è il dato primordiale della mia coscienza. L’essere nel mondo diventa costitutivo dell’io sono: «l’espressione ‘sono’ è connessa a ‘presso’. ‘Io sono’ significa, di nuovo: abito, soggiorno presso… il mondo, come qualcosa che mi è familiare in questo o in quel modo. ‘Essere’ come infinito di ‘io sono’, cioè inteso come esistenziale, 29 30

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G. MARCEL, Journal Métaphisique, cit., 252. Ibid., 236.


significa abitare presso…, aver familiarità con…»31. L’uomo come essere nel mondo è quindi — secondo Heidegger — un esserci, il quale viene dispiegandosi esistenzialmente nel prendersi cura: «Poiché all’Esserci appartiene, in linea essenziale, l’essere-nel-mondo, il suo modo di essere in rapporto al mondo è essenzialmente prendersi cura»32. Il mio essere nel mondo è il dato fondamentale da cui partire per la comprensione dell’essere non in astratto, ma nella concretezza dell’esistere. L’esistenza è pertanto un’inevitabile e irrinunciabile punto di partenza. Si comincia da questo dato fondamentale! Un dato che si scopre e si accoglie come priorità, come realtà precedente. Il mondo non è posto dall’io che pure è nel mondo, ma è presupposto. Io sono nel mondo, ma è anche immediatamente dinanzi a me: «Io sono consapevole di un mondo, che si estende infinitamente nello spazio e che è ed è stato soggetto ad un infinito divenire nel tempo. Esserne consapevole significa anzitutto che io trovo il mondo immediatamente e visivamente dinanzi a me, che lo esperisco. Grazie alle diverse modalità della percezione sensibile, al vedere, al toccare, all’udire, ecc., le cose corporee sono in una certa ripartizione spaziale qui per me, mi sono alla mano, in senso letterale e figurato, sia che io presti o non presti attenzione, sia che io mi occupi o no di esse nel pensiero, nel sentimento e nella volontà»33. Il mio essere nel mondo è il dato fondamentale della coscienza, quindi della mia corporeità. Il mondo grazie al mio corpo mi è costantemente e consapevolmente alla mano, questo perché io sono un essere nel mondo. Il mondo prima ancora che il soggetto esistente cominci a riflettere esiste, è dato; il punto di partenza della filosofia è l’esistenza esistente; l’essere come actus essendi, come vita. La filosofia che più di tutte ha posto l’accento su questa dimensione del vissuto nell’epoca contemporanea è la fenomenologia. Questa è «anche una filosofia per la quale il mondo è sempre ‘già là’ prima della riflessione, come una presenza inalienabile, e tutto il suo sforzo è di ritrovare questo contatto naif col mondo, per dargli infine uno statuto filosofico»34. La realtà è sempre già là, che tuttavia viene data come tale a motivo del fatto che io sono nel mondo. La realtà è data ad un io consapevole di farne parte, di esserne dentro: «io trovo costantemente alla mano di fronte a me la realtà spazio-temporale, a cui appartengo io 31

M. HEIDEGGER, Essere e tempo, trad. it., Milano 1976, 78. Ibid., 81. 33 E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia e per una filosofia fenomenologia, trad. it., Torino 1965, I, § 27, 57. 34 M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, Paris 1945, I. 32

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stesso ed appartengono tutti gli altri uomini, che si trovano in essa e ad essa si riferiscono nel mio medesimo modo. La realtà, e la parola stessa lo dice, io la trovo come esistente e la assumo esistente, così come essa mi si offre. Qualunque nostro dubbio o ripudio di dati del mondo naturale non modifica affatto la tesi generale dell’atteggiamento naturale. Il mondo come realtà è sempre là; può rivelarsi qua e là ‘diverso’ da come lo presumevo, questo e quello elemento va cancellato da esso a titolo di ‘apparenza’, ‘allucinazione’ e simili; ma, nel senso della tesi generale, è sempre mondo esistente»35. Il bambino nei primissimi momenti della sua crescita non ha consapevolezza di sé, del suo essere nel mondo e quindi del suo io. L’analisi del modo di percepire del bambino nelle prime fasi della sua vita rivela la sua graduale e progressiva presa di contatto con il mondo. Prima egli si interessa del proprio corpo, delle mani, dei piedi, della bocca ecc. C’è una gradualità nella sua percezione della realtà esterna, comincia a percepire la distanza e la vicinanza delle cose fra di loro in rapporto al suo proprio corpo. Il suo io è nel mondo delle cose, fa parte del mondo, ma viene sempre più distinguendosi dal resto del mondo. Il mio essere nel mondo ha dunque una storia che affonda le sue radici nella evoluzione percettiva della primissima infanzia. I termini a cui si fa riferimento sono quindi l’io, l’essere e il mondo che «pur nella loro distinzione sono indissociabilmente connessi fra loro, giacché in questa esperienza fondamentale i tre termini non hanno un significato separabile: io non sono senza il mondo e il mondo non è senza di me, e l’essere non è se non in quanto io sono nel mondo e il mondo è per me. Io e il mondo siamo e siamo insieme; però io e il mondo non siamo due cose, ma una sola cosa, in quanto l’io e il resto del mondo costituiscono un dato concreto, complesso e inscindibile, nella coscienza del mio essere-nel-mondo»36. Un io puro senza il mondo è impensabile, sarebbe una pura finzione. La posizione del mio essere nel mondo, ossia di partecipazione al mondo, dipende quindi dal mio corpo. Percepisco un mondo esistente esterno a me in quanto percepisco me esistente dentro un mondo. Il mio corpo è il punto di riferimento centrale perché mi sia data la realtà ed ogni cosa esistente. L’esistenza, in particolare la mia esistenza, è allora riconosciuta come fondamentale punto di partenza del filosofare, cioè di ogni pensare: «L’esistenza 35

E. HUSSERL, Idee per una fenomenologia e per una filosofia fenomenologia, cit., I,

§ 30, 62. 36

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F. SELVAGGI, Filosofia del mondo. Cosmologia filosofica, Roma 1993, 27.


non è e non può essere mai secondo Marcel o secondo Heidegger, come già non lo era stata al tempo di Kant per lo Hamann e per il Jacobi, un demostrandum, ma può soltanto essere riconosciuta come un irrecusabile punto di partenza [..] che è di fatto un’intersezione indissociabile di intimità e di trascendenza, di autorelazione e di relazione all’altro, di ‘incarnazione’ e di partecipazione di cui il ‘mio corpo’ è il punto di riferimento centrale»37. Il punto di partenza di una filosofia autentica e concreta ha come priorità essenziale l’essere incarnato, il mio essere nel mondo. Questa situazione esistenziale fondamentale prende le distanze da una concezione della oggettività che scorge nella realtà tutto ciò che non ha a che fare con la soggettività, ponendo di fatto l’io fuori della realtà, come un essere disincarnato.

2.3. La finitudine dell’esistenza Il mio corpo dice piuttosto la realtà di uno spirito incarnato. Spirito nel mondo è la realtà dell’uomo che non è privo della dimensione di incarnazione, grazie alla quale condizione si possono accogliere le cose come esistenti o come non esistenti. È dalla posizione di incarnazione, dall’essere io un corpo, che colgo non solo la mia esistenza, ma anche l’esistenza della realtà che mi circonda. L’esistenza finita mostra la condizione di essere nel mondo, nella carne. E la carne mostra tutta la propria finitezza, ultimamente, con la morte. L’analisi heideggeriana del Dasein rivela questa condizione dell’uomo. Senza nascondere gli aspetti drammatici, Heidegger riprende, da questo punto di vista, l’analisi esistenziale di Kierkegaard. L’esistenza finita è nel tempo e del tempo porta il segno. Il mio corpo porta la traccia della finitezza scoprendosi mutevole, limitato, mortale. È attraverso l’esperienza, originaria e traumatica del nascere e l’esperienza, conclusiva e drammatica, del morire che l’uomo scopre la propria finitezza. Con la nascita di qualcuno l’uomo fa esperienza della venuta al mondo di un essere che prima non era. Con la morte di qualcuno, invece, egli fa esperienza di un essere che prima era e in un momento non è più. È evidente che in fondo noi facciamo l’esperienza della nascita e della morte degli altri non di noi stessi. Nessuno di noi ha l’esperienza del proprio nascere e del proprio morire. Nel nascere e nel morire comunque l’essere umano si scopre gettato nell’esistenza che non è stato 37

P. PRINI, Pensiero ed esistenza, cit., 475-476.

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lui a darsi. La finitezza rivela infatti un essere che porta in sé i tratti della caducità, della mortalità. Il mio corpo è soggetto alla temporalità per cui ha iniziato ad essere e cesserà di essere. L’analisi dell’essere temporale di Heidegger conduce alla messa in evidenza, in particolare, dell’estremo limite della morte. È l’essere per la morte che rivela l’autenticità della condizione temporale dell’essere umano (Dasein). L’essere per la morte fa parte, è condizione fondamentale, del mio essere nel mondo: «Se l’Esserci esiste, è anche gettato in questa possibilità. Innanzitutto e per lo più l’Esserci non ha alcuna ‘conoscenza’ esplicita o teorica di essere consegnato alla morte e che questa fa parte del suo esserenel-mondo»38. All’esserci appartiene fin da principio la condizione di essere-per-la-morte. La morte non come una realtà estranea, distante, impersonale, ma come la condizione autentica del mio essere nel mondo, cioè della mia condizione spazio temporale e quindi della mia dimensione corporea di incarnazione. La mia corporeità mi rivela dunque una condizione di radicale finitezza. Il mio essere nel tempo vuol dire che non possiedo pienamente il mio essere: «L’ente, che è temporale, non possiede, il proprio essere, ma lo riceve sempre di nuovo in dono. Così è data la possibilità del cominciare e del finire del tempo, e con ciò è definito uno dei significati della finitezza: finito sarebbe in questo senso ciò che non possiede il proprio essere, ma che ha bisogno del tempo per arrivare all’essere»39. La finitezza si rivela con più evidenza nella mia corporeità, non solo nel mutamento temporale che segna le varie tappe di una esistenza, ma anche nel deperimento e nel venir meno del vigore e della forza giovanile. Il corpo mostra i segni della propria finitezza anche quando si trova ubicato in un luogo, in uno spazio, che lo limita, poiché se si trova in un luogo non può essere in un altro. Se sono qui non posso essere altrove! La finitezza mostra anche questa dimensione: io sono un corpo non sono tutto. Dunque è questa dimensione spazio temporale del mio essere corporeo che mi rivela la finitezza: «Ciò che è finito ha bisogno del tempo per divenire ciò che è, ed è alcunché di oggettivamente limitato; infatti ciò che è posto nell’essere, è posto nell’essere come qualcosa, come qualcosa che non è nulla, ma che non è neppure tutto. E questo l’altro significato della finitezza: essere qualcosa e non tutto»40. 38

M. HEIDEGGER, Essere e tempo, cit., 306. E. STEIN, Essere finito e essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, trad. it., Roma 1988, 99. 40 L. c. 39

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L’esperienza della nascita e della morte, come anche altri momenti limite in cui esperimento quotidianamente la mia condizione di finitezza del mio essere un corpo legato al tempo e allo spazio, mi rivelano il mio essere contingente, vale a dire il mio non essere necessario, a cui io appartengo radicalmente. La contingenza del mio essere corpo è la prova che non mi sono posto nell’essere, in cui invece sono stato posto: «La temporalità non è solo una condizione accidentale della mia attività e del mio cambiare, ma è una mia condizione radicale, in quanto il mio stesso essere è soggetto al tempo, ha cominciato ad essere e cesserà di essere. L’essere dell’uomo è radicalmente temporale, in quanto le nostre possibilità e le nostre azioni, i nostri progetti e le loro realizzazioni, non sono tutte insieme, non sono tutte con-presenti, ma si succedono e si svolgono l’una dopo l’altra»41. Non si può pensare in modo tale da scartare questa dimensione corporea, come se il nostro io non fosse intaccato dal tempo. Il nostro essere gettati nel mondo non può non fare i conti con la temporalità: «Il nostro essere presente nel mondo è sempre dis-teso fra un passato che era, ma non è più, e un futuro che non è ancora, ma verso cui si proietta il nostro essere presente. Ma, di più, questa dis-tensione non è infinita; ha avuto inizio nel tempo degli altri e avrà un termine nel tempo degli altri. La mia temporalità non solo preme e corrode il mio essere tale e tale, giovane, adulto o vecchio, sano o malato, ignorante o dotto, bello o deforme, progettando e realizzando; ma attinge anche la totalità del mio essere-nel-mondo assolutamente»42. Il tempo rivela in modo radicale la finitezza della mia esistenza e del mio essere un corpo, mettendo a nudo così le contraddizioni di ogni pensiero puro, formale, che voglia fare a meno della condizione di incarnazione43. Il pensiero che aspira alla pura oggettività formale o ad una dimensione puramente teorica, che si sviluppa essenzialmente mettendo tra parentesi, per eludere, la dimensione drammatica dell’esistenza, si caratterizza come un pensiero astratto e disincarnato; un pensiero di pura evasione che non accetta in fondo la realtà. La realtà dell’essere è spesso drammatica e problematica, occultarla o sfuggirla è indice di immaturità, di fuga irresponsabile. Il pensiero della pura oggettività formale, disincarnata, ha 41

F. SELVAGGI, Filosofia del mondo, cit., 41. Ibid., 41-42. 43 Cfr P. PRINI, Pensiero ed esistenza, cit., 476: «Di questa denuncia dell’evasione della scienza moderna dall’indice esistenziale-corporeo dell’uomo, l’analisi di Heidegger del Dasein accentua gli aspetti drammatici, che non saranno del resto molto lontani dal contesto di significati in cui il Marcel svilupperà la sua fenomenologia della disperazione». 42

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«generato l’epoca della tecnica o del mondo come rappresentazione del pensiero calcolante o informatico, dove è eliminata ogni storicità in nome delle condizioni puramente causali e formali. È il mondo dove, secondo l’affermazione dello Zarathustra nietzscheano, ‘il deserto cresce’: dove non c’è spazio né per l’imputabilità, né per la responsabilità, né infine per la responsabilità delle scelte»44. Il mio essere un corpo non va posto né in una sorta di purezza formale fuori dal tempo, né in un orizzonte ottimistico che svia la dimensione drammatica dell’esistenza. La temporalità mette in luce in modo radicale la finitezza del mio essere nel mondo. Ogni esistente finito porta in sé la traccia indelebile del tempo che consuma e divora ogni cosa. Un tempo erosivo così lo chiama Prini rifacendosi ai classici latini: «Non c’è nulla sulla terra e nel cielo che non sia intaccato dal tempo come un irrimediabile allontanarsi dal ‘così fu’: il tempo erosivo, come lo chiamo io e come appare, secondo le osservazioni di Jaspers, nelle cifre della distruzione: lo smarrimento senza rimedio di una tragedia di Sofocle, la perdita della ragione, l’infermità irreversibile, lo spegnersi di una passione o lo scomparire di una civiltà. Tempus edax rerum»45. A cercare di contrastare questa voracità della finitudine radicale si contrappone lo sviluppo e il progresso della tecnica che cerca di cancellare, per esempio, le tracce del tempo nel corpo di una persona. L’uomo che non solo cerca di apparire giovane eliminando le rughe, i segni degli anni che passano, ma desidera rimanere sempre giovane con tutte le potenzialità di un giovane, conservando vigore e forma fisica. Di qui tutta l’attenzione nel mondo occidentale alle prestazioni e all’esibizione del corpo in chiave non solo competitiva e spettacolare, ma anche narcisistica. Il nostro corpo comunque, nonostante il progresso tecnico scientifico, non può non fare i conti con la propria finitezza temporale. La nostra esistenza nel tempo che conduce a considerare l’origine di ogni finitezza, «non è la saccente pretesa dell’autosufficienza, non il miope negare l’esistenza del male, non il cinico marginalizzare il limite e il bisogno, bensì l’esigente tenere fermo a un’origine perduta, ma non cancellata. Ogni volta che pazientemente lavoriamo per restituire al finito la sua dignità, incontriamo di nuovo quel-

44 45

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L. c. Ibid., 477.


l’origine e attestiamo che essa, minacciata, non è tuttavia del tutto scomparsa. Per ritrovarla, occorre sostare presso il finito»46. Sostare presso il finito per ritrovare il senso dell’origine, dell’archè, è la pretesa di ogni sano filosofare. Abbiamo voluto sostare, in questo primo momento, presso la dimensione finita dell’essere del corpo. Il mio corpo non è un oggetto fra gli oggetti, ma sono io che esperimento me stesso in un corpo: «io esisto soggettivamente ed io esisto corporalmente formano un’unica e medesima esperienza»47. Il pensiero scaturisce da un esistente in atto d’essere che esiste corporalmente. L’atto sorgivo del filosofare è infatti l’incontro di una realtà; dinanzi a qualcosa che è, il pensiero si lascia interpellare e stupire. L’essere è il presupposto di ogni pensare. Io non posso pensare senza essere, ma io non posso essere senza un corpo, il mio corpo, che porta l’impronta di un altro da cui sono stato posto nell’essere: «Non posso pensare senza essere ed essere senza il mio corpo: per mezzo suo sono esposto a me stesso, al mondo, agli altri; per mezzo suo sfuggo alla solitudine di un pensiero che sarebbe soltanto il pensiero del mio pensiero. Rifiutandomi di concedermi una completa trasparenza a me stesso, mi getta continuamente al di fuori di me, nella problematica del mondo e nella lotta dell’uomo. Sollecitando i miei sensi mi lancia nello spazio, invecchiando mi fa conoscere il tempo, morendo mi mette di fronte all’eternità; fa pesare la sua schiavitù, ma è contemporaneamente alla base di ogni forma di coscienza e di ogni vita spirituale, mediatore onnipresente della vita dello spirito»48. La radicale finitezza del mio corpo si apre alla trascendenza sia quando incontra il corpo dell’altro, sia quando si lascia incontrare dal corpo dell’altro. Il mio corpo è segnato e interpellato dall’altrui corpo.

3. L’ALTRUI CORPO 3.1. Non esiste un mondo solo per me Gli altri sono un dato assolutamente primordiale e fondamentale anche nel prendere in considerazione la realtà concreta della corporeità. 46

U. PERONE, Le passioni del finito, Bologna 1994, 11. E. MOUNIER, Il personalismo, trad. it., Roma 1987, 36-37. Nella nota Mounier su questo tema specifico si riferisce a Marcel, a Maine de Biran e a Madinier. 48 Ibid., 37. 47

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Non c’è io senza il tu. La coscienza del proprio io prende le mosse non solo dal fatto che c’è un mondo che esiste per l’io e in questo mondo esistono delle cose, ma soprattutto dal fatto che ci sono gli altri. L’io è io in quanto ha un mondo che si staglia dinanzi, che è percepito come altro da sé grazie al corpo. L’essere in un mondo ha la sua manifestazione concreta nella incarnazione, nella corporeità, da cui scaturisce l’esperienza primordiale dello stupore e della meraviglia. L’esperienza dello stupore nasce da un io immerso e avvolto da un mondo che gli provoca pathos, emozione. All’interno dell’esperienza fondamentale della meraviglia, Aristotele individua l’inizio della filosofia, sulla linea già tracciata da Platone: «gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti la generazione dell’intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia»49. L’esperienza dello stupore è la chiave per cogliere l’esperienza del proprio corpo come scoperta e incontro dell’originario: «Il tema del corpo è un tema antico, antico come la riflessione umana, ciò che lo fa oggi un luogo di stupore originario ha la sua premessa nell’uso del metodo fenomenologico. In una prospettiva fenomenologica l’avvertimento della corporeità avviene alle soglie di una coscienza libera da ogni presupposto, divenuta, mediante rigorose riduzioni, scenario neutro di presenze che si annunciano nella loro immediatezza. La corporeità è avvertita all’interno di questo puro contesto coscienziale, senza pregiudiziale contrapposizione alla spiritualità e addirittura senza riferimenti espliciti ad essa. L’avvertimento fenomenologico della corporeità è quindi la scoperta del nostro consistere sensibile concreto, colto per così dire allo stato nascente»50.

49

ARISTOTELE, Metafisica, A 2, 982b 12, a cura di G. Reale, Milano 1978. Si veda su questo tema il contributo di A. RIGOBELLO, La corporeità propria come luogo dello stupore originario, in Studium 3-4 (2000) 495-507. L’Autore prima ancora di far riferimento a Husserl, maestro del metodo fenomenologico, evidenzia come Antonio Rosmini avesse già elaborato, nel suo Nuovo saggio sull’origine delle idee, una dottrina che scorgeva la prima applicazione della sua idea dell’essere nel sentimento fondamentale corporeo (cfr ibid., 498-499). 50

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Il vissuto della coscienza mostra già in sé la dimensione dell’alterità. La coscienza è tale perché l’altro è non solo di fronte ad essa, ma anche dentro, immanente, ad essa. Nel mondo non sono solo. Il mio essere nel mondo è un essere con gli altri. Io e gli altri siamo nel mondo; gli altri da cui mi distinguo e a cui mi oppongo: «Nell’atteggiamento naturale mi trovo in seno al mondo, ‘io e gli altri’, da cui mi distinguo e ai quali mi oppongo. Se faccio astrazione degli altri, nel senso abituale del termine io resto solo»51. Io sono un io fra gli altri io, per cui non esiste un mondo solo per me. Se esistesse un mondo solo per me non ne potrei nemmeno parlare. Il parlare stesso suppone un altro a cui mi rivolgo, a cui parlo. Anche la locuzione interiore, l’introspezione, suppone l’altro. Il soliloquio è un parlare a se stesso come un altro. Parlo a me stesso ma come se stessi parlando ad un altro. Il discorso si fa sempre dinanzi ad un uditorio che può essere reale o immaginario. Se così non fosse il rischio è quello di cadere in una sorta di solipsismo: uno status che non regge né da un punto vista filosofico, né da un punto di vista umano. Il solipsismo si afferma dove non c’è questo riconoscimento fondamentale: l’altro. Il pensare stesso nella sua essenza e nella sua struttura fondamentale è relazionale. Perciò il pensiero si incarna sempre in un linguaggio, sia esso verbale o non verbale, che si esplica nel rapporto intersoggettivo. La dimensione relazionale si mostra, prende corpo, nell’interlocuzione. La capacità imitativa del bambino ha la sua ragion d’essere in una comunità di persone che lo circonda e che lo precede. Quello che egli riesce a fare lo ha visto fare prima ad altri: «fin dal primo destarsi della coscienza, il bambino mostra il più vivo interesse ed esercita la più svariata e spesso frenetica attività nei riguardi delle persone che lo circondano; le riconosce, sorride loro e ride con loro, le osserva attentamente, segue i loro movimenti e, fin dall’inizio, si sforza di imitarle; le persone, con la loro semplice presenza, eccitano il bambino in tutta la sua sensibilità e attività, molto più di qualsiasi altro oggetto»52. Sin dai primi momenti, nella vita di ciascuno di noi, è proprio il corpo dell’altro non solo a suscitare interesse, ma a lasciare una traccia. Il corpo dell’altro è linguaggio; è invito e chiamata ad una relazione. Il bambino prende sempre più coscienza di se stesso, del proprio io, nel rapporto con i propri genitori, nel rapporto con gli altri che gli parlano, 51 52

E. HUSSERL, Méditations cartésiennes, cit., 78. F. SELVAGGI, Filosofia del mondo, cit., 29-30.

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con chiunque gli rivolga la parola: «il bambino conosce se stesso come ‘io’ nel mondo, in quanto percepisce, per così dire, il suo viso riflesso negli occhi dei suoi genitori, che lo guardano amorevolmente; essi lo guardano ed egli li guarda e, in quello sguardo, si trasfonde quasi simpateticamente una coscienza nell’altra. Non è, infatti, che il bambino apprenda di avere un viso, degli occhi, una bocca, perché veda se stesso nello specchio, ma perché, vedendo gli altri, riconosce se stesso in loro»53. L’esistenza e l’esperienza dell’altro fin dalla prima infanzia si consegna all’io e alla sua coscienza in un corpo, solo in apparenza come un oggetto tra altri oggetti, ma in realtà l’altro è un io tra gli altri io: «l’‘io’ vien fin dall’inizio percepito e affermato come un ‘io’ fra gli altri ‘io’; sicché, fin dall’esperienza primordiale, il ‘mio’ mondo non è talmente mio, che non sia insieme e indissolubilmente il ‘nostro’ mondo. La mia vita, la mia esperienza nel mondo è, fin dall’inizio, una vita in comunione e in colloquio con i miei simili, vita in comune in un mondo in comune»54. Il corpo dell’altro non è un semplice oggetto tra gli oggetti presenti nel mondo. Non una cosa da manipolare a piacimento. Il corpo dell’altro va visto come una prospettiva, una nuova visione del mondo: «l’altro corpo non è più un semplice frammento del mondo, ma il luogo di una certa elaborazione e come di una certa ‘vista’ del mondo»55. Non sono solo al mondo, ci sono altri che vivono, pensano, agiscono, che hanno una certa presa sul mondo. Così percepisco gli altri che utilizzano le cose, le stesse cose di cui io mi servo: «dico che è un altro, un secondo me stesso e lo so innanzitutto perché questo corpo vivente ha la stessa struttura della mia. Io provo il mio corpo come potenza di certe condotte e di un certo mondo, io sono dato a me stesso come una certa presa sul mondo; ora, è giustamente il mio corpo che percepisce il corpo dell’altro e vi trova come un prolungamento miracoloso delle sue proprie intenzioni, una maniera familiare di trattare il mondo; oramai, come le parti del mio corpo formano insieme un sistema, il corpo dell’altro e il mio sono un solo tutto»56. Gli altri non solo hanno una visione delle cose, una loro presa sul mondo, come una nuova prospettiva che raggiunge me e il mio corpo, ma interagiscono con il mondo circostante, lo trasformano e lo elaborano. È attraverso il terreno 53 54 55 56

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Ibid., 30. Ibid., 30-31. M. MERLEAU-PONTY, Phénoménologie de la perception, cit., 406. L. c.


comune del linguaggio che io riconosco l’altro e lo incontro, così da percepire che l’altro ha la stessa struttura corporea della mia: è come me! L’altro viene prima di me e a partire dall’altro che io, non solo capisco sempre più e sempre meglio me stesso, ma sono posto nella condizione di aprirmi continuamente all’altro, ad ogni altro. Se vogliamo capire veramente gli altri occorre guardare sempre meglio se stessi, conoscere il proprio cuore. E inversamente, se si vuole conoscere veramente se stessi è agli altri che bisogna guardare. C’è una circolarità, per cui se l’uomo vuole conoscere se stesso bisogna che conosca l’altro, così se vuole conoscere l’altro occorre che conosca se stesso. L’altro si presenta a me con il suo corpo come io mi presento all’altro con il mio corpo. Con il corpo io mi esprimo così come l’altro si esprime. È attraverso l’espressione che io ho la possibilità di raggiungere l’altro e nello stesso tempo di essere a mia volta raggiunto. Il corpo vivente scopre se stesso come portatore di un messaggio nella misura in cui si scopre essere traccia di altri.

3.2. La risonanza su di me del corpo altrui: l’empatia Il corpo dell’altro ci conduce alla conoscenza di noi stessi. Ma è grazie al corpo dell’altro che noi possiamo entrare nel mondo dell’altro. Se possiamo conoscere gli altri è perché gli altri si esprimono. Il corpo mio e altrui sono un linguaggio, una espressione, non sempre semplice e lineare. Spesso, infatti, ci esprimiamo mostrando i tratti della complessità e dell’ambiguità, in modo sempre più problematico. A partire dalla percezione del corpo dell’altro, che noi abbiamo, inizia l’esperienza e la relazione con l’altro. In particolare è proprio l’espressione corporea che ci offre la possibilità di entrare in sintonia con l’altro. Si stabilisce un rapporto dal momento in cui il corpo dell’altro provoca in me una sorta di risonanza. Il messaggio che giunge a me dal corpo dell’altro interpella il mio essere, non lo lascia impassibile e insensibile, ma ne lascia il segno. Questa modalità di esperienza dell’altro la troviamo mirabilmente articolata e descritta da E. Stein nel suo studio Il problema dell’empatia57. Lo spunto di questa sua ricerca scaturisce da una idea della fenomenologia husserliana. Husserl — racconta la stessa Stein — durante un suo corso su natura e spirito «aveva detto che un mondo oggettivo esterno può essere sperimen57

E. STEIN, Il problema dell’empatia, trad. it., Roma 1985.

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tato solo da diversi soggetti in rapporto fra loro, cioè da una molteplicità di individui conoscenti che stiano fra loro in rapporto di scambievole comprensione. Perciò l’esperienza di altri individui sarebbe presupposta alla conoscenza del mondo esterno. Husserl riconnettendosi ai lavori di Theodor Lipps, chiamò questa esperienza Einfühlung (empatia, intuizione profonda di un soggetto ecc.), ma non si pronunciò relativamente ad essa. Questa era la lacuna che doveva essere colmata: io volevo indagare che cosa fosse la Einfühlung»58. Già nella quinta meditazione cartesiana di Husserl veniva fuori questo fondamentale interesse per l’altro, che sta alla base degli ulteriori sviluppi in chiave intersoggettiva sia della filosofia trascendentale, sia della fenomenologia. È a partire da queste considerazioni, introdotte da Husserl nel suo percorso speculativo, che possiamo ricostruire il contesto all’interno del quale si incentra la riflessione contemporanea sull’alterità in generale, ma anche sulla percezione dell’altro nella sua alterità concreta: «Gli altri si danno nell’esperienza come reggenti psichicamente i corpi fisiologici che gli appartengono. Legati così ai corpi in modo singolare, ‘oggetti psicofisici’, essi sono ‘nel’ mondo. D’altra parte, io li percepisco nello stesso tempo come soggetti per questo stesso mondo: soggetti che percepiscono il mondo, — lo stesso mondo che io percepisco — e che hanno in tal modo esperienza di me, come io ho esperienza del mondo e in esso degli ‘altri’»59. L’accesso all’altro è dato tuttavia, dobbiamo dire, nel pensiero di Husserl, ancora nella vita intenzionale del soggetto. È in fondo sul piano della disposizione trascendentale del soggetto che viene concepita questa esperienza dell’altro: «Come questo si può comprendere? Bisogna, in ogni caso, mantenere come verità assoluta questa: ogni senso che può avere per me la ‘quiddità’ e il ‘fatto dell’esistenza reale’ di un essere, non è non può essere tale che nella e attraverso la mia vita intenzionale»60. Se per un momento ci poniamo fuori da questi presupposti, cercando di vedere quale esperienza dell’altro ciascuno di noi prova in sé, ci accorgiamo soprattutto che su alcune modalità concrete della nostra vita e della nostra concreta percezione e esperienza corporea dell’altro e con l’altro (amore, odio, risentimento, perdono, gioia, tristezza), nelle Meditazioni cartesiane non vi troviamo nessun riferimento. In ultima analisi nella quinta meditazione di Husserl, 58 59 60

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ID., Il mio primo semestre a Gottinga, trad. it., Brescia 1982, 72-73. E. HUSSERL, Méditation cartésiennes, cit., 76. L. c.


nonostante venga fuori un suo interesse per l’altro, rileva Michel Henry, delle modalità concrete della nostra vita in quanto vita con e per l’altro, ossia della esistenza patetica e simpatetica dell’uomo per l’altro uomo, non abbiamo alcun cenno61. Senza entrare nel dibattito sull’importanza che l’intenzionalità riveste nell’elaborazione del metodo fenomenologico, riteniamo che Husserl nella sua riflessione rimanga fermo e coerente alla sua prospettiva trascendentale all’interno della quale si muove. Egli, infatti, si muove ancora all’interno di una dimensione che considera fondamentale il riferimento all’ego: «Nell’attitudine trascendentale ho cercato, prima di tutto, di circoscrivere, all’interno degli orizzonti della mia esperienza trascendentale, ciò che mi è proprio (das Mir-Eigene). È, innanzitutto, il non-estraneo»62. La visione trascendentale riconduce all’esperienza di ciò che è proprio la dimensione di estraneità, di ciò che proprio non è, ossia di ciò che è altro, mostrando, in fondo, di privilegiare una prospettiva intellettualistica, la quale corre sempre il rischio di perdere di vista l’esistenza, il mondo, il corpo, la vita concreta nella sua espressione patetica e simpatetica. La fenomenologia husserliana interpreta il corpo soggettivo come un corpo intenzionale per cui la soggettività cui essa approda è una soggettività intenzionale che si apre al mondo esterno grazie al corpo, perciò è il mio corpo che sente, vede, tocca. I miei occhi sono percepiti come occhi che vedono, le mie orecchie come orecchie che sentono, le mie mani sono percepite come mani che toccano. Nel quadro di un fondamentale riconoscimento e di una immediata affermazione della percezione sensibile è possibile cogliere l’esperienza dell’altro. Pertanto è all’interno della percezione di quanto mi è proprio che io posso parlare di esperienza dell’altro. L’altro è ancora costituito dal soggetto, poiché rimane il solus ipse63. Ci troviamo, allora, dinanzi una soggettività che costituisce e costruisce l’alterità? 61 Cfr M. HENRY, Phénoménologie matérielle, Paris 1990, 140: «Plaçons-nous un instant hors de cette présupposition et demandons-nous ce qu’est l’expérience d’autrui telle que justement chacun l’éprouve en lui. Désir allant vers une sorte de réponse ou non, émotion devant la réciprocité de ce désir, sentiment de la présence ou de l’absence, solitude, amour, haine, ressentiment, ennui, pardon, exaltation, tristesse, joie, émerveillement, telles, sont les modalités concrètes de notre vie en tant que vie avec l’autre, en tant que pathos avec, que sym-pathie sous toutes formes. De tout cela que dit la cinquième Méditation cartésienne de Husserl? Pas un mot». 62 E. HUSSERL, Méditation cartésiennens, cit., 79. 63 Cfr ibid., 128: «Et, au fond, je ne comprendre pas encore, e je le reconnais seulement malgré moi, qu’en me mettant entre parenthèses moi-même, comme homme,

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E. Stein si inserisce, quindi, all’interno di questa intuizione husserliana che mette in luce la percezione e l’esperienza dell’altro. La Stein raccoglie l’eredità del Maestro e la sviluppa attraverso una riflessione personale che la conduce lungo la direzione della ripresa metafisica del pensare. Con il suo trattato sull’Empatia, infatti, la dimensione dell’alterità riceve un impulso nuovo e originale, muovendosi naturalmente ancora nell’ambito della riflessione fenomenologica. Come si fa a conoscere l’altro? Questa sembra essere la domanda da cui ella prende spunto nella sua ricerca. È evidente che molto poggia ancora sull’io. È l’io che fa l’esperienza dell’altro. Come questo io conosce. L’io conoscendo non assorbe, non annulla, l’altro conoscendolo, ma lo raggiunge attraverso l’empatia. È il corpo dell’altro che si presenta come soggetto, quindi come un altro io. Il punto basilare da cui parte è l’esistenza di un soggetto estraneo e i suoi vissuti: «Alla base di ogni discussione sull’empatia vi è un presupposto sottinteso: ci vengono dati dei Soggetti estranei e la loro esperienza vissuta (Erleben)»64. La Stein mira a mettere in luce questa realtà, questi soggetti estranei, attraverso un’analisi della loro esperienza vissuta. In questa sua tesi dottorale, ella si serve di esempi tratti dal vissuto della nostra vita quotidiana per cogliere l’originarietà della persona altrui. È, infatti, attraverso un’analisi della sua gioia o del suo dolore che si coglie l’individualità dell’altro legata profondamente alla sua corporeità. In realtà, attraverso il corpo dell’altro, io percepisco la sua gioia e il suo dolore. È appunto l’empatia che permette un riconoscimento e una comunicazione tra soggetti estranei. L’empatia mi permette di comprendere l’espressione del corpo proprio dell’altro, la sua gioia, la sua paura, la sua tristezza ecc… Attraverso l’espressione del corpo entro in contatto con l’altro, con le sue molteplici espressioni che possono variare e di conseguenza possono presentarsi nello stesso tempo in modo ambiguo. L’espressione del corpo, infatti, può essere, non poche volte, fraintesa. Per esempio il rossore dello sforzo non è quello della vergogna. Ci troviamo dinanzi agli inganni dell’empatia che sono possibili come in qualsiasi esperienza umana65. Gli altri non si incontrano comme personne humaine, je me conserve cependant encore, comme ego. Je ne puis donc rien savoir encore d’une intersubjectivité transcendantale et, sans vouloir, je me considère moi, l’ego, comme un solus ipse, même après avoir acquis une première compréhension des fonctions constitutives, j’envisage tous les ensembles constitutifs comme de simples appartenances de cet ego unique». 64 E. STEIN, Il problema dell’empatia, cit., 67. 65 Cfr ibid., 189-190. «Abbiamo già visto più volte quali siano le fonti da cui possono

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e non si conoscono solo in riferimento a se stessi, giudicandoli con il proprio metro: «Già il ‘buon senso’ indica che non è un metodo da adottare quello di ‘giudicare gli altri con il proprio metro’ per giungere alla conoscenza della vita psichica estranea. Per prevenire simili errori ed inganni, occorre costantemente un controllo dell’empatia mediante la percezione esterna, dato che la costituzione dell’individuo estraneo è fondata del tutto sulla costituzione del corpo. La datità, mediante la percezione esterna, di un corpo provvisto di una certa qualità è dunque il presupposto per la datità di un individuo psicofisico»66. Il correttivo, per questa modalità di inganno, lo troviamo nella stessa empatia, che è la possibilità stessa di incontrare l’altro nella sua alterità e quindi di riconoscersi e stabilire una comunicazione autentica: «l’empatia si offre a noi come un correttivo di tali inganni accanto ad altre convalidazioni o ad altri atti percettivi contradditori. È possibile che un altro mi ‘giudichi meglio’ di quanto io giudichi me stesso e mi dia maggiore chiarezza su me stesso. Ad esempio egli si rende conto che io, nel compiere una buona azione, mi guardo attorno e cerco di riscuotere approvazione, mentre io stesso credo di agire per pura compassione. In questo modo l’empatia e la percezione interna collaborano insieme per rendere me più chiaro a me stesso»67. La costituzione dell’altro individuo è vista dalla Stein come la condizione per la costituzione dell’individuo proprio: «Come ora abbiamo visto ad un grado inferiore (nel considerare il corpo proprio come centro di orientamento), la costituzione dell’individuo estraneo è stata la condizione per la piena costituzione dell’individuo proprio»68. L’unità psicofisica della persona umana è il presupposto per la messa in luce della relazione di natura empatica, la quale se da una parte coglie il corpo dell’altro come simile al proprio, dall’altra parte scorge il suo corpo come proprio a partire dall’immagine che l’altro gli offre. Il corpo non solo mostra, ma ha in sé un fondamentale orientamento verso gli altri. La relazione tra uomo e uomo è mediato dalla corporeità: «il corpo è ancora una volta la mediazione tra me ed il mio mondo. Solo scaturire tali inganni: se, mentre empatizziamo, ci basiamo sulla nostra costituzione individuale anziché sul nostro tipo, in questo modo giungiamo a falsi risultati. Così succede se assegniamo ad un daltonico le nostre impressioni cromatiche, al bambino la nostra capacità di giudizio, al selvaggio la nostra sensibilità estetica» (ibid., 189). 66 Ibid., 190. 67 Ibid., 192. 68 Ibid., 190.

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attraverso il mezzo della corporeità io sono presente nel mondo ed il mondo diventa presente a me: solo attraverso questo mezzo opero nel mondo ed entro nella molteplice connessione attiva delle cose e degli uomini nel mondo. In particolare, il rapporto personale da uomo a uomo — la relazione io-tu — è mediato dalla corporeità e dalla sensibilità. Vediamo l’altro e lo riconosciamo dalla sua figura esterna: lo guardiamo negli occhi e abbiamo l’impressione di raggiungerlo al suo centro personale (selbst), di vederlo quasi nell’anima. Gli parliamo con suoni fisici, la parola diventa corpo del pensiero e lo comprendiamo osservando le sue azioni corporee. Attraverso le azioni esterne ed i gesti del corpo manifestiamo i nostri sentimenti di benevolenza, di prontezza a soccorrere, di amore»69. Il corpo è, dunque, essenzialmente espressione. Il volto è la sua epifania. Quello che accade dentro l’esperienza vissuta di un uomo si manifesta nel suo volto. I suoi sentimenti più intimi, anche se spesso in modo indecifrabile, si consegnano in un volto.

3.3. Il volto dell’altro: l’identità Il corpo dell’altro ha nel volto la sua fondamentale espressione. È precisamente attraverso il volto dell’altro che noi possiamo cogliere una non effimera spiritualità del corpo. Il volto è l’espressione di una esteriorità e di una infinità che lasciano immaginare una ulteriorità mai riconducibile alla semplice visione o descrizione. Il corpo che mostra il suo volto è l’espressione di una identità mai esauribile in un concetto. Nel volto si evidenziano i tratti della ineffabilità: «L’essere umano non ha soltanto un corpo, ma anche un volto. Un volto non può essere trapiantato o scambiato con un altro. Un volto è un messaggio, spesso all’insaputa della stessa persona. Non è forse il volto umano un misto vivente di mistero e significato? Tutti lo vediamo e nessuno riesce a descriverlo. Non è forse un miracolo straordinario che tra tante centinaia di milioni di volti non ve ne siano due uguali? E che nessun volto rimanga perfettamente uguale per più di un attimo? È la parte del corpo più esposta, la più nota, ed è anche la meno descrivibile, un’incarnazione dell’unicità. Chi può guardare un volto come se fosse un luogo comune?»70. 69 70

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E. CORETH, Antropologia filosofica, trad. it., Brescia 1983, 145. A. HESCHEL, Chi è l’uomo?, trad. it., Milano 1971, 67-68.


Chi più di tutti ha messo l’accento su questa nozione, che assune le caratteristiche proprie di un nuova categoria filosofica, è Levinas. Nuova non solo perché mette in discussione le categorie tradizionali, ma anche perché non corrisponde al classico schema conoscitivo. Il volto, infatti, non lo si conosce, cioè non è oggetto di conoscenza, ma lo si incontra. Il volto, in altre parole, si presenta in una relazione etica e non in un processo teoretico e conoscitivo. Levinas dice a tal proposito: «mi domando se si può parlare di uno sguardo rivolto al volto; infatti lo sguardo è conoscenza, percezione. Penso piuttosto che l’accesso al volto è immediatamente etico. Quando lei vede un naso, degli occhi, una fronte, un mento, lei può descriverli, si rivolge verso altri come verso un oggetto. La maniera migliore di incontrare altri è di non notare neppure il colore dei suoi occhi! Quando si osserva il colore degli occhi non si è in relazione sociale con altri. La relazione con il volto può certo essere dominata dalla percezione, ma ciò che è specificamente volto è ciò che non vi si riduce»71. Il volto perciò non può essere rinchiuso in una definizione. Incontrare un volto è avvicinarsi ad una apertura profonda e ad una identità inesauribile, in questo senso Levinas ribadisce che: «Il volto non è l’accostamento di un naso, di una fronte, di occhi eccetera; è tutto questo, certo, ma prende il significato di un volto mediante la dimensione nuova che esso apre nella percezione di un essere. Attraverso il volto, l’essere non è solo rinchiuso nella sua forma e a portata di mano: è aperto, si installa in profondità e, in questa apertura, si presenta in qualche modo personalmente. Il volto è un modo irriducibile secondo cui l’essere può presentarsi nella sua identità»72. Il volto rivela innanzitutto una identità. È l’identità e l’epifania dell’altro. L’altro si offre a me nella sua condizione di alterità, nel suo corpo, esibendo la sua identità nel volto. Il volto è essenzialmente l’identità dell’altro che, nondimeno, dice e ridice anche la mia identità: «il volto è l’identità stessa di un essere. Esso vi si manifesta di persona, senza concetto. La presenza sensibile di questo casto lembo di pelle con fronte, naso, occhi, bocca, non è un segno che permette di risalire verso la realtà significata, né una maschera che la nasconde. La presenza sensibile qui si desensibilizza per lasciar apparire direttamente colui che si riferisce soltanto a se stesso, l’identico»73. 71 72 73

E. LEVINAS, Etica e Infinito, trad. it., Roma 1984, 99-100. ID., Difficile liberté, Paris 1963, 20. ID., Moi et totalité, in Revue de métaphysique et de morale 50 (1954) 369.

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È questo il nuovo nome dell’essere secondo Levinas; un essere non da concettualizzare, ma da incontrare senza contraccambio o corrispettivo alcuno. L’incontro con il volto è l’incontro etico con un corpo che si espone, che offre la sua nudità sebbene di una nudità dignitosa. È il volto che si esprime esponendosi alla minaccia e all’offesa, ma che tuttavia resiste pur non opponendo nessua difesa: «C’è innanzitutto la dirittura stessa del volto, la sua esposizione diretta, senza difesa. La pelle del volto è quella che resta più nuda, più spoglia. La più nuda sebbene di una nudità dignitosa. La più spoglia anche: nel volto c’è una povertà essenziale; né è prova il fatto che si cerca di mascherare questa povertà assumendo delle pose, dandosi un contegno. Il volto è esposto, minacciato come se ci invitasse a un atto di violenza. Al tempo stesso, il volto è ciò che ci vieta di uccidere»74. Il volto è l’esperienza dell’altro nella sua alterità e nella sua inviolabilità. Il volto nel momento stesso in cui si espone mi invita al rispetto. Nel volto è iscritta una domanda e un comando. È questa la sua povertà e la sua autorevolezza; il corpo più esposto a qualsiasi violenza è la parola che mi chiama a rispondere con senso di responsabilità: «Volto e discorso sono legati. Il volto parla. Parla in quanto è lui che rende possibile e inizia ogni discorso. […] Il discorso e, più esattamente, la risposta o la responsabilità, è questa relazione autentica»75. L’espressione di cui è portatrice il volto, che non mira ad un possesso o ad un potere, mi rivolge la parola, è dialogo. Il corpo come volto si consegna simultaneamente come espressione e parola; il volto dunque si esprime e parla, mi dice la sua identità, ma presentando anche la sua fame, la sua indigenza. Il volto si presenta come un interlocutore che tuttavia fa irruzione a brucia pelo nella mia vita. Si presenta senza mediazione, è esposto nella sua indigente nudità; l’altro viene a visitarmi nel volto del povero, della vedova, dell’orfano, dello straniero. È il corpo martoriato delle vittime, degli ultimi, degli indigenti che non finiscono di interpellarmi. Il volto è presenza di un’alterità irriducibile ad ogni pretesa omologazione; è l’identità che non è posta da me, ma che viene a me da altrove. Identità altra! Il corpo dell’altro si consegna nel volto come una messa in questione della mia stessa identità da cui ripartire continuamente. Il corpo dell’altro, che si presenta a me come volto è allora una epifania che mi chiama ad uscire da me stesso e andare incontro all’altro. Non sono io a prendere l’iniziativa, ma sono come condotto fuori da me, 74 75

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ID., Etica e Infinito, cit., 100. Ibid., 102.


espulso da me stesso per essere responsabile dell’altro, chiamato pertanto a prendermi cura dell’altro. Il corpo della vittima è un’autentica chiamata a divenirne responsabile. Il rapporto che si instaura tra me e l’altro è un compito e una responsabilità senza fine. Il corpo dell’altro, proprio nella sua più nuda indigenza, nel suo essere senza difesa, grida la sua invocazione ma anche la sua resistenza. È la resistenza etica di chi non ha resistenza. Il corpo dell’altro esposto alla violenza non oppone una forza più grande, ponendosi nella stessa logica della violenza, ma esibisce la non resistenza del volto da cui scaturisce la parola originaria: «tu non mi ucciderai». «L’infinito paralizza il potere attraverso la sua resistenza infinita all’omicidio, che, dura e insormontabile, brilla nel volto dell’altro, nella nudità totale dei suoi occhi senza difesa, nella nudità dell’apertura assoluta del Trascendente. C’è qui una relazione non con una resistenza molto grande, ma con qualcosa di assolutamente Altra: la resistenza di ciò che non ha resistenza — la resistenza etica»76. Dall’estrema povertà ed indigenza mi giunge una parola non di lotta, ma un grido e una domanda di aiuto da accogliere e amare. È l’invito a donarmi, in concreto a strapparmi il pane dalla bocca per rispondere alla sua indigenza e nutrire la sua fame. Quando il corpo non è percepito più come volto siamo sulla strada della violenza, ossia siamo sulla strada della riduzione dell’altro a puro oggetto o strumento di piacere. Guardare l’altro e non percepirlo più come volto vuol dire avere imboccato questa via in cui non c’è il riconoscimento, ma l’asservimento dell’altro; non si guarda un volto, ma ci si appropria di un oggetto! Nel momento in cui si guarda l’altro, non perché l’altro è un volto che mi riguarda, ma perché oggetto e strumento, precisamente senza volto, lo abbiamo cosificato e annullato come altro. Non ha un volto, non ha un’identità! Lo si può accantonare, manipolare, violentare. È un corpo, ma senza volto. Guardare in faccia l’altro è un invito al dialogo e alla parola, non alla violenza. «Quando è percepito a partire dal volto, il corpo intero, nella sua nudità, può essere guardato senza inverecondia. La nudità è umiliante o offensiva quando il corpo vi è ridotto alla stato di oggetto o quando è una delle sue parti a diventare affascinante, sostituendosi, negli occhi dell’altro, alla percezione del corpo nella sua globalità (è così che si parla di ‘parti vergognose’). Ma il corpo denudato può essere onorato dallo sguardo che lo percepisce e lo accoglie come espressivo, tutto intero espressione di una presenza personale. Esso è allora come rivestito dalla 76

ID., Totalité et Infini. Essai sur l’extériorité, La Haye 1984, 173.

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qualità di quello sguardo, rivestito di bellezza, se si intende con questa ‘la forma che l’amore dà alle cose’ (espressione del poeta Ernest Hello)»77. Il corpo dell’altro mostra il suo volto, rivela la sua identità, per condurmi oltre. È la scoperta che il mio corpo diventa sempre più mio, senza tuttavia mai diventare il mio, nella misura in cui incontra l’altro. Un’identità, che si misura con l’alterità cioè con un’altra identità, è chiamata a riscoprire sempre più se stessa, l’identità più profonda, che non ha in sé la propria ragione d’essere. Essere in altro! Essere dall’altro! Essere altro…

3.4. La carezza: l’eros L’incontro del mio corpo con il corpo dell’altro ha nella relazione erotica l’espressione più significativa. Un tale incontro, in questa relazione, può configurarsi sia come un riconoscimento, sia come una fusione. La relazione può presentarsi sotto questa duplice modalità: quando il corpo dell’uno incontra il corpo dell’altro nella sua unicità lo riconosce come altro, quando invece lo incontra come oggetto di soddisfazione lo assimila, annullando la sua alterità. In questo senso è importante il modo di incontrare e di incontrarsi. Se infatti l’uno incontra l’altro come un interlocutore si pone nei suoi confronti con un atteggiamento di riconoscimento e di scambio, se, invece, l’uno incontra l’altro come un mezzo esercita una forma di potere e di assorbimento fino all'annientamento dell’altro nell’uno. Il corpo dell’altro come oggetto non può che essere utilizzato, esso esiste solo in funzione narcisistica o egoistica. Uno strumento da utilizzare a piacimento non appartiene al regno dei fini, è sempre e solo un mezzo. Perciò, quando si parla di incontro tra i corpi non possiamo non pensare all’unione carnale, alla sessualità, all’eros. L’incontro nella sfera sessuale ed erotica però non è da pensarsi sempre in maniera idilliaca: «Ognuno ha in sé abbastanza risorse per intuire la gravità della sessualità. Aggiungiamo che per chi, nonostante tutto, si fermasse al solo punto di vista della leggerezza, sarà l’esperienza stessa a farsi carico di insegnarli che le cose non sono poi così semplici. Sì, a fronte di certi discorsi ‘beati’ sull’innocenza e la sorridente naturalezza degli atti sessuali è necessario ricordare

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X. LACROIX, Il corpo e lo spirito, trad. it., Magnano (BI) 1996, 29.


il carattere drammatico dell’erotismo. Se ci è permesso questo anagramma, un tempo molto conosciuto dai poeti, non sono tutte rose nell’eros»78. L’incontro dei corpi, in questo senso, non sempre è un incontro pacifico, sereno, tenero, soprattutto quando non si incontrano due corpi soggetti, ma si incontrano un corpo soggetto e un corpo oggetto o peggio si incontrano due corpi oggetti. Nell’incontro erotico si possono celare molte ambiguità che, non di rado, riescono ad emergere anche in un rapporto definito maturo. L’ambiguità fa irruzione quando la relazione viene negata nella sua autenticità. È l’ambiguità dell’altro che non sempre mi viene incontro come amico, fratello, sposo. L’altro rischia spesso di presentarsi come colui che mira al possesso e al potere, assumendo i connotati di un nemico che minaccia la mia esistenza e la mia identità, ma anche quando non giungesse a tanto la sua posizione di dominio avvilisce e annienta la ricchezza, l’unicità del mio essere, del mio corpo. «L’amore come relazione con l’Altro può ridursi a questa innata immanenza, spogliarsi di ogni trascendenza, non ricercare che un essere connaturale, un’anima sorella, presentarsi come incesto. Il mito di Aristofane nel Convivio di Platone, in cui l’amore riunisce le due metà di un essere unico, interpreta l’avventura come un ritorno a sé. Il godimento giustifica questa interpretazione»79. Il rapporto erotico mostra questa ambiguità poiché in tale rapporto l’altro è simultaneamente soggetto irraggiungibile, distante, e oggetto posseduto, strumento di godimento. L’incontro maturo dei corpi è quello degli amanti che si riconoscono e si accolgono nella loro unicità irripetibile. La loro relazione non si traduce in termini di possesso o di potere. Ogni loro incontro è un evento sempre nuovo; è una crescita. Già questa apertura all’incontro e al riconoscimento appare nella voluttà sessuale, da non intendere soltanto in termini di eccitazione dei sensi: «È un’esperienza soggettiva che invade tutto il soggetto, fin nell’anima, nell’interiorità. Esperienza di vertigine in cui viene a mancare la terra sotto i piedi, in cui cioè i riferimenti abituali della coscienza sono sopraffatti, e al tempo stesso esperienza di incarnazione in cui la coscienza si fonde nel corpo, si insinua in tutte le sue parti, esperienza di immersione dell’io nel corpo, di riconciliazione con la vita, di accordo con il sensibile. Ma la voluttà non è solo questo. È anche apertura all’altro, 78

Ibid., 47-48. E. LEVINAS, Totalité et Infini, cit., 232: «Elle fait ressortir l’ambiguïté d’un événement qui se situe à la limite de l’immanence et de la transcendance». 79

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al corpo dell’altro. È come un grido, una tracimazione di vita, un parossismo. Certuni hanno potuto paragonarla addirittura all’estasi, anche se non è così evidente che in essa si esca realmente di sé. Diciamo che la voluttà mima l’estasi, nel senso che si è condotti fino al limite di sé»80. L’incontro tra i corpi può essere inteso come una autentica scoperta non solo dell’assoluta estraneità dell’altro, ma anche della immediata vicinanza e prossimità: «Così l’incontro sessuale può essere compreso come il reciproco addomesticarsi di due corpi che da estranei diventano prossimi, insegnandosi a superare la loro estraneità»81. È il rapporto con il corpo dell’altro che mi mette nella condizione di scoprire il mio corpo non come brama di possesso e di asservimento, ma come spossessamento e abbandono all’altro nella sua alterità. Incontrare è accedere ad una realtà che chiede rispetto, si addomestica una realtà nella misura in cui le si obbedisce con la quale si crea un legame e che trascina verso una ulteriorità trascendente. L’incontro tra i corpi si realizza e si consegna concretamente attraverso i gesti. Il linguaggio dei gesti è infatti il linguaggio del corpo. Il corpo è gestualità! Il gesto di tenerezza che più di tutti accompagna i corpi, che si incontrano e comunicano mediante un dialogo intenso e coinvolgente, è la carezza. Spesso è proprio la carezza che rivela la verità di una relazione tra soggetti. Nella relazione intersoggettiva il linguaggio che coinvolge il tatto è un linguaggio primario e la carezza è l’espressione concreta di questo linguaggio: «L’abbraccio, il toccare, l’accarezzare, la tenerezza, ecc… sono un linguaggio decisivo nei primi anni dell’infanzia. Anche nella vita dell’adulto rimangono elementi equilibranti»82. La carezza ha indubbiamente 80 X. LACROIX, Il corpo e lo spirito, cit., 49-50. L’Autore continua dicendo che nel godimento c’è un curioso impasto tra attività e passività, il quale «è anche esperienza di abbandono. Può vivere relazioni sessuali felici solo chi sa abbandonarsi all’altro. Al suo corpo, ai suoi gesti, al suo desiderio. Nell’abbandono io ricevo e do nel medesimo tempo. Se è vissuto nella sua verità (e non come un artificio), un tale movimento corrisponde a un atteggiamento interiore profondo che ha anche un valore spirituale. Al contrario, un’incapacità ad abbandonarsi al piacere può essere il segno di incapacità più profonde: blocchi, rigidità, chiusura. L’abbandono è anche de-padronanza. Nel godimento bisogna rinunciare a essere padroni di sé così come dell’universo, acconsentire a un certo passaggio attraverso il vuoto, all’impressione di annientarsi» (ibid., 50). 81 Ibid., 51. 82 J. GEVAERT, Il problema dell’uomo, Torino 1995, 71. Si veda in particolare come questa espressione del rapporto erotico viene presa mirabilmente in considerazione da J.L. Marion nel suo Le Phénomène érotique, più specificamente la quarta meditazione: De la chair, qu’elle s’exicite, 181-252. Solo la carne, secondo Marion, sente quanto le differisce. Le cose non differiscono poiché non sentono e non si sentono, la carne esce fuori dal mondo

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una sua particolare familiarità e sintonia con l’universo femminile: non abbiamo tutti forse ricevuto la prima carezza da una donna? Il primo rapporto corporeo è sempre con una donna! La gestualità che coinvolge il tatto è in questo senso la più originaria: «Quando si ama qualcuno, si sente naturalmente il bisogno di toccarlo. La madre prende il bambino, lo stringe al cuore, lo coccola; l’uomo stringe la mano dell’amico, gli dà un colpo incoraggiante sulle spalle; la ragazza cammina a braccetto, abbraccia, bacia, accarezza; così vi sono infinite forme tattili con le quali l’affetto di manifesta […] L’espressione tattile dell’amore è la più originaria fra tutte»83. La carezza, pur essendo un contatto fisico con il corpo dell’altro, non è da intendere solo come modalità di appropriazione dell’altro; la carezza è anche, e soprattutto, ricerca che non sa cosa cerca: «La carezza è un modo di essere del soggetto, in cui il soggetto nel contatto con un altro va al di là di questo contatto. Il contatto in quanto sensazione fa parte del mondo della luce. Ma ciò che è accarezzato non è a rigor di termini, toccato. Non è la dolce morbidezza o il calore della mano data nel contatto ciò che cerca la carezza. Questo cercare della carezza costituisce la sua essenza per il fatto che la carezza non sa che cosa cerca. Questo ‘non sapere’, questa confusione fondamentale è il suo carattere essenziale. È come il gioco con qualcosa che si sottrae, e un gioco assolutamente senza progetto né piano, non con ciò che può diventare nostro e identificarsi con noi, ma con qualcosa d’altro, sempre altro, sempre inaccessibile, sempre a venire. La carezza è l’attesa di questo avvenire puro, senza contenuto. Essa è fatta di questa fame crescente, di promesse sempre più ricche, che dischiudono prospettive nuove sull’inafferrabile. Essa si alimenta di una fame che rinasce all’infinito»84. La relazione con il corpo dell’altro, che ha quindi quando incontra la carne dell’altro con un evidente allusione a Genesi 2,23 (Questa volta è carne dalla mia carne): «Je ne me libère e ne peux devenir moi-même qu’en touchant une autre chair, comme on touche au port, parce que seule une autre chair peut me faire place, m’accueillir, ne pas me renvoyer, ni me résister — faire droit à ma chair et me la révéler à moi-même en lui ménageant une place. Et où l’autre chair ferait-elle place à la mienne, sinon en elle? Comme le monde ne fait pas de place, une autre chair doit m’en faire — en se tassant pour moi, en me laissant venir en elle, en se laissant pénétrer. Je sens, d’un coup et d’un seul, et ma chair e l’autre chair, en ressentant qu’elle ne peut pas me résister, qu’elle ne veut pas me résister, qu’elle me prend en sa place sans m’y comprendre, qu’elle me met à sa place — me place à la sienne — en me laissant l’envahir sans se défendre. En entrant dans la chair d’autrui, je sort du monde e je deviens chair dans sa chair, chair de sa chair» (ibid., 201). 83 A. TERRUWE, Amore ed equilibrio, trad. it., Roma 1970, 20. 84 E. LEVINAS, Il Tempo e l’Altro, trad. it., Genova 1987, 58.

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nella carezza una sua modalità di espressione gestuale, non mira ad impadronirsi di nulla: «la carezza consiste nel non impadronirsi di nulla, a sollecitare ciò che sfugge incessantemente dalla sua forma verso un avvenire — mai troppo avvenire — a sollecitare ciò che si nasconde come se non lo fosse ancora. Essa cerca, essa scava. Non è una intenzionalità di svelamento, ma di ricerca: cammino verso l’invisibile. In un certo senso esprime l’amore, ma soffre di una incapacità di dirlo. Essa ha fame di questa espressione stessa, in una incessante crescita della fame»85. La relazione tra i corpi subisce, però, uno scacco quando subentra nella relazione la brama del possesso e del potere. Una relazione concepita in termini di possesso e di potere riduce il corpo dell’altro, lo smembra, lo degrada, lo violenta. Appropriarsi del corpo dell’altro vuol dire non solo ridurlo, ma anche negarlo nella sua alterità, non lasciarlo essere in quanto altro. Rendere propria una realtà che propria non è, vuol dire procedere ad una negazione della identità dell’altro. La relazione autenticamente umana non neutralizza questa alterità, ma la conserva nella sua alterità; è un alterità che cresce e non che diminuisce: «Mentre nel porre altri in termini di libertà, nel pensarlo in termini di luce, siamo obbligati a confessare lo scacco della comunicazione, noi abbiamo confessato soltanto lo scacco del movimento che tende ad impadronirsi di una libertà o a possederla. Solo mostrando ciò per cui l’eros differisce dal possesso e dal potere possiamo ammettere una comunicazione nell’eros. Esso non è né una lotta, né una fusione, né una conoscenza. Bisogna riconoscere il suo posto eccezionale tra le relazioni. È la relazione con l’alterità, con il mistero, cioè con l’avvenire, con ciò che, all’interno di un mondo, dove tutto è presente, non è mai presente, con ciò che può non essere presente quando tutto è presente. Non con un essere che non è presente, ma con la dimensione stessa dell’alterità»86.

3.5. La maternità La relazione erotica ci pone dinanzi la relazione con l’altro che mostra la sua alterità non come un rovescio dell’identità, ma come alterità; 85

ID., Totalité et Infini, cit., 235. ID., Il Tempo e l’Altro, cit., 57. Porre l’altro nella luce vuol dire per Levinas ridurlo a oggetto di conoscenza. Il processo della conoscenza a cui spesso egli fa riferimento è quella teoretica che mira ad appropriarsi dell’oggetto riconducendolo a sé. 86

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una relazione che non cancella o neutralizza l’alterità ma la conserva, l’approfondisce. Abbiamo visto che in questa relazione l’altro non diventa me, ma accresce il suo mistero, la sua alterità. L’altro che si sottrae resistendo all’opera di omologazione dell’io, rimanendo assolutamente altro, è la femminilità: «L’altro in quanto altro non è qui un oggetto che diventa nostro o che finisce per identificarsi con noi; esso, al contrario, si ritrae nel suo mistero. Questo mistero della femminilità — della femminilità che è altro per essenza — non si riferisce neppure ad una qualche concezione romantica della donna misteriosa, sconosciuta o incompresa»87. Il mistero, a cui si riferisce Levinas, non è compreso in modo etereo, ma è l’affermazione di una alterità che si sottrae alla volontà di possesso e di potere: «Ciò che mi sta a cuore in questa concezione della femminilità, non è soltanto l’inconoscibilità, ma un modo di essere che consiste nel sottrarsi alla luce. La femminilità è nell’esistenza un evento differente da quello della trascendenza spaziale o dell’espressione, che vanno in direzione della luce. È una fuga dinanzi alla luce. Il modo di esistere della femminilità consiste nel nascondersi, e questo fatto di nascondersi è appunto il pudore»88. L’altro nella sua alterità sfuggendo alla mia presa è ancora più misteriosa quanto più è altra. La figura che indica questa relazione è quella del figlio: «La filialità è ancora più misteriosa. È una relazione con altri dove altri è radicalmente altro e dove, tuttavia, è in qualche modo me. L’io del padre ha a che fare con un’alterità che è la sua, senza essere possesso né proprietà»89. Il figlio è l’estraneo. Il rapporto che il padre stabilisce col figlio lo fa uscire dalla chiusura della propria identità. Dire mio figlio, nella relazione di paternità, non si esaurisce nella riduzione ad una proprietà: «La paternità è una relazione con un estraneo che, pur essendo altri [altrui], è me. La relazione dell’io con me stesso, che è tuttavia estraneo a me. Il figlio infatti non è semplicemente opera mia, come un poema o come un oggetto da me costruito; non è neppure mia proprietà. Né le categorie del potere, né quelle dell’avere sono in grado di designare la relazione col figlio»90. Questa dimensione intersoggettiva, che viene fuori sia nell’incontro dei corpi sia nel rapporto di figliolanza, ci mostra la possibilità di pensare il corpo nella sua realtà e nella sua concretezza non in termini di possesso e di potere, ma come luogo in cui si configura, realizzandosi, l’accoglienza 87 88 89 90

Ibid., 55. Ibid., 56. ID., Etica e Infinito, cit., 87. ID., Il Tempo e l’Altro, cit., 59-60.

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dell’altro, luogo in cui si dispiega e accade, in modo radicale, il rispetto dell’alterità dell’altro. La dimensione costitutiva dell’alterità, che sfugge alla comprensione e alla presenza, esibisce la natura di un corpo vulnerabile. È il corpo materno che, accogliendo un altro nel proprio corpo, non si ritrova più ad essere per se stesso, non si coglie più in termini di coincidenza con sé stesso. Il segreto della soggettività consiste nell’apertura ad altro da sé, che trova posto nel cuore stesso del soggetto umano: l’Altro nel Medesimo. Il corpo materno è un corpo che si trova come desituato, de-centrato, si scopre pertanto vulnerabile. La maternità è la vulnerabilità che si espone all’altro lasciandosi costituire e assegnare ad una responsabilità senza fine. Ci troviamo davanti ad una soggettività di carne e di sangue di cui solo la natura femminile sa parlare. Il corpo della maternità risponde ad una sorta di de-posizione dell’io dinanzi all’Altro. Nel corpo della maternità si dischiude a noi la possibilità di ripensare la soggettività come passività assoluta, non più come io, ma come eccomi. È l’accusativo, in questo senso, il nome della soggettività e non più il nominativo. Io non sono più io, ma eccomi! La maternità è un corpo che si espone all’altro consegnandosi, questa è la passività: «esposizione all’altro, passività del per-l’altro nella vulnerabilità che risale fino alla maternità che significa sensibilità»91. Si tratta di ripensare la significazione di una corporeità che non si tiene soltanto in sé e per sé, come coincidenza con sé, ma è esposta all’altro. Ci troviamo dinanzi ad un corpo strappato dal suo conatus: «La passività più passiva di ogni passività antitetica dell’atto, nudità più nuda di ogni ‘nudo di modella’, nudità che si espone fino allo sfogo, all’effusione e alla preghiera, una passività che non si riduce all’esposizione riguardo all’altro, ma vulnerabilità e dolenza che si esaurisce come emorragia, che denuda fino all’aspetto che assume la propria nudità, che espone la propria esposizione stessa, che si esprime, parlando, scoprendo fino alla protezione che la forma stessa dell’identità gli conferisce, passività dell’essere per l’altro che è possibile solo nella forma della donazione del pane stesso che io mangio. Ma per questo bisogna preliminarmente godere del proprio pane, non tanto per avere il merito di darlo, ma per dare il proprio cuore — par darsi donando»92. 91 ID., Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, La Haye 1986, 89. Levinas parla di una soggettività in termini di una identità non coincidente con se stessa che si apre ad una relazione con l’altro come non-indifferenza: «Un corps animé ou une identité incarnée est la signifiance de cette non-indifférence» (l. c.). 92 Ibid., 91.

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Un soggetto di carne e sangue, incarnato, capace di portare l’altro e di esserne responsabile, questa è la maternità. Un corpo che è per l’altro prima ancora di essere per sé — così Levinas parla della maternità — mostra la sua condizione di vulnerabilità, di responsabilità e di prossimità: «Il sensibile — maternità, vulnerabilità, apprensione — annoda il nodo dell’incarnazione in un intrigo più ampio dell’appercezione di sé; intrigo in cui sono annodato agli altri prima di essere annodato al mio corpo»93. La maternità è la corporeità del corpo che assume dunque il suo significato pregnante nel suo essere per l’altro: «tale significazione porta la sensibilità in quanto prossimità, in quanto significazione, in quanto l’uno-per-altro — significazione che significa nel dare quando il dare offre non la superflussione del superfluo, ma il pane-strappato-dalla-propria-bocca. Significazione che significa, di conseguenza, nel nutrire, nel vestire, nello alloggiare, nei rapporti materni in cui la materia si mostra solamente nella sua materialità»94. Un corpo a cui è vietato il riposo su di sé, un’esistenza dedicata all’altro di cui si prende cura, questa è l’immagine di una madre che si consegna facendosi prossimo dell’altro. La maternità è vista come un abbandono senza ritorno, un «corpo che soffre per l’altro, corpo come passività e rinuncia, puro subire»95. La maternità è la passività che genera vita, che si congeda svuotandosi.

4. UN CORPO DONATO È l’umanità che si prende cura dell’altro senza pensare al contraccambio questo è il corpo esposto fino al dono di sé. Il corpo nella relazione intersoggettiva viene ripensato come dono. La realtà e la concretezza della corporeità hanno come esito la consegna di sé. Il percorso che abbiamo tracciato va dal corpo che scopre se stesso al corpo che si espropria di se stesso. La dimensione del dono ci offre la chiave di lettura per capire la natura del corpo. La sensibilità e la materialità del corpo che sembrano rivendicare una dimensione propriamente interessata si aprono invece al dono. Il corpo è un dono. Dio ha voluto farsi carne, Dio ha voluto prendere un corpo, per cui la pedagogia della salvezza indica e propone questa 93 94 95

Ibid., 96. Ibid., 97. Ibid., 100.

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strada: non si salva se non si assume! La salvezza è il dispiegarsi del mistero dell’incarnazione del Verbo. Il Verbo si è fatto carne, non è una metafora o semplice apparenza, ma il figlio di Dio che ha assunto realmente la nostra condizione umana, cioè la nostra carne vivente: «Il carattere cruciale del problema posto dal corpo, la sostituzione del corpo materiale con la carne vivente che siamo realmente e che oggi dobbiamo riscoprire a onta dell’oggettivismo dominante, è quello di rendere possibile, almeno implicitamente per i pensatori del cristianesimo primitivo (esplicitamente in Ireneo), l’Incarnazione del Verbo, la sola cosa che importi loro e il fondamento della salvezza cristiana»96. Il Verbo ha assunto la carne vuol dire che il corpo è il luogo della nostra salvezza e non della nostra perdizione. Dio assumendo la nostra carne ha raggiunto ogni carne: «La nostra carne — sottolinea Henry — non è il corpo opaco che ognuno trascina con sé dopo ciò che si dice essere la sua nascita; corpo di cui espierà per tutta l’esistenza, senza sorpresa eppure nell’angoscia, ogni particolarità, ogni qualità e difetto, ogni modificazione, ogni cedimento, ogni ruga che traccia inevitabilmente sul suo volto di uomo o di donna le stigmate della decrepitezza e della morte. Il nostro corpo non è un oggetto incapace di attingere a sé e d’assicurare da solo la promozione al rango di fenomeno, oggetto consegnato al mondo, costretto a domandargli di illuminarlo con il suo bagliore fugace, il tempo di apparire in esso per poi scomparire. La nostra carne ha in sé il principio della propria manifestazione, che non è l’apparire al mondo. […] Nel fondo della sua Notte, la nostra carne è Dio»97. Il corpo in Dio trova la sua origine e la sua vita. Una vita di relazione in cui si scopre e si accoglie l’altro come altro. L’esistenza umana in questa prospettiva è allora un’esistenza piena di pathos. L’essere non si coglie se non in questa dimensione concreta ed esistenziale della corporeità che ha nella affettività il luogo in cui si esprime. Un’affettività non ripiegata in se stessa ma che si apre alla relazione con l’altro. Lo spazio intersoggettivo del 96 M. HENRY, Incarnation, cit., 364. Il corpo è inteso da Henry come carne vivente: «Ce que nous avons à dire, c’est que la nouvelle intelligibilité qu’exige l’élaboration de la question du corps, pour autant que notre corps n’est pas un corps mais une chair, est totalement étrangère à ce que nous entendons depuis toujours sous le titre d’intelligibilité. C’est seulement la perception mondaine de notre corps comme corps de chair (Leibkörper), la perception d’un corps-objet revêtu de cette signification de n’être pas un corps chosique ordinaire, mais un corps susceptible de sentir» (ibid., 365). 97 Ibid., 373.

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rapporto in cui interagiscono i soggetti è la chiave di lettura per una continua ripresa del discorso metafisico. Un discorso non più relegato alla sola dimensione teoretica, ma che si costituisca in un costante e fondamentale riferimento all’esistenza concreta e personale dei soggetti. In questo senso la metafisica non ignora questo percorso che riguarda la vita corporea nel suo pathos, nel suo patire, nel suo provare e sopportare fino alla fine, con forti grida e lacrime, la vita stessa. Si impara ad essere consegnandosi nel proprio patire. La metafisica è un concreto lasciarsi interpellare, un lasciarsi condurre, in altre parole, è il riconoscimento di una precedenza che ha nella passività la propria ragion d’essere. La corporeità che scopre la propria passività più passiva di ogni passività si accoglie e si dona nel dono. Un corpo donato! Tu non hai voluto sacrificio né offerta, un corpo mi hai donato (cfr Eb 10,5-10)98. Un corpo donato per donarsi: «il corpo che noi siamo, ma che non viene da noi, è la nostra in-scrizione originaria nel senso della vita. Ciò che è più inalienabilmente mio non viene da me e mi rinvia ad altri da me: cogliere il corpo come dono significa interpretare la vita come dono, dunque predisporsi a dare senso alla vita facendone a nostra volta un dono»99. Un vita che si consegna nel dono di sé è il compito e la responsabilità ad essere e a far essere sempre più unici.

98 L’Autore della lettera agli Ebrei pone in bocca a Cristo questa espressione del salmo 40 della versione greca dei LXX, mentre il testo ebraico dice: «Invece gli orecchi mi hai forato». Da cui si potrebbe evincere la dimensione di un corpo divenuto tutto orecchi, cioè docile a tal punto che si lascia condurre, si lascia fare. Un corpo che si lascia modellare dalla volontà di un Altro. 99 L. MANICARDI, Il corpo, Magnano (BI) 2005, 11. L’Autore guardando a Cristo come a colui che fa del suo corpo un’offerta, un dono gratuito di sé, conclude con queste parole: «nel corpo che mi accomuna a ogni uomo e al tempo stesso mi personalizza, proprio lì è incisa la mia unicità, la mia irripetibilità, ma anche la mia chiamata a esistere con gli altri, grazie agli altri e per gli altri: il corpo è appello e memoriale della vocazione di ogni uomo alla libertà e alla responsabilità» (l. c.).

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CAPITOLO II

SONO FORSE IO RESPONSABILE DI MIO FRATELLO? DALLA PAURA ALLA PROSSIMITÀ

1. PREMESSA L’attenzione che in vari ambiti del pensiero contemporaneo viene rivolta, ormai da tempo, alla tematica dell’alterità, per l’eccessiva enfasi cui è sottoposta, rischia di essere non solo inflazionata ma anche fraintesa, al punto da perdere quella incidenza speculativa e pratica di cui è portatrice. Non è nostro intento fare un’analisi esaustiva sull’argomento. In questo nostro contributo ci siamo limitati soltanto a intendere l’alterità nell’orizzonte della intersoggettività. Il primato dell’altro così come viene fuori, per esempio, nel modo di pensare di Levinas, mira a interpellare seriamente la natura e la condizione dell’identità personale. Per cui in questa prospettiva, quando si parla di alterità o di primato dell’altro, più che di una svalutazione dell’io e della sua identità, si tratta invece di un tentativo di ri-pensare, di ridire altrimenti, la natura dell’uomo cogliendolo nella sua umanità la più essenziale. La domanda da cui trae origine questa nostra riflessione, pone, appunto per quanto detto, l’accento in modo enfatico sull’io. Domanda che è tratta esplicitamente dal libro della Genesi 4,9: «mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise. Allora il Signore disse a Caino: Dov’è Abele, tuo fratello? Egli rispose non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?» Una risposta, quella di Caino, che mostra la mancanza di un’etica, cioè la mancanza di responsabilità. Levinas in una intervista precisa che non bisogna prendere la risposta di Caino come se si prendesse gioco di Dio, o come se rispondesse da bambino «non sono io, è l’altro. La risposta di Caino è sincera. In essa manca solo l’etica; vi è solamente ontologia: io sono io e lui è lui. Noi siamo esseri ontologicamente separati»100.

100

E. LEVINAS, Tra noi, trad. it., Milano 1998, 145.

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2. USCIRE DALLA CONFLITTUALITÀ Senza voler ridurre il discorso e il problema dell’alterità, qui vogliamo tenere presenti due logiche, due prospettive, che si affrontano nel rapporto con l’altro. Prospettive antitetiche tra di loro. L’una mimeticosacrificale101, che porta a percepire l’altro come un modello o come un rivale, cioè come qualcuno da imitare o da distruggere nello stesso tempo. L’altra conduce, invece, verso l’altro con un atteggiamento di riconoscimento, che scorge l’altro proprio in quanto altro, lasciandolo essere nella sua unicità e nella sua originalità. La prima prospettiva possiamo rintracciarla in tutti quegli atteggiamenti dell’uomo o in tutte quelle culture umane dove la differenza viene compresa all’interno di una logica di violenza. Nella seconda prospettiva, invece, la differenza viene riconosciuta al di fuori di questa logica, cioè al di fuori della uniformità e dell’omologazione. La prima genera paura, la seconda libera dalla paura. Infatti l’uomo intrappolato in una mentalità, in una cultura, in un vissuto conflittuale mimetico viene ridotto a volontà di potenza, in cui il dominio, il possesso, si appropria del suo essere. L’uomo perde se stesso, per lasciar prevalere il puro desiderio di violenza, spesso dissimulato nel ricorso a motivazioni di carattere ideologico, religioso, morale o economico. Ritrovare se stessi, per essere se stessi, può aver luogo nella misura in cui si vive oltrepassando la logica del dominio e del possesso, raggiungendo, così, il fine dell’essere e non dell’avere. Il riconoscimento dell’altro e della differenza ci indica che il fine è accogliere, crescere e far crescere. Una relazione adulta e matura lascia l’altro essere se stesso. L’io è sempre più se stesso nella misura in cui lascia gli altri essere se stessi. Questa è la prospettiva del bene, della gratuità e del dono. Assumendo e vivendo questa logica di gratuità, che diventa stile di vita, usciamo dalla conflittualità. La riflessione che caratterizza il pensiero di H. Jonas102 porta l’impronta di una preoccupazione originata dal potere che l’uomo moderno, tecnologico, è venuto man mano acquistando. Il potere dell’uomo si fa sempre più sregolato al punto da minacciare la prosecuzione della vita sulla terra. Di fronte a un tale potere occorre ripensare il senso della responsabi101

Si veda in modo specifico su questo argomento il saggio di R. GIRARD, La violence et le sacré, Paris 1971. 102 Ci riferiamo, qui, in particolare — della varia produzione del pensatore tedesco — all’opera Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, trad. it., Torino 1993.

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lità dell’uomo, oggi: «Al principio speranza contrapponiamo il principio responsabilità e non il principio paura. Ma la paura, ancorché caduta in un certo discredito morale e psicologico, fa parte della responsabilità altrettanto quanto la speranza, e noi dobbiamo in questa sede perorarne ancora la causa, poiché la paura è oggi più necessaria che in qualsiasi altra epoca in cui, animati dalla fiducia nel buon andamento delle cose umane, si poteva considerarla con sufficienza una debolezza dei pusillanimi e dei nevrotici»103. Tuttavia l’uomo, nonostante le notevoli potenzialità di cui è in possesso, soprattutto grazie alle conquiste tecniche, rimane pur sempre un essere limitato e mortale: «Ciò che non viene espresso, essendo per quei tempi scontato, è il sapere che l’uomo, malgrado tutta la grandezza della sua sconfinata inventiva, è ancor sempre piccolo se commisurato agli elementi; appunto questa circostanza rende così temerarie le sue irruzioni in essi e consente loro di tollerare la sua insolenza. Tutte le libertà che egli si prende con gli abitanti della terra, del mare e dell’aria lasciano pur sempre immodificata la natura che ingloba queste sfere e non ne intaccano le forze generatrici. Esse non vengono realmente danneggiate se dal loro grande regno egli se ne ritaglia uno piccolo tutto suo; durano nel tempo, mentre le sue imprese hanno un corso di breve durata. Per quanto tormentata anno dopo anno dal suo aratro, la terra non ha età e non si lascia fiaccare; nella sua pazienza costante l’uomo può e deve aver fiducia ed è costretto ad adattarsi al suo ciclo. Altrettanto senza età è il mare. Nessuna rapina ai danni della sua prole può esaurirne la fecondità; nessuna traversata di navi può nuocergli, nessuno scarico nelle sue profondità può contaminarlo. E per quanto l’uomo possa trovare rimedio a molte malattie, la mortalità stessa non si piega alla sua astuzia»104. Il principio responsabilità, secondo questa lettura, si delinea essenzialmente soprattutto nei confronti delle generazioni future recuperando una dimensione più umana dell’esistenza e della vita, attraverso la ricerca di una fondazione metafisica105. Ora, per ciò che concerne il nostro discorso, il problema è stabilire, delimitare, gli ambiti della responsabilità. Perché non si resti vincolati ad una sorta di responsabilità astratta, distante, indefinita, assente, bisogna situarla, collocarla. Questa sembra essere, per esempio la preoccupazione 103

H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 284. Ibid., 5-6 105 La fondazione metafisica va intesa, qui, nel senso della ricerca di un principio. Il principio che si evince dalla nota questione leibniziana: perché esiste qualcosa e non il nulla? Da cui scaturisce la priorità dell’essere sul nulla. 104

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di D. Bonhoeffer, il quale con una serie di domande, che estrapoliamo letteralmente dalla sua opera Etica, si muove lungo la linea di una responsabilità concreta: «La responsabilità mi colloca in un campo operativo illimitato o mi vincola saldamente ai limiti posti dai miei concreti compiti quotidiani? Di che mi debbo sentire autenticamente responsabile e di che no? Ha senso considerarmi responsabile di tutto ciò che avviene nel mondo, o posso guardare ai grandi eventi del mondo come spettatore indifferente, solo che il mio angoletto sia in ordine? Devo consumarmi in uno zelo impotente contro tutte le ingiustizie e la miseria esistenti nel mondo, o posso abbandonare il mondo malvagio al suo corso, sicuro e soddisfatto di me, fintanto che non posso operare alcun cambiamento al riguardo e ho fatto la mia parte? Qual è il luogo e quali sono i limiti della mia responsabilità?»106.

3. L’UNO CONTRO L’ALTRO: LA VITA MINACCIATA Se rimanessimo nella prospettiva mimetico-sacrificale non ci sarebbe modalità diversa di cogliere e vivere la relazione con l’altro se non in un clima vitale e culturale di contrapposizione: l’uno si definisce contro l’altro. L’altro viene percepito come un nemico, come una minaccia. J.P. Sartre è uno dei filosofi che pensa la relazione in termini conflittuali sulla scia della dialettica hegeliana, servo-signore. L’affermazione dell’uno porta a negare l’altro. Il riconoscimento dell’altro come libertà conduce a limitare, fino al punto da negare, la propria. Di conseguenza la relazione che lega l’uno all’altro è concepita in termini conflittuali. L’altro è una continua minaccia alla mia esistenza personale e alla mia libertà: «Tutto quello che vale per me, vale per gli altri. Mentre io tento di liberarmi dell’influenza d’altri, l’altro tenta di liberarsi dalla mia; mentre io cerco di soggiogare l’altro, l’altro tenta di soggiogarmi. Non si tratta affatto qui di relazioni unilaterali con un oggetto-in-sé, ma di rapporti reciproci e mobili […]. Il conflitto è il senso originario dell’essere-per-altri»107. L’altro è una minaccia continua portata alla mia vita e alla mia libertà. Ogni volta che si presenta l’altro non solo si presenta la possibilità del conflitto ma è anche la mia identità che viene messa in pericolo; per cui secondo tale visione bisogna eliminare ogni estraneità e alterità per affermare la propria identità. 106 107

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D. BONHOEFFER, Etica, trad. it., Brescia 1995, 252. J.P. SARTRE, L’essere e il nulla, trad. it., Milano 1988, 447.


a) La minaccia tuttavia, in una prima accezione, è vista da Jonas come la possibilità di una salvaguardia reale della identità dell’uomo. Paradossalmente per entrare in contatto reale con l’identità dell’uomo abbiamo bisogno della minaccia: «Come non conosceremmo la sacralità della vita se non esistesse l’omicidio e se il comandamento ‘Non uccidere!’ non la evidenziasse, o non conosceremmo il valore della veridicità se non ci fosse la menzogna né la libertà se non ci fosse la schiavitù e così via, così anche nel nostro caso, riguardante la ricerca di un’etica della responsabilità a lunga portata che nessuna trasgressione attuale ha già evidenziato nella realtà, soltanto il previsto stravolgimento dell’uomo ci aiuta a formulare il relativo concetto di umanità da salvaguardare; abbiamo bisogno della minaccia dell’identità umana — e di forme assolutamente specifiche di minaccia — per accertarci angosciati della reale identità dell’uomo. Finché il pericolo è sconosciuto, non si sa che cosa ci sia da salvaguardare e perché»108. In questo quadro di riferimento si capisce perché Hobbes assuma la minaccia, come principio, «come punto di partenza della morale, anziché l’amore verso un summum bonum, il timore di un summum malum, ossia la paura della morte violenta. Quest’ultima è ben nota, costantemente vicina e suscita il timore estremo come la reazione più incontrollata e ineluttabile dell’istinto di autoconservazione innato nella nostra natura. Il destino previsto di generazioni future, per tacere poi di quello del pianeta, che non riguarda né me né alcun altro che mi sia legato dal vincolo dell’amore o della convivenza diretta, non esercita di per se stesso quell’influenza sul nostro animo; eppure la ‘deve’ esercitare, ovvero noi gliela dobbiamo accordare. Non può trattarsi qui, come per Hobbes, del timore (per dirla con Kant) di tipo ‘patologico’ che ci assale incontrollabilmente dinanzi al suo oggetto, ma di un timore di genere intellettuale che è opera nostra in quanto conseguenza di un atteggiamento»109. Per cui, secondo Jonas, se vogliamo ancora riservare un futuro al pianeta e all’umanità occorre prestare più attenzione alle profezie di sventura che alle profezie di salvezza. In questo orizzonte di senso, la paura è pensata come costitutiva della responsabilità: «Quando parliamo della paura che per natura fa parte della responsabilità, non intendiamo la paura che dissuade dall’azione, ma quella che esorta a compierla; intendiamo la paura per l’oggetto della responsabilità. […] La responsabilità è la cura per 108 109

H. JONAS, Il principio responsabilità, cit., 34-35. Ibid., 36.

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un altro essere quando venga riconosciuta come dovere, diventando ‘apprensione’ nel caso in cui venga minacciata la vulnerabilità di quell’essere. Ma la paura è già racchiusa potenzialmente nella questione originaria da cui ci si può immaginare scaturisca ogni responsabilità attiva: che cosa capiterà a quell’essere, se io non mi prendo cura di lui?»110. Questa paura è intesa come un dovere in vista della responsabilità, quindi, di un’apertura verso l’altro. Questa paura non è lo sgomento, non è la paura per se stessi. La paura come una necessità, così sembra intenderla Jonas, in vista di una tutela dell’integrità dell’uomo: «Si dovranno apprendere nuovamente il rispetto e l’orrore per tutelarci dagli sbandamenti del nostro potere (ad esempio dagli esperimenti sulla natura umana). Il paradosso della nostra situazione consiste nella necessità di recuperare dall’orrore il rispetto perduto, dalla previsione del negativo il positivo: il rispetto per ciò che l’uomo era ed è, dall’orrore dinanzi a ciò che potrebbe diventare, dinanzi a quella possibilità che ci si svela inesorabile non appena cerchiamo di prevedere il futuro»111. b) La minaccia, in una seconda accezione, è invece vista come causa scatenante la paura. Dalla minaccia per la mia vita nasce il sentimento della paura. Pensiamo, per esempio alla paura che abbiamo dinanzi ad un qualsiasi evento che mette in pericolo la nostra vita, oppure a quella paura che nasce nei confronti dei diversi, di quelli che ci criticano, di coloro che ci mettono in discussione. Quella paura che ci impedisce di crescere, di cambiare, di scoprire cose diverse, di aprirci agli altri. In tal senso, sarebbe, forse, più opportuno parlare di paure piuttosto che di paura. La paura che qui desideriamo evidenziare si dispiega nella relazione intersog110

Ibid., 285. Ibid., 286. Per tutelare l’integrità dell’uomo, Jonas suggerisce, a conclusione del suo saggio, la previsione del negativo che nutra però un atteggiamento di rispetto per il presente come senso di responsabilità per il futuro dell’uomo: «Un’eredità degradata coinvolgerebbe nel degrado anche gli eredi. La tutela dell’eredità nella pretesa ‘integrità dell’uomo e quindi, in senso negativo, anche la salvaguardia del degrado, deve esser l’impegno di ogni momento: non concedersi nessuna pausa in quest’opera di tutela costituisce la migliore garanzia della stabilità, essendo, se non l’assicurazione, certo il presupposto anche dell’integrità futura dell’identità umana. La sua integrità non è altro che l’apertura verso quella sempre smisurata pretesa — che induce all’umiltà —, rivolta al suo portatore strutturalmente inadeguato. Conservare intatta quell’eredità attraverso i pericoli dei tempi, anzi, contro l’agire stesso dell’uomo, non è un fine utopico, ma il fine, non poi così modesto, della responsabilità per il futuro dell’uomo» (ibid., 286-287). 111

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gettiva. In ogni modo, parliamo di quella paura che blocca, che paralizza; quella paura che cerca sempre un colpevole. Poiché manchiamo di sicurezza interiore, poiché siamo incapaci di addossarci e riconoscere i nostri errori, ricerchiamo e troviamo un capro espiatorio per accusarlo del male che ci capita. È il nemico, il malvagio, il cattivo, la causa di tutte le sventure e, di conseguenza, le nostre. Quella paura che provoca odio, che ci mette in atteggiamento di difesa ed è fonte di conflitti. Quella paura che, per tanto, ci fa pensare e incontrare l’uomo in termini conflittuali. Quella paura che ci fa immaginare l’uomo nella contrapposizione dell’uno contro l’altro. Le immagini che balenano immediatamente sono quelle dei campi di concentramento, dei lager, dei gulag, di ogni tempo: «La paura di chi minaccia l’ordine stabilito è sempre esistita. Le persone che sono al potere, che ne ricevono dei privilegi, che hanno bisogno di controllare tutto e di sentirsi superiori agli altri, sono quelle che temono maggiormente i dissidenti. Dal tempo in cui i capi — quasi sempre i re — erano considerati rappresentanti di Dio sulla terra, garanti della verità, della religione e della morale, chi si ribellava contro di loro veniva bollato come inviato dal diavolo. Se lo status quo era opera di Dio, chiunque si sollevasse contro questo status quo si sollevava contro Dio e l’ordine naturale. L’affermazione ‘Dio è con noi’ è sempre stata usata per giustificare la tortura e i delitti commessi a nome della cosiddetta verità»112. La conseguenza è una concezione distorta dell’autorità non concepita come servizio, non accolta come un compito donato: «Generalmente i capi credono di essere nel giusto. Se sono riusciti a ritrovarsi in cima alla scala, per definizione, secondo la legge della selezione naturale, i comportamenti e le motivazioni che li hanno portati lassù si legalizzano da soli. Ecco perché ai potenti sembra naturale cercare di reprimere e di escludere quelli che si oppongono a loro. Chi critica l’autorità crea disordine e contrasta l’ordine stabilito. È importante per chi occupa un posto di responsabilità o per un capo ascoltare quelli che hanno opinioni diverse, cercare di comprenderli e di cogliere la parte di verità che in essi risiede. La storia ci dimostra almeno una cosa: l’esercizio del potere ci è dato in prestito. Non lo si possiede. Ciò significa che, nelle democrazie occidentali, quelli che sono al potere devono riconoscere la natura temporanea del loro mandato e accettare quanto c’è di valido nel pensiero dei loro oppositori. Questo

112

J. VANIER, Abbracciamo la nostra umanità, trad. it., Bologna 1999, 62-63.

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dimostra l’importanza di esercitare l’autorità con spirito di umiltà, di servizio della giustizia e del bene comune»113. Abitualmente l’uomo preferisce stare con l’altro uomo che ha le sue stesse idee, la sua stessa cultura, gli stessi suoi interessi. Si lavora più facilmente insieme; ci si sente più sicuri. Chi è diverso dà fastidio, inquieta. Qualcuno di noi può trovare interessante aprirsi all’altro, anche stimolante, aprisi alla sua cultura, ai suoi usi, alla sua religione, ma aprirci realmente cioè permettergli di entrare nella nostra vita e di diventare nostro amico è altra cosa. «Quando la nostra vita è basata sui valori del sapere, del potere e del riconoscimento sociale, è difficile per noi accettare quelli che hanno valori diversi, perché non ci sentiamo più stabili. Le stimmate sociali impresse sulle persone che hanno un handicap mentale sono profonde. Esiste sempre un interrogativo, anche se implicito: se qualcuno non riesce a raggiungere un’autonomia totale e vivere secondo i valori della società è da considerarsi un essere umano?»114. Per cui occorre ripensare sempre più l'essere umano e la sua umanità, l'umano dell'uomo: «Noi tendiamo a pensare che essere umani consista nella capacità di acquisire conoscenze, potere e uno stato sociale riconosciuto. Abbiamo dimenticato il cuore, come se fosse soltanto simbolo di debolezza, sede di sentimentalismo e di emozioni soggettive, invece di considerarlo una sorgente di vita, una forza che può infrangere il nostro egocentrismo, aiutarci a crescere, aprirci agli altri e rivelarci la bellezza fondamentale dell’umanità»115. La paura di sbagliare ci viene inculcata sin da piccoli, con il sentimento di essere incapaci e quindi di non essere apprezzati dagli altri. In questo senso noi viviamo per affermarci, quindi dobbiamo avere successo, dimostrare come siamo bravi e soprattutto avere ragione. Il desiderio di avere successo di per sé è valido, come il desiderio di piacere, di essere apprezzati, ma non tutti possono avere successo, non tutti sono apprezzati, non tutti piacciono… «Non tutti possono vincere al medesimo concorso; parecchi, spesso i più falliscono. Un fallimento può ferire una persona. Questo bisogno di avere successo, unito alla paura di cadere nel vuoto, nell’angoscia, di essere tagliato fuori dagli altri, può spingerci a cercare unicamente la compagnia di quelli che ci amano, ci ammirano, ci 113 114 115

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Ibid, 63-64. Ibid., 65. L. c.


adulano e ci rassicurano. E naturalmente, gli altri fanno lo stesso gioco […]. La paura dell’insuccesso, quella di non poter entrare in relazione con un’altra persona, di non sapere affrontare una situazione insolita, è all’origine di questa paura del ‘diverso’, dello ‘straniero’, di colui che ci fa penetrare in un mondo nuovo»116. L’ingresso in questo nuovo mondo crea nella persona insicurezza, e si scopre vulnerabile. Non siamo noi a controllare, il dover condividere con un altro diverso da noi, ci mette nella condizione di dover perdere qualcosa. «Per vivere serenamente, abbiamo bisogno di una certa sicurezza. La troviamo nel nostro stile di vita, nella presenza e nel conforto della nostra famiglia e di nostri amici, nei nostri luoghi di lavoro e nelle nostre abitudini. Ecco perché l’inatteso provoca la crisi. Ci sentiamo perduti. È difficile abbandonare la propria routine e la propria sicurezza per avventurarsi nell’ignoto e nell’insicurezza. Per poter vivere questa esperienza, occorre una forza nuova. È facile dare da mangiare a un mendicante che bussa alla nostra porta. Ma che fare se egli ritorna regolarmente e noi cominciamo a diventare amici? Che fare se, per di più, porta con sé i suoi amici? Noi ci sentiamo perduti e insicuri. È come se ci avessero mandato a navigare senza bussola o si ci fossimo smarriti in una terra sconosciuta, senza una carta geografica o una mappa! Abbiamo paura, perché il mendicante sembra chiamarci a un cambiamento di vita»117. La paura della diversità, dell’insuccesso, del fallimento, dello scacco e la paura della morte, di ciò che è brutto, hanno origine nella nostra infanzia. La paura, che dimora in ciascuno di noi da bambino, è quella «di essere considerato cattivo, colpevole e di non corrispondere alle aspettative dei nostri genitori. Questi possono far sentire ai loro bambini che essi devono meritare il loro amore, ricompensa di un buon comportamento. Così i bambini hanno l’impressione di dover obbedire alle norme fissate dai genitori, e meritarne l’amore. Pensano di dover dimostrare quanto valgono; altrimenti temono di non esistere»118. Il rapporto genitori figli quanto più si sviluppa in un clima di dialogo intenso e sincero tanto più lascia affiorare il valore unico di ciascuna persona che, purtroppo, non sempre è riconosciuta nella sua originalità. Il filosofo ebreo Martin Buber, sottolineando l’unicità e l’originalità di ogni uomo, afferma che: «Con ogni uomo viene 116 117 118

Ibid., 66. Ibid., 67. Ibid., 68.

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al mondo qualcosa di nuovo che non è mai esistito, qualcosa di primo e nuovo. ‘Ciascuno in Israele ha l’obbligo di riconoscere e considerare che lui è unico al mondo nel suo genere, e che al mondo non è mai esistito nessun uomo identico a lui: se infatti fosse già esistito al mondo un uomo identico a lui, egli non avrebbe motivo di essere al mondo. Ogni singolo uomo è una cosa nuova nel mondo e deve portare a compimento la propria natura in questo mondo. Perché, in verità, che questo non accada è ciò che ritarda la venuta del Messia’. Ciascuno è tenuto a sviluppare e dar corpo proprio a questa unicità e irripetibilità, non invece a rifare ancora una volta ciò che un altro — fosse pure la persona più grande — ha già realizzato»119. È proprio questa qualità unica ed eccezionale che ciascuno è chiamato a sviluppare e a mettere in pratica. L’essere persona è unicità e irripetibilità: «la persona è ciò che non si ripete, anche se l’aspetto e i gesti degli uomini, ricadendo sempre nel generico, si copiano vicendevolmente e senza posa alla superficie. Ma la ricerca dell’originalità appare sempre come un prodotto secondario, per non dire un sottoprodotto dalla vita personale. L’eroe in piena battaglia, l’amante al momento di concedersi, il creatore ossessionato dalla sua opera, il santo esaltato dall’amore del suo Dio, nei momenti in cui toccano l’acme della vita personale, non cercano di differenziarsi, di singolarizzarsi; il loro sguardo non è volto alla forma del proprio agire, ma tutto intero con loro, proteso fuori da loro stessi, giacché essi sono troppo posseduti da ciò che sono per poter esaminare come sono»120. Il pensiero occidentale ha privilegiato l’identità, l’appropriazione di ciò che è altro, il dominio del se medesimo sull’altro. Un cammino, quello dell’occidente, che ha privilegiato il pensiero della morte, in quanto si è definito l’essere umano per la sua condizione di morte. Un io che si impossessa, che si autocostituisce come io, ma che è destinato ad annientarsi, a sparire. Da qui l’angoscia della sparizione nel nulla che genera la paura. «Pensiero della morte, il pensiero occidentale, da Parmenide in poi, è e vuole essere il rimedio all’angoscia della sparizione causata dalla morte, andando 119 M. BUBER, Il cammino dell’uomo, trad. it., Magnano 1990, 27. Buber in questo breve saggio si rifà alla dottrina chassidica. 120 E. MOUNIER, Il personalismo, cit., 76. L’Autore, tuttavia, mette in guardia dal porre un’eccessiva fiducia sul carattere eccezionale della persona: «bisogna guardarsi dal ritenere che il culmine della vita personale sia la eccezione che, sola, sa raggiungere, come per bravura, una vetta inaccessibile. Il personalismo non è un’etica per ‘i grandi uomini’, un nuovo tipo di aristocrazia, che sceglierebbe gli individui più eccezionali dal punto di vista psicologico o spirituale, per farne i capi alteri e solitari dell’umanità» (l. c.).

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alla ricerca di ciò che sempre è e permane e, sottratto al mutamento e alla morte, non genera l’angoscia: l’Essere, l’Essenza, la Sostanza, l’Universale, la Verità, il Fondamento, il Tutto»121. Così il pensiero occidentale si costruisce come filosofia della morte. F. Rosenzweig mostra come questo pensiero si afferma nella riduzione omologante del Tutto, che mira ad annullare ogni alterità: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto. Rigettare la paura che attanaglia ciò che è terrestre, strappare alla morte il suo aculeo velenoso, togliere all’Ade il suo miasma pestilente, di questo si pretende capace la filosofia. Tutto quanto è mortale vive in questa paura della morte, ogni nuova nascita aggiunge nuovo motivo di paura perché accresce il numero di ciò che deve morire. Senza posa il grembo instancabile della terra partorisce il nuovo e ciascuno è indefettibilmente votato alla morte, ciascuno attende con timore e tremore il giorno del suo viaggio nelle tenebre»122. Bisogna spostare l’attenzione dall’io all’altro, da una logica che privilegia la preoccupazione di sé, della propria morte, ad una logica che privilegia la nascita, la vita, cioè che privilegia l’altro. Così si abbandona l'individualismo che porta ad operare uno spostamento dall’io chiuso in se stesso all’altro, dalla paura alla fiducia: «chi nasce non si mette al mondo da solo ma viene messo al mondo da altri; meglio: da quell’altra unica e irripetibile, con quel nome e cognome, con quella storia di vita nella sua estrema singolarità; e c’è questa prima costitutiva relazione, che è condizione della dicibilità del soggetto nella sua concretezza»123. Tutto questo, tuttavia, non ci esime dal constatare che: «siamo stati amati tutti in modo imperfetto. È una della cause principali della nostra mancanza di fiducia in noi stessi e negli altri e della nostra tendenza a rimanere in gruppi chiusi ed elitari. Quando scopro di essere amato e accettato in quanto persona, con le mie forze e le mie debolezze, quando scopro di portare dentro di me un segreto, un valore unico, allora posso aprirmi agli altri e rispettare il segreto nascosto dentro di loro. Quando comincio ad accettare quelle parti del mio essere che avevo respinto, la mia paura degli altri diminuisce; a poco a poco, ho il coraggio di accettarla negli amici, nei fratelli, nelle sorelle. Ognuno di noi ha un cuore vulnerabile che 121

C. DI SANTE, L’io ospitale, Roma 2001, 17-18. F. ROSENZWEIG, La stella della redenzione, trad. it., Casale Monferrato 1985, 3-4. 123 A. CAVARERO, Politica e violenza. La radice greca, in Quaderni di S. Apollinare (1995) 23. 122

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chiede soltanto di essere amato e apprezzato. Poiché abbiamo tutti delle ferite, rischiamo di non credere più nel nostro segreto più profondo. Per sviluppare i nostri doni e crescere verso una maggiore libertà interiore, abbiamo tutti bisogno che il nostro valore unico e segreto sia riconosciuto. Ciascun essere umano, per quanto piccolo e fragile sia, ha qualcosa di unico da donare all’umanità. Nel nostro meraviglioso universo ci sono il sole e le stelle, ma esiste anche una moltitudine di minuscoli animali e di piccole piante, importanti per la loro bellezza, le loro proprietà medicinali, la loro capacità di dare vita. Ciascuna parte del nostro corpo, per quanto piccola, ha la sua importanza e compie una funzione per mantenerci in buona salute. Allo stesso modo, ogni persona, grande o piccola, ha un ruolo da svolgere nel nostro mondo. Noi cominciamo a cambiare quando decidiamo di conoscerci l’un l’altro, di ascoltare la storia di ciascuno. Allora, non giudicheremo più l’altro secondo criteri di sapienza o di potere, o secondo al gruppo al quale appartiene, ma in base a questi incontri personali e profondi. Passeremo gradatamente dall’esclusione all’inclusione, dalla paura alla fiducia, dalla chiusura all’apertura, dai pregiudizi e dai giudizi alla comprensione e al perdono. È un moto del cuore. Ci scopriamo fratelli e sorelle in umanità. Non siamo più dominati dalla paura, ma dalla consapevolezza di quanto sia importante e prezioso l’altro, chiunque esso sia»124.

4. L’UNO CON L’ALTRO: METTERSI ACCANTO Da una prospettiva in cui si vede l’altro come una minaccia, che porta l’uomo a definirsi contro, cioè nella contrapposizione, passiamo alla prospettiva che conduce l’uomo ad avvicinarsi all’altro, in cui l’altro non fa più paura, per cui non ci si sente più minacciati, giudicati. Pertanto vogliamo, adesso, prendere in considerazione la comunione con l’altro, la compagnia con l’altro. Si può stare accanto all’altro, vivere accanto, assumendo una prospettiva e un atteggiamento nei confronti dell’altro non conflittuali. Prospettiva e atteggiamento che vedono nell’altro una risorsa, un amico, un maestro. Viviamo e lavoriamo in mezzo agli altri, ma non sempre ci accorgiamo di quanta ricchezza c’è negli altri, di quanto forza evocatrice emerge dalla loro vita. Pensiamo, per un istante ai discepoli di Emmaus, così come 124

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J. VANIER, Abbracciamo la nostra umanità, 69-70.


ce li presenta il Vangelo di Luca nell’ultimo capitolo (Lc 24,13-35). Costoro erano in viaggio verso il villaggio di Emmaus, a un certo punto gli si accosta, facendosi vicino, interrogandoli, in questo viaggio, qualcuno: da essi considerato un forestiero. Infatti uno dei due gli si rivolge così: «Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni?» (Lc 24,18). Possiamo vivere la nostra esistenza come un pellegrinaggio che lungo il cammino riesce a scorgere e a riconoscere la presenza degli altri, oppure vivere lasciandoci dominare dalla preoccupazione per noi stessi: angosciati, tristi, chiusi nel nostro mondo pieno di amarezze. La delusione può, per le circostanze che attanagliano la nostra vita, impedire di accorgerci degli altri che ci stanno accanto. Così preoccupati di noi stessi, non riusciamo più a vedere oltre, al punto da non nutrire più alcuna speranza. I discepoli in questione, non riconoscono questa presenza, questo compagno di strada per loro è un estraneo, un forestiero. «Questo ci rimanda a qualcosa di più sconcertante ancora, ma di fondamentale per la fede cristiana: Dio resta lo sconosciuto, colui che non conosciamo, pur credendo in lui; egli rimane l’estraneo per noi, nello spessore dell’esperienza umana e delle nostre relazioni. Ma egli è altresì misconosciuto, colui che non vogliamo riconoscere e che, come dice Giovanni, non è ‘accolto’ in casa propria, dai suoi (cfr Gv 1,11). Ed è su questo, alla fine, che saremo giudicati, questo è l’esame definitivo della vera vita cristiana: abbiamo accolto l’estraneo, frequentato il prigioniero, dato ospitalità all’altro (cfr Mt 25,3536)? Bisogna essere realisti. La chiesa è una società. Ora, ogni società si definisce per ciò che esclude. Si costituisce differenziandosi. Formare un gruppo significa creare degli estranei. C’è qui una struttura bipolare, essenziale a ogni società: essa pone un ‘di fuori’ perché esista un ‘fra noi’, delle frontiere perché si delinei un paese interno, degli ‘altri’ perché prende corpo un ‘noi’. Questa legge è anche un principio di eliminazione e di intolleranza. Essa porta a dominare, in nome di una verità definita dal gruppo. Per difendersi dall’estraneo, lo si assorbe oppure lo si isola. Conquistar y pacificar: due termini identici per gli antichi conquistadores spagnoli. Ma noi non facciamo forse altrettanto, sia pure con la pretesa di comprendere gli altri e, nel campo dell’etnologia per esempio, di identificarli con ciò che sappiamo di loro e (pensiamo) meglio di loro? […] È possibile una società che testimoni Dio e non si limiti a fare di Dio il proprio possesso?»125. 125

M. DE CERTEAU, Mai senza l’altro. Viaggio nella differenza, trad. it., Magnano 1993,

12-13.

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Il cristiano, come apostolo e missionario se vive con verità queste dimensioni, non ha lo scopo di conquistare, di dominare e di controllare, «bensì di riconoscere Dio là dove, finora non era percepito. Il partire per il deserto, o verso terre straniere era, un tempo, un fuggire dalle città cristiane dove la fede rischiava di rinchiudersi su se stessa, comodamente seduta su certi poteri e certi sistemi; è l’inizio di un viaggio verso paesi, linguaggi e culture in cui Dio parla una lingua non ancora decodificata e non registrata. Il partire destina il pellegrino alla sorpresa. Traduce, geograficamente e socialmente, la certezza che Dio è l’incomprensibile senza il quale, tuttavia, è impossibile essere cristiani e uomini. Una solidarietà della fede lega a questo sconosciuto. Questo estraneo non cessa di essere (nel senso amoroso del termine) colui che manca ai cristiani. Lo stesso avviene per l’esperienza spirituale. Una tradizione, fra le tante, lo mostra: la xeniteìa, ‘lo sradicamento’. Questo movimento che consiste nel partire per altrove, come Abramo, ‘senza sapere dove (Eb 11,8), per udire in terra sconosciuta la parola umana di Dio, oppure nello sperare da altrove il suo volto d’uomo in una storia sempre sorprendente, è anche il movimento interno all’avventura religiosa. È il modo dell’incontro»126. L’incontro autentico dell’io con un tu, con l’altro, non limita l’uomo oppure lo minaccia, ma lo espande. L’uomo è condotto a conoscere meglio se stesso incontrando veramente gli altri. Il mio essere è un essere con: «Secondo l’esperienza interiore, la persona ci appare poi come una presenza volta al mondo e alle altre persone, senza limiti, confusa con loro in una prospettiva di universalità. Le altre persone non la limitano, ma anzi le permettono di essere e di svilupparsi; essa non esiste se non in quanto diretta verso gli altri, non si conosce che attraverso gli altri, si ritrova soltanto negli altri. La prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona: il tu, e quindi il noi, viene prima dell’io, o per lo meno l’accompagna. È nella natura materiale (alla quale parzialmente noi siamo sottomessi) che regna l’esclusione, in quanto uno spazio non può essere occupato due volte; la persona, invece, attraverso il movimento che la fa esistere, si espone, cosicché è per natura comunicabile, ed anzi la sola ad esserlo. È da questo fatto primitivo che bisogna partire: come il filosofo che si chiude nel pensiero non troverà mai un’apertura verso l’essere, così colui che si rinchiude nell’io non troverà mai una via verso gli altri. Quando la comunicazione si allenta o si corrompe, io perdo profondamente me stesso: 126

60

Ibid., 14-15.


ogni follia è uno scacco al rapporto con gli altri: l’alter diventa alienus, ed io a mia volta divento estraneo a me stesso, alienato. Si potrebbe quasi dire che io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri, e, al limite, che essere significa amare»127. L’incontro originario essenziale, fondante, potremmo dire archetipo, avviene in Gesù Cristo. In lui avviene l’incontro tra Dio e l’uomo. L’incontro autentico, implicitamente o esplicitamente, con l’uomo e con Dio accade in Gesù Cristo. Gesù Cristo è la chiave di comprensione di ogni incontro. Egli è l’ermeneuta che ci introduce a un riconoscimento autentico di chi ci sta accanto: «In lui si verifica l’incontro originario e essenziale con l’uomo e con Dio. D’ora in poi l’uomo non può più essere pensato e riconosciuto se non in Gesù Cristo e Dio non lo può se non nella figura umana di Gesù Cristo. In lui vediamo l’umanità come assunta, sostenuta, amata e riconciliata con Dio. In lui vediamo Dio nella figura del più povero dei nostri fratelli. Non esiste un uomo in sé, così come non esiste un Dio in sé; l’uno e l’altro sono astrazioni vuote. L’uomo è assunto nell’essersi fatto uomo [di Dio], è amato, giudicato e riconciliato in Cristo; Dio è colui che si è fatto uomo. Né esiste alcun rapporto con l’uomo senza rapporto con Dio e viceversa. Ancora una volta solo il rapporto con Gesù Cristo fonda il nostro rapporto con gli uomini e con Dio. Come Gesù Cristo è la nostra vita, così ora — in virtù sua! — possiamo anche dire che l’altro uomo e che Dio sono la nostra vita, e questo significa che il nostro incontro con l’altro uomo così come il nostro incontro con Dio stanno sotto il medesimo sì e no, sotto cui sta il nostro incontro con Gesù. Noi ‘viviamo’ in quanto nel nostro incontro con gli uomini e con Dio il sì e il no si congiungono in una unità contraddittoria, in un’affermazione di sé, libera dal proprio sé nell’affermazione di sé fatta del dono di sé a Dio e agli uomini»128. 127

E. MOUNIER, Il personalismo, cit., 46-47. D. BONHOEFFER, Etica, cit., 221. Bonhoeffer sviluppa queste riflessioni in seno alla questione della natura del Bene, che non si preoccupa di definire con una serie di concetti, relegandolo in una astrazione, ma scorgendolo come essenzialmente legato alla vita, anzi come la vita stessa: «non si tratta in ogni caso di una astrazione della vita, quindi ad esempio della realizzazione di determinati valori o ideali indipendenti della vita, bensì della vita stessa. La vita buona per quel che essa è in realtà, cioè nella sua origine, nella sua essenza e nel suo fine, cioè come vita nel senso delle parole: Cristo è la mia vita. Buona non è una qualità della vita, ma la ‘vita’ stessa. Essere buoni significa ‘vivere’» (ibid., 220). Ma cosa significa vivere per Bonhoeffer? «Noi viviamo in quanto diamo una risposta alla parola di Dio indirizzataci in Gesù Cristo. Poiché essa è una parola indirizzata a tutta la nostra vita, anche la risposta data può essere solo una risposta totale, con tutta la vita, così come essa si 128

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Gesù in persona si mette accanto all’uomo. È quindi il dinamismo dell’incarnazione che ci rivela cosa significhi mettersi accanto: l’Emmanuele è il Dio con noi. In Gesù Cristo, Dio si fa compagno di strada dell’uomo, di ogni uomo. Da questo fondamento scaturisce la possibilità di non vedere l’altro come una minaccia, come un nemico, ma come un compagno di strada. Ci si accorge della presenza degli altri nella prospettiva della condivisione e della responsabilità. L’incarnazione ci pone nella condizione di essere con. Questa è la realtà — «la realtà più originaria» secondo Bonhoeffer — da cui scaturisce il bene: «è la realtà del Dio fatto uomo. Tutto il fattuale trova in questa realtà il suo ultimo fondamento e il suo ultimo superamento, ha in essa la sua ultima giustificazione e la sua ultima confutazione. Perché Dio diventa uomo e solo per questo l’uomo e il suo mondo sono assunti e approvati. L’approvazione dell’uomo avviene sulla base della sua assunzione e non viceversa. In questo modo però essa avviene realmente. Dio non ha assunto l’uomo e non è divenuto uomo perché questi fosse degno della sua approvazione divina, ma lo ha assunto e approvato perché era degno del suo no, facendosi egli stesso uomo, prendendo su di sé e sopportando la maledizione del no divino sull’essere umano. Voler comprendere la realtà senza questo agire divino in seno ad essa e verso di essa significa vivere in una astrazione, non cogliere la realtà, oscillare fra gli estremi del servilismo verso il fattuale e l’opposizione di principio nei suoi confronti. Solo l’incarnazione di Dio permette di agire in maniera autenticamente adeguata alla realtà. Il mondo rimane mondo, ma lo rimane appunto solo perché Dio se ne è preso cura e ha proclamato la sua signoria sopra di esso»129. In Gesù Cristo l’intera realtà umana è assunta. L’evento che permette di conoscere la struttura del reale è l’incarnazione di Dio cioè realizza via via agendo. La vita, che ci viene incontro in Gesù Cristo come sì e no alla nostra vita, vuole ricevere una risposta da parte di una vita che accoglie e unisce questo sì e no. Tale vita come risposta alla vita di Gesù Cristo (quale sì e no pronunciato sulla nostra vita) noi la chiamiamo ‘responsabilità’» (ibid., 221). La risposta la diamo con la vita. La risposta, la responsabilità, è Cristo. Avendo come misura fondamentale Cristo, l’uomo è definito in termini di responsabilità. 129 Ibid., 194-195: «In Cristo è assunta l’intera realtà umana, per cui in fondo solo in lui e partendo da lui è possibile agire in maniera adeguata alla realtà. Né il Cristo pseudoluterano, che esiste solo per sanzionare il fattuale, né il Cristo radicalmente rivoluzionario di ogni sorta di fanatismo, destinato a benedire tutte le rivoluzioni, bensì il Dio divenuto uomo Gesù Cristo, che ha amato, giudicato e riconciliato gli uomini con Dio, è l’origine dell’agire adeguato alla realtà» (ibid., 195).

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l’entrata di Dio nella storia. Questa assunzione del reale si esprime nel mettersi accanto facendosi compagno dell’altro, ma anche nell’essere responsabile, nel prendersi cura dell’altro.

5. L’UNO PER L’ALTRO: L’ESSERE RESPONSABILE Prendersi cura dell’altro… essere responsabile… farsi prossimo: questo è l’orizzonte della gratuità e del dono. Levinas nel pensare altrimenti l’alterità radicale ci offre un percorso, da esplorare sempre con nuova attenzione, da cui viene alla luce progressivamente l’umano dell’uomo. Levinas prende le dovute distanze dal pensiero occidentale, come pensiero omologante e totalitario, lasciando tutte quelle categorie che riducono l’altro ad una mera dimensione formale, per assumere la dimensione relazionale in cui l’altro è un volto, una unicità. Ci si rapporta all’altro come volto, come essere unico «spogliato di ogni ruolo sociale e che, così, nella sua nudità — la sua indigenza, la sua mortalità — s’impone di primo acchito alla mia responsabilità — bontà, misericordia o carità»130. Il volto dell’altro si offre a me nella sua nudità, assolutamente unico e incomparabile, di cui divento responsabile immediatamente; prima ancora che io inizi la riflessione l’altro mi concerne e mi riguarda. La prossimità del prossimo è l’alterità non formale quindi non equiparabile: «La prossimità non si risolve nella coscienza che un essere prenderebbe di un altro essere ritenuto vicino in quanto sotto i suoi occhi o alla sua portata e di cui sarebbe possibile appropriarsi, essere che potrebbe essere tenuto o con ci si potrebbe intrat-tenere nella reciprocità della stretta di mano, della carezza, della lotta, della collaborazione, del commercio, della conversazione. La coscienza — coscienza di un possibile, potere, libertà — avrà così già perso la prossimità propriamente detta, superata e tematizzata, come avrà già rimosso in se stessa una soggettività più antica del sapere e del potere»131. Levinas con la nozione di prossimità mira a mostrare la soggettività nella sua autenticità: una soggettività più originaria. Un io che si afferma nella sua docilità, nella sua passività assoluta: io non sono più io, ma eccomi. «Essere io — secondo Levinas — significa non potersi sottrarre alla responsabilità, come se tutto l’edificio della creazione posasse sulle mie 130 131

AA.VV., Répondre d’autrui: Emmanuel Levinas, Neuchâtel 1989, 9. E. LEVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it., Milano 1991, 103.

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spalle, ma la responsabilità che priva l’Io del suo imperialismo e del suo egoismo — anche se fosse egoismo della salvezza — non per questo lo riduce a momento dell’ordine universale, anzi conferma l’unicità dell’Io. L’unicità dell’Io è il fatto che nessuno possa rispondere in vece mia»132. L’altro nel cuore stesso della medesimezza dell’io è la nuova definizione della soggettività di cui struttura essenziale è la responsabilità. La relazione con l’altro, secondo questa struttura, costituisce la stessa soggettività. «Il prossimo mi concerne prima di ogni assunzione, prima di ogni impegno consentito o rifiutato. Sono legato ad esso — che tuttavia è il primo venuto, senza connotati, diviso, prima di ogni legame contratto. Mi ordina prima di essere riconosciuto. Relazione di parentela al di fuori di ogni biologia, ‘contro ogni logica’. Il prossimo mi concerne non in quanto appartenente al mio stesso genere. Esso è precisamente altro. La comunità con il prossimo comincia nel mio obbligo nei suoi riguardi. Il prossimo è fratello. Fraternità irrescindibile, con-vocazione irrecusabile, la prossimità è un’impossibilità di allontanarsi senza la torsione del complesso, senza alienazione o senza colpa, insonnia o psichismo»133. La prossimità non è intesa da Levinas come un essere vicino nello spazio, nel senso di qualcuno che mi sta accanto oppure che mi è parente, ma nel senso che io sono strutturalmente responsabile di un altro, sono un essere per altro: «Il legame con altri si stringe soltanto come responsabilità, che questo peraltro sia accettata o rifiutata, che si sappia o no come assumerla, che si possa o no fare qualcosa di concreto per altri. Dire: eccomi. Fare qualcosa per un altro. 132 ID., Umanesimo dell’altro uomo, trad. it., Genova 1985, 73. In questo passo Levinas cita Isaia 53: il canto del servo e giusto sofferente: «egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo stati guariti. Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l’iniquità di noi tutti. […] al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in espiazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore» Isaia 53,4-6.10. 133 E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., 108: [«È forse in rapporto a questa irremissibilità che si comprende il posto insolito dell’illusione, dell’ebbrezza, dei paradisi artificiali. Il rilassamento dell’ebbrezza è il sembiante dell’allontanamento e della irresponsabilità; soppressione della fraternità o assassinio del fratello (sono forse io responsabile di mio fratello?). La possibilità dell’allontanamento misura la distanza tra il sogno e la veglia. Il sogno e l’illusione — è il gioco di una coscienza nata dall’ossessione, che tocca l’altro senza essere convocato per esso. Gioco della coscienza — sembianza»] (ibid., 108, nota 21).

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Donare. Essere spirito umano significa questo. L’incarnazione della soggettività umana garantisce la sua spiritualità (non vedo cosa potrebbero donare gli angeli o come potrebbero aiutarsi reciprocamente), Dia-conia, prima ancora di ogni dialogo»134. Il senso della soggettività si manifesta in tutta la sua ricchezza nella relazione con l’altro, che si sviluppa nella prospettiva e nella logica della responsabilità135. Il non potersi sottrarre alla responsabilità è vista come una ineluttabilità, una ossessione: il prossimo mi riguarda; io sono soggezione ad altri, servitore del prossimo: «Il prossimo mi convoca prima che lo designi — che non è una modalità di un sapere, ma di una ossessione e, in rapporto al conoscere, un fremito dell’umano completamento altro. Il conoscere è sempre convertibile in creazione e in annientamento, l’oggetto che si presta al concetto, in risultato. Attraverso la soppressione del singolare, attraverso la generalizzazione, il conoscere è idealismo. Nell’approssimarsi io sono di colpo servitore del prossimo, già in ritardo e colpevole di ritardo. Sono stato ordinato dal di fuori — traumaticamente comandato — senza interiorizzare attraverso la rappresentazione e il concetto l’autorità che mi comanda. Senza chiedermi: che cosa mi è dunque? Da dove viene il suo diritto di comandare? Che cosa ho fatto per esser di colpo debitore?»136. L’io è sempre in debito, sopporta tutto: la relazione che instaura con l’altro lo coglie sempre in ritardo. Il senso della responsabilità si mostra pertanto come passività; io sono responsabile dell’altro, questo comporta il pensarmi responsabile della sua colpa, della colpa di tutti gli altri. Sono io che sopporto tutto: in questa direzione, Levinas, pensa la responsabilità come sostituzione137. Io mi sostituisco all’altro fino a divenirne ostaggio, 134

ID., Etica e infinito, cit., 110-111. Il tema della responsabilità nel pensiero di Levinas costituisce una linea di forza, un tema che nelle diverse fasi del suo percorso speculativo è così presente da essere «onnipresente» secondo l’espressione di S. PLOUDRE, Emmanuel Levinas. Altérité et responsabilité, Paris 1996. Si veda, ancora, sul tema della responsabilità l’articolo di F. ROSSI, Figure della «responsabilità per altri» in Emmanuel Levinas, in Hermeneutica (2001) 153-181. 136 E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., 108. 137 Il capitolo IV dell’opera Altrimenti che essere porta questo titolo: La Substituition. Questo capitolo costituisce, tra l’altro, quella parte che precedette la pubblicazione degli altri capitoli che costituiscono l’insieme del volume. Ci sembra particolarmente significativo un passo, contenuto in una conferenza tenuta agli intellettuali francesi nel 1968 Un Dio uomo?, in cui la nozione di sostituzione lascia intravedere il segreto della soggettività: «La nozione di Dio — uomo, nella transustanziazione del Creatore in creatura, afferma l’idea della sosti135

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porto la miseria e il fallimento dell’altro: «Essere-sé, altrimenti che essere, dis-interessarsi è portare la miseria e il fallimento dell’altro e anche la responsabilità che l’altro può avere di me, essere sé — condizione di ostaggio — è sempre avere un grado di responsabilità in più, la responsabilità per la responsabilità dell’altro»138. La relazione con l’altro giunge fino a questo punto, la condizione di ostaggio è il presupposto perché sulla terra tuzione. Questo attacco portato al principio d’identità non ha forse in una certa misura — ma bisogna vedere quale — espresso il segreto della soggettività? In una filosofia che ai giorni nostri non riconosce allo spirito altra pratica che la teoria e che riconduce al puro rispecchiamento delle strutture oggettive — l’umanità dell’uomo ridotta a coscienza —, l’idea della sostituzione non permette una riabilitazione del soggetto di cui non sempre fu capace l’umanesimo naturalista perdendo subito nel naturalismo i privilegi dell’umano?» (Tra noi, 90). E nella nozione di Dio — uomo che si svuota di sé ci pare di poter scorgere la figura di Gesù Cristo, come colui che prende su di sé il peccato del mondo cioè colui che si sostituisce, prende il posto dell’altro, nel senso di una «passività assoluta che si muta in assoluta indeclinabilità: accusata al di là della libertà, ma proprio per questo votata all’iniziativa della risposta. C’è qui un insolito rovesciamento della pazienza in attività e del singolare in universale, e l’abbozzo di un ordine e di un senso nell’essere che non dipende né da un’opera culturale, né da una semplice strutturazione. […]. L’infinita passività o passione o pazienza dell’Io — il suo sé — l’unicità eccezionale alla quale egli è ricondotto che è questo incessante evento di sostituzione, per l’essere il fatto di svuotarsi del suo essere» ibid., 91-92. Arturo Paoli commentando questo testo vede nella sostituzione una nozione che interpella la fede e la spiritualità cristiana: «non voglio abbozzare qui una cristologia, non è il luogo e non ne ho le competenze, credo nel Cristo redentore, vero Dio e vero uomo. Mi interessa invece chiarire il concetto di sostituzione come mia identità perché, quando ho letto i vari testi di Levinas, ho capito di più la mia vita. […] il seguire il Cristo non solo come uscire dalla propria famiglia, ma come una sostituzione, non vorrebbe dire vedere la scelta religiosa, non solo come punto di partenza, come una decisione di seguire un Maestro di spiritualità, ma come un rivestirsi, un indossare un’identità nuova non immaginata che si può definire come sostituirsi?[…] Per la mia esperienza il disinteresse assoluto, perdere la propria vita senza ritorni, non è possibile alla persona umana. Intendendo, per perdere, rinunciare totalmente a conoscere il destino, la finalità di questa perdita. L’orrore che prova Gesù nell’imminenza della sua esecuzione, che viene descritta dettagliatamente nei Vangeli è, secondo me, il segno di dare l’ultimo passo perché la sostituzione sia completa, al di là dell’umano veramente, per parafrasare Levinas, al di là dell’essere, cioè l’accettare l’inutilità completa, la perdita totale. […] l’accettazione dell’impotenza fa parte di quella sostituzione» (Quel che muore, quel che nasce, Piacenza 2001, 32-33; 35-36). 138 Ibid., 146-147. Così si esprime in un altro passo sulla responsabilità: «ostaggio di tutti — e cioè sostituito a tutti in nome della sua stessa non-permutabilità — ostaggio di tutti gli altri che appunto perché altri non appartengono allo stesso genere dell’io, perché di loro io sono responsabile senza curarmi delle loro responsabilità verso di me, perché anche di questa io sono, in fin dei conti e sin dal principio, responsabile, — l’io, anzi io, sono uno che regge l’universo ‘pieno di tutte le cose’» Umanesimo dell’altro uomo, cit., 114.

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vi sia la religione, cioè la pietà, il perdono, la prossimità: «Perché Altri mi riguarda? Che è Ecuba per me? Sono io il custode di mio fratello? — Queste domande non hanno senso se si è già presupposto che l’Io ha cura solo di Sé, se è solo cura di sé. In questa ipotesi, in effetti, resta incomprensibile come il fuori-dall’Io assoluto — Altri — mi riguardi. Ora, nella ‘preistoria’ dell’Io posto per sé, parla una responsabilità. Il sé è da cima a fondo ostaggio, più anticamente dell’Ego, prima dei principi. Non si tratta per il Sé, nel suo essere, di essere. Al di la dell’egoismo e dell’altruismo c’è la religiosità del sé. È a causa della condizione di ostaggio che nel mondo ci può essere pietà, compassione, perdono e prossimità. Anche la più piccola cosa, anche il semplice ‘dopo-di-voi-Signore’»139. La solidarietà scaturisce dalla condizione di ostaggio, da un io chiamato a diventare sempre più unico. L’altro lo porto dentro per cui sono sempre più soggetto capace cioè di prendere il posto dell’altro malgrado me; nella misura in cui rispondo mi espongo, divento vulnerabile, non coincido con me stesso. Il cammino che abbiamo fatto fino a qui ci ha portato a lasciare la contrapposizione, la paura, nella ricerca di una identità per lasciarci condurre da una prospettiva non conflittuale nei confronti dell’altro. L’altro, l’estraneo, è il mio prossimo: «Nella prossimità, l’assolutamente altro, l’Estraneo che ‘non ho né concepito né partorito’, l’ho già in braccio, già lo porto, secondo la formula biblica, ‘al collo come una balia porta un bambino lattante’. Egli non ha un altro luogo, non autoctono, sradicato, apolide, non-abilitante, esposto al freddo e al caldo delle stagioni»140. Il mio essere responsabile, il mio essere per, non ha origine in me, è più antico di me: «È l’ossessione per l’altro, mio prossimo, che, accusandomi di una colpa che non ho commesso liberamente, riconduce l’Io a sé al di qua della mia identità, ancor prima di ogni coscienza di sé, e mi spoglia assolutamente. Bisogna forse chiamare creaturalità questa ‘al di qua’ di cui l’essere non conserva la traccia, ‘al di qua’ più antico dell’intrigo dell’egoismo annodato nel conatus dell’essere? Ritornare a sé non significa istallarsi presso di sé, quand’anche il sé fosse privo di ogni attributo; significa, come un estraneo, essere inseguiti fino a casa propria, essere contestato nella propria identità e nella propria povertà stessa che, come una

139 140

Ibid., 147-148. Ibid., 114. Il passo biblico citato da Levinas è tratto dal libro dei Numeri 11,12.

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pelle, rinchiuderebbe ancora il sé, lo porrebbe così in un’interiorità già raccolta su di sé, già sostanza; significa svuotarsi continuamente di sé»141. L’uomo accolto come un essere per ci lascia intendere questa prospettiva non conflittuale che mira a cogliere il senso pieno della nostra umanità. Il per dell’uno per l’altro è una significazione al di fuori di ogni correlazione — relazione senza relazione142 — di ogni corrispettivo o di ogni finalità, «è un per di gratuità totale che rompe con l’interessamento: per della fraternità umana al di fuori di ogni sistema prestabilito. Spiritualità, cioè senso e senso che non è semplice penuria di essere. Spiritualità che non si comprende più a partire dal conoscere»143. La spiritualità è intesa come non indifferenza, cioè come fraternità, per cui l’essere uno per l’altro richiama a un surplus di responsabilità. Il sé come creatura è pensato in una passività più passiva della passività della materia, l’ipseità è ostaggio. Soggettività come ostaggio: «La parola Io significa eccomi, rispondente di tutto e di tutti». L’altro nel medesimo, come incarnazione di un essere nella propria pelle: è come avere l’altro nella propria pelle. L’impossibilità di sfuggire a Dio abita in fondo al cuore dell’io come sé, come passività assoluta. L’identità dell’io si rivela in questa passività più passiva di ogni passività che giunge fino a sostituirsi, a prendere il posto dell’altro. Una identità che ha nel dinamismo e nell’eccedenza del Bene la propria misura: «L’intrigo della bontà e del Bene — al di fuori della coscienza, al di fuori dell’essenza — è l’intrigo eccezionale della sostituzione che il Detto, nelle sue verità dissimulate, tradisce ma traduce davanti a noi. L’io accostato a partire dalla responsabilità è perl’altro, è denudazione, esposizione all’affezione, pura susceptio. Esso non si pone possedendosi e riconoscendosi, si consuma e si lascia andare, si desitua, perde il suo posto, si esilia, si rilega in sé, ma, come se la sua pelle fosse ancora un modo di mettersi al riparo nell’essere, esposto alle ferite e all’oltraggio, svuotandosi in un non-luogo, al punto da sostituirsi all’altro, non trattenendosi in sé che come nella traccia del suo esilio. […] In sé come nella traccia del suo esilio — vale a dire come puro sradicamento da sé. In ciò interiorità. Interiorità che non assomiglia in niente ad un modo di disporre di affari privati. Interiorità senza segreto, pura testimonianza della

141 142 143

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Ibid., 115. Su questo tema si veda il nostro saggio Relazione senza relazione, Acireale, 1996. E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., 121.


dismisura che già mi comanda e che è un donare all’altro strappando il pane dalla propria bocca e facendo dono della propria pelle»144. L’io per l’altro costituisce dunque l’essere responsabile. L’io che diventa sempre più io quanto più responsabile, quanto più capace di sostituirsi, di prendere il posto dell’altro. Un soggetto è tanto più responsabile quanto più capace di rispondere, la distanza tra l’io e l’altro si accresce man mano che l’altro diventa sempre più prossimo. Nell’essere per l’altro viene fuori l’immediatezza della prossimità. La soggettività è interpellata dall’altro in una relazione a senso unico che non ritorna al suo punto di partenza: «La prossimità non è uno stato, una quiete, ma precisamente, inquietudine, non luogo, fuori luogo della quiete che sconvolge la calma della non ubiquità dell’essere che diviene quiete in un luogo, sempre, di conseguenza, insufficientemente prossimità, come un abbraccio. ‘Mai abbastanza prossima, la prossimità non si irrigidisce in struttura, se non quando, rappresentata nell’esigenza di giustizia, reversibile, essa ricade in semplice relazione. La prossimità, come ‘il sempre più prossimo’, diviene soggetto. Essa raggiunge il suo superlativo come mia inquietitudine inalienabile; diviene unica, da quel momento uno, dimentica la reciprocità come in un amore che non si aspetta parità. La prossimità è il soggetto che si approssima e che, di conseguenza, costituisce una relazione alla quale io partecipo come termine, ma in cui sono più — o meno — di un termine. Questo sovrappiù o questa mancanza mi getta fuori dall’oggettività della relazione. La relazione diviene religione?»145. Questa nozione di essere responsabile che sfocia, come abbiamo visto, nel pensiero di un filosofo ebreo come Levinas, in quella di sostituzione, di ostaggio, trova una mirabile corrispondenza nel pensiero del teologo cristiano D. Bonhoeffer. L’uomo che per eccellenza è un essere per gli altri — quindi responsabile — nel percorso teologico di quest’ultimo, viene identificato nella persona di Cristo: «Gesù Cristo è per eccellenza colui che vive in maniera responsabile. Egli non è il singolo, che vuole pervenire alla propria perfezione etica, bensì vive solo come colui che ha assunto e porta in sé l’io di tutti gli uomini. Tutta la sua vita, il suo agire e patire è sostituzione vicaria. Come colui che è divenuto uomo egli sta realmente al posto di tutti gli uomini. Quanto gli uomini dovrebbero vivere, fare e soffrire lo riguarda. In questa sua reale sostituzione vicaria, che 144 145

Ibid., 173-174. Ibid., 102.

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costituisce la sua esistenza umana, egli è il responsabile per eccellenza. Nella reale sostituzione vicaria di Gesù Cristo in favore di tutti gli uomini sta la radice di ogni responsabilità umana»146. Ogni responsabilità umana si radica nella responsabilità di Gesù Cristo. La responsabilità non è una tensione a vuoto, ma ha un contenuto. È un dinamismo che mira a realizzarsi. È il dinamismo stesso della vita, della realtà, secondo Bonhoeffer: «Il contenuto della responsabilità di Gesù Cristo in favore degli uomini è l’amore, la sua forma è la libertà. L’amore, di cui qui si tratta, è l’amore realizzato di Dio per gli uomini e l’amore degli uomini per Dio. Gesù Cristo è l’amore fattosi uomo di Dio per gli uomini, per cui egli non è il predicatore di ideologie etiche astratte, bensì l’esecutore concreto dell’amore di Dio. L’uomo non è chiamato a realizzare ideali etici, bensì ad entrare in una vita nell’amore di Dio e cioè ad entrare nella realtà»147. La responsabilità archetipa è quella di Cristo che è il primogenito di ogni creatura: «l’amore per l’uomo reale porta alla comunione della colpa umana. Egli non vuole assolversi dalla colpa in cui gli uomini da lui amati vivono. Un amore che lasciasse l’uomo solo nella sua colpa non avrebbe per oggetto l’uomo reale. Così Gesù, nella sua responsabilità vicaria in favore degli uomini, nel suo amore per l’uomo reale, si carica della colpa, anzi diventa colui sul quale cade in ultima analisi tutta la colpa degli uomini, colui che non la allontana da sé ma la porta con umiltà e con un amore infinito. Egli diventa colpevole come colui che agisce responsabilmente nell’esserci storico dell’uomo, come uomo che è entrato nella realtà. Ma poiché la sua esistenza storica, la sua venuta nella carne ha il suo unico fondamento nell’amore di Dio per gli uomini, è l’amore di Dio a farlo divenire colpevole. Mosso dall’amore disinteressato per l’uomo e a patire dalla propria mancanza di peccato, Gesù entra nella colpa degli uomini e la prende su di sé. Essere senza peccato e portare la colpa sono cose in lui indissolubilmente unite […]. Poiché Gesù prese su sé la colpa di tutti gli uomini, ognuno che agisce responsabilmente diventa colpevole. Chi nella sua responsabilità, vuole sottrarsi alla colpa, si separa dalla realtà ultima della storia, dal mistero redentore costituito dal fatto che Gesù Cristo porta la colpa, e non ha parte alla giustificazione divina che aleggia su tale evento»148. 146 147 148

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D. BONHOEFFER, Etica, cit., 201-202. Ibid., 202. Ibid., 203-204.


La responsabilità è un’autentica espropriazione di sé, cioè un donare la propria vita, senza ricercare il contraccambio, per l’altro, per ogni altro: «Che la responsabilità poggi sulla sostituzione vicaria, risulta nella maniera più chiara da quelle situazioni in cui l’uomo è direttamente costretto ad agire al posto di altri uomini, ad esempio come padre, uomo di stato, maestro. Il padre agisce al posto dei figli lavorando per essi, prendendosene cura, difendendoli, lottando e soffrendo per loro. In tal modo egli prende realmente il loro posto. Non è un singolo isolato, ma unisce in sé l’io di più persone. […]. Si ha sostituzione vicaria e quindi responsabilità solo nella dedizione piena della propria vita all’altro uomo. Solo chi non è legato al proprio sé vive responsabilmente e, cioè, solo chi non è legato al proprio sé vive»149. Il culmine di questa responsabilità che giunge fino alla sostituzione vicaria cioè fino alla disponibilità (passività), a prendere il posto dell’altro, a prendere su di sé la colpa di tutti gli altri150, di tutti gli uomini, si incarna quindi in Gesù Cristo. Ora, secondo Bonhoeffer, a Gesù Cristo «l’unica cosa che gli sta a cuore è l’amore per l’uomo reale, e per questo può entrare in comunione con la loro colpa lasciandosi gravare da essa. Egli non vuole essere considerato l’unico perfetto a spese degli uomini, non vuole guardare dall’alto in basso, quale unico senza colpa, l’umanità condannata alla rovina sotto la propria colpa, non vuol far trionfare sulle rovine di una umanità per la propria colpa una qualche idea di un uomo nuovo. Non vuole assolversi dalla colpa sotto cui gli uomini muoiono. Un amore che lasciasse l’uomo solo nella sua colpa non avrebbe per oggetto l’uomo reale. Gesù diventa colpevole come colui che agisce responsabilmente nell’esistenza storica dell’uomo. È solo il suo amore, intendiamoci bene, a farlo diventare colpevole. Mosso dal proprio amore, libero dal 149

Ibid., 224-225. Nel pensiero di Levinas sono io che assumo la condizione di ostaggio: «sono io che sopporto altri, che ne sono responsabile. Si vede così che nel soggetto umano, insieme a una soggezione totale, si manifesta la mia primo-genitura. La mia responsabilità è inalienabile, nessuno potrebbe sostituirmi. Di fatto, si tratta di dire l’identità stessa dell’io a partire dalla responsabilità, cioè a partire da questa posizione o da questa deposizione dell’io sovrano nella coscienza di sé; deposizione che è appunto la sua responsabilità per altri. La responsabilità è ciò che mi incombe in modo esclusivo e che, umanamente, io non posso rifiutare. Questo peso è una suprema dignità dell’unico. Io non inter-cambiabile, sono io nella misura in cui sono responsabile. Io posso sostituirmi a tutti, ma nessuno può sostituirsi a me. Questa è la mia inalienabile identità di soggetto. È in questo senso preciso che Dostoevskij dice: ‘Noi siamo tutti responsabili di tutto e di tutti, davanti a tutti ed io più di tutti gli altri’» E. LEVINAS, Etica e infinito, cit., 115. 150

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proprio sé, e dalla propria mancanza di peccato, entra nella colpa degli uomini e la prende su di sé. Assenza di peccato e il portare la colpa sono in lui indissolubilmente uniti»151.

6. IL BENE La responsabilità viene fuori come dimensione ineluttabile, come una forza invincibile da cui non ci si può sottrarre. La responsabilità è la suprema dignità che rende l’uomo sempre più unico e irripetibile, umanamente parlando. Ora, questo non potersi sottrarre alla responsabilità, non è inteso come una schiavitù. Alla radice, al fondamento della responsabilità vi è il Bene. Il Bene che secondo Levinas «non è oggetto di scelta, perché esso si è impadronito del soggetto prima che il soggetto abbia avuto tempo — ossia la distanza — necessaria alla scelta. Non c’è assoggettamento più completo di questo brivido che il Bene incute all’improvviso, un’elezione, certo. Ma il carattere oppressivo della responsabilità che oltrepassa la scelta — dell’ubbidienza anteriore alla presentazione o alla rappresentazione del comandamento che fa obbligo della responsabilità si annulla per la bontà del Bene, cui appartiene il comandamento. Colui che ubbidisce ritrova, al di qua della soggezione, la sua integrità. La responsabilità indeclinabile eppur non mai liberamente assunta — è bene. L’abbrividire per opera del bene, la passività che è nel ‘subire il bene’ è una contrazione più profonda di quella che si richiede nel movimento delle labbra che imitano, quando articolano il sì»152. 151

D. BONHOEFFER, Etica, cit., 240. E. LEVINAS, Umanesimo dell’altro uomo, cit., 107. Levinas ha nominato la responsabilità indeclinabile Bene. Il luogo del Bene è la passività: «Ora, essere dominato dal Bene, è appunto escludersi dalla stessa possibilità della scelta, dalla coesistenza nel presente. L’impossibilità della scelta, qui, non è effetto della violenza — fatalità o determinismo — ma dell’elezione irrecusabile da parte del Bene, che, per l’eletto, è sempre e sin d’ora come già avvenuta. Elezione da parte del Bene che, per l’appunto, non è azione, ma la non — violenza stessa. Elezione, vale a dire investiture del non-permutabile. Quindi passività più passiva di qualunque passività: filiale; ma soggezione pre-liminare, pre-logica; soggezione a senso unico, che si farebbe torto a interpretare movendo dal dialogo. La passività, inconvertibile in presente, non è semplicemente effetto di un Bene, che sarebbe così ricostruito a titolo di causa di tal effetto; proprio in questa passività è il Bene, esso che, propriamente parlando, non ha bisogno di essere e non è, se non per la bontà. La passività è l’essere dell’al di là dell’essere, del Bene, che il linguaggio ha tutte le ragioni di circoscrivere — tradendo, 152

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Si è scelti dal Bene oppure si sceglie il Bene? Il luogo del Bene è la passività. La spiritualità è responsabilità, intesa in questo quadro di riferimento, non più una sorta di fuga nella propria interiorità quasi a voler fuggire la complessità e le contraddizioni che la post-modernità presenta all’uomo di oggi, ma una nuova e più radicale modalità di relazione con il reale: con Dio, l’uomo e il mondo. Io sono responsabile è il Bene153. La responsabilità è la scoperta del fondo della nostra umanità per cui io sono chiamato a scoprire sempre più la mia unicità e irripetibilità lasciandomi strappare alle mie sicurezze dall’attrattiva del Bene154. In questa prospettiva ci sembra particolarmente significativa la questione che J. Derrida pone: a quale condizione ci può essere responsabilità? Attorno a tale questione egli costruisce il suo saggio Donare la morte: «A quale condizione può esserci responsabilità? A condizione che il Bene non sia più una trascendenza oggettiva, ma il rapporto all’altro, una risposta all’altro: esperienza della bontà personale e movimento intenzionale […] A quale condizione c’è bontà, al di là del calcolo? A condizione che la bontà dimentichi sé, che il movimento sia un movimento di dono che rinunci a sé, dunque un movimento di amore infinito. C’è bisogno di un amore infinito per rinunciare a sé e per divenire finito, incarnarsi per amare così l’altro, e l’altro come altro definito. Questo dono d’amore viene da qualcuno e si indirizza a qualcuno. La responsabilità esige la singolarità insostituibile. naturalmente, come sempre — in queste due parole: non-essere; la passività è il luogo — o più precisamente, il non luogo — del Bene» (ibid., 108). 153 Cfr F. POIRIÉ, Emmanuel Levinas. Qui êtes-vous?, Lyon 1987. In questa intervista alla domanda, Come uscire da sé, Levinas risponde in questi termini: «Sortir de soi, c’est occuper de l’autre, et de sa souffrance et de sa mort, avant de s’occuper de sa propre mort. Je ne dis pas du tout que cela se fait de gaieté de coeur, que ce n’est rien, ni surtout que serait là une cure contre l’horreur ou la lassitude d’être ou contre l’effort d’être, une façon de se distraire de soi. Je pense que c’est la découverte du fond de notre humanité, la découverte même du bien dans la rencontre d’autrui — je n’ai pas peur du mot ‘bien’; la responsabilité pour l’autre est le bien. C’est ne pas agréable, c’est bien» (ibid., 92). 154 Nel nostro saggio Relazione senza relazione, sul pensiero di Levinas così pensiamo questa irruzione del Bene nel rapporto con l’altro: «la soggettività come responsabilità è strappata alle sue sicurezze dall’irruzione del Bene che la sceglie: la soggettività in questo dinamismo di ulteriorità viene come afferrata dal Bene. Il Bene è un appello per la soggettività alla bontà e al sacrificio. L’ingresso del Bene ci induce a pensare che la soggettività non viene a definirsi come attività, come affermazione di sé, ma piuttosto ce la fa pensare come passività. La soggettività non si dà a se stessa, si riceve come soggettività in quanto acconsente alla precedenza del Bene al di là dell’essere. Una precedenza che vota il soggetto alla bontà del dono» (ibid., 285).

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Solo a partire dall’insostituibilità si può parlare di soggetto responsabile, di anima come coscienza di sé, di me»155. La vita spirituale in questo senso si presenta come estenuante, altro che ripiego o fuga, perché occorre operare sempre di più. C’è sempre un oltre. Il desiderio ci conduce incessantemente più lontano. Questo significa che la vita spirituale non è padrona di se stessa, subisce l’attrattiva di un Bene che non eguaglia mai. Una vita tanto più diventa spirituale quanto più essa si spossessa di se stessa. La spiritualità è infatti dono di sé. La vita spirituale viene colta e si esprime nella relazione con gli altri. Nel rapporto con gli altri è in debito di se stessa, questa è la passività originaria. Questa passività corregge la violenza, che si esprime nel rapporto con colui che non può far niente, che non conta: la vedova, l’orfano, il profugo, l’abbandonato. Da questa umile altezza giungono a me un compito e una missione. La vita spirituale autentica è spoliazione; è impotenza; è umiltà. C’è un capovolgimento dei rapporti interpersonali con l’altro, non è tanto la generosità di chi può, ma l’inverso, è l’impotenza di colui che non conta nulla, che non può nulla, a interpellarmi. Mi chiama alla generosità, al disinteresse, al dono. È il movimento della carità a mettere in circolo quanto si è ricevuto. Siamo beneficiari di un dono di cui non siamo padroni che bisogna far passare lasciandolo fluire.

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J. DERRIDA, Donare la morte, trad. it., Milano 2002, 87.


CAPITOLO III

RIPENSARE LA CARITÀ

1. PREMESSA Quale prospettiva assumere per trattare questo tema? Quale il punto di partenza, la logica e il punto di vista da seguire? Abbiamo assunto il punto di vista filosofico, collocandoci in una prospettiva antropologico metafisica. Tuttavia non ci siamo privati di fare menzione del dato che proviene dalla Sacra Scrittura sia implicitamente che esplicitamente. Dinanzi a un simile tema — ci chiediamo — si può fare a meno dell’orizzonte di comprensione dentro cui ci muoviamo ed esistiamo? Non si può non tenerne conto. Anche qualora si pensasse di farne a meno, metodologicamente, si dovrebbe constatare come il nostro dire nasconde un non detto che è, o dovrebbe essere, poi il vissuto della nostra fede. Come si fa a svestirsi di un abitus, di una condizione, che ci appartiene? La visuale allora da cui partiamo è quella filosofica che tuttavia non disdegna di fare ritornare la Sacra Scrittura nel circuito del pensiero. Tutto questo per pensare diversamente. Ora, non è nostro intento fermarci su questioni di metodo, né fare un trattato sul tema, ma solo toccare qualche aspetto che lasci intravedere quella dimensione essenziale per comprendere l’uomo e il senso della sua vita. È dentro questa prospettiva di senso che ci permettiamo di offrire una riflessione, senza alcuna pretesa di esaustività. Ma perché ripensare? O in che senso ripensare? Ripensare viene qui inteso nel senso di riflettere, nel senso di meditare. Questa riflessione, che ci apprestiamo a tratteggiare, si incentra intorno a tre punti, a tre movimenti del pensiero: La carità come desiderio: dal bisogno alla gratuità La carità come esodo: dalla nostalgia all’esodalità La carità come dis-inter-esse: dal dono all’umiltà

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Il vangelo passa attraverso questa via fondamentale: la carità. Pensiamo agli orientamenti pastorali per gli anni ’90 della CEI: Evangelizzazione e testimonianza della carità. Su questa linea insiste anche la nota pastorale dopo il convegno di Palermo: Con il dono della carità dentro la storia. Non possiamo concepire la nuova evangelizzazione senza tenere presente la strada maestra della carità. L’esortazione apostolica post sinodale, Ecclesia in Europa, ritorna su questo tema fondamentale per un servizio sempre più autentico del vangelo: «La carità ricevuta e donata è per ogni persona l’esperienza originaria nella quale nasce la speranza» (Ecclesia in Europa, 84). Nello stesso numero l’esortazione riprende un testo significativo della prima lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, la quale sottolinea significativamente: «L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente»156. Ci sembra altrettanto eloquente che la prima lettera enciclica di Benedetto XVI consegni alla chiesa ciò che deve caratterizzare la sua natura e il suo compito, il messaggio antico e sempre nuovo dell’amore: Deus caritas est. «In un mondo in cui al nome di Dio viene a volte collegata la vendetta o perfino il dovere dell’odio e della violenza, questo è un messaggio di grande attualità e di significato molto concreto. Per questo nella mia prima Enciclica desidero parlare dell’amore, del quale Dio ci ricolma e che da noi deve essere comunicato agli altri»157. La carità è da considerarsi l’ambito naturale attraverso cui far passare il vangelo e in cui vivere il vangelo. La carità non è intesa qui come risultato di uno sforzo volontaristico, ma come un dono. La carità è ricevuta e donata. Perciò la carità viene colta nella sua verità in una prospettiva soprannaturale, in altre parole a partire dalla grazia. La grazia, infatti, ci interpella e ci fa uscire in un cammino senza termine. Un cammino esigente, faticoso, che sfocia nel dono di sé. Il non tenere niente per sé ha questo presupposto fondamentale: la grazia. Allora non ci resta che fare 156

GIOVANNI PAOLO II, Lett. Enc. Redemptor hominis (4 marzo 1979), 10. BENEDETTO XVI, Lett. Enc. Deus Caritas Est (25 dicembre 2005), 1. La Carità, nella riflessione sapienziale del papa, rivela non solo l’intima natura della Chiesa, ma oltrepassa nel contempo le sue frontiere manifestando quella dimensione universale propria dell’amore che si rivolge ad ogni uomo chiunque esso sia. (Cfr ibid., 25). 157

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nostre le parole di s. Agostino che amava ripetere: «Non c’è carità senza grazia». Senza la gratuità costitutiva non è possibile concepire il dinamismo, lo slancio, della carità. E a partire dall’evento della carità ricevuta e donata che l’uomo capisce se stesso e dona senso e gusto alla sua vita. Dal dono nasce l’offerta di sé; dal dono di grazia scaturisce l’espropriazione di sé. Il sacrificio ha ragion d’essere a partire dalla grazia; è radicato nella grazia. Di amore possiamo dire che si parla spesso perché, certo, ne facciamo l’esperienza, tuttavia c’è la possibilità che non lo comprendiamo più in tutta la sua ricchezza e il suo dinamismo. La prova deriva dal fatto che spesso di amore, di carità, se ne parla in diversi accezioni e contesti, rivestendolo non solo di ambiguità, ma facendolo anche a pezzi, per esempio nei suoi due contrari: eros e agape. Lo scindiamo fermandoci ora al puro godimento bruto, ora al sentimentalismo etereo, non cogliendo la natura stessa dell’amore e la sua unità profonda. La filosofia ricercando la chiarezza del pensiero, la coscienza di sé, il distacco razionale ha abbassato riconducendo la carità più all’ambito della sfera passionale e irrazionale: «Così la filosofia tace — sottolinea Marion — e, in questo silenzio, l’amore si eclissa»158. La carità è il momento sorgivo del pensare stesso. Se la filosofia tace sulla carità è forse perché gli ricorda la sua origine e la sua natura, il suo compito, cioè di essere saggezza dell’amore a servizio dell’amore? Se la filosofia tace sulla carità è forse perché non porta alcun vantaggio o privilegio? Ripensare la carità è porsi in una logica non della forza ma dell’impotenza. La carità non mostra mai i muscoli, offre piuttosto la guancia. Non imporsi significa viceversa consegnarsi. Per cui occorre ripensare il senza difesa, il senza protezione alcuna. La carità si dispiega, in tal modo, nell’orizzonte del dis-inter-esse!

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J.L. MARION, Le Phénomène érotique, cit., 10. L’Autore in questo saggio mira a ricostruire il contesto originario da cui scaturisce il senso di ogni domandare: «La philosophie n’aime pas l’amour, qui lui rappelle son origine et sa dignité, son impuissance et leur divorce. Elle le passe donc sous silence, quand elle ne le hait pas franchement. Nous poserons une hypothèse: cette haine reste encore une haine amoureuse. Dans ce désastre amoureux de la philosophie, nous voulons croire — et montrer — que l’on peut reconstruire une interrogation sur l’amour» (ibid., 12).

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2. LA CARITÀ COME DESIDERIO: DAL BISOGNO ALLA GRATUITÀ 2.1. Sapere Gran parte del pensiero e della cultura contemporanea ha considerato e considera l’uomo in termini di bisogno. Nozione, questa, che va opportunamente precisata. La ricerca e la dimensione del senso come si è sviluppato nel pensiero occidentale ha visto porre l’accento sul pensiero speculativo. Il senso viene colto, da un punto di vista filosofico, in termini esclusivi di sapere. La correlazione tra la conoscenza e l’essere è il luogo in cui viene dato il senso: «Secondo la nostra tradizione filosofica la correlazione tra conoscenza — in quanto contemplazione disinteressata — ed essere è il luogo dell’intelligibile, il darsi stesso del senso. La comprensione dell’essere — la semantica di questo verbo — sarebbe così la possibilità stessa della saggezza dei saggi e, a questo titolo, filosofia prima. La vita intellettuale — e perfino quella spirituale — dell’Occidente, in virtù del primato attribuito alla conoscenza identificata con lo Spirito, si mantiene fedele alla filosofia prima di Aristotele, interpretata secondo l’ontologia del libro Gamma della Metafisica o secondo la teologia e l’onto-teologia del libro Lampada nel quale il riferimento dell’intelligibilità alla causalità prima di Dio resta riferimento a un Dio definito dall’esser in quanto essere»159. Il sapere è ciò che determina, costituisce e nello stesso esprime, il senso della realtà, della vita. La vita in questo orizzonte viene intesa, innanzitutto, come vita conosciuta, per cui più che di vita vissuta dobbiamo parlare di vita saputa. Io so la vita e non vivo la vita! L’importanza accordata alla conoscenza pone la realtà in secondo piano. Ci troviamo quindi dinanzi alla realtà, la differenza che perde la propria differenza nel momento in cui viene conosciuta, ad un’alterità che viene superata come alterità per essere affermata innanzitutto come realtà saputa160. Il vissuto 159 E. LEVINAS, Etica come filosofia prima, in E. LEVINAS – A. PEPERZAK, Etica come filosofia prima, trad. it., Napoli 1989, 47. 160 Levinas mette in particolare evidenza, e con insistenza, questa differenza superata nel pensiero-sapere: «La correlazione tra conoscenza ed essere, la tematica della contemplazione, attesta bensì una differenza, ma al tempo stesso una differenza superata, nel vero, ove il conosciuto viene compreso e così posseduto dal sapere e quasi affrancato dalla sua alterità. Nella verità, l’essere, come altro del pensiero, diventa proprietà del pensiero-sapere. Nell’immanenza del reale alla ragione è già preannunciato l’ideale della razionalità o del senso; parallelamente, nell’essere è attestato il privilegio del presente come presenza al

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viene concepito e assunto in ultima analisi come saputo. L’avventura del sapere è l’orizzonte dentro cui poter capire ed esprimere la vita. È nostra convinzione, invece, che la vita si capisce solo attraverso la vita. È il vissuto che raggiunge nella verità un altro vissuto. Dentro questa prospettiva riveste un’importanza fondamentale il problema dell’alterità vista in tutta la sua variegata ricchezza. L’alterità si offre a noi come chiave di lettura per pensare la vita nella sua autenticità. Il pensiero speculativo viene manifestandosi e affermandosi nel discorso filosofico soprattutto in termini di sapere; un sapere inteso come possesso. È il soggetto, secondo la filosofia della conoscenza, che si appropria dell’oggetto conosciuto; lo afferra, se ne impossessa facendolo proprio: «Si tratta proprio di un afferrare: una volta conosciuto, l’essere diventa proprietà del pensiero, viene afferrato dal pensiero. La conoscenza come percezione, come concetto, come comprensione, rimanda ad un afferrare. Metafora da prendere alla lettera: ben prima di ogni applicazione tecnica del sapere, essa esprime il principio più che il risultato del successivo ordine tecnologico e industriale di cui ogni civiltà reca almeno il germe»161. Conoscere significa appropriarsi, rendere proprio ciò che proprio non è. È un fare dell’altro da sé, un sé. Il processo conoscitivo è essenzialmente un processo di assimilazione. Nel processo biologico di assimilazione del cibo, perché questo venga assimilato, è necessario che sia distrutto come cibo, come altro. Allo stesso modo nella conoscenza se si vuole assimilare l’altro da sé occorre che l’altro perda la sua alterità e diventi simile a sé. L’assimilazione viene posta in essere e si sviluppa dove avviene questo processo di superamento e di distruzione dell’alterità. Assimilare vuol dire eliminare l’altro da sé. Senza questa soppressione dell’altro da sé, dell’oggetto, non c’è assimilazione, poiché viene a mancare quel processo che rende simile ciò che simile non è. Rendere simile l’altro da sé: questo è il conoscere e il comprendere. Non è altro che sapere; non c’è altro che sapere!?

pensiero, di cui il futuro e il passato saranno modalità o modificazioni: vale a dire rappresentazione/ripresentazioni (re-présentations)» (l. c.). 161 Ibid., 48. Questo è l’orizzonte della manomissione che secondo Levinas si rivela in modo evidente nell’operare della tecnica e dell’industria dove riveste un posto rilevante la dimensione manuale attraverso l’afferrare concreto. Nella nota il curatore del saggio non può evitare di mettere in rilievo il termine francese «Mainmise, che significa anche confisca, sequestro, azione del prendere e dell’impossessarsi facendo piazza pulita» (l. c.).

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Il processo di apprendimento in campo scolastico ed educativo passa attraverso l’assimilazione; necessario dinamismo che accompagna la conoscenza. Noi infatti impariamo così: riconduciamo a noi, attraverso la lettura, lo studio, le esperienze, una serie di oggetti che sono diversi da noi. Apprendere è un comprendere, cioè un prendere con. La comprensione è un’autentica presa. È tenere fra le mani che non è da intendere, abbiamo visto, soltanto come dimensione metaforica. Comprendere è un avere tra le mani; l’oggetto conosciuto, saputo, è a portata di mano. Lo si possiede! Il processo di apprendimento comporta pertanto un’autentica presa di possesso. Qui non è privo di significato rilevare, l’importanza e l'incidenza che riveste il sapere, la comparsa della dimensione tecnica, la sua influenza e il suo primato nella storia del pensiero moderno. Sapere è potere, secondo la nota espressione di F. Bacone, il filosofo dell’epoca industriale, che ha messo in rilievo l’importanza della conoscenza scientifica per lo sviluppo del pensiero filosofico. L’uomo occidentale si capisce e si muove secondo questa prospettiva culturale che progressivamente mira a mettere in luce il primato della tecnica. Questo primato dice essenzialmente il punto di vista, la logica, dentro cui si afferma e si sviluppa il pensiero contemporaneo. È il dominio dell’uomo sulla realtà! Una realtà sempre più asservita, sempre più oggetto da comprendere, da manipolare. Non ci troviamo più dinanzi alla realtà fonte di mistero di cui meravigliarci. Assistiamo così — non in modo assoluto ed unilaterale — alla scomparsa della meraviglia e dello stupore! Può forse l’uomo smarrire quanto di più essenziale e vitale lo costituisce? Può egli dimenticare la disposizione fondamentale del suo essere? Certo, quando però ci troviamo dinanzi ad una realtà in cui tutto è noto, svelato, risolto, l’uomo può rischiare di smarrire il senso del mistero e quindi della stessa realtà. L’aver posto l’accento in modo assoluto su questo processo di oggettivazione ha significato l’assegnazione del primato al sapere essenzialmente tecnico. Un pensiero che mira a calcolare e quindi a controllare può rischiare di non contemplare più! Un tale primato conduce alla messa in luce, a livello di pensiero speculativo, del ruolo essenziale del concetto. Nel rapporto conoscitivo di soggetto e oggetto è, infatti, il processo di concettualizzazione che riveste particolare rilevanza. Tra il pensante e il pensato la distanza svanisce. L’opera del soggetto pensante è volta ad asservire l’oggetto pensato; l’altro da sé divenendo sé perde la sua alterità. È l’identità che ha la meglio. L’alterità è ridotta ad identità. Se a questa alterità diamo il nome di realtà risulta evidente

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la conseguenza, la realtà viene ridotta al soggetto pensante. L’opera dell’idealismo porta questo segno: l’identità tra reale e razionale. L’opera dell’identificazione è frutto dell’attività del soggetto pensante. La conoscenza, in quest’opera di riduzione e superamento, ha un ruolo essenziale. In questo processo — diciamo — di identificazione viene emergendo una conoscenza che aspira fondamentalmente alla soddisfazione, una conoscenza che mira a colmare un bisogno. Il bisogno è essenziale per la natura stessa del conoscere dell’uomo. Conoscendo, l’uomo, colma una mancanza. Il processo conoscitivo, così inteso, viene ricondotto all’orizzonte del solo sapere. Cosicché la conoscenza sembra affermarsi sempre più come sapere teoretico puro: l’uomo che astrae sempre più dalle condizioni materiali, mira al dominio e al controllo della realtà, aspirando così alla libertà, e chiuso in se stesso, si volge alla sua autosufficiente sovranità. Questa è l’attività del pensiero che autofonda se stesso: «Attività regale e in qualche modo incondizionata. Sovranità possibile unicamente in quanto solitudine. Attività incondizionata, benché nell’uomo limitata dai bisogni biologici e dalla morte. Essa è però la nozione che fonda l’idea del teoretico puro, della sua libertà, dell’equivalenza tra saggezza e libertà della coincidenza parziale dell’umano con la vita divina»162. La modernità si caratterizza per aver messo in luce un pensiero che pensa a sua misura l’essere e adegua tutto quello che è altro da sé al pensabile. Si afferma sempre più l’autocoscienza come identità dell’identico e del non identico. È questa l’identità tra pensiero e realtà. Pensiero e realtà sono la stessa cosa: è l’identico che riconduce a sé l’altro, per cui il pensiero è la realtà. La razionalità nel pensiero hegeliano si afferma come attività del pensiero che ha ragione di ogni alterità. La razionalità consiste proprio in questa uguaglianza: «L’attività del pensiero ha la meglio su ogni alterità, in questo in fin dei conti, risiede la razionalità stessa! La razionalità è uguaglianza. Niente resta al di fuori, niente permane nuovo ed estraneo (straniero)»163. 162 Ibid., 48-49. Il filosofo a cui Levinas qui fa riferimento, in modo esplicito, è Aristotele, il quale considera l’attività del pensiero come attività autosufficiente che nella sua eminente sovranità vive una beata solitudine. 163 E. LEVINAS, Amour et révélation, in AA.VV., La charité aujourd’hui, Paris 1981, 137. «C’est dans la philosophie idéaliste que se produisent cette égalité de la pensée e de l’être et, si vous voulez, cette conception de l’être comme se qui peut satisfaire une pensée. L’oeuvre hégélienne où viennent se jeter tous le courrant de la pensée occidentale, et où se manifestent tous ses niveaux, est une philosophie, à la fois, du savoir absolu et de l’homme

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Il sapere che prende il posto della realtà, anzi che ne costituisce il principio e si sostituisce ad essa, non solo rischia ma ha anche la pretesa di diventare la misura di ogni orizzonte di senso. Il pensiero occidentale giunge a un punto, in cui convergono diversi percorsi speculativi, con la precisa rivendicazione di costituire un sapere assoluto. Dietro tale forte richiesta appare l’uomo di sempre, l’uomo che mette al centro se stesso cercando di soddisfare i propri bisogni. Appare l’uomo che capisce se stesso e gli altri nell’orizzonte del bisogno, cioè in quella dimensione puramente orizzontale in cui egli si percepisce come essenzialmente mancante, di conseguenza l’unico modo di colmare questa mancanza è quello di possedere quanto gli manca. L’uomo è compreso, dunque, sempre più come bisogno. Quanti bisogni indotti oggi!? Quanti bisogni crea l’occidente non essenziali alla natura dell’uomo!? Tutto questo a partire, certamente, da una concezione dell’uomo che si va affermando nel suo movimento di apertura a qualcos’altro, di cui vuole appropriarsi, per colmare una certa mancanza. L’uomo che è capito come privazione vive nell’ansietà, soprattutto quando non può o non riesce a colmare il proprio bisogno. Qui si mostra la concezione dell’uomo occidentale che capisce se stesso nel movimento di ricerca che lo porta ad appropriarsi di ciò che è altro da sé; è la possibilità di sospendere quanto non rientra nell’orizzonte della identità e della propria medesimezza; il bisogno è la modalità di pensare la vita come luogo in cui tutto è a propria disposizione, in cui istallarsi, su cui potere tutto. È il dominio dell’io colmo e soddisfatto; è l’io opulento! Il pensiero nato per l’alterità, ha finito per credere di produrla e di inglobarla, fino a fare a meno di essa, cioè fino alla sua eliminazione. Un pensiero che non ha altra aspirazione che il sapere è un pensiero che si specchia su di sé, e ritorna a sé anche dopo essersi alienato da sé. Un pensiero ripiegato su se stesso è un pensiero che ricerca il sapere fine a se stesso, cioè ricerca l’appagamento, la soddisfazione.

satisfait. Le psychisme du savoir théorétique constitue une pensée qui pense à sa mesure, dans son adéquation au pensable, et qui devient conscience de soi. Chez Hegel, c’est le Même qui se retrouve dans l’Autre. C’est l’identité de l’Autre e du Même» (cfr l.c.).

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2.2. Il primato dell’Io: il narcisismo Il pensiero che aspira al sapere si muove dunque nell’ottica della riduzione e della eliminazione di ciò che si oppone in quanto altro. Il pensiero viene associato — abbiamo visto — alla dinamica della soddisfazione, del bisogno. Il pensiero in quanto sapere si configura pertanto come un processo di conquista di quanto si oppone al sapere stesso; in questo processo l’atteggiamento che contraddistingue la persona umana è quello che la spinge al superamento delle asperità, che la conduce a conquistare il proprio posto al sole. È il sapere come pura affermazione dell’io, di se stesso, in un continuo superamento dei limiti. Qui il limite appare come una mortificazione dell’io. Siamo davanti ad un io che si definisce in continua espansione, che non conosce di contro limiti. L’io è pensato come illimitato. È la continua riduzione dell’altro all’identico. L’io in tal modo afferma la sua esistenza, più che come diversità, come identificazione del diverso che lo rende sempre più libero e autonomo: «La conquista dell’essere da parte dell’uomo attraverso la storia — ecco la formula a cui si riducono la libertà, l’autonomia, la riduzione dell’Altro all’Identico e che non rappresenta chissà quale schema astratto, ma l’Io umano. L’esistenza di un Io si svolge come identificazione del diverso. Nonostante tutti gli eventi che lo coinvolgono, tutti gli anni che lo invecchiano, l’Io resta lo Stesso. L’Io, il Se-stesso, l’ipseità come si dice oggi, non resta — nel cuore del mutamento — immutabile come una rupe minacciata dai flutti. La rupe minacciata dai flutti è semplicemente immutabile. L’Io resta lo Stesso, facendo degli eventi disparati e diversi una storia, la sua storia. Ed è questo il fatto originario dell’identificazione dell’Identico, anteriore alla stessa identità della rupe, anzi condizione di tale identità»164. L’Io così inteso è un io che si compiace di se stesso alla stregua di Narciso. Quando nella vita di questo Io fa irruzione un elemento estraneo, fa irruzione un ostacolo che bisogna superare attraverso un’opera di integrazione: «un elemento altro — la terra che ci sostiene e disattende i nostri sforzi, il sole che ci attira a sé e ci ignora, le forze della natura che ci uccidono e ci aiutano, le cose che ci ingombrano o ci servono, gli uomini che 164

E. LEVINAS, La traccia dell’Altro, trad. it., Napoli 1979, 6. «Autonomia o eteronomia? — si chiede Levinas — La filosofia occidentale il più delle volte ha inclinato dal lato della libertà e dell’Identico. Non nacque, forse, la filosofia, in terra greca per detronizzare l’opinione, in cui tutte le tirannie minacciano e stanno in agguato?» (ibid., 6-7).

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ci amano e ci rendono schiavi —, tale elemento costituisce immediatamente un ostacolo. Bisogna superarlo e integrarlo in questa vita»165. Si afferma così un io sempre più autarchico che trova in se stesso la ragione di sé. Ora, in virtù di quanto siamo venuti dicendo, se per un verso porre l’accento sull’io non è privo di diverse implicazioni positive, che vengono sempre più alla luce nel pensiero contemporaneo, per un altro verso la messa in rilievo dell’io è la manifestazione esplicita di un primato, dentro cui si dibatte la cultura odierna, che ha nell’individualismo competitivo una delle espressioni più significative. L’io si dispiega in questa posizione dominante e autoreferenziale, che è un preciso quadro culturale di riferimento: l’individualismo. Quest’ultimo veniva definito da Mounier come un atteggiamento di isolamento e di difesa: «L’individualismo è un sistema di costumi, di sentimenti, di idee e di istituzioni che organizza l’individuo sulla base di un atteggiamento di isolamento e di difesa. Fu l’individualismo a costituire l’ideologia e la struttura dominante della società borghese occidentale tra il XVIII ed il XIX secolo. Un uomo astratto, senza relazioni o legami con la natura, dio sovrano in seno a una libertà senza direzione e senza misura, che subito manifesta verso gli altri diffidenza, calcolo, rivendicazione; istituzioni ridotte ad assicurare la convivenza reciproca degli egoismi, o trarne il massimo rendimento associandoli fra loro in funzione di profitto: ecco il tipo di civiltà che sta agonizzando sotto i nostri occhi, uno dei più miseri che la storia abbia conosciuto. Esso è l’antitesi stessa del personalismo, il suo più diretto avversario»166. Un tale individualismo non fa che aumentare l’isolamento dell’io; un io che si scopre sempre più smarrito nella selva dei molteplici modelli culturali, sempre più complessi e anomali, che la nostra società occidentale ostenta con presunzione; un io che scorgiamo, pertanto, spesso in balìa di eventi ineluttabili. Contemporaneamente, questo stesso io, sembra mostrare nuove risorse che lo inducono tuttavia a trincerarsi nella sua pretesa autosufficienza. Per non smarrirsi si pensa di incentrare tutto su se stessi. È il ritorno di Narciso, ma forse, non se ne mai andato! L’io, che non riesce a 165

Ibid., 7-8. La verità viene vista da Levinas come l’opera di questa integrazione: «La violenza dell’incontro con il non-io si estingue nella evidenza. In tal modo il rapporto con la verità esteriore, che ha luogo nella vera conoscenza, non si oppone alla libertà, ma coincide con essa. La ricerca della verità diviene così il respiro stesso di un essere libero, esposto alle realtà esteriori che ospitano ma insieme minacciano la sua libertà. Grazie alla verità, io posso comprendere quelle realtà di cui rischio di essere in balìa» (ibid., 8). 166 E. MOUNIER, Il personalismo, cit., 45.

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vedere altro che se stesso, vuole rimanere fermamente ancorato a se stesso, in un rimirarsi continuo, ripetitivo, ossessivo. È il culto dell’immagine, in modo particolare della propria. Con lo specchiarsi solo in sé, l’uomo corre il rischio di perdere la ricchezza di ogni diversità, di ogni alterità, quindi, anche della stessa realtà. Un io che vive in fuga; in fuga da se stesso, dalla realtà, dagli altri. Nella fuga perde il contatto con la realtà, non si lascia interpellare più da essa; non entra più in relazione con questa. La realtà, nella sua varietà e nella sua complessità, gli sfugge perché ne rifiuta il confronto, il dialogo, la domanda che da essa proviene. Questo è quanto caratterizza la dinamica del bisogno, secondo l’espressione di Levinas. Il bisogno è certamente una dimensione importante per la comprensione dell’uomo. Nel dinamismo del bisogno l’uomo capisce se stesso come essere mancante. L’indigenza nell’uomo si configura come condizione esistenziale, come condizione ontologica. L’uomo infatti esprime come esigenza profonda della sua natura l’aspirazione di raggiungere una completezza. Vede perciò in una realtà altra da sé la pienezza e il compimento, la perfezione, la felicità. È una realtà che gli manca a cui egli aspira profondamente. Nel bisogno l’uomo si spinge verso la conquista di una realtà diversa da sé per colmare sé. Quando l’uomo manifesta, esterna, il bisogno o i bisogni di diverso ordine, riconosce implicitamente una realtà altra, con la quale non si identifica perché, altra da sé, che appunto gli manca. L’apertura dell’uomo al bisogno risponde a questo fondamentale dinamismo, appropriarsi dell’oggetto a cui egli si rivolge in quanto è ciò che lo soddisfa. La finalità è appunto la conquista di quanto gli manca: dalla fame materiale a quella spirituale, dalla realizzazione personale alla felicità, l’uomo cerca sempre quanto lo appaga. È un dinamismo, questo, che struttura la persona. Il bisogno è da capirsi in questa tensione verso una realtà cui profondamente l’uomo aspira. Un bisogno essenziale che acquieta l’uomo sia da un punto di vista materiale che da un punto di vista spirituale. L’uomo per natura è inquieto; è alla ricerca di ciò che lo fa essere quello che è; è alla ricerca della sua identità più profonda, della sua ipseità. Un essere che non eguaglia mai se stesso è un essere che si scorge sempre inadeguato. L’uomo oltrepassa continuamente e infinitamente se stesso, per cui ritrova se stesso oltre se stesso.

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2.3. Il Desiderio Nella prospettiva del bisogno — abbiamo appena sottolineato — l’io si definisce in quanto persegue la propria soddisfazione, la propria realizzazione, la propria felicità. L’obiettivo che si pone l’io, in tal senso, è l’affermazione di sé; un processo che risponde, in fondo, ad una richiesta di riconoscimento di sé e che si esprime anche con l’appropriazione di ciò che è altro da sé. Nel bisogno vi possiamo cogliere, anche, l’inizio di una vita incentrata sul potere: «La resa delle cose esteriori alla libertà umana mediante la loro generalità non significa solo innocentemente comprenderle, ma anche utilizzarle, addomesticarle e possederle. Soltanto nel possesso l’io porta a compimento l’identificazione del diverso. Certamente il possesso conserva la realtà dell’altro che è posseduto, ma sospendendone appunto l’indipendenza. In una civiltà che si riflette nella filosofia dell’Identico, la libertà si realizza nella ricchezza. La ragione che riduce l’altro è appropriazione e potere»167. L’uomo nel desiderio, invece, non si rapporta con l’altro uomo come se fosse una cosa o un alimento di cui appropriarsi ed assimilare, come il pane che mangio o l’acqua che bevo. Il desiderio non è da equiparare alla soddisfazione di un bisogno, anche qualora dovesse presentarsi come bisogno spirituale e non soltanto materiale. Nel desiderio scaturisce un dinamismo che va oltre il possesso, oltre l’appropriazione e l’appagamento. Il desiderio è bontà! La bontà non colma l’uomo, ma lo svuota. La bontà appare come una fame che si accresce quanto più essa è soddisfatta. La bontà è una ricchezza che si accresce svuotandosi. Il desiderio si manifesta come un dinamismo che conduce sempre al di là; è una dilatazione. Un orizzonte che si dilata sempre di più, che perciò sfugge alla presa: imprendibile. Il desiderio, continua Levinas, richiama un movimento in avanti: «Al di là della fame che ci può saziare, della sete che si può colmare e dei sensi che si possono appagare, esiste l’Altro, assolutamente altro, che si desidera oltre queste soddisfazioni, senza che il corpo conosca alcun gesto per appagare il Desiderio, senza che sia possibile inventare una nuova carezza. Desiderio insaziabile, non perché corrisponda a una fame infinita, ma perché non reclama alcun nutrimento. Desiderio senza soddisfazione, che, proprio

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E. LEVINAS, La traccia dell’altro, cit., 9.


per questo, prende atto dell’alterità dell’Altro (Autrui) e lo colloca in quella dimensione di altezza e di ideale che appunto da lui è aperta nell’essere»168. Il desiderare del desiderio non porta dunque ad una soddisfazione, ad un appagamento, ma piuttosto ad uno svuotamento. In tale dinamismo si manifesta una profondità. L’oggetto a cui tendo, se di oggetto si tratta, è posto sempre oltre; è sempre altro. «I desideri che si possono soddisfare somigliano soltanto in qualcosa al desiderio autentico: nella soddisfazione inferiore alle attese o nella voluttà scandita dall’accrescimento del vuoto. Si ritiene a torto che questa sia l’essenza del desiderio. Ma il vero desiderio è quello che il desiderato non sazia ma rende più profondo. È bontà»169. Il desiderio apre pertanto una relazione, scava profondamente un rapporto. Una relazione posta nel cuore dell’essere umano che conduce oltre, che perciò dice altro. Siamo dinanzi ad una tensione permanente, ad un’apertura continua. Il desiderio attinge all’alterità dell’altro, attinge alla realtà dell’infinito. Il desiderio è un più posto nel meno: è in-finito, cioè non finito, ma anche dentro il finito. Raggiunta una mèta un’altra se ne apre; è sempre al di là; è sempre oltre in un cammino interminabile. L’uomo visto nella prospettiva e nel dinamismo del desiderio non è l’origine del desiderio stesso. Non è l’uomo a creare il desiderio: «Vale qui quanto si dice dei sogni: più che farli, li riceviamo. Se ci chiediamo come maturano i desideri, ci accorgiamo che noi non li decidiamo non sono un atto di volontà, piuttosto vengono suscitati in noi, siamo chiamati da essi. I desideri sono deposti in noi come un seme che ci rende gravidi. È il desiderato che ci feconda e ci attrae, suscitando il desiderio e rendendoci capaci di amare»170. Il desiderio qui è inteso come desiderio dell’Altro, cioè un desiderio senza mancanza e quindi senza soddisfazione. Un desiderio che pertanto non desidera nulla per sé; è il desiderio dell’Altro nella sua alterità. Un tale desiderio «trae origine da un essere pienamente soddisfatto e indipendente e che non desidera più nulla per sé. Bisogno di chi non più bisogni, si riconosce nel bisogno di un Altro che è Altri, che non è mio nemico (come in Hobbes e in Hegel) né 168

Ibid., 18. L’idea di Infinito è la traduzione in termini filosofici del desiderio. La metafisica poggia su e in questo pensare l’oltre che è meglio che pensare: «L’infinito non è oggetto di contemplazione, non è, cioè, alla portata del pensiero che lo pensa. L’idea dell’infinito è un pensiero che in ogni momento pensa più di quanto non pensi. Un pensiero che pensi più di quanto non pensi è Desiderio. Il Desiderio ‘misura’ l’infinità dell’infinito» (l. c.). 169 L. c. 170 R. MANCINI, Il Silenzio, via verso la vita, Magnano 2002, 64.

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mio complemento, come già nella repubblica di Platone, che si costituisce perché qualche cosa mancherebbe alla sua sussistenza di ogni individuo. Il desiderio di Altri nasce in un essere cui non manca niente o, più esattamente, nasce oltre tutto quel che può mancargli o soddisfarlo. Tale Desiderio di Altri che è la nostra stessa socialità, non è una semplice relazione con l’esser in cui, secondo le formule da cui eravamo partiti, l’altro si converte nell’Identico»171. Il desiderio porta l’io verso l’altro; è la messa in questione di un io che vorrebbe autodefinirsi come identità che riduce ogni alterità: «Il movimento verso gli altri, invece di completarmi e accontentarmi, mi coinvolge in una situazione che, in un certo senso, non mi riguardava e doveva lasciarmi indifferente: ‘che cosa sono, dunque, venuto a cercare in questa prigione?’ Da dove trae origine ciò che mi scuote quando passo indifferente sotto lo sguardo di Altri? La relazione con Altri, mi pone in questione, mi spossessa e non finisce di spossessarmi, scoprendomi in tal modo delle risorse sempre nuove. Non sapevo di essere così ricco, ma non ho più il diritto di conservare niente»172. È questa la bontà, non come una eccedenza ma come una esigenza, un’ingiunzione, che mi giunge da altrove, da un Altro. Il desiderio unifica la persona umana, la fa essere verso una mèta che gli viene incontro. La persona esiste per… La persona è un essere per, cioè esiste in un dinamismo senza fine: «Il desiderio è costitutivo dell’amore»173. Secondo questa accezione il desiderio non allude ad un impulso cieco, che vuole tutto e subito, se così fosse esso si volgerebbe ancora alla soddisfazione. Occorre liberare il desiderio, nel senso che, bisogna lasciare il desiderio operare, svilupparsi in noi, come una apertura; come una relazione che si sviluppa, che si approfondisce, che lascia essere l’altro senza volersene impadronire, senza voler esercitare sull’altro alcun tipo di potere. Il desiderio è bontà che non ha alcuna brama o aspirazione al possesso e al potere. Questo è il dinamismo stesso della carità, accolta e vissuta, come desiderio. 171

E. LEVINAS, La traccia dell’altro, cit., 32-33. Ibid., 33. Levinas si chiede a questo punto: «Il Desiderio di Altri è un appetito o una generosità? Il Desiderabile non sazia il mio Desiderio ma lo rende più profondo, nutrendomi in qualche modo di nuova fame. Il Desiderio si rivela bontà. Vi è una scena di Delitto e castigo di Dostoevskij in cui, a proposito di Sonia Marmeladova che osserva Raskolnikov nella sua disperazione, Dostoevskij, parla di ‘compassione insaziabile’. Non dice ‘compassione inasauribile’. Infatti la compassione di Sonia per Raskolnikov è come una fame che la presenza di Raskolnikov nutre oltre ogni appagamento, accrescendola all’infinito». È la sola presenza dell’Altro che accresce questa fame? 173 R. MANCINI, Il Silenzio, cit., 65. 172

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3. LA CARITÀ COME ESODO: DALLA NOSTALGIA ALL’ ESODALITÀ 3.1. Ulisse «Al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca vorremmo contrapporre la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra sconosciuta e che proibisce al suo servo di ricondurre perfino suo figlio a quel punto di partenza»174. Due figure, quelle di Ulisse e di Abramo, che si iscrivono nella metafora del viaggio. La vita stessa dell’uomo può essere intesa come un viaggio. Ora, Ulisse rappresenta indubbiamente l’uomo che viaggia, l’uomo che parte perché attratto dal fascino dell’avventura. Egli è l’uomo che rischia, affrontando pericoli e traversie, pur di andare e di viaggiare, tuttavia sente insopprimibile dentro di sé la nostalgia di casa. Il fine, lo scopo, del suo viaggio è il ritorno a casa, a Itaca, dalla sua Penelope. La grande aspirazione, pur sfidando mille prove e peripezie varie, subendo i disagi più disparati, provando le avventure più fantasiose, è il ritorno. È la nostalgia di casa che, in ultimo, ha il sopravvento. Il ritorno è vissuto come una malattia. Questo ritorno ad Itaca è da considerarsi come il pensiero circolare e identico, monolitico; è il pensiero greco; è il pensiero della terra. La nostalgia dell’Uno nel pensiero di Plotino. Un pensiero, questo, che percorre la cultura occidentale in particolare il discorso filosofico, fino ad Hegel secondo Rosenzweig, fino ad Heidegger secondo Levinas. La storia del pensiero occidentale, secondo Heidegger, si caratterizza come oblio, dimenticanza, dell’essere. Il pensiero filosofico occidentale ha dimenticato, in modo particolare, la differenza ontologica tra essere ed ente. Nella riflessione heideggeriana viene emergendo che la stessa dimenticanza è 174

E. LEVINAS, La traccia dell’Altro, cit., 30. Si veda F. GENTILONI, Abramo contro Ulisse. Un itinerario alla ricerca di Dio, Torino 2003. Traendo chiaramente spunto dalla contrapposizione levinassiana coglie l’occasione per una rilettura della propria vita di fede come itinerario di uscita dall’io verso l’altro: «Ulisse è più facile di Abramo. Le sue difficoltà e i suoi rischi saranno anche enormi, ma Ulisse sa dove va: lo aspetta una casa, una patria. Viaggiare è pericoloso, ma l’immagine di Itaca addolcisce tutto: Scilla e Cariddi, la maga Circe, il Ciclope, le colonne d’Ercole, tutto si può sopportare e vincere se si sa dove si è diretti. La pianta di casa, i mobili, i volti rallegrano le notti anche più oscure, i sogni anche più spaventosi. Abramo non sa dove andrà, conosce soltanto quello che lascia. Le sue notti sono piene di ricordi di case e cose e volti che non vedrà più. Davanti a sé non ha un ritorno, ma una continua partenza. Si sta male senza casa e senza patria. L’esodo, l’esilio sono terribili se il biglietto è di sola andata, e per sempre» (ibid., 107).

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iscritta nella storia dell’essere. Secondo Levinas, invece, il pensiero filosofico occidentale viene configurandosi, nei suoi maggiori esponenti, come un viaggio verso l’identico, in questo senso, allora, Ulisse rappresenta l’icona dell’uomo occidentale che nel suo viaggio ritorna nostalgicamente allo stesso posto da cui è partito: luogo in cui regna il medesimo e la medesimezza. Ulisse è figura dell’uomo che parte dalla propria terra «affronta avventure e peripezie (odissea) ma col pensiero fisso al giorno e al luogo del ritorno. L’immagine dell’io che esce da sé per incontrare il mondo ma con l’intenzione di tornare a se stesso con tutto il bagaglio delle esperienze e delle conquiste fatte»175. Ci si avventura a partire da questo punto, dall’identico, per ritornarvi; la casa è luogo di consistenza, luogo di raccoglimento, che esprime con efficacia il movimento del ritorno. La casa rappresenta il luogo fondamentale per la vita dell’uomo: «Si può interpretare l’abitazione come l’utilizzazione di un ‘utilizzabile’ fra tanti ‘utilizzabili’. La casa servirebbe alla abitazione come il martello serve a piantare un chiodo o la penna a scrivere. Essa fa parte dell’armamentario delle cose necessarie alla vita dell’uomo. Serve a ripararlo dalle intemperie, a nasconderlo dai nemici e dagli scocciatori. E tuttavia, nel sistema di finalità in cui si situa la vita umana, la casa occupa un posto privilegiato»176. La casa è un luogo privilegiato per l’uomo perché costituisce la condizione e l’inizio di ogni sua attività. L’uomo è un essere nel mondo per cui si capisce situandosi in un luogo. La casa è, infatti, il luogo in cui l’uomo può sempre ritirarsi: «Il raccogliemento necessario perché la natura possa essere rappresentata e lavorata, perché essa si delinei soltanto come mondo, si attua nella casa. L’uomo si situa nel mondo come se fosse venuto verso di esso partendo da una sua proprietà, da una casa sua nella quale può, in ogni istante, ritirarsi»177. 175

A. RIZZI, L’Europa e l’altro, Cinisello Balsamo 1991, 56. E. LEVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull’eternità, trad. it., Milano 1987, 155. 177 L. c. A parere di Levinas non è la casa che provoca quasi automaticamente il raccoglimento, ma è l’io che ne è condizione stessa: «L’isolamento della casa non fa spuntare magicamente, non provoca ‘chimicamente’ il raccoglimento, la soggettività umana. Bisogna rovesciare i termini: il raccoglimento, opera di separazione, si concretizza come esistenza in una dimora, come esistenza economica. Poiché l’io esiste raccogliendosi, esso si rifugia empiricamente nella casa. L’edificio assume questo significato di dimora solo a partire da questo raccoglimento» (ibid., 157). Più avanti egli scorge nella donna la condizione per il raccoglimento: «E l’Altro la cui presenza è discretamente un’assenza e a partire dal quale si attua l’accoglienza ospitale per eccellenza che descrive il campo dell’intimità, è la Donna. La donna è la condizione del raccoglimento, dell’interiorità della Casa e dell’abitazione» (ibid., 158). 176

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La casa è per l’uomo un rifugio, è la base da cui partire, ma a cui sempre ritornare. Questo rifugio è la condizione dell’uomo; è la sua sicurezza, perché rappresenta lo spazio in cui tutto è noto; tutto è a portata di mano. Lo spazio che percorre non è l’ignoto che gli sfugge e non riesce a controllare e dominare; qui l’uomo si trova in un luogo dove può esercitare il possesso e il dominio (il dominus). È casa mia! Tutto è mio. È il luogo dove posso esercitare il potere. Io posso tutto. Ulisse tornando a casa trova altri che pretendono loro di esercitare il potere. È come se fosse stato espropriato di sé, di una realtà che inerisce a sé. Casa sua ha a che fare con sé. Nella lingua francese c’è un’espressione che denomina la casa: chez moi. L’uomo viene pensato a partire da questa concreta possibilità di ritirarsi, dove può trovare rifugio e riposo. A partire da questa concreta possibilità, di essere a casa propria, l’uomo si scopre sempre più come essere nel mondo. Noi ritorniamo a casa per ritrovare noi stessi. È il luogo dove chiudere la porta e raccogliersi per lasciare fuori le intemperie della vita. I mali del mondo provengono, del resto, dall’incapacità di stare da soli nella propria stanza, ci ricorda Pascal, perché in fondo non si vuol pensare alla infelicità della condizione umana, questa è la ragione per cui allora ci si diverte178. Nella propria dimora, nella propria stanza, il soggetto esiste come un Io che si raccoglie: «Il soggetto che contempla un mondo, suppone dunque l’evento della dimora, il ritiro a partire dagli elementi, (cioè a partire del godimento immediato, ma già inquietato dall’indomani), il raccoglimento nell’intimità della casa»179. L’avventura, in questa dimensione, vissuta sia pure con i contorni di un viaggio pieno di rischi, è tuttavia confortata dal ritorno a casa. La carità può essere intesa come ritorno a casa, come nostalgia, non come uscita da sé. Come tutto quello che ci fa ritornare alla circolarità dell’io e al suo dominio. Un ritorno che si muove nella logica dell’inter-esse. La carità come un dare che si muove nella prospettiva del ricevere una ricompensa. 178 Cfr B. PASCAL, Pensée, in Œuvres complètes, Paris 1954, 1138-1139: «Quand je m’y suis mis quelques fois, à considérer les diverses agitations, des hommes, et les périls et les peines où ils s’exposent, dans la cour, dans la guerre, d’où naissent tant de querelles, des passions, d’entreprises hardies et souvent mauvaises, etc., j’ai découvert que tout le malheur des hommes vient d’une seule chose, qui est de ne savoir pas demeurer en repos, dans une chambre. […] Mais quand j’ai pensée de plus près, et qu’après avoir trouvé la cause de tous nos malheurs, j’ai trouvé qu’il y en a une bien effective, qui consiste dans le malheur naturel de notre condition faible e mortelle, et si misérable, que rien ne peut nous consoler, lorsque nous y pensons de près». 179 E. LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., 157.

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La carità che non attende altro che ricevere un contraccambio. L’uomo vive in questo fondamentale atteggiamento, affronta sacrifici anche inumani e immani, peripezie senza fine, ma con, nel cuore, il segreto di ricevere una ricompensa, un premio. Si ricerca, essenzialmente, la garanzia del ritorno a casa. La carità qui si capisce come ritorno a casa; è nostalgia per questo luogo in cui l’uomo è presso di sé, che non lascia mai il sé, essenziale per raccogliersi in sé e ritrovarsi nella propria intimità. In questa prospettiva ci sembrano significative le due metafore con le quali Z. Bauman cerca di delineare i tratti della vita, della cultura e della sensibilità dell’uomo postmoderno. Il turista e il vagabondo sono le metafore più appropriate che ci presentano l’uomo nel rapporto con il mondo di oggi. Per esempio il turista, come d’altra parte il vagabondo, sa che non rimarrà a lungo presso il luogo dove è arrivato. Il luogo con il quale stabilisce un rapporto è provvisorio e tuttavia egli lo struttura e lo organizza. Un luogo che pur non essendogli familiare, gli è però a portata di mano: «È la capacità estetica del turista. La sua curiosità, il suo bisogno di divertimento, il suo voler vivere, e l’attitudine a vivere, nuove, piacevoli e piacevolmente nuove esperienze — a possedere una libertà quasi totale di costruire lo spazio del suo mondo della vita; [...]. I turisti pagano per la loro libertà; il diritto di ignorare gli interessi e i sentimenti dei nativi, di tessere la loro propria rete di significati, lo ottengono compiendo una transazione commerciale»180. Il mondo con cui il turista entra in contatto esiste per questo, perché venga utilizzato; è posto alla sua mercé perché egli ne tragga il maggior piacere possibile; occorre trarre le migliori sensazioni, anche da quelle situazioni che appaiono ordinarie, quotidiane: «Quella che può essere […] la routine quotidiana per i nativi, è per il turista una serie di emozioni esotiche. I ristoranti con i loro piatti dai profumi strani; gli hotel con le loro cameriere abbigliate in modo strano; i monumenti dall’aspetto strano, testimonianze della storia degli altri; gli stessi rituali delle routine degli 180 Z. BAUMAN, Le sfide dell’etica, trad. it., Milano 1993, 245-246. C’è un grado di libertà che è legata ad una dimensione economica di possesso: «La libertà si accompagna alla stipula di un contratto, il grado di libertà dipende soltanto da quanto la si può pagare e, una volta acquistata, essa diventa un diritto che il turista può apertamente rivendicare, cercare di farsi riconoscere per legge e sperare che venga accordato e protetto. Come il vagabondo, il turista è extraterritoriale; ma, diversamente dal vagabondo vive la sua extraterritorialità come privilegio, come indipendenza, come diritto di essere libero, libero di scegliere; come autorizzazione a ristrutturare il mondo» (ibid., 246).

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altri, tutto attende docilmente che il turista ne sia attratto, vi presti attenzione, ne tragga piacere. Il mondo è l’ostrica del turista. Il mondo è lì per essere piacevolmente vissuto e quindi dotato di significato»181. Il mondo da prendere, da utilizzare piacevolmente, come si fa con un cibo; un mondo che alla fine si abbandona al proprio destino e di cui non si è responsabili. Gli incontri con gli abitanti del luogo non implicano, infatti, alcuna assunzione di responsabilità. Il turista incontra senza tuttavia incontrare veramente: «Come in una rappresentazione teatrale, i contatti più straordinari ed emozionanti sono protetti dalle quinte e dall’alzarsi e abbassarsi del sipario — nel tempo e nel luogo destinati alla ‘sospensione dell’assenza di fede’ — con la garanzia che non filtreranno e non si diffonderanno (a meno che non vengano amorevolmente custoditi, secondo la discrezione del turista, come avventure memorabili, come proprietà privata — e affidati, come avviene nella maggior parte dei casi, alla custodia della carta fotografica o, ancora meglio, alla incerta memoria di una cassetta cancellabile). Fisicamente vicina, spiritualmente remota; è questa la formula valida per entrambe le vite: quella del vagabondo e quella del turista»182. Uno dei tratti caratteristici del turista si rivela nel fatto che l’esperienza degli incontri fatti non si trasforma in prossimità. Sotto diversi aspetti, per un certo modo di vivere e percepire la realtà, diventa sempre più auspicabile che, per esempio, il turismo non venga praticato soltanto durante le vacanze, ma impegni la vita ordinaria, quotidiana. Turisti sempre e senza che ciò implichi assunzione di responsabilità: «Un turista sempre, durante le vacanze e nella routine quotidiana. Un turista ovunque, all’estero o in casa propria. Un turista nella società, un turista nella vita, libero di costruire il proprio spazio estetico e di ignorare impunemente quello morale. La vita come luogo del turista»183. La carità in tale contesto, nella sensibilità e nella cultura postmoderna, come va intesa? Ci può essere carità fuori dalla responsabilità 181

L. c. Il corsivo non è nel testo. L. c. Bauman conclude il ragionamento con una certa ironia riguardo alla metafora del turista, paradigma della condizione postmoderna: «Il fascino irresistibile di una tale vita deriva dalla promessa solenne che la vicinanza fisica non si trasformerà in prossimità. Soprattutto nel caso del turista, la garanzia è assoluta. L’esonero dal dovere morale è stato pagato in anticipo; il pacchetto turistico comprende la medicina per prevenire i rimorsi di coscienza, oltre alle pillole contro il mal d’aria» (ibid., 246-247). 183 Ibid., 249. 182

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personale? In tale dinamica di comprensione la carità riguarda tutti, oppure è affare di pochi? Sembra che la carità riguardi chi ha possibilità non solo economiche ma anche culturali. La carità senza prossimità è ancora carità? La carità senza responsabilità è carità? Ecco in quale contesto occorre ripensare la carità. Non solo ritornare a pensare la carità in senso nostalgico, ma pensare nuovamente, nel senso di diversamente, la carità. Pensare una carità altra.

3.2. Abramo In questo tentativo di ripensare la carità si innesta la figura di Abramo. Solitamente, però, questa figura è legata all’esperienza della fede. Abramo è padre nella fede secondo la scrittura. Questo è quanto emerge in modo emblematico e significativo nella lettera ai Romani 4 e nella lettera agli Ebrei 11. A questo punto è legittimo chiedersi: perché prendere come paradigma della carità la figura di Abramo, che più facilmente si accosterebbe alla fede? Egli è l’uomo che viaggia come Ulisse, tuttavia, egli va verso un luogo ignoto. Parte senza sapere dove andare. Lascia il paese di suo padre; lascia la casa per non ritornare. Il viaggio di Abramo è un viaggio senza ritorno, senza nostalgia del paese e della casa appena lasciati. Lascia, ma non ritorna indietro; egli si definisce in un movimento senza ritorno. La sua opera si va facendo in questo dinamismo. Il soggetto — secondo tale dinamismo — è tale in un continuo cammino esodale, per cui non si identifica con un luogo che gli appartiene o con quanto egli possiede. Un io che vive in perenne uscita. La sua identità è data dall’Altro. Abramo è l’uomo che accoglie. La sua identità gli viene da un Altro. Con la duplice valenza dell’Altro. Secondo Blanchot il viaggio di Abramo lascia intendere qual è la natura e la condizione dell’essere nomade: «Vattene fuori dal tuo paese, dal tuo parentado, e dalla casa di tuo padre, così le parole esodo, esilio, non hanno un senso negativo. Bisogna forse mettersi in cammino e vagare perché, in quanto esclusi dalla verità, siamo condannati all’esclusione che impedisce di avere fissa dimora? Questo errare non significherà piuttosto un nuovo rapporto col vero? Non sarà che questo movimento nomade (che include l’idea di divisione e di separazione) si afferma non come perenne privazione di una sede, ma come un modo autentico di risiedere, come un tipo di residenza che non leghi alla determinazione di un luogo né alla fissazione di una realtà già fondata, sicura e permanente?

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Come se la condizione sedentaria fosse necessariamente lo scopo di azione! Come se la verità stessa dovesse essere ad ogni costo sedentaria!»184. Abramo è colui che parte dunque senza aspirare al ritorno a casa. Egli è pronto alla smobilitazione sempre. Non cerca il controllo, il potere. La cifra del pensiero occidentale, come abbiamo visto, si manifesta nella figura di Ulisse che si sviluppa nell’orizzonte del sapere, vale a dire nella prospettiva di un annientamento dell’altro, della distruzione dell’altro e della sua alterità. L’altro è percepito come una minaccia che sconvolge l’ordine. Abramo nel suo viaggio va verso l’inedito, va verso una terra che non conosce. Il suo è un viaggio che non ha come orizzonte la conoscenza, in quanto si profila dinanzi a sé l’ignoto. Il suo è un viaggio senza sapere. Il suo partire non si sviluppa all’interno di una preoccupazione per la sua esistenza. La sua condizione è l’accoglimento di una ingiunzione che lo pone in una passività esistenziale, cioè come soggezione. La sua condizione non è uno sforzo di essere. Non si definisce nella consistenza di essere, non teme per la propria esistenza nella continua preoccupazione di sé. Egli si lascia interpellare dall’Altro; egli è assolutamente esposto all’Altro poiché gli lascia l’iniziativa, anche e soprattutto nel momento più doloroso della sua esistenza quando gli viene chiesto il sacrificio del figlio Isacco. L’Altro è la precedenza, viene sempre prima di me. L’Altro è irriducibilmente altro, è la trascendenza. È questo il riconoscimento della differenza, della distanza, vale a dire il fondamentale riconoscimento che siamo stati posti nell’essere, non ci siamo dati l’essere. La nostra identità, come il nostro essere, è posta da un altro, pertanto non si autopone. Una identità donata! Porre l’accento sul nostro io significa porre il problema della nostra origine. Abramo, quindi, ci riconduce, ci richiama al problema dell’origine della nostra soggettività: «Il sé stesso non è nato di sua propria iniziativa come si pretende nei giochi e nelle figure della coscienza in cammino verso l’unità dell’Idea, dove, coincidendo con se stesso, libero in quanto totalità che non lascia niente fuori e, così, pienamente ragionevole, esso si pone come termine sempre convertibile in relazione: coscienza di sé»185. Il se stesso non si è fatto da sé, ma è stato posto. Il se stesso, non essendo sorto per propria iniziativa, si accoglie come passività, da cui si evince l’idea stessa di creazione: «nella creazione, il chiamato ad essere 184 M. BLANCHOT, L’Infinito intrattenimento, trad. it., Torino 1977, 170. La condizione nomadica — secondo Blanchot — è la condizione dell’essere ebrei. 185 E. LEVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, cit., 132.

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risponde ad un appello che non ha potuto raggiungerlo, poiché, nato dal nulla, esso ha obbedito prima di intendere l’ordine. Così, nella creazione exnihilo — a meno che non sia puro non-senso — è pensata una passività che non può essere capovolta e assunta e, così, il sé come creatura è pensato in una passività ‘più passiva’ della passività della materia, cioè al di qua della virtuale coincidenza di un termine con se stesso. Il se-stesso deve essere pensato al di fuori di ogni coincidenza sostanziale di sé con sé»186. Abramo è la figura che mostra la sua identità in questa relazione di trascendenza, riconosce e accoglie quindi il primato dell’Altro. Nella carità l’altro viene sempre prima, così come viene prima nell’ordine della creazione. Ma cosa vuol dire partire senza tornare? Cosa significa partire senza sapere dove andare? Cosa comporta partire sempre, continuamente, incessantemente? Vuol dire pensare un io accogliente. Questo comporta che l’io si apra all’altro; l’altro che si mostra in particolare nella condizione dell’orfano, della vedova e del forestiero. Il pensiero va, allora, ancora ad Abramo che accoglie gli stranieri alle querce di Mamre. In questo apologo Dio appare ad Abramo contemporaneamente ai tre passanti. Abramo nel testo di Genesi 8,3 si rivolge ad uno tre angeli con il nome ‘Adonai’: «Adonai (Signore), se ho trovato grazia ai tuoi occhi, non passare davanti al tuo servitore. Dire Adonai a un angelo che, sotto forma umana, è per Abramo un passante sconosciuto, equivale veramente a pronunciare il Nome di Dio? Per uscire dalla difficoltà, un apologo. Dio sarebbe apparso ad Abramo contemporaneamente ai tre passanti. È a lui cha Abramo avrebbe detto: ‘Non passare, Adonai, davanti al tuo servitore’. Egli gli avrebbe detto: ‘Aspetta che riceva prima i tre viaggiatori’, poiché i viandanti, oppressi dal calore e dalla sete, passano davanti all’Eterno nostro Dio. La trascendenza di Dio è la sua stessa cancellazione, che però ci obbliga nei confronti degli uomini. Più alta della grandezza è l’umiltà»187. Dinanzi agli stranieri, che sembrano essere uno, Abramo si prostra, riconosce il loro primato. Alla preoccupazione per sé, allora, si sostituisce l’attenzione per l’altro, la cura per l’altro. La precedenza dell’Altro vuol dire essere responsabili dell’altro. La casa, la sua tenda, non è vissuta come il luogo in cui l’io controlla e domina esercitando il potere, ma uno spazio aperto. Abramo si rivolge allo Straniero chiamandolo «mio Signore». Gli 186 Ibid., 142. Si veda sopra quanto abbiamo detto a proposito della nozione di Sostituzione, cap. II, 5, 67ss. 187 E. LEVINAS, L’au-delà du verset, Paris 1982, 153-154.

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rivela il volto del Maestro che lo chiama alla bontà. La carità è sempre altrove. Perciò la carità sa solo lasciare; una carità senza sicurezze, senza protezioni o privilegi. Non è controllare un luogo, in cui l’io si capisce e si costruisce come un blocco monolitico, chiuso nella propria autosufficienza. È fare sempre più spazio all’altro in un percorso di continua espropriazione. L’io fa spazio solo se esce da sé. La carità è l’io che si espropria di sé. Occorre ripensare la carità in questo orizzonte dinamico di uscita permanente e incessante. L’esodo è la cifra della carità.

3.3. La carità in esodo La carità in esodo significa camminare in compagnia di Abramo. Una soggettività denucleata che ha il proprio centro fuori di sé, ecco quanto siamo chiamati a scorgere nella figura di Abramo. L’uomo che scopre sé in altro da sé. Il cammino esodale si presenta pertanto come verità dell’esistenza, come condizione umana che risponde ad una chiamata. La carità si spiega e si sviluppa in questo cammino esodale. L’esodo è il paradigma della carità. L’esodo, secondo questa accezione, è il dispiegamento della carità stessa in un cammino senza termine. «L’uscita non è intesa come il punto di partenza verso una patria diversa da quella dell’essere; è la condizione permanente di chi abbandona il logos greco, il luogo dell’identità, per camminare in compagnia di Abramo. Fuori dell’esser non c’è un’altra patria; c’è il cammino come nuova e insuperabile identità, c’è il nomadismo come verità dell’esistenza. Pensiero dell’esodo non è dunque soltanto esodo del pensiero, sua dislocazione su una terra diversa, ma suo occuparsi della condition humaine in quanto incessante continuo esodo»188.

188 A. RIZZI, Il pensiero neoebraico, in P.G. GRASSI (ed.), Filosofia della religione, Brescia 1988, 350. Questo esodo continuo è visto come la risposta ad una chiamata, non come un’erranza senza fine: «Il camminare senza fine — sottolinea l’autore — non è erranza in cerca di una irraggiungibile meta, come le tribù di Indios in cerca della ‘terra senza male’; è rispondere a una chiamata, aprirsi ad una esperienza, lasciarsi comandare da una richiesta che ha la debolezza di un’implorazione e la forza del più elevato imperativo: la richiesta che viene dall’Altro, dall’uomo traccia di Dio. E come la logica dell’identità e la storia dell’essere hanno la loro matrice culturale nella Grecia, così l’esodo verso l’altro getta le radici nel terreno della tradizione ebraica. Ulisse e Abramo non sono soltanto metafore mitologiche, sono le ascendenze culturali dell’Occidente. La ‘nuova via’ di Levinas non ha nulla della ricerca esotica; la migrazione che egli vuole è riscoperta di una sorgente nascosta,

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Uscire dall’io, di conseguenza dal suo potere; uscire dal primato dell’io. Ma che cos’è l’io? Questa è la domanda posta da Pascal in uno dei suoi Pensieri. Alla quale così risponde: «Un uomo si mette alla finestra per vedere i passanti: se passo di là, potrò dire che ci si sia messo per vedermi? No, perché non pensa a me particolarmente. Ma chi ama qualcuno per la sua bellezza, lo ama davvero? No: perché il vaiolo che ucciderà la bellezza, senza uccidere la persona, farà sì che egli sia per non amarlo più. E se qualcuno mi ama per la mia intelligenza, per la mia memoria, mi ama davvero? Me? No, perché posso perdere quelle qualità senza perdermi io stesso. Dov’è dunque quell’io, se non è nel corpo né nell’anima? E come amare il corpo o l’anima, se non per dette qualità, che però di certo non costituiscono l’io, perché sono periture? Infatti, si potrebbe amare la sostanza dell’anima d’una persona, astrattamente qualunque qualità ci fosse? Non si può e sarebbe ingiusto. Non si ama, dunque, mai nessuna persona, ma soltanto delle qualità. E dunque non ci si burli più di chi si fa onorare per delle cariche e degli uffici, perché non si ama nessuno, se non per delle qualità prese a prestito»189. Se l’io dice pertanto di amare una persona, questi l’ama perché dotata di bellezza, intelligenza o altre qualità che si vanno scoprendo in essa? E se nel tempo queste qualità svaniscono l’amerò ancora? Se non ci sono più ricchezza, potere, privilegi, vantaggi amerò ancora la persona? Marion commenta: «Supponiamo la migliore ipotesi: continuerò ad amare quest’altro senza la sua attuale bellezza, la sua attuale intelligenza, ecc., […]; in questo caso, in realtà poco verosimile, non potrò dire sempre che l’amo per se stesso, perché non disporrò più di alcun vissuto di coscienza che mi permette di identificarlo; in effetti, anche se io amo malgrado l’astrazione desertica di ogni vissuto e di ogni qualità accidentale, io non saprò più semplicemente chi io amo: per parlare in modo appropriato, io amerò nel vuoto»190. il suo uscire è anche un tornare: un tornare a quel libro — la Bibbia — che è, nella storia dell’Occidente, il grande testo della vita umana come esodo» (ibid., 350-351). 189 B. PASCAL, Pensée, cit., 306, 1165. Un io definito, in un altro pensiero, odioso, quando si fa il centro di tutto: «Le moi est haïssable: vous Miton, le couvres, vous ne l'ôtez pas pour cela; vous êtes danc toujours haïssable. Point, car en agissant, comme nous faisons, obbligeamment pour tout le monde, on n’a plus sujet de nous haïr. — Cela est vrai, si on ne haïssait dans le moi que le déplaisir qui nous en revient. Mais si je le hais parce qu’il est injuste, qu’il se fait centre du tout, je le haïrai toujours. En un mot, le moi a deux qualités: il est injuste en soi, en ce qu’il se fait centre de tout; il est incommode aux autres, en ce qu’il les veut asservir: car chaque moi est l’ennemi et voudrait être le tyran de tous les autres» (ibid., 136, 1126-1127). 190 J.L. MARION, Prolégomènes à la charité, Paris 1986, 96.

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La carità come esodo è un invito a lasciare ogni punto di riferimento; è un invito ad uscire da una identità autoreferenziale; è una chiamata ad incontrare l’altro in quanto altro. L’altro nella sua alterità. Scorgere questa alterità è porla nella prospettiva della invisibilità. Vale a dire, in quella ottica che non mira al possesso e al controllo, come si fa di un oggetto visto e preso di mira. Questo significa pensare un io in uscita permanente da sé, in esodo, per fare posto all’altro, non per trasformarlo in una parte di sé o di assumerlo in sé. Perché l’altro permanga nella sua alterità occorre lasciarlo essere altro e non rischiare di trasformarlo in sé, riducendolo ad oggetto. L’altro non va preso di mira, visto, oggettivato, ma lasciato nell’ordine dell’invisibile. Solo l’oggetto infatti è visibile. L’ingresso nella visibilità qualifica l’oggetto come oggetto. L’oggetto solo ha da essere visto. L’altro non si lascia ridurre alle categorie del visibile, quindi dell’oggettivabile. Per cui se si vuole che l’altro rimanga altro bisogna accoglierlo nella sua alterità. La carità non sospende l’alterità, ma al contrario l’approfondisce, la lascia emergere. La carità si lascia interpellare dall’alterità dell’altro, scava un’inquietudine. È un rinvio senza fine… La carità sgorga e dimora in questo rinvio senza fine; senza pause, senza quiete. Il buon Samaritano è la figura che più di tutte richiama questa dimensione. Ma egli è un eretico, uno scomunicato! Di lui si dice pure, nel vangelo, «che era in viaggio». Il suo viaggio è l’itinerario della prossimità. È l’immagine di colui che viene sollecitato ad una carità senza fine. Si prende cura, affida alla cura di un altro. Ha cura della cura… Una carità che non dispera mai dell’uomo, che, invece, pone fiducia nell’uomo; che ama senza tergiversare. È la prossimità di Dio stesso: Gesù Cristo che ama l’uomo così com’è. Il Buon Samaritano ci mostra qual è il nuovo decalogo: «Per comprendere meglio l’impostazione di quanto ora voglio mettere in rilievo, è bene che ognuno ricordi come si snoda il racconto evangelico, come avviene l’incontro tra l’imprevedibile Viaggiatore e l’infelice Agonizzante della strada; è bene che si segni l’incalzare di tutti i verbi. Queste le loro cadenze: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

lo vide: si mosse a pietà; si curvò su di lui; gli fasciò le ferite; gli versò olio e vino; lo caricò sul suo giumento; lo portò nell’albergo;

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8. si prese cura di lui; 9. pagò per lui; 10. ritornò indietro a pagare»191. La carità è senza fine. Di quale carità stiamo parlando? Di quella carità che raggiunge tutti, fino a raggiungere l’ultimo degli ultimi, il più estraneo e il più distante, che in questa prospettiva diventa il più importante La distanza ci pone nell’orizzonte dell’alterità originaria. Il raggiungimento del più distante si apre simultaneamente sia al dinamismo e alla generosità dell’amore gratuito, sia alla resistenza e alla rigidità dell’ingratitudine. È l’amore che promuove sempre, comunque e malgrado tutto: per questo chi ama è disposto a rischiare e a pagare di persona.

4. LA CARITÀ COME DIS-INTER-ESSE: DAL DONO ALL’UMILTÀ 4.1. Il dono La carità esiste in questo fondamentale dinamismo esodale, in perenne fuori uscita da sé. L’esodo rivela la natura stessa della carità. In conseguenza di ciò, guardando all’esperienza e al paradigma dell’esodo, la carità va pensata o ripensata in questo fondamentale movimento di uscita da sé: «La carità che si dona al di fuori di se stessa non si estingue in questo esodo, poiché ragionevolmente non esiste senza questa fuoriuscita. Per definizione infatti, la carità che non esce da sé non è caritatevole. Pertanto, se essa è autentica, non attende nulla in cambio del suo dono. Essa è generosa e gratuita; non richiede che il donato torni a essa»192. Se per un verso il dono rivela la natura stessa della carità per un altro verso il dono trae il suo significato più profondo dalla stessa carità. Occorre sempre risalire alla fonte, alla sorgente, che è la scaturigine di ogni senso; risalire al bene che è al di là dell’essere in un itinerario che va 191

D.M. TUROLDO, Il pastore innamorato, Padova 2002, 148. Turoldo sottolinea qui in particolare il tema della sostituzione. Cristo è colui che paga per tutti: «è lui che paga; e torna indietro a pagare. Crucifixus etiam pro nobis (crocifisso proprio per noi). È la legge della sostituzione: lui che si sostituisce a noi. E continua a farlo. Il conto è sempre pagato da chi più ama. Rispetto all’uomo è Dio che paga per sempre. Un Dio che è sempre in perdita» (ibid., 149). 192 P. GILBERT, Donare, in P. GILBERT – S. PETROSINO, Il dono, Genova 2001, 37.

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dal beneficiario del dono al dono stesso, dall’uomo a Dio. Dio è all’origine. È lui il principio. Dio è agape (1Gv 4,8.16). Da tale principio ne consegue che il beneficiario del dono è chiamato non solo a pensarsi in stato di cammino, ma anche a mettersi in condizione di recettività assoluta, nel senso che non può tenere per sé il dono ricevuto. Questa è l’inquietudine del beneficiario: mettere in circolo il dono. Non essendo l’uomo all’origine del dono, ciò significa che egli è posto nella condizione di relazione di dipendenza dall’origine, vale a dire che trae senso, valore, consistenza dall’origine. Non è l’uomo l’origine; ecco quanto gli è stato donato: l’inquietudine! Ogni uomo è dono ed è perciò donato. Accogliere l’appello, allora, vuol dire non tenere niente per sé. Ricevere il dono e riceversi come dono è un lasciar fluire e abbandonare il dono ossia lasciando andare il dono. Questo è il dinamismo sorgivo del dono che si moltiplica in dono: «Il dono può essere ricevuto solo se dona se stesso, altrimenti non meriterebbe più questo nome. Il bacino è colmato dalla cascata che gli sta sopra solo se si svuota ininterrottamente nel bacino che gli sta sotto. Solo l’abbandono di ciò che lo riempie permette che il flusso continui a colmarlo»193. Si riceve veramente il dono solo abbandonandolo. Il dono rivela la sua natura di dono in quanto si dona incessantemente. Il dono è dono in quanto fluisce continuamente. Marion questo movimento lo chiama ridondanza del dono: «Il dono è ricevuto solo per essere, nuovamente donato. Il beneficiario, d’altra parte, non continua a far circolare il dono per semplice altruismo, come se gli sembrasse cosa giusta, ben intenzionata, e persino caritativo, il condividerlo con altri. Il beneficiario deve garantire quella che definiamo la ridondanza del dono, rimettendolo in circolo appena lo ha ricevuto»194. Il dono resta dono se lo si lascia permanere nella donazione, se lo si lascia essere dono. Il dono si riceve solo donandolo. Nella donazione del dono si coglie e si accoglie il dono: «L’uomo riceve il dono solo accogliendo l’atto di donare, cioè ancora donando a sua volta. Ricevere il dono e donarlo si confondono in uno solo, identica operazione: la ridondanza. Solo il dono del dono può ricevere il dono, senza appropriarsene e distruggerlo, in un mero possesso»195.

193 194 195

J.L. MARION, L’idolo e la distanza, trad. it., Milano 1979, 168. L. c. L. c.

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La carità in questa luce si manifesta autenticamente e pienamente nella ridondanza del dono. Non è da intendere come una circolarità che rinchiude dentro un rapporto esclusivo, ma si sviluppa in un dinamismo di tipo inclusivo, che dischiude nuovi orizzonti, nuovi rapporti. La carità, intesa come ridondanza del dono, si apre alla scoperta di nuove relazioni, non è dunque il possesso che circoscrive il dono devitalizzandolo, ma si esibisce nella diffusione, nella dilatazione della bontà che si dona: siamo dinanzi ad una sempre più ricca espressione della carità che non conosce la staticità, il fissismo, la rigidità. Non c’è esclusione nella carità come dono. Nel dinamismo della ridondanza del dono gli altri non sono esclusi, ma al contrario sono vitalmente e progressivamente inclusi. La carità è sempre inclusiva mai esclusiva. Dentro una tale prospettiva che lascia la carità raggiungerci e raggiungere, il bene non si divide, ma si moltiplica, in quanto Bonum est difussivum sui. La carità si abbandona nel dono poiché non tiene nulla per sé. La carità si manifesta, pertanto, in questo dinamismo che è il dono; dono ridondante che non va alla ricerca di una ricompensa o di vantaggio. Il dono senza ritorno: un dono a perdere. La carità è senza reciprocità. Intendendo per reciprocità la simmetricità del rapporto in cui si dona se si riceve. È questa la condizione del rapporto simmetrico in cui l’altro è tale se risponde a un riconoscimento dell’io. La carità è tale, ovvero gratuita, se si inscrive, invece, in un rapporto a-simmetrico, cioè quando raggiunge l’altro nella sua assoluta alterità; è tale quando raggiunge il nemico, l’ingrato, l’escluso, il reietto. La carità crea, promuove, differenza non indifferenza, non uniforma a sé, non omologa; non solo lascia essere altro l’altro, ma lo fa essere sempre più altro, cioè sempre più se stesso. In questa logica, secondo il cammino che abbiamo intrapreso, la carità non è da intendere come attività, che si traduce in cose da fare, da mettere in atto, ma si offre come passività. La carità è un far posto, affermando il primato dell’altro. «La carità che non è attenta alla verità delle relazioni umane e alla ‘differanza’, una carità ‘indiscreta’ (che cioè non conosce alcun ‘discernimento’), rischia di non misurare e contenere le potenze d’azione che stanno in noi, ma una vitalità puramente naturale, potente come la natura. Dobbiamo capovolgere le forze, porre l’uomo, la persona e la sua differenza, prima della natura che unisce tutto nell’indifferenza. La vitalità naturale dei forti e potenti invade spontaneamente il campo dei deboli e dei senza mezzi. Invece, la vitalità umana di cui si fa esperienza nell’amicizia, nelle relazioni umane orizzontali che coinvolgono

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le libertà uguali e diverse, questa vitalità è creatrice di differenze, e perciò sta all’origine della storia umana, della generazione e della figliazione»196. L’altro è sempre prima di me, io sono arrivato tardi. Siamo sempre in ritardo rispetto all’altro. La carità è il dinamismo che capisce e ripensa sempre nuovamente la soggettività in termini di passività. L’Io non si afferma imponendosi, in termini di potere, ma è invece colui che accoglie e si accoglie in quanto capace di rispondere. Nella carità l’io risponde non solo lasciando il posto, ma anche prendendo il posto, fino alla sostituzione. La carità prende il posto dell’altro; paga per tutti e per sempre. È questa la logica dell’offerta e del sacrificio.

4.2. L’umiltà Il dono rivela la carità. Ma il dono è grazia. Il cammino ci conduce fino alla scaturigine della carità, al dono per eccellenza; alla pura gratuità: a Dio. «Dio è gratuità pura: mi comunica il suo essere di gratuità. In lui non c’è traccia di calcolo: mi offre — è il senso dell’iniziativa creatrice — di partecipare alla mia vita senza calcoli. È a questo vertice di se stesso che l’uomo è uomo»197. La grazia germina dove vi è assenza di calcolo, ove non c’è ricerca di reciprocità. La carità nella sua scaturigine è incondizionata. La carità in Dio è umiltà, non reclama nulla per sé. È il dono assoluto: «L’umiltà è l’aspetto più radicale dell’Amore»198. La carità è discensiva. Si capisce nell’ordine chenotico. La kenosi rivela quindi il dinamismo stesso della carità. L’agape è agape nella misura in cui scende, tende verso il basso. La carità si curva abbassandosi: «Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma svuotò se stesso assumendo la condizione di servo» (Fil 2,6-7). Al momento di eccedenza corrisponde un momento di discesa. La carità lascia intravedere un’eccedenza che esce da sé per svilupparsi e diffondersi in un movimento di discesa. Il dono nella sua pienezza e generosità di dono si trasforma in abbandono. La carità non è dunque imposizione, non può essere pensata in termini di potere. La carità non grida, non alza il dono. La carità come 196 197 198

P. GILBERT, Donare, cit., 46-47. F. VARILLON, L’umiltà di Dio, trad. it., Magnano (BI) 1999, 14. Ibid., 60.

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umiltà si esprime nella discrezione. Non si mostra arrogante o presuntuosa. Non si gonfia, ma è, invece, esposta, debole; è in balìa dell’altro. Non cerca il proprio interesse. La carità è umiltà. Lascia venire alla luce il bene che germina sempre nel cuore dell’altro. Umile e silenziosa, la carità parla facendo spazio, non cerca il clamore, il chiasso, il consenso. La carità è umile perché non osa osare, non sa dove posare il capo; l’umiltà infatti si mostra nascondendosi. È il «manifestarsi come umile alleato del vinto, del povero, del perseguitato — […] non rientrare nell’ordine. In questa disfatta, in questa timidezza che non osa osare, con questa sollecitazione che non ha la sfacciataggine di sollecitare e che è la non-audacia stessa, con questa sollecitazione di mendicante e di senza patria che non ha dove posare il capo — alla mercé del sì o del no di colui che lo accoglie — l’umiltà scombina in maniera assoluta; non è del mondo. L’umiltà e la povertà sono un modo di stare nell’essere — un modo ontologico (o meontologico) — e non una condizione sociale. Presentarsi in questa povertà di esiliato, significa interrompere la continuità dell’universo. Aprire l’immanenza senza ordinarvisi»199. La carità come umiltà non umilia, ma al contrario esalta, mette in luce, fa venire alla luce, promuove. La carità che si manifesta nella sua autenticità non umilia. La profondità dell’amore è umiltà: «L’amore è povertà, dipendenza, umiltà»200. Dio ama in questo modo: ritraendosi. Si ama non guardando dall’alto in basso, ma distogliendo lo sguardo, abbassando gli occhi. L’amore di Dio è condiscendente, si curva fino all’annullamento di sé: «Dio è immensamente grande, potente. Ma la sua grandezza consiste nel potere tutto ciò che può l’amore, fino all’annullamento di sé nell’umiltà dello sguardo»201. Questo dinamismo della carità che come umiltà tende verso il basso dice la specificità del cristianesimo. Non siamo stati noi ad amare per primi. La precedenza appartiene 199

E. LEVINAS, Tra noi, trad. it., Milano 1998, 87-88. F. VARILLON, L’umiltà di Dio, cit., 65. «L’amante dice all’amato: ‘Tu sei la mia gioia’. È un’affermazione di povertà: senza di te sono povero di gioia. Oppure: ‘Tu sei tutto per me: è l’affermazione del mio niente al di fuori di te. Amare è volere essere attraverso l’altro e per l’altro. Attraverso l’altro: è accoglienza. Per l’altro: è il dono. Entrambi gli aspetti sono di povertà» (l. c.). 201 Ibid., 67. L’Autore continua dicendo che: «In altri termini, Dio è tale che la sua ricchezza, la sua libertà, la sua potenza — ricchezza d’amore, libertà d’amore, potenza d’amore — non possono essere e di fatto non sono tradotte, espresse, rivelate se non attraverso la povertà, la dipendenza e l’umiltà di Gesù Cristo» (l. c.). 200

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all’agape. L’amore precede sempre, previene sempre. «Questo tendere verso il basso, verso la terra (humilis) è squisitamente cristiano; esso è pur con accenti diversi, il ruolo sia degli sposati come di quelli che non lo sono, sia dei cristiani attivi come di quelli contemplativi; esso è il grandioso compimento del movimento biblico verso la conquista, la compenetrazione missionaria del mondo, ed è il compimento ancor più grandioso di ogni movimento umano per la civilizzazione del mondo in nome di Dio. Ma il granello di frumento cristiano diventa capace di dar forma solamente se non si rinchiude in una forma speciale, illusoria, che vive accanto ed accessoriamente alle altre forme del mondo e che si autocondanna alla sterilità, ma se, seguendo l’esempio di Gesù, fa rinuncia di sé e sacrifica il suo carattere di forma speciale, senza lasciarsi turbare dall’angoscia di questo dover sortire da sé e tuffarsi ed essere tuffata nel mondo. Perché per il mondo solo l’amore e credibile»202. La carità come umiltà non mira ad esibirsi, nel senso di un puro apparire o di un puro mostrarsi di carattere spettacolare, ma al contrario è un ritrarsi. L’umiltà fa essere l’altro altro. L’umiltà costituisce l’altro nella sua identità. La carità come umiltà è creatrice di libertà: «Dio solo rispetta pienamente la libertà dell’uomo. Egli la crea: non per pietrificarla o violarla. È il motivo per cui non grida mai né impone. Suggerisce, propone, invita. Non dice: ‘Io voglio’, ma: ‘Se vuoi…’. Espressioni come i comandamenti di Dio, ‘volontà di Dio, devono essere accolte con intelligenza, comprese secondo l’amore. Dio non rimprovera: lascia questa occupazione alla nostra coscienza. ‘Egli è più grande del nostro cuore’ (1Gv 3,20). Rimane nascosto per non essere irresistibile; la sua invisibilità è pudore. Non vuole che possiamo ‘provarlo’ a tal punto da costringere la nostra ragione»203. Dio si ritrae sia nella creazione che nella redenzione. Il suo amore agapico, facendo essere, dona ogni creatura a se stessa, lasciando che ogni essere sia in se stesso una identità, il che vuol dire una alterità. Dio ama mettendosi da parte. L’alterità così scaturisce dalla creazione non come un prolungamento dell’essere di Dio, non come un atto di ostentazione o di superiorità, ma come un atto di profonda umiltà.

202 203

H.U. VON BALTHASAR, Solo l’amore è credibile, trad. it., Roma 1977, 136. F. VARILLON, L’umiltà di Dio, cit., 87-88.

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4.3. Dis-inter-esse Il percorso fin qui tracciato ci ha condotti al riconoscimento del primato della carità in quel dinamismo di eccedenza, di sovrabbondanza, che esce da sé per sottrarsi alla logica dell’avere e del potere. La carità non si impone all’altro dominandolo o asservendolo come un puro oggetto da manipolare a piacimento. La carità è pre-condizione della carità stessa. Dalla carità nasce la carità in un percorso di gratuità infinita: la carità non solo non si vanta e non si gonfia, ma non cerca il proprio interesse (cfr 1Cor 13,4-5). È l’orizzonte del dis-inter-esse. La carità è la condizione del nostro essere dis-inter-esse; un essere che non pensa di perseverare o di conservare il proprio essere. L’umano dell’uomo viene pensato a partire dalla realtà dell’essere «che si disfa della sua condizione d’essere: il disinter-esse […]. La condizione ontologica si disfa o è disfatta, nella condizione o in condizione umana. Essere umano significa: vivere come se non si fosse un essere tra gli esseri. Come se per la spiritualità umana si rovesciassero le categorie dell’essere in un ‘altrimenti che essere’. Non soltanto un ‘essere altrimenti’; essere altrimenti è ancora essere. L’altrimenti che essere, in verità, non ha verbo che potrebbe designare l’evento della sua in-quietudine, del suo dis-inter-esse, della messa-in-questione di questo essere — o di questo esse — dell’essente»204. Vivere come se non fosse un essere, per l’uomo significa capire se stesso nel dinamismo della bontà. La carità è bontà. È la bontà che dona al soggetto di essere soggetto. È meglio che essere! L’uomo è chiamato dall’Amore ad amare. È capace di amare perché generato dall’amore e nell’amore. Non siamo stati noi ad amare per primi, ma è Dio che ci ha amati per primo. Dio è agape (1Gv 4,8.16). La pienezza di essere consiste nella carità. Tutto quello che non ha la carità come origine e fondamento assume i contorni dell’apparenza, dell’effimero. Noi raggiungiamo la realtà in profondità, il senso della vita nella carità. «L’unico oggetto della Scrittura è la carità» (Pascal). Dio è il fondamento di ogni amore: «L’uomo non ama per primo: prendendo coscienza di sé egli prende coscienza che il suo stesso io gli è donato e che è chiamato a ricreare liberamente il dono d’amore che riceve, la relazione stessa che lo fa essere. Un tale riconoscimento si sostanzia in una varietà di forme e di modi, che vanno dalla gratitudine gioiosa, all’abbandono fiducioso, 204

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E. LEVINAS, Etica e Infinito, cit., 114-115.


all’ascolto responsabile, ad un’attiva dedizione al bene; si tratta delle molteplici forme della carità, cioè dall’amore di Dio come di ciò che si ha di più caro, amore in cui trova proprio inveramento l’amore degli altri e lo stesso amore di sé. Quest’ultimo esce dalla secche di un’autolimitazione egoistica in quanto diviene un amarsi nel proprio principio ed in esso diviene amore per tutto l’essere»205. Questo fondamento costituisce il nostro essere come dis-inter-esse; il nostro essere è dono; è gratuità. Accogliersi nella prospettiva della gratuità e del dono significa pensare altrimenti la nostra condizione umana; è lasciare venir fuori la nostra identità più profonda. Ora, ripensare il nostro essere in termini di dono, in termini di gratuità, è il frutto della carità stessa. La gratuità della carità ci fa responsabili, di conseguenza capaci di rispondere. Si risponde alla carità con la carità. La risposta alla carità è ancora carità, cioè dono. La risposta è data nella gratuità, è essa stessa gratuita: «La risposta cui l’uomo è chiamato è in definitiva una risposta d’amore all’Amore creante che lo pone nell’essere: una risposta che, pur nella limitatezza delle possibilità umane e delle simbolizzazioni oggettive cui l’uomo riesce a pervenire, si fa a sua volta creativa, rendendo l’uomo in certa misura partecipe della vita stessa dell’Essere assoluto»206. Chi ama veramente è, e rimane, nell’amore; questi è generato da Dio. Assume la stessa prospettiva di Dio. Ama come ama Dio, cioè di un amore non possessivo, non egoistico, disinteressato. L’amore agapico è un amore liberante, che come tale crea differenze e quindi personalizza facendo sempre essere se stessi. È questo il vero amore creativo. Un amore sempre pronto a rispondere. Ripensare la Carità vuol dire, allora, collocarsi in tale prospettiva: amare del suo stesso Amore. Lasciar passare il suo Amore perché raggiunga ogni creatura: «Chi è amato ha la certezza di essere amato di un amore unico al mondo. Ma si può amare come si deve un solo essere solo se si amano come si deve tutti gli altri. L’amore che io ho per tutti sostiene e moltiplica l’amore che io ho per ciascuno invece di disperderlo. Così, ogni amore d’esclusione è un furto, non solo nei confronti degli altri esseri, ma anche nei confronti di colui che si ama»207. 205 R. NEBULONI, Amore e morale, Roma 1992, 102-103. L’Autore ricorda che Caritas deriva dal latino carus che si traduce con diletto, amato, e anche con raro prezioso. 206 Ibid., 105. Secondo un’argomentazione classica che tiene presente il principio creazionistico. 207 L. LAVELLE, La conscience de soi, Country 1993, 171.

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La carità non cerca il suo interesse, non si chiude in se stessa, ma si apre in un percorso senza fine perché non avrà fine. Non si lascia definire in termini di tornaconto interessato. La carità non tiene niente per sé. Questa è la logica della consegna che rivela un amore senza concupiscenza. Questa carità raggiunge tutti e ognuno senza esclusioni, non crea marginalità e rifiuto. Il dinamismo della carità disinteressata include sempre, non esclude mai nessuno. La carità si realizza fino in fondo non mettendo schermi o barriere, ma lasciandola fluire. La risposta alla carità avviene nella passività non come inerzia o pigrizia, ma come accoglienza attiva di un dono da condividere con la consapevolezza di non tenere nulla per sé. Si accede a questa dimensione della carità nell’oblazione di sé. Ripensare la carità, meditare, vuol dire accoglierla. Ripensarla comporta, certo, una risposta che si incarni concretamente in un’offerta disinteressata. Ripensare sempre oltre, ossia dentro quel dinamismo che conduce nell’eccedenza di senso, in una saggezza dell’amore al servizio dell’amore.

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CONCLUSIONE

Essere come dis-inter-esse. Abbandonare la prospettiva classica del pensare ha significato rimaner afferrati, per lasciarci condurre ed accompagnare, da un modo di pensare altrimenti. La dimensione di alterità ci ha permesso di posizionarci in questa ottica. Un punto focale da cui riconsiderare tutto, che ci conduce ad una sintesi nuova e altra. Più che una fusione o un superamento dialettico è il rinvio ad altro. Il tema dell’alterità, pertanto, più che costituire un momento di un processo è la radice del processo stesso. L’itinerario metafisico ha nell’alterità il momento costitutivo del suo pensare altrimenti, a cui attingere per lasciar emergere la stessa natura e le radici del pensare. Il pensare non trova in se stesso le proprie ragioni, ma in altro. L’al di là del pensare per pensare. La metafisica è sempre altro, è l’Altro. Il principio alterità non solo per pensare ma anche per essere. Essere altro e l’essere dell’altro è la messa in questione dell’identità, ossia del pensiero che si chiude nel sapere, in quell’orizzonte di appropriazione autoreferenziale e totalitario che mira a negare e a cancellare ogni alterità. Abbiamo voluto pensare l’identità non a partire dall’identità stessa, ma dall’alterità. Un cambio di prospettiva non per annullare l’identità, ma al contrario per ripensarla. Una identità altra! Una identità che non si afferma come chiusura autosufficiente e autofondante. Una identità che non si impone come possesso, ma si offre come dono. L’identità donata che si dona si lascia pensare a partire dall’altro. Lo scenario di alterità che abbiamo voluto presentare, in questo breve saggio, non ha la pretesa di dire tutto sulla problematica, ma tende a cogliere una istanza che il nostro tempo avverte in modo pressante e singolare. La difesa della propria identità minacciata da altre identità sembra contraddistinguere in particolare il mondo occidentale, il quale per questo motivo rischia di lasciarsi indurre nella tentazione di definirsi in termini di contrapposizione. La presenza ingombrante e minacciosa che proviene dalle altre culture, dalle altre religioni, pone non solo il grave problema di una convivenza pacifica tra i popoli, ma mette in evidenza anche la fatica personale di ciascuno a vivere nella esistenza concreta di ogni giorno rapporti interpersonali pacifici e pacificanti. Pensare l’essere a partire dall’altrimenti che essere vuol dire non dimenticare, certamente, la prima evidenza che esiste qualcosa, attraverso

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l’esperienza immediata del proprio corpo che ci colloca nell’essere, nella condizione di essere. L’essere non un puro oggetto ma un soggetto corporeo che si dona. Un corpo dato che si dona! È l’essere che non si ferma in sé e non trattiene sé in sé, ma che invoca una alterità. Un legame che si apre alla fiducia e alla prossimità abbandonando la preoccupazione di sé e la paura. Una vita responsabile si consegna nel farsi prossimo. La soggettività pensata come un essere per l’altro, non un assoluto per sé. L’altro non solo mi guarda, ma innanzitutto mi riguarda. Io sono responsabile dell’altro, questo è il significato di un essere per l’altro. L’essere per l’altro, ossia l’essere responsabili, ci pone nella condizione di ripensare l’identità. L’altro è la prospettiva da cui guardare se stessi, la realtà, la vita e il suo senso. Un io non più centrato in se stesso, ma de-centrato. Il centro e il nucleo di sé sono in altro da sé. L’io quindi ritrova sempre più se stesso quanto più esce da se stesso. Un io in esodo. L’essere viene pensato nella logica dell’apertura e dell’espansione non nella pretesa dello sforzo e della persistenza di essere. Un essere che si disfa della sua condizione di essere, che si scopre e si accoglie come disinter-esse. L’essere non più chiuso in se stesso che guarda egoisticamente a sé, ma un essere aperto. Non un essere in difesa, ma un essere vulnerabile, passivo, esposto che si appropria di sé nella consegna di sé. La carità è non solo il nome dell’essere, ma la sua natura, la sua identità. L’essere come disinter-esse. Ciò che è si dona, si consegna, come bontà. Nella relazione intersoggettiva si incontra un essere che si dona. La carità è il cuore delle identità altre, che nel rapporto intersoggettivo li pone nella condizione di incontrarsi riconoscendosi nelle loro alterità. È in seno alla relazione intersoggettiva che si apre lo spazio per una relazione altra; una relazione che non mira all’appropriazione, da cui scaturisce non una brama di possesso, teso ad annullare l’altro e la relazione stessa. Nell’inter, nella relazione, si approfondisce una distanza che non cede alla logica della lotta e della contrapposizione. La relazione che vede l’altro nella sua alterità non esercita nessuno tipo di potere. La carità è la condizione di possibilità di essere come dis-inter-esse. Una identità che si consegna senza pensare ad un utile contraccambio. Il percorso della carità non lascia quieto l’uomo che viene interpellato dal volto dell’indifeso, dell’emarginato, di colui il quale non ha alcuna considerazione umana, che non conta nulla. L’uomo non ama per primo, è amato. La logica dell’amore si nutre di questa precedenza preveniente. Si ama perché amati. Il dinamismo sovrabbondante della carità è il senso e il

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fondamento di cui c’è bisogno nell’era della ricerca dell’effimero, che è anche epoca di smarrimento e di fragilità. La carità non si lascia rinchiudere nella logica del do ut des, logica in cui l’amore non solo perde il dinamismo, ma anche la sua ricchezza e la sua vitalità. L’amore si nutre di generosa sovrabbondanza e di eccedenza. La misura dell’amore è la sua profondità e la sua inesauribilità. È la carità che pone nella condizione di essere dis-inter-esse, che scardina ogni prospettiva di appropriazione, di difesa e di potere. La carità non esercitando nessun tipo di potere, ama senza riserve; nella sua debolezza è alla mercé dell’altro, della sua libertà, del suo rifiuto e della sua accettazione, lascia essere l’altro altro. La Carità autentica genera carità. Si ama perché generati dall’Amore nella sua assoluta gratuità. Dentro questo fondamentale orizzonte di senso si ama senza sapere di amare: questa è la sua ricompensa!

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BIBLIOGRAFIA

Questa bibliografia si riferisce alle sole opere citate nelle note di questo volume.

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INDICE DEI NOMI Abele 49 Abramo 62, 91, 96, 97, 98, 99 Agostino (s.) 79 Archimede 13 Aristofane 39 Aristotele 26, 80, 83

Hello E. 38 Henry M. 10, 17, 31, 46 Heschel A. 34 Hobbes T. 53, 89 Husserl E. 16, 17, 19, 20, 26, 27, 29, 30, 31

Bacone F. 82 Balthasar H.U. von 107 Bauman Z. 94, 95 Benedetto XVI 78 Blanchot M. 96, 97 Bonhoeffer D. 52, 63, 64, 71, 72, 73 Buber M. 57, 58

Isacco 97

Caino 49 Cartesio (vd. Descartes R.) Casini L. 11, 12, 13 Cavarero A. 59 Circe 91 Coreth E. 12, 13, 34

Lacroix X. 38, 40 Lavelle L. 109 Levinas E. 16, 35, 36, 39, 41, 42, 43, 44, 45, 49, 65, 66, 67, 68, 69, 70, 71, 73, 74, 75, 80, 81, 83, 85, 86, 87, 88, 90, 91, 92, 93, 97, 98, 99, 106, 108 Lipps Th. 30

de Certeau M. 61 Derrida J. 75 Descartes R. 10, 11, 13, 14, 15 Di Sante C. 59 Dostoevskij F. 73, 90 Ecuba 69 Feuerbach L. 13 Galilei G. 9, 10 Gentiloni F. 91 Gevaert J. 40 Gilbert P. 102, 105 Giovanni Paolo II 78 Girard R. 50 Grassi P.G. 99 Hegel G.W.F. 12, 84, 90, 91 Heidegger M. 14, 18, 19, 21, 22, 23, 91

Jaspers K. 14, 24 Jonas H. 50, 51, 53, 54 Kant I. 21, 53 Kierkegaard S. 21

Madinier G. 25 Maine de Biran F.-P.-G. 17, 25 Mancini R. 89, 90 Manicardi L. 47 Marcel G, 14, 15, 16, 18, 21, 23, 25 Marion J.L. 17, 40, 79, 100, 103 Merleau-Ponty M. 17, 19, 28 Mounier E. 25, 58, 63, 86 Narciso 85, 86 Nebuloni R. 109 Nietzsche F. 13 Paoli A. 68 Parmenide 58 Pascal B. 93, 100, 108 Penelope 91 Peperzak A. 80 Perone U. 25

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Petrosino S. 102 Platone 26, 39, 90 Plotino 91 Ploudre S. 67 PoiriĂŠ F. 75 Prini P. 10, 15, 16, 21, 23, 24 Protagora 14 Reale G. 26 Rigobello A. 26 Rizzi A. 92, 99 Rosenzweig F. 59, 91 Rosmini A. 26 Sartre J.P. 52 Schopenhauer A. 13 Selvaggi F. 20, 23, 27 Spinoza B. 12 Stein E. 22, 29, 32, 33 Terruwe A. 41 Turoldo D.M. 102 Ulisse 91, 92, 93, 96, 97, 99 Vanier J. 55, 60 Varillon F. 105, 106, 107 Zarathustra 24

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INDICE INTRODUZIONE

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CAPITOLO I IL MIO CORPO E L’ALTRUI CORPO: L’INTERSOGGETTIVITÀ . . . . . 1. PREMESSA . . . . . . 2. IL MIO CORPO 2.1. La distinzione tra Körper e Leib . . 2.2. Il mio essere nel mondo . . . 2.3. La finitudine dell’esistenza . . . . . . . 3. L’ALTRUI CORPO . 3.1. Non esiste un mondo solo per me . . 3.2. La risonanza su di me del corpo altrui: l’empatia 3.3. Il volto dell’altro: l’identità . . . 3.4. La carezza: l’eros . . . . 3.5. La maternità . . . . . . . . . 4. UN CORPO DONATO .

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7 7 11 11 16 19 23 23 27 32 36 40 43

CAPITOLO II SONO FORSE IO RESPONSABILE DI MIO FRATELLO? DALLA PAURA ALLA PROSSIMITÀ . . . . . . 1. PREMESSA . . . 2. USCIRE DALLA CONFLITTUALITÀ 3. L’UNO CONTRO L’ALTRO: LA VITA MINACCIATA 4. L’UNO CON L’ALTRO: METTERSI ACCANTO . 5. L’UNO PER L’ALTRO: L’ESSERE RESPONSABILE . . . . 6. IL BENE .

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47 47 48 50 58 63 72

CAPITOLO III RIPENSARE LA CARITÀ . . . . . . . . . . . . 1. PREMESSA . 2. LA CARITÀ COME DESIDERIO: DAL BISOGNO ALLA GRATUITÀ . 2.1. Sapere . . . . . . 2.2. Il primato dell’Io: il narcisismo . . . 2.3. Il Desiderio . . . . . . 3. LA CARITÀ COME ESODO: DALLA NOSTALGIA ALL’ ESODALITÀ . 3.1. Ulisse . . . . . . 3.2. Abramo . . . . . . 3.3. La carità in esodo . . . . . . 4. LA CARITÀ COME DIS-INTER-ESSE: DAL DONO ALL’UMILTÀ 4.1. Il dono . . . . . . 4.2. L’umiltà . . . . . . 4.3. Dis-inter-esse . . . . .

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75 75 78 78 83 86 89 89 94 97 100 100 103 106

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CONCLUSIONE

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BIBLIOGRAFIA

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INDICE DEI NOMI

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