Documenti e studi 13

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Francesco Brancato, sacerdote della diocesi di Caltagirone, è nato nel 1971. È stato ordinato presbitero nel ’96 a conclusione della sua formazione teologica avvenuta presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Successivamente ha conseguito la licenza in Teologia Dogmatica e quindi il Dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma. Attualmente insegna nell’Istituto Superiore di Scienze Religiose “I. Marcinò” di Caltagirone e presso lo Studio Teologico S. Paolo di Catania. Collabora con alcune riviste teologiche ed ha pubblicato articoli e studi di approfondimento su questioni particolari di escatologia, tra cui vanno ricordati: Verso il rinnovamento del trattato di escatologia. Studio di escatologia cattolica dal preconcilio ad oggi, in Sacra Doctrina 2 (2002) numero monografico; La questione della morte nella teologia contemporanea. Teologia e Teologi, Documenti e Studi di Synaxis 11, Giunti, Firenze 2005.

FRANCESCO BRANCATO

Lo scopo di questo studio, arricchito dalla prefazione del segretario particolare di Giovanni Paolo II, Mons. Mieczyslaw Mokrzycki, che lo ha assistito per molti anni e che gli è stato accanto anche negli ultimi istanti di vita, è quello di cogliere il significato alto e sublime della lezione di vita e della testimonianza di fede e speranza che questo Servo di Dio ha consegnato al mondo intero con la sua morte straordinaria, l’ultima chiamata, che ha suggellato la sua esistenza terrena: Totus Tuus.

FRANCESCO BRANCATO

“L’ULTIMA CHIAMATA”. GIOVANNI PAOLO II E LA MORTE

Il libro prendere in considerazione il prezioso e suggestivo contributo che Giovanni Paolo II, uomo e pontefice, ci ha lasciato con la sua riflessione sulla questione umana e cristiana della morte. Una morte compresa come risposta radicale ad una chiamata ancora più radicale che Dio rivolge all’uomo. Tutta l’esistenza di Papa Wojtyła è stata segnata e caratterizzata dal suo personale, incondizionato e generoso “eccomi” declinato nel corso della sua vita, in risposta all’invito che Dio gli aveva più volte indirizzato perché si incamminasse, pellegrino dell’Assoluto, dietro al suo Signore e Maestro. La morte è stata per Giovanni Paolo II l’ultima tappa di questa sequela, che lo ha condotto a conformarsi attraverso la sofferenza a Cristo; è stata il suo ultimo atto di "magistero autentico" a vantaggio della Chiesa e del mondo.

“L’ULTIMA CHIAMATA” GIOVANNI PAOLO II E LA MORTE

prefazione di Mons. MIECZYSLAW MOKRZYCKI Pubblicazione realizzata con il contributo della Regione Siciliana, Assessorato Beni Culturali, Ambientali e Pubblica Istruzione

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€ 12,50

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS 13


DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS

Pubblicazioni dello Studio Teologico S. Paolo – Catania www.studiosanpaolo.it www.giunti.it © 2006 Studio Teologico S. Paolo, Catania © 2006 Giunti Progetti Educativi, Firenze Prima edizione: aprile 2006 Ristampa 6 5 4 3 2 1 0

Anno 2010 2009 2008 2007 2006

Stampato presso Giunti Industrie Grafiche S.p.A. – Stabilimento di Prato


FRANCESCO BRANCATO

“L’ULTIMA CHIAMATA”. GIOVANNI PAOLO II E LA MORTE

Prefazione di Mons. Mieczyslaw Mokrzycki

STUDIO TEOLOGICO S. PAOLO CATANIA


ai miei genitori


PREFAZIONE

Città del Vaticano, 22 febbraio 2006 (Festa della Cattedra di S. Pietro)

Aprite, spalancate le porte a Cristo! È la parola di fiducia e di speranza che ha attraversato tutto il pontificato del grande Papa Giovanni Paolo II, in un’epoca di cambiamenti epocali e di bisogno di orientamenti sicuri. Tutti portiamo nel cuore la consegna che Egli ha fatto alla Chiesa e al mondo: l’ansia di pronunciare la verità cristiana sull’uomo, il coraggio di annunciare Cristo, Redentore dell’uomo. Il suo interesse per l’uomo, per la sua dignità da difendere dal suo concepimento alla sua morte naturale, la sua lotta tenace contro quella che Egli senza mezzi termini definiva la “cultura di morte”, Lo hanno portato a considerare la grandezza e la miseria della persona umana, creata ad immagine di Dio, la sua posizione unica nel creato e la sua solidarietà con tutte le altre creature. L’attenzione all’uomo è stata punto centrale della predicazione del Pontefice, risultando sempre sorprendente e talvolta opportunamente scomodo, uscendo fuori dalle teorie e dalle mode, per far risaltare l’irrinunciabile dignità umana. La Sua stessa persona è divenuta immagine dell’incontro tra la sofferenza e la redenzione, nella sempre lucida consapevolezza che il dolore è la più alta espressione dell’amore, capace di diventare sacrificio e dono totale di sé. La forza del Vangelo della speranza, in ragione della Sua testimonianza, è apparsa come il criterio illuminante e determinante di quella “nuova evangelizzazione” che Lo ha visto protagonista solerte e convinto, la cui impronta non si cancella. Sono gli immensi orizzonti della speranza che Cristo dischiude; speranza che offre la possibilità di trasformare in qualcosa di divino tutti i nobili ideali umani: il tempo, la vita, la verità, il bene, la giustizia. Una speranza non ingenua e illusoria, ma reale, perché fondata su un impegno personale e sostanziata da Cristo, che conferisce concretezza al generico


bisogno di trascendenza germogliato tra i ruderi di quelle concezioni materialistiche ormai segnate dal disfacimento.

L’ultima chiamata. È il titolo di questo libro, dedicato alla questione della morte nel magistero e nel pensiero del servo di Dio Giovanni Paolo II, che circa un anno fa ha varcato definitivamente la soglia della speranza. Veramente la Sua intera esistenza, sin dall’inizio, è stata la risposta alla chiamata del Signore. Veramente tutta la Sua vita, i Suoi gesti, le Sue parole, il Suo ministero apostolico, sono stati espressioni e concretizzazioni della Sua radicale disponibilità nei confronti del Signore che Lo chiamava a seguirlo. È stata questa la retta che ha attraversato l’intera esistenza di Papa Wojtyla, come ha opportunamente messo in risalto l’Autore di questo libro. Un’esistenza, segnata da momenti intensi e da esperienze personali forti, a volte assai drammatiche e dolorose che ne hanno intimamente solcato l’animo e temprato lo spirito, che è stata vissuta come sequela del Maestro. Nei Suoi scritti, nelle Sue poesie, nelle Sue opere letterarie e, da arcivescovo di Cracovia e quindi da Vescovo di Roma, nei Suoi stessi interventi magisteriali, Egli non ha mancato di trasfondere il Suo animo, di tradurre il Suo sì quotidiano a Dio. Chi come me ha avuto la singolare grazia di poter vivere accanto a Lui per molti anni, condividendone anche i momenti di vita nascosti ai più, ha potuto constatare quotidianamente la verità di queste affermazioni, ha potuto toccare con mano la radicalità e per molti versi l’eccezionalità dell’adesione di Giovanni Paolo II alla volontà di Dio. Totus tuus, il motto del Suo ministero apostolico, è stato infatti tradotto nella Sua vita in maniera davvero unica, nei difficili momenti della convulsa storia del mondo, sfregiata dalle guerre e dalla violenza, e della Sua sofferenza personale, vissuta in serena accettazione della benevola volontà di Dio. La Sua passione per Dio, la coscienza di essere un pellegrino dell’Assoluto nella compagnia degli uomini e la Sua stretta solidarietà con l’uomo provato dal dolore, sono stati certamente l’anima della Sua vita e della Sua missione nella Chiesa e nel mondo. Ogni cosa è stata vissuta da Lui con la serena fortezza che viene dalla fede, dall’intimità di vita con il Signore, alimentata da una preghiera

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incessante e intensa, e con il confidente affidamento nelle mani della Vergine Maria, verso la quale la Sua personale devozione si è sempre più intensificata con l’avanzare degli anni e l’approssimarsi della morte. E proprio con il conforto di sentirsi custodito dalla Madre del Redentore degli uomini e di essere sostenuto dalla comunione dei fratelli nella fede, Giovanni Paolo II ha vissuto anche gli ultimi giorni del Suo cammino terreno e l’estremo passaggio della morte. A buon diritto l’Autore afferma in questo libro che la morte dell’amato Pontefice, che ha scosso il mondo intero in una straordinaria manifestazione di sincero affetto, è stato l’atto supremo del Suo magistero, l’ultimo e forse il più inequivocabile discorso da Lui pronunciato nel silenzio delle Sue labbra ormai irrigidite dalla sofferenza e con l’eloquenza del Suo corpo, testimonianza visibile della Sua conformazione al Suo Signore e Maestro. Sì, l’eloquenza della Sua piena accoglienza della volontà di Dio sino alla fine, sino alla morte come partecipazione alla stessa morte di Cristo Gesù. Questo studio rappresenta certamente una tessera che contribuisce a comporre il ricchissimo mosaico che ci dà ragione della personalità di un uomo incredibilmente singolare e unico come è stato Giovanni Paolo II, e del patrimonio di fede, di dottrina e di insegnamenti che Egli ha lasciato alla Chiesa e al mondo intero nel Suo lungo e fruttuoso pontificato. Anch’Egli, come tutti del resto, è stato chiamato alla dolorosa esperienza della morte, ma l’amore per Cristo e il Suo specialissimo legame con Lui sono stati l’anima stessa del Suo personale approccio alla questione della morte. Ha pensato con grande serenità alla Sua fine terrena proprio perché ha vissuto costantemente nella comunione con Cristo, nel confidente abbandono alla sua volontà e al suo progetto. Il messaggio di Giovanni Paolo II, proprio perché radicato su Cristo, unica speranza dell’uomo, è stato un messaggio di speranza, pervaso dalla letizia della Pasqua di Gesù, “il solo capace di dare senso al non senso della morte”. Non a caso in questo studio libro viene dato molto risalto alla centralità di Cristo per la comprensione della concezione della morte in Giovanni Paolo II. Al di fuori di Cristo, infatti, all’uomo non resterebbe altro se non la tristezza e il nulla. Cristo, ma anche la Chiesa, comunità di salvezza, tanto amata e fedelmente servita da Giovanni Paolo II, instancabile testimone del Vangelo e costruttore di unità e di pace. Interessante è a questo proposito la sottolineatura, molto cara a Giovanni Paolo II, dell’indole escatologica della Chiesa nella cui comunione il credente vive

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il mistero della propria morte. L’homo viator, del quale Papa Wojtyla si è fatto compagno di cammino. Amore per Dio, amore per l’uomo. Il Papa, rapito da questo amore, nel Suo Testamento spirituale, se n’è fatto straordinario testimone. In questo commovente documento, specchio delle profondità del Suo spirito sensibile e amabile, Giovanni Paolo II ha ripetutamente espresso il desiderio che fu dello stesso apostolo Paolo e che è stato di molti altri santi e giusti: il desiderio di essere sciolto dal corpo e di essere presso il Signore per sempre! L’anelito, cioè, di essere pronto ad accogliere la chiamata rivoltagli da Dio e di essere anche pronto a mettersi in cammino per seguire il Maestro nel Suo ultimo viaggio. Il Signore ha ascoltato la Sua preghiera. Egli, il Signore della vita e della morte, Lo ha chiamato per sempre nella pace del Suo regno.

Mons. Mieczyslaw Mokrzycki (Segretario particolare del Santo Padre)

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PREMESSA

A circa un anno dalla morte di Giovanni Paolo II, avvenuta nel suo appartamento privato in Vaticano la sera del 2 aprile del 2005, dopo un’agonia durata alcuni giorni e una malattia che ormai lo affliggeva sempre più violentemente da diverso tempo, il pensiero ritorna a quei giorni particolarmente intensi, dolorosi e straordinari insieme, in cui il mondo intero ha accompagnato le ultime ore del Papa morente. Non è per nulla facile far emergere i sentimenti che allora erano comuni a milioni di persone, non solo di fede cattolica, ma anche, fatto straordinario anche questo, di altre confessioni religiose o non credenti, che tuttavia riconoscevano nel Papa polacco una guida spirituale e un punto di riferimento eccezionale e unico per il mondo intero. Lo scopo di questo studio non è comunque quello di far riaffiorare i ricordi di quei giorni che tutti, più o meno, ci siamo trovati a vivere (non solo da semplici spettatori), ma quello di cogliere il significato profondo di quell’atto di magistero autentico che il Papa ci ha consegnato con la sua stessa morte; l’insegnamento e il messaggio inequivocabile che egli ha pronunciato dal suo letto di sofferenza e con la sua morte. Il tempo trascorso dalla sua morte è ancora troppo breve per potere osservare con chiarezza quanto quei giorni hanno significato per la vita della Chiesa e per il mondo. Certamente essi sono stati un evento speciale perché in maniera davvero singolare ci si è direttamente interrogati su questioni come la sofferenza e la morte che purtroppo nella società contemporanea sono oramai diventati quasi totalmente degli argomenti tabù. La morte è stata al centro dell’attenzione. La morte di un uomo straordinario sì, ma anche la morte come evento naturale che quasi in diretta mostrava la sua potenza sul corpo martoriato dell’anziano pontefice sempre più stretto nella sua morsa e piegato dal suo peso. Una morte davvero umana, vissuta da un uomo, non da un eroe che ostentava sicurezza e sufficienza. Ma nello stesso tempo una morte vissuta da un uomo di fede cosciente di essere sul punto di realizzare nella sua esistenza personale quella partecipazione al mistero pasquale di Cristo che non può avvenire se non quando l’oro viene forgiato nel crogiuolo della sofferenza. La morte di Giovanni Paolo II è stata allora un evento unico perché è stata la morte di un uomo e di un uomo di Dio; è stata veramente e intensamente umana e realmente cristiana. Per questa ragione essa può essere ritenuta l’ultimo insegnamento che egli ci ha

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consegnato e che ancora attende di essere compreso nel suo significato profondo, scandagliato nel suo prezioso valore. In questo studio prendo in considerazione l’insegnamento di Giovanni Paolo II sulla questione umana e cristiana della morte, con la consapevolezza che questa non è, non può esserlo, una semplice questione tra le tante, da affrontare come tutti gli altri temi di antropologia, filosofia o teologia. La morte, infatti, tocca in maniera unica l’essere umano in ciò che ha di più intimo. Non può essere “detta” con distacco accademico e dopo oggettiva osservazione e sperimentazione, ma solamente nella misura in cui se ne assapora tutta l’amarezza e si ha il coraggio di fissarne lo sguardo. Il pensiero alla morte è presente costantemente nel magistero del Papa, nei suoi insegnamenti, nelle sue omelie e nei suoi discorsi, come anche nelle sue opere e nei suoi scritti personali. Sarebbe alquanto difficile tentare di dare ragione di tutta la ricchezza raccolta nell’insegnamento del Pontefice su questo tema, non solo per i limiti legati allo spazio di questo contributo, ma anche per la difficoltà di setacciare compiutamente la vastissima e multiforme mole di materiale lasciatoci dal Pontefice, in quanto Giovanni Paolo II nel suo lungo pontificato ci ha consegnato una quantità enorme di scritti e opere a carattere teologico, filosofico, spirituale e poetico. Tutto ciò comunque non deve scoraggiarci. Tenterò, infatti, di riprendere le principali riflessioni di Giovanni Paolo II su questo tema senza tralasciare di gettare uno sguardo anche alla sua produzione filosoficoteologico-poetica soprattutto degli anni precedenti alla sua elezione1. La 1 La vena poetica di Karol Wojtyla si rivela specialmente in alcune opere da lui composte: soprattutto Giobbe e Geremia, drammi scritti entrambi nel 1940, poi Fratello del nostro Dio, del 1949, e quindi La Bottega dell’Orefice, scritto nel 1960. Tutte queste opere si caratterizzano come veri e propri drammi spirituali dell’uomo e viaggi metafisici nell’intimo delle coscienze, cercando sempre di concentrarsi sull’essenziale. Nei suoi scritti poetici così come nella sua riflessione filosofica e teologica, il centro è costituito dell’uomo; una concezione dell’uomo non solo nella sua dimensione terrestre e temporale, ma soprattutto nelle sue origini metafisiche e nel suo destino escatologico, poiché questa creatura di Dio può essere compresa solamente nel suo intimo significato trascendente (cfr G. REALE, Karol Wojtyla un pellegrino dell’assoluto, Milano 2005, 26). Le poesie di Wojtyla scritte anche dopo la sua elezione alla sede petrina sono quasi lo strumento per poter esprimere per immagini e per visioni quanto il filosofo e il teologo esprimono o cercano di esprimere per concetti: per Giovanni Paolo II, allora, la sua opera poetica non può essere disgiunta dalla sua riflessione filosofica e teologica, poiché rappresenta la trasposizione stessa di quanto è maturato nella sua speculazione. Reale, in occasione della presentazione del Trittico romano. Meditazioni, Milano 2003, affermò che «l’asse portante delle composizioni di Wojtyla

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considerazione di quanto di più importante Karol Wojtyla ha prodotto nel corso della sua lunga attività di intellettuale in età giovanile e specialmente durante il ministero episcopale in Polonia come Arcivescovo di Cracovia, non potrà che mostrare da un lato ancora di più la ricchezza di un pensiero alto e raffinato come quello di Wojtyla, e dall’altro esplicitare il retroterra di quanto emerge con più forza nell’esercizio del suo magistero pontificio, e quindi la sostanziale unità, linearità e coerenza dello stesso. Dicevo che il pensiero alla morte lo ritroviamo sovente nelle riflessioni personali del Papa, ma anche nei suoi discorsi e documenti ufficiali. In diverse occasioni, infatti, il Papa si sofferma nei suoi scritti ufficiali sul mistero della morte e ne mette in evidenza gli elementi drammatici ed esistenziali, e parimenti, anzi ancora di più, la dimensione teologica, cristologica ed ecclesiologica. La dolorosa esperienza personale della morte della madre quando egli era ancora un bambino, la morte del fratello e quindi la dolorosa e sofferta morte del padre, nonché la perdita di alcuni cari amici nei lager nazisti, hanno segnato profondamente lo spirito sensibile del giovane Wojtyla, hanno albergato nel suo cuore e nella sua mente e sono stati oggetto della sua riflessione anche quando sembravano apparentemente non tematizzati2. “poeta” coincide esattamente con quello di Wojtyla “filosofo” e di Wojtyla “teologo”. Questo asse portante consiste nella concezione dell’uomo, non solo e non tanto nella sua dimensione terrestre e temporale, ma anche e soprattutto nelle sue origini metafisiche e nel suo destino escatologico, con la complessa e intricata dinamica che ciò comporta» in L’Osservatore Romano (d’ora in poi OR), 7 marzo 2003, pp. 6-7. Il linguaggio poetico osa lì dove neppure quello teologico e tanto meno quello filosofico si spingono. Esso, tuttavia, rinuncia al possesso delle cose, sebbene operi una vera e propria trasgressione delle parole tramite parole, e tenti di raggiungere la congiunzione, del tutto peculiare, di parole e senso. Per quanto il linguaggio poetico si allontani singolarmente da quello della vita quotidiana e corrente, in Giovanni Paolo II si scopre sempre, in fondo, una profonda aderenza alla realtà, alle cose della vita, della vita dell’uomo, nella sua storicità ma anche nella sua insopprimibile destinazione che travalica i limiti dell’oggi, dell’adesso, per proiettarsi in una dimensione trascendente. La parola poetica ha il compito di rendere familiare una realtà che altrimenti resterebbe assolutamente inafferrabile, incomprensibile, e di incamminarsi fin dove le formule linguistiche consuete non sono in grado di giungere. Il linguaggio poetico per sua natura è una reazione alla moderna rinuncia al simbolo, all’indigenza simbolica di cui è affetta la contemporaneità quando si chiude alla dimensione trascendente, quando non rinvia ad altro e tace di fronte ai misteri fondamentali della vita e della morte. Si veda a questo proposito anche A. SPADARO, La poesia di Karol Wojtyla, in La Civiltà Cattolica I (2006), 24-37. 2 La poesia Sulla tua bianca tomba fu scritta dal giovane Karol a 19 anni, quando già aveva perso anche il fratello Edmund. La morte della madre e quella tragica del fratello, morto di un’epidemia virulenta di scarlattina, gli si impressero profondamente nel cuore e

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Poiché la morte non è un tema tra tanti, di cui è possibile parlare senza esserne personalmente e interiormente coinvolti e toccati, mettendo a tacere tutte quelle esperienze, riflesse o taciute, vissute nella propria esistenza, anche Giovanni Paolo II nel parlare della morte nei suoi insegnamenti e nel suo stesso magistero, non si affida esclusivamente ad una riflessione mutuata dalla tradizione o presa in prestito dalla riflessione filosofica, psicologica o sociologica, ma si coinvolge totalmente, trasfondendo nei suoi scritti il suo animo, senza avere il timore di professare sì la sua fede e di dare ragione della sua speranza, ma anche di svelare le sue paure, le sue ansie, il suo dolore. Credo, infatti, che nel pensiero alla morte emergano in maniera unica anche l’umanità di Giovanni Paolo II e i suoi sentimenti, e affiorino i suoi interrogativi più profondi. Lo studio segue la seguente articolazione: dopo l’ampia riflessione sulla comprensione della morte nella società contemporanea in cui si sta sempre più profilando una cultura di morte che tenta di distruggere l’uomo, di svilire la sua dignità svuotando di significato la sua vita (la sua nascita e la sua morte) e in cui la morte è stata posta fuori dal suo orizzonte visivo, si parlerà della risposta della fede alla questione della morte, attraverso il riferimento alla testimonianza biblica. L’attenzione sarà ovviamente rivolta a quei testi scritturistici che sono stati oggetto della riflessione del Papa nei suoi vari insegnamenti, nelle sue omelie e nelle sue catechesi. Il punto centrale dello studio sarà la presentazione degli elementi principali della meditazione del Papa sulla morte alla luce dell’evento Cristo, della sua persona, del suo insegnamento, della sua predicazione del Regno e soprattutto del suo mistero pasquale di morte (centralità del tema della croce) e risurrezione (pienezza della salvezza e forza della speranza). Cristo, uomo nuovo, resosi solidale con l’uomo sofferente e mortale, per la nella mente tanto che in più occasioni ne farà il ricordo (cfr A. FROSSARD, Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura”, Milano 1983, 12). Sono particolarmente forti e toccanti le parole iniziali di questa struggente poesia: «…Sulla tua bianca tomba ormai chiusa da anni qualcosa sembra sollevarsi: inesplicabile come la morte…». Esse esprimono una verità fondamentale: la morte è inesplicabile; non c’è un linguaggio adatto per esprimerla, per dirla. Essa sfugge a qualsiasi ragionamento e argomentazione logica. Il suo spazio è il silenzio. Tuttavia essa richiede e reclama, vuole e cerca una parola che sappia raccontarla. Quando si tratta poi della morte della propria madre…allora le parole diventano ancora più difficili e il mistero ancora più fitto. Solo la preghiera…un’ultima prece è ciò che davvero conta e permane (Cracovia, primavera 1939. Poesia contenuta nel volume curato da G. Reale: K. WOJTYLA, Tutte le opere letterarie, Milano 2001, 37).

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sua filiale obbedienza al Padre suo, è la risposta ultima, l’unica, alle domande fondamentali dell’uomo sul senso della propria esistenza, della propria morte e del destino ultraterreno. La morte, nella visione cristiana, non è un evento privato e solamente individuale, ma ha una valenza ecclesiale e comunitaria, poiché la Chiesa è il soggetto adeguato della speranza cristiana. Un capitolo sarà allora dedicato alla dimensione ecclesiale della morte cristiana. In esso si metterà in luce il significato che l’essere membro del Corpo di Cristo che è la Chiesa ha per l’uomo che muore. La vita della Chiesa è alimentata poi dai sacramenti e specialmente dal battesimo e dall’Eucaristia: se il primo è la sorgente di vita nuova che strappa l’uomo al suo destino mortale e di peccato rendendolo partecipe della morte di Cristo e della sua vittoria sul peccato e sulla morte, l’Eucaristia è farmaco di immortalità, antidoto contro il veleno della morte, pregustazione del banchetto escatologico della Gerusalemme celeste in cui non ci sarà più la morte. Maria, membro eletto della Chiesa, verso la quale Giovanni Paolo II ha sempre mostrato una devozione unica, intensa ed eccezionale, è colei nella quale la vittoria pasquale di Cristo rifulge in tutto il suo splendore, nella sua anima come nel suo stesso corpo. La considerazione del particolarissimo destino della Vergine è una luce per illuminare il destino terreno dell’uomo e soprattutto la sua destinazione eterna. La salvezza è per l’uomo intero, creato ad immagine e somiglianza di Dio. Essa è predicata dell’intera e indivisibile persona umana, che è chiamata alla comunione di vita con il suo Signore (approfondimento della dimensione antropologica della morte e del morire). Il capitolo conclusivo, preceduto dalla considerazione della dimensione antropologica della morte, sarà dedicato all’analisi del Testamento di Giovanni Paolo II, singolare e commovente documento che ci testimonia la ricchezza umana e cristiana del Papa polacco. La riflessione che segue avrà come oggetto, allora, il pensiero di Giovanni Paolo II sulla morte, ma soprattutto avrà come punto di partenza e di approdo la sua morte e ciò che questo evento, unico, singolare — come è singolare la morte di ciascun individuo, di ogni uomo — ha significato per il mondo, spettatore di un dramma che aveva superato i limiti del “privato” (se di privato si può parlare quando si tratta della morte di un personaggio illustre e in particolare di un Papa) oltre qualsiasi possibile aspettativa e previsione. Forse come non mai il mondo intero si è fermato per sostare accanto ad un capezzale, per vegliare un morente. In quei giorni la morte è stata avvicinata, scrutata, interrogata, provocata. Ed essa non ha mancato

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di elargire con generosità insegnamenti e lezioni. La morte è stata perciò per Giovanni Paolo II un discorso formale non pronunciato ma vissuto, detto con il corpo, con i gesti, con il silenzio. Un discorso eloquente come non mai, e forse come non mai così limpido, chiaro, inequivocabile, diretto, schietto, oltremodo doloroso. Anche il suo corpo esangue, immobile, quasi statuario, in cui si erano spenti tutti i movimenti espressivi ed era visibile solamente la traccia lasciata dalla sofferenza (e dalla serenità) degli ultimi istanti della sua vita, è stato un insegnamento offerto al mondo. Lo studio del suo pensiero alla morte non può allora non avere costantemente sullo sfondo la morte vissuta da Giovanni Paolo II nella cui fine lex credendi, lex orandi e lex vivendi sono divenute un’unica realtà.

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INTRODUZIONE

La speranza che va oltre la fine Nel tempo giusto la speranza s’innalza da tutti i luoghi soggetti alla morte — la speranza ne è il contrappeso, in essa il mondo, che muore, di nuovo rivela la vita. Nelle strade i passanti dai corti giubbotti e dai capelli spioventi sul collo tagliano con la lama del passo lo spazio del grande mistero che in ognuno di loro si estende tra morte e speranza: uno spazio che scorre verso l’alto come la pietra di luce solare rovesciata all’ingresso del sepolcro. In questo spazio, la più perfetta misura del mondo TU SEI e dunque ho un senso, e scivolare nella tomba, passare nella morte, disfarmi nella polvere d’irripetibili atomi — è per me parte della Tua Pasqua3. […] In questo testo poetico credo che sia condensato il pensiero di Karol Wojtyla sul senso della sua esistenza e della sua morte; una morte sempre attesa e preparata, una morte che grava sulla vita dell’uomo e che solamente la speranza cristiana è in grado di illuminare e di sorreggerne il peso. La speranza che annuncia la luce della vita nelle tenebre della morte è la Speranza che si è resa visibile in Cristo, nel suo mistero pasquale di morte e risurrezione che squarcia le tombe e dona senso alla vita. La morte è una chiamata e la risposta a questa chiamata, è l’estremo atto di sequela del Maestro che invita i suoi a lasciare tutto e a mettersi in viaggio, l’ultimo, il più difficile e il più doloroso, il più irto e anche il più denso di timore e tremore. Un viaggio che sarebbe verso l’ignoto e il buio 3

K. WOJTYLA, Meditazione sulla morte, in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 101.

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se non fosse vissuto e compreso come comunione con il Maestro, esperienza vissuta con lui. La morte senza la speranza sarebbe insopportabile. Essa è bilanciata dalla speranza, la sola che, non annullandone il peso la riequilibra perché apre alla vita. In ognuno c’è uno spazio tra la morte e la speranza, una lotta, un salto che precipiterebbe nel vuoto e in un baratro se non fosse colmato da Dio, dalla sua presenza (Tu sei!). La speranza perciò non è velleitaria, ma è salvifica perché è speranza in Dio, in Colui che abita questo spazio e lo rende vivo e significativo. Poiché lo spazio tra la morte e la speranza è colmato solamente in Dio, la vita ha un senso, altrimenti sarebbe votata al nulla, sarebbe un tragico scivolare nel nulla. La morte è quindi un evento drammatico che riguarda tutti: tutti, infatti, dobbiamo immergerci in essa e non soltanto attraversarla rimanendo indenni. Nella morte ci si immerge; essa non risparmia colpi a nessuno, fagocita ogni cosa. Essere liberati dalla morte non significa oltrepassarla superficialmente, ma è passare in essa sorretti e fortificati dalla certezza che lì, anche lì, Dio è presente (Tu sei!) Anche nella morte (perfino nella morte!), l’uomo non è solo; proprio lì egli sperimenta la solidarietà piena e sconvolgente del Dio della vita. Proprio lì, dove egli temeva di essere disciolto definitivamente in irripetibili atomi, di raggiungere il limite invalicabile della propria esistenza, il termine inappellabile della sua avventura mondana, Dio è, e gli si rivela come quel Tu che dà senso e significato alla sua vita. L’uomo che muore, muore davvero. Veramente egli si scompone in atomi irripetibili, e tuttavia, poiché Dio è, egli muore nella speranza che la sua è una partecipazione alla pasqua di Cristo. Muore nella speranza che ormai egli è reso partecipe di quel mistero di salvezza che neppure la dissoluzione e il disfarsi in polvere, segno quasi dell’assoluta e implacabile fine di tutto ciò che egli è stato ed ha costruito, può annullare e oscurare. “L’ultima chiamata”. Il titolo di questo studio è tratto dall’incipit del Testamento spirituale di Giovanni Paolo II, il quale, meditando il brano di Mt 24,42, ricorda la centralità della chiamata che egli avrebbe accolto nell’istante della sua morte. Come avremo modo di constatare alla fine, nella presentazione dei passaggi più significativi dello scritto personale del Papa, egli esprime il desiderio di seguire il Signore che lo chiamerà definitivamente alla fine della sua vita e vuole che tutta intera la sua esistenza sia una preparazione a vivere bene quel momento supremo. Egli non sa

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quando ciò avverrà. Ciò che sa è che vuole deporlo nelle mani della Madre di Dio: Totus Tuus. Il pensiero a Maria che ha segnato l’intero pontificato di Giovanni Paolo II, segna anche il suo pensiero alla morte e alla fine. Il sì di Maria diventa per lui paradigmatico per il sì che il credente è chiamato a dare quotidianamente a Dio, alla sua chiamata, e soprattutto per la risposta di fede a quell’estrema e drammatica chiamata rivoltagli da Dio quando si approssima la morte, quando il tutto volge al termine, e non è più possibile rimandare a dopo la piena risposta al suo richiamo. Se la morte si consuma nell’intreccio di una chiamata e di una risposta, essa non è allora il silenzio muto e vuoto che stordisce e implode su se stesso, ma è ancora, paradossalmente e al di fuori di ogni regola possibile e ragionevole, dialogo e conoscenza, appello e assenso; silenzio animato e fecondato da parole pronunciabili e udibili solamente dai due interlocutori, parole dette e udite in quell’istante unico, assolutamente unico e inedito, che è la morte.

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CAPITOLO I

SQUILIBRI E CONTRADDIZIONI DEL MONDO CONTEMPORANEO: LA MORTE RIMOSSA

La morte è un enigma. È sempre difficile tentare di definirla e di esprimere il modo in cui l’uomo la comprende. Tutti, infatti, sappiamo cos’è la morte, ma tutti proviamo un forte disorientamento quando siamo chiamati, in un modo o in un altro, per una ragione e l’altra, a parlarne, perché i tentativi che costantemente nella storia si sono avanzati per definire la morte, per padroneggiarla anche solo intellettualmente, confinandola in uno spazio facilmente gestibile, si sono alla fine sempre dimostrati fallimentari e certamente non definitivi. La morte, infatti, è per l’uomo l’estranea che supera la sua immaginazione e aleggia al di là delle sue capacità di comprensione. Tuttavia, una morte che non può essere narrata e che sarebbe condannata a rimanere irriferibile, sarebbe doppiamente assurda, perché costringerebbe l’uomo a rinunciare non solo alla comprensione del senso della propria fine, ma anche al senso della propria esistenza, della vita. L’uomo non può mantenersi distante e distaccato dalla morte, soprattutto quando si tratta della morte delle persone care, e tanto meno quando si riferisce alla propria, perché egli è costantemente consapevole della propria mortalità e della mortalità delle persone che lo circondano. In ogni morte, in definitiva, la morte che egli teme è in verità la propria morte. Ogni qualvolta assiste alla morte di qualcun’altro egli si considera un sopravvissuto, un superstite che può ancora una volta tirare il fiato, perché vede soddisfatto il suo istinto di sopravvivenza. Tuttavia egli conosce la morte, e impara a riconoscere anche la propria morte, attraverso la morte degli altri, quegli altri che in fondo sono il senso stesso della sua esistenza, che rappresentano, al di là di ogni inconscio cinismo, il valore sommo per cui la vita è degna di essere vissuta e che rende sensato l’essere in vita. La vita, infatti, è comunicare con gli altri, stare con loro, agire per gli altri ed essere da loro avvicinati e desiderati. In fin dei conti il bisogno di sopravvivere è forte nell’uomo perché gli risulterebbe intollerabile il solo pensiero dell’improvvisa cessazione del comunicare, del mettersi in rapporto con altri, e soprattutto di amare ed essere amato. Se per ogni singolo uomo è quasi inimmaginabile un mondo che esista senza di lui, un mondo assolu-

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tamente svuotato dagli altri e che riservi ad un solo individuo la sorte del sopravvissuto, sarebbe davvero insopportabile, poiché la sorte dell’unico sopravvissuto è un incubo non inferiore alla stessa morte. La singolarità della persona umana, infatti, consiste non tanto nel suo essere posta con gli altri individui, ma nell’essere essenzialmente per l’altro, poiché per essere essa deve essere per. Il significato profondo dell’essere dell’uomo è dato allora nella sua naturale apertura all’altro, e nel momento in cui si chiude nell’egoistica ricerca del proprio bene e della propria sopravvivenza individuale, egli va incontro a ciò che invece desiderava evitare: la morte. La tentazione costante dell’uomo è quella di ignorare in tutti i modi e attraverso tutti i possibili stratagemmi questa realtà, allontanandone il pensiero dal suo orizzonte. La società consumistica ed efficientista di oggi se ne è fatta alleata e complice. Per essa non è permesso a nessuno distrarsi dall’impegno di produrre sempre di più e sempre meglio, senza concessione alcuna a pause o soste. Ma questa fatica, oltre che inutile è anche inopportuna. La riflessione sulla morte, infatti, si rivela benefica perché relativizza tante realtà secondarie che l’uomo ha purtroppo assolutizzato, come appunto la ricchezza, il successo, il potere… e ristabilisce il giusto ordine delle cose e dei valori. «Ma l’uomo rifugge dalla morte — constata il Papa. L’uomo ha paura della morte. L’uomo si difende dalla morte»4. L’uomo si lascia ammaliare dal fascino del progresso indefinito e si lascia sedurre dalle sue promesse e chimere, e sviato da tutto ciò tenta disperatamente di sfuggire alla morte, di allontanarla il più possibile, di addomesticarla o perlomeno di ritardarla quanto può, estromettendola dal suo pensiero, dalla sua vita, dalla stessa società. Tutto questo perché egli ha paura, un’enorme paura, e tenta in tutti i modi di difendersi dalla sua fine: tenta di esorcizzare l’evento biologico della morte allungando l’evento biologico della vita; si sforza di non pensarci. La società tenta poi di difenderlo mettendo in cantiere tutta una serie di strategie, più o meno riflesse ed elaborate, certamente collaudate ormai da tempo, atte a immunizzare il cittadino delle efficientissime e post-moderne metropoli del mondo contemporaneo. Una società che ormai opera una sistematica e convinta censura della morte e del lutto. Una società che tenta di “gestire” 4

Omelia tenuta durante la visita pastorale a Torino il 13 aprile 1980, in OR (14-15 aprile 1980), p. 4.

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professionalmente, attraverso strutture specializzate, l’ultima fase della vita degli individui, assumendosi l’onere proprio della famiglia che sempre più impreparata ad affrontare la malattia e la morte di un suo membro, preferisce affidare a strutture organizzate, pubbliche o private, la gestione della morte del congiunto. L’uomo sa, anche se a volte sembra che lo dimentichi, che in fondo la sua esistenza gli è data come un prestito a breve termine, e che la maggior parte dei suoi progetti messi in cantiere, non conosceranno la fine dei lavori nel corso della sua esistenza storica. Ciò che egli costruisce, programma, avvia, il più delle volte si proietta al di là della portata probabile della sua vita biologica, e l’amara consapevolezza di tutto ciò corre il rischio di precipitarlo in uno straziante pessimismo che gli fa cogliere la sostanziale futilità degli sforzi compiuti in vita. Né i maldestri tentativi di rinviare il momento della morte accrescendo le aspettative di vita attraverso tutta una gamma di strategie di sopravvivenza, né il sogno di assicurarsi l’immortalità mediante la realizzazione di opere e gesta che continuino nei posteri o perlomeno nella loro memoria, possono ritenersi soddisfacenti per rispondere alle sue domande5. C’è un’incommensurabilità insanabile tra le aspirazioni dell’uomo, gli slanci del suo spirito, le aperture del suo animo e la sua esistenza temporale e storica, sempre troppo breve, anche quando, paragonata a quella degli altri individui, sembrerebbe di lunga durata. La morte biologica è la responsabile di tale mancata corrispondenza poiché è la cesura che mette fine, sempre bruscamente (anche quando giunge dopo una lunga infermità) a quanto l’uomo ha pensato e progettato su di sé e sul mondo. Per attenuare lo strazio che questa situazione provoca nell’intimo stesso dell’uomo, per sfuggire a tutto ciò, la società contemporanea non ha saputo 5

La risposta alla morte non può derivare neppure dalla promessa che la morte dell’individuo è compensata dall’immortalità della specie, della Nazione o dell’umanità intera. I moderni totalitarismi, ad esempio, soprattutto nella loro forma nazionalista, classista e razzista, sono stati anche dei tentativi di assicurare l’immortalità collettiva del popolo, del gruppo o del partito, a prezzo del sacrificio degli eroi e dei singoli individui pronti a immolarsi sull’altare della causa comune. A questi era tuttavia promessa una sorta di immortalità nella memoria del popolo, e questa promessa era ritenuta assolutamente sufficiente per rassicurarli nella loro istintiva paura di fronte alla morte, una morte spesso violenta e provocata. In questo contesto la morte del singolo, accettata e perfino cercata per il vantaggio della causa, era ritenuta un bene, un privilegio unico. Essa non destava particolari paure e timori, e neppure racchiudeva particolari significati. La parola d’ordine era l’auto-rinuncia e addirittura l’auto-annichilimento per il bene e il progresso di una causa superiore e più nobile dell’esistenza individuale.

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fare altro che escogitare una strategia atta a preservarlo dal pensiero della morte. Il concetto di immortalità appare così semplicemente consolatorio e non ha altro scopo se non quello di rassicurare per un po’ di tempo, sino alla morte, colui che è un mortale. Il cammino della cultura nel corso dei secoli potrebbe addirittura essere ricostruito a partire dallo sforzo compiuto dall’uomo e dalla società di occultare, temperare e disinnescare l’assurdità della morte e del suo scandalo attraverso l’idea dell’immortalità. Potrebbe essere ricostruito, cioè, a partire dal modo in cui l’uomo ha tentato di affrontare (dando delle risposte o rinunciando a darne) la morte e il morire. A quanto detto si può aggiungere che a ben riflettere solamente l’uomo ha coscienza di soffrire e anche di morire. Si potrebbe scrivere una storiografia dei rapporti umani con la morte. Tutti gli uomini muoiono, ma non per questo stabiliscono un rapporto qualificato con la morte. Nelle società pre-moderne era quasi naturale e scontato avere un rapporto con i morenti e con i morti, ma non per questo si aveva un rapporto di tipo culturale con la morte: esse, cioè, avevano cura dei morti, ma non della morte. Ciò che si sapeva della morte lo si apprendeva da quella che alcuni antropologi amano definire “epifania del morto”, senza per questo essere costretti a intraprendere un cammino di comprensione della morte in sé. La morte rimane pur sempre un evento nascosto, celato e misterioso6. Il corpo, che durante l’intera esistenza dell’individuo è stato l’espressione visibile della sua vita, dei suoi pensieri e della sua anima, ora è il testimone silenzioso della sua assenza. Il morto, infatti, non parla, e la sua espressione è definitivamente chiusa a qualsiasi comunicazione. Il moderno processo di secolarizzazione ha praticamente fatto scomparire anche i morti. Perfino i potenziali di spiegazione delle religioni si sono affievoliti (basta pensare, ad esempio, allo spazio concesso a questi argomenti nella prassi di predicazione di molti pastori) cedendo così terreno a un possibile rapporto più razionale con i morti. La comparsa del cadavere non è stata più vista come un fatto enigmatico, quanto piuttosto come un fatto avente un significato meramente biologico che non abbisogna di alcuna riflessione di natura metafisica. La morte non cela più alcun mistero e non apre più alcuna porta; essa è semplicemente la fine di un essere umano. Da qui prendono le mosse tutte quelle correnti di pensiero che racchiudono in sé un inganno profondo che in più occasioni Giovanni Paolo II non manca 6

Si veda a questo proposito D. LENZEN, Malattia e salute, in Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, a cura di Ch. Wulf, Milano 2002, 903-909.

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di svelare e denunciare. Sono quelle dottrine che propugnano la diffusione di una “letteratura consolatoria” sulla bella morte, tendente a “incipriare” un evento che in realtà sfugge per sua natura a qualsivoglia sforzo di accomodamento e di secolarizzazione7. A queste si aggiungano, inoltre, quelle dottrine che invece vorrebbero spuntare il pungiglione della morte confidando in una sorta di “eternizzazione” dell’individuo nella memoria di quanti verranno dopo di lui. La convinzione secondo cui i morti continuino a vivere in quanti restano in vita ha certamente una parte di verità, ma ciò non può comunque portare al disperato tentativo di non guardare in faccia la serietà della morte e la sua disarmante violenza, rifugiandosi in evasioni consolatorie, cosa che purtroppo diventa sempre più frequente e comune. Sociologi, filosofi, psicanalisti e teologi, si sono preoccupati di fotografare la situazione attuale, tra l’altro sempre in continuo divenire, e difficilmente racchiudibile in pochi fotogrammi, e al tempo stesso di ricercarne le cause principali. Non sta a me, qui, riprendere la ricchissima, suggestiva e complessa riflessione che in questi anni è stata prodotta su questo tema, in cui non si è mancato di denunciare gli atteggiamenti plurimi che hanno caratterizzato ogni epoca nel suo approccio alla questione della morte: timore, dolore, ira, disperazione, risentimento, rassegnazione, sfida, commiserazione, trionfo, impotenza8. Ciò che in questo momento conta è vedere come, al di là di ogni possibile tentativo di rimozione, la morte fa sentire in modo tangibile la propria presenza non necessariamente in quei luoghi e momenti selezionati in cui essa appare sotto il proprio nome. L’impatto della morte è infatti al massimo della sua potenza quando essa appare in aree e in momenti che non le sono esplicitamente dedicati; esattamente là dove riusciamo a vivere come se la morte non ci fosse o non avesse grande importanza, quando non ci ricordiamo della mortalità e non siamo scoraggiati o frustrati dal pensiero della futilità di fondo della vita. L’uomo contemporaneo, infatti, non rifugge solamente la morte intesa come evento finale dell’esistenza storica, ma anche tutte le sue anticipazioni, tutti le sue sinistre incarnazioni che segnano l’intera esistenza. 7

È quanto viene proposto sotto diverse forme dalla New Age e quanto è anche ripetutamente esposto negli studi di R.A. MOODY, La vita oltre la vita. Studi e rivelazioni sul fenomeno della sopravvivenza, Milano 1978. 8 A questo riguardo basta riprendere la puntuale presentazione critica di M. SCHELER, Il problema della morte nella filosofia, Brescia 1995 in cui viene messo in evidenza come nella riflessione antropologico-filosofica di molti autori contemporanei la morte sia colta come principio ermeneutico dell’intera esistenza dell’uomo.

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Dal vastissimo e sconfinato orizzonte di pensiero dell’uomo di oggi la morte, la sofferenza e la malattia, sono tirate fuori, sono estromesse. L’uomo contemporaneo dimentica che la morte è una dimensione intima e profonda della vita, non una sua appendice sgradita. Essa penetra la vita in tutte le sue pieghe, l’avvolge nelle sue plurime sfumature e la contagia nelle sue più intime espressioni. Vivere è morire un po’ alla volta, ci ricordano molti autori cristiani e molti filosofi. La vita non è altro se non una lunga, più o meno lunga, preparazione alla morte; è un morire a tratti, a poco a poco, poiché nella vita siamo attorniati dalla morte. Consapevole di ciò, rivolgendosi agli anziani nel 1999, Giovanni Paolo II affermava: «È naturale che, con il passare degli anni, diventi familiare il pensiero del “tramonto”. Se non altro, ce lo ricorda il fatto stesso che le file dei nostri parenti, amici e conoscenti vanno assottigliandosi: ce ne rendiamo conto in varie circostanze, ad esempio quando ci ritroviamo per riunioni di famiglia, per incontri con i nostri compagni d’infanzia, di scuola, di università, di servizio militare, con i nostri colleghi di seminario... Il confine tra la vita e la morte attraversa le nostre comunità e si avvicina a ciascuno di noi inesorabilmente. Se la vita è un pellegrinaggio verso la patria celeste, la vecchiaia è il tempo in cui più naturalmente si guarda alla soglia dell’eternità»9

La morte porta dunque con sé qualcosa dell’annientamento. Anche quando è cristianamente compresa essa non cessa di essere un evento doloroso, sgradito e contrario alla naturale aspirazione dell’uomo a vivere sempre e in pienezza, poiché «per quanto la morte sia razionalmente comprensibile sotto il profilo biologico, non è possibile viverla con “naturalezza”. Essa contrasta con l’istinto più profondo dell’uomo»10. L’uomo sa che essa è per lui un ospite odioso. Sempre. In qualsiasi istante possa giungere. L’unica prospettiva che essa apre è il buio e la tristezza. Solamente l’orizzonte della fede può generare la speranza e la gioia. Il Papa non si nega alla considerazione della situazione attuale e non lesina delle critiche forti alla società contemporanea nel suo approccio alla questione della morte con i suoi maldestri e incauti tentativi di rimozione. Egli sa ad esempio che il ricordo dei defunti spinge il credente a considerare 9

Lettera agli anziani (1 ottobre 1999), 14, in Enchiridion Vaticanum (d’ora in poi:

EV)18, 1676. 10

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Lettera agli anziani 14, in EV/18, 1678.


con serietà il mistero della morte. Un mistero che molte volte si vuole sfuggire, censurare, e di cui non si vuole neppure parlare. L’uomo, infatti, vive nello sforzo costante di rimuovere dall’orizzonte della sua coscienza, come un pensiero importuno e fastidioso questa questione, pensando così di poter vivere meglio e più serenamente. A questo proposito, si domanda il Papa, «Dovremmo forse chiederci, anche noi cristiani, se e come e quanto sappiamo pensare alla morte. E come sappiamo parlare della morte»11, poiché contro il tentativo costante da parte della società e della cultura contemporanea di celare l’evento della morte, la Chiesa è convinta che «l’opera educativa non può non prendere in considerazione anche la sofferenza e la morte. In realtà, esse fanno parte dell’esperienza umana, ed è vano, oltre che fuorviante, cercare di censurarle e rimuoverle. Ciascuno invece deve essere aiutato a coglierne, nella concreta e dura realtà, il mistero profondo. Anche il dolore e la sofferenza hanno un senso e un valore, quando sono vissuti in stretta connessione con l’amore ricevuto e donato»12.

Le censure imposte dalla società non azzerano comunque il bisogno che l’uomo ha di trovare un senso per la sua vita e la sua morte. La verità che l’uomo ricerca è il senso della sua esistenza, la meta verso cui essa è incamminata, e ancora prima è la domanda se la vita abbia un senso oppure no, poiché a prima vista l’esistenza personale potrebbe presentarsi radicalmente priva di senso. Per leggere questa tentazione costante nella vita dell’uomo, soprattutto della cultura contemporanea, non è necessario ricorrere ai filosofi dell’assurdo né alle provocatorie domande che si ritrovano nel Libro di Giobbe: entrambi, per ragioni forse diverse, e certamente con diverse modalità, pongono serie ipoteche sulle facili soluzioni e rivolgono domande serie e spinose che mettono in forse il senso della vita. La stessa esperienza quotidiana della sofferenza, propria ed altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica come quella sul senso. Il tutto si acuisce se a questo dato si aggiunge un’altra constatazione: la prima verità assolutamente certa dell’esistenza dell’uomo, oltre al fatto che egli esiste, è l’inevitabilità della morte. Soprattutto di fronte a 11

Udienza Generale del 2 novembre 1988, in OR (2-3 novembre 1988), p. 4. Evangelium Vitae. Lettera enciclica sul valore e l’inviolabilità della vita umana (14 settembre 1998), 97, in EV/14, 2491. 12

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questo dato sconcertante egli non può più rimandare la sua ricerca o illudersi di scegliere la più sbrigativa e facile, poiché gli viene fortemente richiesto l’impegno inderogabile della ricerca sincera di una risposta esaustiva. Ognuno vuole — e deve — conoscere la verità sulla propria fine. Vuole sapere se la morte sarà il termine definitivo della sua esistenza o se vi è qualcosa che oltrepassa la morte; se gli è consentito sperare in una vita ulteriore oppure no. Non è affatto casuale, precisa il Papa a questo riguardo, che i filosofi dinanzi al fatto della morte si siano riproposti sempre di nuovo questo problema insieme con quello sul senso della vita e dell’immortalità, e che la morte di Socrate abbia dato un orientamento decisivo al pensiero filosofico che ne ha registrato gli influssi per due millenni. Il tema della morte, infatti, può diventare severo richiamo, per ogni pensatore e per ogni persona che abbia a cuore la comprensione del significato profondo della sua esistenza e dell’orientamento ultimo da darle, a ricercare dentro di sé il senso autentico della propria esistenza13. La questione fondamentale della morte è dunque importante come preambolo per la ricerca stessa di senso e per la risposta della fede e della teologia. La domanda prende le mosse dal pensiero alla morte, dalla consapevolezza della fine, dalla coscienza di essere degli esseri finiti, temporali. La stessa risposta è resa possibile dalle questioni radicali che pone la morte, dal fatto stesso che essa c’è, in quanto si comprende che nessun sapere umano — né la filosofia, né tanto meno la scienza — possono darci delle soluzioni esaurienti e convincenti circa il destino dell’uomo nella morte e oltre la morte.

1. NATURALIZZAZIONE DELLA MORTE La pienezza del tempo di cui parla san Paolo nella Lettera ai Galati (cfr Gal 4,4) ha la sua ragione e il suo contenuto proprio nel fatto che il Figlio di Dio si è fatto uomo. Con l’Incarnazione Dio si è calato dentro la 13 «La ricerca delle condizioni nelle quali l’uomo pone da sé le prime domande fondamentali sul senso della vita, sul fine che ad essa vuole dare e su ciò che l’attende dopo la morte, costituisce per la teologia fondamentale il necessario preambolo, affinché, anche oggi, la fede abbia a mostrare in pienezza il cammino ad una ragione in ricerca sincera della verità» (Giovanni Paolo II, Lettera ai partecipanti al Congresso internazionale di Teologia Fondamentale a 125 anni dalla “Dei Filius” (30 settembre 1995), in OR (3 ottobre 1995), 8.

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storia dell’uomo immettendo in essa l’eternità che ha perciò stesso compiuto e dato pienezza al tempo. Quest’ultimo, fecondato dall’eternità, non è dunque assimilabile ai cicli cosmici arcani, nei quali la “storia” dell’universo, e in particolare dell’uomo, costantemente si ripeterebbe. La Scrittura, infatti, ci dice, confermando un dato di immediata evidenza, che l’uomo sorge dalla terra e alla terra ritorna (cfr Gn 3,19). Per lui c’è un inizio e una fine. La sua esistenza terrena ha una durata. Ma nell’uomo vi è anche un’insopprimibile aspirazione a vivere per sempre, un’aspirazione che non può essere soddisfatta di certo dal pensiero che si è parte di un inarrestabile e sempre uguale ciclo di nascite e morti universali. Se l’esistenza dell’uomo ha un senso, e ce l’ha nella misura in cui è unica ed ha un inizio e una fine, come pensare ad esempio ad una sua sopravvivenza al di là della morte? Come non pensarci? Alcuni, fa notare il Papa, hanno immaginato varie forme di reincarnazione: in dipendenza da come l’uomo ha vissuto nel corso dell’esistenza precedente, si troverebbe a sperimentare una nuova esistenza più nobile o più umile, fino a raggiungere la piena purificazione. Questa credenza, molto radicata in alcune religioni orientali, sebbene sia contraria alla fede cristiana e alla testimonianza biblica, secondo il Papa potrebbe conservare un valore positivo in quanto sta ad indicare che in verità l’uomo non intende rassegnarsi in alcun modo alla irrevocabilità della morte. Egli è infatti convinto della propria natura essenzialmente spirituale e immortale, una natura che non può arrendersi al potere della morte e alla sua forza distruttrice e annichilente14. Spesso, nella società contemporanea, prima ancora che dal pensiero della morte l’angoscia nasce dall’horror vacui, dalla paura del vuoto, dalla paura di non essere più presso di sé, di non essere “normale”, di non essere, cioè, autosufficienti e di dover dipendere perciò dagli altri. Infatti, fa più paura una lunga malattia che lentamente e inesorabilmente deteriora il corpo e inibisce le facoltà mentali dell’uomo, piuttosto che la morte in sé. Anzi, in alcuni casi la malattia viene desiderata perché ritenuta una vera e propria liberazione da una sofferenza ormai divenuta insopportabile. La società contemporanea sta attuando un vero e proprio programma di “normalizzazione” della morte e di conseguente “criminalizzazione” della malattia, poiché chi è malato non viene più considerato “normale” in quanto è ritenuto incapace di lavorare e di produrre. Egli è considerato quasi alla 14

Tertio Millennio Adveniente. Lettera Apostolica per la preparazione del Giubileo dell’Anno 2000 (14 novembre 1994), 9, in EV/14, 1728.

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stregua di un parassita che causa danni ingenti all’economia pubblica, un fastidioso inquilino di cui sarebbe utile liberarsi15. Affermare la realtà della morte come fine dell’esistenza mondana dell’uomo significa invece riconoscere valore alla storia, agli eventi, alle decisioni prese e a quelle che non lo sono mai state. Se la vita dell’uomo fosse soltanto un “momento” dell’inarrestabile e sempre uguale ciclo arcano di tutte le cose, egli in verità non avrebbe un vero inizio (nascita) e una vera fine (morte) e la sua vita non sarebbe una storia, fatta di gioie e sofferenze, di desideri, di speranze e di paure, di amore e passioni, perché ogni cosa (ogni cosa!) sarebbe sbiadita dallo scorrere (scorrere?) sempre uguale, monotono, dell’identico. Se la morte dell’uomo è dunque parte (parte?) del ciclo cosmico arcaico e si diluisce e confonde con tutto il resto (la morte dell’uomo è un sacrificio che permette l’eterno ciclo della nascitamorte-rinascita di tutte le cose), egli non è altro che una particella del tutto, anzi egli non è neppure un “egli”, cioè un “io”, una persona, per cui il suo vivere e il suo stesso morire non hanno, non possono averlo, un significato e valore “altro”, ulteriore, rispetto al fatto del momentaneo apparire e dell’inevitabile ritirarsi nell’ombra. Grazie a Dio non è soltanto la fede a smentire questa visione, ma la stessa ragione e l’esperienza la negano. Tuttavia, sebbene non si possa tralasciare l’acuta ispezione della percezione della morte nella società contemporanea fatta da altri studiosi, tanto che la riflessione credente non ha mancato, soprattutto negli ultimi decenni, di dialogare con le scienze umane e di lasciarsi stimolare e provocare da queste nell’approfondimento di una questione così delicata e complessa, fondamentale per la comprensione stessa dell’uomo, è anche vero che la teologia ha sempre più compreso che è suo compito inderogabile quello di fare un passo avanti rispetto al cammino, seppure fecondo, interessante e prezioso, percorso dalle scienze umane, perché il suo punto di partenza, il suo dinamismo, il suo orientamento e la sua meta sono offerti dalla parola della fede e dalla rivelazione, le uniche che possono veramente riscattare l’uomo da riduzioni di matrice materialistica e naturalistica. Avendo chiaro questo dato, non si può purtroppo negare che ormai appare con evidenza che la morte per molti ha cessato di essere percepita come l’accesso ad un’altra fase dell’esistenza. Essa, cioè, ha in parte 15

Si veda a questo proposito D. LENZEN, Malattia e salute, in Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, cit., 903-909.

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smarrito il suo significato metafisico e “ulteriore” che solamente in una visione trascendente dell’uomo e della storia può aversi. È stata infatti ridotta a pura e semplice uscita, a momento in cui cessa ogni progetto e proposito. È divenuta nella società contemporanea la conclusione del tutto privata di quell’affare privato che è la vita. Questa società ha sostituito alla preoccupazione metafisica per la morte come conclusione dell’esistenza, le preoccupazioni pratiche per i pericoli specifici che minacciano la vita, soprattutto le malattie, concentrando la sua attenzione e i suoi sforzi nell’affrontare i problemi gestibili e rinunciando a quelli ingestibili e non affrontabili come la morte. Da condizione esistenziale dell’umanità, la morte e la mortalità sono state polverizzate in una miriade di eventi di morte privata, ciascuno con la sua causa evitabile: la morte come tale è inevitabile, ma ciascuna morte particolare che ha una sua causa particolare, questa forse lo è. Se la lotta contro la morte è priva di senso, la lotta contro le sue molteplici cause non lo è affatto. Il risultato di questo processo, uno dei risultati più subdoli e temibili, è stato il silenzio che ha cominciato ad avvolgere la questione della morte: questa è diventata sempre più l’innominabile. Di essa non si discute più in maniera significativa e in modo sensato: alla morte, come evento metafisico e significativo per l’esistenza dell’uomo, non conviene pensare perché o riguarda un evento posto all’estremità ultima della vita, per cui non ha senso crogiolarsi e concentrarsi su di essa prima del tempo, o è perennemente presente nella vita attraverso tutta una serie di micro-decessi (malattie, pensionamenti, licenziamenti, divorzi, ecc.) che sembrano tutto sommato uguali e perciò stesso nessuno di essi sembra essere alla fine un vero punto di non ritorno della vita dell’uomo (scomposizione della vita in un groviglio di episodi che hanno un inizio e una fine-morte, che sono banalmente quotidiani e passeggeri, con un carattere essenzialmente evanescente ed effimero) e tutti altrettanto superabili e non-definitivi. La riflessione credente deve fare i conti con questo contesto e agire in esso per formulare la sua proposta all’uomo di oggi, senza per questo lasciarsi sopraffare dalle sue dinamiche che a volte sembrano ormai definitivamente ingovernabili. Dovrà, cioè, osare un cammino controcorrente, proporre una parola forte, ri-proporre il messaggio, il lieto messaggio, evangelico. Giovanni Paolo II che ha fatto dell’uomo, della persona umana, il centro del suo pensiero e della sua riflessione, non ha mai mancato di gettare uno sguardo attento a quanto filosofi, sociologi e intellettuali in genere hanno offerto alla riflessione credente per scandagliare ancora più perfetta-

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mente questo mistero dell’esistenza dell’uomo16. Egli lo ha fatto, però, da credente. Da uomo, cioè, perfettamente cosciente che l’ultima parola non può essere consegnata alla filosofia o alle altre scienze umane, tanto meno alla medicina, alla biologia, alla biotecnologia, ecc., ma solamente alla parola della fede, alla rivelazione, a Cristo. Il suo sguardo, allora, è stato costantemente rivolto da un lato a quanto la cultura ha prodotto su questo argomento, avvantaggiandosi della sua analisi spesso puntuale e profonda, dall’altro alla rivelazione nella quale solamente è possibile trovare le risposte a questo sommo enigma della condizione umana. Per lui, l’uomo è comprensibile solamente come essere storico, inserito realmente nel divenire storico, in un divenire che ha un orientamento, una meta. La vita dell’uomo non è la somma di una molteplicità di episodi e il risultato della somma di tanti “adesso”, ma è la storia di una libertà, di un rapporto, di un dialogo, di un amore. È la storia di una chiamata e della risposta a questa chiamata. Ogni istante non è uguale a quello che lo ha preceduto o a quello che lo seguirà, ma è prezioso, unico, irripetibile, essenziale perché l’uomo raggiunga se stesso, cresca e maturi nel suo riferimento a Dio e agli altri uomini, perché si realizzi come persona. L’uomo è perciò la sua storia e vive la sua esistenza. L’esperienza che egli quotidianamente fa della morte non potrà mai sostituirsi all’incontro che egli è chiamato a fare personalmente con questo mistero alla fine della sua vita. La morte, tra gli eventi da lui vissuti è forse il più naturale, ma certamente per lui è anche il più estraneo e oscuro. Egli deve vivere la vita sul serio, come realtà, e per fare questo deve cominciare a rinunciare all’affannoso tentativo di esorcizzare la morte e di naturalizzarla diluendola nel suo quotidiano e ordinario esistere.

2. AMBIGUITÀ E LIMITI DEL PROGRESSO Nell’era tecnologica l’uomo rischia di essere vittima degli stessi successi della sua intelligenza e dei risultati delle sue capacità operative se va incontro ad una sorta di “atrofia” spirituale, di durezza e freddezza del cuore; se considera se stesso un animale un poco più evoluto degli altri e prodotto dal gioco del caso; materia organica, semplicemente e solamente 16

Cfr A. LOBATO (a cura di), L’uomo, via della Chiesa: studi in onore di Giovanni Paolo II, Milano 1991, 139-159.

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materia organica destinata, nonostante tutti i suoi sforzi e tutte le sue arguzie mentali, all’annientamento. Il progresso che dovrebbe essere a servizio dell’uomo, nella misura in cui si trasforma in scientismo tecnologico, ideologia animata dalla volontà di potenza e spinta dall’idea che è possibile trasformare tutto, si ritorce contro l’uomo stesso e diventa foriero di morte. Trasforma l’uomo in cosa, genera quell’anticultura di morte che porta alla “cosificazione” dell’uomo che viene così ridotto a merce, a cosa tra le cose, non più persona degna di amore personale che esige fedeltà17. Il progresso, che caratterizza la società efficientista contemporanea, piuttosto che essere messo al suo servizio, per un miglioramento della sua vita, dalla nascita alla morte, e che con tanta difficoltà, con lo spreco di tante energie e con tante spese è stato costruito dalle generazioni umane, contiene purtroppo nella sua complessità un potente coefficiente di morte. Nasconde in sé un immane potenziale di morte18. Il Papa si chiede se la società ammaliata e quasi stordita da quanto essa stessa ha prodotto e che tuttavia non riesce più a controllare del tutto, sia veramente consapevole di quali possibilità di distruzione siano custodite ad esempio negli arsenali militari e nucleari, e se questa consapevolezza contribuisca ad accrescere o meno la paura che l’uomo prova di fronte alla morte; di fronte alla possibilità reale non solo della propria morte, ma anche di quella dell’intera umanità e del pianeta, minacciati da un sempre possibile cataclisma nucleare19. La paura sarebbe giustificata perché non solo esistono possibilità di distruzione e di uccisione prima sconosciute, ma anche perché oggi gli uomini continuano ad uccidere abbondantemente altri uomini, quasi in maniera sistematica e programmata! Sembra che insieme con questo gigantesco progresso materiale, a cui partecipa la nostra epoca, siamo arrivati contemporaneamente al tentativo di cancellare proprio l’uomo, constata con amarezza il Papa. Infatti, la situazione in cui l’uomo contemporaneo si trova a vivere è segnata da una profonda ambivalenza: da un lato la fiducia in un progresso sempre crescente, dall’altro la paura, anch’essa sempre più 17

Udienza Generale del 29 novembre 1978, in OR (30 novembre 1978), p. 1. Omelia tenuta durante la visita pastorale a Torino del 13 aprile 1980, cit., 4. 19 Non va dimenticato che il Papa si riferisce al contesto storico degli inizi degli anni ’80, sostanzialmente diverso da quello attuale in cui forse si è allontanata la paura per un conflitto nucleare di portata planetaria, ma di certo non è mutato così tanto il panorama mondiale, segnato da guerre, tensioni, sviluppo di varie forme di fondamentalismo (religioso, nazionalista) con le conseguenti preoccupazioni legate al terrorismo internazionale e al pericolo che si consumi un vero e proprio scontro di civiltà. 18

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grande, che questo progresso alla fine, privato di regole e non posto al servizio dell’uomo, di tutti gli uomini e di tutti i popoli, si ritorca contro di lui e diventi «l’inizio della morte gigantesca e programmata dell’uomo»20. Queste preoccupazioni del Papa, che forse oggi potrebbero in un certo qual modo apparire meno giustificate rispetto a quando furono pronunciate, in piena guerra fredda, acquistano ancora più forza se comprese anche alla luce di quanto nel suo insieme il secolo XX ha purtroppo registrato: le due grandi guerre mondiali, il programma di portare a termine un sistematico sterminio di massa di interi popoli, Auschwitz, il tentativo di operare vere e proprie pulizie etniche; tanto è vero che lo stesso pontefice, il quale personalmente si è confrontato con queste dolorose esperienze, e avendo ancora vivo nel suo cuore il terrore di quanto accadde e la paura di quanto l’uomo ha in potere di fare contro gli altri uomini e contro il mondo, guarda alle tracce che alcuni contemporanei portano ancora nel loro corpo a testimonianza e denuncia degli orrori del passato e come ammonimento per il futuro. Le paure e le ansie che gravano nel cuore dell’uomo sono dunque giustificate e devono tenere desta la sua attenzione perché si possa ricercare sempre più il bene dell’uomo e quanto contribuisce al suo benessere fisico e spirituale, personale e sociale, e contrasti la morte e tutte le sue espressioni. Lo sforzo di annebbiare questo timore, ad un livello però esclusivamente superficiale, è guidato dalla sempre crescente consapevolezza che il progresso, sempre più accelerato e incontrollato, sta portando l’uomo ad allargare la sfera del suo dominio sul mondo visibile e sulla natura, e alla presunzione di poter perciò dominare la stessa morte e di sconfiggere il timore che essa produce nel cuore. Mai come ora l’uomo, nella sua dimensione planetaria, ha raggiunto un grado tale di consapevolezza circa tutte le forze di cui dispone e che è capace di utilizzare per destinarle al proprio servizio. Certamente mai come ora egli si è servito di esse in tale misura e con tale sicurezza, per cui, almeno da questo punto di vista e in questo senso, la convinzione circa il progresso dell’umanità è pienamente giustificata ed è difficilmente confutabile. Soprattutto nei paesi e negli ambienti di più grande progresso tecnico e benessere materiale, questo atteggiamento nei confronti del crescente progresso va di pari passo con un altro atteggiamento, che 20

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Omelia tenuta durante la visita pastorale a Torino del 13 aprile 1980, cit., 4.


contraddistingue prevalentemente la società occidentale e avanzata e che può essere caratterizzato generalmente come “consumistico”21. Esso testimonia che la convinzione sul progresso è soltanto in parte giustificata in quanto dimostra, denunciandolo, come tale orientamento può ledere l’uomo, trasformandolo in una vittima eccellente, proprio perché può distruggere quel che è più profondamente e più essenzialmente umano. Il consumismo che si è sempre delineato come un vero e proprio costume di vita e che il progresso attuale porta con sé, non prende in considerazione tutta la verità sull’uomo, né la verità storica, né quella sociale, né tanto meno quella interiore e metafisica. Piuttosto, esso è sintomatico del tentativo, non sempre riuscito da parte dell’uomo, di fuggire la verità ultima sulla sua vita e sulla sua morte. Infatti, la sottomissione passiva e compiaciuta alla logica del progresso a tutti i costi porta l’uomo a smarrire la verità, a travisarla, a confonderla e ad identificarla con il puro edonismo, con un piacere effimero e ingannevole, passeggero ed egoistico, da consumarsi subito e per intero. Egli, orientato “consumisticamente”, perde, in questo godimento, la dimensione piena della sua umanità e la coscienza del senso più profondo della vita. Tale inclinazione del progresso alla fine uccide nell’uomo ciò che è più profondamente e più essenzialmente umano, e lascia proprio alla morte, quella morte che presumeva di controllare e allontanare, l’ultima parola. Per questa ragione il timore dell’uomo di fronte alla morte piuttosto che affievolirsi, si aggrava sempre di più e sempre di più reclama delle risposte certe22.

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Durante un’omelia tenuta a Castel Gandolfo nell’agosto del 1979, rivolgendosi agli assistiti del Centro Italiano di Solidarietà, il Papa affermò: «Nei nostri tempi, purtroppo, il razionalismo scientifico e le strutture della società industriale caratterizzata dalla legge della produzione e del consumismo, ha creato una mentalità chiusa entro un orizzonte di valori temporali e terreni, che tolgono alla vita dell’uomo ogni significato trascendente. L’ateismo teorico e pratico largamente serpeggiante, l’accentuazione di una morale evoluzionistica […], l’insita esaltazione dell’uomo come autonomo autore del proprio destino e, all’estremo opposto, la sua deprimente umiliazione al rango di passione inutile, di sbaglio cosmico, di assurdo pellegrino del nulla, in un universo ignoto e beffardo, hanno fatto smarrire a molti il significato della vita ed hanno spinto i più deboli e i più sensibili ad evasioni funeste e tragiche. […] L’uomo — continuava il Papa — ha un estremo bisogno di sapere se merita nascere, vivere, lottare, soffrire e morire. Se ha valore impegnarsi per qualche ideale superiore agli interessi materiali e contingenti, se, in una parola, c’è un “perché” che giustifichi la sua esistenza terrena» in OR (9 agosto 1979: edizione settimanale), p. 9. 22 Omelia tenuta durante la visita pastorale a Torino del 13 aprile 1980, cit., 4.

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Uno sviluppo e un progresso che oscurano la dignità della persona umana o ne compromettono l’integrale crescita e maturazione, secondo quanto afferma con chiarezza Gaudium et Spes 35, e che valutano l’uomo a partire da ciò che ha piuttosto che per quello che è, sono in verità un falso sviluppo e un falso progresso perché predicano e attuano una vera e propria azione (cultura) antiumanistica e di morte, incapace di condurre la persona umana verso la sua autentica realizzazione e verso il rinnovamento stesso del mondo, violando altresì la vera gerarchia dei valori23. I cristiani riconoscono che tutte le attività umane nel mondo e per il mondo necessitano di essere purificate ed elevate per mezzo della croce e della risurrezione di Cristo, del suo mistero pasquale, concretizzazione del comandamento dell’amore (cfr Gaudium et Spes 37). Il mistero pasquale, infatti, si irraggia dal suo centro che è la morte e risurrezione di Cristo, e raggiunge e penetra il destino e la vocazione dell’uomo sulla terra, dando forma al suo rapporto con il mondo che in Cristo aspira alla perfezione (cfr Gaudium et Spes 45). Il mistero pasquale, allora, è l’unica chiave di lettura che libera il progresso e lo sviluppo dalla tentazione di rivoltarsi contro l’uomo e di promuovere e favorire una cultura di morte che svilisce la dignità e la vocazione della persona umana. «Per il suo irraggiamento, che ha carattere escatologico — manifesta la nuova vita che sorge dalla morte di Cristo — ritorna verso tutti i problemi della vita dell’uomo e dà ad essi, in modo decisivo, una nuova dimensione e un senso nuovo»24. Il mistero pasquale di Cristo indica, poi, il dono e l’effusione dello Spirito Santo la cui venuta costituisce la dimensione integrale dello sviluppo dell’uomo e di tutto ciò che è umano. Un tale sviluppo porta i frutti più pieni della dimensione del mondo, cioè della temporalità, e porta con sé l’inizio della realizzazione escatologica. Il vero progresso e l’autentico sviluppo a 23 Cfr K. WOJTYLA, L’uomo in prospettiva: sviluppo integrale ed escatologia, in ID., Metafisica della persona. Tutte le opere filosofiche e saggi integrativi, a cura di G. Reale e T. Styczen!, Milano 2003, 1507. Si tratta di un saggio pubblicato per la prima volta in Colloquium salutis del 1975 e proposto nel volume contenente tutte le opere filosofiche e i saggi integrativi (articoli pubblicati tra il 1975 e il 1978 in cui vengono approfonditi e completati alcuni concetti espressi in Persona e atto). Qui il teologo e filosofo Wojtyla sviluppa alcuni pensieri sulla morte e sull’immortalità incentrando la sua analisi sul mistero pasquale e sul suo significato per l’uomo e il mondo; fa questo partendo dalla considerazione del contesto in cui la riflessione escatologica del Vaticano II, e in particolare sulla morte e l’immortalità, si pone. 24 K. WOJTYLA, L’uomo in prospettiva, cit., 1509-1510.

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servizio della persona umana, si potrebbe dire, non solo (in negativo) non possono creare e alimentare strutture di morte e di frustrazione di quanto è genuinamente umano, ma al contrario (in positivo) devono essere la preparazione e in un certo senso la relativa realizzazione di quanto attende l’uomo e il mondo nella pienezza del compimento escatologico, benché si debba adeguatamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo e dall’affermarsi del regno di Cristo, e si debba altresì sottolineare l’intimo legame che al contempo sussiste tra gli sforzi di bene compiuti dall’uomo e l’apparizione escatologica dei cieli nuovi e della terra nuova promessi dal Signore25. Il progresso posto al servizio dell’uomo è perciò il progresso vero e autentico che si oppone alla morte e ricerca il rispetto e la salvaguardia della vita.

3. L’OGGI NELLA TENSIONE TRA I CONFLITTI E LA PACE Il tema della pace è parte integrante della tradizione culturale, umana e storica di Karol Wojtyla. Le ragioni di tutto ciò non sono poi così segrete. Questi, infatti, ha vissuto in prima persona, durante la sua giovinezza, il dramma della Seconda Guerra Mondiale, la deportazione nei campi di concentramento di alcuni suoi amici o vicini di casa. Da pontefice ha poi assistito allo scoppio di molti altri conflitti: dalle due guerre nel Golfo Persico alle guerre etniche che hanno insanguinato i Balcani, per non parlare dei numerosi conflitti che stanno segnando ancora vaste zone dell’Africa o di altre parti del mondo, solo per ricordare i fatti forse più tristemente emblematici. Alla base di tutto il pensiero wojtyliano e della sua meditazione sulla pace e le tematiche della nonviolenza, c’è il concetto di persona che in verità vive in un quotidiano permeato dall’Assoluto, che non conosce altro se non l’Assoluto (da qui deriva il carattere personalistico dell’incontro tra Dio e l’uomo che si concretizza nella fede). Giovanni Paolo II ha una concezione sacrale della persona la quale si realizza nell’azione che è partecipazione, intesa quest’ultima come agire insieme agli altri26. La solidarietà e l’amore sono gli elementi fondamentali per ogni 25

Cfr ibid., 1511 in cui si riprende il n. 37 di Gaudium et Spes. Emblematico in questo senso è soprattutto l’ultimo capitolo dell’opera Persona e atto, dal titolo: Lineamenti di teoria della partecipazione in cui Wojtyla denuncia come sia l’individualismo che il totalitarismo sono entrambi delle forme di negazione della parteci26

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corretto discorso sulla pace e sulla nonviolenza. Queste ultime si possono realizzare solamente nella misura in cui l’altro non viene considerato e trattato come un mezzo, ma solo come un fine; nella misura in cui l’altro è compreso come persona con la quale intessere un rapporto di comunione e reciproca conoscenza, di rispetto e accoglienza. La dimensione planetaria della pace ha la sua radice nel cuore dell’uomo che scopre se stesso e i suoi simili come fatti gli uni per gli altri, che si realizzano solamente nel mutuo dono e nella mutua accoglienza, nell’apertura a quell’Assoluto che si offre e accoglie senza violenza e forzature, ma nell’amicizia, nel rispetto e nell’amore27. A più riprese Giovanni Paolo II ha messo al centro del suo impegno, anche diplomatico oltre che ministeriale e apostolico — sebbene egli non abbia mai inteso disgiungere nettamente il suo ruolo di pastore universale da quello strettamente politico da lui rivestito a livello internazionale —, la ricerca costante di un equilibrio di rapporti internazionali atti a favorire e conservare la pace. Anche la sua attività strettamente diplomatica è sempre stata perciò segnata da questo obiettivo ed è stata esercitata e vissuta come vero e proprio ministero apostolico. La sua carità apostolica non si è limitata unicamente alla sollecitudine per tutte le chiese, ma ha anche ricercato il bene delle stesse nazioni e dei popoli, indipendentemente dal loro credo religioso o dagli orientamenti politici ed economici dei loro governi. Per il Papa, infatti, è stato necessario che con impegno i governi delle nazioni e anche gli organismi sopranazionali e internazionali, si prodigassero per piantare, far crescere e maturare, in tutti gli angoli della terra, nei paesi sviluppati come in quelli in via di sviluppo e ancora lontani dal raggiungimento di condizioni di vita dignitose per ciascuna persona, una vera e propria “cultura della pace” come garanzia e premessa di una pace concreta e duratura nel mondo affrancato dai sempre più cupi segnali di morte che l’attraversano. È questo il contenuto di moltissimi interventi di Giovanni Paolo II rivolti, il più delle volte, ma non solo, al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ai governi delle nazioni visitate nel corso dei pazione, poiché in realtà lo stesso totalitarismo non è altro se non una sorta di “individualismo alla rovescia”. La partecipazione è al contrario il tratto caratteristico della persona agente insieme con gli altri (cfr Metafica della persona, cit., 1165-1213). 27 Cfr a questo proposito K. WOJTYLA, Amore e responsabilità, in ID., Metafisica della persona, cit., 463-742.

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numerosi viaggi apostolici, ai rappresentanti delle diverse organizzazioni che operano nel mondo, ma anche ai semplici cittadini e ad ogni uomo. Per il Papa non può esserci vera cultura della pace se non c’è giustizia e rispetto per la persona umana; se, cioè, non si rispetta l’uomo sin dall’inizio della sua esistenza, dal concepimento fino alla sua morte. Una cultura della pace, infatti, non può nascere mai da una cultura della morte che oggi sembra prevalere e prendere il sopravvento. Lì dove non si rispetta la vita umana, gli interessi economici, la corsa agli armamenti, gli obblighi commerciali, hanno il sopravvento28. La cultura della pace è la fondamentale condizione su cui si costruisce in maniera salda una pace forte e duratura. La costituzione e la salvaguardia della pace è una condizione indispensabile perché si combatta la cultura della morte (fame, denutrizione, esclusione di interi popoli dalla partecipazione ai beni della terra, analfabetismo, ecc.). Gli scenari attuali sono perciò gravidi di segnali negativi. Esse contengono, ciò nondimeno, segnali non trascurabili di bene e di pace capaci di fronteggiare tutto ciò che attenta quotidianamente alla vita della persona umana e ai suoi inalienabili e fondamentali diritti.

4. LA SOLITUDINE DEL MORENTE La morte fa paura. Il timore è il sentimento istintivo che l’uomo prova al suo sopraggiungere o solamente al suo approssimarsi. Sarebbe del tutto innaturale rimanere impassibili di fronte alla fine ormai prossima o sordi di fronte al suo preavviso. La solitudine della vita sfocia nella solitudine della morte. Quando la vita non è vissuta più come un esistere per, allora anche la sofferenza e la morte perdono qualsiasi significato ulteriore al di fuori di quello denunciato dalle analisi e diagnosi scientifiche e mediche. L’uomo è simile a Dio non solo a ragione della sua natura spirituale, ma anche a ragione della sua capacità di creare comunità con altre persone; comunità soprattutto con Dio. La comunione è essenziale per la persona, la costituisce come tale. Quando l’uomo smarrisce il vero senso della persona, smarrisce anche il vero valore della sua esistenza e della sua morte. Quest’ultima, esperita e compresa come fine assoluta di tutte le cose, è solitudine, è l’espressione massima di quella solitudine asfissiante 28

Si veda a questo riguardo B.J. O’CONNOR (a cura di), Papal Diplomacy. John Paul II and the Culture of Peace, Indiana 2005.

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che prova l’uomo quando si chiude agli altri e a Dio; quando si rinchiude in se stesso ed entra nel vicolo cieco dell’individualismo che lo imprigiona in un totale isolamento. Solamente una concezione trascendente della persona essenzialmente aperta e chiamata ad aprirsi a Dio e agli altri, una persona chiamata alla comunione, libera da questo vicolo cieco e dona un senso nuovo all’esistenza. La sofferenza è un’esperienza privilegiata nella quale l’uomo si conosce nel suo essere personale di fronte agli altri, con gli altri e per gli altri. La sofferenza si conosce per esperienza. Le parole sono sempre eccedenti e superflue rispetto al dolore. Esso, tuttavia, non solo è un’esperienza individuale, ma anche individualizzante. Il silenzio e il grido sono gli atteggianti comuni del sofferente, ma sono vissuti da ciascuno in maniera del tutto personale. Ciò che è innegabile, e che nella società contemporanea è divenuto ancora più palese, è che uno dei tratti dominanti e insieme più tremendi della sofferenza è dato dal fatto che essa traccia un profondo solco di divisione intorno a colui che soffre. Per questa ragione si può dire che il dolore delimita e che la sofferenza è in ultima analisi l’esperienza del limite, della propria limitazione, ed è perciò anche una via privilegiata attraverso la quale il soggetto fa esperienza della propria individualità. La via del dolore, cioè, consente all’uomo di costituirsi integralmente come individuo per la ragione, molto semplice e drammatica, che nessuno è sostituibile nel proprio dolore così come non lo è nella propria morte. La sofferenza è però ciò che aiuta l’uomo a comprendersi sia come altro rispetto a coloro che gli stanno di fronte, sia in forza di questa auto-comprensione, come essere chiamato ad aprirsi all’altro in quanto altro da sé, e di stabilire con lui reali rapporti e relazioni nelle quali l’io si pone e matura. L’io si fa io in maniera specialissima e peculiare nel dolore. Lì esso comunica in maniera unica con l’altro che gli sta accanto, e lì comprende l’indispensabile contributo dell’altro perché egli sia se stesso. La sofferenza è dunque fondamentale perché l’uomo giunga a se stesso e si apra agli altri davvero. Nella sofferenza la persona umana ha anche un anticipo oltremodo unico della stessa morte poiché il dolore restringe la possibilità espansiva della vita e approssima quanto mai alla fine: davvero la sofferenza fa comprendere all’uomo che media vita in morte sumus, nel cuore della vita stessa, cioè, si produce l’esperienza di morte. Contrariamente a quanto la società di oggi tende a fare, espropriando il malato terminale della sua stessa morte, mascherandola o narcotizzandola, la Chiesa è convinta che non solo la morte è in sé un momento antro-

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pologicamente rilevante, ma che pure la malattia, in particolare il suo stadio finale, abbia un valore unico e importante per il cammino di crescita umana e spirituale dell’uomo. A patto, però, che il malato terminale, non affronti questo delicatissimo e irripetibile momento della sua esistenza, nella completa solitudine, nell’anonimato di un ospedale o di una casa di cura, privato della solidarietà e dell’affetto delle persone care e del conforto di quanti lo hanno amato, nonché, per quanto riguarda i credenti, della speranza che gli deriva dalla fede. Per questa ragione, conclude il Papa, «avvicinandosi alla morte, gli uomini devono essere in grado di poter soddisfare ai loro obblighi morali e familiari e soprattutto devono potersi preparare con piena coscienza all’incontro definitivo con Dio»29. Tutto ciò proprio perché «La domanda che sgorga dal cuore dell’uomo nel confronto supremo con la sofferenza e la morte, specialmente quando è tentato di ripiegarsi nella disperazione e quasi di annientarsi in essa, è soprattutto domanda di compagnia, di solidarietà e di sostegno nella prova. È richiesta di aiuto per continuare a sperare, quando tutte le speranze umane vengono meno»30.

Già il Concilio Vaticano II aveva espresso questa verità quando in un passaggio particolarmente delicato di Gaudium et Spes 18 aveva affermato che “in faccia alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo” perché l’uomo si strugge non solo al pensiero di dovere morire, ma ancora di più all’idea che con la morte tutto finisca. Ciò che lo salva dalla disperazione è l’istinto del cuore che lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea di una totale rovina e di un annientamento definitivo della sua persona. Un istinto suscitato e alimentato dal germe dell’eternità che porta in sé, irriducibile com’è alla sola materia. Proprio questo germe insorge contro la morte e gli attesta che questa non è per lui la fine definitiva della sua esistenza. In questa presa di coscienza è particolarmente prezioso l’apporto e la vicinanza delle persone care e dell’intera comunità credente che non possono fare mancare al morente il loro sincero aiuto e la loro fraterna, spontanea ed efficace solidarietà. A differenza degli altri animali l’uomo non solo sa, ma sa di sapere; è consapevole di essere consapevole, è cosciente, è auto-cosciente. 29 30

Evangelium Vitae 65, in EV/14, 2386. Ibid., 67, in EV/14, 2391.

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L’autocoscienza è un elemento che caratterizza l’uomo in ciò che ha di più proprio e di più inalienabile. Ma è anche ciò che può farlo soffrire di più, che può angosciarlo, quando si tratta soprattutto della coscienza di essere mortale, di essere incamminato verso una fine certa. La morte si presenta per l’uomo come una sconfitta, come la sconfitta della sua stessa ragione, perché il soggetto può pensare alla morte degli altri, ma mai alla propria morte. È praticamente impossibile, infatti, che il pensiero riesca a pensare la propria non-esistenza; essa gli rimane irrapresentabile in quanto è pensata da un essere che è ancora in vita e che non ha mai sperimentato la fine del suo essere-nel-mondo, la vacuità e il vuoto che essa evoca. Anche per queste ragioni nella società contemporanea, per quanto la morte faccia paura e intristisca chi volge il pensiero verso di essa, mai è tanto temibile e impaurisce come la sofferenza, che è nelle possibilità di esperire nella sua stessa carne. Questa paura della sofferenza viene poi acuita dal pensiero di doverla vivere nella solitudine, nell’abbandono e tra l’indifferenza di tutti. Quasi del tutto sorda di fronte a questa evidenza, la società moderna ha attuato un vero e proprio programma di “decostruzione” della mortalità consistente fondamentalmente nel tentativo di dissolvere la questione della lotta contro la morte in una serie crescente e inesauribile di battaglie contro particolari malattie e altre possibili minacce alla vita. La morte, come emergeva in precedenza, è per la società contemporanea un insieme di micro-eventi inseriti nel corso dell’esistenza: ciò che fa paura non è tanto la morte in sé, ma le morti che segnano la vita di ciascun individuo. Il morente, in questo contesto, è ancora una volta un testimone scomodo di ciò che la società moderna ha tentato e tenta di occultare, e per questa ragione va rimosso al più presto, per questa ragione va “isolato” da tutti gli altri. Il fenomeno dell’abbandono del morente che si sta estendendo nella società sviluppata, precisa a questo proposito il Papa, ha diverse radici e molteplici dimensioni, presentate con attenzione nell’analisi degli specialisti31. Innanzitutto c’è quella che può essere detta la dimensione socioculturale, che va sotto il nome di “occultamento della morte”. Secondo questa visione, le società, organizzate sul criterio della ricerca del benessere materiale, sentono la morte come un non senso e, nell’intento di cancellarne

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Discorso alla Pontificia Accademia per la vita del 27 febbraio 1999, in OR (28 febbraio 1999), p. 5.

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l’interrogativo, ne propongono a volte l’anticipazione indolore. La “cultura del benessere” che domina oggi nei paesi industrializzati e del primo mondo è sovente accompagnata dall’incapacità di cogliere il senso della vita nelle situazioni di sofferenza e di limitazione che segnano l’avvicinamento dell’uomo alla morte. «Una simile incapacità — precisa il Papa — risulta acuita quando si manifesta all’interno di un umanesimo chiuso al trascendente, e si traduce non di rado in perdita della fiducia per il valore dell’uomo e della vita»32. Una seconda dimensione è quella filosofica e ideologica, in base alla quale si fa appello all’autonomia assoluta dell’uomo ritenuto quasi l’autore stesso della propria vita e del proprio destino. Si fa leva perciò sul principio dell’autodeterminazione, ritenuto assolutamente intangibile tanto da giungere ad esaltare il suicidio e l’eutanasia perché paradossalmente giudicati come forme di affermazione e insieme di distruzione del proprio io. C’è inoltre un’altra dimensione, meno teoretica e più attenta alla prassi. È quella medica e assistenziale, che rivela sempre più la tendenza a limitare la cura dei malati gravi, spesso inviati in strutture sanitarie non sempre capaci di fornire un’assistenza sensibile ai bisogni profondi della persona e autenticamente umana. Una delle dirette conseguenze di questo stato di cose è che la persona ospedalizzata si trova non di rado fuori del contatto con la famiglia ed esposta ad una sorta di invadenza tecnologica che ne umilia la dignità. Il tutto è aggravato dal forte senso di solitudine e abbandono che accompagna chi si trova letteralmente precipitato in un ambiente estraneo e sovente “sterilizzato” anche dal punto di vista affettivo e relazionale. A tutto questo, come se non bastasse, c’è da aggiungere la spinta occulta di quella che può essere definita una “etica utilitaristica”, che detta le regole di molte società avanzate e che si fonda sui criteri della produttività e dell’efficienza. In questa ottica il malato grave e il morente bisognoso di cure prolungate e selezionate, vengono sentiti, alla luce del rapporto costi-benefici, come un peso e una passività inaccettabile e ingiustificata. Questa mentalità, tra l’altro strettamente vincolata alla prima dimensione e in relazione con tutte le altre, spinge ad un diminuito sostegno alla fase declinante della vita33.

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L. c. Cfr l. c.

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È questo il contesto ideologico in cui si inserisce l’uomo contemporaneo sempre più solo in vita e in morte e in cui la Chiesa è chiamata a riaffermare con rinnovato vigore la dignità della persona umana, dal suo concepimento alla sua morte naturale, e a denunciare le omissioni riguardanti l’assistenza non solo medica, ma anche psicologica e spirituale a chi si trova a vivere l’ultimo tratto della sua esistenza terrena e si prepara a vivere personalmente la dolorosa esperienza della morte. A questo contesto, complesso e difficilmente racchiudibile in definizioni sintetiche, attingono le sempre più frequenti campagne d’opinione miranti alla instaurazione di leggi a favore dell’eutanasia, chiamata la “dolce morte”, e dello stesso suicidio assistito. Non si tratta ovviamente di semplici proclami e riflessioni di natura filosofica, etica, sociologica e psicologica, ma di veri e propri programmi che intendono agire sullo stesso ordinamento giuridico degli Stati, come di fatto dimostrano i risultati già ottenuti in alcuni Paesi. Questo stato di cose è l’amara conferma della diffusione di certi convincimenti che degradano la dignità della persona umana e riducono la sua morte a semplice questione di natura biologica e peggio ancora burocratica. A tutto questo il credente è chiamato a dare delle risposte chiare e convincenti, dopo averne individuato e denunciato le cause.

5. LA MORTE DI DIO, LA FRAMMENTAZIONE DEL SENSO L’uomo chiuso a Dio e rinchiuso in se stesso è destinato all’asfissia, alla morte. È un uomo nel quale la paura della morte diventa terrore irrefrenabile e distruttivo, perché sordo alla parola della speranza che viene generata dalla fiducia nel Signore della vita. La paura è una reazione naturale di fronte alla morte, non lo è invece il terrore cieco. Anche gli apostoli riuniti nel cenacolo di Gerusalemme, fa notare il Papa, sono presi dalla paura, tanto da tenerne chiuse le porte per timore dei giudei. La paura, anche la loro paura, era fondata, poiché era morto sulla croce il Figlio di Dio. «Il timore, che travaglia gli uomini moderni, non è forse nato anch’esso, nella sua radice più profonda dalla “morte di Dio”? Non da quella sulla croce, che è diventata l’inizio della risurrezione e la fonte della glorificazione del Figlio di Dio e contemporaneamente il fondamento della speranza umana e il segno della salvezza, non da quella. Ma dalla morte, con la quale l’uomo

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fa morire Dio in se stesso, e particolarmente nel corso delle ultime tappe della sua storia, nel suo pensiero nella sua coscienza, nel suo operare»34.

Questo, continua il Papa, è il denominatore comune di molte iniziative del pensiero e della volontà umana. L’uomo tenta di togliere a Dio se stesso e anche il mondo, tentando così di emanciparsi e di liberarsi dalla cosiddetta alienazione religiosa. Egli sottrae a Dio se stesso e il mondo pensando che soltanto in questo modo potrà entrare nel loro pieno possesso, diventando il padrone del mondo e del proprio destino. Con questa operazione egli “fa morire” Dio in se stesso e negli altri. Per favorire il raggiungimento di questo scopo si sono mossi e continuano a muoversi interi sistemi filosofici, programmi sociali, economici e politici. Viviamo, perciò, nell’epoca di un gigantesco progresso materiale, che è anche l’epoca di una negazione di Dio prima sconosciuta. Tale è l’immagine della nostra civiltà. Una volta che l’uomo recide il suo rapporto con Dio, sperimenta la morte che è alienazione, silenzio. Egli muore perché fa morire gli altri, fa morire Dio in sé e negli altri abbandonandosi, così, alla morte e alla sua potenza nefasta. Ciononostante, l’operazione portata avanti dall’uomo contemporaneo atta ad estromettere Dio da se stesso e da tutti gli ambiti della sua vita, piuttosto che attenuare la sua paura di fronte alla morte, o addirittura di annullarla, l’ha accentuata e ha amplificato lo smarrimento e il disagio esistenziale da lui provato di fronte al mondo, alla storia e alla sua fine. Egli quindi continua ad avere paura forse perché, in conseguenza di questa sua negazione, in ultima analisi, rimane solo: metafisicamente solo… interiormente solo. O forse perché egli, che fa morire Dio, si è rassegnato a smarrire qualsiasi regola e freno che lo trattenga dall’uccidere gli altri uomini, all’imporre loro la morte e di decidere così del loro destino35. La morte è stata l’eredità costruita e lasciata anche dalle grandi ideologie del male, soprattutto nazismo e comunismo, che hanno attraversato il XX secolo; ideologie che il Papa ha conosciuto personalmente e il cui potere, nefasto, ha saggiato nella sua stessa carne. Queste promettevano all’uomo la salvezza, la vita e la liberazione dai limiti del bisogno e della

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Omelia per la visita pastorale a Torino del 13 aprile 1980, cit., 4. L. c.

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religione, ma invece lo hanno reso schiavo, lo hanno umiliato e ucciso, lo hanno assoggettato ai più crudeli atti della morte36. «Nel mondo moderno — riferisce il Papa nella Redemptoris missio — c’è la tendenza a ridurre l’uomo alla sola dimensione orizzontale. Ma che cosa diventa l’uomo senza apertura verso l’Assoluto? La risposta sta nell’esperienza di ogni uomo, ma è anche inscritta nella storia dell’umanità col sangue versato in nome di ideologie e da regimi politici, che hanno voluto costruire un’“umanità nuova senza Dio”»37.

Nella società di oggi, denuncia a più riprese il Papa, si è diffusa una “nuova” (nella forma, nella forza d’urto, nella diffusione capillare, nei modi di presentarsi e imporsi) ideologia del male che in maniera subdola e mascherata svuota l’uomo, la sua dignità e i suoi diritti naturali e inalienabili, del loro significato. Una ideologia che nasce e si sviluppa, come quelle che l’hanno preceduta, dal rinnovato tentativo da parte dell’uomo di respingere Dio al di là del suo orizzonte di vita; dal tentativo, cioè, di rigettare Dio come creatore e di rifiutare di riconoscersi come creatura, incapace per ciò stesso, di determinare ciò che è bene e ciò che è male38. Nell’epoca moderna le ideologie atee hanno teso a sradicare la religione dal mondo e dal pensiero dell’uomo perché accusata di produrre in lui una radicale alienazione che ha come esito l’espropriazione della sua stessa umanità a vantaggio di Dio, al quale si attribuirebbe ciò che è invece esclusiva prerogativa dell’uomo. A partire da questa distorta convinzione, 36

Cfr K. WOJTYLA, Memoria e identità, Milano 2005, 21-22 Redemptoris missio. Lettera enciclica circa la validità del mandato missionario, 8, in Enchiridion delle Encicliche (d’ora in poi EE), 1998, 1049. 38 Cfr K. WOJTYLA, Memoria e identità, cit., 23. Si veda anche la riflessione di G. REALE, K. Wojtyla un pellegrino dell’assoluto, Milano 2005, 146-147. Seguendo il solco di Gaudium et Spes 21 quando afferma che il mondo di oggi, nel suo disperato tentativo di liberare l’uomo da Dio in nome di un’autonomia assoluta della creatura dal Creatore, smarrendo il fondamento divino della realtà e la speranza della vita eterna, Wojtyla sottolineava già che il mondo contemporaneo chiuso a Dio smarrisce e lede anche in maniera assai grave la dignità della persona umana condannando quest’ultima ad un’esistenza rinchiusa entro gli angusti confini della vita terrena e soprattutto lasciando senza risposta le questioni che agitano il suo cuore: il perché della sofferenza, soprattutto degli innocenti, della colpa e della morte. La riflessione conciliare, invece, proponendo e annunciando Cristo come unica speranza dell’uomo intende dare voce e ascolto alle “aspirazioni più profonde del cuore umano” (cfr K. WOJTYLA, L’uomo in prospettiva, cit., p. 1503). 37

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fa notare il Papa, ha preso l’avvio un processo di pensiero e di prassi storico-sociologica, in cui il rifiuto di Dio è pervenuto fino alla dichiarazione della sua “morte”. Si tratta in questo caso di un’assurdità concettuale e verbale inaccettabile e falsa. Ciò che è importante ribadire, invece, è che l’ideologia della “morte di Dio” minaccia innanzitutto l’uomo, come non manca di rimarcare Gaudium et Spes, quando, parlando della questione dell’autonomia delle realtà temporali afferma che la creatura... senza il Creatore svanisce… (n. 22). Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa». L’ideologia della “morte di Dio”, in sostanza, almeno nei suoi effetti dimostra facilmente di essere, sul piano teoretico e pratico, l’ideologia della “morte dell’uomo”39. Avendo chiari questi dati si comprende ancora meglio che in realtà le radici più profonde della lotta tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”, di cui si parlerà più in là, non sono rintracciabili solamente nell’idea perversa di libertà intesa in senso individualistico, ma soprattutto in quel dramma vissuto dall’uomo contemporaneo e consistente fondamentalmente nell’eclissi del senso di Dio e perciò della conseguente eclissi del senso dell’uomo. Questo stato di cose, infatti, tipico del contesto sociale e culturale dominato dal secolarismo, che non manca di interessare persino le stesse comunità cristiane e il singolo credente nella sua vita concreta di ogni giorno e nella sua visione del mondo e della storia, è la causa determinante del crescente sviluppo di una cultura di morte che privilegia quasi esclusivamente il benessere attuale e di facile consumo che la società può offrire specialmente ad alcuni individui particolarmente privilegiati, scartandone degli altri40. «Chi si lascia contagiare da questa atmosfera — aggiunge il Papa — entra facilmente nel vortice di un terribile circolo vizioso: smarrendo il senso di Dio, si tende a smarrire anche il senso dell’uomo, della sua dignità e della sua vita; a sua volta, la sistematica violazione della legge morale, specie nella grave materia del rispetto della vita umana e della sua dignità, produce una sorta di progressivo oscuramento della capacità di percepire la presenza vivificante e salvante di Dio»41.

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Cfr Dominum et Vivificantem. Lettera enciclica sullo Spirito Santo nella vita della Chiesa e del mondo (30 dicembre 1987), 38, in EV/10, 541. 40 Cfr Evangelium Vitae 21, in EV/14, 2231. 41 L. c.

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L’uomo non riesce più a percepirsi come “misteriosamente altro” rispetto alle diverse creature terrene. Egli, anzi, si considera come uno dei tanti esseri viventi e come un organismo che al massimo ha raggiunto uno stadio molto elevato di perfezione ed evoluzione. L’orizzonte della sua vita viene così ridotto entro gli angusti limiti della sua fisicità ed egli impara a cogliere se stesso, così come ha appreso dagli altri, come “una cosa”, un oggetto passeggero, posto nel mondo al pari di tutte le altre cose. Egli non intende più il carattere “trascendente” del suo “esistere come uomo” e vede la sua vita e la sua morte come il punto iniziale e quello finale della retta della sua “esistenza”. «Non considera più la vita come uno splendido dono di Dio, una realtà “sacra” affidata alla sua responsabilità e quindi alla sua amorevole custodia, alla sua “venerazione”. Essa diventa semplicemente “una cosa”, che egli rivendica come sua esclusiva proprietà, totalmente dominabile e manipolabile»42.

Nella vita e nella morte egli appartiene solamente a se stesso, e decide, si illude di decidere, sul suo destino e perfino su quello degli altri. Tutto ciò non manca di condizionare anche la concezione della morte che egli matura. Quando infatti l’uomo giunge a questo, in lui diventa irrefrenabile e davvero grande il terrore della morte e la paura di fronte ad essa. Conclusa la recita del De profundis sulla tomba di Dio, all’uomo non resta altro che intonarlo per sé e per il mondo. In radicale antitesi a queste false convinzioni, Giovanni Paolo II da parte sua non ritiene per nulla una sorta di alternativa l’opzione Dio-uomo, ma è convinto che un equilibrato e sano antropocentrismo può darsi solo in un vero e autentico teocentrismo43. Solo se l’uomo mette al centro Dio comprende veramente se stesso, il valore della sua vita, perché il Dio che mette al centro è il Dio dell’uomo, del debole, del sofferente, del povero, di chi nasce e di chi muore. Non è un Dio antagonista e avversario, ma è il Dio dell’uomo, il Dio fattosi uomo in Cristo Gesù, l’Uomo nuovo. L’evento dell’Incarnazione, allora, il Deus Homo, è la risposta della fede

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Ibid., 22, in EV/14, 2234. Cfr T. STYCZEN⁄, Chi è veramente Giovanni Paolo II?, in T. STYCZEN⁄ – S. DZIWISZ, La preghiera del Getsemani continua, Lublin-Vaduz, 2003, 20-21. 43

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all’apparente antinomia Dio-uomo, e solo qui si incontra e stabilisce la risposta all’uomo e ai suoi perché sul senso dell’esistenza. Non è pensabile un’antropocentrismo più radicale di quello che ha manifestato lo stesso Dio nei confronti dell’uomo, facendosi egli stesso uomo e assumendo veramente la natura umana, compresa la mortalità. La morte di Dio è la morte dell’uomo, l’accoglienza della vita di Dio, della vita che Dio è, significa sperare per l’uomo e aprirsi a un destino di eternità.

5.1. Timore e tremore Dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza umana. Il pensiero dell’uomo è il tentativo, forse non sempre confessato, di liberarsi dalla paura della morte e della fine di ogni cosa. Tutto quanto è mortale vive di questa paura della morte. Ogni nuova nascita non è altro che il primo atto di quel dramma che avrà il suo inevitabile e tragico epilogo nella morte. L’uomo, e con lui tutte le cose, attende con timore e tremore il giorno del suo viaggio nelle tenebre. La mancata comprensione del senso della sofferenza e della morte aggrava il terrore provato dall’uomo che le vive. Neppure il cristiano sfugge a questa legge iscritta nella natura intima di ogni uomo. La paura della morte è una caratteristica umana universale, il connotato che definisce l’esistenza specificamente umana. L’uomo teme che con la morte egli venga privato della comunione, essenza stessa della sua vita. Ha paura della morte (e della malattia che ne è un amaro assaggio), perché teme che essa sia molto più della cessazione della vita fisica e la dissoluzione di un organismo; teme, cioè, che essa sia la definitiva e assoluta separazione degli uomini l’uno dall’altro, la perdita irreparabile e definitiva della compagnia e di tutte le umane relazioni d’amore e amicizia. Anzi, la teme proprio perché la comprende come la fine della comunione e delle relazioni con gli altri. Gli stessi discepoli di Gesù furono colti dalla paura nel momento della sua morte. Il timore provato dai discepoli di Gesù dopo la sua morte è nato dalla morte di Cristo; colui che Pietro, provocato dallo stesso Gesù, dichiara essere il Figlio del Dio vivente (cfr Mt 16,16). Sulla croce, quindi, è morto il Figlio del Dio vivente. Lo scandalo della morte viene aggravato dallo scandalo della morte dell’autore della vita; dal fatto inaudito che Dio si è reso solidale con

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l’uomo mortale e morente, sino a scendere con lui negli abissi della morte, sino a mostrarsi vulnerabile al pungiglione velenoso della morte. La paura assale anche la generazione contemporanea degli uomini. Essi la provano in modo quasi accentuato, soprattutto quando sono più consapevoli dell’intera situazione in cui versa l’uomo e delle conseguenze che derivano dall’avere accettato la morte di Dio nel mondo umano44. Questa paura non si trova sulla superficie della vita umana, perché lì viene compensata mediante i diversi mezzi della civiltà e della tecnica moderna, che permettono all’uomo di liberarsi dalla sua profondità e di vivere nella dimensione dell’“homo oeconomicus”, dell’“homo technicus”, dell’“homo politicus” e, in un certo grado, anche nella dimensione dell’“homo ludens”45. Essa si trova invece nell’intimo dell’uomo, nelle fibre più nascoste del suo animo. Le paure per le minacce fatte alla vita sono espressioni di quella paura che è iscritta nel cuore stesso dell’uomo. La paura degli uomini di fronte alla morte è infatti antica quanto gli uomini stessi. Il silenzio intorno alla morte non aiuta l’uomo a superare il timore da essa provocato, ma lo aggrava. Risulta perciò importante che egli si accosti nuovamente al mistero della morte con il coraggio di interrogarlo e con lo sforzo di conoscerne e comprenderne il senso profondo.

6. CONTRO LA CONGIURA DEL SILENZIO Quando ci si trova davanti alle tombe dei propri cari, si afferma dentro il cuore l’aspirazione a vincere la morte e prende consistenza il respiro di eternità che abita nell’intimo dell’uomo. Le tombe, infatti, sono eloquente richiamo alla fugacità della vita, alla sua estrema fragilità e una testimonianza resa al potere superbo della morte, ma nello stesso tempo suscitano nell’uomo quell’incontenibile e straordinariamente forte istinto del cuore che lo porta a pensare che la morte non è, non può essere, la fine inappellabile di ogni cosa. Sostare in questi luoghi sacri costituisce un’occasione propizia per riflettere sul senso della vita terrena e per alimentare, al tempo stesso, la speranza nell’eternità. I cimiteri sono luoghi del ricordo e della speranza: 44 45

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Cfr Omelia tenuta durante la visita pastorale a Torino il 13 aprile 1980, cit., 4. Cfr l. c.


aiutano a volgere lo sguardo verso il passato, inondando il cuore di tristezza e forse di rimpianti, e verso il futuro, inondando questa volta il cuore di gioiosa attesa e di fervida speranza. I cimiteri sono luoghi dell’incontro tra i vivi e i defunti, del loro dialogo, interrotto dalla morte e reso ancora possibile dalla stessa partecipazione alla vita di Cristo, al suo mistero di morte e risurrezione. Sono luoghi del silenzio e della parola, della solitudine e della comunione. Quando decoriamo, infioriamo, abbelliamo quelle tombe, diamo spazio a quanto il cuore ci suggerisce. Esso ci dice che «un corpo avvolto nell’immobilità fredda della morte non è, non può essere, l’ultima parola di una vita. Un’immensa trama di progetti, di potenzialità solo parzialmente espressi, le attese di un mondo più giusto e più umano, il calore degli affetti, la fatica delle quotidiane fedeltà, tutto questo tesoro di bene non può essere murato nel silenzio implacabile del nulla»46.

Potenzialità e progetti parzialmente espressi! Una morte intesa come fine definitiva e totale dell’uomo non è concepibile perché nullificherebbe anche la sua esistenza storica. Che senso avrebbe per l’uomo progettare cose che lo oltrepassano, forse solo per prolungare in un modo o in un altro la sua esistenza nel ricordo imperituro dei posteri? Veramente si può pensare che all’uomo basti una sopravvivenza nel ricordo e nella memoria delle generazioni successive per acquietare pienamente la sua sete di vita? O che senso avrebbe da parte dell’uomo tendere a ciò che temporalmente, per i limiti insiti in una natura finita e corruttibile, non potrà mai del tutto realizzare o possedere, se le sue intime aspirazioni non hanno in nessuna maniera un respiro eterno che travalica i limiti angusti della sua fine temporale e dell’esistenza storica e che la morte non può assopire e spegnere? Se tutto ciò che progetta e prepara, costruisce e organizza, finisce nella morte, si dissolve in essa, l’uomo è destinato alla frustrazione ed è condannato a un’angoscia senza fine, aggravata dalla mancanza di senso e di ragioni, incapace di cercare e tanto meno di paventare delle risposte. Tutto ciò perché soltanto una piccola parte delle sue aspirazioni e delle sue domande ricevono una risposta, spesso poi non del tutto adeguata, e vengono così soddisfatte; e poi soltanto una parte di quanto viene 46

Angelus Domini del 2 novembre 1986, in OR (3-4 novembre 1986), p. 5.

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soddisfatto si può dire veramente e perfettamente consumato. Ciò che Giovanni Paolo II intende quindi affermare con forza è che né la fama, né il ricordo-memoria che pur sembrano mitigare il suo naturale terrore della morte, possono sanare il desiderio di vita iscritto nell’intimo della persona umana, ma unicamente la parola della fede che annuncia la disfatta della morte nella morte di Cristo Gesù e nella sua risurrezione. Nei tanti cimiteri del mondo, dove sono seppelliti personaggi illustri o uomini e donne semplici e sconosciuti, si avverano le parole che parlano della morte dell’uomo: «Polvere tu sei e in polvere tornerai» (Gen 3,19). Tutti i cimiteri del mondo sono una incessante conferma di queste parole. Essi suscitano nel cuore del credente il desiderio di rivolgere a Dio una preghiera di suffragio per i defunti ivi seppelliti, perché ricevano il dono della pace e della luce, speranza degli uomini che vivono sulla terra. Essi sono anche, contro ogni apparenza contraria, l’espressione della vita, nella quale permangono gli uomini avvolti dalla morte del corpo47. I cimiteri, dice il Papa, ci parlano dei morti che vivono in noi: nella nostra memoria, nel nostro amore, nei nostri cuori. Ci parlano dei nostri genitori, di quelli cioè che ci hanno dato la vita terrestre, grazie ai quali tutti noi siamo diventati partecipi dell’umanità. Ci parlano anche di molti altri uomini, il cui amore, esempio e influenza hanno lasciato nelle nostre anime durevoli tracce48. Questi luoghi sono una narrazione ininterrotta di quanto coloro che sono morti hanno fatto nella loro esistenza e di ciò che sono stati nella loro vita. Tentano di registrare e di esprimere un’esistenza che sfugge, e in un certo qual modo sono una sintesi di ciò che è stata una persona: delle azioni compiute, degli affetti maturati e delle relazioni intessute, dei sacrifici e dell’impegno che ne hanno segnato la vita. «Noi viviamo sempre nell’ambito della verità da loro vissuta, nell’ambito dei problemi che loro hanno servito. Siamo, in un certo senso, la loro continuità. Essi vivono in noi; e noi non possiamo cessare dal vivere in loro»49. I cimiteri sono dunque luoghi che testimoniano l’intima comunione di vita fra i vivi e i defunti; testimoniano, cioè, che i morti, contro tutto ciò che sembrerebbe smentirlo, non cessano di vivere nei vivi, perché coloro che sono ancora in vita, non cessano di vivere da essi e in essi. 47

Cfr Angelus Domini del 1 novembre 1979, in OR (2-3 novembre 1979), pp. 1-2. Cfr Omelia al cimitero del Verano del 1 novembre 1979, in OR (2-3 novembre 1979), pp. 1-2. 49 L. c. 48

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Questa verità non è per il credente solamente di natura psicologica, quasi un escamotage per non affrontare seriamente il dramma oscuro della morte, un espediente disperato per sfuggire al pensiero che la morte porta con sé la fine assoluta dell’uomo. Già il credente sperimenta che la spontanea e istintiva riluttanza nei confronti del pensiero che con la morte tutto finisca, è infatti un indizio chiaro della verità e legittimità del suo desiderio di vita e di comunione, anche oltre il suo confine, tuttavia egli poggia le sue speranze e le sue certezze soprattutto sulla parola di Dio e sulla promessa di vita eterna che essa reca con sé. L’affermazione della fede è la conferma che i defunti non sono stati presi in consegna dalla morte, ma sono custoditi dalla terra che appartiene al Signore dei vivi e dei morti, e che il loro destino, come quello di coloro che ancora sono in vita, è pieno di immortalità. Se il mondo, la terra e tutto ciò che essa contiene, e se infine l’uomo stesso non appartengono al Signore, allora il nostro senso della comunione con i morti, il nostro ricordo e il nostro amore si infrangono e si spezzano nello stesso punto in cui nascono. Allora dobbiamo abbandonare ciò in cui ciascuno di noi esprime così fortemente se stesso; dobbiamo cancellare ciò che così fortemente decide di ciascuno di noi. Se la terra non appartiene al Signore, allora essa, che solo per un certo tempo accetta il dominio dell’uomo, secondo l’imperativo genesiaco, si dimostra, con una implacabile e necessaria alternativa, la sua padrona. Il cimitero si trasforma nel luogo della definitiva sconfitta dell’uomo; il luogo in cui si manifesta la decisiva e irrevocabile vittoria della “terra” su tutto l’essere umano, pur tanto ricco; il luogo del dominio della terra su colui che, durante la propria vita, pretendeva di essere il suo padrone50. Una terra che viene ritenuta l’ultima e conclusiva dimora dell’uomo, della sua vita, delle sue speranze, dei suoi progetti, dei suoi affetti, delle sue passioni, delle sue gioie e sofferenze, è una terra non visitata da Dio, da lui non fecondata perché produca la vita; è una terra resa sterile e arida dalla mancanza di speranza. Le inesorabili conseguenze logiche della concezione del mondo che rifiuta Dio e riduce tutta la realtà esclusivamente alla materia sono disastrose perché costringono l’uomo ad annaspare nelle paludi fangose della morte e a rassegnarsi ad accettare la sua natura opaca e inesplicabile. Nel momento in cui l’uomo, nella sua mente e nel suo cuore, 50

Cfr l. c.

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fa morire Dio, deve tener conto di avere condannato a una morte irreversibile se stesso, di aver accettato il programma della morte dell’uomo: la creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Svanisce nel momento in cui si abbandona a una visione materialistica della propria esistenza e della vita di tutte le cose, nel momento in cui pensa che il suo destino sia quello della terra, di una terra che non appartiene a Dio ma solamente a se stessa; una terra che trattiene gelosamente e crudelmente quanto possiede nel suo seno. Una terra senza Dio è una terra che si trasforma nel carcere definitivo dell’uomo, che oscura la sua aspirazione alla vita e alla luce, a Dio, e interrompe bruscamente qualsiasi rapporto di comunione tre i vivi e coloro che sono morti. Il credente, invece, nella fede del Signore risorto e con la certezza che a Lui appartiene la terra e tutto ciò che essa custodisce nel suo seno, vuole confessare la presenza di Dio e la sua signoria sul mondo creato, confessando così la sua presenza salvifica nella storia dell’uomo. Egli fa parte della generazione che cerca il volto del Dio di Giacobbe (cfr Sal 24,6) che spera in Lui e nel Suo potere. Quindi «Del Signore è la terra e quanto contiene» (Sal 24,1) «del Signore è… l’universo e i suoi abitanti» (ibid.). Del Signore è… l’uomo! Afferma perentoriamente il Papa. Tuttavia, egli continua, «spesso quest’uomo, particolarmente l’uomo dei nostri tempi, ritiene di appartenere soltanto a se stesso e che a lui appartenga il mondo […]. Tale è il contenuto della sua vita, delle sue aspirazioni e azioni…fino a questo limite, che è determinato dalla morte. La morte è un termine!»51.

Ma, si chiede il Papa a questo punto, «pellegriniamo forse soltanto nei luoghi della morte? Tutti questi cimiteri testimoniano forse soltanto la fine dell’essere che si chiama “uomo”? confermano soltanto l’imperativo del ritorno alla terra: “polvere tu sei e in polvere tornerai”?»52. Questa sembra essere l’unica risposta e prospettiva (in verità un vicolo cieco) offertaci dall’esperienza. Invece, «la liturgia ci dice un’altra cosa. “Del Signore è la terra e quanto contiene”. Del Signore è l’uomo che in tanti cimiteri — noti e ignoti — è affidato alla

51 Omelia al cimitero del Verano del 1 novembre 1988, in OR (2-3 novembre 1988), p. 6. 52 L. c.

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terra dopo la morte del suo corpo. Del Signore è! La liturgia ci rivela come un nuovo Movimento, un altro Movimento che compenetra ciò che è stato trattenuto dalla potenza della morte»53.

Nei luoghi in cui sentiamo l’assenza dei nostri fratelli e sorelle che ci hanno lasciato, la parola di Dio ci rivela una presenza nuova. È la presenza dinanzi a Dio stesso. È la presenza per opera dell’Agnello. L’assenza delle persone care venute a mancare a causa della morte è per il cristiano una presenza che si sente, si esperisce, perché rivela un vuoto ma rimanda anche ad una comunione che neppure la morte riesce a disfare e distruggere. È interessante il confronto antitetico che si stabilisce tra presenza e vuoto, tra movimento verso l’alto e verso il basso. L’assenza delle persone care rivela infatti un vuoto reale, non facilmente colmabile: è un monito costante che ci ricorda la serietà della morte, il suo reale potere, la sua azione distruttrice dell’uomo, delle sue relazioni, dei suoi progetti, delle sue azioni. Ma nello stesso tempo l’assenza rimanda ad una comunione che va al di là della morte stessa, che quest’ultima non può distruggere e azzerare, la comunione con Dio e con gli altri fratelli, resa possibile in Cristo Gesù e nel suo mistero pasquale. Le tombe sono gravide di domande. Non sono scrigni del nulla. Al di là del silenzio che la freddura della pietra evoca, esse hanno un messaggio per l’uomo. Ci parlano della morte, ma anche della vita. Testimoniano un’assenza, ma esprimono anche la ricerca di una presenza forte e sicura. La considerazione della morte, di cui i cimiteri sono segnali eloquenti, apre a diverse domande. Prima tra tutte il suo rapporto con il peccato e con il mistero del male. Essa, infatti, è entrata nel mondo con il peccato ed è celebrazione, amara e crudele, della sua potenza devastatrice. Ma essa apre anche ad altre domande. Domande sull’uomo e sul senso della sua esistenza e della sua infausta fine e decadenza estrema. Che cosa è l’uomo? Qual è il significato del dolore, della sofferenza, del male, della stessa morte, realtà tutte che malgrado ogni progresso della tecnica e della scienza continuano a sussistere? Che cosa valgono queste conquiste raggiunte a così caro prezzo se poi non sono in grado di liberare l’uomo dal peso che più di ogni altro lo opprime? Ma soprattutto: che cosa ci sarà dopo la conclusione dell’esistenza storica dell’uomo? Il nulla, il vuoto, il 53

L. c.

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silenzio, l’oblio? Che cosa significa la morte per l’umanità intera? Queste e ad altre domande ancora tornano sempre ad interpellare il credente, quando egli si reca presso le tombe dei propri cari. Domande che rischiano di rimanere inascoltate e non soddisfatte se ci si chiude alla risposta della fede54. Il Salmo 24, dice il Papa, «ci mostra l’uomo non come un essere che “scende” in terra, ma come un essere che “sale” verso Dio»55, infatti il Salmista si chiede: «Chi salirà il monte del Signore?». L’uomo può salire perché ode una voce che può dare un senso alle sue domande e perché ascolta e risponde alla chiamata che si eleva oltre la morte e oltre la tomba; sente la chiamata della verità e del bene che lo invita a cercare il volto di Dio. Invero, nei cimiteri, luoghi della terra, prosegue il Papa, «viene riconfermata la verità sull’uomo come essere che scende nella tomba insieme con la morte. Ma in questi stessi luoghi la Chiesa predica la verità sull’uomo come essere che sale verso Dio. L’essere che “cerca il volto di Dio”»56 in quanto la terra appartiene al Signore ed egli l’ha fatta per l’uomo, come luogo di ascensione verso di Lui, un’ascensione che è resa possibile dal fatto che in Gesù siamo diventati realmente figli di Dio, figli nel Figlio. La preghiera della Chiesa è che i defunti, coloro che sono passati attraverso la morte, possano essere accolti alla fine della loro ascesa verso Dio alla contemplazione del Suo volto, il volto luminoso di Dio, il volto di colui che abita una luce inaccessibile (cfr 1Tm 6,16) perché venga diradata la umbra mortis e risplenda pienamente la luce di Cristo risorto. «Che cosa sono — si chiede allora il Papa — tutte queste tombe e i cimiteri sulla terra intera? Sono luoghi del non-ancora. Ma il non-ancora non significa né termine, né delusione… Le tombe e i cimiteri sulla terra sono luoghi di attesa»57, poiché ciò che saremo, come afferma Giovanni nella sua Prima Lettera richiamata anche questa dal Papa, non è stato ancora rivelato (cfr 1Gv 3,2). Il credente vive tuttavia nella consolazione che gli deriva dalla certezza che ciò gli sarà rivelato quando Cristo alla fine si manifesterà, e la sua venuta determinerà la perfetta conformazione a lui da parte dei suoi discepoli. Lì sarà portato a compimento quanto è già inscritto nell’essere stesso dell’uomo creato ad immagine e somiglianza del Creatore. 54

Cfr Omelia al cimitero del Verano del 2 novembre 1987, in OR (2-3 novembre 1987), p. 6. 55 L. c. 56 L. c. 57 L. c.

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Gli stessi testi di creazione del libro di Genesi affermano con chiarezza che l’uomo creato così da Dio ha ricevuto il comando di soggiogare e dominare la terra (cfr Gen 1,28). Affermano anche che a motivo del peccato egli è stato però asservito alla terra. La morte è infatti divenuta la comune sorte dell’uomo sulla terra, il segno più chiaro e drammatico della stretta solidarietà che lo lega alla terra58. Ma, si chiede il Papa, «può colui che è stato creato a immagine di Dio stesso, appartenere in modo definitivo alla terra? Soltanto ed esclusivamente alla terra? Può essa sola rimanere il suo destino? Tutto deve terminare col fatto che l’uomo torna in polvere?»59. I cimiteri di tutto il mondo custodiscono e nascondono questa grande ed eterna domanda. Una domanda alla quale è necessario ed urgente dare una risposta. E la fede ci dice che «quest’uomo, al quale la terra sembra togliere definitivamente, mediante la morte, la sua umanità, rendendolo “polvere”, questo stesso uomo, se morto nella grazia di Cristo, porta in sé contemporaneamente la realtà della vita indistruttibile: della vita divina!»60. In questo senso i cimiteri non sono più esclusivamente scrigni del dolore umano e testimonianza della morte e del suo nefasto potere, ma anche e soprattutto segni della potenza di Dio, poiché manifestano il potere della redenzione operata da Cristo crocifisso e risorto. «La terra — prosegue il Papa — è stata visitata dal mistero del Figlio di Dio. La terra è stata visitata dal mistero della redenzione. La morte non ci toglie l’umanità per farla “polvere della terra”. La morte ci restituisce a Dio in Gesù Cristo»61. Dio oramai ha posto la sua tenda, la sua dimora in mezzo agli uomini, ha abitato sulla terra nel suo Figlio Gesù Cristo, ha calpestato le strade delle città. In Cristo Gesù morto e sepolto è penetrato anche nelle viscere stesse della terra; ha visitato perfino il regno dei morti, nel cuore della terra. La terra è stata perciò vangata, irrigata dalla potenza vivificante e vivificatrice di Dio e del suo Spirito; è stata fertilizzata perché porti frutto e faccia crescere il seme dell’immortalità e della vita eterna. Questo è il mistero del Sabato Santo: anche il corpo morto del Figlio di Dio è stato accolto dall’abbraccio della morte ed ha riposato nelle viscere della terra, mentre in spirito “scendeva” nel regno dei morti per annunciare 58

Cfr Omelia al cimitero del Verano del 1 novembre 1984, in OR (2-3 novembre 1984), p. 5. 59 L. c. 60 L. c. 61 L. c.

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anche a loro la vittoria sul peccato e la morte. Il silenzio delle tombe è stato colmato dalla parola di salvezza pronunciata in Cristo morto e risorto, nella sua solidarietà con la terra. Sostare presso le tombe, scavate nella terra ormai visitata dalla Vita, significa allora aprirsi all’ascolto della Parola di Vita, Cristo Signore. Il corpo morto di Gesù deposto nel sepolcro ha dato perciò la vita alla terra e all’uomo che ad essa appartiene. “Venite a me, voi tutti...” (cfr Mt 11,28) dice Gesù agli affaticati, agli oppressi e agli sfiduciati di ogni tempo. Stare in mezzo alle tombe che ricoprono i corpi di coloro che ci hanno preceduto nell’eternità, “che ci hanno preceduto con il segno della fede e dormono il sonno della pace” come fa pregare la Preghiera Eucaristica I, significa ascoltare la voce del Signore il quale invita ad andare a lui: “Venite a me: venite a me, voi tutti”. Una voce trasferita oltre la soglia della temporalità che risuona in tutti i cimiteri del mondo, sconfiggendo il silenzio delle tombe, fredde e tristi. Una voce che ribadisce che al Signore appartiene la terra e quanto essa custodisce nelle sue viscere. La terra, infatti, contiene non soltanto le vive creature visibili in tutta la loro smisurata ricchezza, non soltanto le opere dell’uomo, ma anche i frutti della morte: i defunti sparsi in tanti luoghi, sepolti sotto la sua superficie. Anch’essi sono “del Signore”62. La speranza cristiana non è perciò evasione o mera illusione che proietta in un futuro ultramondano le aspirazioni e i desideri irrealizzati degli uomini, soprattutto di coloro che sopravvivono alla morte delle persone care e si pongono le questioni fondamentali sul senso della vita e della morte e su ciò che attende l’uomo oltre il termine della sua vita naturale. La speranza, infatti, è ciò che riannoda realmente i legami di comunione tra vivi e defunti, supera la cesura della morte, libera dalla stretta della tomba e della terra. È vero che la morte chiude e termina irrevocabilmente la vita di ciascun uomo e interrompe bruscamente la conoscenza che egli può trarre dal mondo. Ciò che si conosce è che con la morte si apre per lui la dimensione dell’eternità e che quanto l’uomo porta nell’immagine e nella somiglianza di Dio, ritroverà il suo Prototipo, in quanto vedrà Dio così come egli è. La morte perciò chiude la conoscenza e nello stesso tempo la apre, la espande e la porta a pienezza: chiude alla conoscenza mondana e apre a quella eterna e soprannaturale. Nella morte gli uomini scendono 62

Cfr Omelia per la Solennità di Tutti i Santi del 1 novembre 1986, in OR (3-4 novembre 1986), p. 4.

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negli abissi della terra, nell’oscurità della non-conoscenza, ma soprattutto salgono davanti al cospetto di Dio e lo vedono-conoscono faccia a faccia; contemplano quel volto che hanno sempre cercato, quel Volto che rischiara il volto stesso dell’uomo creato a sua immagine e somiglianza. La considerazione di questo grande mistero di salvezza apre il Papa alla lode e al rendimento di grazie: «Benedetto sii, Signore, perché è tua la terra e quanto contiene. Benedetto sii, perché l’uomo non appartiene, in definitiva alla terra, — perché non è sottomesso ad essa, perché in Te ha l’eternità!»63. Per Cristo l’uomo e la terra non sono più due termini contrapposti, ma ritrovano quella comunione originaria nella quale solamente diventano entrambi comprensibili.

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Omelia al cimitero del Verano del 1 novembre 1984, cit., 4.

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CAPITOLO II

L’AVANZARE DELLA “CULTURA DELLA MORTE”

Sovente Giovanni Paolo II nei suoi interventi si oppone coerentemente a quella occulta deviazione totalitaria dell’idea di libertà propria dei moderni stati democratici, a quel malcelato e pericoloso totalitarismo che si manifesta drasticamente con il privare della difesa giuridica, da parte dello Stato, il diritto inalienabile alla vita delle persone più deboli, specialmente di quelle non ancora nate. Egli si oppone, cioè, a quella che può essere definita, vinta ogni ipocrisia, la “cultura della morte” che continua a mietere silenziosamente vittime negli stessi paesi economicamente avanzati64. Si deve certamente ammettere che la società contemporanea ha dei pregi innegabili quali, ad esempio, l’accresciuta sensibilità e attenzione per i diritti dell’uomo, spesso tenacemente affermati e difesi. Tuttavia, osserva il Papa, non è raro vedere affiorare in superficie e a più riprese, le radici della contraddizione che intercorre tra la solenne affermazione dei diritti dell’uomo e la loro tragica negazione nella pratica. Queste contraddizioni secondo il Papa risiedono in una concezione della libertà intesa in senso individualistico; tendente, cioè, ad esaltare in modo assoluto il singolo individuo, e refrattaria a disporlo alla solidarietà, alla piena accoglienza e al servizio dell’altro. Sebbene talvolta la soppressione della vita nascente o terminale si colori anche di un malinteso senso di altruismo e di umana pietà, non si può di certo negare che una tale cultura di morte, nel suo insieme, tradisce una concezione della libertà che finisce per essere la libertà dei “più forti” contro i deboli destinati, loro malgrado, a soccombere65. Il Papa a questo riguardo rileva che nella contrapposizione paolina dello “spirito” e della “carne” è inscritta anche la contrapposizione della “vita” e della “morte”. Il materialismo, come sistema di pensiero, in ogni sua versione, significa l’accettazione della morte quale definitivo termine 64

A questo proposito si veda anche l’Esortazione apostolica postsinodale Christifideles laici. Vocazione e missione dei laici nel mondo (30 dicembre 1988), 38, in EV/11, 1766-1767. 65 Cfr Evangelium Vitae 19, in EV/14, 2224.

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dell’esistenza umana. Tutto ciò che è materiale è infatti ritenuto corruttibile e lo stesso corpo umano, in quanto corpo animale, è anch’esso mortale e caduco. Se l’uomo nella sua essenza è solo “carne”, la morte rimane per lui un confine invalicabile. Da questo punto di vista si capisce chiaramente come si possa dire che la vita umana è esclusivamente un “esistere per morire”. A questo si aggiunga che nella civiltà contemporanea — specialmente in quella più sviluppata in senso tecnico-scientifico — i segnali di morte sono diventati particolarmente presenti e frequenti. Ne sono un esempio lampante la corsa agli armamenti e il conseguente pericolo, insito in questo fenomeno, di un’autodistruzione nucleare. D’altra parte, e non per ultimo, è davanti agli occhi di tutti la grave situazione in cui versano vaste regioni del pianeta, segnate dall’indigenza e dalla fame, apportatrici di morte. Si tratta di problemi che non sono solo economici, ma anche e prima di tutto etici. Sennonché, all’orizzonte dell’epoca contemporanea si addensano ulteriori e altrettanto preoccupanti “segni di morte”, se possibile ancora più cupi dei primi. Si è diffuso innanzitutto il costume dell’aborto e dell’eutanasia (da molte nazioni tranquillamente ammessi come legittimi e garantiti dalle leggi dello Stato). È indispensabile, secondo il Papa, denunciare tutto questo con estrema chiarezza in quanto l’uomo contemporaneo si trova immerso in un orizzonte culturale complessivo in cui non manca di incidere una sorta di “atteggiamento prometeico” da parte sua. Egli, infatti, si illude di «potersi impadronire della vita e della morte perché decide di esse, mentre in realtà viene sconfitto e schiacciato da una morte irrimediabilmente chiusa ad ogni prospettiva di senso e ad ogni speranza»66. Un tentativo estremo di questa tentazione per Giovanni Paolo II è rappresentato dalla diffusione dell’eutanasia, praticata in maniera più o meno clandestina, in maniera mascherata o perfino attuata apertamente e addirittura legalizzata, con il falso pretesto offerto dalla pietà di fronte al dolore del paziente. Delle volte poi essa viene sfrontatamente giustificata con una ragione utilitaristica, volta ad evitare spese improduttive troppo gravose per la società. Il panorama odierno è segnato e caratterizzato da preoccupanti fenomeni di morte. Non serve a nulla chiudere gli occhi di fronte agli allarmanti segnali che giungono da diverse parti in tal senso67. Essi invece 66

Ibid., 15, in EV/14, 2213. Il Papa usa espressioni simili anche in altre occasioni, come ad esempio in una omelia tenuta in Sardegna, ad Oristano, il 19 ottobre 1985, in OR (20 ottobre 1985) p. 5; e 67

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vanno conosciuti, indagati e compresi anche a partire dalle molteplici cause che lo determinano. Il mondo di oggi, più che mai, deve far sua da domanda rivolta a Caino dal Signore: «Che hai fatto?» (Gen 4,10); una domanda che sembra essere quasi un invito rivoltogli ad andare oltre la materialità del suo gesto omicida, per coglierne tutta la gravità nelle motivazioni che ne sono all’origine e nelle conseguenze che ne derivano. Se Dio ha creato l’uomo per la vita, come può questi imporre la morte a se stesso e perfino agli altri? Quale concetto di vita c’è alle spalle e sotto questa cultura di morte? Quale idea di morte? E di quale uomo si sta parlando quando si pensa di poter decidere della sua vita o della sua morte? L’uomo, la vita e la morte. Quando si tocca uno di questi “termini”, inevitabilmente si violano anche gli altri termini del discorso. Non si può, cioè, considerare la morte come un qualcosa che è possibile infliggersi volontariamente o infliggere agli altri senza che con questo non si mini alle sue fondamenta l’idea stessa della vita dell’uomo, il suo valore, il suo significato profondo, e senza che l’immagine stessa dell’uomo, ridotto a oggetto e a macchina malfunzionante e ormai non perfettamente efficiente e produttiva, ne sia condizionata. L’eutanasia, allora, proprio perché ha a che fare direttamente con l’uomo, la sua vita e la sua morte, non può essere ridotta a nuda questione medica, o peggio ancora a faccenda di natura funzionale e pratica per la risoluzione di problemi di ordine sociale ed economico. Quando l’uomo dimentica che è il Signore che dà la morte e fa vivere (cfr Dt 32,39), allora si paventano, di fronte al suo sguardo scenari di morte e distruzione che sfuggono al suo controllo e dai quali nemmeno lui riesce a essere salvato. Oggi, per diverse ragioni che sommariamente possono essere ricondotte a un certo tipo di progresso incontrollato della scienza e della medicina, l’uomo è tentato di pensare che effettivamente sia ormai vicino a quel traguardo che gli consentirà di esercitare il suo potere non solo sulla sua intera esistenza, in tutti i suoi plurimi aspetti, ma anche sulla morte68. Oggi, sempre in seguito ai progressi della medicina e ancora di più in un contesto culturale ordinariamente chiuso alla trascendenza, l’esperienza del soprattutto in Dominum et Vivificantem 57, in EV/10, 596; in Sollicitudo rei socialis. Lettera enciclica circa l’autentico sviluppo dell’uomo e della società (19 febbraio 1988), 25, in EV/10, 2586; e in Centesimus annus. Lettera enciclica nel centenario della Rerum Novarum (1 maggio 1991), 39, in EV/13, 200. 68 Cfr Evangelium Vitae 64, in EV/14, 2381.

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morire si presenta con alcune caratteristiche nuove che favoriscono l’affermarsi e aggravarsi di questo dannoso atteggiamento dell’uomo. Infatti, quando prevale la tendenza ad apprezzare la vita solo nella misura in cui porta piacere e benessere, la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. «La morte, considerata “assurda” se interrompe improvvisamente una vita ancora aperta a un futuro ricco di possibili esperienze interessanti, diventa invece una “liberazione rivendicata” quando l’esistenza è ritenuta ormai priva di senso perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un’ulteriore più acuta sofferenza»69.

Tutto ciò accade soprattutto perché l’uomo, rifiutando o dimenticando il suo fondamentale rapporto con Dio, pensa di essere criterio e norma a se stesso e ritiene di avere il diritto di chiedere anche alla società di garantirgli possibilità e modi di decidere della propria vita in piena e totale autonomia. Un frutto diretto di questo modo di ragionare è rappresentato ancora una volta dalla tentazione dell’eutanasia, cioè dal tentativo da parte dell’uomo di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine “dolcemente” alla vita propria o altrui. In questo contesto chi ne risente è indubbiamente l’individuo più fragile e indifeso, il malato, l’anziano, la persona sola e abbandonata. Per loro si adombrano sempre più frequentemente e tristemente delle minacce aggravate da un contesto sociale e culturale che, rendendo più difficile reggere la sofferenza, acuisce la tentazione di risolvere il problema del soffrire eliminandolo alla radice con l’anticipare la morte al momento ritenuto più opportuno. Ci si dimentica che in verità schiaccia l’uomo non solo la morte in sé, ma ancora di più, una morte senza senso, una fine di cui non viene compreso il significato e che appare assurda. Lo stesso può essere detto di una sofferenza subita come gravame opprimente e assolutamente incomprensibile. Dimentica di tutto questo, anziché liberare veramente l’uomo dalla paura della morte, di una morte vissuta nella solitudine e nell’abbandono, tra sofferenze indicibili e umilianti, questa cultura si prefigge, sciaguratamente, nella maggior parte dei casi con piena consapevolezza, di eliminare tutta

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L. c.


quella serie di ostacoli che rischiano di frenare lo sviluppo sociale, economico e culturale che la società moderna intende offrire all’uomo. «In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano. Siamo qui di fronte a uno dei sintomi più allarmanti della “cultura di morte”, che avanza soprattutto nelle società del benessere, caratterizzate da una mentalità efficientistica che fa apparire troppo oneroso e insopportabile il numero crescente delle persone anziane e debilitate»70.

Sebbene si dia l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, tale obbligo deve misurarsi sempre con le situazioni concrete in cui il malato effettivamente si trova, perché in alcuni casi, quando ad esempio i mezzi terapeutici a disposizione non sono più oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento, la rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia, ma esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte. «La Chiesa, pertanto — dichiarerà Giovanni Paolo II in un discorso alla Pontificia Accademia per la vita — nel difendere la sacralità della vita anche nel morente, non obbedisce ad alcuna forma di assolutizzazione della vita fisica, ma insegna a rispettare la dignità vera della persona, che è creatura di Dio, ed aiuta ad accogliere serenamente la morte quando le forze fisiche non possono più essere sostenute»71.

La vita del corpo nella condizione terrena non è un assoluto per il credente, tanto che gli può essere richiesto di abbandonarla per un bene superiore. Nessun uomo, tuttavia, può scegliere arbitrariamente di vivere o di morire; tale scelta, infatti, spetta soltanto al Creatore, a colui, cioè, nel quale «viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17,28). Non si tratta di assolutizzare la vita fisica, di voler vivere a tutti i costi, di assecondare a qualsiasi costo l’istinto di autoconservazione e di sopravvivenza, ma di comprendere la morte come fatto naturale, come lo è la nascita del resto; di accettare la morte come limite insito nella natura dell’uomo. Egli non è Dio e quindi è chiamato a consegnarsi al suo destino 70 71

Ibid., in EV/14, 2383. Discorso tenuto alla Pontificia Accademia per la vita, 27 febbraio 1999, cit., 5.

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mortale con la serenità di chi spera nella vita oltre la morte e sa che quest’ultima non è l’epilogo, il più drammatico che si possa concepire, della sua esistenza, l’ultima parola oltre la quale c’è solo il silenzio. Proprio perché perfettamente cosciente di tutto questo, egli si riconosce come davvero importante, e istintivamente lotta per la difesa della propria vita e della propria dignità di persona dall’inizio della sua esistenza sino alla sua fine nella morte. La Chiesa, quindi, non predica un attaccamento alla vita a tutti i costi, come valore assoluto che deve opporsi caparbiamente anche alla venuta naturale della morte, poiché l’accettazione della finitudine della vita, quando questa giunge naturalmente alla sua conclusione, è indice di maturità umana davvero profonda, di umiltà e di rinuncia a qualsiasi posizione di superbia da parte dell’uomo il quale non accettando il suo stato creaturale, vuole ostinatamente sostituirsi a Dio, autoproclamandosi signore della vita72. Ciò che la Chiesa afferma è invece la centralità della persona umana compresa però come creatura di Dio e perciò stesso finita e temporale. Convinzione, questa, che stempera le esuberanze ingiustificate e infondate da parte dell’uomo che presume di autoredimersi dalla morte. A questo dato si aggiunga, inoltre, che nonostante tanti nobili sforzi in favore della pace, scoppiano sempre nuove guerre nel pianeta e molte altre sono in corso ormai da anni, che privano della vita o della salute centinaia di migliaia di uomini mutilati nel corpo e nello spirito. Tutto ciò si congiunga poi con i crescenti attentati alla vita umana da parte del terrorismo, organizzato anche su scala internazionale. La Chiesa denuncia tutto questo perché vi legge una scarsa valutazione della dignità dell’uomo, creatura fragile ma non per questo effimera, e avverte che la cultura della morte che attenta alla sua autentica esistenza emerge anche da altri fenomeni spesso sottaciuti o addirittura deliberatamente censurati. Sono, ad esempio, le morti per fame, per violenza, ma anche per mancanza di controllo nel traffico e per la scarsa attenzione alle norme di sicurezza sul lavoro. La banalizzazione della morte è strettamente annodata alla banalizzazione dell’uomo. Se si prende sul serio l’uomo e la sua dignità di persona unica e irripetibile, anche la morte acquista valore e significato nuovi73.

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Cfr ibid., 65, in EV/14, 2385. Cfr Discorso tenuto alla Pontificia Accademia per la vita il 27 febbraio 1999, cit., 5.


Per questa ragione, conclude il Papa, «il mondo di oggi ha più che mai bisogno di riscoprire il senso del vivere e del morire nella prospettiva della vita eterna. Al di fuori di essa, la cultura moderna, nata per esaltare l’uomo e la sua dignità, si trasforma paradossalmente in cultura di morte, perché, smarrito l’orizzonte di Dio, si trova come prigioniera del mondo, si impaurisce e dà luogo purtroppo a molteplici patologie personali e collettive»74.

Purtroppo, conclude il Papa, questo è solo un abbozzo parziale e incompleto del quadro di morte che si sta componendo sempre più sinistramente nell’epoca contemporanea. La speranza cristiana è chiamata a ergersi al di sopra di questo quadro fosco e al di là dell’orizzonte ristretto della storia e delle sue contraddizioni, per poterne essere il motore e l’orientamento fondamentale verso un futuro contrassegnato dall’affermarsi di un’autentica cultura della vita.

1. VERSO LA “CULTURA DELLA VITA” Nella cultura di morte che sembra ormai avere il sopravvento nel mondo di oggi, una cultura in cui si sta perdendo di vista il valore e la dignità della persona umana, di ogni persona, il cristiano è chiamato ad annunciare con forza il “vangelo della vita”, con la consapevolezza che «il vangelo non è contrario a questa o a quella cultura […]. Al contrario, l’annuncio che il credente porta nel mondo e nelle culture è forma reale di liberazione da ogni disordine introdotto dal peccato e, nello stesso tempo, è chiamata alla verità piena»75. L’uomo è artefice della cultura nella quale è immerso, con i suoi valori o dis-valori; ne è allo stesso tempo il beneficiario: essa non è inamovibile, ma ha un carattere dinamico e può essere trasformata per il bene, nella misura in cui egli non la subisce ma ne diventa un soggetto attivo e agisce su di essa. Ciò significa che l’attuale cultura di morte che segna in maniera particolare la società contemporanea, con tutte le sue contraddizioni, a volte 74

Angelus Domini del 3 novembre 2002, in OR (5-6 novembre 2002), p. 4. Fides et Ratio, Lettera enciclica circa i rapporti tra fede e ragione (17 aprile 2003), 71, in EV/17, 1321. 75

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insanabili, non è ormai un bagaglio di cui l’uomo non possa liberarsi definitivamente, poiché egli può creare ancora una volta, forse per la prima volta, una nuova cultura che è quella della vita; una cultura, cioè, degna dell’uomo e all’altezza delle sue intime aspirazioni e attese, che rispetta la sua dignità, dalla sua nascita alla sua morte naturale76. Il Papa si augura pertanto che gli uomini sappiano riconoscere di nuovo nella cultura la “via regia” della liberazione dalle diverse schiavitù. Inoltre, egli è convinto che per il passaggio da una cultura della morte a una cultura della vita sia necessario avere davanti il principio di tutto ciò che esiste, cioè Dio, senza il quale la persona umana viene consegnata esclusivamente al suo arbitrio e alle sue cure che la storia ha rivelato essere non sempre positive ed efficaci. Così come avvenne nelle prime ore del pomeriggio del Venerdì Canto, quando «il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra... Il velo del tempio si squarciò nel mezzo» (Lc 23, 44.45), simbolo, questo, di un grande sconvolgimento cosmico e di una immane lotta tra le forze del bene e le forze del male, tra la vita e la morte, anche oggi, afferma Giovanni Paolo II, in maniera analoga ci troviamo nel mezzo di una lotta drammatica tra la “cultura della morte” e la “cultura della vita”. Una lotta che sembrerebbe attestare lo strapotere della morte e della sua oscura influenza su tutte le cose, uomo compreso, se lo splendore della croce, che non può essere cancellato, non manifestasse il potere vincitore di Cristo risorto77. L’orizzonte in cui si muove il mondo contemporaneo è fatto dunque di luci e ombre e ci informa sul fatto che attualmente ci troviamo, forse come mai nel passato, di fronte ad uno scontro immane tra il male e il bene, la morte e la vita. Tutti siamo coinvolti in questo conflitto e tutti ne siamo partecipi; esso ci appartiene, ci interessa personalmente e personalmente ci chiama in causa, con l’ inevitabile responsabilità di scegliere incondizionatamente a favore della vita78. Il monito rivolto a Mosè: «Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male...; io ti ho posto davanti la vita e la morte, la benedizione e la maledizione; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza» (Dt 30,15.19) è rivolto anche all’uomo di oggi, chiamato 76

Cfr a questo proposito l’Allocuzione all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura: L’integrale umanità dell’uomo si esprime nella cultura, 2 giugno 1980, in OR (2-3 giugno 1980), pp. 8-9. 77 Cfr Evangelium Vitae 50, in EV/14, 2333. 78 Cfr ibid., 28, in EV/14, 2259.

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anch’egli, giorno dopo giorno, a dover decidere tra la “cultura della vita” e la “cultura della morte”. Ma, precisa il Papa, l’appello del testo deuteronomista è ancora più profondo, perché intende sollecitare per una scelta propriamente religiosa e morale. Ciò che esso richiede, infatti, è che si dia alla propria esistenza un orientamento fondamentale, e che si viva in fedeltà e coerenza con la legge del Signore: «Io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme […]; scegli dunque la vita, perché viva tu e la tua discendenza, amando il Signore tuo Dio, obbedendo alla sua voce e tenendoti unito a lui, poiché è lui la tua vita e la tua longevità» (Dt 30,16.19-20). Non si dà cultura della vita escludendo Dio dall’orizzonte dell’esistenza dell’uomo e della storia, indipendentemente dal rapporto che l’uomo è chiamato a stabilire con Lui. Più precisamente, «la scelta incondizionata a favore della vita raggiunge in pienezza il suo significato religioso e morale quando scaturisce, viene plasmata ed è alimentata dalla fede in Cristo. Nulla aiuta ad affrontare positivamente il conflitto tra la morte e la vita, nel quale siamo immersi, come la fede nel Figlio di Dio che si è fatto uomo ed è venuto tra gli uomini “perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10)»79.

È perciò la fede nel Risorto, vincitore della morte, la fede nel sangue di Cristo «dalla voce più eloquente di quello di Abele» (Eb 12,24) che rende possibile intraprendere e portare a termine il faticoso cammino che conduce all’affermarsi di un’autentica cultura della vita, dell’uomo, della speranza; una cultura che non è semplicemente e prima di tutto l’esito dello sforzo prometeico dell’uomo, ma anzitutto il dono del Signore della vita, di Colui che con la sua morte ha sconfitto la morte dell’uomo e con la sua Risurrezione gli ha ridato la vita. Le società civili non possono adeguarsi alla distorta visione della persona umana e del valore della sua esistenza che si sta sempre più subdolamente insidiando nel mondo contemporaneo. Tanto meno il credente può rassegnarsi a questo stato di cose. Egli infatti sa che «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi. Egli infatti ha creato tutto per l’esistenza... Sì, Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità; lo fece a 79

Ibid., in EV/14, 2261.

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immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono» (Sap 1,13-14; 2,23-24). A commento di questo testo del Libro della Sapienza e con riferimento al racconto genesiaco della caduta, il Papa afferma che «il Vangelo della vita, risuonato al principio con la creazione dell’uomo a immagine di Dio per un destino di vita piena e perfetta (cfr Gn 2,7; Sap 9,23), viene contraddetto dall’esperienza lacerante della morte che entra nel mondo e getta l’ombra del non senso sull’intera esistenza dell’uomo»80. Anche Genesi 4,8, nel presentare in maniera lapidaria e drammatica l’uccisione di Abele ad opera del fratello Caino, conferma che la morte è entrata nel mondo a causa dell’invidia del diavolo (cfr Gen 3,1.4-5) e del peccato dei progenitori (cfr Gen 2,17; 3,17-19), e quindi vi entra, in modo violento, anche attraverso l’uccisione di Abele, espressione del suo potere e ancora prima del peccato che si oppone alla vita e al progetto di vita del Creatore. Alla luce di queste affermazioni — sebbene molti e gravi aspetti dell’odierna problematica sociale possano in qualche modo spiegare il clima di diffusa incertezza morale e talvolta attenuare nei singoli la responsabilità soggettiva — si può certamente constatare che purtroppo siamo di fronte a una realtà vasta, che si può considerare come una vera e propria struttura di peccato, caratterizzata dall’imporsi di una cultura antisolidaristica. Questa pseudo-cultura, avversa alla vita e complice di progetti di morte, è in non pochi casi attivamente promossa da forti correnti culturali, economiche e politiche, portatrici tra l’altro di una concezione efficientista della società. Anche questo dato contribuisce a chiarire ulteriormente la difficile situazione in cui il mondo si trova a vivere. Di fronte alla vita che nasce e alla vita che muore, l’uomo sventuratamente non è più capace di lasciarsi interrogare e di porsi domande sul senso più autentico dell’esistenza, della propria esistenza, assumendo con vera libertà questi momenti cruciali del proprio “essere” ed esistere. La sua preoccupazione si riduce unicamente al “fare”, al produrre e, ricorrendo ad ogni forma di tecnologia, si affanna a programmare, controllare e dominare perfino la nascita e la morte. Queste esperienze originarie che chiedono di essere “vissute”, diventano, invece, cose che si pretende soltanto di “possedere”, di “rifiutare” e di cui disporre a proprio piacimento. 80

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Ibid., 7, in EV/14, 2286.


Non meraviglia il fatto che una volta escluso il riferimento a Dio anche il senso di tutte le cose ne esce profondamente deformato, e la stessa natura, non più sperimentata e compresa come “mater”, sia ridotta a “materiale” soggetto a tutte le possibili manipolazioni, secondo i dettami di una certa razionalità tecnico-scientifica dominante nella cultura contemporanea. Per uscire da questo pantano in cui la “storia del peccato” l’ha condotto, l’uomo deve saper guardare a Cristo e al suo esempio di vita. La vita e la morte di Gesù sono la testimonianza più eloquente del valore della vita e della morte dell’uomo: se davvero il Figlio di Dio ha assunto la vita dell’uomo e l’ha vissuta sino in fondo, sino alla morte volontariamente accolta e affrontata, allora la vita umana ha un significato profondo non racchiudibile entro gli angusti spazi della vita biologica e della contingenza storica. Essa è, al contrario, veramente il luogo privilegiato nel quale la salvezza, attuata per l’intera umanità ad opera di Cristo, viene partecipata a tutti gli uomini di buona volontà. Gesù, come è stato ribadito precedentemente, non è andato incontro alla morte perché l’apprezzasse o le riconoscesse un valore suo proprio, ma perché amava la vita tanto da donarla, da non tenerla egoisticamente per sé, tanto da farne partecipi coloro che l’avevano perduta a causa del peccato. La morte per Gesù è stata quindi una testimonianza d’amore per la vita, per l’esistenza, un atto di obbedienza al Padre suo, amante della vita, che non ha creato l’uomo per la morte, ma perché avesse la vita e l’avesse in abbondanza. La morte del Figlio di Dio è stata allora la massima espressione della sua “adesione” alla cultura della vita, ne è la radice stessa, il fondamento e l’alimento. Una cultura pienamente e genuinamente umana è perciò possibile solo se costruita su Cristo e sul suo mistero pasquale. Cristo è, infatti, l’uomo nuovo. Nella sua vita, nelle sue parole, nei suoi gesti e nelle sue azioni egli rivela all’uomo la sua verità e la sua vocazione, in modo integrale. Gli fa conoscere la sua chiamata a realizzarsi con gli altri uomini. La cultura della vita è quella che consente all’uomo in Cristo di raggiungere e vivere in una perfetta relazione con se stesso, gli altri, il mondo e Dio, superando le strutture di peccato e contribuendo fattivamente per la costruzione di un mondo nuovo81.

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Cfr Allocuzione all’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura del 2 giugno 1980, cit., 8-9.

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2. IL PECCATO: AFFERMAZIONE DELL’ANTI-AMORE Il peccato, nel pensiero della Chiesa, è la perdita della conformità a Cristo, la chiusura a lui, il rifiuto della sua salvezza. Esso è inteso dalla tradizione biblica come trasgressione del comando di Dio, come infrazione della sua alleanza, come disobbedienza e tentativo da parte dell’uomo di emanciparsi assolutamente dalla signoria divina. È una condizione dolorosa che pone costantemente l’uomo in rapporto di solidarietà con Adamo. La solidarietà con Cristo, nuovo Adamo, è però la sorgente della salvezza per l’uomo peccatore, e la buona notizia che la Chiesa accoglie da Dio e consegna al mondo è che ormai nel Figlio di Dio morto e risorto il peccato è stato sconfitto e con il peccato la morte. Quella trasgressione del primo Adamo, formulazione della sua chiusura all’offerta di amore di Dio, ora è trasformata nella filiale e amorevole obbedienza del Figlio sino alla morte. Giovanni Paolo II, in un’omelia tenuta in Sardegna il 19 ottobre del 1985, commentando il brano genesiaco della caduta (cfr Gen 3,12) e dell’uccisione di Abele ad opera di Caino (cfr Gen 4,2-6), così affermava: «Poiché col peccato l’uomo rifiuta di sottomettersi a Dio, anche il suo equilibrio interiore si rompe e proprio al suo interno scoppiano contraddizioni e conflitti»82. Così lacerato, l’uomo produce quasi inevitabilmente una lacerazione nel tessuto dei suoi rapporti con gli altri uomini e col mondo creato. Ogni peccato per quanto personale assume una dimensione sociale in quanto intacca il progetto di realizzare l’uomo ad immagine di Dio tramite la cooperazione interpersonale. La morte morale del cristiano avviene quando viene preferito l’anti-amore83. Ciò per l’uomo significa un vero e proprio suicidio e si profila come l’anticamera della morte. Sollicitudo rei socialis 36 parla poi di vere e proprie “strutture di peccato” in quanto sono cristallizzazioni di situazioni di peccato a cui l’uomo non reagisce, ma che sopporta e addirittura avalla. Quando infatti si parla di morte e di vita dell’uomo, è la stessa coscienza morale della società che viene chiamata in causa, poiché anch’essa ne è responsabile non solo perché tollera o favorisce comportamenti contrari alla vita, ma anche perché alimenta e contribuisce a creare e a consolidare delle “strutture di peccato” contro la vita84. 82

Omelia tenuta ad Oristano il 19 ottobre 1985, in OR (19 ottobre 1985), p. 5. Cfr Dominum et Vivificantem 37, in EV/10, 539. 84 Cfr Sollicitudo rei socialis 36, in EV/10, 2639-2640. Cfr anche Evangelium Vitae 24, in EV/14, 2243. 83

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Il peccato ha in se stesso una struttura antisociale e anticristiana: per sua natura, infatti, esso è contro la vita, contro l’uomo e la società, e anche contro la Chiesa che è per essenza comunione. L’uomo, animato dallo Spirito e fortificato dalla speranza, è chiamato a costruire sin da adesso un mondo degno della persona umana, contribuendo perché si realizzi il passaggio dall’ingiustizia alla giustizia, dalla disuguaglianza economicosociale alla partecipazione di tutti ai beni della terra e alle sue risorse, dall’individualismo alla solidarietà, dalla cultura della morte a quella della vita. Perché questo avvenga è necessario, però, che alla logica del peccato, del male e dell’egoismo, si sostituisca il primato dell’amore e del bene; un amore che è comunione, partecipazione, condivisione e dialogo. Molto bene Giovanni Paolo II esprime tutto ciò nella sua splendida riflessione poetica su Genesi contenuta nell’opera Trittico romano, in cui afferma: «Chi è lui? L’indicibile. L’Esistenza per se stessa sussistente. L’unico. Il Creatore di tutto. Al tempo stesso una Comunione di Persone. In questa comunione un reciproco donarsi della plenitudine di verità, bontà e bellezza. […] E loro? “Maschio e femmina li creò”. […] Assunsero in sé — nei limiti umani — quel reciproco donarsi che è in Lui»85. Il peccato consiste essenzialmente nella pretesa da parte dell’uomo di decidere ed operare come se Dio non ci fosse, con la pretesa di mettersi al suo posto, nell’amore sfrenato di sé che giunge sino al disprezzo di Dio. In questo suo orientamento egli giunge così alla distruzione di sé e degli altri: anziché la vita egli incontra la morte, anziché la gioia precipita nella disperazione più cupa. L’amore è invece apertura grata a Dio, e in lui ai fratelli, e sperimentare in questa apertura la vera vita.

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K. WOJTYLA, Trittico romano. Meditazioni, cit., 55 ss.

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CAPITOLO III

OLTRE LA VITA, OLTRE LA MORTE: LA RISPOSTA DELLA FEDE

Nella seconda parte della poesia che ho proposto proprio all’inizio di questa opera, La speranza che va oltre la fine, Karol Wojtyla esprime una verità fondamentale: senza la speranza che proviene dal messaggio della fede, l’uomo è solamente “un viandante sullo stretto marciapiede della terra” che si trova immerso in un moto centrifugo, che lo avvolge da tutte le parti, un moto diverso dal suo, “scheggia di mondo”, un moto che non lo libera dalla morte poiché non giunge al nucleo immortale. «Ma — egli aggiunge — la morte è un’esperienza finale, ed ha sapore d’annientamento — con la speranza le strappo il mio “io”, glielo devo strappare, superare così l’annientamento…»86. Egli sa che ciò è possibile nella misura in cui ci si abbandona fra le braccia di Colui che della morte è vincitore. Solo la luce nitida della fede, infatti, può dare una risposta alla questione della morte e della sua sovranità sull’esistenza di tutte le cose. Le stesse proposte dell’illuminismo scientifico incontrano nel mistero della vita e della morte un limite invalicabile. L’uomo contemporaneo, gonfio di orgoglio e di sicurezza, sa in fondo di essere un semplice viandante sul confine tra l’al di qua e l’aldilà. Egli, in realtà, intuisce che solo i messaggi religiosi concedono la possibilità di un superamento e di uno sguardo ulteriore che lascia poco spazio al pensiero filosofico, ai suoi principi razionali e al suo procedere concettuale. Soprattutto quando in causa c’è la questione della morte, la parola della filosofia e ancora di meno quella della scienza, da sole tradiscono la loro inadeguatezza e approssimazione. Il pensiero filosofico, da solo non è dunque in grado di rispondere convenientemente al perché della morte, e tanto meno sa dare delle risposte chiarificatrici su quanto attende l’uomo oltre il suo confine. Generalmente il pensiero filosofico ha tentato di risolvere il problema della morte con l’idea dell’immortalità dell’anima o, al contrario, negando qualsiasi sopravvivenza ultraterrena dell’uomo poiché ridotto al solo 86

K. WOJTYLA, La speranza che va oltre la fine (Meditazione sulla morte IV), in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 103.

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elemento materiale e corruttibile. Il pensiero cristiano, invece, si incentra sul messaggio della risurrezione, il mysterium paschale che è il cuore della vita e della missione della Chiesa e della meditazione di Giovanni Paolo II sulla morte. Per il Papa, infatti, parlare della Pasqua di Cristo come unica possibile prospettiva per affrontare il tema della morte, non è per nulla una forzatura, né un discorso aggiuntivo. La parola di Cristo è il senso del vivere e del morire degli uomini redenti dal sangue del Figlio di Dio. La morte cristiana è perciò per sua natura passaggio, esodo, evento pasquale in cui l’uomo, unito a Cristo, viene introdotto nella vita87. Certo, quando viene messo a tacere l’istinto profondo del cuore dell’uomo, i segni che preannunciano la morte e che, ancora di più, l’accompagnano, non lasciano molto spazio ad una facile speranza e a considerazioni ottimistiche sulla sorte finale e post-mortale dell’uomo: tutto sembra dire con cruda ed estrema chiarezza che la morte significa il tracollo della sua vita, dei suoi progetti, delle sue aspettative, e che non ci sia altro da attendersi oltre il nero baratro della fine che tutto azzera e ingoia. Solamente la fede può soccorrere la debolezza della ragione e dell’innata paura dell’uomo e annunciargli la vittoria della vita (della Vita!), di Colui che è la Vita e che solo può garantire all’uomo non solo la sua sopravvivenza post-mortale, ma il possesso della pienezza di vita che ha cercato, sperato, voluto88. 87

L’uomo inchioda la bara del corpo e consegna alla terra la certezza del suo disfacimento…nella speranza riposta in colui che può sottrarre i corpi degli uomini alla terra. La parola della risurrezione è «Parola ultima di fede che va incontro al nostro ineluttabile passare — parola di risposta all’iscrizione che non contraddice la vita (la contraddice la morte) — parola più di tutte sospetta, ripetuta malgrado le morti quotidiane e gli eventi del pianeta ch’è luogo del nostro passare, luogo di morte per ogni nostra generazione» (K. WOJTYLA, Il timore ch’è all’inizio – Meditazione sulla morte III, in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 99). 88 Cfr Udienza Generale del 2 novembre 1988, in OR (2-3 novembre 1988), p. 4. Per quanto riguarda i preannunci della morte, non va dimenticato che anche la vecchiaia, intesa purtroppo nella società contemporanea non più come età nobile e sinonimo di saggezza, ma come anticamera della morte, ha un valore in sé. Questa convinzione è ribadita in più occasioni da Giovanni Paolo II il quale, nella lettera dedicata agli anziani nell’ottobre del 1999, al n. 2, la definisce l’“autunno della vita”. In quella lettera egli poneva l’accento sullo scorrere inesorabile del tempo e aggiungeva: «“Il tempo fugge irrimediabilmente”, sentenziava già l’antico poeta latino (Virgilio). L’uomo è immerso nel tempo: in esso nasce,

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Il Papa denuncia però il pericolo che alcuni elementi dell’insegnamento morale della Chiesa siano oggi particolarmente esposti all’errore, all’ambiguità o alla dimenticanza. Tra questi elementi, dai quali dipende la risposta agli oscuri enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo, sono particolarmente importanti tutti quelli da cui dipende la comprensione della natura dell’uomo, il senso e il fine della sua vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, il giudizio e la sanzione dopo la morte, la stessa morte. Messi a tacere o non compresi in maniera adeguata, questi stessi elementi rischiano di oscurare la comprensione stessa dell’uomo e della sua vita89. Il credente ricerca nella Scrittura la via per giungere alla loro corretta intelligenza e ancora di più si rivolge alla sua testimonianza per lasciarsi guidare nella comprensione piena di sé nella sua destinazione eterna.

vive e muore. Con la nascita viene fissata una data, la prima della sua vita, e con la morte un’altra, l’ultima: l’alfa e l’omega, l’inizio e la fine della sua vicenda terrena, come la tradizione cristiana sottolinea, scolpendo queste lettere dell’alfabeto greco sulle lapidi delle tombe. Ma se così misurata e fragile è l’esistenza di ciascuno di noi, ci conforta il pensiero che, in forza dell’anima spirituale, sopravviviamo alla morte stessa. La fede poi ci apre ad una “speranza che non delude” (cfr Rm 5, 5), additandoci la prospettiva della risurrezione finale» in EV/18, 1641. Interessante è anche una breve ma intensa espressione contenuta nella sua opera giovanile Magnificat, scritta nella primavera-estate del 1939 a Cracovia, nella quale il giovane Karol esalta con tutta la sua anima il Signore per la primavera e per “l’ardente giovinezza”, ma anche “per l’autunno che ha sembianza di stoppie tristi e di eriche” (cfr K. WOJTYLA, Magnificat, in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 41). Rivolgendosi ancora agli anziani, durante un discorso tenuto a Monaco di Baviera il 19 novembre 1980, egli inoltre ebbe a dire: «Senza una confidenza in Dio non c’è nessuna consolazione al momento della morte. Ed è proprio questo che appunto Dio vuole con la morte: che noi, almeno in questa suprema ora della nostra vita, ci abbandoniamo totalmente al suo amore, senza nessuna altra sicurezza se non appunto questo suo amore. Come gli potremmo mostrare in modo limpido la nostra fede, speranza, carità!» (GIOVANNI PAOLO II, Pensieri sparsi, Vicenza 1988, 208). Per quanto riguarda il testo originale del discorso tenuto dal Papa in tedesco, si veda OR (21 novembre 1980), pp. 1; 3. 89 Cfr Veritatis Splendor, Lettera enciclica circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa (25 marzo 1995), 30, in EV/13, 2615.

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1. LA SACRA SCRITTURA 1.1. L’Antico Testamento 1.1.1. Le tappe di un cammino In una udienza generale tenuta il 2 giugno 1999, Giovanni Paolo II tratteggiava quasi una sintesi della teologia della morte e anche del suo insegnamento su questa grande questione umana. Soprattutto in quella occasione, egli si accostava ancora al tema della morte con la consapevolezza che essa, nonostante tutti i tentativi di rimozione, è un tema che riguarda l’uomo da vicino e di cui questi, qualora lo volesse, non può sbarazzarsi con facilità. Oggi forse più che in passato, constatava il Papa, è divenuto però difficile parlare della morte. Sembra quasi che questo evento sia destinato a rimanere perfettamente nell’ombra, ad essere coperto completamente dal silenzio e dall’omertà. La parola di Dio rompe questo muro e ci offre invece una luce che progressivamente rischiara e consola. A partire da questa convinzione il Papa inizia a presentare le tappe fondamentali dello sviluppo della fede di Israele e del messaggio di Gesù e del Nuovo Testamento sul mistero della morte, mostrando come in definitiva l’annuncio della risurrezione escatologica sia la risposta ultima e perfetta all’innato desiderio di immortalità e di pienezza di vita proprio dell’uomo. La morte è innanzitutto un’incontro con il Padre, e di questo dato ne è testimonianza la Scrittura che già a partire dall’Antico Testamento ci offre le prime indicazioni ricavate dalla comune esperienza dei mortali. Inizialmente questa esperienza non è ancora informata dalla speranza di una vita beata oltre la morte. In una fase arcaica, infatti, si pensava per lo più che l’esistenza umana si concludesse nello sheól, luogo di ombre, incompatibile con la vita in pienezza. Molto significative a tal proposito le parole del Libro di Giobbe: «Non sono poca cosa i giorni della mia vita? Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco, prima che me ne vada, senza ritornare, verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre» (Gb 10,20-22)90.

90 A questo proposito il Papa fa notare come «non mancano, nella cultura dell’umanità, dai tempi più antichi ai nostri giorni, risposte riduttive, che limitano la vita a quella che viviamo su questa terra. Nello stesso Antico Testamento, alcune annotazioni nel Libro di

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La riflessione sapienziale di Giobbe è emblematica perché esprime una visione drammatica della morte comune al pensiero biblico antico, sebbene la stessa Scrittura registri anche un lento processo che porterà ad una comprensione nuova di questo mistero. Si farà strada gradualmente la rivelazione di Dio quale Signore della vita, che ha creato l’uomo per la vita e che non può consegnare i suoi fedeli in potere della morte, e la riflessione umana, così fecondata, si aprirà ad un nuovo orizzonte che riceverà luce piena nel Nuovo Testamento. Si comprende innanzitutto che, se la morte è quel nemico inesorabile dell’uomo, che tenta di sopraffarlo e di ricondurlo sotto il suo potere, Dio non può averla creata, perché non può godere della rovina dei viventi (cfr Sap 1,13). Il progetto originario di Dio era diverso. Esso venne nondimeno contrastato dal peccato commesso dall’uomo per influsso demoniaco, come spiega il Libro della Sapienza: «Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura» (Sap 2,23-24)91. Isaia addita un futuro in cui Dio eliminerà la morte per sempre, asciugando «le lacrime su ogni volto» (Is 25,8) e risuscitando i morti a vita nuova: «Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada luminosa; la terra darà alla luce le ombre» (ibid., 26,19). «Alla morte come realtà livellatrice di tutti i viventi — spiega il Papa — viene così a sovrapporsi l’immagine della terra che, quale madre, si appresta al parto di un nuovo essere vivente e dà alla luce il giusto destinato a vivere in Dio»92. Per questa ragione, anche se i giusti «agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità» (Sap 3,4). L’immortalità, poi, si apre ad un messaggio di salvezza ancora più radicale e forte: la risurrezione dei morti, verità già affermata magnificamente nel Secondo Libro dei Maccabei da sette fratelli e dalla loro madre, al momento di subire il martirio. Uno di loro dichiara: «Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo» (2Mac 7,11); un altro, «ridotto in fin di vita, diceva: ‘È bello morire a causa degli uomini per attendere da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitati’» (ibid., 7,14). La loro madre li incoQoelet fanno pensare alla vecchiaia come ad un edificio in demolizione ed alla morte come alla sua totale e definitiva distruzione (cfr 12, 1-7)» (Lettera agli anziani 15, in EV/18, 1679). 91 Cfr Udienza generale del 2 giugno 1999, in OR (3 giugno 1999), p. 6. 92 L. c.

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raggiava ad affrontare la morte con questa speranza (cfr ibid., 7,29). Ma anche i profeti ammonivano ad attendere “il giorno del Signore” con animo retto, altrimenti esso sarebbe stato “ tenebra e non luce” (cfr Am 5,18.20). Nell’Antico Testamento, quindi, la vera morte era considerata non tanto quella del corpo, legge universale, ma quella della disobbedienza a Dio e dell’infrazione dell’Alleanza e della Legge, cioè quella del peccato. Non è raro, infatti, incontrare ammirevoli testimonianze di una fedeltà alla Legge santa di Dio spinta fino alla volontaria accettazione della morte. La vera sventura per il pio israelita era non tanto la fine della vita fisica, quanto piuttosto la trasgressione dei comandamenti di Dio93. Anche la speranza dell’uomo, miseramente riposta nella ricchezza ritenuta capace di liberarlo dalla morte, attesa rimasta penosamente delusa, davanti alla morte sembra destinata a svanire e a dileguarsi. Nella morte l’uomo non ha altro da fare che consegnarsi rassegnato al destino comune a tutti gli uomini, ricchi e poveri, o alla disperazione, come afferma la prima parte del Salmo 48 che afferma: «Per quanto si paghi il riscatto di una vita, non potrà mai bastare per vivere senza fine e non vedere la tomba». Ma ad un tratto lo stesso Salmo opera una svolta decisiva e indica inaspettatamente una soluzione. Infatti, se il denaro a cui l’uomo ha affidato il suo desiderio e in cui ha riposto la sua fiducia tanto da ritenersi riscattato dallo stesso pericolo della morte non riesce ad affrancarlo dalla morte (cfr Sal 48,8-9), c’è, però, uno che può redimerlo da quell’orizzonte oscuro e drammatico. Dice, infatti, il Salmista: «Dio potrà riscattarmi, mi strapperà dalla mano della morte» (v. 16). Si apre, pertanto, per il giusto, un orizzonte di speranza e di immortalità. La speranza rinasce dalle ceneri della morte ormai prossima. La domanda iniziale del Salmo (“Perché temere?”: v. 6) trova allora una risposta chiara: il giusto non ha nulla da temere e tanto meno non ha da invidiare la sorte dei ricchi i quali presumono di comprare ciò che solamente Dio può dare, la vita e la liberazione dalla morte. Il giusto, povero e umiliato nella storia, quando giunge di fronte alla morte, è senza beni e non ha nulla da versare come “riscatto” per fermare 93 Cfr Veritatis Spendor 91, in EV/13, 2761. Emblematica è la storia di Susanna raccontata nel Libro di Daniele a cui il Papa rimanda. La donna giusta dell’antico patto, ai due giudici ingiusti, che minacciavano di farla morire se si fosse rifiutata di cedere alla loro passione impura, così rispose: «Sono alle strette da ogni parte. Se cedo, è la morte per me, se rifiuto, non potrò scampare dalle vostre mani. Meglio però per me cadere innocente nelle vostre mani che peccare davanti al Signore!» (Dn 13,22-23).

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la morte e sottrarsi al suo gelido abbraccio. Egli, a differenza del ricco, non si nutre neppure dell’illusione di poter sfuggire alla morte grazie alle sue sostanze e ai suoi beni. Ma proprio per lui Dio stesso opera un gesto inaudito e sorprendente: versa un riscatto e strappa dalle mani della morte il suo fedele. Egli è infatti l’unico che può smascherare la fallacia delle ricchezze e può vincere la morte, spietata nei confronti degli esseri viventi. La ragione per cui non bisogna né temere e né invidiare il ricco sempre più arrogante nella sua gloria, risiede proprio nel fatto che anche questi, giunto alla morte, sarà spogliato di tutto, non potrà portare con sé né oro né argento, né fama né successo (cfr vv. 18-19), e soprattutto perché il fedele, al contrario, non sarà abbandonato dal Signore il quale lo riscatterà e lo strapperà dalla mano della morte e gli indicherà il sentiero della vita, gli farà gustare gioia piena alla sua presenza e la dolcezza senza fine che prova solamente chi sta alla sua destra (cfr Sal 15,11). Il pensiero alla morte relativizza allora le realtà terrene e le conquiste umane, ma non per questo le svilisce o le frantuma. Esso è un monito costante perché l’uomo non si lasci imprigionare dalle maglie delle ricchezze e di quanto il progresso e il benessere possono offrirgli, e non fissi il suo sguardo unicamente su ciò che non è durevole. È un invito affinché si apra invece alla speranza della vita eterna, della felicità piena e senza fine, che niente e nessuno potrà mai offrirgli se non Dio soltanto. Questa è la sapienza che il pio israelita invoca dal Signore dal quale chiede il dono di saper contare i propri giorni per giungere alla sapienza del cuore (cfr Sal 90,12). Un altro Salmo, il 50, diventa per il Papa l’occasione per approfondire la sua riflessione sulla morte e sullo stato dell’uomo peccatore e mortale. A questo Salmo il Papa dedica soprattutto la sua riflessione in occasione della stazione quaresimale tenuta a S. Sabina nel marzo del 2000. «Crea in me, o Dio, un cuore puro, — prega il Salmista — rinnova in me uno spirito saldo Non respingermi dalla tua presenza e non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 50,12-13). «Crea in me, o Dio, un cuore puro... non privarmi del tuo santo spirito». Sono le parole che riecheggiano durante la celebrazione penitenziale dell’imposizione delle ceneri sul capo dei penitenti, ricorda il Papa; parole che si fanno invocazione e che rivelano il significato di questo antichissimo rito che pur essendo sobrio, se considerato in se stesso, è tuttavia ricco di richiami spirituali, un segno importante di conversione e di

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interiore rinnovamento. È infatti un rito liturgico semplice e quanto mai incisivo per il contenuto penitenziale che esprime: con esso la Chiesa ricorda all’uomo credente e peccatore la sua fragilità di fronte al male e prima ancora la sua totale dipendenza dall’infinita maestà di Dio. La Chiesa così ricorda all’uomo il suo destino e la fugacità della sua esistenza94. Interessante risulta anche il commento al Salmo 29 che si configura come un inno di ringraziamento a Dio per la liberazione dalla morte. Esso è infatti un intenso inno di riconoscenza a Dio che sale dal cuore dell’orante, dopo che in lui si è dissolto l’incubo della morte. Questo Salmo, fa notare il Papa, è un inno di gratitudine e si regge su una serie di contrasti che esprimono in modo simbolico e forte la liberazione ottenuta dal Signore. Così, allo «scendere nella tomba» si oppone il «risalire dagli inferi» (v. 4); alla «collera di un istante» da parte di Dio, si sostituisce «la sua bontà per tutta la vita» (v. 6); al «pianto» serale subentra la «gioia» del mattino (ibid.); al «lamento» succede la «danza», alla «veste» luttuosa di «sacco» l’«abito di gioia» (v. 12)95. Ripetutamente l’orante si rivolge al Signore in diversi contesti: sia per annunziare che lo loderà (cfr vv. 2 e 13), sia per ricordare il grido lanciato verso di Lui nel tempo della prova (cfr vv. 3 e 9) e il suo intervento liberatore (cfr vv. 2.3.4.8.12), sia per invocare di nuovo la sua misericordia (cfr v. 11). Il suo inno di ringraziamento, poi, non vuole rimanere isolato, tanto che in un altro passaggio, egli invita i fedeli a cantare insieme a lui inni al Signore per rendergli grazie (cfr v. 5). In lui si possono rinvenire chiaramente due diverse sensazioni. Sono due distinti stati d’animo, infatti, che convivono nel suo cuore e che oscillano costantemente tra il ricordo terribile dell’incubo attraversato e la gioia della liberazione. Il pericolo lasciato alle spalle è grave e riesce ancora 94 Cfr Stazione quaresimale e omelia a S. Sabina dell’ 8 marzo 2000, in OR (10 marzo 2000), p. 5. 95 Cfr Udienza generale del 12 maggio 2004, in OR (13 maggio 2004), p. 4. Passato il pericolo imminente della morte, trascorsa la notte della paura e del terrore, si apre per il fedele la speranza del nuovo giorno, un giorno non più oscurato dalla presenza della morte e dal suo imminente apparire. Non a caso la tradizione cristiana ha letto il Salmo 29 come canto pasquale e alla luce dell’esperienza di passione-morte-risurrezione di Cristo. Di questa rilettura cristologico-pasquale ne è attestazione eloquente l’uso liturgico del Salmo che, come fa notare Giovanni Paolo II, viene introdotto da una citazione che si desume da Giovanni Cassiano il quale afferma che in questo testo «Cristo rende grazie al Padre per la sua risurrezione gloriosa».

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a far rabbrividire: la memoria della sofferenza passata è ancora nitida e viva; il pianto si è asciugato negli occhi solo da poco. Ma ormai per lui, accasciato per il peso della morte, è sorta l’aurora di un nuovo giorno, e alla morte è subentrata la prospettiva della vita che continua. Il Papa conclude la sua riflessione prendendo in consegna il messaggio centrale del Salmo che è una prova di come il credente non debba mai lasciarsi intrappolare dal groviglio oscuro della disperazione, anche quando sembra che tutto ormai sia perduto per sempre. Il Salmo è anche un ammonimento a sfuggire la tentazione di pensare che la salvezza sia opera dell’uomo e delle sue strategie, indipendentemente dall’intervento generoso e libero di Dio. È la denuncia, cioè, di tutti i tentativi titanici intrapresi dall’uomo che presume di auto-redimersi con le proprie risorse. Lo stesso Salmista, infatti, ammette di essere stato preda di questo inganno e di questa illusione, quanto confessa di avere quasi ceduto alla superbia e dell’autosufficienza, avendo pensato, nella prosperità e nel pieno del vigore, di essere immune alla morte e di non poter perciò vacillare per nessuna ragione (v. 7). Dopo aver confessato il pericolo della superbia avuta nel tempo della prosperità, egli ricorda anche la prova che vi ha fatto seguito, dicendo al Signore: «Quando hai nascosto il tuo volto, io sono stato turbato» (v. 8). Proprio in quella occasione, il momento delle tenebre e della solitudine, egli non ha ceduto alla disperazione e allo sconforto, e neppure ha continuato stupidamente a confidare in se stesso, ma si è spinto nell’invocazione e nell’implorazione del Signore (cfr vv. 9-11). Egli ha gridato, chiesto aiuto, supplicato di essere preservato dalla morte, portando come ragione il fatto che la morte non reca nessun vantaggio neppure a Dio. I morti, infatti, non sono più in grado di lodare Dio e non hanno più nessun motivo di proclamare la fedeltà di Jhavè, essendo stati abbandonati da lui. Neanche Dio, quindi, trae profitto dalla morte dell’uomo, e questi, ormai quasi raggiunto dalla fine, come testimonia anche il Salmo 87, non può fare altro che rivolgere al Signore un’ultima e drammatica domanda: «Si celebra forse la tua bontà nel sepolcro, la tua fedeltà negli inferi?» (Sal 87,12). Una simile questione viene posta dal re Ezechia, gravemente ammalato e poi guarito e liberato dagli inferi. Solamente il vivente rende grazie a Dio per sempre. Per questa ragione chi è vicino alla morte chiede al Signore di esserne salvato e riscattato (Is 38,18-19)96. 96

Cfr Udienza generale del 12 maggio 2004, cit., 4.

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Come attesta poi il Libro della Sapienza, Dio ha per l’uomo e per il mondo un progetto di vita. L’uomo può sperare nella liberazione dalla morte proprio perché confida in Jhavè il quale è il Signore della vita e non cerca la morte e la fine di ciò che con amore ha creato. «Tutto il mondo davanti a te, come polvere sulla bilancia, come una stilla di rugiada mattutina caduta sulla terra. Hai compassione di tutti, perché tutto tu puoi, non guardi ai peccati degli uomini, in vista del pentimento. Poiché tu ami tutte le cose esistenti e nulla disprezzi di quanto hai creato; se avessi odiato qualcosa, non l’avresti neppure creata. Come potrebbe sussistere una cosa, se tu non vuoi? O conservarsi se tu non l’avessi chiamata all’esistenza? Tu risparmi tutte le cose, perché tutte sono tue, Signore, amante della vita, poiché il tuo spirito incorruttibile è in tutte le cose. Per questo tu castighi poco alla volta i colpevoli e li ammonisci ricordando loro i propri peccati, perché, rinnegata la malvagità, credano in te, Signore» (Sap 11,22-12,2)97. Il ricordo dei defunti e il pensiero alla morte possono essere illuminati dalla meditazione del brano di Sapienza 11, dice il Papa. Le parole del testo sacro, infatti, possono aiutare molto a vivere l’incontro con l’eternità. Sono parole cariche di speranza perché affermano, oltre il limite doloroso della morte, che lo Spirito di Dio, incorruttibile, è in tutte le cose e che queste, pur essendo attaccate dal veleno della morte, hanno un destino pieno di vita. Dio, il Creatore, non rinnega infatti quanto ha creato, ma vuole che tutte le cose si conservino per sempre (cfr Sap 12,1). Il Signore che ama tutte le cose che ha creato, ama soprattutto l’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, animato dalla sua stessa vita, creato per sempre, e a lui promette un futuro di vita e di gloria (cfr Sap 11,23-24). L’uomo è stato creato per la vita; egli è animato dallo Spirito di Dio e nel suo cuore opera una speranza e un’attesa piene di immortalità (cfr Sap 3,4)98.

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Angelus Domini del 2 novembre 1980, in OR (3-4 novembre 1980), p. 3. Cfr l. c.


1.1.2. “Per la caduta di uno solo morirono tutti” (Rm 5,15): il peccato e la morte La morte nella maggior parte dei testi dell’Antico Testamento appare come la fine del tutto naturale dell’uomo, come un evento legato alla sua struttura creaturale. Egli muore perché è carne (basâr) e in quanto tale è caduco, fragile, polvere. Condivide il destino comune a tutte le cose. La morte è per lui la fine della sua esistenza quale essere finito e storico. Tuttavia, lentamente negli scritti un po’ più recenti comincia a delinearsi una diversa concezione della morte umana. Questa appare sempre più chiaramente messa in relazione con il peccato e tende così a diventare un elemento del dramma storico della salvezza. Dal momento in cui si chiarisce il nesso tra la morte e il peccato appare con più evidenza che essa non può essere ridotta a realtà fisica o riguardante esclusivamente la componente fisico-organica dell’uomo, ma viene vista altresì come realtà che coinvolge anche l’atteggiamento morale-religioso dell’uomo nei confronti di Dio. Allontanarsi da Jhavè, trasgredire la sua alleanza, volgergli le spalle per rivolgersi ad altre divinità, significa per l’uomo biblico andare incontro alla morte, gustarne tutta l’amarezza e smarrire la via della vita99. La stessa liturgia cristiana, ha registrato questo legame testimoniato dalla Scrittura, tanto da accompagnare l’imposizione delle ceneri sul capo dei penitenti, all’inizio dei riti quaresimali, con parole molto familiari all’uomo biblico: «Ricordati che sei polvere e in polvere ritornerai», ma anche con l’invito a convertirsi dal peccato per credere al vangelo: il peccato viene allora visto come causa della morte, la conversione come inizio della 99 Anche il Nuovo Testamento accoglierà questa riflessione matura dell’Antico Testamento e approfondirà, soprattutto con l’apporto del pensiero paolino, l’intimo legame esistente tra il peccato e la morte. Il Nuovo Testamento non si fermerà tuttavia alla constatazione amara e impotente di questo stato di cose, e non si limiterà a denunciare questa nefasta relazione, ma indicherà in Cristo morto e risorto la risposta e la via della salvezza. Infatti, la vera morte, quella da cui Gesù ci invita a guardarci e ad evitare, è quella spirituale, quella del peccato, dell’alienazione da Dio e dai fratelli. È la morte del peccatore che non vuole essere riconciliato, che rimane nella sua ottusa chiusura a Dio, sorgente della vita; e in questa chiusura sperimenta l’oblio, il non senso, la solitudine, la morte. La vera morte a cui direttamente la Scrittura si interessa non è perciò quella naturale, quella che giunge come ovvia conclusione dell’esistenza storica, come naturale punto d’arrivo di un organismo vivente, ma quella che interrompe i rapporti con Dio perché manifestazione del peccato. Di questa morte Cristo, con la sua obbedienza filiale, è venuto a salvare l’uomo, ed è questo pertanto il messaggio centrale, l’evangelo, del Nuovo Testamento.

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vita nuova. Il rito delle ceneri, come già è emerso, intende affermare che l’esistenza terrena è sin dal suo inizio inserita nella prospettiva della morte. I nostri corpi sono mortali, segnati cioè dalla ineludibile prospettiva della morte. Si vive avendo avanti a sé questo traguardo, e ogni giorno che passa è un avvicinarsi ad esso con progressione inarrestabile. Le ceneri sono un segno chiaro e asciutto di ciò che la morte significa per l’uomo e per tutte le cose. Essa, infatti, ha in sé qualcosa dell’annientamento. Con la morte sembra che tutto finisca. Per sempre. La sua sembra essere davvero l’ultima parola proferita sull’uomo e sulla sua esistenza, sui suoi progetti e le sue speranze. È testimonianza del potere che ha il peccato di polverizzare la vita dell’uomo. Ed ecco, invece, che proprio di fronte ad una tale sconsolante prospettiva, l’uomo consapevole del suo peccato, chiede a Dio, facendo sue le parole del Salmista, di creare in lui un cuore puro e di rinnovare in lui uno spirito saldo, di non essere allontanato dalla sua presenza e di non essere privato del suo santo spirito (cfr Sal 50)100. Il credente che si sente minacciato dal male e dalla morte invoca Dio con la consapevolezza che per lui è riservato un destino di vita eterna. Egli sa, infatti, di non essere soltanto un corpo condannato alla morte a causa del peccato, ma di avere anche un’anima immortale che garantisce la sua sopravvivenza oltre la morte, in una vita di comunione beata con Dio. Avendo sempre nel cuore le parole del Salmista egli si rivolge perciò a Dio, ben sapendo che dall’invocazione sorge per lui un destino di vita che sconfigge la morte e il suo potere101, e Dio, da parte sua, nel suo benevolo progetto di vita sull’uomo raccoglie tutte le potenzialità di vita e contrasta le forze di morte che nascono dal peccato. L’uomo, cosciente dei propri peccati e avendo vivo nel cuore l’anelito alla comunione con Dio, rivolge dunque al Signore la sua invocazione chiedendogli di non essere respinto dalla sua presenza, perché ciò significherebbe essere nella morte, precipitare nel nulla, smarrire definitivamente la via della vita. Il suo desiderio, infatti, è quello di essere sempre con il Signore perché solo nella comunione con lui egli ha davvero la vita, la vita piena. Allontanarsi da lui, essere escluso dalla sua presenza, significherebbe la fine di ogni speranza e di ogni bene. Stare con lui significa avere la vita! Per questa ragione la sua invocazione si fa sempre

100 101

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Cfr Stazione quaresimale e omelia a S. Sabina dell’ 8 marzo 2000, cit., 5. Cfr l. c.


più pressante e insistente, affinché il suo cammino sia sorretto dalla speranza riposta nella promessa divina102.

1.1.3. Il potere di Dio sulla vita e sulla morte L’uomo biblico vive nella consapevolezza che egli è creatura e che Dio è il creatore; che la sua vita non gli appartiene poiché è stato Dio ad immettere in lui l’alito di vita e sarà ancora lui alla fine a ritirarlo. Jhavè, solamente lui, è il Signore della vita, e della morte, e nel momento in cui l’uomo dimentica ciò, sprofonda inevitabilmente tra le fauci della morte, della vera morte. Affermare che la vita non è una conquista umana significa per l’uomo biblico ammettere che la sua vita e la sua morte sono nelle mani di Dio, in suo potere: «Egli ha in mano l’anima di ogni vivente e il soffio d’ogni carne umana», esclama Giobbe (12,10). Gli fa eco un altro testo che dice: «Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire» (1Sam 2,6). Solo Jhavè, infatti, può dire: «Sono io che do la morte e faccio vivere» (Dt 32,39), nessun altro può avere l’ardire di fare questa confessione così sconvolgente103. Sebbene il credente viva la propria esistenza con la consapevolezza che la sua vita è posta nelle mani di Dio, secondo la fede del Salmista: «Signore, nelle tue mani è la mia vita» (cfr Sal 16,5), tuttavia egli incontra anche momenti di smarrimento e di turbamento quando, soprattutto nella vecchiaia, non sempre si scopre preparato ad affrontare il declino inevitabile della vita. Proprio allora egli si chiede quale sia l’atteggiamento corretto da avere di fronte alla morte, quale sia il senso della sua intera esistenza ormai vicina irrimediabilmente alla fine, e come possa dare valore all’ultimo tratto della sua vita. Egli sa che la vita sta nelle mani di Dio dal quale accetta anche il morire: «Questo è il decreto del Signore per ogni 102 Cfr l. c. Le parole pronunciate durante il rito delle ceneri evocano quanto la Scrittura ha progressivamente fatto conoscere all’uomo. Sono parole che esprimono una verità fondamentale che riguarda l’uomo, la sua caducità, la morte come fine della sua vita terrena. La Chiesa, anche attraverso il rito delle ceneri insiste grandemente su questa verità, comprovata tra l’altro dalla storia di ogni uomo, e si rivolge a tutti con un’esortazione che non vuole essere cinica e crudele, ma veritiera e leale: “Ricordati che la tua vita sulla terra ha un limite!” (cfr l. c.). 103 Cfr Evangelium Vitae 39, in EV/14, 2297.

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uomo; perché ribellarsi al volere dell’Altissimo?» (Sir 41,4) ed è sua ferma convinzione che come della vita, così della morte non è padrone. Nella sua vita come nella sua morte, egli deve perciò affidarsi totalmente al “volere dell’Altissimo”, al suo disegno di amore. L’esperienza della malattia e del declino fisico non fanno altro che accrescere le ragioni perché egli ponga la sua fiducia nel potere del Signore104. Così come nella vecchiaia, anche nel momento della malattia l’uomo è chiamato a vivere lo stesso affidamento al Signore e a rinnovare la sua fondamentale fiducia in colui che “guarisce tutte le malattie” (cfr Sal 103,3). Già la malattia in sé, con il suo carico di tristezza, paura e solitudine, richiede una nuova disposizione dell’animo verso il Signore dal quale viene ogni consolazione e speranza; specialmente quando è particolarmente grave e presagisce la morte. Ogni orizzonte sembra chiudersi e si comprende che ormai tutto è votato alla fine, tanto da indurre il credente, avvolto dalla tristezza della morte, a gridare: «I miei giorni sono come ombra che declina, e io come erba inaridisco» (Sal 102,12). La sofferenza che deriva dalla malattia, dal declino fisico e dal pensiero della morte ormai prossima, non chiude tuttavia il suo cuore alla speranza, poiché egli è intimamente animato dalla fede incrollabile nella potenza vivificante di Dio. La malattia non lo spinge alla disperazione e alla ricerca della morte, ma all’invocazione piena di speranza: «Ho creduto anche quando dicevo: “Sono troppo infelice”» (Sal 116,10); e ancora: «Signore Dio mio, a te ho gridato e mi hai guarito. Signore, mi hai fatto risalire dagli inferi, mi hai dato vita perché non scendessi nella tomba» (Sal 30,3-4). Soprattutto i testi testé presentati ci dicono che la Scrittura nel suo insieme è una testimonianza preziosa, unica e fondamentale per la comprensione del mistero umano della morte, ma anche per la comprensione del mistero della sofferenza che della morte è annuncio. Non è raro, infatti, cogliere nella Scrittura il nesso inestricabile tra la morte e la sofferenza. Il desiderio profondo dell’uomo biblico è quello di possedere la vita in pienezza, nel vigore fisico e nella forza dello spirito; la sofferenza è per lui un attentato alla sua sete di vita, è un venir meno della sua forza e vitalità: la debolezza della malattia è profezia e anticipo dell’estrema debolezza della morte, e proprio per questa ragione è temuta. Nel ripercorrere pertanto la preziosa testimonianza della Sacra Scrittura sul mistero del dolore, il Papa afferma infatti che essa è un grande 104

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Cfr ibid., 46, in EV/14, 2320.


libro sulla sofferenza. Già l’Antico Testamento, come in parte si è visto, presenta moltissimi esempi di situazioni che recano i segni della sofferenza, prima di tutto di quella morale: il pericolo di morte, la morte dei propri figli e specialmente la morte del figlio primogenito ed unico105. La sofferenza è però un momento fondamentale per la crescita umana e spirituale dell’uomo il quale attraverso il soffrire prende sempre più coscienza dei propri limiti, della propria creaturalità e della propria insopprimibile distanza dal divino. La conoscenza che deriva all’uomo dalla sofferenza è di natura religiosa: è conoscenza dei suoi limiti e della sua destinazione ultraterrena. In Segno di contraddizione Wojtyla a questo proposito affermava: «L’uomo sembra che nelle sofferenze colga meglio il senso fondamentale delle proporzioni che sfuggono in genere alla sua attenzione; che viva più profondamente la fragilità della sua esistenza e quindi il mistero della sua creazione, la responsabilità per la vita, il senso del bene e del male e, infine, l’inesprimibile maestà di Dio»106.

L’Antico Testamento, in sostanza, ha espresso questa duplice realtà: da un lato la consapevolezza da parte dell’uomo che per lui la morte non è un bene, è anzi un evento doloroso che interrompe la sua comunione con il Dio dei viventi il quale non si ricorda più di coloro che scendono nello scheól, una morte preannunziata dalla malattia, ma dall’altro registra l’intenso desiderio umano di una vittoria di Dio sulla morte, un desiderio più forte della stessa morte, ed esprime anche la ferma fiducia che Dio non 105 Cfr Salvifici Doloris. Lettera apostolica sul senso cristiano della sofferenza (11 febbraio 1984), 6, in EV/9, 625. Sulla Salvifici Doloris si veda anche A. TURCHI, L’uomo sofferente “peculiari modo” via della Chiesa (un’introduzione alla Salvifici Doloris di Giovanni Paolo II), in AA.VV., L’uomo via della Chiesa, studi in onore di Giovanni Paolo II, Milano 1991, 139-159, in cui si parla della santificazione della sofferenza ad opera di Cristo, uomo del dolore e della gloria. È opportuno sottolineare che la Salvifici Doloris è stata scritta nell’anno santo della redenzione 1984 perché il mistero della redenzione del mondo è in modo sorprendente radicato nella sofferenza, e questa, a sua volta, trova in esso il suo supremo e più sicuro punto di riferimento. Cfr anche V. LEONZIO (a cura di), Giovanni Paolo II. Il valore salvifico della sofferenza, Roma 1985; J. JAGIELKA, La pastorale degli ammalati nell’azione e nell’insegnamento di Giovanni Paolo II (1978-1992), Roma 1997. 106 K. WOJTYLA, Segno di contraddizione, Milano 2001, 185: testo che raccoglie i testi degli esercizi spirituali predicati dall’allora Card. Wojtyla a Paolo VI e alla Curia romana nel 1976.

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abbandona i suoi negli inferi, ma interviene per liberarli dai lacci della morte e chiamarli al possesso della vita. Questa vittoria di Dio sulla potenza della morte era prefigurata, come testimonia ad esempio il Sal 106,4-32, da parecchi casi in cui si era operata la salvezza di gente minacciata di morire di fame nel deserto, di prigionieri sfuggiti alla pena di morte, di malati guariti o di marinai salvati dal naufragio. In questi casi, però, come in situazioni simili, si trattava di vittorie non definitive, in quanto la morte, presto o tardi, sarebbe riuscita in un modo o in un altro a prendere il sopravvento. Non per questo l’aspirazione alla vittoria si è attenuata, continua il Papa nella sua disamina. Essa, infatti, malgrado tutto, si è sempre mantenuta ed è diventata, alla fine, una speranza di risurrezione. La soddisfazione di questa potente aspirazione sarà infatti pienamente assicurata con la risurrezione di Cristo. Solo in essa. Nella sua Pasqua, invero, come vedremo più avanti, la speranza dell’uomo di essere definitivamente sottratto al dominio della morte e degli inferi, è stata integralmente compiuta e realizzata107. In Lui l’uomo ha ricevuto in dono la salvezza dal peccato e dalla morte, la redenzione, la vita nuova. Per Cristo la sofferenza e la morte hanno assunto un significato e un valore diversi. Per la solidarietà con il Signore crocifisso e risorto, che si è caricato del dolore e del peccato del mondo, l’uomo può vivere la sofferenza e la morte come ennesima manifestazione della potenza di Dio e del suo amore misericordioso. In Memoria e identità il Papa ribadisce questo concetto quando asserisce che «la passione di Cristo sulla croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l’ha trasformata dal di dentro. Ha introdotto nella storia umana, che è storia di peccato, una sofferenza senza colpa, affrontata unicamente per amore. È questa la sofferenza che apre la porta alla speranza della liberazione, all’eliminazione definitiva di quel “pungiglione” che strazia l’umanità. È la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell’amore e trae anche dal peccato una multiforme fioritura di bene»108.

Cristo è colui che ha liberato l’uomo dal male e lo ha restituito all’amicizia con Dio. Egli è Colui che ha spezzato il pungiglione della morte ed è penetrato nel cuore del mistero della sofferenza rischiarandolo

107 108

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Cfr Udienza generale del 12 maggio 2004, cit., 4. K. WOJTYLA, Memoria e identità, cit., 199.


di luce, e la professione di fede della Chiesa non può non avere altro centro se non l’annunzio fedele del mistero di salvezza della sua Pasqua.

1.2. Il Nuovo Testamento L’Antico Testamento era giunto alla convinzione secondo cui Dio ha creato l’uomo per l’immortalità mentre il peccato è entrato nel mondo per invidia del diavolo. A questa concezione si richiama anche Gesù (cfr Gv 8,44) e su di essa si fonda l’insegnamento di san Paolo sulla redenzione di Cristo, nuovo Adamo (cfr Rm 5,12.17; 1Cor 15,21). Quanto era stato annunciato e preparato nell’Antico Testamento si compie nel Nuovo. Il Nuovo Testamento, infatti, registra una concentrazione cristologica degli asserti escatologici dell’Antico e rilegge ogni cosa alla luce del mistero pasquale di Cristo. La vita di Gesù, la sua predicazione, i suoi gesti e soprattutto la sua morte in croce, sono la rivelazione escatologica di Dio e del suo piano di salvezza. Sono la rivelazione in profondità dell’atteggiamento di Dio Padre di fronte alla vita e alla morte delle sue creature. Già il Salmista, in verità, aveva intuito che Dio non può abbandonare i suoi servi fedeli nel sepolcro, né permettere che il suo santo veda la corruzione. È l’attestazione del Salmo 16 che la Chiesa primitiva non ha mancato di rileggere in riferimento a Cristo e alla sua passione, morte e risurrezione109. In Gesù si rende presente e si manifesta il giudizio escatologico di Dio sulla storia. La sua morte in croce è l’inaugurazione di quel grande giudizio a cui tutte le nazioni sono chiamate. Tutti gli uomini saranno sottoposti infatti a questo giudizio (cfr 1Pt 4,5; Rm 14,10). Di fronte ad esso i giusti non dovranno temere, in quanto eletti destinati a ricevere l’eredità promessa. Essi saranno posti alla destra di Cristo che li chiamerà “benedetti del Padre mio” (Mt 25,34; cfr 22,14; 24,22.24). Il giusto pertanto ha come destino quello di partecipare alla stessa risurrezione di Cristo e di sperimentare in Lui la misericordia di Dio Padre. La morte che il credente saggia, egli la vive come membro del Corpo mistico di Cristo. Essa è per lui il dischiudersi della via verso il Padre, il

109

Cfr Udienza generale del 2 giugno 1999, cit., 6. Cfr At 2,25-28.

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quale ci ha dimostrato il suo amore nella morte del Figlio, «vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10; cfr Rm 5,7). La morte è un passaggio obbligato per ogni essere vivente, anche per l’uomo, ma questi l’attraversa ormai con la certezza che essa è divenuta per lui, in Cristo, un incontro con il Padre, un incontro che prelude a quella risurrezione finale che avverrà quando il suo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e il suo corpo mortale d’immortalità (cfr 1Cor 15,54). Allora, solo allora, si vedrà chiaramente che «la morte è stata inghiottita per la vittoria» (l. c.). Questa consapevolezza irrobustisce e rinvigorisce la speranza del credente il quale può interpellare la morte con atteggiamento di sfida e senza paura chiedendo: «Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?» (ibid., 55). Chi muore nel Signore, come afferma il Libro dell’Apocalisse (Ap 14,13), vive quindi già quella beatitudine che possiederà in pienezza in cielo, e che è promessa ai giusti, quel riposo che il Signore ha preparato per loro a motivo delle opere giuste da essi compiute110. «Venite benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» proclama il Figlio dell’uomo seduto alla destra del Padre suo (Mt 25,43). Sono le parole che il Signore risorto e vittorioso pronuncerà quando alla fine dei tempi verrà nella gloria del Padre suo e separerà i cattivi dai buoni perché questi ultimi ereditino il regno preparato per loro dall’eternità. Il regno è dono del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. È il dono maturato «fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34), nel corso di tutta la storia della salvezza: è dono dell’Amore misericordioso che lo ha preparato per i suoi e ad essi lo ha donato nel suo Figlio111. In questo regno, rivelato da Cristo crocifisso e risorto, si compirà definitivamente la storia dell’uomo e del mondo: «Cristo, infatti, è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,20). Ma sebbene questo regno sia stato “preparato fin dalla fondazione del mondo”, tuttavia, “a causa di un uomo venne la morte” (cfr 1Cor 15,21) e 110

Cfr l. c. Della verità di queste parole ne è testimone lo stesso s. Francesco d’Assisi che viene ripreso dal Papa come esempio di credente che ha affrontato la morte con estrema serenità e in perfetta riconciliazione, proprio perché aveva raggiunto la sua conformazione a Cristo maestro e Signore: “Laudato si, mi Signore, per sorella nostra morte corporale” (Fonti Francescane, Padova 19823, 263). 111 Cfr Omelia tenuta a Collevalenza (Perugia) presso il santuario dell’Amore Misericordioso, 22 novembre 1981, in OR (23-24 novembre 1981), p. 1.

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“tutti muoiono in Adamo” (cfr 1Cor 15,22), ci ricorda l’Apostolo. Questo dato darebbe l’impressione a prima vista di smentire e contraddire il progetto di Dio; sembrerebbe affermare che il destino del regno sia ormai la morte. Invece, afferma il Papa, all’essenza del regno, nato dall’Eterno Amore, appartiene solamente la vita e non la morte; questa è entrata nella storia dell’uomo insieme con il peccato, ma nella passione, morte e risurrezione di Cristo, nel suo sacrificio sulla croce, sono state donate all’uomo la salvezza eterna e la vita immortale112.

1.2.1. La predicazione del Regno Gesù ha fatto della predicazione del regno di Dio (del regno del Padre suo, del regno dei cieli) l’obiettivo primario della sua attività missionaria e della sua azione. Egli annuncia la venuta prossima del regno, ne dichiara la presenza nel mondo e invita i suoi ascoltatori ad accoglierlo e ad aprirsi ad esso nella conversione del cuore per avere la salvezza. In lui il regno si rende presente. Per mezzo di lui, nel quale sono giunti i tempi ultimi, il regno di Dio interviene già nel presente ed è già attivo nella storia. Il suo vangelo è dunque l’appello definitivo che Dio rivolge all’umanità perché prenda una decisione radicale e aderisca a lui. La legge che governa il nuovo regno instaurato da Cristo, è la legge dell’amore, il comandamento nuovo consegnato al nuovo popolo di Dio chiamato a viverlo e ad attuarlo sino alla sua consumazione finale nell’eschaton. Annunzio del regno e affermazione della cultura dell’amore, il cui contenuto e la cui natura è manifesta nella morte in croce di Cristo, vanno allora di pari passo e determinano il superamento e la sconfitta di tutte quelle strutture di peccato e di morte che segnano il mondo. È l’affermazione della logica di Cristo e della sua consegna alla morte per obbedienza al Padre suo per la salvezza del mondo: è il capovolgimento, cioè, di quei valori che il mondo predilige e favorisce e che tendono ad assegnare il primo posto all’avere e all’apparire piuttosto che all’essere, al ricevere piuttosto che al dare e donare, allo sfruttamento e all’affermazione di sé piuttosto che alla solidarietà sincera e disinteressata e al sacrificio della vita, alla vendetta e alla rivincita piuttosto che al perdono e alla riconciliazione. 112

Cfr l. c.

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Il regno di Cristo è una tensione verso questa vittoria definitiva, verso la pienezza escatologica del bene e della grazia, della salvezza e della vita. Una pienezza che comunque ha già il suo inizio visibile sulla terra soprattutto grazie alla croce e alla risurrezione. Cristo Gesù, crocifisso e risorto, è infatti fino in fondo autentica rivelazione dell’Amore misericordioso verso il cui trionfo tende il Regno113. «La salvezza consiste nel credere e accogliere il mistero del Padre e del suo amore, che si manifesta e si dona in Gesù mediante lo Spirito. Così si compie il regno di Dio, preparato già dall’antica alleanza, attuato da Cristo e in Cristo, annunciato a tutte le genti dalla Chiesa, che opera e prega affinché si realizzi in modo perfetto e definitivo»114.

Quanto è avvenuto sulla croce e nella morte di Cristo, attende di essere perfettamente partecipato a tutte le cose per l’irradiazione dell’Amore. Tutte le cose, infatti, costrette sotto il dominio del peccato e della morte, attendono di essere liberate definitivamente per la morte del Figlio di Dio e di poter così riflettere senza ostacoli e veli lo splendore dell’Amore originario e fontale. La Chiesa si pone a servizio di questo progetto di salvezza e, docile allo Spirito, lavora perché i germi di bene e giustizia posti da Dio nella storia e nel mondo possano germogliare e giungere a pienezza. «“Bisogna infatti che Egli regni” nella sua croce e risurrezione, bisogna che regni fino a quando “consegnerà il regno a Dio Padre...” (1Cor 15,24). Quando infatti ridurrà “al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza”, che tengono il cuore umano nella schiavitù del peccato, e il mondo nella sottomissione alla morte; quando “tutto gli sarà stato sottomesso”, allora anche il Figlio farà atto di sottomissione a Colui che gli ha sottoposto ogni cosa, “perché Dio sia tutto in tutti” (1Cor 15,28)»115.

In questo progetto di salvezza universale consiste la più perfetta definizione del regno, preparato “fin dalla fondazione del mondo”. Esso è 113

Cfr ibid., 2. Redemptoris missio 12, in EE (1998), 1063. 115 Omelia tenuta a Collevalenza (Perugia) presso il santuario dell’Amore Misericordioso, 22 novembre 1981, cit., 2. 114

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il definitivo compimento dell’Amore misericordioso che ha sottomesso a sé ogni cosa, compresa la morte, ultimo nemico: Dio tutto in tutti. La morte si oppone a questo progetto; vuol far sì che ciò non accada poiché essa è la più radicale visibilizzazione del peccato. In quanto sconfitta, tuttavia, essa è divenuta necessario punto di passaggio perché si realizzi il regno di Dio in pienezza. La morte, infatti, rende possibile il compiersi della parabola del seme che da corruttibile deve produrre una realtà incorruttibile… Essa è in sé e per sua intrinseca natura impedimento e ostacolo alla perfetta realizzazione del regno, ma poiché è stata assunta da Cristo e da lui è stata gustata sino in fondo, è stata anche ingoiata per la vittoria ed è perciò divenuta “strumento” privilegiato della realizzazione del regno. Non va certo dimenticato, avverte il Papa, che comunque «all’essenza del regno, nato dall’eterno Amore, appartiene la Grazia, non il peccato. Il peccato e la morte sono nemici del regno perché in essi si sintetizza, in un certo senso, la somma del male che è nel mondo, penetrato nel cuore dell’uomo e nella sua storia»116. Dio, nella pienezza del suo amore, nella sua opera fa tendere il mondo alla pienezza del bene. Il regno è regno della verità e della grazia, del bene e della vita. Chi entra nel mondo, entra però in un mondo segnato col marchio della morte e della distruzione. Egli può comunque con la sua presenza, in comunione intima con la vita stessa di Dio, orientare tutte le cose verso la pienezza di bene e la vita. La presenza di Dio è infatti una presenza salvifica, che contrasta il potere del male e del peccato, che logora e distrugge il dominio della morte. Sembra che ancora questa eserciti il suo incontrastato dominio su tutte le cose e sull’uomo, ma in verità Dio ha già operato la sua disfatta nella morte e risurrezione del Figlio suo sulla croce e sta portando a termine, nonostante i sussulti della morte che ancora la storia registra, l’instaurazione del suo regno. L’apparizione del regno è dunque denuncia del potere della morte e nello stesso tempo annuncio e realizzazione della sua disfatta. Dio, Amore misericordioso, penetra anche nel cuore dell’uomo, gravato dal peccato e dalla concupiscenza, e lì instaura un incontro con il male; affronta il peccato e la morte e manifestando la sua potenza riconferma il primato dell’Amore e il suo potere sul male e su ogni forma di sue manifestazioni e maschere. 116

Ibid., 1.

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San Paolo non nasconde che la via che l’Amore misericordioso deve percorrere per giungere al compimento del regno è lunga e irta. Cristo, infatti, esercita sì il suo dominio regale in forza della sua risurrezione dai morti, ma è altresì necessario, continua Paolo, «che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte» (1Cor 15,25s). La morte è stata dunque già annientata nella risurrezione di Cristo. Egli, in tale vittoria si è manifestato Signore e re. «Resuscitando Gesù dai morti — afferma Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio — Dio ha vinto la morte e in lui ha inaugurato definitivamente il suo regno. Durante la vita terrena Gesù è il profeta del regno e, dopo la sua passione, risurrezione e ascensione al cielo, partecipa della potenza di Dio e del suo dominio sul mondo (cfr Mt 28,18; At 2,36; Ef 1,18-21). La risurrezione conferisce una portata universale al messaggio di Cristo, alla sua azione e a tutta la sua missione. I discepoli avvertono che il regno è già presente nella persona di Gesù e viene a poco a poco instaurato nell’uomo e nel mondo mediante un misterioso legame con lui. Dopo la risurrezione, infatti, essi predicavano il regno annunziando Gesù morto e risorto […]. È sull’annunzio di Gesù Cristo, con cui il regno si identifica, che è incentrata la predicazione della Chiesa primitiva»117.

Eppure nel mondo continua a mostrarsi lo strascico del suo dominio in quanto “tutti muoiono in Adamo” e quindi sul cuore dell’uomo e sulla sua storia grava ancora il peccato con il suo pesante carico di morte. Constare l’azione forte che la morte continua a compiere nel mondo non significa abbandonarsi allo sconforto o alla disperazione, perché in Cristo ci è dato di vedere quanto grande sia la potenza dell’Amore misericordioso, che ci induce ad attendere con pazienza il tempo in cui il Signore risorto avrà messo tutti i nemici sotto i suoi piedi, instaurando così quel regno che non avrà mai fine118.

117

Redemptoris missio 16, in EE (1998), 1072-1073. Cfr Omelia tenuta a Collevalenza (Perugia) presso il santuario dell’Amore Misericordioso, 22 novembre 1981, cit., 2. 118

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1.2.1.1. L’opposizione al Regno Quanti nel mondo ripetono ogni giorno le parole “venga il tuo regno”, pregano in definitiva “perché Dio sia tutto in tutti”. A questo anelito si oppone la realtà del peccato, poiché “a causa di un uomo venne la morte” (cfr 1Cor 15,21); il peccato è infatti la dimensione interna della morte nello spirito umano. L’uomo permanendo in questa dimensione di morte e di peccato, l’uomo tentato fin dall’inizio con le parole: «diventerete come Dio» (Gen 3,5), mentre prega che venga il regno di Dio, purtroppo si oppone alla sua venuta, la respinge addirittura perché si chiede quale spazio possa egli occupare in un regno in cui Dio sia tutto in tutti. Egli perciò teme che dando a Dio ciò che è di Dio, rimanga egli stesso privo di ogni cosa e rischi di essere assorbito e annientato dal suo regno escatologico. Egli pensa che se Dio è tutto, l’uomo è niente, non esiste affatto. È quanto affermano, sebbene in forme diverse e in momenti diversi, gli autori delle ideologie e dei programmi che esortano l’uomo a voltare le spalle a Dio, ad opporsi al suo regno con assoluta fermezza e determinazione, perché solo così, essi sostengono, egli potrà costruire il proprio regno; cioè il regno dell’uomo nel mondo, il regno indivisibile dell’uomo119. È quanto hanno affermato, ad esempio, le ideologie atee e materialiste del XX secolo, in cui si pretendeva di negare Dio per affermare l’uomo, e di denunciare la religione perché accusata di distogliere l’uomo dall’attenzione al suo oggi, al suo lavoro e al suo impegno per il progresso e lo sviluppo del mondo, e concentrarlo così nell’attesa di un regno escatologico e ultramondano, impaurendolo e spaventandolo con il pensiero della morte e di ciò che con essa si apre nell’aldilà. Il pensiero della morte, e soprattutto di quanto l’uomo debba attendersi nell’aldilà, sarebbe, per queste ideologie, l’arma utilizzata dalla religione per mantenere l’uomo col capo chino e sottomesso, cioè la ragione ultima della resistenza alla sua perfetta emancipazione e maturità. Il regno deve essere costruito qui ed ora. Non c’è per l’uomo un regno diverso da quello di cui egli stesso è l’artefice e il beneficiario oggi. È il regno il cui dominio incontrastato appartiene all’uomo; che l’uomo si è guadagnato col sudore della fronte e con fatica e che non può, non vuole, consegnare per nessuna ragione a terzi. Il regno 119

Cfr l. c.

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dell’Uomo, il regno della Ragione, dello Stato, è alternativo al regno illusorio di Dio. Questi è stato finalmente de-tronizzato. Al suo posto l’uomo ha piazzato se stesso come unico e indiscusso sovrano del nuovo regno del mondo, di un mondo ormai orfano di Dio. L’uomo ha quasi totalmente dimenticato che vince veramente la morte solo se accoglie il regno di Dio ed entra in esso. Adamo, il quale pensò che avrebbe avuto la vita, il proprio regno, opponendosi a Dio, in realtà ebbe in eredità la morte. Solo nella sottomissione a Dio e alla sua signoria, e solamente nell’accoglienza umile del suo regno, infatti, l’uomo deve ricordare che ha la vera vittoria sulla morte e sperimenta la vita: «Venite benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo» (Mt 25,34).

1.2.2. La prefigurazione del sacrificio di Cristo e della sua morte in Croce “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” ci dice Giovanni nel suo Vangelo (cfr Gv 3,16). Il Figlio di Dio, che ha assunto la nostra natura umana per opera dello Spirito Santo nel grembo della Vergine Maria, si è fatto obbediente al Padre fino alla morte di croce per la salvezza del mondo, aggiunge l’apostolo Paolo (cfr Fil 2,8). Questo mistero è oggetto quotidiano di riflessione e di preghiera da parte della Chiesa, soprattutto durante il triduo di passione, morte e risurrezione del Signore120. Quanto è avvenuto sul Calvario, constata Giovanni Paolo II, trova nella Storia Sacra delle anticipazioni e non pochi preannunci che aiutano a comprendere ancora di più il mistero di salvezza realizzato nella morte di Cristo. Non ultimo è importante l’itinerario di Abramo verso il monte Moria; il cammino di fede, cioè, di un grande patriarca, che san Paolo qualifica come “padre di tutti i credenti” (cfr Rm 4,11-12). Egli è il depositario delle promesse divine dell’Antica Alleanza e la sua vicenda umana prefigura anche momenti della passione di Gesù121. 120

Cfr Via crucis al Colosseo del 10 aprile 1998, in OR (12 aprile 1998), p. 5. Cfr ibid. G. Reale, nella presentazione del volume Trittico romano, approfondendo la sua analisi della visione metafisico-poetica di Giovanni Paolo II affermava che il terzo dei componimenti della raccolta, dal titolo Colle nel paese di Moria, è composto con lo stile del “poeta visionario”, e tratta di Abramo, inteso come «colui che ebbe fede senza speranza», che sale sul colle di Moria con il figlio Isacco. La “visione” poetica che predomina, precisa Reale, 121

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Sul monte Moria (cfr Gen 22,2), infatti, simbolico richiamo al monte sul quale il Figlio dell’Uomo sarebbe morto in croce, Abramo salì con il figlio Isacco, il figlio della promessa, per offrirlo in olocausto. Dio gli aveva chiesto il sacrificio di quell’unico figlio che egli aveva atteso a lungo con ferma speranza e fiducia in colui che aveva promesso. Abramo, commenta il Papa, nel momento di immolarlo, si fa, in certo modo, egli stesso “obbediente fino alla morte”: morte del figlio, e inevitabile, conseguente, morte spirituale del padre. Il gesto di Abramo, pur frenato dal comando dell’angelo che non permise che Isacco fosse ucciso (cfr Gen 22,12-13), si pone come eloquente preannuncio del definitivo sacrificio di Gesù. Se la morte di Gesù sulla croce era stata preannunciata anche dall’esperienza di fede del patriarca Abramo e dalla sua disponibilità a sacrificare, per obbedienza, il figlio Isacco, allora la morte di Gesù non giunse inattesa e subitanea, ma fu certamente l’epilogo di un sapiente e benevolo disegno salvifico intessuto da Dio sin dall’inizio della storia della salvezza, un disegno al quale il Figlio, con la docilità dell’ariete, si sottomise pienamente e senza riserve. Quanto non accadde ad Isacco, il figlio della promessa che venne risparmiato dalla morte, si configurò come la sorte del Figlio di Dio, consegnato alla morte e offerto in sacrificio vivente e gradito a Dio. Giovanni a questo proposito afferma che Dio Padre ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito (cfr Gv 3,16). Anche Paolo conferma la verità secondo cui quell’angelo che frenò la mano di Abramo non fermò questa volta la mano dei carnefici nel sacrificare il Figlio di Dio poiché aveva per l’uomo un piano di salvezza, un piano d’amore. La morte di Gesù, allora, è morte vicaria, sacrificale, accettata come atto di piena obbedienza alla volontà di Dio. È un atto di fiducia filiale estrema, colma di confidenza, ma non per questo priva di dolore e sofferenza. Nel Getsemani, infatti, il Figlio è però una visione «per speculum in aenigmate» cfr OR (7 marzo 2003), pp. 6-7. La vicenda di Abramo, infatti, viene presentata come un simbolo di quella che sarà la passione di Cristo: O Abramo, tu che ascendi al Colle di Moria, esiste un tale limite della paternità, una tale soglia, quale tu mai valicherai. Un altro Padre riceverà qui la consacrazione del suo Figlio. […] O Abramo — così Dio ha amato il mondo, che ha consacrato il suo Figlio, perché ognuno, che avrà fede in Lui, possa attingere la vita eterna (Trittico romano. Meditazioni, cit., III tavola: Colle nel paese di Moria).

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aveva pregato, affinché, se possibile, passasse da lui il calice della passione, esprimendo però immediatamente la piena disponibilità perché si compisse la volontà del Padre (cfr Mt 26,39)122. Obbediente per amore, il Figlio si è offerto in sacrificio, andando incontro alla morte, portando a termine così l’opera della redenzione. È un mistero sconvolgente che scardina la logica del mondo e genera stupore e sgomento: accettare la morte, dolorosa e infame per giunta, come estremo gesto di amore per Dio e per i fratelli: la rivelazione veterotestamentaria era una profezia e preparazione di questo straordinario evento di salvezza; era soprattutto uno sguardo lanciato nel futuro avvento del Messia, del Servo di Jhavè che per la sua obbedienza sacrificale a Dio è stato causa di salvezza eterna per il mondo intero ed ha annunciato e reso presente il regno eterno di Dio.

122

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Cfr Via crucis al Colosseo del 10 aprile 1998, cit., 5.


CAPITOLO IV

CRISTO, REDEMPTOR HOMINIS E VINCITORE DELLA MORTE

L’interrogativo sull’uomo, privato dall’interrogativo sul senso della sua nascita e della sua morte, risulta menomato e sterile, inutile; non riesce, infatti, a scandagliarne il mistero profondo. La domanda intorno alla nascita e alla morte è fondamentale e non può essere elusa né banalizzata, come se fosse ininfluente per la comprensione stessa dell’uomo, pena l’impossibilità di conoscere veramente la persona umana nella sua irriducibile grandezza. La domanda sull’uomo, sulla sua nascita e sulla sua morte, eventi cardine e poli essenziali della sua esistenza, perché non rimanga puro interrogativo frustrato da una risposta sempre attesa e mai del tutto appropriata, deve aprirsi alla rivelazione e al messaggio evangelico che annunzia Cristo, Uomo nuovo, morto e risorto, come colui nel quale si realizza la più grande profezia sull’uomo e sul suo destino. Ordinarietà e straordinarietà, unicità e universalità della morte di Cristo: la sua è stata la morte in croce di un condannato, una delle tante morti e il frutto di una delle tante sentenze emanate ed eseguite nella storia, e in questo caso in una periferica provincia romana di due millenni fa. Ma è stata anche la morte del Figlio di Dio. Per questa ragione essa è straordinaria, assolutamente straordinaria ed unica. Unica non solo perché è unica la morte di ogni singola persona, irripetibile e non moltiplicabile, ma perché è stata la morte dell’autore della vita, dell’innocente, del giusto, di colui che ha il potere di dare la vita da sé e di riprenderla di nuovo. È una morte che ha perciò un valore e un significato universali, che oltrepassa i limiti del particolare e abbraccia tutti i confini del mondo e della storia; anzi infrange gli stessi confini. Riprendendo il n. 10 di Gaudium et Spes, in cui il Concilio affronta le questioni pungenti che riguardano l’uomo contemporaneo e di tutti i tempi, e in cui si chiede cosa sia l’uomo, quale sia il significato del dolore, del male e della morte, che malgrado ogni progresso, continuano a sussistere, cosa ci sia per l’uomo dopo la conclusione della sua vita terrena, Karol Wojtyla, nel saggio su L’uomo in prospettiva che già abbiamo incontrato in precedenza, afferma che le domande che il testo conciliare si pone hanno al centro l’uomo il quale si trova anche al centro delle risposte.

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Un uomo, tuttavia, che non è più abbandonato a se stesso in una posizione di puro antropocentrismo, poiché in una posizione del genere tali domande sarebbero condannate a non ricevere mai una vera risposta. Ecco perché il Concilio — attraverso una felice intuizione che spesso sarà ripresa dallo stesso Giovanni Paolo II nei suoi documenti e nei suoi discorsi — formula una risposta nella quale la situazione dell’uomo viene definita attraverso il mistero del Verbo incarnato (cfr Gaudium et Spes 22) il quale svela “pienamente”, cioè sino alla fine, l’uomo all’uomo, nella prospettiva ultima del suo esistere e del suo essere. La risposta, allora, non è né un teorema, né appartiene al genere delle ideologie, ma è quell’unico Uomo che è Gesù Cristo, evento storico ed escatologico di salvezza. Il significato ultimo dell’uomo e della sua vita non può quindi essere ricercato solamente nella storia, poiché trova la piena realizzazione nel dono escatologico che Gesù fa di se stesso, nella sua morte e risurrezione. In questo consiste il “mistero” di cui parla il documento conciliare quando si riferisce sia a Cristo come all’uomo: questi è comprensibile solamente alla luce del primo. In tal senso, continua Wojtyla, «L’uomo contemporaneo si trova di fronte ad un’alternativa: eliminare la dimensione del mistero, che è lui stesso e che porta in sé, oppure sforzarsi di spiegarlo attraverso Cristo»123. Il Verbo e la carne, la gloria divina e la sua tenda tra gli uomini! È nell’unione intima e indissociabile di queste due polarità che sta l’identità di Cristo, il suo mistero profondo che sfugge alla perfetta comprensione da parte dell’uomo, a motivo della limitatezza dei suoi concetti e delle sue parole. Quanto l’uomo riesce a dire lo può guidato e illuminato dalla luce della rivelazione che gli consente di affacciarsi, in qualche modo, sull’abisso del mistero e di capire che Gesù, vero Dio e vero uomo, ha davvero assunto da Maria Vergine la nostra umanità, un’umanità consegnata alla morte e trasfigurata dalla risurrezione124. Nell’intera vicenda storica di Gesù, culminante nel mistero della sua morte e risurrezione, l’uomo può comprendere veramente se stesso, il proprio destino e il significato profondo del mondo e della storia; può contemplare e lasciarsi inserire nella salvezza realizzata da Dio nel mistero pasquale del Suo Figlio. La redenzione si realizza allora nel sacrificio di Cristo il quale riscatta l’uomo dal debito del peccato e lo riconcilia con Dio. Proprio per 123

K. WOJTYLA, L’uomo in prospettiva, cit., 1502. Cfr Novo Millennio Ineunte. Lettera apostolica al termine del Grande Giubileo dell’Anno 2000 (6 gennaio 2001), 21, in EV/20, 46. 124

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questo il Figlio di Dio si è fatto uomo, assumendo un corpo e un’anima nel grembo della Vergine. Il mistero dell’Incarnazione è al tempo stesso il mistero dell’umana redenzione poiché attraverso la kenosi del Verbo eterno di Dio che si fa uomo, mistero che trova il suo compimento nella morte in croce di Gesù, viene operata la salvezza nella quale è contenuta la vittoria sul male, sul peccato e sulla morte. Cristo, accettando la morte sulla croce, insieme manifesta e dà la vita, poiché risorgendo sottrae alla morte qualsiasi potere su di lui. La sua è stata una salvezza dal peccato e dalla morte, ma anche una salvezza per la vita, una vita sovrabbondantemente donata all’uomo redento dal sangue del Figlio di Dio, un uomo liberato dall’ignoranza e dalla cecità e reso “vedente” della gloria di Dio125.

1. CRISTO “NOSTRA SPERANZA” CON LA SUA MORTE DÀ SENSO AL NON-SENSO DELLA MORTE

La verità espressa nella rivelazione di Cristo non è più rinchiusa in un ristretto ambito territoriale e culturale, ma si apre a ogni uomo e donna che voglia accoglierla come parola definitivamente valida per dare senso all’esistenza126. All’inizio della prima Lettera ai Corinzi, l’apostolo Paolo pone con radicalità il dilemma in cui vengono a trovarsi i sapienti di questo mondo, i dotti, i sottili ragionatori che tentano di scorgere il senso di tutto ciò che li circonda e ancora di più dell’esistenza dell’uomo indipendentemente e al di fuori di Dio (cfr 1Cor 1,20). Il Figlio di Dio crocifisso è l’evento storico con cui deve incontrarsi il tentativo della mente umana di cercare la giustificazione sufficiente del senso della vita. Al di fuori di lui i suoi sforzi, che intendono poggiare solamente su argomentazioni umane, si infrangono127. «Il vero punto nodale, che sfida ogni filosofia, è la morte in croce di Gesù Cristo. Qui, infatti, ogni tentativo di ridurre il piano salvifico del Padre a pura logica umana è destinato al fallimento» afferma con franchezza il Papa128.

125 126 127 128

Cfr Tertio Millennio Adveniente 7, in EV/14, 1726. Cfr Fides et Ratio 12, in EV/17, 1197. Cfr ibid., 23, in EV/17, 1223. L. c.

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Pertanto, al di fuori della prospettiva offerta dalla rivelazione in Cristo, il mistero dell’esistenza personale rimane un enigma insolubile. Dove, infatti, l’uomo potrebbe cercare la risposta a interrogativi drammatici come quelli del dolore, della sofferenza dell’innocente e ancora di più della morte? Solamente nella luce che promana dal mistero della passione, morte e risurrezione di Cristo gli è dato di incontrare una risposta plausibile, anzi sincera e credibile, capace di rassicuralo e di acquietare la sua innata sete di vita e di bene129. Il sangue di Cristo, sorgente della vita, è il motivo più forte della speranza e il fondamento dell’assoluta certezza che secondo il disegno di Dio la vittoria sarà della vita e non della morte. «“Non ci sarà più la morte”, esclama la voce potente che esce dal trono di Dio nella Gerusalemme celeste (Ap 21, 4). E san Paolo ci assicura che la vittoria attuale sul peccato è segno e anticipazione della vittoria definitiva sulla morte, quando “si compirà la parola della Scrittura: ‘La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (1Cor 15,54-55)»130.

Con queste parole nel cuore la visione del Papa si apre alla speranza e guarda anche con un certo ottimismo la situazione della società contemporanea. L’atteggiamento contrario potrebbe indurre infatti a uno sterile scoraggiamento. Se, cioè, alla denuncia delle minacce alla vita non si accompagnasse la presentazione dei segni positivi operanti nell’attuale situazione dell’umanità. Una società alla quale deve essere proposto ancora una volta Cristo come colui che è la misura dell’uomo, come il modello in cui l’uomo riconosce se stesso e spiega anche il senso della storia e del mondo. Questo è il messaggio centrale della Chiesa e del magistero di Giovanni Paolo II in quale sa che in definitiva non si dà una vera, sana e integrale antropologia se non nel rapporto con la cristologia. Seguendo a questo proposito il numero 22 della Costituzione pastorale del Vaticano II, in Memoria e identità egli afferma:

129 130

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Cfr ibid., 12, in EV/17, 1197. Evangelium Vitae 25, in EV/14, 2249.


«“Per Cristo e in Cristo riceve luce quell’enigma del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime. Cristo è risorto, distruggendo la morte con la sua morte, e ci ha donato la vita, perché anche noi, divenuti figli nel Figlio, esclamiamo nello Spirito: Abbà, Padre” (Gaudium et Spes 22). Una tale impostazione del mistero centrale del cristianesimo risponde nel modo più diretto alle sfide del pensiero contemporaneo, che è orientato in senso esistenziale. È un pensiero nel quale campeggia l’interrogativo sul senso dell’esistenza umana, e specialmente sul senso della sofferenza e della morte. È proprio in questa prospettiva che il Vangelo si rivela come la più grande profezia. È la profezia sull’uomo. Fuori dal Vangelo l’uomo rimane un drammatico interrogativo senza una risposta sufficiente. La giusta risposta all’interrogativo sull’uomo, infatti, è Cristo, il Redemptor hominis»131.

Poco prima, sempre lo stesso numero di Gaudium et Spes a cui il Papa rinvia, aveva asserito che Cristo, Agnello innocente, con il suo sangue ha liberato l’uomo dal potere del peccato e del male, ha riconciliato tra di loro e con Dio tutti gli esseri umani redenti dal suo sacrificio sulla croce, e «ci ha anche aperta la strada; mentre noi la percorriamo, la vita e la morte vengono santificate e acquistano nuovo significato». Inoltre, continua il testo conciliare, il cristiano, reso conforme all’immagine del Figlio che è il primogenito tra molti fratelli (cfr Rm 8,29; Col 1,18), «certamente è assillato dalla necessità e dal dovere di combattere contro il male attraverso molte tribolazioni, e di subire la morte; ma associato al mistero pasquale e assimilato alla morte di Cristo, andrà incontro alla risurrezione confortato dalla speranza». Per Cristo e in Cristo la vita e la morte vengono allora santificate. La stessa morte per noi cristiani acquista addirittura un nuovo valore. «È, sì, vero che la morte, per noi cristiani, è e resta un fatto negativo, al quale la nostra natura si ribella; eppure Cristo ha saputo fare della morte un atto di offerta, un atto di amore, un atto di riscatto e di liberazione dal peccato e dalla morte stessa. Accettando cristianamente la morte noi vinciamo — e per sempre — la morte»132.

131 132

K. WOJTYLA, Memoria e identità, cit., 140. Udienza generale del 2 novembre 1988, cit., 4.

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Niente potrebbe indurre l’uomo a ritenere proprio “una” morte la sorgente di vita e di amore: tutta l’esperienza che egli da sempre ne ha fatto è infatti la smentita ufficiale e clamorosa di questa affermazione. Ma Dio, sconvolgendo il pensiero dell’uomo, ha scelto per rivelare il mistero del suo disegno di salvezza proprio ciò che la ragione considera “follia” e “scandalo”, la morte del suo Figlio sulla croce che scompagina i ragionamenti dell’uomo, le sue attese e le sue paure, e illumina con una luce inedita il traguardo finale della sua esistenza.

2. LA SPERANZA PASQUALE E LA GIOIA DELLA SALVEZZA Il fondamento ultimo del valore e della dignità dell’uomo, del senso della sua vita e della sua morte, è il fatto che egli è a immagine di Dio! L’uomo che esclude Dio sperimenta la morte perché dimentica che egli è stato fatto ad immagine e somiglianza del Creatore, e che l’essere immagine significa per lui partecipare all’incorruttibile vita divina che non conosce la morte. Al di fuori di questa visione la riflessione dell’uomo posto di fronte alla morte sembrerebbe non avere alcuna via d’uscita; e parrebbe destinata a infilarsi in un vicolo cieco il suo ricercare e la sua paura, irrefrenabile, perché per lui ci sarebbe unicamente la possibilità e l’eventualità della propria morte e di quella degli altri. La fede viene invece in soccorso perché apre e traccia una strada che gli permette di uscire e svincolarsi dall’abbraccio della morte e dalla paura che lo tiene schiavo. La fede, infatti, annuncia che proprio «la sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, si fermò in mezzo a loro e disse: “Pace a voi”» (Gv 20,19). Queste parole, asciutte, scarne, ma densissime di significato, rivoluzionarie e sconvolgenti, sono la risposta alla paura dell’uomo, ai suoi timori, alle sue ansietà, perché proclamano che Cristo Gesù, il quale patì sotto Ponzio Pilato, ora vive, e la sua tomba, oramai per sempre vuota, è la testimonianza che egli è risorto, proprio come aveva predetto. Egli vive e viene a loro incontro nello stesso luogo in cui aveva celebrato con loro l’ultima cena; vive nel suo proprio corpo, tanto da mostrare loro le mani e il costato, ancora testimoni dei segni della crocifissione e della morte (cfr Gv 20,20). Colui che appare loro, che con loro conversa, è perciò lo stesso Cristo che fu crocifisso e morì sulla croce. È

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Cristo risorto che ha attraversato la morte e che ora, vittorioso, si manifesta vivo ai suoi discepoli vincendo anche la loro paura. Soltanto Cristo risorto e l’annuncio pasquale possono allora vincere la paura della morte, e non le vane illusioni proposte dalla scienza e dalla tecnica o dalle speculazioni del pensiero filosofico. Solamente nella misura in cui è la stessa morte a essere sconfitta, con essa viene sconfitta anche la paura, da essa generata nel cuore degli uomini. Non si può debellare la paura dell’uomo se non se ne estirpa la radice, cioè la morte, e ciò è avvenuto solamente per la risurrezione di Cristo dai morti. Nessuna filosofia e nessuna scienza possono promettere tutto questo, e tanto meno realizzarlo. «E i discepoli gioivano al vedere il Signore» (Gv 20,20). Il frutto dell’incontro con il Risorto non è solamente la liberazione dalla paura, ma è anche la gioia, quella stessa gioia della risurrezione che ha invaso finanche i discepoli. Poiché il loro timore aveva le radici più profonde nel fatto della morte del Figlio di Dio, la gioia, scaturente dell’incontro con il Risorto era sulla misura di quel timore e doveva pertanto essere più grande del timore che nasce dalla “morte di Dio”, che nasce nella prospettiva della “morte dell’uomo”133. In Cristo risorto l’uomo, morto definitivamente al peccato, alla tristezza della sua egoistica chiusura a Dio e ai fratelli, rinasce a vita nuova ed entra in quella gioia piena che è dono del Signore. Affermava Giovanni Paolo II durante la visita pastorale a Torino nell’aprile del 1980: «Proprio questi tempi, in cui viviamo — tempi in cui si è operata la prospettiva della “morte dell’uomo” nata dalla “morte di Dio” nel pensare umano, nella umana coscienza, nell’agire umano — proprio questi tempi esigono, in modo particolare, la verità sulla risurrezione del Crocifisso. Esigono pure la testimonianza della risurrezione, che sia eloquente come non mai prima»134.

Solamente l’annunzio pasquale, infatti, è in grado di vincere la morte e la paura che l’accompagna. Soltanto la testimonianza forte della risurrezione di Gesù da parte dei suoi fedeli può distruggere quella paura che pervade il mondo e la società di oggi, l’uomo che vive e soffre nella storia. Unicamente la fiducia che scaturisce dalla rivelazione del Risorto è in grado 133 134

Cfr Omelia per la visita pastorale a Torino del 13 aprile 1980, cit., 4. L. c.

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di affrancare l’uomo dall’angoscia della morte poiché solamente lui può dire con autorità e verità: «Non temere! Io sono il Primo e l’Ultimo e il Vivente. Io ero morto, ma ora vivo per sempre e ho potere sopra la morte e sopra gli inferi» (Ap 1,17-18). Esclusivamente lui ha potere sopra la morte. «L’unica chiave contro la “morte dell’uomo” la possiede lui: il Figlio del Dio vivente. Lui, il testimone del Dio vivente: “Il Primo e l’Ultimo e il Vivente”»135. «La Chiesa intera — proseguiva il Papa —annunzia oggi a tutti gli uomini la gioia pasquale nella quale risuona la vittoria sul timore dell’uomo. Sul timore delle coscienze umane nato dal peccato. Sul timore di tutta l’esistenza, nato dalla “morte di Dio” nell’uomo, nella quale si aprono le prospettive di una molteplice “morte dell’uomo”»136. Questo annunzio non si confonde con le tante vane promesse offerte all’uomo per confortarlo dalla sua paura della morte, ma poggia sull’evento sconvolgente della morte e risurrezione del Figlio unigenito di Dio, che è la risposta di Dio, l’unica, ai tanti perché che nascono nel cuore dell’uomo di tutti i tempi. La Parola di Dio che annuncia la vittoria pasquale di Cristo, apre il cuore dell’uomo alla prospettiva di una “speranza viva” poiché di fronte al dissolversi della scena di questo mondo offre la promessa di una “eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (cfr 1Pt 1,3)137. La vita del discepolo del Signore è animata dalla speranza che va oltre il Venerdì di Passione e scava una breccia anche oltre il buio del Sabato Santo, del silenzio di Dio e della profonda kenosi del Figlio suo, il quale sprofonda nelle tenebre della morte, nell’estrema debolezza, nella piena solidarietà con l’uomo che muore, e lo libera dal suo potere. La speranza illumina l’attesa del credente e lo prepara a sperimentare la gioia della Pasqua, “mistero glorioso” della risurrezione. Così come Gesù stesso aveva predetto la sua risurrezione al terzo girono (cfr Mt 9,31): è la vittoria definitiva della vita sulla morte, una vittoria che arreca gioia e inonda di luce la notte della paura e della tristezza. La notte di Pasqua è dunque una notte di passaggio: il passaggio di Cristo dalla morte alla vita, e con lui, in lui. Il passaggio dell’uomo dalla schiavitù del peccato alla libertà dei figli di Dio138. 135

L. c. L. c. 137 Cfr Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 6 novembre 2001, in OR (7 novembre 2001), p. 5. 138 Davvero splendida è la riflessione di Wojtyla contenuta nella sua composizione 136

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L’annuncio pasquale recato dagli angeli il mattino di Pasqua: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è resuscitato» (Lc 24,5-6) e che spiega il significato di quel sepolcro rimasto vuoto per sempre, ha attraversato i secoli ed è giunto fino agli uomini e alle donne di tutte le generazioni, recando come sempre gioia e speranza. La speranza cristiana, infatti, si radica e si alimenta proprio in questo annuncio e da esso continuamente trae la forza per affrontare i mali del mondo e il peccato dell’uomo. È la speranza che può fare esclamare all’apostolo Paolo: «Se poetica: “Mysterium paschale” (Meditazione sulla morte II), in ID., Tutte le opere letterarie, cit., — Mistero del Passaggio in cui il cammino s’inverte. Dalla vita passare alla morte — è questa l’esperienza, l’evidenza. Attraverso la morte passare nella vita — questo il mistero (p. 95). [Colui che riceve il Sacramento ove permane colui che è passato, passa anch’egli verso la morte e resta nello spazio del mistero] p. 95. [L’uomo non può fermare le correnti che passano e che interessano anche lui. «Il mondo cresce sempre, a ogni morte umana giungendo più turgido con l’ingresso d’irripetibili atomi nell’orbita del pensiero: (quando il battito del cuore si perde nelle correnti del creato, allora muore l’uomo — superiore al turgido mondo — egli cade al di sotto di ciò che portava e che aveva intorno a sé come “mondo”, la dipartita lo impiccolisce, di nuovo egli si mescola alla trama del creato, disperso nella polvere d’irripetibili atomi nei quali continua a passare — non più LUI ma il mondo che cresce sulle ceneri dell’uomo) p. 95. Wojtyla apre la sua riflessione alla speranza e alla gioia quando afferma con forza che «UNO della nostra schiera è passato oltre tutte le correnti… Questo passaggio ha nome PASQUA» (p. 97). Gesù, risorgendo dai morti «ha smosso trasformando quel campo in cui tutti passiamo, anche se la corrente del Cedron continua a discendere e nel corpo umano la corrente del sangue traccia ancora una rotta di morte. Egli ha aperto negli uomini uno spazio alla nascita, ha rivelato in loro uno spazio di vita che sovrasta alle correnti che passano, che sovrasta alla morte» (p. 97).

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siamo morti con Cristo — alludendo al battesimo — crediamo che anche vivremo con lui» (Rm 6, 8)139. Nelle parole di Marta, sorella di Lazzaro, «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto» (Gv 11,21) «si compendia l’universale aspirazione a una presenza che sconfigga questo nemico implacabile, di fronte a cui ogni tentativo di fare dell’uomo un assoluto crolla inevitabilmente: la morte»140. La speranza cristiana e l’annunzio pasquale non vogliono edulcorare l’amaro della morte o sbiadire il cupo terrore che l’uomo prova di fronte ad essa. La speranza non si sovrappone, né si sostituisce. Essa si accosta al dolore provato dall’uomo per la morte delle persone care e arreca consolazione, gli apre e dilata lo sguardo verso l’orizzonte della vita eterna. In Cristo morto e risorto egli trova lo sfogo al suo dolore e una risposta alle sue domande e alle sue ansietà: in lui egli vede realmente riflessa la sua paura per la morte, ma soprattutto la soluzione al suo innato e incensurabile desiderio di vita, di vita piena. «Ecco perché l’umanità intera ha esultato di gioia, quando una pietra è stata rotolata dal sepolcro nuovo in un giardino di Gerusalemme, e una parola annunciata un giorno e attesa dai millenni della storia è divenuta realtà: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà, e chiunque vive e crede in me non morrà in eterno” (Gv 11,25-26)»141.

In Memoria e identità, a questo riguardo Giovanni Paolo afferma:

II

ancora

«La speranza cristiana si proietta oltre il limite del tempo. Il regno di Dio si innesta e si sviluppa nella storia dell’uomo. Ma la sua meta è la vita futura. L’umanità è chiamata ad avanzare oltre il confine della morte, anzi oltre lo stesso succedersi dei secoli, verso l’approdo definitivo dell’eternità, accanto al Cristo glorioso nella comunione trinitaria. “La loro speranza è piena di immortalità” (Sap 3,4)»142.

139

Parole pronunciate al cimitero di Aldumena a Madrid, durante una Eucaristia celebrata “in privato”, 2 novembre 1982, in OR (3 novembre 1982), p. 3. 140 Angelus Domini del 2 novembre 1986, cit., 5 141 L. c. 142 K. WOJTYLA, Memoria e identità, cit., 184s.

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Il mistero pasquale di Cristo, unica risposta agli interrogativi dell’uomo e unica chiave di lettura per il mistero dell’uomo e che è l’uomo, ha perciò carattere escatologico, perché illumina definitivamente i problemi fondamentali dell’uomo e dà ad essi, in modo decisivo, una nuova dimensione143. «Il Signore glorioso che spalanca le porte della vita dà finalmente un senso a questo bisogno di eternità, di compimento, di pienezza che ciascuno di noi sente pulsare dentro di sé: il Dio fedele, che risuscita il Figlio solidale con gli uomini fino alla morte, infonde in noi la consolante certezza dell’immortalità»144. L’annuncio pasquale non ha azzerato la storia e il carico di sofferenza e morte che purtroppo si porta dietro. Certamente ha immesso in essa un germe di vita che è destinato inesorabilmente a crescere e a portare frutto; una linfa vitale che distrugge le metastasi del male che ancora affliggono il mondo e le membra di Cristo. Per questo motivo si può osservare la sciagurata azione devastatrice della morte che continua a mietere le sue vittime ancora oggi; la sofferenza e il dolore feriscono ogni giorno il corpo martoriato dell’umanità. Eppure, la speranza cristiana ci dice che fra le tenebre del male, fisico o morale, risplende agli occhi del credente la luce di una promessa sicura che poggia su Cristo morto e risorto, su colui che è la risurrezione e la vita (cfr Gv 11,25) rendendo così solida la fede, fiduciosa l’attesa, tenace la pazienza, certa la speranza. Il credente vive nella speranza della salvezza finale e già nell’oggi esperisce la vita nuova che avrà in dono perfettamente alla fine dei tempi, quanto la morte sarà definitivamente umiliata. Sebbene ancora oggi sembra che la morte abbia il sopravvento e che moltiplichi la sua straordinaria potenza e la sua influenza nefasta, la Chiesa continua a pronunciare con più forza il suo atto di fede nella vita, nel nome di colui che è la vita. La vita è la parola pronunciata anche dopo la morte; vita per quanti si sono spenti quasi impercettibilmente a motivo dell’età avanzata, vita per quei bambini accolti nel seno del Padre prima che i loro occhi si siano aperti alla luce, vita per coloro che la malattia ha consumato, associandoli al sacrificio dell’Agnello, come anche per le vittime della violenza omicida. Per tutti la Chiesa ha la parola della speranza e della fede:

143 144

Cfr K. WOJTYLA, Metafisica della persona, cit., 1509. Angelus Domini del 2 novembre 1986, cit., 5.

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«Come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo» (1Cor 15,22)145.

2.1. Lo Spirito Santo dono del Risorto e “caparra della nostra eredità” (Ef 1,14), libera dalla morte e ridona la vita La nuova e definitiva rivelazione dello Spirito Santo come Persona, il Dono del Padre e del Figlio, si compie pienamente nel mistero pasquale di Cristo. Gli eventi pasquali, cioè la passione, morte e risurrezione di Cristo, sono il tempo del nuovo inizio della comunicazione del Dio uno e trino all’umanità nello Spirito Santo. Questo nuovo inizio è la redenzione del mondo che si attua nel dono amorevole che Dio ci ha fatto del suo Figlio unigenito. Già nel dono del Figlio si esprime la più profonda essenza di Dio come amore. Nel dono fatto dal Figlio si completano poi la rivelazione e l’elargizione dell’eterno amore: lo Spirito Santo. Egli è la Persona-dono e per opera del Figlio, mediante il suo mistero pasquale, in modo nuovo viene dato agli apostoli e alla Chiesa e, per mezzo di essi, all’umanità e al mondo intero146. La morte di Gesù in croce è dunque la rivelazione massima e insuperabile dell’amore trinitario: dell’amore del Padre e del Figlio, dell’amore di Dio, uno e trino, per l’umanità. Proprio sulla croce, luogo della massima abiezione e simbolo della violenza dell’uomo, Dio Padre manifesta il suo amore senza limiti e misura verso l’uomo piegato dal peccato e umiliato dalla morte, e lo fa rendendo feconda la consegna del Figlio suo Gesù Cristo il quale, elevato da terra attira tutti a sé ed effonde sulla Chiesa nascente il dono dello Spirito di vita147. La morte di Gesù diventa così sorgente di vita nuova ed eterna, rivelazione dell’amore trinitario che è più forte della morte. Il dono dello Spirito è possibile perciò “a prezzo” della dipartita di Gesù, del suo ritorno al Padre per mezzo della morte in croce. Lo Spirito del Risorto, sgorgato dal sacrificio della croce, combatte contro la morte e le sue espressioni visibili che l’anticipano e l’attuano nell’individuo e nella società. Lo Spirito, primo dono del Risorto effuso sulla 145 146 147

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Cfr l. c. Cfr Dominum et Vivificantem 23, in EV/10, 498. Cfr ibid., 30, in EV/10, 522-523.


Chiesa nascente e quindi sul mondo intero, sorgente di vita nuova e principio della nuova creazione, opera nell’oggi della Chiesa e del mondo per affermare la vittoria pasquale di Cristo sul peccato e la morte, su tutte le strutture di peccato e le plurime manifestazioni della morte. Egli trasfigura il mondo e il cuore dell’uomo conducendo ogni cosa verso quei cieli nuovi e quella terra nuova attesi e sperati. La sua azione, spesso invisibile, è reale e potente e non manca di mostrare la sua straordinaria potenza soprattutto nella santità delle membra predilette della Chiesa, i santi, e quindi in tutte quelle occasioni in cui chiaramente si realizza la vittoria del bene sul male, dell’amore sull’odio, del perdono sulla vendetta, della giustizia sull’ingiustizia, della solidarietà sull’egoismo, della vita sulla morte. Di fronte alle sfide poste dalla civiltà materialistica e dai segni di morte che si moltiplicano al suo interno, il credente è spinto a rinnovare e rinvigorire la sua invocazione allo Spirito che dà la vita, con la consapevolezza che ancora noi possediamo “le primizie dello Spirito” il quale soffia dove e quando vuole, e con la coscienza che perciò possiamo anche essere soggetti alla passione del tempo che scorre inarrestabile. Nello stesso momento, però, “gemiamo interiormente aspettando... la redenzione del nostro corpo”, dell’uomo nell’integrità della sua natura spirituale e corporea. Gemiamo in un’attesa carica di speranza, perché proprio a questo essere umano, segnato dalla morte, si è “avvicinato” Cristo Gesù inviato da Dio Padre il quale ha mandato «il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato e, in vista del peccato, ha condannato il peccato» (Rm 8,3). Dopo la sua passione e morte, al culmine del mistero pasquale, dopo la sua risurrezione dai morti, il Figlio di Dio, ha alitato sui suoi discepoli e ha donato loro lo Spirito Santo. Questo “soffio” non si è estinto ma continua sempre, afferma il Papa148. Esso è un soffio di vita eterna che ancora oggi viene incontro alla debolezza dell’uomo e rianima coloro che sono morti a causa del peccato e delle sue drammatiche conseguenze. Ancora oggi, sino alla fine dell’esistenza della singola persona e della storia del mondo, il Risorto continua a effondere il suo Spirito di vita per distruggere tutte le opere di morte e instaurare la creazione nuova. La morte di Cristo viene perciò presentata dagli evangelisti come una dipartita che troverà il suo compimento nell’ascensione al cielo, ricordata negli Atti degli Apostoli (cfr 1,6-11). Tutta la sua esistenza è stata un 148

Cfr ibid., 57, in EV/10, 597.

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itinerario verso il Padre. La sua morte lo è stata in modo davvero unico. La sua ascensione, tuttavia, che è il motivo della tristezza provata dai suoi discepoli, è anche il motivo della loro gioia, perché per suo mezzo a loro viene inviato lo Spirito Santo che cambia l’afflizione in gioia. Cristo, infatti, inserirà nel suo esodo da questo mondo al cielo, la gloria della risurrezione e dell’ascensione al Padre, facendo sì che la sua sia in verità una dipartita “benefica”, “fruttuosa” che fa trasparire, al di là della tristezza degli apostoli, la gioia per la venuta del Consolatore. Infatti, aggiunge il Papa, a prezzo della croce e nella potenza di tutto il mistero pasquale di Gesù Cristo, lo Spirito Santo viene per rimanere sin dal giorno della Pentecoste con gli apostoli, e quindi con la Chiesa e nella Chiesa e, mediante essa, nel mondo, attualizzando l’opera redentrice di Cristo e la sua vittoria pasquale sul peccato e la morte149. La speranza cristiana, alimentata dal dono dello Spirito effuso nel cuore dei credenti, ha il suo sostegno e il suo conforto nella certezza che Cristo, che ci ama, è andato a prepararci un posto e che verrà ancora una volta, alla fine dei tempi, e ci prenderà con sé in un abbraccio eterno. Egli verrà anche nell’ora della morte di ciascuno, per unire a sé coloro che ha riscattati col suo sangue. Per questo motivo la Chiesa, sorella e madre, testimone del Risorto, prega incessantemente per tutti i defunti, a qualsiasi tempo o popolo appartengano, perché, in forza della comunione resa possibile dall’azione santificante dello Spirito di Cristo, dal chicco di grano caduto nella terra germogli un’attesa ricca di immortalità e questi fratelli possano partecipare in pienezza alla comunione dei santi150.

2.2. L’obbedienza filiale come sacrificio al Padre «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» dice Giovanni (Gv 3,16) e Paolo, in un brano della sua Lettera ai Filippesi che sovente è al centro della riflessione del Papa, afferma che il Figlio di Dio, Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, assunse la condizione di servo e umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte (cfr Fil 1,6-8)151.

149 150 151

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Cfr ibid., 14, in EV/10, 478. Cfr Angelus Domini del 2 novembre 1986, cit., 5. Cfr Via crucis al Colosseo del 17 aprile 1981, in OR (19 aprile 1981), p. 2.


Per la sua obbedienza filiale sino alla morte, Cristo ha rivelato all’uomo l’amore del Padre, lo ha rivelato in sé, poiché è stato assolutamente obbediente ed ha assunto la condizione del Servo di Jahvè di cui aveva parlato Isaia (cfr Is 53,4-7; 11-12). Mediante la sua morte in croce egli ha rivelato che nel mondo c’è un Amore che è più grande e più forte della morte, un Amore che è Padre di tutti i figli prodighi che si sono smarriti a causa del peccato, che non sono stati rifiutati, ma sono stati riaccolti. Egli ci ha rivelato Dio, «ricco di misericordia» (Ef 2,4) e in questo modo ha aperto dinanzi all’uomo la via della speranza152. In Cristo, «infatti, [la morte] è diventata sublime gesto di amore obbediente verso il Padre e suprema testimonianza di amore solidale verso gli uomini. Perciò, considerato alla luce del mistero pasquale, anche l’esito dell’esistenza umana non appare più una condanna senza appello, ma il passaggio alla vita piena e definitiva, che coincide con la perfetta comunione con Dio»153.

Per questa ragione, afferma il Papa nella Veritatis spendor: «Gesù è la sintesi viva e personale della perfetta libertà nell’obbedienza totale alla volontà di Dio. La sua carne crocifissa è la piena Rivelazione del vincolo indissolubile tra libertà e verità, così come la sua risurrezione da morte è l’esaltazione suprema della fecondità e della forza salvifica di una libertà vissuta nella verità»154.

La morte è dunque l’atto estremo di libertà esercitata da Gesù di fronte al proprio destino e al progetto del Padre: egli non l’ha subita, non l’ha tanto meno sopportata passivamente, ma l’ha accolta e vissuta con gravissima e piena consapevolezza e libertà, impegnando tutto se stesso, aderendo senza riserve al progetto del Padre e alla missione che egli gli aveva affidato. La morte, sempre contemplata come possibile evenienza, e passando il tempo come inevitabile evento, è stata pensata e preparata da

152

Cfr ibid., 1. Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 6 novembre 2001, cit., 5. 154 Veritatis Splendor 87, in EV/13, 2752. 153

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lui come massima espressione della sua obbedienza filiale e sacrificio al Padre e ai fratelli. «La croce di Cristo sul Calvario — afferma inoltre il Papa — è anche testimonianza della forza del male verso lo stesso Figlio di Dio; verso colui che, unico fra tutti i figli degli uomini, era per sua natura assolutamente innocente e libero dal peccato, e la cui venuta nel mondo fu esente dalla disobbedienza di Adamo e quindi dall’eredità del peccato originale. In Cristo, a prezzo del suo sacrificio volontario sulla croce, viene fatta giustizia del peccato»155.

L’efficacia del suo sacrificio è racchiusa nella sua obbedienza al Padre fino alla morte: il suo è stato quindi un sacrificio di obbedienza, obbedienza d’amore. In conseguenza di tutto ciò, «viene anche fatta giustizia della morte che sin dagli inizi si era alleata col peccato. Questo avviene a prezzo della morte di colui che era senza peccato e che unico poteva — mediante la propria morte — infliggere morte alla morte»156. Nella sua liturgia, nei suoi riti, soprattutto nel rito dell’imposizione delle ceneri, come già è emerso in precedenza, la Chiesa vuole sì denunciare, con carità e sincera compassione, i limiti insiti nella natura umana, ma vuole altresì rallegrare l’uomo con l’annunzio che proprio quei limiti, che sono radicati nel suo peccato, e che trovano nella morte la loro più estrema incarnazione, non rappresentano per lui un assoluto senza possibilità di soluzione. L’annunzio della Chiesa è infatti denuncia del limite ma è anche apertura di orizzonti nuovi e inediti, che la ragione umana da sola non riuscirebbe a schiudere. La fede ci dice che la morte non è soltanto una necessità “naturale”, il limite imposto all’uomo in quanto creatura finita, caduca, temporale; essa è soprattutto e in profondità un mistero, mistero dell’uomo in Cristo. Il Cristo Figlio di Dio ha sì accettato la morte come necessità di natura, come parte inevitabile della sorte dell’uomo sulla terra, ma è ancora più vero che egli l’ha accettata soprattutto come conseguenza del peccato. Infatti, sin dall’inizio la morte si è congiunta col peccato: la morte del corpo (“in polvere tornerai”) e la morte dello spirito come effetto della disubbidienza a Dio, allo Spirito 155 Dives in Misericordia, Lettera enciclica sulla misericordia divina (18 maggio 1986) 8, in EV/7, 904. 156 L. c.

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Santo. Gesù Cristo ha subito la morte in segno di assoluta e incondizionata obbedienza a Dio, al fine di restituire allo spirito umano, deturpato a causa del peccato, il pieno dono dello Spirito Santo. Egli, Verbo della vita, ha dunque patito la morte per vincere il peccato, per vincere la morte nell’essenza stessa del suo perenne mistero157. Gli uomini e le donne del nostro tempo, che hanno il desiderio di trovare il senso della vita e della morte, debbono perciò volgere lo sguardo verso colui che è stato trafitto! Devono penetrare nel mistero della sua donazione e dell’offerta della vita che egli ha fatto per amore, fedele e docile alla volontà del Padre. Il modo in cui egli ha affrontato il suo destino di sofferenza e di morte è di esempio e di incoraggiamento. Proprio per questa sua obbedienza filiale, infatti, il Padre «l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome» (Fil 2,9). Per la sua obbedienza filiale e il suo volontario svuotamento sino all’assunzione della condizione di servo e alla morte di croce, Gesù è stato costituito Signore e ha ricevuto dal Padre il dominio universale su ogni potestà e potenza, nei cieli, sulla terra e sottoterra. Chi viene associato alla sua morte contempla già, tra le tenebre del mondo e della storia, un destino di gloria presso Dio. Per questo motivo, il progetto di vita consegnato al primo Adamo trova finalmente in Cristo il suo compimento. L’obbedienza incondizionata e filiale di Cristo, sino alla morte, è fonte di grazia per gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, poiché spalanca per loro le porte del regno della vita (cfr Rm 5,12-21). Essa distrugge la disobbedienza di Adamo che ha rovinato e deturpato il disegno di Dio sulla vita dell’uomo ed ha introdotto la morte nel mondo. A questo riguardo l’apostolo Paolo afferma con chiarezza: «Il primo uomo, Adamo, divenne un essere vivente, ma l’ultimo Adamo divenne spirito datore di vita» (1Cor 15,45)158. La disobbedienza mortale del primo Adamo è stata così superata dall’obbedienza “vitale” di Cristo, ultimo Adamo, il quale ha accettato con grande docilità su di sé il piano salvifico del Padre a favore del mondo intero. Il valore salvifico della morte di Cristo sta soprattutto nella ragione per cui Gesù è morto: la morte in sé è e rimane un nemico. Il valore positivo le è conferito dall’intenzione con cui Gesù l’ha sfidata e assunta su di sé. Egli l’ha affrontata non perché le riconosceva una dignità propria, un 157 Cfr Omelia per la stazione quaresimale a S. Sabina del 28 febbraio 1979, in OR (23 febbraio 1979), p. 1. 158 Cfr Evangelium Vitae 36, in EV/14, 2288.

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significato e un valore tutti propri, così come poteva avvenire presso gli eroi e i filosofi greci, ma perché essa rappresentava il modo, forse l’unico, certamente il più alto, per dimostrare l’amore illimitato di Dio per l’uomo peccatore e mortale. Era il modo in cui Dio aveva deliberato di salvare l’umanità alienata a causa del peccato, mediante la redenzione operata dal suo Figlio morto e risorto. Proprio in tal senso la morte è stata redenta essa stessa, è stato mutato radicalmente il suo significato negativo ed è diventata transito verso la pienezza di vita in Dio; è divenuta, fatto inaudito, impareggiabile testimonianza d’amore. In quanto manifestazione dell’amore del Figlio per il Padre, la morte non interrompe il loro dialogo. Ecco perché il Figlio morente sulla croce può esclamare: «In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum» (“Padre nelle tue mani affido il mio spirito”). Con queste parole, pronunciate da Gesù sulla croce prima di morire, quasi un ultimo grido, si chiude il mistero della passione e si apre il mistero della liberazione attraverso la sua morte redentrice che si compirà nella risurrezione dai morti. Esse, disse Giovanni Paolo II il Venerdì Santo del ’99, sono delle parole fondamentali non solo per la vita di Gesù il quale conclude il suo itinerario terreno e la missione che il Padre gli ha affidato riconsegnandosi totalmente a lui, ma anche per l’intera vita della Chiesa che brama essere conformata perfettamente al suo Signore. Ecco perché a conclusione della Liturgia delle Ore, quando ormai è calata la notte, simbolo e preludio della morte, essa le fa ancora sue e con esse si affida totalmente nelle mani del Padre159. Sono parole che il Papa vuole mettere sulle labbra e soprattutto nel cuore di tutti gli uomini, specialmente di coloro che hanno vissuto nel secondo millennio dell’era cristiana. Sono parole che raccolgono tutte le sofferenze e i dolori degli uomini, le loro domande e le loro paure, ma sono soprattutto parole che aprono alla speranza, al futuro. Infatti, queste parole di Cristo sofferente, cioè le sue ultime parole, non solamente chiudono, ma ancora di più aprono sul futuro di salvezza e di vita piena che Dio ha preparato per l’uomo160. «Padre, nelle tue mani affido il mio spirito». La morte, ritenuta una sciagura irreparabile, specialmente se si tratta della morte di colui che era ritenuto da molti il Messia atteso e sperato, è divenuta invece una porta spalancata su un futuro carico di speranza, il futuro stesso di Dio che non 159 160

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Cfr Via crucis al Colosseo del 2 aprile 1999, in OR (4 aprile 1999), p. 5. Cfr l. c.


abbandona il Figlio, e con lui l’uomo, in potere della morte, ma lo chiama alla vita. In tal senso il Papa, certamente pensando anche al momento in cui egli stesso si sarebbe trovato personalmente di fronte al mistero della propria morte, si augura che l’espressione piena di fiducia di Cristo «“In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum”, “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” — sia anche l’ultima parola per ciascuno di noi, quella che ci aprirà all’eterno»161. Per chi non ha speranza e non crede, la morte è perciò fine, termine, conclusione spietata della vita. Ma per chi crede, per chi si affida e si consegna al Padre come e in Cristo, essa è anche, soprattutto e veramente, inizio di un incontro, l’espandersi di un’amicizia. Nella consegna volontaria e obbediente nelle mani di Dio c’è la salvezza e la liberazione dalla morte, nel lasciarsi accogliere dal suo abbraccio si sperimenta la vita, mentre nella sottrazione all’abbraccio divino all’uomo non resta altra chance se non la freddura della morte. Questa verità, afferma Giovanni Polo II, si coglie anche dal colloquio di Gesù con Nicodemo. Lì ci viene detto il perché Dio abbia voluto inviare il suo Figlio nel mondo: Egli dà il suo Figlio unigenito affinché l’uomo “non muoia”; e cosa voglia dire questo è precisato dalle parole successive: egli vuole per l’uomo “la vita eterna”. Di conseguenza si può dire che l’uomo muore, quando perde la vita eterna. Da ciò risulta che il contrario della salvezza non è tanto la sola sofferenza temporale, una qualsiasi sofferenza, ma la sofferenza definitiva: la perdita della vita eterna, l’essere respinti da Dio, la dannazione, come effetto dell’ottusa chiusura da parte dell’uomo nei suoi confronti. Il Figlio unigenito è stato consegnato alla morte per l’umanità per proteggere l’uomo contro questo male definitivo e contro la sofferenza definitiva. «Nella sua missione salvifica egli deve, dunque, toccare il male alle sue stesse radici trascendentali, dalle quali esso si sviluppa nella storia dell’uomo. Tali radici trascendentali del male sono fissate nel peccato e nella morte: esse, infatti, si trovano alla base della perdita della vita eterna. La missione del Figlio unigenito consiste nel vincere il peccato e la morte. Egli vince il peccato con la sua obbedienza fino alla morte, e vince la morte con la sua risurrezione»162.

Il Figlio unigenito del Padre ha percorso il cammino inverso rispetto a quello intrapreso prepotentemente e con stupida arroganza da Adamo: 161 162

L. c. Salvifici Doloris 14, in EV/9, 639.

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dalla sua disobbedienza è scaturita la morte, dall’obbedienza del Figlio, ultimo Adamo, è sgorgata in sovrabbondanza la vita. Nella partecipazione all’obbedienza perfetta di Gesù, anche l’uomo, riscattato dalla disobbedienza del progenitore, viene restituito alla pienezza della vita divina. In questo consiste la serietà della solidarietà di Gesù con l’uomo schiavo del peccato e schiacciato dalla morsa del male. Ce ne è offerta una testimonianza eloquente nella dolorosa esperienza del Getsemani e del Golgota, in cui, secondo la stessa affermazione dei vangeli, la coscienza umana di Gesù è stata sottoposta alla prova più dura, quella di accettare il progetto del Padre e di portare a compimento la missione che egli gli aveva affidato, nella solitudine più estrema, nella sofferenza sino alla morte. «Ma nemmeno il dramma della passione e della morte è riuscito a intaccare la sua serena certezza di essere il Figlio del Padre celeste»163. L’obbedienza per lui è stata infatti sorgente di vita, poiché nei giorni della sua vita terrena egli offrì a Dio preghiere e suppliche con forti grida e lacrime perché fosse liberato dalla morte, e fu esaudito nella sua preghiera a motivo della sua pietà e obbedienza. Per questo il Figlio, che imparò l’obbedienza dalle cose che patì, divenne causa di salvezza eterna per coloro che gli obbediscono, secondo quanto ci riferisce la Lettera agli Ebrei (cfr Eb 5,7-9). Dal dono della salvezza ritrovata, è scaturita per il mondo intero, riconciliato con Dio in Cristo, la gioia piena e la pace.

3. SOLIDARIETÀ VOLTO

DI

CRISTO

CON L’UOMO SOFFERENTE.

LO

SPLENDORE DEL

Quel Dio che si è fatto uomo e che si è offerto sulla croce per l’uomo mortale, continua ancora oggi a perpetuare il suo sacrificio, e il Venerdì Santo è proprio ciò che ci fa pensare al continuo succedersi di prove e tragedie, di situazioni di morte, purtroppo ancora presenti nella storia. La memoria della passione e morte di Gesù porta naturalmente a ricordare le drammatiche vicende che ancor oggi insanguinano alcune nazioni del mondo. La passione del Signore continua nella sofferenza degli uomini. Continua particolarmente, precisa Giovanni Paolo II, nel martirio di tutti coloro, sacerdoti, religiose, religiosi e laici, che spendono la 163

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Novo Millennio Ineunte 24, in EV/20, 50.


propria esistenza, alcune volte sino al martirio eroico, per l’annuncio del vangelo e la testimonianza resa a Cristo. La contemplazione della passione di Cristo e della sua croce, deve condurre il cristiano a imparare a portare la propria croce con umiltà, fiducia e abbandono alla volontà di Dio, trovando in essa sostegno e conforto in mezzo alle tribolazioni della vita. In ciò si rivela l’indole salvifica dell’offerta della sofferenza, che vissuta in comunione con Cristo appartiene all’essenza stessa della redenzione. C’è una sofferenza dell’individuo e c’è anche un soffrire sociale, comunitario, dell’umanità intera. C’è una sofferenza della stessa natura, come l’esperienza quotidiana amaramente conferma. Ciò che invece non è scontato e chiaro è il senso di tutta questa sofferenza, soprattutto della sofferenza degli innocenti, degli indifesi, delle vittime dell’ingiustizia e dell’odio. Proprio per questa ragione la ricerca dell’uomo non può arrestarsi, ma deve procedere costantemente verso una più adeguata e matura comprensione di senso. Il cristiano può intraprendere un faticoso e irto cammino di comprensione solamente se sostenuto e guidato dalla lampada della fede e della speranza, vedendo anche nella sofferenza un segno, spesso difficile da decifrare, dell’amore di Dio per l’uomo. Il soffrire di Cristo è il senso, l’unico senso possibile, della sofferenza dell’umanità e di ciascun uomo. Questa è la verità che la Chiesa può annunziare con serena certezza all’uomo e al mondo. Colui che soffre, colui che si approssima alla morte, in Cristo può trovare il significato vero della sua vita. L’apostolo Paolo può parlare di questa novità nei termini di un’appartenenza totale al Signore: «Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (Rm 14,7-8). Ciò che intende dire l’Apostolo, quando parla di “morire per il Signore”, è che il cristiano è chiamato a vivere la propria morte come atto supremo di obbedienza a Dio, e per questo accetta di incontrarla nell’“ora” voluta e scelta da lui, che solo può dire quando il cammino terreno è compiuto. Vivere per il Signore, inoltre, significa anche riconoscere che la sofferenza, pur restando in se stessa un male e una prova, può sempre diventare sorgente di bene164.

164

Cfr Evangelium Vitae 67, in EV/14, 2393.

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«Venite a me... Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me... troverete ristoro per le vostre anime» (Mt 11,28-29). Queste parole rivolte da Gesù ai suoi discepoli sono un sostegno forte e un motivo di consolazione per chi ha l’animo rattristato per la scomparsa delle persone care, per chi si affligge per la loro morte, per chi è provato dalla sofferenza. Solamente la parola del Maestro e l’incontro con lui può essere un ristoro vero per l’uomo; solamente la sua promessa può scardinare, infatti, lo strapotere della morte. Egli, infatti, è la guida che accompagna e la via che conduce verso la piena conoscenza del Padre, secondo quanto egli stesso afferma nel vangelo di Matteo, «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27). Tale conoscenza, che progredisce continuamente durante l’itinerario della vita terrena, troverà il suo pieno compimento quando Dio mostrerà il suo volto pienamente, senza veli, e l’uomo potrà contemplarlo faccia a faccia (cfr 1Cor 13,12)165. Al di fuori della fede il problema del dolore come quello ancora più radicale della morte, non trovano perciò alcuna spiegazione soddisfacente e plausibile. Il messaggio cristiano, infatti, meditando sul grande mistero della sofferenza del Figlio di Dio, sul mistero della sua agonia sulla croce, ha direttamente affondato il suo sguardo sulla sofferenza umana, soprattutto su quella ancora più enigmatica e assurda degli innocenti, è penetrato anche nelle oscure profondità della morte, ed ha compreso che solamente lì è possibile ricevere quella luce che può rischiarare166. La solidarietà di Cristo con l’uomo sofferente ci rivela il vero volto di Dio, pienezza di misericordia e di perdono, e riflesso in quel Volto si svela anche il volto autentico dell’uomo. Cristo come uomo soffre realmente e in modo terribile nell’Orto degli ulivi e ancora di più sul Calvario. In queste occasioni egli si rivolge 165 Cfr Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 6 novembre 2001, cit., 5. 166 Karol Wojtyla, nella tragedia Giobbe, afferma: «…e il Figlio di Dio pose le fondamenta della Legge Nuova fatte di sacrificio, di dolore, di tormento. Ecco il dolore che forma le basi — ecco il dolore che trasforma e che imprime la Nuova Legge nei cuori, come in un nuovo giorno della creazione» (Giobbe, in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 407)

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con più forza a quel Padre il cui amore egli ha predicato agli uomini e la cui misericordia ha testimoniato con tutto il suo agire. Ma sembra che il Padre non presti ascolto alla sua supplica e alla sua preghiera, tanto che non gli viene risparmiata, proprio a lui, la tremenda sofferenza della morte in croce. Per questa ragione l’apostolo Paolo potrà ammettere, cogliendo tutta la profondità della croce e del mistero della redenzione: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo trattò da peccato in nostro favore». Nella passione e morte di Cristo — nel fatto che il Padre non risparmiò il suo Figlio, ma «lo trattò da peccato in nostro favore» (2Cor 5,21) — si esprime così la santità di Dio, ma anche la sua giustizia, in quanto Cristo subisce la passione e la croce a causa dei peccati dell’umanità167. Nel volto sfigurato del Figlio a causa dell’ingiustizia del mondo, si riflette il volto radioso di Dio Padre. Nel volto del Figlio, servo obbediente e agnello mansueto, si rivela il volto misericordioso del Padre. La Chiesa sosta di fronte al volto insanguinato di Cristo, un volto nel quale è nascosta la vita di Dio e offerta la salvezza del mondo. La sua contemplazione del volto di Cristo non può tuttavia fermarsi all’immagine di lui crocifisso poiché egli è il Risorto, e questa affermazione ed esclamazione è il fondamento della fede del cristiano e il contenuto della predicazione del vangelo (cfr 1Cor 15,14). La risurrezione fu la risposta del Padre alla sua obbedienza168. Con la sua risurrezione Gesù dà l’avvio alla futura risurrezione dei corpi. La sua vittoria sulla morte e il peccato, e la sua risurrezione gloriosa sono infatti condizione essenziale della vita eterna promessa, della definitiva felicità dell’uomo in unione con Dio. Ciò vuol dire, per i salvati, che nella prospettiva escatologica la sofferenza è totalmente cancellata169. La vittoria sulla morte non è solo promessa, ma già realtà perché Cristo ha avviato nella sua carne la risurrezione che sarà partecipata a tutte le sue membra; ha dato inizio a quel rinnovamento dell’intero universo che sarà perfetto nella pienezza del regno escatologico di Dio. Proprio perché Cristo ha redento l’uomo, questi vive sulla terra con la speranza della vita e della santità eterne, con la speranza della gloria. La vittoria da lui riportata non abolisce le sofferenze temporali

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Dives in Misericordia 7, in EV/7, 900. Cfr Novo Millennio Ineunte 28, in EV/20, 55. Cfr Salvifici Doloris 14, in EV/9, 639.

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dalla vita umana, né libera l’oggi dalla sofferenza l’intera dimensione storica dell’esistenza umana; su di essa e su ogni sofferenza essa proietta tuttavia la luce nuova della salvezza. È questa la luce del vangelo, al centro del quale si trova la verità enunciata nel colloquio di Gesù con Nicodemo: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Cristo si è avvicinato al mondo dell’umana sofferenza. Egli stesso l’ha assunta su di sé. Durante la sua attività pubblica, infatti, Gesù provò non solo la fatica, la mancanza di una casa, l’incomprensione persino da parte dei più vicini, ma, più di ogni cosa, venne sempre più ermeticamente avvinto da un cerchio di ostilità che rese sempre più chiari i preparativi e i tentativi per ucciderlo. Egli è consapevole di ciò, e con piena coscienza in diverse occasioni e a più riprese parla ai suoi discepoli delle sofferenze e della morte a cui andava incontro e che presto o tardi avrebbe affrontato: «Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato ai sommi sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani, lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma dopo tre giorni risusciterà» (Mc 10,33-34). Egli va incontro alla sua passione e alla morte con tutta la consapevolezza della missione che ha da compiere in questo modo. Proprio per mezzo di questa sua sofferenza, infatti, deve far sì «che l’uomo non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Con questo pensiero chiaro e forte nel suo animo, Cristo muoverà un rimprovero severo a Pietro, il quale, dopo aver appreso dalle stesse labbra del Maestro che il Figlio dell’uomo, alla cui sequela egli si era posto, sarebbe andato incontro alla sofferenza e alla morte, vuole dissuaderlo e fargli abbandonare il pensiero e il proposito di consegnarsi alla morte. Anche quando durante la cattura nel Getsemani lo stesso Pietro tenta di difenderlo con la spada, Cristo gli dice, con un tono anche questa volta di rimprovero: «Rimetti la spada nel fodero... Ma come allora si adempirebbero le Scritture, secondo le quali così deve avvenire?». Ed inoltre dice: «Non devo forse bere il calice che il Padre mi ha dato?» (Gv 18,11). Questa risposta, come altre che ritornano in diversi punti del vangelo, così come altre espressioni usate da Gesù, mostrano quanto profondamente Cristo fosse penetrato dal pensiero secondo cui la sofferenza e ancora di più la sua morte fossero necessarie, nel progetto amorevole del Padre, perché per loro mezzo gli uomini che credono in lui non vadano incontro alla morte ma abbiano la vita eterna.

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Gesù s’incammina verso la propria sofferenza, consapevole della sua forza salvifica. Va obbediente al Padre, ma prima di tutto è unito a lui nello stesso amore col quale Egli ha amato il mondo e l’uomo nel mondo170. Unito a Cristo ogni uomo ha una sua partecipazione alla redenzione, poiché tutti sono chiamati a partecipare a quella sofferenza mediante la quale si è compiuta la redenzione. «Operando la redenzione mediante la sofferenza — aggiunge il Papa — Cristo ha elevato insieme la sofferenza umana a livello di redenzione. Quindi anche ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo»171. È possibile rintracciare in diversi punti del Nuovo Testamento questa verità. Ad esempio, nella seconda Lettera ai Corinzi l’apostolo Paolo scrive: «Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dappertutto nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre, infatti, noi che siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia manifesta nella nostra carne mortale […], convinti che colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi con Gesù» (4,8-10).

L’Apostolo, precisa il Papa, si riferisce alle diverse sofferenze e, in particolare, a quelle di cui diventavano partecipi i primi cristiani proprio “a causa” di Gesù, per la fedeltà a lui e alla sua parola. Queste sofferenze, secondo l’Apostolo sono l’occasione che permette ai cristiani di partecipare alla stessa opera della redenzione, compiuta mediante le sofferenze e la morte del Salvatore. Se la sofferenza e la morte di Cristo hanno questo grande valore redentivo, è necessario ricordare che «l’eloquenza della croce e della morte viene tuttavia completata con l’eloquenza della risurrezione»172. Lì trova pienezza l’azione di Cristo a favore dell’umanità afflitta e sfinita, sofferente e affranta a causa del peccato. Lì si compie in pienezza il mistero della redenzione perché all’uomo liberato dal peccato e dalla morte viene donata la vita nuova del Signore risorto. Lì risplende in tutto il suo fulgore il Volto luminoso del Figlio di Dio, glorificato e costituito Signore.

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Cfr ibid., 16, in EV/9, 645. Ibid., 19, in EV/9, 653. Ibid., 20, in EV/9, 654.

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La sofferenza appartiene al mistero dell’uomo. Quanto il Concilio Vaticano II ha espresso in Gaudium et Spes 22, quando ha affermato che solamente nel mistero del Verbo Incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo, è ancora più vero quando si parla dell’umana sofferenza. Queste parole, infatti, si riferiscono a tutto ciò che riguarda il mistero dell’uomo, e perciò stesso indicano in modo specialissimo ciò che è più proprio dell’uomo, la sofferenza, la coscienza di soffrire. L’uomo soffre, e il suo soffrire si acuisce quando a volte non ne conosce le ragioni ultime. Proprio per questo motivo lo “svelare l’uomo all’uomo” e il “fargli nota la sua altissima vocazione” da parte di Cristo, Verbo incarnato, è assolutamente indispensabile e vitale perché «per Cristo e in Cristo si illumina l’enigma del dolore e della morte»173. La vocazione dell’uomo è una sola e non è la morte, ma la vita. Nel Verbo incarnato, nella sua vita, nella sua morte, l’uomo trova, solamente lì, se stesso, il senso della sua vita, della sua morte, il fine della sua esistenza e il cammino tracciato per raggiungerlo e possederlo in pienezza, nella saluta e nella malattia, nella vita e nella morte.

4. LA CROCE:

MISTERO DI SALVEZZA E SEGNO DELLA VITTORIA DI

CRISTO

SULLA MORTE

Per mezzo della sua croce Cristo ha toccato le radici del male, piantate nella storia dell’uomo e nelle anime umane. La croce è per questa ragione il “mezzo” attraverso cui il Figlio dell’uomo deve compiere l’opera della salvezza; un’opera che ha, secondo il disegno amorevole di Dio, un profondo valore redentivo. La morte di Cristo, vittima innocente, ha assunto le morti di tutte le vittime della storia; ha raccolto il sé le tante ingiustizie e sofferenze del passato e anche quelle che prolungano la sua passione in ogni angolo della terra; sino ai luoghi dove l’uomo è offeso e umiliato, percosso e sfruttato; sino a giungere ad ogni persona colpita dall’odio e dalla violenza, emarginata dall’egoismo e dall’indifferenza. In tutte queste persone e in tutte queste situazioni di morte, Cristo soffre ancora e muore. «Sui volti degli “confitti della vita” si stagliano i lineamenti del volto di Cristo

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Ibid., 31, in EV/9, 685, in cui si riprende la riflessione di Gaudium et Spes.


morente sulla croce. Ave, Crux, spes unica! Dalla Croce scaturisce anche oggi la speranza per tutti»174. In Segno di contraddizione, parlando della redenzione che costituisce il nucleo stesso del mistero pasquale nel quale la Chiesa ritrova la chiave per risolvere tutti i più difficili problemi dell’uomo e del mondo, Karol Wojtyla affermava: «Gesù Cristo andò verso la morte con tutta la sua consapevolezza messianica. Sapeva che portava in sé e sulla croce il destino dell’umanità intera e del mondo. Flagellato, coronato di spine per ludibrio, portò sul monte Calvario, insieme con tutto il peso della croce, la verità della umana sofferenza, dell’umiliazione, del vituperio, delle torture, dell’agonia e della morte. […]. Nel giorno della sua morte Gesù realizzò la più completa comunione e solidarietà con tutta la famiglia umana e specialmente con tutti quelli ai quali nell’arco della storia sono toccati dall’ingiustizia, la crudeltà e il vituperio. E, portando tutto questo sulle spalle, nella verità della sua umanità, Lui, il segno di contraddizione, fu soprattutto l’“Agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29)»175.

La croce di Cristo, che ha liberato l’uomo dalla morte, misteriosamente continua nel nostro tempo e fino alla fine dei tempi in tutti coloro che stanno rivivendo nella loro carne il dramma del Calvario! Infatti, sono numerose nel mondo di oggi come in quello di ieri le tante “vie crucis” spesso dimenticate, testimoniate dalle tragiche immagini di violenza, di guerre e di conflitti, che quotidianamente giungono da tanti luoghi; dall’angoscia e dal dolore di individui e di popoli di ogni parte della terra; dalla morte per fame di migliaia di persone, adulti e bambini; dallo sfregio della dignità umana, purtroppo perpetrato a volte nel nome di Dio; dalla soggezione al potere prepotente della morte e all’affermarsi della sua logica. La fede, proprio quando gli esseri umani tacciono impotenti dinanzi alle inquietanti domande che si sollevano dal mondo segnato dalla sofferenza e dalla morte, propone come risposta, unica e ineguagliabile, Cristo morto e risorto, che con la sua croce ha redento il mondo. È una risposta che nella notte ancora scura, lascia intravede già l’alba del giorno nuovo, il giorno della risurrezione. La fede ci dice appunto che la vittoria

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Via crucis al Colosseo del 10 aprile 1998, cit., 5. K. WOJTYLA, Segno di contraddizione, cit., 98

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definitiva non è della morte. L’ultima parola è di Dio, che risusciterà, il terzo giorno, il Figlio unigenito immolato per tutti gli uomini176. Per queste ragioni la Chiesa si sofferma nella meditazione del mistero della croce e di ciò che essa rappresenta. Essa è il segno eloquente e inconfondibile del sacrificio di Cristo in obbedienza al Padre per la salvezza del mondo. Essa è anche il simbolo che esprime il perpetuarsi nei secoli dell’unico sacrificio di Cristo nel sacrificio di tanti credenti, di tanti uomini e donne associati con il martirio alla morte di Gesù. In essa la Chiesa contempla il mistero dell’agonia e della morte del Signore, che continua anche ai nostri giorni nel dolore e nella sofferenza di individui e popoli, poiché dove l’uomo è colpito e ucciso, lì è Cristo stesso che viene offeso e crocifisso. Lì si rinnova il mistero del dolore e dell’amore sconfinato di Dio che nel suo Figlio si è fatto prossimo dell’uomo ed ha condiviso, continua a condividere, il suo dolore e la sua morte177. La croce evoca il buio della morte e dell’abbandono, la tristezza per l’ingratitudine e la durezza del cuore degli uomini. Essa è anche immagine eloquente del mistero che circonda l’esistenza dell’uomo ed è contemporaneamente denuncia del suo bisogno di luce, di salvezza, di vita. Solo nella croce di Cristo, illuminata dalla sua risurrezione, l’uomo può sperare di vedere la luce178. «Signore, un fascio di luce si sprigiona dalla tua Croce — pregava Giovanni Paolo II il Venerdì Santo del ’97 —. Nella tua morte è vinta la nostra morte e ci è offerta la speranza della risurrezione. Aggrappati alla tua Croce, noi restiamo in fiduciosa attesa del tuo ritorno, Signore Gesù, nostro Redentore!»179. In un’altra occasione, commentando il carme del Servo sofferente, il Papa non poteva non constatare che lì è prefigurato Cristo stesso, colui che anche oggi è “disprezzato e reietto” nell’uomo vilipeso ed ucciso ovunque trionfa la cultura della morte. Ancora oggi Cristo è “schiacciato per le nostre iniquità”, lui che è il Messia, ed è schiacciato proprio nelle vittime dell’odio e del male di ogni tempo e di ogni luogo. Lì continua ininterrotta la sua passione e la sua sconfitta, la sua kenosi e la sua tristezza mortale. Il pastore ancora viene percosso nelle sue membra e “sperduti 176 177 178 179

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Cfr Via crucis al Colosseo del 18 aprile 2003, in OR (20 aprile 2003), p. 7. Cfr Via crucis al Colosseo del 28 marzo 1997, in OR (30 marzo 1997), p. 5. Cfr ibid., 7. L. c.


come un gregge” sembrano i popoli divisi e segnati dall’incomprensione e dall’indifferenza. Cristo ancora patisce e soffre, viene crocifisso e muore sulla croce. Questa triste situazione sembrerebbe essere priva di vie d’uscita, chiusa a ogni speranza, se Cristo fosse solamente morto e fosse rimasto per sempre nel sepolcro, se l’unica prospettiva rimasta fosse solamente il perpetuarsi della sua sconfitta nelle sconfitte di chi soffre e muore ancora oggi. Ma proprio in questo scenario di sofferenza, proseguiva il Papa, proprio all’orizzonte si profila una risposta e brilla per l’umanità la speranza, poiché “dopo il suo intimo tormento vedrà la luce… il giusto mio servo giustificherà molti”180. La croce, proprio nella notte del dolore e dello smarrimento, proprio quando ogni cosa sembra definitivamente perduta e tutto sembra perdere di significato, è il segno che la speranza illumina le tenebre della morte, che l’attesa dell’uomo non è vana, ma è attesa di un destino di eternità, di gloria, di vita e risurrezione. È il segno, cioè, che la morte dell’uomo, di ogni uomo, nella quale è Cristo stesso che muore, è preludio alla sua risurrezione e alla vita piena in Dio. «“Crucem tuam adoramus, Domine”. Sulla Croce Cristo si è dimostrato Signore: ha accettato la morte ed ha dato la vita. Non è semplicemente “morto”, ma “ha dato la vita”. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15, 13). Egli ha dato la vita! Ha accolto la morte ed ha dato la vita»181. La croce di Cristo ci dice allora che la morte per lui non è stata semplicemente il termine ultimo della vicenda umana del Figlio di Dio. Il finale a cui non ci si poteva sottrarre. Cristo non è morto e basta. Egli ha dato la vita; ha fatto, cioè, della sua morte un dono, un’offerta di vita. La sua non è stata una morte solamente subita, attraversata passivamente, ma è stata l’azione massima del dono di sé fatto dal Figlio di Dio, l’autore della vita. Cristo non solo ha dato la vita: egli l’ha data per gli uomini, per la loro salvezza. Per tutti gli uomini, di tutti i luoghi e di tutti i tempi. E in tal modo ha riempito di senso il non senso della morte: essa è stata vissuta da Gesù per, non è cioè fine a se stessa, ma è per; ha lo scopo di redimere l’uomo dal suo destino di sofferenza e di morte. Questa verità è ribadita dalla

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Cfr Via crucis al Colosseo del 2 aprile 1999, cit., 5. Via crucis al Colosseo del 9 aprile 1982, in OR (11 aprile 1982), p. 1.

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liturgia che la Chiesa vive il Venerdì Santo: «Ecce lignum crucis in quo salus mundi pependit... Venite adoremus». Con queste parole la Chiesa esprime il significato profondo del mistero della passione del Signore. Quanto Gesù aveva espresso nell’ultima cena, donando ai suoi discepoli il suo corpo: «Questo è il mio corpo dato per voi!», si realizza sul Golgota, sulla croce. Lì sulla croce, infatti, si mostra il corpo di Cristo. È un mistero della fede che l’uomo non poteva immaginare con la sua sola ragione; una realtà che sfugge alla sua sola comprensione razionale. È un mistero, la morte in croce del Figlio di Dio, il dono del suo corpo, che poteva rivelare Dio soltanto. Solamente Dio poteva rivelare il significato di quella morte sulla croce, di quel corpo donato e offerto sul Golgota. L’uomo, infatti, non ha la possibilità di donare la vita dopo la morte, cioè la morte della morte, poiché nell’ordine umano la morte è l’ultima parola. La parola che viene dopo, la parola che squarcia il silenzio e il vuoto della morte, è la parola della risurrezione, è parola solamente di Dio182. E la parola di Dio invita la Chiesa a fissare lo sguardo attonito verso il mistero del Venerdì Santo che è un appello a rivolgere l’attenzione a Cristo deposto dalla croce e sepolto, un sepolcro che viene sigillato e che sembra precludere ogni possibile via d’uscita all’uomo che anela alla vita e spera. Il legno della croce è legno di morte; il legno che ha portato alla morte il Figlio di Dio, ma che apre anche la strada verso il giorno dopo, la Pasqua di risurrezione in cui la Chiesa esplode nell’esclamazione: «Surrexit de sepulchro... qui pro nobis pependit in ligno». Proprio questo epilogo che supera quanto l’uomo poteva pensare e immaginare, è la ragione ultima (la ragione prima), cioè la causa della gioia del cristiano che pur considerando la serietà della morte nondimeno confida soprattutto nella potenza della risurrezione di Cristo. «…Per sanctam Crucem tuam redemisti mundum». Con la tua croce! Questa invocazione esprime il mistero stesso della salvezza, poiché con la sua croce Gesù ha strappato l’uomo al potere della morte e del peccato; con la croce lo ha redento e gli ha riaperto le porte della vita eterna; la croce è perciò il varco da lui aperto verso la pienezza della vita senza fine, la vita della risurrezione183.

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Cfr Via crucis al Colosseo del 18 aprile 2003, cit., 7. L. c.


La croce, segno e simbolo di morte, di una morte insensata, ignominiosa, disperata, perché morte di malfattori e condannati, è divenuta anch’essa segno della redenzione universale: “Ecce enim propter lignum venit gaudium in universo mundo”. La croce è la porta attraverso la quale Dio è entrato definitivamente nella storia dell’uomo e permane in essa. Per suo mezzo è stata vinta la paura della morte ed è anche venuta nel mondo la gioia, la letizia del Risorto, una gioia che raggiunto l’universo intero184. La croce è la porta attraverso la quale Dio incessantemente entra nella nostra vita. Tutte le croci degli uomini, vissute in comunione con Cristo e con il suo filiale sacrificio al Padre, sono varchi che permettono a Dio di entrare nella storia degli uomini, una storia segnata dal male, dal peccato e dalla morte, e di spalancare le porte della salvezza. «La croce ci apre a Dio. La croce apre il mondo a Dio»185. La croce, strumento scandaloso di morte e sconfitta, è divenuta in Cristo il ponte che ricostruisce il rapporto di comunione tra Dio e il mondo, che fa pace tra il cielo e la terra, che rende giustizia a Dio e gli restituisce ciò che gli appartiene: «date a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21), aveva esortato Gesù a fare! Essa riapre la strada verso Dio, è la via battuta che conduce gli uomini a lui, è ciò che apre il mondo intero al Creatore186. «Tutto passa; permane la Croce tra il mondo e Dio. Mediante la Croce Dio permane nel mondo. “Crucem tuam adoramus, Domine”»187. L’adorazione della croce da parte della Chiesa trova la sua ragione profonda proprio nel fatto che attraverso di essa e su di essa, altare del 184

Cfr Via crucis al Colosseo del 9 aprile 1982, cit., 1. Ibid., 2. 186 Interessante è a questo proposito, il numero 33 di Evangelium Vitae, in cui il Papa parla della stretta solidarietà di Cristo con l’uomo peccatore e mortale; una solidarietà che è il fondamento della speranza cristiana e che si radica nella comunione di vita che il Figlio ha con il Padre suo: «Contraddizioni e rischi della vita vengono assunti pienamente da Gesù: “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). La povertà, di cui parla Paolo, non è solo spogliamento dei privilegi divini, ma anche condivisione delle condizioni più umili e precarie della vita umana (cfr Fil 2,6-7) […]. È proprio nella sua morte che Gesù rivela tutta la grandezza e il valore della vita, in quanto il suo donarsi in croce diventa fonte di vita nuova per tutti gli uomini (cfr Gv 12,32). In questo peregrinare nelle contraddizioni e nella stessa perdita della vita, Gesù è guidato dalla certezza che essa è nelle mani del Padre. Per questo sulla Croce può dirgli: “Padre nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46), cioè la mia vita», in EV/14, 2278. 187 Via crucis al Colosseo del 9 aprile 1982, cit., 2. 185

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sacrificio, Cristo, Agnello mansueto e senza macchia, ha immolato se stesso al Padre per la salvezza del mondo. Le parole di Paolo contenute nel capitolo 2 della Lettera ai Filippesi e che confessano la fede nel Figlio di Dio che per obbedienza si è portato sino al supplizio della croce, riassumono il messaggio centrale del mistero pasquale e in particolare della passione di Cristo sul Calvario ove si è consumato quel sacrifico cruento che si perpetua nel memoriale eucaristico. La Chiesa medita queste parole e le contempla nei giorni della passione del Signore, nel suo itinerario doloso verso il luogo del supplizio. Egli porta la croce, cade sotto il suo peso ed agonizza su di essa, e finalmente, nel momento estremo dell’agonia, prega: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46), esprimendo così il suo totale e fiducioso abbandono188. La testimonianza del Getsemani e della croce è un sigillo definitivo impresso su tutto ciò che Gesù ha fatto e insegnato. L’esperienza della passione e l’epilogo della morte sono stati per Gesù la logica conseguenza della sua missione e del modo in cui egli l’ha condotta, nella denuncia dell’ipocrisia dei capi del popolo e dei dottori della legge e dei farisei, nella sua predilezione per i poveri e gli ultimi, nella sua libertà di fronte ai gravami della legge, nella sua ferma volontà di affermare al di sopra di tutto, anche del Sabato, l’uomo e la sua salvezza. La morte, cioè, è stata il coronamento della sua pro-esistenza, del suo essersi fatto tutto a tutti, soprattutto ai reietti, agli abbandonati, agli scartati e ai peccatori. La morte è il sigillo posto a un’intera esistenza vissuta nella consapevolezza di essere il Figlio prediletto del Padre, di essere stato mandato per compiere una missione che lentamente si è rivelata orientata verso l’epilogo della morte, di una morte tragica. La croce è stata perciò il “naturale” sbocco e compimento dell’esistenza storica del Figlio di Dio che in essa ha portato a pienezza l’opera del Padre: «Tutto è compiuto!» (Gv 19,30)189. Il Figlio, nel momento estremo della sua vita giunta a termine, “rende lo spirito”, come attesta in particolare il quarto evangelista nel descrivere la morte di Gesù. In questo atto, simile a quello di ogni altro essere umano, come fa notare il Papa, si cela anche un’allusione al “dono dello Spirito”, la cui effusione universale era stata promessa con l’avvento del Messia e del Servo sofferente isaiano. Con il dono dello Spirito, lo Spirito del Padre

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Cfr Via crucis al Colosseo del 28 marzo 1997, cit., 5. Cfr Omelia tenuta ad Otranto, 5 ottobre 1980, in OR (6-7 ottobre 1980), p. 1.


e del Figlio, il Signore morente in croce riscatta l’umanità dalla morte e apre a una vita nuova, e manifesta la fecondità della sua oblazione190. La croce di Cristo, allora, è il “luogo” in cui il Figlio consustanziale al Padre rende piena giustizia a Dio, ed è la rivelazione radicale della misericordia e dell’amore di Dio che agisce contro ciò che costituisce la radice stessa del male nella storia dell’uomo: contro il peccato e la morte. In tal senso, «la croce è il più profondo chinarsi della Divinità sull’uomo e su ciò che l’uomo — specialmente nei momenti difficili e dolorosi — chiama il suo infelice destino. La croce è come un tocco dell’eterno amore sulle ferite più dolorose dell’esistenza terrena dell’uomo, è il compimento sino alla fine del programma messianico»191.

È la testimonianza più chiara che la patria ultima dell’uomo, il suo destino, è nei cieli, è la vita. «Il Buon Pastore, venuto perché gli uomini “abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10), porta a compimento la sua missione nel momento in cui, inchiodato alla croce, impotente ormai a compiere alcun gesto se non l’estrema offerta di se stesso, “rimette lo spirito”, e in tale atto supremo effonde lo Spirito Santo, per la salvezza del mondo»192.

La vita donata da Cristo mediante la sua morte in croce è comunione dell’uomo con Dio al di là della frattura del peccato. Quando Pietro dopo la Pentecoste denuncia il peccato di coloro che “non hanno creduto” ed hanno consegnato ad una morte ignominiosa Gesù di Nazareth, egli rende testimonianza alla vittoria sul peccato che si è compiuta, in certo senso, mediante il peccato più grande che poteva essere commesso, ovvero quello di uccidere Gesù, Figlio di Dio. Similmente, la morte del Figlio di Dio vince la morte umana, allo stesso modo in cui il peccato di aver crocifisso il Figlio di Dio “vince” il peccato umano: «Ero mors tua, o mors»! Quel peccato che si consumò a Gerusalemme il giorno in cui Gesù fu crocifisso 190

Cfr Evangelium Vitae 51, in EV/14, 2337. Dives in Misericordia 8, in EV/7, 905. 192 Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 10 novembre 1998, in OR (11 novembre 1998), p. 5. 191

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sul Golgota, e anche ogni peccato dell’uomo. Infatti, al più grande peccato da parte dell’uomo corrisponde, nel cuore del Redentore, l’offerta del supremo amore, che supera il male di tutti i peccati degli uomini. Sulla base di questa certezza la Chiesa, proprio nella solenne liturgia del cero, durante la Veglia pasquale, esclama: «O felix culpa!», stupita di fronte al grande mistero della redenzione dell’uomo dal peccato e dalla morte, dal delitto di avere ucciso l’autore della vita e dal destino mortale che ormai lo avrebbe irrimediabilmente atteso, se Cristo, nel suo amore libero e assolutamente gratuito, non avesse offerto la sua vita per salvarlo193. La croce, perciò, si staglia ancora più nitida e luminosa e si rivela come il centro, il senso e il fine di tutta la storia e di ogni vita umana, e non viene abbattuta dalla morte e dal peccato. Parlando della dimensione orizzontale e di quella verticale della vita dell’uomo e della storia, Karol Wojtyla durante gli esercizi spirituali predicati a Paolo VI nel 1976 affermava: «La croce era uno strumento di tortura e di vituperio del condannato […]. La croce fu un segno prescelto (cfr Fil 2,8-9; Gal 6,14; 1Cor 1,18). S’incontrano in essa le due direzioni: quella orizzontale e quella verticale, ed essa esprime così il più profondo incrocio delle due dimensioni: la divina e l’umana. — A questo punto dell’incrocio simbolico, ma ugualmente reale, è stato collocato il sacrificio, l’Agnello di Dio, l’Uomo Dio»194.

Per questa ragione, egli conclude, la nascita della Chiesa nel momento della morte messianica e redentrice di Cristo, è stata anche la nascita dell’Uomo: in quell’istante, infatti, l’uomo, è passato a una nuova dimensione della sua esistenza195. Sulla croce viene generato l’uomo nuovo, l’uomo restituito integralmente alla sua somiglianza con il Creatore. Su di essa Gesù è inchiodato e grazie ad essa egli viene innalzato da terra. Sebbene egli viva il momento della sua massima “impotenza” e la sua vita sembri totalmente consegnata agli scherni dei suoi avversari e alle mani dei suoi uccisori — viene infatti beffeggiato, deriso, oltraggiato (cfr Mc 15,24-36) — la croce diventa per lui, e in lui e con lui anche per coloro che sono stati redenti, 193 194 195

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Cfr Dominum et Vivificantem 31, in EV/10, 526. K. WOJTYLA, Segno di contraddizione, cit., 94 Cfr ibid., 103.


il momento di massima esaltazione e della manifestazione della gloria del Padre; il momento in cui vengono ricomposti i lineamenti del volto sfigurato dell’uomo per restituirlo alla sua primigenia immagine. Gli stessi evangelisti non mancano di testimoniare in questo senso, quando, ad esempio, presentando la nascita alla fede del centurione romano proprio nel momento in cui Gesù muore sulla croce, affermano che è nella sua morte che Gesù si rivela pienamente come il Figlio amato del Padre (cfr Mc 15,39). Nel momento della sua estrema debolezza, si palesa, così, l’identità profonda del Figlio di Dio e proprio sulla croce, strumento di supplizio, scandalo e stoltezza, si manifesta la sua gloria196. In tal senso ricevono nuova luce le parole stesse dell’apostolo Paolo il quale afferma che: «Cristo fu crocifisso per la sua debolezza, ma vive per la potenza di Dio», e traendo da questa affermazione tutte le conseguenze per la vita dei discepoli aggiunge: «E anche noi che siamo deboli in lui, saremo vivi con lui per la potenza di Dio» (2Cor 13,4). La morte di Gesù non è allora una “faccenda privata”, ma ha un valore universale indubitabile poiché abbraccia la morte di tutti coloro che giorno dopo giorno muoiono o si preparano a morire cercando ancora un senso e una risposta ai perché della loro vita. La morte di Gesù è sorgente di vita eterna e non sconfitta del predicatore Galileo. Con estrema chiarezza e forza gli stessi vangeli attestano come proprio prima di morire, Gesù, il quale aveva già pregato il Padre perché concedesse il perdono ai suoi persecutori (cfr Lc 23,34), al malfattore appeso sulla croce accanto a lui, il quale gli chiede di ricordarsi di lui nel suo regno, risponde: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). Ancora, dopo la sua morte «i sepolcri si aprirono e molti corpi di santi morti risuscitarono» (Mt 27,52) a conferma che la salvezza operata da Gesù è donazione di vita e di risurrezione, è distruzione del potere della morte sull’uomo e sulla terra, è restituzione dell’uomo al destino di vita che Dio aveva preparato per lui agli inizi. Nel mistero pasquale viene oltrepassato il limite del molteplice male di cui l’uomo diventa partecipe nella sua esistenza terrena. La croce infatti da un lato smaschera le più profonde radici del male, e dall’altro è lo strumento della vittoria di Cristo su queste potenze e il segno escatologico del compimento finale. Soltanto nel definitivo rinnovamento del mondo, infatti, l’amore vincerà in tutti gli eletti le sorgenti più profonde del male, 196

Cfr Evangelium Vitae 50, in EV/14, 2334.

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portando quale frutto pienamente maturo il regno della vita, della santità e della gloria. La risurrezione di Cristo il terzo giorno costituisce in questo quadro il segno finale che corona l’intera rivelazione dell’amore misericordioso nel mondo liberato dalla soggezione al male. Essa è al tempo stesso il segno che preannuncia “un nuovo cielo e una nuova terra” che appariranno quando Dio tergerà ogni lacrima dagli occhi di coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e di coloro che hanno seguito l’Agnello. Allora, non ci sarà più la morte, perché Dio farà scomparire le cose di prima e rinnoverà l’universo intero (cfr Ap 21,4)197. La croce è così il simbolo più alto dell’amore assoluto di Dio per l’uomo, un amore che lo porta sino al cuore stesso del suo dramma più tremendo, la sofferenza e la morte. La presenza di Dio in questa sciagura, l’abbiamo visto in precedenza, ne cambia radicalmente il significato e l’orientamento: ora, in Cristo agonizzante e morente sulla croce, la sofferenza dell’uomo, la più estrema e la più crudele, e la sua morte, sono divenute la rilevazione dell’amore assoluto e incondizionato del Dio dell’uomo198.

4.1. La morte dei discepoli e la solidarietà con il Maestro Nella morte in croce di Cristo si realizza la stretta solidarietà del Figlio di Dio con l’uomo, ma anche è resa possibile la partecipazione di questi al destino del Signore. Il credente è chiamato proprio nell’ora della morte a pronunciare il proprio sì a Dio in comunione e solidarietà con il sì del Figlio unigenito. Un sì, afferma il Papa, che i pastori della Chiesa, ormai giunti alla meta del loro itinerario terreno e del loro faticoso e impegnativo cammino, hanno proferito continuamente. Anche nella morte, così come all’inizio della loro missione e come tantissime altre volte nella loro vita, hanno pronunciato il loro convinto “eccomi”. L’eccomi pronunciato nell’ora della morte, l’ultimo, è unito a quello di Gesù, che morì affidando il suo spirito nelle mani del Padre (cfr Lc 23,46), rivelazione perfetta dell’atteggiamento che ha animato la loro vita in cui non hanno cercato altro se non le cose di lassù (cfr Col 3,1), esortando i fratelli a fare altrettanto nell’attesa che anche per loro si compiano le parole dell’Apostolo: 197 198

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Cfr Dives in Misericordia 8, in EV/7, 905. Cfr K. WOJTYLA, Trittico romano. Meditazioni, cit., 85-87.


«Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria» (Col 3,4)199. Il Papa è accomunato ad essi dallo stesso “eccomi”, dalla medesima risposta alla chiamata rivolta da Dio a coloro che sono invitati a seguirlo in una vita di speciale consacrazione a lui. Una chiamata e una risposta che sono pur sempre personali, espressione di un dialogo di amicizia fra Dio e l’uomo. L’eccomi, se da un lato affratella e accomuna, dall’altro caratterizza ciascuno in ciò che ha di più proprio e personale. La morte, ultima chiamata e ultimo “eccomi”, è perciò l’esperienza che più di ogni altra apre alla comunione, mostra la solidarietà fra tutti gli uomini, e nello stesso tempo è la più personale, la più propria delle esperienze. Lì ognuno è chiamato ed è impegnato in una risposta radicale e assolutamente personale. Lì nessuno può delegare qualcun altro perché al suo posto risponda all’appello di Dio. Il Papa si sente così accomunato agli altri vescovi defunti dall’“eccomi” che ha segnato la loro vita e che è stato declinato nel corso dell’intera esistenza, tradotto in mille situazioni e scelte quotidiane, dalle più ordinarie a quelle più impegnative e forse in alcuni casi perfino eroiche; un “eccomi”, comunque, che per tutti raggiungerà la sua massima e insuperabile consumazione nell’istante della morte. «Quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,10) aveva affermato l’apostolo Paolo. La morte da sconfitta diviene vittoria grazie al dono di sé, all’offerta incondizionata che ogni cristiano — non solo i pastori della Chiesa o chi ha ricevuto una vocazione di particolare consacrazione — fa in unione all’offerta di Cristo, al suo sacrificio pasquale e alla sua assoluta consegna nelle mani del Padre suo. Il momento di maggiore debolezza diventa così per Cristo quello di maggiore intensità ed efficacia perché è proprio lì, nell’estrema debolezza della croce e dell’agonia, che egli porta a compimento l’opera del Padre. La morte per lui non è un ostacolo insuperabile, così come la sofferenza non si trasforma in lui in una barriera invalidante, ma egli, proprio nella debolezza del suo corpo martoriato e del suo spirito indicibilmente affranto, fa della sua morte, e quindi della morte di coloro che muoiono in lui e con lui, un evento di grazia e la sorgente di ogni bene. Per questa via, cioè nella solidarietà e nella partecipazione alla morte di Cristo, nel dono di sé, l’uomo può realizzare se stesso. Quello che vale 199

Cfr Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 5 novembre 2002, in OR (6 novembre 2002), p. 5.

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per tutti, vale in maniera speciale per coloro che uno speciale dono di grazia nella Chiesa ha configurato a Cristo Buon Pastore, il quale “offre la vita per le sue pecore” (Gv 10,11)200. E come Cristo, dopo aver conosciuto l’estrema debolezza, è stato risuscitato con il suo corpo per la potenza dello Spirito Santo, così il Papa è convinto che il medesimo Spirito risusciterà a vita nuova ed eterna quanti hanno dedicato la loro esistenza generosamente per il vangelo201. Ciò che conforta il discepolo che si appresta ad affrontare l’ora suprema della morte è il sapersi unito a Cristo, legato al lui e al suo destino. Nel suo cuore, proprio di fronte al mistero della morte ormai prossima, risuonano le parole dell’apostolo Paolo il quale afferma la sicura speranza che “sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore” (cfr Rm 14,7-8). Per l’Apostolo, infatti, il “come” e il “quando” della morte sono del Signore. A lui appartiene sia che viviamo sia che moriamo202. Quello che per noi ora conta è vivere preparandoci al momento della morte, attendere e scoprire sempre più di essere attesi, orientarci a quel transito. La morte deve essere accettata non solo perché inevitabile destino dell’uomo e di tutte le cose viventi, ma soprattutto perché essa può essere un atto di donazione volontaria a Dio, un’azione da compiersi con la grazia di Dio che ci conserva perché la morte non sia il semplice, quasi banale, concludersi di un’esistenza storica, ma la celebrazione della stessa Pasqua di Cristo nelle 200

È interessante vedere come durante la predicazione degli esercizi spirituali a Paolo e alla Curia romana, tenuti dal 5 al 12 marzo del ‘76, l’allora Card. Wojtyla, commentò i testi evangelici dell’agonia di Gesù nel Getsemani (cfr Mt 26,41 e par.), e in quella occasione affermò che «La preghiera nell’orto degli Ulivi continua». Continua oggi, perché «la Chiesa cerca sempre quell’ora del Getsemani — l’ora perduta da Pietro, Giacomo e Giovanni — per soddisfare quella mancanza, quella solitudine del Maestro, la quale accrebbe la sofferenza della sua anima». Ciò vuol dire almeno due cose: innanzitutto la preghiera è per la Chiesa un vegliare assieme a Cristo, per lui, davanti a lui. Ma significa anche che la stessa sofferenza accolta e vissuta in comunione con Cristo è la partecipazione alla sua stessa passione e alla sua opera redentrice. La Chiesa, cioè, partecipando alla stessa sofferenza di Cristo ne prolunga nei secoli l’azione di salvezza acquistataci dalla sua passione e morte, dalla sua obbediente e filiale accoglienza della volontà del Padre, nella sua solidarietà con il Signore sofferente e agonizzante, essa continua nel mondo e nella storia la sua opera di salvezza. Si veda a questo proposito Segno di contraddizione. Meditazioni, con la premessa di G. Lazzati, nell’edizione del 1977, pp. 166-167). 201 Cfr Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 10 novembre 1998, cit., 5. 202 Cfr Evangelium Vitae 67, in EV/14, 2393. VI

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sue membra, la partecipazione alla Pasqua del Signore. Associata a Cristo morto, la morte dell’uomo diventa addirittura “utile” per una causa, acquista un valore e un significato per il suo bene e la sua perfetta realizzazione. «Io so che il mio Redentore è vivo», esclama il giusto Giobbe segnato dalla sofferenza e dal dolore e tuttavia ancora aggrappato alla speranza nell’intervento liberatore di Dio (cfr Gb 19,25). Anche il fedele, il quale sa che con le sue sole forze non potrà approdare alla visione beatifica di Dio, pienezza di ogni bene, proclama con fiducia certa la sua fede in colui che può salvarlo dalla morte e dallo sconforto e fa sua la stessa professione di fede di Giobbe, cosciente che questa espressione di fede trova conferma piena in Cristo Salvatore, il quale alla fine verrà nella gloria del Padre suo ad accogliere coloro che gli appartengono e che sono stati riscattati con il suo sangue benedetto203. Il ricordo dei fratelli defunti è sorretto dalla speranza che essi siano già ai piedi dell’Agnello (cfr Ap 7,9). La Chiesa pensa a coloro che hanno già attraversato la morte, avendo davanti a sé la visione dell’autore del Libro dell’Apocalisse il quale vide nella Gerusalemme celeste “una moltitudine immensa..., di ogni nazione, razza, popolo e lingua...”. Egli di fronte a questo meraviglioso spettacolo chiede chi siano costoro e donde vengano. Dalla risposta che riceve egli apprende che essi sono coloro che provengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello (cfr Ap 7,9.13-14). Con queste parole nel cuore la Chiesa contempla la redenzione realizzata, la vittoria pasquale dell’Agnello immolato che toglie il peccato del mondo e sconfigge la morte204. Il potere dell’Agnello è universale, la sua salvezza abbraccia ogni creatura sulla terra e sotto terra. Veramente il sacrificio redentore di Cristo abbraccia tutto e tutti, anche coloro che già sono morti205. In lui davvero si stabiliscono e vengono rinsaldati i vincoli di comunione e di amore fra tutti gli uomini redenti dal suo sangue sulla croce. Partendo dalla lettura e dal commento di Ap 21,1, il Papa spera che un giorno tutti, in forza dei vincoli di comunione e partecipazione che intercorrono tra il Capo e le membra del Corpo di Cristo, possano condividere la sorte e la gioia dei santi. Una speranza che poggia sulla promessa di Gesù 203

Cfr Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 14 novembre 2000, in L’Osservatore Romano (15 novembre 2000), p. 5. 204 Cfr Omelia del 1 novembre 1993, in OR (2-3 novembre 1993), p. 5. 205 Cfr l. c.

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il quale, prima di salire al Padre, dice che va a preparare un posto per i suoi (cfr Gv 14,2). «Radica in questa certezza — conclude il Papa — la serenità del cristiano di fronte alla morte»206. La naturale ripugnanza che l’uomo prova per la morte, «salario del peccato» (Rm 6,23), e la germinale speranza di immortalità che egli scopre incisa nel suo intimo sono perciò illuminate e portate a compimento dalla fede cristiana, che promette e offre la partecipazione alla vittoria del Cristo risorto che ha donato all’uomo lo Spirito, pegno di risurrezione e di vita (cfr Rm 8,11)207. La morte per il cristiano è sopportabile ed ha un senso solo nella misura in cui è vissuta in solidarietà con la morte di Cristo, in quanto è la partecipazione allo stesso destino del suo Signore. Per questa ragione l’attenzione della Chiesa è rivolta all’uomo, la cui sorte, dalla nascita alla morte, la cui salvezza e la cui perdizione, sono strettamente ed indissolubile unite al Cristo, nell’apertura o nella sventurata chiusura all’offerta della sua amicizia208. L’umanità, sottomessa al peccato nei discendenti del primo Adamo, in Gesù Cristo è diventata perfettamente sottomessa a Dio e a lui unita. In Cristo sofferente e morto sulla croce, cioè, si ha una nuova umanità che è ritornata a quell’amore tradito da Adamo col peccato. Gesù Cristo, come uomo, nella preghiera della sua passione, permise allo Spirito Santo, che già aveva penetrato fino in fondo la sua umanità, di trasformarla in un sacrificio perfetto mediante l’atto della sua morte, come vittima sulla croce. Come unico sacerdote, “offrì se stesso senza macchia a Dio”. Egli poté fare ciò perché solamente lui era senza macchia di peccato e nella sua umanità era degno di divenire un tale sacrificio. Il sacrificio da lui offerto avvenne però “con uno Spirito eterno” ci dice la Lettera agli Ebrei (cfr Eb 9,14). Lo Spirito Santo agì cioè in modo speciale in questa assoluta autodonazione del Figlio dell’uomo, per trasformare la sofferenza in amore redentivi per l’uomo peccatore209. Lo Spirito fu la “garanzia” della permanente comunione del Figlio e del Padre anche durante le terribili ore della passione e della morte in croce: anche lì, soprattutto lì, la comunione di vita delle Persone divine si espresse in pienezza e trasformò l’evento 206

Udienza Generale del 2 novembre 1988, cit., 4. Cfr Evangelium Vitae 67, in EV/14, 2392. 208 Cfr Redemptor hominis. Lettera enciclica — pontificali eius ministerio ineunte — su Cristo redentore dell’uomo (4 marzo 1979), 14, in EV/6, 1209. 209 Cfr Dominum et Vivificantem 40, in EV/10, 547-548. 207

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drammatico della morte, la sua estrema solitudine e sofferenza, in evento di grazia e di amore, di comunione e di vita. Anche il cristiano, che per il battesimo è divenuto tempio dello Spirito Santo in Cristo Gesù, cresce sempre più sino a trasformare se stesso, per l’azione del medesimo Spirito, in sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, in un dono spirituale di tutta la sua persona. Anche lui, in Cristo e per Cristo, può allora offrire se stesso al Padre in sacrificio gradito grazie all’azione dello Spirito. Anche per lui il dono dello Spirito è la garanzia del permanere della comunione e della solidarietà al di là del muro della morte; anche per lui, infatti, lo Spirito è vincolo saldo e forte di comunione perfetta ed eterna.

5. LA SINDONE,

ICONA DEL DOLORE E SEGNO DELLA VITTORIA DELL’AMORE

SULLA MORTE

«Nella Sindone — affermava il Papa in una splendida omelia tenuta a Torino in occasione dell’ostensione del velo sindonico del 1998 — si riflette l’immagine della sofferenza umana. Essa ricorda all’uomo moderno, spesso distratto dal benessere e dalle conquiste tecnologiche, il dramma di tanti fratelli, e lo invita ad interrogarsi sul mistero del dolore per approfondirne le cause. L’impronta del corpo martoriato del Crocifisso, testimoniando la tremenda capacità dell’uomo di procurare dolore e morte ai suoi simili, si pone come l’icona della sofferenza dell’innocente di tutti i tempi: delle innumerevoli tragedie che hanno segnato la storia passata, e dei drammi che continuano a consumarsi nel mondo»210.

La Sindone induce a pensare ai milioni di uomini che muoiono di fame, agli orrori perpetrati nelle tante guerre che insanguinano molte parti del mondo, allo sfruttamento brutale di donne e bambini, a quegli esseri umani che vivono di stenti e di umiliazioni, abbandonati a se stessi ai margini delle grandi metropoli, a tutti coloro che ancora oggi non possono godere degli elementari diritti civili, alle vittime della tortura e del terrorismo e agli schiavi di organizzazioni criminali. A tutti coloro, cioè, che nella loro esistenza fanno quotidianamente i conti con la morte e le sue

210

Discorso tenuto durante la venerazione della Sacra Sindone, 24 maggio 1998, in OR (25-26 maggio 1998), p. 8.

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diverse incarnazioni e anticipazioni, che esperiscono nella loro stessa carne il peccato del mondo e le sue conseguenze211. La Sindone non si limita ad evocare tali situazioni drammatiche. Essa è anche uno sprone ad uscire dall’egoismo e conduce a scoprire il mistero del dolore che santificato dal sacrificio di Cristo genera salvezza per l’umanità intera. La Sindone è soprattutto immagine dell’amore di Dio e non solo del peccato dell’uomo. Essa invita a riscoprire la causa ultima della morte redentrice di Gesù che si palesa nell’incommensurabile sofferenza da essa documentata. La sofferenza testimonia l’amore di Dio; rende quasi palpabili e manifesta le sorprendenti dimensioni di questo amore che porta il Padre a donare il suo Figlio e questi ad offrirsi per l’uomo peccatore. È il peccato, infatti, il responsabile della sofferenza subita da Gesù sulla croce, della sua passione e morte. Sono i peccati di tutti gli uomini di tutti i tempi. Ma l’amore è la sconfitta del peccato e della morte212. La Sindone rivela così la causa della morte di Gesù, il peccato, ma anche la sorgente del suo sacrificio, l’amore: l’amore per il peccatore, il sacrificio, l’estremo sacrificio per la salvezza. Gesù non accetta la morte perché legge in essa il raggiungimento della piena libertà e la liberazione dal carcere del corpo e dalla vita terrena corruttibile, la definitiva emancipazione dello spirito dalle catene della materia e il riscatto dalla solidarietà, non voluta ma imposta, con tutto ciò che ha come destino la morte. Gesù affronta liberamente e consapevolmente la morte perché sa che proprio la morte in croce è la via per redimere il mondo. «Parlandoci di amore e di peccato, la Sindone invita tutti noi ad imprimere nel nostro spirito il volto dell’amore di Dio, per escluderne la tremenda realtà del peccato. La contemplazione di quel Corpo martoriato aiuta l’uomo contemporaneo a liberarsi dalla superficialità e dall’egoismo» aggiunge il Papa213. La fede non ha perciò timore di presentare Gesù come sconfitto dalla morte. I racconti della passione non censurano il dramma reale vissuto da Gesù prima ancora di salire sul Golgota (nel Getsemani, durante il processo, la fustigazione e il viaggio doloroso, straordinariamente doloroso, verso il luogo del supplizio) e ancora di più sulla croce. Egli non affronta 211 212 213

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Cfr l. c. Cfr ibid., 9. L. c.


la morte come un eroe greco o come un gladiatore nell’arena, con l’impassibilità saccente di chi attraversa questo evento imperturbato, senza esserne davvero sfiorato, toccato, avvicinato. Egli, al contrario, soffre, ha paura, cade, suda sangue, grida, piange, trema. Anche lui sa che la morte è una sconfitta. Anche lui sa che la morte è l’extrema ratio per offrire la salvezza, e per questo, solo per questo, si abbandona estremamente debole ed estremamente forte, alla sua morte, alla derelizione e negatività assolute. La Sindone è anche immagine dell’impotenza che genera la morte, dell’impotenza che è la morte, ma pure della sua potenza e della conseguente impotenza dell’uomo. Essa rivela la conseguenza estrema del mistero dell’Incarnazione e spinge l’uomo a misurarsi con l’aspetto più conturbante di questo mistero: Dio si è fatto veramente uomo ed ha assunto realmente la natura umana facendosi in tutto simile all’uomo, fuorché nel peccato. Di fronte al velo sindonico sembra che sia naturale affermare che nemmeno il Figlio di Dio ha resistito alla forza della morte. Certamente essa induce a pensare che egli ha partecipato in maniera così reale alla condizione mortale dell’uomo tanto da volersi sottoporre all’impotenza totale del momento in cui la vita si spegne. «È l’esperienza del Sabato Santo — conclude il Papa —, passaggio importante del cammino di Gesù verso la gloria, da cui si sprigiona un raggio di luce che investe il dolore e la morte di ogni uomo»214. La Sindone è inoltre immagine del silenzio, ma di un silenzio speciale, quel silenzio che soprattutto il mondo contemporaneo sembra aver definitivamente e totalmente smarrito, poiché oramai stordito dalle molte, troppe, parole e notizie che quotidianamente lo bombardano e non gli danno alcuna tregua. La morte per Cristo è divenuta invece un silenzio abitato dalla parola, un silenzio parlante ed eloquente più di ogni possibile discorso. C’è, infatti, il silenzio tragico dell’incomunicabilità, che ha nella morte la sua più alta intonazione, e c’è il silenzio della fecondità, che è proprio di chi rinuncia a farsi sentire all’esterno per raggiungere nel profondo le radici della verità e della vita. «La Sindone esprime non solo il silenzio della morte, ma anche il silenzio coraggioso e fecondo del superamento dell’effimero, grazie all’immersione totale nell’eterno presente di Dio»215. Essa offre così la conferma del fatto che l’onnipotenza di Dio non è arrestata da nessuna forza del male. Essa, al contrario, ha il 214 215

L. c. L. c.

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potere di far concorrere al bene la stessa forza del male, di far scaturire la vita dalle ceneri, feconde, della morte. La Sindone è perciò l’icona del silenzio — silenzio di Cristo, pecora muta di fronte ai suoi tosatori (cfr Is 53,7) e obbediente al Padre, e silenzio del Padre che consegna il suo Figlio alla morte — ed è per questo icona eloquente del Cristo abbandonato nella condizione drammatica e solenne della morte. Essa esorta ad andare al cuore del mistero della vita e della morte per scoprire il messaggio grande e consolante che in essa ci è consegnato. Ci presenta Gesù al momento della sua massima impotenza, e ci ricorda che nell’annullamento di quella morte sta la salvezza del mondo intero. La Sindone, conclude Giovanni Paolo II, è dunque un invito forte a vivere ogni esperienza, compresa quella della sofferenza e della suprema impotenza, nell’atteggiamento di chi crede che l’amore di Dio vince ogni povertà, ogni condizionamento, ogni tentazione di disperazione. L’amore di Dio è più forte della morte perché dà voce a tutte le sofferenze e le morti che segnano l’uomo di tutti i tempi e non lascia inascoltato il loro grido.

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CAPITOLO V

LA CHIESA: POPOLO DELLA SPERANZA E PRIMIZIA DEL REGNO

L’essere nella morte del credente il quale mediante il battesimo è immerso nella vita ecclesiale consolidata dai beni spirituali, per l’azione dello Spirito e la sua partecipazione al destino di Cristo è avvolto nella comunione della Chiesa stessa; comunione che si esprime nella preghiera per i fratelli che attraversano la morte e vivono la loro personale partecipazione alla pasqua di Cristo, al suo cammino da questo mondo al Padre. La comunità dei discepoli di Gesù, per il mistero pasquale di Cristo e l’effusione dello Spirito Santo, è costituita quale comunità messianica degli ultimi tempi nella quale si compie l’irrompere escatologico di Dio e nella quale si ha il dono della salvezza. La Chiesa è allora il soggetto adeguato della speranza cristiana. In essa si rende presente al mondo la salvezza escatologica di Dio il quale è entrato permanentemente nella storia degli uomini mediante l’Incarnazione del suo Figlio e l’effusione dello Spirito che, donato dal Risorto, continua ad agire nella comunità di salvezza di Cristo Signore e quindi nel mondo intero. L’esistenza cristiana si realizza e si esprime come realtà escatologica personale, in coloro i quali sono uniti a Cristo nella Chiesa e sono segnati dal sigillo dello Spirito Santo, ci dice il numero 48 di Lumen Gentium, in quanto questi vivono come membri dell’unico popolo di Dio, come membra dell’unico corpo di Cristo. L’incontro della singola persona con l’evento Gesù Cristo avviene mediante la decisione della fede per la quale ci si consegna totalmente al mistero salvifico di Dio grazie all’azione dello Spirito. Ciò si produce tuttavia perché l’esistenza cristiana è “ecclesialmente” connotata. Anche il mistero della morte, evento in cui il singolo fedele compie l’ultimo atto di fede e di consegna a Dio di tutto se stesso, è un mistero che non si consuma nel segreto dell’esistenza del singolo individuo, ma avviene nella communio Ecclesiae e grazie alla forza che si attinge da tale vincolo comunionale con la comunità della speranza. Sebbene sia innegabile il ruolo che personalmente il fedele assolve nella morte, come sua realtà insostituibile, è altrettanto innegabile che l’idea cristiana della morte esclude di fatto la possibilità di comprendere

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quest’ultima come evento riguardante il singolo individuo nel suo assoluto isolamento e al di là dei suoi rapporti vitali con la Chiesa. La morte per il cristiano è infatti l’approfondimento e la consumazione, nella Chiesa, di quella comunione personale e vitale che ha caratterizzato e informato la sua esistenza terrena e che trova la sua pienezza nella comunione di coloro che sono stati resi partecipi della vittoria pasquale di Cristo sul peccato e sulla morte. Quanto interessa il singolo riguarda anche l’intera comunità ecclesiale. La comunione vissuta e alimentata nel corso dell’esistenza storica tra il fedele e la comunità ecclesiale, che ha sostenuto la sua vita teologale e l’ha alimentata con la forza e l’energia dei sacramenti, è viva e forte anche nella morte, ove il fedele si sente sorretto da un sostegno che non è solo di natura psicologica e affettiva, ma è costituito dalla reale comunione di vita che scaturisce dalla partecipazione comune alla stessa vita santa di Cristo. La Chiesa, comunità escatologica, popolo santo di Dio e primizia del Regno, nasce dal costato squarciato di Cristo sulla croce, dal dono dello Spirito che il Figlio di Dio morente sulla croce consegna all’umanità nuova. La sua nascita si radica dunque nella morte di Cristo. La morte dell’autore della vita è infatti per essa sorgente di vita e inizio del pellegrinaggio verso la Gerusalemme celeste nella quale Dio, amore sussistente, comunione trinitaria, sarà tutto in tutti. Poiché tutta l’esistenza cristiana è esistenza ecclesiale, lo è anche la fine di colui che muore in Cristo e che con lui rimane sempre nella comunione di quella famiglia di Dio e di quel Corpo mistico che ha come statuto essenziale e indole l’essere in cammino verso la pienezza della gloria. Un cammino sostenuto, guidato e corroborato dallo Spirito Santo. Il dono dello Spirito è la vita stessa di Dio che viene partecipata all’uomo. È la vita che, mediante i sacramenti — di cui il sangue e l’acqua sgorgati dal fianco di Cristo sono simbolo — viene continuamente comunicata ai figli di Dio, costituiti così come popolo della Nuova Alleanza. Dalla croce, fonte di vita, nasce e si diffonde quel “popolo della vita” che lotta strenuamente contro la morte e tutte le sue più subdole manifestazioni e incarnazioni216. Scaturisce quel popolo che si alimenta ai sacramenti, in particolare all’Eucaristia e si rigenera sempre nuovamente alle acque del battesimo (nascita della vita in Cristo), e della penitenza (lavacro di rigenerazione), 216

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Cfr Evangelium Vitae 51, in EV/14, 2337.


e guidata, fortificata e confermata dalla potenza dal medesimo Spirito donato da Cristo morente, si pone al servizio del vangelo della vita, contro la cultura di morte e contro il peccato che minacciano costantemente la vita dell’uomo e del mondo intero. La Chiesa vive allora in una grande prospettiva. Questa prospettiva l’accompagna sempre, la plasma continuamente e la indirizza verso l’eternità. È la prospettiva escatologica che anima anche la memoria che essa fa di quei fratelli che ci hanno preceduto nel segno della fede e che ora dormono il sonno della pace. Tutta la sua vita, la sua missione, il suo annuncio, sono caratterizzati dalla dimensione escatologica che illumina anche il mistero della morte: la vita eterna, l’attesa della risurrezione escatologica, la comunione dei santi, sono l’epilogo e il culmine del suo stesso Simbolo di fede. In queste verità fondamentali, essa trova il proprio nutrimento e l’alimento della sua speranza per il suo annuncio di gioia rivolto all’uomo di tutti i tempi217. Nella liturgia in maniera specialissima la Chiesa rivive i misteri della salvezza, accoglie il dono della vita per la risurrezione gloriosa di Cristo e si apre al dono dello Spirito in una rinnovata Pentecoste. Essa, fortificata e confermata dallo Spirito, continua la testimonianza resa dagli apostoli alla risurrezione di Gesù Cristo, poiché è la testimone perenne di questa vittoria sulla morte che ha rivelato la potenza dello Spirito Santo e ha determinato la sua nuova venuta, la sua nuova presenza negli uomini e nel mondo. Nella risurrezione di Cristo, infatti, lo Spirito Santo Paraclito si è rivelato soprattutto come colui che dà la vita. Così si esprime a questo proposito l’Apostolo: «Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito, che abita in voi» (Rm 8,11). Per la risurrezione di Cristo e il conseguente dono dello Spirito Santo, puntualizza Giovanni Paolo II nella sua enciclica sullo Spirito Santo, la Chiesa annuncia quella vita che si è manifestata oltre il limite della morte, la vita che è più forte della morte. Lo Spirito vivificatore è colui con il quale essa coopera nel dare la vita; essa serve la vita che proviene da Dio stesso, in stretta unione e in umile servizio allo Spirito, e lo fa annunciando il vangelo della vita, generando nuovi figli alla vita nuova, lottando contro il peccato del mondo, le sue strutture e i suoi prodotti, esercitando il ministero della riconciliazione che le è stato affidato218. 217 218

Cfr Angelus Domini del 1 novembre1978, in OR (2-3 novembre 1978), p. 1. Cfr Dominum et Vivificantem 58, in EV/10, 598.

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Di fronte alle nuove manifestazioni della cultura della morte la Chiesa ha il dovere di mantenere fede al suo amore per l’uomo che, come afferma Redemptor hominis 14 è la prima strada che essa deve percorrere219. Essa ha infatti il compito di illuminare il volto dell’uomo, in particolare il volto del morente, e di chiamare a raccolta tutte le forze della comunità e delle persone di buona volontà, perché si crei attorno al morente un vincolo di amore e di solidarietà220. Questo è un servizio fondamentale che la Chiesa è chiamata a svolgere nell’ambito della sua preziosa missione nel mondo. La ragione di ciò risiede anche nel fatto che il momento della morte è sempre accompagnato da una particolare densità di sentimenti umani che meritano ogni attenzione, perché c’è una vita terrena che si compie, ma c’è anche l’infrangersi dei legami affettivi, generazionali e sociali che fanno parte dell’intimo della persona. C’è, inoltre, nella coscienza del soggetto che muore e anche in quella di chi lo assiste il conflitto fra la speranza nell’immortalità e la paura per l’ignoto che turba anche gli spiriti più illuminati. Nella morte convivono nel cuore dell’uomo sentimenti e pensieri a volte contrastanti, precisa il Papa; sentimenti certamente forti e profondissimi, che mettono in causa il senso stesso della vita e di quanto in essa si è faticosamente costruito. Ciò che oggi appare estremamente urgente è che non si rechi offesa al morente e che si faccia di tutto perché egli possa ricevere ogni amorevole sollecitudine e possa essere accompagnato mentre s’appresta a vivere l’esperienza della morte sostenuto dall’affetto e dall’assistenza delle persone care e della società intera, nonché dalla “compagnia” dei fratelli nella fede chiamati ad aiutarlo perché ne sorregga il pesante carico221. La comunione con il morente, fondamentale per la coscienza della comunità ecclesiale, si prolunga poi anche nella comunione dei credenti con coloro che già hanno attraversato la morte. Da sempre, infatti, la Chiesa ha esortato a pregare per i defunti, ai quali rivolge un pensiero speciale e una preghiera perché possano partecipare alla gioia della vita eterna. Questa, contenuto della speranza dell’uomo, è la prospettiva che invita i credenti a guardare al mistero della morte come al passaggio verso la beatitudine senza fine. La stessa liturgia, nel Prefazio I della Messa per i defunti, celebra questo grande mistero quando attesta che “mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo”, ragion 219 220 221

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Cfr Redemptor hominis 14, in EV/6, 1209. Cfr Discorso alla Pontificia Accademia per la vita, 27 febbraio 1999, cit., 5. Cfr l. c.


per cui l’uomo, rattristato per la certezza di dover morire, è anche consolato dalla promessa dell’immortalità futura, poiché sa che la vita non gli viene tolta con la morte, ma solo trasformata222. Per questo, seguendo soprattutto quanto afferma il Catechismo della Chiesa Cattolica, Giovanni Polo II ribadisce l’importanza e il dovere di pregare per i defunti, perché anche se morti nella grazia e nell’amicizia di Dio, essi forse abbisognano ancora di un’ultima purificazione per entrare nella gioia del cielo223. Il ricordo dei defunti, sottolinea il Papa, si fa ancor più vivo quando si pensa ai propri cari, a quanti ci hanno voluto bene e ci hanno introdotto alla vita. Ma non meno significativa è la memoria delle vittime della violenza e delle guerre, come pure di quanti hanno sacrificato l’esistenza per rimanere fedeli a Cristo sino alla fine, o sono morti mentre prestavano servizio generoso ai fratelli. «La Chiesa, pellegrina nella storia, partecipa alla mestizia dei suoi figli afflitti per il distacco dalle persone care e ad essi addita l’orizzonte della speranza cristiana, la prospettiva della vita eterna. Nella celebrazione della solennità di tutti i santi e nella commemorazione dei fedeli defunti, che il calendario liturgico propone in diretta successione per il loro intimo legame, la gioia e le lacrime trovano una sintesi che ha in Cristo il suo fondamento e la sua consolante certezza»224.

1. “TUTTI… COMUNICHIAMO NELLA STESSA CARITÀ DI DIO” (LUMEN GENTIUM 49): LA COMUNIONE IN CRISTO TRA I VIVI E I DEFUNTI La Chiesa, quale popolo pellegrinante verso il compimento del regno di Dio, vive in continua tensione verso la perfezione escatologica. Allora giungerà a compimento la communio sanctorum nella quale ogni suo membro beneficerà della crescita di tutto intero il corpo ecclesiale nella piena partecipazione alla grazia della figliolanza divina guadagnataci dal sacrificio di Cristo sulla croce. Solo allora, nella parusia di Cristo alla fine dei tempi, quella comunione che si esperisce nell’oggi della Chiesa e che 222 223 224

Cfr Angelus Domini del 2 novembre 2003, in OR (3-4 novembre 2003), p. 5. Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1030. Angelus Domini del 1 novembre 1998, cit., 5.

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travalica i limiti della morte, perché abbraccia anche i fratelli che già ci hanno preceduti nel possesso della vita eterna, si realizzerà anche la parusia della Chiesa, quale comunità di santi animata dalla partecipazione alla stessa vita divina. La preghiera cristiana di suffragio per i defunti, in forza del vincolo di comunione che li lega ai vivi, deve avvenire solamente nella luce della risurrezione di Cristo, secondo quanto afferma lo stesso apostolo Paolo: «Se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede... Se poi noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto in questa vita, siamo da compiangere più di tutti gli uomini. Ora, invece, Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1Cor 15,17.19-20)225. Il ricordo che la Chiesa fa delle persone ormai venute a mancare, non si limita a richiamare alla memoria uomini e donne che appartengono definitivamente e totalmente al passato e che non hanno più alcuna relazione con la vita e con coloro che sono in vita, ma è un ricordo alimentato dalla speranza che tutto ciò che essi hanno fatto e vissuto, tutto ciò che essi sono stati, in Cristo non è andato perduto e attende un futuro di eternità. La Chiesa sa che nell’oggi è possibile comunicare con i defunti e che la promessa di immortalità è orientata ad un futuro di risurrezione che rende sopportabile il dramma della morte e sensata la fine dell’esistenza dell’uomo. Solamente la fede nella risurrezione, al di là di ogni falsa consolazione, può giustificare la preghiera della Chiesa a favore di coloro che pur essendo passati attraverso la morte, sono ancora, e attendono la realizzazione piena e definitiva della promessa di vita in Cristo nella risurrezione dei morti. La comunione dei santi oltrepassa infatti la soglia della morte. È una comunione che ha il suo centro e la sua scaturigine in Dio, il Dio dei viventi. «Beati fin d’ora i morti che muoiono nel Signore» recita il Libro dell’Apocalisse (Ap 14,13). Proprio questa verità fondamentale della fede della Chiesa, la comunione di coloro che muoiono nel Signore, riempie di significato il ricordo caro che la Chiesa fa dei defunti. La sua meditazione avviene nella speranza226. Questa le dice che la morte ha un limite nella comunione dei santi: la solitudine della morte è colmata (super-colmata!) dalla comunione dei santi in Dio, il Dio dei viventi, colui dal quale scaturisce la linfa vitale che vivifica l’umanità peccatrice e guarisce le ferite prodotte dal morso della morte. Il destino dell’uomo è la comunione, è il 225 226

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Cfr Angelus Domini del 3 novembre 2002, cit., 4. Cfr Angelus Domini del 1 novembre 2001, in OR (2-3 novembre 2001), p. 5.


compimento della vita eterna, è la comunione con i redenti dal Signore. Non è beato chi muore. Non può esserlo! Ma solamente colui che “muore nel Signore”. C’è, quindi, una morte “benedetta”, perché è partecipazione alla morte stessa di Cristo, sacrificio offerto al Padre, e una morte “maledetta”, da temere, che perché è quella del peccato e di chi muore nell’alienazione da Dio e dai fratelli. Ripetutamente gli stessi vangeli rivelano come Gesù Cristo avesse un potere assoluto sulla morte fisica, che egli considerava quasi come un sonno (cfr Mt 9,24-25; Lc 7,14-15; Gv 11,11). La morte di cui Gesù suggerisce di aver timore è però un’altra: quella dell’anima, che a motivo del peccato fa perdere all’uomo la vita divina della grazia, escludendolo definitivamente dalla vita e dalla felicità. È la morte del peccato, di coloro che vivono pensando di fare a meno di Dio, di sostituirsi a lui; di coloro che si illudono di avere il potere sulla vita e sulla morte e che vedono in Dio un possibile avversario e concorrente per la realizzazione delle loro brame e delle loro ambizioni. Dio ha tuttavia un progetto di salvezza per tutti gli uomini (la comunione è il destino dell’umanità rinnovata): egli vuole che tutti gli uomini siano salvi, ci dice san Paolo (cfr 1Tm 2,4). Per questa ragione ha mandato il suo Figlio (cfr Gv 3,16), perché ogni uomo abbia la vita e l’abbia “in abbondanza”, aggiunge Giovanni (cfr Gv 10,10). Egli non si rassegna a perdere nessuno dei suoi figli, ma li chiama a possedere in eredità la vita divina, perché siano santi e immacolati al suo cospetto nella carità (cfr Ef 1,4), nell’umanità nuova trasfigurata dalla potenza dello Spirito per ereditare i cieli nuovi e la nuova terra in cui ha stabile dimora la giustizia (cfr 2Pt 3,13)227. Con questa speranza la liturgia insegna a pregare per tutti. Non si può infatti disperare definitivamente della salvezza di qualcuno, poiché il vincolo di comunione che lega tutti i membri della Chiesa è più forte della stessa morte e la misericordia e la grazia di Dio sovrabbondano lì dove ha abbondato il peccato (cfr Rm 5,20)228. Questa solida speranza, che poggia sul mistero pasquale di Cristo e sulle sue sicure promesse, non oscura comunque la consapevolezza che anche coloro che hanno attraversato il limite della morte nella loro esistenza sono stati partecipi della fragilità propria di ogni essere umano. 227 228

Cfr l. c. Cfr Angelus Domini del 1 novembre 1999, cit., 6.

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Per questo motivo il credente, in forza del vincolo di comunione che lo lega a loro, sente forte il dovere, nonché il desiderio che scaturisce dal cuore, di offrire loro l’aiuto affettuoso della preghiera, affinché qualunque eventuale residuo di umana debolezza, che possa ancora ritardare il loro felice incontro con Dio, sia cancellato definitivamente229. La preghiera, afferma Giovanni Paolo II in un’altra occasione, si fa più intensa e sentita quando è per le persone care, per i familiari, per coloro con i quali durante l’esistenza storica si sono intrattenuti profondissimi vincoli di affetto. La commemorazione dei fedeli defunti richiama infatti suggestivamente anche il tema della famiglia. Ridestando appunto il ricordo delle persone care che hanno già lasciato questa terra. Questo fatto contribuisce a sperimentare quella comunione che va oltre il tempo e unisce le generazioni230. «Si tratta di un rapporto spirituale, sostanziato di affetti, di ricordi e soprattutto di preghiera, che ha il suo fondamento solido nella certezza, colta già in qualche modo dalla ragione e corroborata dalla fede, che l’esistenza dell’uomo non si conclude sulla terra. La morte apre per le anime un nuovo orizzonte di vita, nella direzione segnata dal giudizio di Dio sul bene e sul male compiuto. La fede anzi ci assicura che, nel modo misterioso noto solo alla divina Sapienza, anche i corpi risorgeranno alla fine del tempo. Dio vuol salvare tutto l’uomo, nella dimensione spirituale come in quella corporea»231. 229 Parole pronunciate al cimitero di Aldumena a Madrid durante una Eucaristia celebrata “in privato”, 2 novembre 1982, cit., 3. Il fondamento della preghiera di suffragio si trova nella comunione del Corpo Mistico. Come ribadisce il Concilio Vaticano II: «La Chiesa pellegrinante sulla terra, ben consapevole di questa comunione di tutto il Corpo Mistico di Gesù Cristo, fino dai primi tempi della religione cristiana ha coltivato con grande pietà la memoria dei defunti» (Lumen Gentium 50). La Chiesa pertanto raccomanda la visita ai cimiteri, la cura dei sepolcri e i suffragi come testimonianza di fiduciosa speranza e alimento del vincolo di amicizia con i trapassati, pur nel dolore per il distacco dai propri cari. Cfr anche l’Angelus Domini del 2 novembre 1997, in OR (3-4 novembre 1997), p. 4, ove il Papa fa riferimento anche alla Costituzione pastorale della Chiesa in cui si afferma: «La fede offrendosi con solidi argomenti a chiunque voglia riflettere, dà una risposta alle sue ansietà circa la sorte futura; e al tempo stesso dà la possibilità di comunicare in Cristo con i propri cari già rapiti dalla morte, col dare la speranza che essi abbiano già raggiunto la vera vita presso Dio» Gaudium et Spes 18). 230 Cfr Angelus Domini del 1 novembre 1994, cit., 6. 231 L. c.

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La famiglia è il “luogo” delle relazioni, degli affetti, del mutuo servizio, dell’incontro, dello scambio di esperienze e della trasmissione di valori, principi, tradizioni. È “lo spazio vitale” in cui la persona umana si costruisce, cresce, matura, soffre, gioisce, spera. I legami che in essa nascono, crescono e maturano, non possono essere spezzati neppure dalla morte che lacera sì, ma non per questo annulla e distrugge totalmente quanto ha segnato un’intera esistenza. Il Papa a questo riguardo non ha dubbi. Egli sottolinea non solo il significato che la comunione dei defunti rappresenta per la famiglia, ma anche il senso che quest’ultima ha per la comprensione dell’autentica natura della speranza cristiana e della comunione ecclesiale che supera le barriere imposte dalla morte. La famiglia è un “luogo” particolare dell’uomo. Essa ha un ruolo fondamentale e insostituibile per la sua nascita, la venuta al mondo, evento carico di gioia, e anche, forse soprattutto, per la sua morte. In essa, infatti, si risente la sua scomparsa, si sperimenta come una perdita irreparabile la morte del congiunto, della persona amata, l’interruzione dei legami di affetto che la legavano al resto dei familiari rimasti in vita232. Per questa ragione il ricordo dei defunti è di grande importanza per la famiglia, per la sua identità, per il suo cammino di maturazione, per comprendere il suo passato e per costruire il suo futuro. L’incontro tra le famiglie e i propri cari defunti avviene spesso nel silenzio, nella preghiera, nella meditazione, presso le loro tombe. Queste ultime sono il segno visibile di quel legame indissolubile che lega i vivi ai morti, la testimonianza silenziosa, ma altrettanto incisiva, della speranza che un giorno ci si possa nuovamente ricongiungere in un abbraccio che nulla potrà mai più dis-giungere. Nella visita alle tombe delle persone amate, confessò il Papa durante la recita dell’Angelus nella commemorazione dei defunti dell’80: «Rivivono ricordi gioiosi e dolorosi; a volte le lacrime cominciano a scorrere sul viso, così grande è il senso della vicinanza, nonostante la morte, così grande è la commozione! Appartengono alla famiglia anche coloro che sono dipartiti, e tuttavia rimangono nei cuori, perché tanto profondamente ci ha legato ad essi il mistero della vita e dell’amore»233.

232 233

Cfr Angelus Domini del 2 novembre 1980, cit., 3. L. c.

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Nel ricordo di quanti sono morti, per l’unica fede che unisce in un vincolo saldo a Cristo risorto, si oltrepassano misteriosamente i limiti della loro assenza, il cui segno è la tomba fredda, e si intensifica quella comunione che è partecipazione alla vita stessa di Dio. I limiti dell’assenza! Il dolore, il dramma consistono infatti nell’assenza, in una presenza che non c’è più e che viene oramai negata, completamente, senza riserve; in una comunione che sembra infranta definitivamente; in un volto che non si mostra più, che non può essere più visto, guardato, il cui sguardo non può essere più incrociato, o forse perfino evitato. L’assenza è grave perché fa sì che una voce non si possa più udire, una mano non si possa mai più stringere e un passo non si possa mai più, per sempre, udire. L’assenza è un vuoto che rimane tale, che niente e nessuno potrà mai colmare, se non colui o colei che l’hanno prodotta con la loro dipartita, con la loro morte. E ciò non è più possibile. La fede ci dice, tuttavia, contro ogni umana e disperata rassegnazione, che questa assenza è stata colmata dal Risorto. L’assenza, infatti, anela ad una presenza; per sua natura attende una presenza ed è gravida di una presenza: di una Presenza! Il credente non ha paura di abitare tutto il vuoto dell’assenza perché attende, nella speranza, la presenza donata dal Risorto, e in lui dalla comunione dei fratelli. L’assenza delle persone care venute a mancare con la morte è dunque per il cristiano abitata dalla presenza del Risorto e in lui dei fratelli e delle sorelle già defunti. Ecco perché la tristezza del cristiano di fronte alla morte, legittima, naturale, ci appare nella forma di una mestizia consolata e fecondata dalla speranza. Solamente in nome dell’unione con Cristo ha senso il ricordo dei defunti, un ricordo che diventa comunione reale, viva, attuale, con coloro che sono morti. La comunione dei santi è la ragione per cui il pensiero che i vivi rivolgono ai loro cari estinti, non si confonde e sbiadisce in un mero ricordo nostalgico e amaro ma, alimentato e informato dalla speranza, sia gravido di gioia e di attesa di quella comunione perfetta in Cristo che sarà compiuta alla fine dei tempi. La comunione dei santi, poi, non è da considerarsi in opposizione a quella comunione che anima la vita degli uomini e delle comunità nell’oggi, ma ne è la pienezza, la perfezione. Essa non ne è neppure il frutto diretto, l’effetto immediato, perché è dono escatologico di Dio di cui la Chiesa beneficia soprattutto nella partecipazione all’unico pane e all’unico calice. Ma non per questo è estranea a tutti quei germi di solidarietà sincera, di mutuo affetto e di reciproco servizio che sono gli elementi fondamentali di quella comunione che già oggi gli uomini sono

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chiamati a sperimentare. La comunione del cielo non è dunque estranea a quella della terra poiché questa ne è un anticipo, seppure imperfetto, una caparra, la profezia. I defunti, con i quali si stabiliscono rapporti di profonda comunione, proprio per la stretta solidarietà che i vivi stabiliscono con essi nella fede del Signore risorto, tornano alla memoria di ciascuno, emergendo dal passato, come animati da un desiderio di riannodare un dialogo che la morte aveva bruscamente interrotto. Così si costituisce una ammirabile assemblea, nella quale i vivi incontrano i propri defunti, e con loro rinsaldano i vincoli della comunione. Una comunione vera e non illusoria, garantita da Cristo che ha voluto vivere nella sua carne l’esperienza della nostra morte per trionfare su di essa con la sua resurrezione gloriosa a vantaggio di coloro che sono stati redenti dal suo sangue234. Ritemprato in questa certezza il credente vive nella convinzione che i defunti “vivono con Cristo”, dopo essere stati sepolti con lui nella morte (cfr Rm 6, 4), e nella speranza che anch’egli sia alla fine associato al destino di gloria del Signore risorto235. Se tuttavia per loro il tempo della prova è finito, cedendo il posto al tempo della ricompensa, per coloro che sono rimasti in vita il Signore Gesù prepara ancora un tempo in cui bisogna testimoniare la propria fedeltà a lui, rendere ragione della speranza che risiede nei cuori e vivere in una carità operosa nell’attesa della sua venuta nella gloria del Padre suo. Per questa ragione, nonostante il velo di tristezza suscitato dalla nostalgia della presenza visibile delle persone amate venute a mancare, i credenti vivono nella gioia consolante che scaturisce dalla certezza che essi hanno già raggiunto la serenità della “patria” comune, dimora di tutti i redenti dal Signore, meta del pellegrinaggio terreno di tutti i suoi discepoli e degli uomini di buona volontà. Nella fede e nella preghiera ristabiliamo così i vincoli familiari con i morti. Essi, in attesa della risurrezione, già vedono il Signore “faccia a faccia” (cfr 1Cor 13,12), e perciò sono di incoraggiamento per chi ancora continua il suo pellegrinaggio terreno; sono uno sprone a proseguire il cammino, faticoso e duro, che ancora resta e che va percorso sino alla fine. Con la morte, esorta il Papa, l’uomo non deve ingannarsi pensando che la terra rappresenti per lui quella città stabile che egli ricerca e che sa essere 234 Parole pronunciate al cimitero di Aldumena a Madrid durante una Eucaristia celebrata “in privato”, 2 novembre 1982, cit., 3. 235 Cfr l. c.

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invece quella futura (cfr Eb 13,14). Egli deve comprendere invece che essa è solamente una tappa, indispensabile, del suo cammino verso la pienezza di vita della Gerusalemme celeste. Ecco perché il pensiero costante della Chiesa ai suoi membri ormai defunti, è un aiuto sincero che tiene desta l’attesa di coloro che ancora sono in statu viae perché aspirino a congiungersi perfettamente a coloro che già godono della perfetta comunione con il Signore. Questa comunione, prosegue il Papa, è possibile perché «c’è un terreno comune tra noi e loro che ce li rende vicini ed è il medesimo inserimento nel mistero trinitario del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo sulla base dello stesso battesimo: qui noi ci diamo la mano perché in quest’ambito non esiste la morte, ma solo un’unica corrente di vita intramontabile»236.

Tale coscienza accompagna l’esistenza dei redenti e li conforta per la perdita delle persone amate. La consolazione scaturisce dalla fede che ha il potere di sollevare i sigilli delle tombe e ci permette di pensare a quelli che sono morti come a persone che, per opera di Cristo, vivono in Dio. Essi vivono! I vincoli di amicizia e di unità apparentemente interrotti dalla morte sono rinsaldati invece nella partecipazione al sacrificio eucaristico, caparra della vita futura, che è il sostegno solido della speranza della vita eterna, una speranza che purifica e rende il credente pronto per ereditare la gloria (cfr 1Gv 3,3)237.

2. I SACRAMENTI DELLA CHIESA: CELEBRAZIONE DELLA SPERANZA CHE È PIÙ FORTE DELLA MORTE

L’economia sacramentale della Chiesa si radica essenzialmente nell’eschaton di Cristo. Questi è venuto per annunciare e instaurare la basileía tou÷ Theou÷, secondo il lóghion di Mc 1,15, e la predicazione in lui è accompagnata dall’agire che è egualmente una manifestazione in atto del regno escatologico di Dio ormai giunto. La passione e morte di Gesù, il Cristo, e la conseguente manifestazione del suo stato di Kirios con la risurrezione dai morti, sono la realizzazione di quel regno che tuttavia conoscerà la sua perfetta consumazione alla fine dei tempi, quando Dio sarà tutto in 236 237

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L. c. Cfr Omelia al cimitero del Verano del 1 novembre 1979, cit., 1-2.


tutte le cose e a lui sarà sottomesso il cosmo intero. I sacramenti della Chiesa sono le azioni di grazia in cui viene celebrata e anticipatamente sperimentata la salvezza escatologica e in cui irrompono nell’oggi della storia i beni del regno futuro. Nella celebrazione dei sacramenti, infatti, per la passione-morte e risurrezione di Cristo, già viene comunicata alla Chiesa la vittoria pasquale del suo Signore sul peccato e sulla morte in vista della sua perfetta partecipazione alla gloria della Trinità santa. Mediante i sacramenti, e soprattutto mediante il battesimo e la comunicazione al banchetto eucaristico, il credente è reso già cittadino di quella città in cui la morte non ha più alcun potere, in cui non c’è spazio per le tenebre e la tristezza del lutto, perché in essa risplende unicamente la luce di Cristo, Agnello immolato e glorioso, Signore della vita e della morte (cfr Ap 21). Questa certezza non annulla comunque l’attesa dei cieli nuovi e della terra nuova, poiché la caratteristica fondamentale della Chiesa nel tempo è quella di essere in cammino verso la venuta di Cristo nella gloria. Il tempo della Chiesa, proprio in forza dell’economia sacramentale, è un avvento; un’attesa, cioè, e un annuncio del mondo futuro in cui la Sposa sarà introdotta al banchetto nuziale con Cristo suo sposo. I sacramenti afferrano così l’uomo nel suo presente e lo inseriscono nell’avvenire, coinvolgendo in questo dinamismo di grazia tutto il suo essere, nella sua vita e nella sua morte: quest’ultima realizza così quell’unione mistica con il Signore risorto che in lui si era prodotta già attraverso la grazia sacramentale.

2.1. Il Battesimo, lavacro di vita nuova Il Catechismo della Chiesa Cattolica ripreso da Giovanni Paolo II ci ricorda che «mediante il battesimo, il cristiano è già sacramentalmente “morto con Cristo”, per vivere di una vita nuova; e se noi moriamo nella grazia di Cristo, la morte fisica consuma questo “morire con Cristo” e compie la nostra incorporazione a Lui nel suo atto redentore» (n. 1010)238. Il cristiano, infatti, come dice l’Apostolo, è già “morto” per il battesimo e la sua esistenza è misteriosamente «nascosta con Cristo in Dio» (Col 3,3). Ciò che si compie esistenzialmente nella morte è il compimento di quanto si è realizzato nel cristiano sacramentalmente nel battesimo; di 238

Cfr Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 6 novembre 2001, cit., 5.

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quanto si è nutrito in lui mediante gli altri sacramenti, soprattutto l’Eucaristia, e nella stessa vita di fede. Il battesimo è l’inizio di quel cammino che nella morte trova la sua meta. Già nel battesimo il cristiano comincia a conoscere quella morte che lo avvolgerà totalmente alla fine della sua esistenza; già lì egli scende nel sepolcro in stretta solidarietà con l’itinerario pasquale di Cristo, e lì riprende anche il suo cammino verso la pienezza di Cristo risorto. Questa verità centrale della fede cristiana, fortemente sottolineata dagli stessi scritti neotestamentari e dalla riflessione patristica, nonché affermata e celebrata nella vita liturgica della Chiesa, è ripresa e riproposta efficacemente dal Papa il quale è convinto che sia l’unica chiave di lettura possibile per penetrare nel mistero profondo della morte.

2.1.1. Il martirio, battesimo di sangue Al destino di Cristo ogni cristiano è associato mediante il battesimo, ma in maniera speciale lo sono i martiri, nei quali si riflette compiutamente il suo mistero pasquale. La loro testimonianza, infatti, vissuta sino all’effusione del sangue, li introduce in modo particolare in questo mistero santo. «Con la vostra perseveranza — dice Gesù — salverete le vostre anime» (Lc 21,19). Come egli stesso conquistò la nuova vita accettando la morte, così i martiri accettando la morte conquistano la vita a cui Cristo ha dato inizio nella sua risurrezione239. Il martirio è dunque la perfetta partecipazione alla morte di Cristo, è la pienezza del battesimo ed è esso stesso battesimo di sangue. Per la comunione alla morte di Cristo i martiri sono stati resi partecipi anche della vita nuova e piena che smentisce l’esperienza della morte. Smentisce innanzitutto la certezza di coloro che, stolti, pensavano di averli ormai definitivamente privati della vita proprio per aver inflitto loro la morte (cfr Sap 3,2-3: «...Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina»). Una convinzione ingannevole perché in verità «essi sono nella pace» (Sap 3,3), e questo perché il loro martirio ha capovolto il comune modo di pensare: nell’atto del martirio ha infatti luogo una radicale inversione dei criteri e dei fondamenti stessi del pensare. «Così 239

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Cfr Omelia tenuta a Otranto il 5 ottobre 1980, cit., 2.


dunque — afferma Giovanni Paolo II — grazie alla forza della fede ed alla potenza della speranza, cambiano in un certo senso le proporzioni: le proporzioni della vita e della morte, della sconfitta e della vittoria, dello spogliamento e dell’elevazione»240. La morte umana dei martiri, la morte legata alla sofferenza e al tormento, così come la morte di Cristo sulla croce, si arrende di fronte a un’altra realtà che supera le aspettative dell’uomo, la sua ragione: «Le anime dei giusti... sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà» (Sap 3,1). È la speranza nell’intervento di Dio e nella sua fedeltà che colma il fossato provocato dalla morte e dalla crudeltà degli uomini e trasforma il no della morte nel sì di Dio alla vita, alla vita eterna. Questa verità non annulla il fatto del tormento e della morte, così come non annullò il fatto della passione e della morte di Cristo. I martiri, infatti, sebbene molta agiografia li presenti come impassibili e imperturbabili di fronte ai supplizi e alla fine tragica della loro vita, e molta iconografia li rappresenti proprio così, il più delle volte hanno di certo affrontato il mistero della sofferenza estrema e ancora di più della morte cruenta, con sentimenti insieme di paura e speranza, di timore e gioia; con profonda umanità e con profondissima fede, confortati dall’azione di Dio il quale solamente ha il potere di trasformare questo evento. «Lo trasforma già perfino nella sua trama terrestre, mediante la potenza della fede che si rivela nelle anime dei martiri dinanzi al tormento ed alla sofferenza: “Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità” (Sap 3,4). La forza di questa fede e la forza della speranza che proviene da Dio sono più potenti del castigo e della morte stessa. I martiri rendono testimonianza a Cristo proprio per questa forza della fede e della speranza»241.

Essi, infatti, divenuti simili a lui nella passione e nella morte, proclamano contemporaneamente con il loro stesso sacrificio la potenza della sua risurrezione, lasciandosi così conformare perfettamente al loro Signore. Anche il “modo” di affrontare la morte da parte dei martiri è dunque una testimonianza della loro partecipazione alla vittoria pasquale di Cristo. 240 241

L. c. L. c.

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La morte per loro è stata un banco di prova, l’occasione per accogliere liberamente e senza riserve l’offerta di amicizia fatta da Dio nel suo Figlio, l’occasione per testimoniare in maniera compiuta la loro fedeltà a Cristo e divenirne in tal modo suoi perfetti imitatori sino alla fine; ecco perché «in cambio d’una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé» (Sap 3,5).

2.2. L’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del Signore La Chiesa cammina nel tempo sorretta dalla presenza dello Spirito del Risorto che conferma la sua predicazione con segni e prodigi, e la conforma sempre più a Cristo suo sposo. L’azione dello Spirito nella Chiesa è particolarmente visibile nella celebrazione dei sacramenti e specialmente dell’Eucaristia che è il cibo dato alla comunità escatologica perché si alimenti nel suo itinerario verso la pienezza del regno. L’Eucaristia è il nutrimento e il sostegno della Chiesa la quale trova in essa, fonte e culmine di tutta la sua vita, l’aiuto nella fatica del cammino e la consolazione nelle tribolazioni. L’Eucaristia dona alla Chiesa, che sosta come assemblea radunata nel nome della Trinità santissima attorno alla mensa della Parola e del Pane di vita, la consapevolezza che il Signore, fedele alla promessa fatta ai suoi discepoli prima di essere consegnato alla morte, è presente e condivide il suo viaggio terreno, le è costantemente accanto e la associa alla sua comunione di vita con il Padre suo e lo Spirito Santo. La Chiesa, dunque, nella partecipazione al Sacrificio Eucaristico viene fortificata nella comunione vitale con il suo Signore, morto e risorto, e in questa comunione viene associata alla sua vittoria pasquale sul peccato e sulla morte. Il singolo fedele, quale membro eletto dell’Ecclesia de Eucharistia, partecipa anch’egli a quella comunione più forte della morte e trova soccorso in quel cibo che è viatico per la vita eterna e farmaco di immortalità, che alimenta la sua speranza e la sua attesa della salvezza definitiva. Con la gioia nel cuore egli, in comunione con i fratelli di fede, proclama nella celebrazione del sacrificio eucaristico la morte del Signore “finché egli venga” (cfr 1Cor 11,26)242.

242

Cfr a questo proposito soprattutto Lumen Gentium 8 ed Ecclesia de Eucharistia 1, in Il Regno (documenti) n. 924 (1 marzo 2003), p. 257.

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L’Eucaristia è il memoriale della passione, morte e risurrezione di Cristo. Ne è l’attualizzazione sacramentale. Nel triduo santo, la Chiesa rivive i “misteri dolorosi” degli ultimi giorni della vicenda storica di Gesù. Di fronte al Crocifisso ricevono drammatica rilevanza le parole da lui pronunciate durante l’Ultima Cena, consumata assieme ai suoi discepoli: «Questo è il sangue mio dell’alleanza, che è sparso per molti, in remissione dei peccati» (Mc 14,24; cfr Mt 26,28; Lc 22,20). Nelle parole da lui pronunciate nel cenacolo viene espresso il significato della sua passione e della sua morte: Gesù ha voluto offrire la sua vita in sacrificio per la remissione dei peccati dell’umanità, scegliendo a tal fine la morte più crudele e umiliante, la crocifissione. L’Eucaristia, la passione e morte di Gesù in Croce, sono un mistero che si fa insondabile per la ragione umana. Dio che si fa uomo e che soffre per salvare l’uomo dal suo destino di morte, caricandosi di tutta la tragedia dell’umanità peccatrice. La salita al Calvario, indescrivibile sofferenza sfociata nel terribile supplizio della crocifissione, è la testimonianza chiara di questo mistero che supera tutti i possibili ragionamenti umani e tutte le possibili previsioni. Affermando che il Signore istituì il sacrificio eucaristico proprio nella notte in cui fu tradito (cfr 1Cor 11,23), l’apostolo Paolo vuole porre in stretta connessione l’Eucaristia con gli ultimi eventi drammatici della vita di Gesù. L’Eucaristia, infatti, porta indelebilmente inscritto l’evento della passione e della morte del Signore. Non ne è solo l’evocazione, precisa il Papa, ma la ri-presentazione sacramentale. Essa è il sacrificio della croce che si perpetua nei secoli243. In forza del suo intimo rapporto con il sacrificio del Golgota, conclude il Papa, «l’Eucaristia è sacrificio in senso proprio, e non solo in senso generico, come se si trattasse del semplice offrirsi di Cristo quale cibo spirituale ai fedeli. Il dono infatti del suo amore e della sua obbedienza fino all’estremo della vita (cfr Gv 10,17-18) è in primo luogo un dono al Padre suo. Certamente, è dono in favore nostro, anzi di tutta l’umanità (cfr Mt 26,28; Mc 14,24; Lc 22,20; Gv 10,15), ma dono innanzitutto al Padre»244.

Il sacrificio offerto da Cristo fu accetto al Padre il quale ha ricambiato questa totale donazione del Figlio suo, con la sua paterna 243 244

Cfr Ecclesia de Eucharistia 11, cit., 259. Ibid., 13, cit., 260.

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donazione, cioè col dono della nuova vita immortale nella risurrezione anche a vantaggio di coloro che sono stati redenti dalla sua morte245. «In questa luce di fede, ci sentiamo dunque ancor più vicini ai nostri fratelli defunti: la morte apparentemente ci ha separati, ma la potenza di Cristo e del suo Spirito ci unisce in modo ancora più profondo. Nutriti del Pane della vita, anche noi, insieme con quanti ci hanno preceduto, attendiamo con ferma speranza la nostra piena manifestazione»246.

Forte di questa convinzione, la Chiesa non ha mancato di evidenziare l’intimo legame che sussiste tra l’Eucaristia, memoriale della morte di Gesù, del suo sacrificio sulla croce, e la morte dell’uomo. Per l’Eucaristia, infatti, la morte ottiene un significato nuovo e straordinariamente potente: essa è dono, offerta, sacrificio, amicizia donata sino alla fine e senza misura, consegna, esodo, passaggio. L’Eucaristia è memoriale della risurrezione di Gesù, della sua vittoria sul peccato e sulla sua più dura e dolorosa conseguenza (la morte), ed è dunque mistero che supera la desolante solitudine della morte e che infrange il suo imbarazzante e assordante silenzio. Nella sua liturgia la Chiesa esprime l’orientamento escatologico di tutta la sua vita e della sua opera. Questo orientamento, che si manifesta compiutamente nella celebrazione dell’Eucaristia, trova un momento privilegiato nella celebrazione della solennità di tutti i santi e nella commemorazione dei fedeli defunti. La solennità di tutti i santi, in particolare, è un aiuto ad approfondire una verità fondamentale della fede cristiana, che la Chiesa professa nel “Credo”. A questo riguardo afferma anche il Concilio Vaticano II: «Tutti quelli che sono di Cristo, avendo il suo Spirito formano una sola Chiesa e sono tra loro uniti in Lui (cfr Ef 4,16). L’unione quindi di coloro che sono in cammino coi fratelli morti nella pace di Cristo non è minimamente spezzata, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali... La nostra debolezza quindi è molto aiutata dalla loro fraterna sollecitudine» (Lumen Gentium 49)247. 245 Con l’Eucaristia, come afferma s. Ignazio di Antiochia ripreso dal Papa, si assimila, quel Pane «farmaco di immortalità, antidoto contro la morte» che è il segreto stesso della risurrezione (cfr Lettera agli Efesini, 20: PG 5, 661). 246 Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 5 novembre 2002, cit., 5. 247 Cfr Angelus Domini del 1 novembre 1997, cit., 4.

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L’Eucaristia avvicina a quell’amore che è più potente della morte: Ogni volta che mangiamo di questo pane e beviamo di questo calice, non soltanto annunciamo la morte del Redentore, ma ne proclamiamo anche la risurrezione, “nell’attesa della sua venuta” nella gloria (cfr 1Cor 11,26)248. L’Eucaristia, infatti, quale sacramento per eccellenza dell’amore divino, immerge nell’amore di Dio, fa partecipare di quello stesso amore, fa circolare nei credenti la medesima linfa vitale dell’amore trinitario, un amore al quale è assolutamente estranea ogni morte. Essa è memoriale della morte di Cristo, annuncio glorioso della sua risurrezione, sostegno del credente e alimento della sua speranza. Per la partecipazione all’Eucaristia il cristiano ha già sconfitto la morte, è già concittadino dei santi e familiare di Dio; partecipa già, nell’oggi della Chiesa peregrinante, a quella comunione d’amore che sarà piena solamente nell’eschaton, alla fine, quando saranno composte tutte le membra del Corpo di Cristo, saranno perfettamente ricongiunte con il loro Capo e gioiranno della comunione piena, definitiva e beatificante con la Trinità Santissima. Colui che partecipa al sacramento dell’Eucaristia, beve il sangue di Cristo, mangia la sua carne e dimora in lui (cfr Gv 6,56), «è così coinvolto nel suo stesso dinamismo di amore e di donazione di vita, per portare a pienezza l’originaria vocazione all’amore che è propria di ogni uomo (cfr Gn 1,27; 2,18-24)»249. Nella Chiesa il fedele vive immerso in quella comunione dei santi a cui è anche destinato. I santi per il Nuovo Testamento sono quei credenti che partecipano attraverso Cristo nello Spirito, alla stessa santità di Dio. La Chiesa ha compreso e vissuto la comunione dei santi come legame profondo e intimo dei credenti con le figure eminenti di santità, soprattutto i martiri e i confessori della fede, che con la loro testimonianza di vita resa a Cristo, a volte sino all’effusione del sangue, hanno edificato il popolo escatologico dei salvati. La comunione è stata anche compresa come comunione alle realtà sante, essenzialmente la Cena o Eucaristia nella quale si stabilisce e si alimenta la comunione fra tutti i fratelli nella fede per la partecipazione all’unica mensa. L’Eucaristia è allora il sacramento dell’intima unione dell’uomo con il Signore risorto e vivente, e nello stesso tempo, poiché è questo, è sacramento dell’intima unione di tutti i battezzati, dei santi, sia di coloro che ancora sono in statu viatoris, sia di coloro che

248 249

Cfr Ecclesia de Eucharistia 13, cit., 260. Evangelium Vitae 25, in EV/14, 2248.

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già godono della visio beatifica o che ancora hanno bisogno di essere perfettamente purificati dal fuoco della divina misericordia. «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Chi mangia di questo pane vivrà in eterno» (Gv 6,51) disse Gesù alle folle affamate. Sono infatti le parole che Gesù rivolse nella sinagoga di Cafarnao a coloro che lo seguivano dopo il miracolo della moltiplicazione dei pani. Presenta se stesso come la vera manna, donata dal Padre celeste perché gli uomini abbiano la vita eterna (cfr Gv 6,26-58). Queste sue parole anticipano in un certo modo il grande dono dell’ultima cena, l’Eucaristia. Proprio nella Pasqua, mistero della morte e risurrezione di Cristo, che costantemente si rende infatti attuale nell’Eucaristia, banchetto mistico, si realizza compiutamente il dono che il Messia fa di se stesso ai suoi. Questa offerta si perpetua nel banchetto in cui egli, Pane vivo, si offre in cibo ai suoi fratelli per unirli a sé in un vincolo d’amore e di vita più forte della morte250. Ogni volta che celebriamo l’Eucaristia, prendiamo parte alla Cena del Signore che anticipa il banchetto della gloria celeste. Questo glorioso banchetto avrà luogo sul monte santo di Gerusalemme e scaccerà per sempre la morte e il lutto (cfr Is 25,6.8). Verità, questa, ricordata anche dal Salmo 22 che evoca la confortante visione dell’orante ospitato da Dio stesso, il quale prepara la mensa per lui e gli versa il profumo sul capo (cfr Sal 22,5)251. Il potere dell’Agnello alle cui nozze escatologiche è introdotto colui che è stato redento dal suo sangue, è universale, la sua salvezza abbraccia ogni creatura sulla terra e sotto terra. Veramente il sacrificio redentore di Cristo tocca tutto e tutti, anche coloro che già sono morti. È un sacrificio perfetto e totale: sacrificio di Cristo al Padre e, allo stesso tempo, sacrificio in favore degli uomini, dei vivi e dei defunti252. L’Eucaristia è l’oblazione di Cristo sulla croce, è riscatto dal potere della morte. È anche inizio dei cieli nuovi e della terra nuova in cui la morte non sarà mai conosciuta. Per l’Eucaristia il credenete già entra nell’orbita vitale di Cristo risorto: «Beati gli invitati al banchetto delle nozze dell’Agnello!» (Ap 19,9).

250

Cfr Omelia per la Messa di suffragio per i Cardinali e i Vescovi defunti, 11 novembre 2004, in OR (12 novembre 2004), p. 5. 251 Cfr l. c. 252 Cfr Omelia del 1 novembre 1993, cit., 5.

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3. MARIA, DISCEPOLA DEL SIGNORE, IMMAGINE E MODELLO DELLA CHIESA Maria è immagine e modello della Chiesa. Essa ne è anche la primizia. La comunità dei discepoli del Signore risorto, di cui Maria è membro eletto, dovrà avere infatti il suo compimento nell’età futura, quando verrà il giorno del Signore (cfr 2Pt 3,10 citato da Lumen Gentium 68). La prospettiva escatologica è la più consona per comprendere la strettissima relazione esistente tra Maria e la Chiesa la quale contempla nella Madre del Signore, passata attraverso il sonno della morte e ora glorificata in corpo e anima nella compiuta conformazione al Figlio suo Gesù Cristo, la perfetta realizzazione dei discepoli di Cristo, l’esito ultimo e la condizione futura, escatologica, del popolo peregrinante verso la città futura e dalle solide fondamenta. Maria è il frutto maturo della vittoria pasquale di Gesù e l’anticipazione della universale destinazione alla gloria della Chiesa e dell’umanità intera. Ella è colei nella quale è possibile intravedere con chiarezza il destino dell’universo e l’orientamento della creazione chiamata a essere trasfigurata dall’azione dello Spirito perché, sconfitto il potere del peccato e della morte e tutte le loro manifestazioni e realizzazioni, lasci risplendere in tutto il suo fulgore la gloria di Dio.

3.1. La “dormizione” della Madre di Dio Commentando il brano di Filippesi 1,20b-21, il Papa, durante un’udienza generale del giugno del ’97, affrontò la delicata questione della morte della Vergine Maria; del mistero, cioè, che tradizionalmente viene chiamato “Dormitio Virginis”. La morte di Maria, precisò il Papa in quell’occasione, è comprensibile solamente come mistero dell’introduzione dell’uomo salvato dalla Pasqua di Cristo nella gloria celeste. Nella morte della Vergine, conseguenza e esito della redenzione di Cristo, che raggiunge le membra del suo corpo, vediamo cosa sarebbe stata la nostra morte se non ci fosse stato il peccato. Nella sua morte, infatti, si chiarisce anche la delicata questione riguardante il destino dell’uomo nel caso in cui non avesse peccato: se sarebbe stato esentato dalla morte corporale o meno. Il ragionamento del Papa sembra affermare indirettamente (perché in verità egli parla qui del destino esclusivo della Vergine Maria) che effettivamente ciò sarebbe accaduto, in quanto il peccato non ha introdotto la fine

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temporale e fisica dell’uomo in quanto essere finito, temporale, materiale, ma la morte come separazione da Dio, la morte totale, la sventurata alienazione dal Creatore. Comprendere il mistero della morte di Maria significa illuminare non poco il mistero della morte di ogni uomo, sebbene il transito della Vergine abbia un carattere peculiare e singolare che non può essere riconosciuto alla fine di tutti gli altri esseri viventi. Il Papa rimarcava inoltre come il magistero si sia sempre riferito a questo mistero con estrema sobrietà, lasciando aperte di fatto alcune questioni e chiarendone altre, le più importanti e spinose. Nel testo di riferimento, Lumen Gentium 59, che riprende quanto affermato precedentemente da Pio XII, e che recita: «L’Immacolata Vergine, preservata immune da ogni macchia di colpa originale, finito il corso della sua vita terrena, fu assunta alla celeste gloria in corpo e anima»253, di fatto non ci si pronuncia sulla questione della morte di Maria perché come era avvenuto in passato si giudicò non opportuno esprimere solennemente, come verità che doveva essere ammessa da tutti i credenti, la morte della Madre di Dio254. Alcuni teologi, ricordava ancora il Papa in quella occasione, hanno sostenuto l’esenzione della Vergine dalla morte e il suo passaggio diretto dalla vita terrena alla gloria celeste. Tuttavia questa opinione, egli annotava, è sconosciuta fino al XVII secolo, mentre in realtà esiste una tradizione comune che vede nella morte di Maria la sua introduzione alla gloria celeste255. 253

Pio XII, Costituzione apostolica Munificentissimus Deus (1 novembre 1950), in H. DENZINGER, Enchiridion Symbolorum, a cura di P. Hünermann, Bologna 1995, 39003904: 3903. 254 Cfr Udienza Generale del 25 giugno 1997, cit., 4. 255 Non vanno dimenticate a questo proposito tutte le tradizioni sorte intorno al sepolcro vuoto di Maria sin dal II sec. in cui si sviluppò tutta una serie di elogi funebri che diedero origine al primo nucleo a carattere giudeo-cristiano del Transitus Mariae. Progressivamente, però, si fece strada, oltre alla considerazione della sorte gloriosa di Maria dopo la morte — una sorte riservata ai giusti ai quali è promessa la vita eterna (cfr Mt 25,46; Gv 3,15; Rm 6,22), la corona di gloria (cfr Ap 2,10; 1Cor 9,25; 1Pt 5,4) — la convinzione dell’assunzione di Maria in corpo e anima al cielo, per la sua singolarissima e specialissima condizione e relazione con il Figlio suo Gesù Cristo. Questa persuasione che attraversa la storia della Chiesa e della riflessione teologica, troverà il suo approdo nella definizione di Pio XII del 1 novembre 1950 in cui tra l’altro non ci si pronuncia sulla morte di Maria, non intendendo dirimere la questione dell’immortalità della Vergine. Ciò che invece si può trarre dall’affermazione dogmatica in sostanza è che Maria, pienamente redenta da Cristo, nella totalità della sua persona, e resa a lui perfettamente conforme, in quanto radicalmente trasformata dallo

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Le questioni che questo singolare evento pone alla fede della Chiesa sono molteplici. Innanzitutto, ci si può chiedere se sia possibile che Maria di Nazareth abbia sperimentato nella sua carne il dramma della morte. A questa domanda si può dare una risposta se si riflette sul destino di Maria e sul suo rapporto con il Figlio. A partire da questi dati, infatti, sembra legittimo poter rispondere affermativamente alla questione, poiché, dal momento che Cristo è morto, sarebbe assai difficile sostenere il contrario per la Madre256. Dire questo non significa entrare in contrasto con quanto asserisce la Scrittura circa la morte intesa come castigo del peccato. Secondo questo dato, infatti, la Vergine, essendo stata preservata dal contagio della colpa originaria e non essendo incorsa in nessun peccato attuale, sarebbe stata conseguentemente preservata anche dalla morte. In effetti, il fatto che la Chiesa proclami Maria liberata dal peccato originale per singolare privilegio divino, non porta a concludere che ella abbia ricevuto anche l’immortalità corporale, poiché la Madre non è superiore al Figlio, che ha invece accettato volontariamente la morte, avendo assunto la natura umana. È invece chiaro che anche Maria, resa partecipe dell’offerta sacrificale e salvifica del Figlio, ha potuto condividere la sofferenza e la morte in vista della redenzione dell’umanità. Perciò stesso, per essere partecipe della risurrezione di Cristo, la Madre doveva condividerne anzitutto la morte. Spirito e posta sotto la signoria del Padre, è così assunta nella gloria della Trinità santa in corpo e anima divenendo immagine della Chiesa nella sua destinazione escatologica. 256 La testimonianza di moltissimi Padri della Chiesa — fa notare il Papa — non fa altro che corroborare questa conclusione. Essi, infatti, non hanno avuto dubbi al riguardo e in più occasioni hanno affrontato questa spinosa questione tentando di proporre delle soluzioni possibili. A questo proposito il Papa fa riferimento ad alcuni autori particolarmente significativi, quali san Giacomo di Sarug, secondo il quale “il coro dei dodici Apostoli” quando per Maria giunse “il tempo di camminare sulla via di tutte le generazioni”, la via cioè della morte, si raccolse per seppellire “il corpo virgineo della Benedetta” (Discorso sulla sepoltura della Santa Genitrice di Dio), san Modesto di Gerusalemme, il quale, dopo aver ampiamente parlato della “beatissima dormizione della gloriosissima Genitrice di Dio”, conclude il suo “encomio” esaltando l’intervento prodigioso di Cristo che “la risuscitò dal sepolcro” per assumerla con sé nella gloria (In dormitionem Deiparae semperque Virginis Mariae). San Giovanni Damasceno, per parte sua, si chiede: “Come mai colei che nel parto passò sopra tutti i limiti della natura, ora si piega alle sue leggi e il suo corpo immacolato viene sottoposto alla morte?”. E risponde: “Bisognava certo che la parte mortale venisse deposta per rivestirsi di immortalità, poiché anche il padrone della natura non ha rifiutato l’esperienza della morte. Egli, infatti, muore secondo la carne e con la morte distrugge la morte, alla corruzione elargisce l’incorruttibilità e il morire lo fa sorgente di risurrezione” (Panegirico sulla Dormizione della Madre di Dio).

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Il Nuovo Testamento non fornisce alcuna notizia sulle circostanze della morte di Maria. Questo silenzio, riferiva il Papa, in accordo con la grande tradizione di fede della Chiesa, induce a supporre che essa sia avvenuta normalmente, senza eventi eccezionali che eventualmente sarebbero stati di certo tramandati alle generazioni successive. Piuttosto che soffermarsi su sterili disquisizioni riguardanti le cause o le modalità della morte di Maria, per il Papa è utile invece ricercare l’atteggiamento spirituale della Vergine al momento della sua dipartita da questo mondo. A tale proposito, Giovanni Paolo II nella sua riflessione riprendeva quanto sostenuto da san Francesco di Sales il quale ritiene che la morte di Maria sia avvenuta come effetto di un “trasporto d’amore”. Il santo parla, esattamente, di un morire “nell’amore, a causa dell’amore e per amore”, giungendo perciò ad affermare che la Madre di Dio morì d’amore per suo figlio Gesù. Questa affermazione è non solo suggestiva, ma anche rende conto del significato profondo della morte di Maria, del suo specialissimo legame con il Figlio e della sua stretta solidarietà con la sua opera di salvezza. La morte della Madre di Dio è l’estensione della stessa morte di Cristo, atto di amore verso Dio e verso gli uomini; è la manifestazione diretta, senza ostacoli e veli, di questo amore e non può non avvenire se non come consumazione dell’amore. Per questa ragione, concludeva il Papa, qualunque sia stato il fatto organico e biologico che causò, sotto l’aspetto fisico, la cessazione della vita del corpo della Vergine, si può dire che il passaggio, il transito da questa all’altra vita fu per Maria una «maturazione della grazia nella gloria»257, e in questo senso, solo in questo, la sua morte può a ragione essere concepita come una “dormizione”. La stretta comunione di vita che lega Maria a suo Figlio ha indotto infatti alcuni Padri della Chiesa a descrivere Gesù stesso nell’atto di venire a prendere la sua madre nel momento della morte, per introdurla nella gloria celeste. Essi presentano, così, la morte di Maria come un evento d’amore che l’ha condotta a raggiungere il suo divin Figlio per condividerne la vita immortale. Certamente alla fine della sua esistenza terrena, Maria avrà sperimentato, come Paolo e più di lui, l’irresistibile desiderio di essere sciolta dal corpo per essere con Cristo per sempre (cfr Fil 1,23).

257

Udienza Generale del 25 giugno 1997, cit., 4 in cui viene citato il libro 7 del Traité de l’Amour de Dieu di s. Francesco di Sales.

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Il transito di Maria da questo mondo al Padre, in unione al Figlio suo, ha certo un carattere esclusivo e proprio, unico, come è unica la condizione della Vergine Madre di Dio, ma di certo l’esperienza della morte, comune eredità di tutti gli uomini, ha arricchito la persona della Vergine, non l’ha allontanata dall’umanità: passando per la morte, ella è in grado di esercitare con più efficacia la sua maternità spirituale verso coloro che giungono all’ora suprema della vita. La pietà cristiana e la devozione popolare non hanno mancato di registrare questa convinzione profonda quando invitano il fedele a rivolgere alla Vergine Maria l’invocazione perché preghi per l’uomo peccatore in ogni momento della vita e soprattutto nell’ora della sua morte. Inoltre, l’intera esistenza di Maria è stata vissuta come dono a Dio, disponibilità allo Spirito e in solidarietà con la missione del Figlio suo Gesù, sin dal primo istante, nell’assoluta apertura all’azione della grazia. Già nel mistero dell’Incarnazione la Vita stessa si è manifestata e resa visibile (cfr 1Gv 1,2). Una Vita che proprio sulla croce diventa vita donata, vita che sconfigge la morte e il principio di un’esistenza nuova nella comunione con il Padre. Maria, la Vergine Madre, è colei che ha accolto in sé la Vita, poiché anche il suo consenso al progetto di Dio comunicatole all’Annunciazione e la sua maternità si trovano alla sorgente stessa del mistero della vita che Cristo è venuto a donare agli uomini (cfr Gv 10,10). Attraverso la sua accoglienza e la sua cura premurosa per la vita del Verbo fatto carne, la vita dell’uomo è stata sottratta alla condanna della morte definitiva ed eterna. Per la sua accoglienza ella è divenuta la madre di coloro che rinascono alla vita nuova nelle acque del battesimo e che ormai vivono la stessa vita di Dio in Cristo258. Maria accoglie in sé il progetto di Dio confortata dalle parole rassicuranti dell’angelo che le dice: «Non temere, Maria… Nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,30.37). Tutta la sua esistenza è così avvolta dalla certezza che Dio le è vicino e l’accompagna con la sua provvidente benevolenza259. L’itinerario di sequela della Madre dietro al Figlio suo raggiunge il culmine ai piedi della Croce. Lì sta Maria, Mater dolorosa. Una donna col cuore squarciato dai dolori, ma pronta ad accettare la morte del Figlio. La Madre addolorata riconosce e accetta nell’olocausto di Gesù la volontà del Padre per la redenzione del mondo. Di Lei ricorda il Concilio Vaticano II: «Avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione 258 259

Cfr Evangelium Vitae 102, in EV/14, 2508. Cfr ibid., 105, in EV/14, 2516.

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col Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette (cfr Gv 19,25) soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al sacrificio di Lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata; e finalmente dallo stesso Gesù morente in croce fu data quale madre al discepolo con queste parole: Donna, ecco il tuo figlio (cfr Gv 19,26-27)» (Lumen Gentium, 58). [Mediante la fede] Maria è perfettamente unita a Cristo nella sua spoliazione […]. Ai piedi della croce Maria partecipa mediante la fede allo sconvolgente mistero di questa spoliazione. È questa forse la più profonda kenosi della fede nella storia dell’umanità. Mediante la fede la Madre partecipa alla morte del Figlio, alla sua morte redentrice […]. Sul Golgota Gesù mediante la croce ha confermato definitivamente di essere il “segno di contraddizione”, predetto da Simeone. Nello stesso tempo, là si sono adempiute le parole da lui rivolte a Maria: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2,35)»260.

Maria, proprio sotto la croce fu data come Madre a tutti gli uomini, chiamati a seguire fedelmente i passi del Figlio che per loro si è fatto obbediente fino alla morte e alla morte di croce261. Ella è la prima discepola che condivide anche il più doloroso itinerario di Gesù fin sul Calvario. “Stabat Mater dolorosa iuxta crucem lacrimosa” ripete la Chiesa nella sua memoria della passione del Signore. La Madre Addolorata è speranza e sostegno di tutti gli uomini pellegrini sulla terra, poiché anche sotto la croce ella ha sperimentato il silenzio e l’abbandono, senza che la sua fede vacillasse. A lei la Chiesa rivolge la sua invocazione: «Vergine Maria, che sei rimasta intrepida sotto la Croce e hai raccolto in grembo il corpo esanime di Gesù, aiutaci a capire che il nostro soffrire è partecipazione preziosa alla Passione del tuo divin Figlio […]. Guida i nostri passi a calcare le sue orme indelebili, che ci condurranno allo stupore e alla gioia della sua risurrezione»262. Se l’itinerario terreno di Maria dietro al suo Figlio trova sul Calvario il suo momento più drammatico e intenso, certamente anche nell’assun260

Redemptoris Mater. Lettera enciclica sulla Beata Vergine Maria nella vita della Chiesa in cammino (25 marzo 1987), 18, in EV/10, 1319. 261 Cfr Via Crucis al Colosseo del 10 aprile 1998, cit., 5. 262 Via crucis al Colosseo del 13 aprile 2001, in OR (15 aprile 2001), p. 12.

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zione al cielo ella ha ricalcato il destino del Cristo risorto ed ha anticipato quello di tutti gli uomini. Lei è la depositaria del forte desiderio di vita che il ricordo dei fedeli defunti come quello di coloro che già godono della visione di Dio suscita nel cuore. Maria è, infatti, la primizia dei redenti, l’aurora di salvezza per il genere umano. In lei la Chiesa vede riflesso il destino di gloria che attende tutta la comunità dei redenti dal Signore e già pregusta la gioia che è propria della Gerusalemme celeste263. Maria è perciò vivente parola di consolazione per la Chiesa nella sua lotta contro la morte. Glorificata accanto al Figlio suo, ella ce lo mostra e ci assicura che in lui le forze della morte sono già state sconfitte. Egli è l’Agnello immolato che vive con i segni della passione nello splendore della risurrezione. Solo lui domina tutti gli eventi della storia: ne scioglie i “sigilli” (cfr Ap 5,1-10) e afferma, nel tempo e oltre il tempo, il potere della vita sulla morte. Nell’apparizione della “nuova Gerusalemme”, del mondo nuovo verso cui tende la storia degli uomini264. La Chiesa, confortata dall’intercessione di Maria, come popolo della vita e per la vita, cammina fiduciosa verso la meta nella fiduciosa speranza della gloria 265.

263

Cfr Angelus Domini del 1 novembre 1994, in OR (1 novembre 1994), p. 6, in cui si richiama Lumen Gentium 68. 264 Cfr Evangelium Vitae 105, in EV/14, 2516. 265 Per quanto riguarda la ricchissima riflessione mariana di Giovanni Paolo II si rimanda a A. FUSI, Richiami mariani nel pensiero ecclesiologico di Giovanni Paolo II. Maria, “modello primordiale della Chiesa che cammina sulla via della fede”, Roma 1997, soprattutto la ricca bibliografia alle pp. 337-391 e il cap. III: Lo Spirito associa a sé Maria e la Chiesa nel realizzare la salvezza fino all’“eschaton”, p. 137 ss. in cui l’autore parla di Maria assunta che è la realizzazione piena dell’umanità. La Chiesa si rispecchia in lei e attende la propria glorificazione (p. 181). Inoltre, la Vergine Maria, dimora dello Spirito, è immagine già realizzata della Chiesa futura per cui la sua esemplarità spinge l’umanità alla riconciliazione (p. 182).

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CAPITOLO VI

DIMENSIONE ANTROPOLOGICA DELLA MORTE

1. L’UOMO A IMMAGINE DI DIO Il numero 22 di Gaudium et Spes, testo più volte incontrato nel corso di questo studio perché molto caro a Giovanni Paolo II, è un passaggio della Costituzione pastorale del Concilio in cui viene proposta una visone che potrebbe essere definita “cristica” dell’uomo. Qui si afferma che Cristo svela pienamente l’uomo a se stesso e gli fa nota la sua altissima vocazione. Questo testo del Concilio confessa l’intimo e imprescindibile legame che sussiste tra l’uomo e Cristo, tra i loro destini. Cristo rivela l’uomo non solo nel mistero della sua Incarnazione, ma anche in tutta la sua esistenza e principalmente nel suo mistero pasquale: Egli è luce che illumina il mistero dell’uomo nella sua nascita e nella sua morte e pertanto gli rende nota la sua altissima vocazione che è per la vita, per la vita eterna. È possibile conoscere l’uomo se si guarda al mistero di Cristo nella sua totalità, dalla sua nascita alla sua morte alla sua risurrezione gloriosa: l’uomo, immagine di Dio, è chiamato a raggiungere la statura di Cristo passando in lui e con lui anche attraverso l’esperienza della morte perché possa partecipare alla gloria della vita incorruttibile di Dio. L’uomo creato a immagine di Dio non indica tanto una natura creata (anima, spiritualità, corporeità) o qualche caratteristica presente nell’essere umano (le facoltà dell’anima), ma la persona in quanto tale che è per essenza libertà creata e relazione: relazione essenziale all’altro e soprattutto a Dio. L’uomo è libertà creata nella forma della chiamata e della risposta a questa chiamata; quest’ultima ha poi come epilogo la conformazione all’Imago Dei che è la vicenda filiale di Gesù. Aprirsi a lui significa diventare ciò per cui si è stati creati, significa diventare veramente uomini e avere la vita. La vita non è perciò una conquista umana, ma è un dono offerto a quanti accettano di porsi alla sequela di Cristo. A loro viene donata la pienezza della vita poiché in loro viene restaurata, rinnovata e condotta alla perfezione l’immagine di Dio.

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Il progetto di Dio sull’uomo è dunque quello della liberazione dalla morte e dalla corruzione e, positivamente, è quello che egli divenga “conforme all’immagine del Figlio suo” (cfr Rm 8,29). Solo nello splendore di questa immagine ricomposta, l’uomo può essere liberato dalla schiavitù dell’idolatria, radice e alimento della morte, e può ricostruire la fraternità dispersa a causa del peccato e ritrovare la sua vera identità di figlio adottivo di Dio in Cristo266.

2. L’UOMO, UNITÀ DI ANIMA E DI CORPO, PELLEGRINO DELL’ASSOLUTO L’antropologia biblica sconosce generalmente lo sdoppiamento dell’uomo in un composto di anima e corpo, di spirito e materia. La visione dell’uomo che si può trarre dalla Scrittura è infatti unitaria, poiché egli è compreso come un essere in cui il principio spirituale e quello materiale costituiscono l’unico e indivisibile individuo. Per questa ragione, a differenza di gran parte dell’antropologia di stampo ellenistico, la tradizione biblica non ha svalutato la dignità del corpo, riducendolo a mero strumento posto a servizio dell’anima, ma ha avuto per esso un grande rispetto e una considerevole attenzione e premura. Esso, infatti, non è il carcere dell’anima, la sede del male e di ogni vizio, ma è stato creato da Dio ed ha pertanto un valore irrinunciabile. La Chiesa infatti nel suo Simbolo di fede confessa di credere in un solo Dio, Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili, perché nulla di ciò che è stato creato è estraneo a Dio. Ciò trova la sua insuperabile e sublime conferma e pienezza nel mistero dell’Incarnazione del Verbo eterno di Dio il quale, fattosi carne, ha posto la sua tenda in mezzo agli uomini (cfr Gv 1,14), ha assunto la natura umana, fatta di peccato, ed ha vissuto un’esistenza autenticamente umana. La tradizione cristiana ha accolto la prospettiva veterotestamentaria e l’ha approfondita grazie alla considerazione del mistero centrale della sua fede: l’in-carnazione del Figlio di Dio. Facendosi uomo, assumendo la stessa carne dell’uomo, un corpo umano, il Verbo eterno di Dio ha mostrato la grande dignità del corpo umano e della materia, l’ha purificata e l’ha santificata consacrandola per la salvezza definitiva e la partecipazione alla gloria incorruttibile di Dio. 266

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Cfr Evangelium Vitae 36, in EV/14, 2289.


L’antropologia cristiana è dunque sensibile all’importanza centrale del corpo umano in quanto vede in esso non solo il “luogo” dell’incontro di Dio con l’uomo, dell’eternità col tempo, ma anche perché riconosce, in sintonia con quanto gran parte della riflessione antropologica contemporanea asserisce, che l’esperienza del corpo è la prima forma del sentimento dell’alterità: attraverso il corpo, infatti, l’altro viene sì riconosciuto e compreso come altro, ma nello stesso tempo grazie alla corporeità viene aperta la possibilità di incontrare l’altro, di comunicare con lui, di stabilire con lui una relazione. Se da un lato il corpo separa e distingue dagli altri, dall’altra esso è, anche qui, il “luogo” dell’incontro con loro. Avendo chiaro questo dato fondamentale dell’antropologia cristiana, non vanno dimenticate tuttavia quelle correnti di pensiero di matrice dichiaratamente materialista, che riducono l’uomo a mero composto organico che al pari di tutto il resto nasce, cresce e muore. Queste visioni, ritenute giustamente pericolose dal Papa e offensive nei confronti della dignità della persona umana, attraversano purtroppo la società contemporanea sotto nomi diversi e con rivestimenti cangianti, e permeano la mente anche di molti credenti267. Esse, introducendo una distorta visione dell’uomo non mancano tra l’altro di condizionare la stessa concezione della morte e del morire268. La fede cristiana, e il Papa nei suoi discorsi non manca di affermarlo, è un esempio eloquente di un grande realismo, utilizza un linguaggio che non cede a facili riduzioni o confusioni, ma che va diritto al cuore del problema, lo osserva e ne rivela la verità profonda. Giovanni Paolo II, infatti, si oppone a quelle che lui considera delle soluzioni assolutamente inconsistenti in quanto poco “radicali”, ovvero non adeguate per giungere alla radice stessa del problema dell’uomo, della sua nascita e della sua morte, e operare così la sua liberazione integrale della vita e della morte. La Chiesa sa che l’unione del Cristo con l’uomo è la sorgente della forza e ciò che evita ogni forma possibile di falso riduzionismo materialistico o spiritualistico, poiché “il Verbo ha dato all’uomo il potere di diventare figlio di Dio” (cfr Gv 1,12). L’unione con Cristo — afferma il Papa nella Redemptor hominis — è la forza che trasforma interiormente l’uomo e rende operante in lui un principio di vita nuova che non svanisce 267

Cfr T. MACHO, Morte, in Cosmo, corpo, cultura. Enciclopedia antropologica, cit.,

960-976. 268

Cfr tra l’altro G. CAVALCOLI, La teologia del corpo nel pensiero di Giovanni Paolo II, in Sacra Doctrina 28 (1983) 604-626.

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e non passa, ma dura per la vita eterna. Questa vita, promessa e offerta a ciascun uomo dal Padre in Gesù Cristo, è il compimento finale della vocazione dell’uomo e della sua sorte, preparategli da Dio sin dall’eternità. Questa sorte o destinazione divina dell’uomo si fa via e orientamento, al di sopra di tutte le tortuosità e le curve della dell’esperienza umana nel mondo temporale. Al di là anche della stessa morte e del traguardo della distruzione del corpo umano, poiché il Cristo appare all’uomo oltre questo traguardo dichiarando con forza: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me..., non morrà in eterno» (Gv 11,25). In Gesù Cristo crocifisso, deposto nel sepolcro e poi risorto, come recita un testo della Liturgia, «rifulge per noi la speranza della beata risurrezione, la promessa dell’immortalità futura»269, verso la quale l’uomo va attraverso la morte del corpo, condividendo con tutto il creato visibile questa necessità alla quale è soggetta la materia. La Chiesa conosce la verità delle parole: «È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla» (Gv 6,63) e sa che esse, malgrado le apparenze, esprimono la più alta affermazione dell’uomo: l’affermazione del corpo che lo Spirito vivifica e che solo lui può preservare dall’assoluto annientamento sotto l’azione distruttrice della morte270. La Chiesa vive di questa verità sull’uomo. Tutto ciò le permette di varcare le frontiere della temporaneità e, insieme, di pensare con sollecitudine a tutto ciò che nell’oggi della storia incide sulla vita dell’uomo, sulla vita dello spirito umano, in cui si esprime, irrefrenabile, la perenne inquietudine nell’attesa della vita eterna271. Già in precedenza, Wojtyla aveva ampiamente preso in esame questa questione. È interessante ad esempio la riflessione sul significato della morte e dell’immortalità, contenuta nel saggio L’uomo in prospettiva. Egli è dell’idea che prima ancora di domandarsi cosa sia la morte o cosa ci sarà dopo la morte, sia necessario comprendere innanzitutto chi sia l’uomo272.

269 Prefazio I della Messa per i defunti, in Messale Romano di Paolo VI, Città del Vaticano 1983, 371. 270 Cfr Redemptor hominis 18, in EV/6, 1242. 271 Cfr ibid., 18, in EV/6, 1243. 272 «Il cristianesimo non professa la verità sulla immortalità dell’anima sotto forma di un esistere astratto nel mondo delle idee pure, ma sotto forma di verità sul regno di Dio quale realizzazione ultima dell’uomo-persona nella unione beata con Dio “in visone beatifica”, e insieme nella piena realizzazione della comunione di persone create, denominata communio sanctorum» (L’uomo in prospettiva, cit., 1506).

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Per tentare di darne una definizione sintetica, ma anche ricchissima, egli si richiama a quanto afferma Gaudium et Spes 10. Secondo la Costituzione pastorale l’uomo costituisce un’unità di anima e corpo, sintetizzando in sé gli elementi del mondo materiale, sebbene non sbagli quando si percepisce come superiore alle cose materiali e irriducibile a una semplice particella della natura. Infatti, continua più in là il testo, egli, nella sua interiorità, trascende l’universo in quanto “possiede” un’anima spirituale e immortale (cfr Gaudium et Spes 14). Questa sua consapevolezza non viene intaccata dall’antropologia materialistica che vorrebbe negare la trascendenza propria dell’uomo riconducendo quest’ultimo al solo principio materiale e caduco. Qui si incunea la riflessione del Vaticano II, accogliendo su questo punto quanto le secolari analisi metafisiche hanno argomentato circa la natura trascendente dell’uomo, soprattutto nell’epoca contemporanea, e affronta la delicata questione della morte facendo leva sull’istinto del cuore che lo fa giudicare rettamente quando gli fa aborrire e respingere l’idea che con la morte tutto finisca per sempre e si vada incontro alla definitiva rovina e al totale annientamento (cfr Gaudium et Spes 18)273. Seguendo quanto afferma Isaia 45,15: «Vere tu es Deus absconditus», si potrebbe dire: «Vere tu es homo absconditus» poiché l’uomo è diverso e superiore rispetto a tutte le altre cose, ad esse inassimilabile. Ciò appare immediatamente e in maniera palese soprattutto dalla sua consapevolezza di essere innanzitutto altro rispetto a tutto ciò che lo circonda. Proprio da questa consapevolezza nasce in lui l’inquietudine e l’incapacità di trovare riposo nelle conquiste parziali della sua esistenza. Il suo esistere è il suo valore fondamentale e radicale. Eppure l’esperienza stessa mette in luce il 273 In Veglia Pasquale 1966, quando comincia il colloquio con Dio, Wojtyla esprime la sostanza di questa riflessione con un linguaggio e delle immagini poetiche, e afferma: «Nella storia il corpo umano muore più spesso e muore prima dell’albero. Perdura l’uomo oltre la soglia di morte nelle catacombe e nelle cripte. Perdura l’uomo che se ne va in tutti quelli che vengono dopo di lui. Perdura l’uomo che viene in tutti quelli che prima se ne andarono. Perdura l’uomo al di là da ogni partenza o venuta in sé e in Te. […] Nella storia ciascuno perde il suo corpo e s’avvia ad incontrarTi. Nell’istante della partenza ciascuno è più grande degli eventi di cui egli fu minima parte (scheggia di un certo secolo o scheggia di due secoli, riunite in una vita) Veglia Pasquale 1966, in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 206-207.

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paradosso per cui la sua diversità e la sua superiorità sembrano essere smentite: di fronte alla morte egli non sa dare l’immortalità né a sé, né alla persona amata, non sa rendere eterna l’esistenza e imperituro l’amore. Di fronte alla morte tutto, proprio tutto, sembra svanire. Ma, verrebbe da chiedersi, se l’uomo vive nel più profondo del proprio essere una certo tormento che lo spinge a ricercare oltre il limite della sua esistenza storica il compimento di sé e a desiderare una vita per sé e la persona amata che nulla sia in grado di mettere in discussione, perché allora il dramma della morte? È questa una domanda radicale a cui è necessario che egli stesso sappia dare una risposta altrettanto radicale. Per Wojtyla, infatti, la morte, per il suo forte legame con l’amore e con il legame d’amore tra le persone, è ciò che accade veramente quando l’uomo si suicida attraverso la scelta dell’anti-amore (suicidio morale), dopo aver egli stesso scelto in precedenza, con un atto della conoscenza, il dovere di amare. La vera morte è perciò la chiusura all’amore, la rinuncia all’amore e a quel dinamismo vitale che esso mette in moto nell’esistenza dell’uomo274. Poiché l’uomo è l’essere della trascendenza, dell’“oltrepassamento”, la cui esistenza non può essere ridotta unicamente a quella storica e passeggera, e per il quale la morte non rappresenta, non può rappresentare, la fine di ogni cosa, e poiché l’amore è ciò che gli consente di operare il “salto” dalla temporalità (finita, caduca, mortale) all’eternità per sé e per la persona amata, allora, nel momento in cui egli si chiude all’amore o si rassegna all’apparente sconfitta dell’amore di fronte alla morte, egli precipita veramente nella morte e nella disperazione. Egli, infatti, è per sua natura un essere destinato ad andare al di là della soglia, non solo perché supera i propri limiti procedendo verso un oggetto o soggetto diverso da sé (atto conoscitivo e volitivo), ma soprattutto perché opera un “oltrepassamento” verso il proprio interno, il proprio intimo. Qui, in questa sorta di “trascendenza verticale” egli scopre di non essere riducibile a sola materia, di possedere una natura spirituale che non trova nel mondo e nel suo orizzonte limitato, il suo conveniente punto di riferimento; scopre, cioè, che egli è chiamato a qualcosa che non può essergli dato compiutamente nell’oggi o nel mondo in cui vive la sua esistenza terrena275. L’uomo, che fa 274

Si veda a questo proposito la riflessione di T. Styczen!, Chi è veramente Giovanni Paolo II?, in T. STYCZEN⁄ – S. DZIWISZ, La preghiera del Getsemani continua, Lublin-Vaduz 2003, 129-134. 275 Cfr K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., 1059-1060. L’uomo è l’essere che non può

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esperienza dell’amore e della sua trascendenza, non è perciò sola materia, ma è persona, e in quanto tale porta inscritto in sé un destino eterno, il destino della consumazione perfetta dell’amore nell’Amore Trinitario. La vita cristiana è fondamentalmente ed essenzialmente un camminare attraverso le strade del mondo col cuore rivolto verso l’Alto, verso la meta che Dio ha preparato per coloro che lo amano e osservano la sua parola. È un cammino che già i santi hanno percorso sino in fondo, prima fra tutti la Vergine Madre del Signore. Il pellegrinaggio è dunque una dimensione essenziale della santità. I pellegrini sono coloro che cercano ogni giorno il regno di Dio confidando nella divina Provvidenza. Questa è l’autentica speranza cristiana, che non si confonde con una disperata fuga dalla storia. Essa è al contrario, uno stimolo insostituibile all’impegno concreto nel mondo e per il mondo, con lo sguardo però costantemente rivolto a Cristo, Dio fatto uomo, che apre la via della vita eterna276. L’uomo è per natura homo viator, la tensione verso l’Assoluto è per lui un orientamento che non si arresta al pensiero della morte, poiché è per lui essenziale, intima. Egli è per natura aperto all’Assoluto, alla ricerca di qualcosa, di Qualcuno, che sia il senso stesso della sua esistenza. Se è vero che la morte significa per l’uomo l’uscita dalle coordinate spazio-temporali che caratterizzano l’esistenza storica e mondana, è anche vero che la creatura umana non potrà mai emanciparsi totalmente dal riferimento a queste coordinate. Con la morte egli, infatti, trova definitivamente in Dio quello spazio che ha sempre cercato. In lui, solamente in lui, trova la dimora tanto desiderata e nella quale solamente può avere ristoro e riposare nella pienezza e nell’integrità del suo essere spirituale e materiale insieme277. essere ridotto a sola materia organica. Il suo essere, la sua esistenza, destano infatti meraviglia. Quando cessa quest’ultima è perché l’uomo stesso, quale persona, è venuto a mancare e ad esso è stato sostituito un organismo vivente al pari di tanti altri. In questo senso, in Persona e atto, che è uno studio approfondito sull’uomo e sulla sua natura, parlando delle ragioni per cui ha messo mano a questo lavoro, Wojtyla scrive: «[L’opera] Nasce dalla meraviglia di fronte all’essere umano, che genera, come è noto, il primo impulso conoscitivo. Sembra che tale meraviglia — che non è ammirazione, anche se ha in sé qualcosa di essa — sia all’origine di questo studio. La meraviglia come funzione dell’intelletto si manifesta in una serie di quesiti, in seguito in una serie di risposte o di soluzioni. In tal modo non solo viene sviluppato il processo del pensare sull’uomo, ma soddisfa anche una certa esigenza dell’esistenza umana. L’uomo non può perdere il posto che gli è proprio in quel mondo che egli stesso ha configurato» (pp. 855-856). 276 Cfr Angelus Domini del 1 novembre 2000, in OR (2-3 novembre 2000), p. 8. 277 Cfr K. WOJTYLA, Pellegrinaggio ai luoghi santi, in ID., Tutte le opere letterarie, 189.

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3. CENTRALITÀ E DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA Per Wojtyla esiste qualcosa che può essere chiamato “esperienza dell’uomo” e che per la sua sostanziale semplicità supera qualunque complessità278. Egli non è riducibile a merce, a cosa, a semplice organismo vivente delimitato dalla nascita e dalla morte. Egli, l’abbiamo visto poco sopra, è “oltre” rispetto al solo orizzonte terreno. La persona è sì un soggetto sui iuris et alteri incommunicabilis, ma è altresì originariamente costituita per la communio personarum e destinata a questa comunione che stabilisce la base per pensarla non più in termini di sola sostanza, ma anche di relazione. La persona si realizza nelle fondamentali dimensioni dell’iotu e quindi del noi, e questo dato fondamentale e centrale non può essere contraddetto, secondo Wojtyla, neppure dalla morte. Le riduttive filosofie e visioni dell’uomo di matrice materialistica, o spiritualistica e idealista, che da un lato lo appiattiscono alla sola componente materiale e dall’altro lo disincarnano, dimenticano il suo insopprimibile valore trascendente e relazionale e perciò stesso il fatto che il senso profondo della persona umana in definitiva va cercato anche oltre essa stessa, nella sua destinazione ultima, nel suo “es-porsi” agli altri, al mondo e soprattutto a Dio. L’uomo che decide di sé e del proprio destino è l’uomo creato a immagine di Dio, cioè come partner dell’Assoluto. Egli è costituito come soggetto e persona, e deve coscientemente discernere e decidere tra il bene e il male. La soggettività è ciò che caratterizza l’uomo e lo differenzia da tutti gli altri esseri. È lui che nasce, cresce e muore; è lui che vive nella libertà la propria esistenza, decide di sé e del suo destino. La parola di Dio rivelata agli uomini, conferma una tale dipendenza nell’esistenza umana che non può costituirsi in sé come un assoluto. Questa dipendenza, ovvero il fatto che l’essere umano non sia causa di se stesso, fa dell’uomo un essere limitato, sempre minacciato dalla non-esistenza, sempre prossimo alla morte. La finitezza è infatti la sostanza della struttura dell’uomo. In lui la Scrittura distingue non tanto il corpo e l’anima, quanto il corpo e la vita. Quest’ultima è liberamente donata da Dio che ne è il possessore, quando soffia nelle sue narici, e dall’uomo viene ritirata con la medesima, non arbitraria, libertà, determinando così il suo ritorno a quella polvere da cui era stato precedentemente tratto (cfr Gen 2,7; Gb 34,14-15; 278

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Cfr K. WOJTYLA, Persona e Atto, cit., 831-837.


Sal 104,29ss). Per la Scrittura il corpo non è un concetto di natura metafisica, ma indica la soggettività concreta dell’uomo. Esso manifesta la persona. Il corpo attiene alla struttura stessa del soggetto personale molto profondamente. L’essere uomo o donna sono invece due diverse “incarnazioni”, due modi di “essere corpo” del medesimo essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio. Per questa ragione non si può cedere a un facile spiritualismo disincarnato, sensibile a una sorta di concezione manichea e dualista dell’uomo, perché questo sarebbe contrario a una corretta visione antropologica cristiana. L’uomo è corpo, non ha semplicemente un corpo. La morte non è quindi un evento esteriore che riguarderebbe e interesserebbe il “mezzo” di cui l’anima si serve per operare. Se è vero tutto questo è di conseguenza anche vero che anch’esso è chiamato alla vita e il suo destino è la risurrezione. Il corpo infatti è stato il “luogo” dell’incontro con gli altri, dove si sono espressi i sentimenti profondi dello spirito, dove si è espresso (nello sguardo, nel sorriso, nel volto) quel superamento della solitudine e si è realizzata quella comunione a cui l’uomo è chiamato, e ancora prima dalla quale è costituito, egli che è ad immagine di Dio Trinità, quella comunione piena e perfetta che sarà della persona umana integralmente costituita nella sua unità materiale e spirituale nella risurrezione escatologica dei morti. La percorsa persona umana, via della Chiesa, dal suo concepimento alla sua morte naturale, è perciò posta al cuore della sua riflessione, del suo pensiero e delle sue attenzioni. La Chiesa ricorda che colui che muore non è la semplice parte del tutto, un atomo che compone l’universo, un momento, solo un momento, del lento e inesorabile divenire del tutto, ma è persona, è creatura di Dio, è destinata all’eternità. Fuori da questa prospettiva nessuna considerazione dell’uomo potrebbe resistere di fronte alla violenta irruenza della morte e al suo potere distruttivo. La fine dell’uomo si distingue nettamente perciò dalla fine di tutte le altre cose: la sua solidarietà con il resto del creato non è messa in discussione, ma non attenua neppure la sua differenza, il suo valore e il suo “senso-altro” rispetto al mondo. La Chiesa afferma per questa ragione che non è possibile rinunciare all’inalienabile dignità del morente che è radicata nella sua creaturalità e nella sua vocazione personale alla vita immortale. Ogni uomo è stato pensato e voluto da Dio, e lo è stato da sempre e per sempre. La morte non pone fine a questo progetto di Dio, ma cede il passo alla speranza che trasfigura la stessa distruzione del nostro corpo mortale, secondo le illuminanti parole dell’Apostolo: «Quando poi questo corpo corruttibile si

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sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità si compirà la parola della Scrittura: la morte è stata ingoiata per la vittoria» (1Cor 15,54; cfr 2Cor 5,1). L’uomo di cui si sta parlando è l’uomo totale, cioè spirito e materia insieme, l’uomo microcosmo che sintetizza in sé l’ordine spirituale e quello materiale. Nel mistero dell’Incarnazione risiede la ragione prima ed ultima della fede della Chiesa nella risurrezione dei morti, nella risurrezione della carne, il suo rispetto per la persona umana considerata nella sua origine e nella sua destinazione. La morte per la persona umana, nell’unità della sua natura, non significa il semplice disfacimento di un corpo ormai destinato definitivamente a scomparire, ma molto di più la semina di un corpo corruttibile perché germogli e cresca un corpo spirituale. Come l’uomo non è uno dei tanti esseri che popolano la terra, o il semplice elemento di una specie vivente, a motivo del suo significato ontologico e metafisico assolutamente unico, così la sua morte non può essere considerata come il naturale destino di tutte le cose e la partecipazione alla sorte comune di tutti gli organismi viventi: l’unicità dell’uomo come persona, quel qualcosa di più e quella perfezione e pienezza per le quali egli è unico, fanno unica anche la sua morte e il suo morire. La capacità dell’uomo di vivere una vita interiore, non riducibile alla sola dimensione fisica, cioè la sua spiritualità, rendono altrettanto unica la sua morte che non è perciò la fine della sua esistenza biologica, ma ha un significato ulteriore, antropologicamente fondamentale279.

3.1. L’amore, realizzazione della persona Dall’amore divino la persona prende forma. Essa, infatti, si realizza pienamente solo mediante l’amore, inteso come agape, trasfigurazione ed elevazione dell’amore umano, dell’eros. Quest’ultimo, infatti, è desiderio di possedere ciò di cui si è mancanti, attraverso quell’energia che tende a conquistare e ad acquistare sempre di più; l’amore-agape, invece, così come è compreso dal messaggio cristiano, consiste essenzialmente nel donare; nella donazione, cioè, che ha la sua radice e il suo fondamento primo e ultimo nel donarsi stesso di Dio con la creazione e soprattutto con l’offerta 279

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Cfr K. WOJTYLA, Persona e atto, cit., 1060.


del suo Figlio. L’amore cristiano, quell’amore che è assoluta gratuità, è allora donazione assoluta dell’uomo agli altri perché è donazione assoluta di Dio agli uomini. Proprio questo amore non conosce la morte. «L’amore è la realizzazione più completa delle possibilità dell’uomo. È l’attualizzazione massima della potenzialità intrinseca della persona. Questa trova nell’amore la più grande pienezza del proprio essere, della propria esistenza oggettiva. L’amore è l’atto che realizza nel modo più completo l’esistenza della persona»280.

Nell’amore la persona supera e vince il proprio egoismo, trascende quell’autopossesso che lo tiene schiavo di se stesso e del proprio mortale individualismo, e si apre agli altri, realizzando se stesso e gustando la vita. Nell’amore la persona umana già esperisce non solo la vittoria sulla morte e le sue molteplici manifestazioni, ma anche assapora quella vita a cui anela dal profondo del proprio essere. L’amore, infatti, fa cessare quell’inganno per cui la persona pensa di appartenere esclusivamente a se stessa, e la conduce a donarsi agli altri, auto-espropriandosi e ri-guadagnandosi nella persona amata. In questa estasi — nel superamento, cioè, del suo egoistico immobilismo, in questa rinuncia a se stessa per ritrovarsi negli altri, nel suo movimento verso l’altro che gli sta di fronte — essa supera già i confini angusti della morte ed entra nella vita, entra nello spazio vitale della Trinità, comunione d’amore del Padre del Figlio e dello Spirito Santo281. Proprio perché per sua natura l’amore è donativo, esso non è dato una volta per tutte, ma “diventa” continuamente, sino a giungere alla sua perfezione proprio nella morte che deve essere l’estrema manifestazione dell’amore, così come è avvenuto per Gesù il quale, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine, cioè sino all’estrema e assoluta donazione sacrificale della sua stessa vita sulla croce (cfr Gv 13,1). L’amore così inteso, ci manifesta la dimensione profondamente sociale della persona umana. Esso è infatti comunione di persone e per sua natura non è unilaterale, ma esiste tra le persone, è sociale, interpersonale. L’autorealizzazione della persona può verificarsi solamente mediante la sua auto-trascendenza, il suo agire con gli altri e per gli altri. La morte è ciò che per sua natura si oppone a questa comunione. Essa, al di fuori della 280 281

K. WOJTYLA, Amore e responsabilità, cit., 539. Cfr ibid., 585-587.

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relazione con Cristo e chiusa all’annunzio pasquale, è isolamento assoluto e soffocante. Vissuta in comunione con Cristo, e con lui-in lui con gli altri fratelli, diventa invece essa stessa manifestazione e realizzazione dell’amore-dono che la persona umana fa di sé e in cui si realizza. Questa si compie quindi nella partecipazione di sé agli altri e nella partecipazione, insieme agli altri, alla responsabilità per i destini del mondo. Non si possono dimenticare almeno due forme di negazione della partecipazione, che possono essere fondamentalmente rintracciate nell’individualismo o nel suo opposto errore, cioè il totalitarismo. Sia la prima come la seconda forma di negazione sono in sostanza il tentativo di distruggere la persona, il suo valore e la sua inalienabile dignità, sono il tentativo di logorare le stesse fondamenta del vivere sociale, della società nel suo significato più nobile e originario. Non è un caso che proprio nella società contemporanea, fortemente segnata da un crescente individualismo che sconosce il significato proprio della persona umana, anche la morte abbia subito una sorta di privatizzazione e sia stata relegata a faccenda riguardante il singolo, senza alcun rapporto reale e vero con il mondo che lo circonda e con gli altri. L’antitesi della partecipazione è l’alienazione che è un vero e proprio attentato alla capacità dell’uomo di relazionarsi con gli altri da persona a persona. L’alienazione dagli altri significa alienazione anche da se stessi: se la persona non comunica e non entra in comunione con gli altri, distrugge se stessa e viene meno alla sua destinazione ultima. La morte, da questo punto di vista, è la massima alienazione dell’uomo, in quanto è la fine di tutte le possibili relazioni e della capacità comunicativa della persona. Poiché però Cristo è penetrato nel profondo del suo abisso e ne ha assunto tutta la negatività — egli che sulla croce ha sperimentato l’estrema alienazione dal Padre (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”: Mt 27,46) e dagli uomini (abbandonato dai suoi discepoli e dai suoi stessi amici, non compreso e insultato dalla folla e dai soldati) — per questa sua libera azione ne ha trasformato il significato ed ha fatto sì che la morte potesse essere la rivelazione stessa dell’amore di Dio, il momento in cui tutti coloro che a causa del peccato si erano alienati da lui fossero da lui attirati, il momento di massima fiducia-comunicazione con il Padre nelle cui mani può ora essere consegnato lo spirito del Figlio morente (“Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”: Lc 23,46). È convinzione profonda della Chiesa che la persona viene dalla comunione e ad essa è destinata; proviene dall’Amore e ad Esso è ordinata.

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Il peccato è alienazione da Dio, dell’uomo da se stesso e dalla sua intima vocazione. Esso tocca l’essere stesso dell’uomo, la sua natura, che invece di essere essenzialmente comunionale, viene trasformata con violenza in chiusura egoistica e auto-referenziale. Il peccato, radice della morte non ha solamente una natura e una caratteristica morale (infrazione), ma ha una valenza ontologica perché compromette la realizzazione stessa della persona e ne mette in discussione il raggiungimento della perfezione. Il peccato, cioè, raggiunge le fibre più intime della persona, le distorce e le sfigura. Sebbene essa rimanga intrinsecamente buona e quindi non totalmente intaccata dal peccato e dalle sue conseguenze, soprattutto la morte ci ricorda quest’ultimo è una faccenda seria, che ha veramente toccato l’intimo dell’essere umano: esso, infatti, chiude, ammutolisce, fa disperare, uccide, si oppone al progetto di Dio sull’uomo, creato a sua immagine e somiglianza, e per questo fatto per donarsi, per vivere, per comunicare ed essere in comunione con gli altri uomini, per vivere nell’amore e per amore. Tuttavia, e questa è la consolante certezza della fede, il peccato non può esercitare il suo dominio e la sua influenza per sempre, non può essere la condizione definitiva dell’uomo. Questi è infatti destinato alla comunione di vita con Dio e con i fratelli, la comunione nell’amore, un amore più forte del peccato e delle sue negative incarnazioni. L’amore rimane allora centrale per la comprensione dell’essere umano e della sua destinazione eterna. L’amore è intellectus eschatologicum e chiave di lettura per comprendere l’esistenza dell’uomo, la sua morte e il suo destino eterno. K. Wojtyla a questo riguardo, con parole illuminanti, ne Il Cantico del Dio nascosto ci ha lasciato una toccante confessione: «L’amore mi ha spiegato ogni cosa, l’amore ha risolto tutto per me — perciò ammiro questo Amore dovunque Esso si trovi»282. Ancora, in Amore e responsabilità, parlando proprio dell’aspetto divino dell’amore che si concreta e manifesta nel fatto che un uomo, poiché vuole per la persona amata un bene infinito in definitiva vuole per essa Dio, perché solamente lui è la pienezza oggettiva del bene; un bene che può

282

K. WOJTYLA, Cantico del Dio nascosto, in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 49.

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essere partecipato da lui alla persona umana, in una nota al testo Wojtyla puntualizza: «Nell’amore tra persona e persona si nota la caratteristica divergenza tra la dimensione del bene che si desidera per la persona amata e la possibilità di realizzarlo. Chi ama non è in grado di donare alla persona amata la vita eterna, per quanto amandola lo desidera e senza dubbio gliela darebbe se fosse onnipotente. Questa è la ragione per cui “vorrebbe praticamente per essa il Dio”. Imposto attraverso l’esperienza il legame dell’amore con affermazione dell’esistenza, richiede — come il risultato di un’interpretazione metafisica — la constatazione che la morte degli esseri umani, nella prospettiva dell’amore di Dio, può essere soltanto un passaggio alla più alta forma di vita. Morte fortius caritas»283.

Nella Redemptor hominis il Papa inoltre afferma che «l’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso, se non gli viene rivelato l’amore, e se non si incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente»284. Per Styczen!, il “senso” di cui parla il Papa significa autorealizzazione e autocompimento. La responsabilità per se stesso significa anche responsabilità per l’altro (elemento centrale per l’antropologia e per l’etica) e questa si realizza nell’amore. È necessario assumere il problema dell’amore e della responsabilità in unione con quello dell’uomo: non si dà salvezza personale a prescindere o a latere di quella del fratello poiché ogni uomo è inserito e vive in una comunione di destini 283 K. WOJTYLA, Amore e responsabilità, cit., p. 599 nota 32. La speranza della pienezza escatologica viene fuori dalle radici stesse che il Creatore ha posto nella natura dell’uomo, nel suo innato desiderio di vita e nel suo anelito all’immortalità e alla realizzazione nell’amore e nella comunione con gli altri. Questa vita è partecipazione ultima all’Amore increato che si dona gratuitamente come compimento ultimo della creatura umana (cfr K. WOJTYLA, L’uomo in prospettiva, cit., p. 1506). Ne “Il Rito” (VI parte de la Veglia Pasquale 1966), egli afferma che «l’amore non scorre insieme alla morte: l’oltrepassa […]. La necessità di VIVERE — dicono terra e acqua ad ogni primavera — non è forse più forte della necessità di morire? così dicono terra e acqua, nel vicendevole sussurro» Veglia Pasquale 1966, in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 223. 284 Redemptor hominis 10, in EV/6, 1194.

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con tutti gli altri uomini. «Fra la responsabilità nei propri confronti e la responsabilità nei confronti degli altri esiste un intimo legame così stretto da rendere impossibile la realizzazione della prima senza la realizzazione della seconda. Solo chi offre la realizzazione del sé agli altri possiede la possibilità della propria autorealizzazione»285. Il modello di questo amore assoluto e perfetto a cui l’uomo è essenzialmente chiamato perché realizzi se stesso, è Cristo Gesù. In lui la persona umana può comprendere veramente se stessa e il significato profondo della propria esistenza e del proprio destino eterno nell’amore, e alla luce di quanto l’attendere può vivere la sua esistenza terrena e il suo impegno per il mondo.

4. MORTE ED AGIRE MORALE Il cristiano affronta la vita di ogni giorno con la forza e gli insegnamenti che gli provengono dal vangelo e soprattutto con la luce che promana dalle beatitudini, comandamenti nuovi donati al discepolo di Cristo. Esse toccano le due dimensioni della vita, di cui l’una appartiene a questa terra ed è temporale, mentre l’altra porta in sé la speranza della vita eterna (cfr Mt 5,1-12; Lc 6,20-23). Ascoltando l’insegnamento delle beatitudini, infatti, si può guardare verso la vita eterna a partire dalla temporalità, ma si può, o meglio si deve anche guardare la temporalità, cioè la nostra vita sulla terra, attraverso la prospettiva della vita eterna. E in questa visione è necessario che il credente si ponga la domanda su come deve essere vissuta la sua vita terrena affinché la speranza della vita eterna possa svilupparsi e maturare in essa. Allora, solo allora, potrà comprendere il senso e il valore delle beatitudini e l’orizzonte della vita eterna e beata che lo attende dopo la morte; solo allora potrà reggere il pensiero della morte, della propria morte, e l’esperienza della morte delle persone care. La beatitudine è lo stato definitivo dell’uomo nella Gerusalemme celeste, ma anche la dimensione essenziale che deve animare la sua esistenza sulla terra. Nella misura in cui egli accoglie il regno di Dio nel suo cuore, non cede alla tentazione dell’evasione, ma si apre alla forza che abilita il credente a vivere concretamente l’oggi nella prospettiva del futuro 285

T. STYCZEN⁄, Chi è veramente Giovanni Paolo II?, cit., 127.

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che lo attende. L’unica “angolatura” da cui egli può guardare alla propria vita è quella del Dio vivo e vero; è quella dell’eternità286. Le beatitudini sono il ponte che congiunge e mantiene saldi il cielo e la terra. Vengono definiti beati infatti gli afflitti, i poveri, i perseguitati, gli affamati di questa terra, e a questi, proprio a loro, è promessa la consolazione, la giustizia del regno, la ricompensa e la gioia. Il pensiero alla morte, più che distrarre l’uomo dal suo impegno per il mondo e per l’edificazione della città terrena, lo aiuta a vivere bene il proprio presente, a dare il corretto risalto alla sua azione nel mondo, a non rassegnarsi di fronte alle sconfitte e ai fallimenti e a non adagiarsi sulle conquiste e i risultati ottenuti. Anche il Siracide esprime in qualche modo questa convinzione quando ammonisce dicendo: «In tutte le tue opere ricordati della tua fine e non cadrai mai nel peccato» (7,36)287. La morte, precisa Wojtyla nel già ricordato saggio su L’uomo in prospettiva, ha un’importanza fondamentale per la comprensione dell’uomo e della sua esistenza, non solo per la fede, ma anche per la filosofia la quale sa che con essa arriva sì il momento della distruzione, ma anche quello della verifica finale dell’uomo, della maturità nel campo delle scelte operate. «L’uomo non è solo sottoposto alla morte, ma in essa definisce, parimenti, in modo definitivo, se stesso; secondo questa autodefinizione “sceglie se stesso”»288. Questa visione filosofica, non è estranea alla tradizione cristiana per la quale al dolore causato dal morire deve corrispondere anche il pensiero che con la morte l’uomo raggiunge la sua maturità ultima nella dimensione della sua vita terrena. La fede fonda tale realizzazione nel rapporto che l’uomo stabilisce con Dio, un rapporto che è la risposta all’invito che Dio gli rivolge a stringersi a lui in una comunione di vita più forte della morte, una vita che è stata donata da Cristo risorto dai morti. Il 286

Cfr Omelia al cimitero del Verano del 1 novembre 1979, cit., 1. Cfr Udienza generale del 27 ottobre 2004, in OR (28 ottobre 2004), p. 4. Cfr K. WOJTYLA, Mysterium Paschale, in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 93. [L’uomo non può fermare “le correnti che passano. Innumerevoli”. Egli non reggerà sino alla fine alla forza di queste correnti che lo superano. Egli, infatti, sa con certezza che calerà a fondo e tornerà alla polvere]. «Tu — dice il Papa rivolgendosi all’uomo — vivi rivolto alla morte, mentre ti volgi al futuro, la morte è sempre nella tua corrente. [e allora si chiede] Ti trarrà infine dal campo in cui tutto passa? Dalla vita cancellerà, in un solo colpo, passato e futuro?». 288 K. WOJTYLA, L’uomo in prospettiva, cit., 1504-1505. 287

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messaggio che la fede consegna all’uomo contemporaneo afflitto al pensiero della morte, è dunque fondato sul mistero pasquale di Cristo per il quale ormai egli può incontrarsi con il Dio vivo, poiché «la trascendenza propria della persona umana in direzione della verità (pensiero) e del bene (volontà) raggiunge le dimensioni, aperte all’uomo, dell’Assoluto; e insieme si realizza attraverso l’incontro con il “Tu” divino»289. Un Tu perennemente cercato nel corso dell’intera esistenza; un Tu al quale si è aderito attraverso l’esercizio delle virtù teologali di fede, speranza e carità, l’esercizio della libertà e il sì del cuore e della mente. Come afferma l’apostolo Paolo, ripreso qui da Giovanni Paolo II, «Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d’un momento, quelle invisibili sono eterne» (2Cor 4,17-18)290. Il pensiero della morte, non deve allora indurre il credente a sfuggire l’impegno nel mondo e l’interesse per tutto ciò che esso richiede, ma deve altresì aiutarlo a relativizzare ciò che altrimenti verrebbe ingiustamente assolutizzato e finirebbe così per assorbirlo e distruggerlo. Ciò che aiuta l’uomo ad affrontare il momentaneo e leggero peso delle tribolazioni è la consapevolezza che queste sono appunto momentanee e perciò stesso leggere, non costituiscono il suo destino finale, né sono la sua definitiva e incedibile eredità. Prendere coscienza che in effetti tutto passa e che nulla di tutto ciò che è effimero può veramente e irrevocabilmente turbare il cuore dell’uomo, non significa cedere ad una sorta di ricercata imperturbabilità di fronte all’accadere delle cose e allo scorrere degli eventi, ma significa invece riconoscere che lo sguardo dell’uomo può trovare un orizzonte proprio e appagante unicamente nella contemplazione delle realtà invisibili che, essendo eterne, gli procurano una quantità eterna di gloria. La contemplazione di queste realtà, le uniche veramente appropriate per l’uomo, relativizza sì le realtà terrene, ma nello stesso tempo conferisce loro il giusto e corretto valore, il significato vero e il senso ultimo. Certamente c’è un rapporto intimo tra ciò che siamo oggi, ciò che costruiamo con i nostri sforzi e la nostra risposta di fede a Dio, e ciò che siamo chiamati ad essere, quello che Dio ha preparato per coloro che lo 289

Ibid., 1505. Cfr Omelia al cimitero del Verano del 1 novembre 1980, in OR (3-4 novembre 1980), p. 3. 290

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amano e praticano la giustizia. Come afferma infatti la Prima lettera di Giovanni citata in altre occasioni da Giovanni Paolo II: «Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato» (1Gv 3,2). Vi è, cioè, uno scarto fra ciò che già siamo e ciò che saremo, e quindi, in un certo senso, tra ciò che siamo noi oggi, ancora in vita, e ciò che già sono i nostri trapassati. La comunione non annulla certo la distanza, e neppure potrebbe, sebbene sia reale e forte più della stessa morte. La fede comunque ci dice che tra questi due poli si colloca la nostra attesa e la nostra speranza, che va ben oltre la morte, perché la considera soltanto come un passaggio per incontrarci definitivamente con il Signore e per essere “simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (cfr 1Gv 3,2)291. La morte non è nel progetto di Dio, il quale ha per l’uomo solamente un piano d’amore, di vita e di bene. Colui che ama non può infatti non volere la vita dell’amato e il suo bene. Essa, poiché è entrata nel mondo a causa del peccato, non può essere una realtà e una condizione definitiva. Ciò che è definitivo è unicamente l’amore e con esso la vita e il bene. Tutto tende alla vittoria decisiva dell’Amore, alla vittoria del Bene e della Vita. L’amore è perciò la legge che anima l’esistenza storica dell’uomo e il “contenuto” della meta del suo cammino. Nell’amore egli si realizza e attraverso le sue scelte quotidiane risponde alle esigenze dell’amore. Tutti i suo atti sono compiuti, in definitiva, come apertura o chiusura all’amore, come accoglienza o rifiuto dell’amore. Chi si è chiuso all’amore nel corso della sua esistenza terrena, si è auto-condannato alla morte, si è autoescluso dalla partecipazione a quella vita eterna che è comunione di amore. Qui sta la grandezza del progetto di amore di Dio per l’uomo e qui sta la serietà dell’appello che egli rivolge all’uomo nell’amore. La rivelazione cristiana, per la grande stima che riconosce all’esistenza storica dell’uomo e alla realizzazione della sua libertà nel vissuto storico concreto, rigetta la dottrina della reincarnazione propria di alcune religioni o filosofie orientali soprattutto di matrice esoterica, molto in voga oramai anche in Occidente, e parla invece di un compimento che l’uomo è chiamato a realizzare nel corso di un’unica esistenza sulla terra. Questo compimento del proprio destino egli lo raggiunge nel dono sincero di sé, un dono che è reso possibile soltanto nell’incontro con Dio: in lui egli trova la piena realizzazione di sé, così come chiaramente Cristo è venuto a 291

188

Cfr l. c.


rivelare. Più precisamente, l’uomo compie se stesso in quel Dio che gli è venuto incontro mediante il suo Figlio unigenito la cui venuta ha portato il tempo umano, iniziato nella creazione, alla sua pienezza. “La pienezza del tempo”, infatti, è soltanto l’eternità, cioè colui che è eterno, Dio. Entrare nella pienezza del tempo significa dunque trovare il compimento nell’eternità di Dio, essere assunti nella sua pienezza di vita che non conosce la morte, essere trasfigurati totalmente dall’Amore292. Nel tempo, ormai giunto alla sua pienezza per il mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio e per la sua Pasqua, l’uomo realizza pertanto se stesso lasciandosi liberamente coinvolgere attraverso l’assenso di fede e l’esercizio della carità nel dialogo d’amore del Padre, del Figlio e dello Spirito.

292

Cfr Tertio Millennio Adveniente 9, in EV/14, 1729.

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CAPITOLO VII

“SEGUIMI!”. IL TESTAMENTO SPIRITUALE DI GIOVANNI PAOLO II

Quanto è stato oggetto di riflessione ed ha costituito il contenuto stesso del messaggio di Giovanni Paolo II sul senso dell’uomo, della sua vita e della sua morte alla luce del mistero di Cristo, e quanto ho tentato di presentare nelle pagine di questo lavoro, nel suo Testamento spirituale diventa personale in modo unico e specialissimo293. Giovanni Paolo II apre il suo Testamento richiamando le parole del motto del suo pontificato Totus Tuus, e alla luce di queste parole, che in verità sono l’espressione di un atto di fede, di un atto di assoluto affidamento al Dio di Gesù Cristo per l’intercessione materna di Maria, consegna le sue ultime volontà alla Chiesa e al mondo. “Totus Tuus ego sum”. Il Testamento spirituale di Giovanni Paolo II è un testo densissimo, scritto in diverse occasioni e a più riprese, soprattutto durante o a conclusione degli esercizi spirituali annuali, vissuti con la Curia romana prima della celebrazione della Pasqua. È un testo che è stato redatto, come afferma lo stesso pontefice, avendo nel cuore e nel pensiero il Testamento di Paolo VI, un grande testimone della fede, e con un’attenzione vigile all’evolversi degli eventi e della storia, non solo personale, ma anche mondiale. A Paolo VI, Giovanni Paolo II aveva già rivolto l’attenzione soprattutto durante la riflessione che precede la preghiera dell’Angelus nel primo anniversario della sua morte. Il Papa dedicò, infatti, la preghiera dell’Angelus del 5 agosto del ’79 alla memoria del predecessore il quale si era spento proprio un anno prima, nella solennità della Trasfigurazione del Signore, il 6 agosto, a Castel Gandolfo, lasciando una testimonianza forte e preziosa al mondo intero; una testimonianza di vita, difficile e laboriosa, di fede sofferta, e di pastore che aveva saputo guidare il gregge che il 293

Il Testamento di Giovanni Paolo II è stato pubblicato subito dopo la sua morte, nella traduzione italiana dall’originale versione in polacco, in OR (8 aprile 2005), pp. 1-3. Si rimanda pertanto al testo pubblicato sull’organo di stampa ufficiale della Santa Sede per il riscontro dei testi.

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Signore gli aveva affidato, e che nel momento della morte si era lasciato condurre dal Pastore grande delle pecore perché potesse attraversare con fede la “valle oscura” della morte. Guardando al mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio, diceva in quella occasione Giovanni Paolo II, si comprende che Dio rischiara non solo le tenebre del pellegrinaggio terrestre di ogni uomo, ma specialmente i suoi ultimi giorni, contrassegnati dalla sofferenza dell’agonia. Moriamo in Cristo, che ha vinto la morte ed ha aperto la prospettiva della vita eterna. Di questa verità, continuava Giovanni Paolo II, Paolo VI è stato testimone privilegiato: egli ha infatti lasciato questo mondo con la certezza della fede che proclamava e di cui fu compenetrata la sua vita terrena fino agli ultimi istanti. Anche coloro che hanno avuto la possibilità di essere con lui negli ultimi momenti della sua vita lo attestano e ricordano quel trapasso così doloroso umanamente, ma compenetrato dalla forza della fede in Cristo. “Pretiosa in conspectu Domini mors sanctorum eius”: “Preziosa agli occhi del Signore è la morte dei suoi fedeli” (cfr Sal 116,15)294. Nel desiderio del pontefice di poter servire sino alla fine la Chiesa e di andarsene al momento giusto, senza disturbare nessuno con la propria persona, voto ricordato dallo stesso Giovanni Paolo II nel corso della sua riflessione dedicata alla memoria del predecessore, sembra che si nasconda anche il desiderio dello stesso Papa Wojtyla: un voto tra l’altro più volte esternato da lui soprattutto quando il quadro generale della sua salute aveva cominciato a complicasi e ad aggravarsi. Ripetutamente anch’egli si è affidato a Dio e al suo sostegno, con profonda e serena fiducia, perché lo sostenesse nella sofferenza e nel ministero, e soprattutto perché lo chiamasse a sé nel momento più opportuno per il bene della Chiesa. Anch’egli non voleva essere un peso per il cammino della Chiesa e confidava perciò nella provvidenza di Dio che avrebbe di certo portato a compimento la sua opera, e con questa fiducia attendeva il dispiegarsi del progetto di Dio su di lui e sull’intera Chiesa ormai entrata nel terzo millennio. Sembra quasi che egli, nell’esprimere questo desiderio riviva in qualche modo l’esperienza dell’apostolo Paolo e provi i suoi stessi sentimenti. Paolo, infatti, sebbene nutrisse in sé il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con il Signore, sapeva tuttavia che ancora era chiamato a rimanere in vita per continuare a prestare il suo servizio alla diffusione del vangelo e per il bene delle chiese (cfr Fil 1,21-25). 294

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Cfr Angelus Domini del 5 agosto 1979, in OR (6-7 agosto 1979), pp. 1-2.


Continuando quindi il ricordo del Papa defunto, proseguiva la sua riflessione: «Sebbene, dopo la sua morte, la tristezza e il lutto abbiano invaso noi tutti, pur nondimeno abbiamo ringraziato e ringraziamo anche oggi il Signore perché ha esaudito la preghiera del suo servo e vicario sulla terra; perché gli ha concesso, con una morte impressionante, di portare a termine l’opera della sua vita e di lanciare così alla Chiesa e al mondo il suo ultimo messaggio di amore, di umiltà e di donazione»295. Il Papa conclude così il suo ricordo grato di Paolo VI ripetendo la celebre espressione di s. Ireneo, vescovo di Lione contenuta nella sua opera Adversus haereses: “Gloria Dei vivens homo”: “La gloria di Dio è l’uomo vivente” suggerendo al contempo, però, che la gloria di Dio è anche la morte dell’uomo, nella quale si rivela l’aurora della vita eterna296. Il ricordo del predecessore per Giovanni Paolo II non si ferma però qui. In diverse altre occasioni, infatti, soprattutto nel suo Testamento, egli ripete che le “memorie” e le “ultime volontà” da lui stilate hanno come punto di riferimento lo scritto del venerato predecessore nel quale è contenuta una “sublime testimonianza sulla morte di un cristiano e di un Papa”. Di un cristiano, soprattutto, perché la morte è un evento fondamentale per il divenire della vita di fede di un discepolo del Signore e del suo itinerario verso Cristo. Essa è il punto massimo di maturazione della sua vita spirituale e della sua adesione a Cristo, di quel cammino, cioè, che ha avuto inizio nel battesimo, che si alimentato attraverso i sacramenti, soprattutto l’Eucaristia, e la vita di fede, e che proprio al momento del transito da questo mondo alla vita eterna, raggiunge la sua pienezza. È, quindi, il compiersi del cammino di sequela, è la pienezza dell’“eccomi” che il cristiano ha formulato durante l’intero corso della vita, è il fuoco che purifica il cuore da tutti quegli “eccomi” non pronunciati o non pronunciati pienamente. È però anche la morte di un Papa. La morte, cioè, di colui che ha declinato il suo “eccomi” battesimale, il suo sì fiducioso e docile, nel ministero ordinato, nella consacrazione speciale al vangelo e alla Chiesa, nel ministero petrino a servizio di tutto il popolo di Dio e in obbedienza alla volontà di Dio297. 295

L. c. Cfr l. c. 297 Ancora il 12 agosto del 1979, durante la preghiera dell’Angelus Giovanni Paolo II ritornò a ricordare Paolo VI ribadendo che nel Testamento di Papa Montini c’è il riflesso profondo di un’anima poiché in esso il Papa parla agli uomini in modo insolito. Parla infatti di sé e instaura un ultimo dialogo, un ultimo colloquio con tutta la sua vita terrena. Cfr OR (13 aprile 1979), pp. 1-2. 296

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L’incipit del Testamento di Giovanni Paolo II il cui sottofondo è dunque costituito dal Testamento di Paolo VI, ha il suo fondamento nel riferimento alla Trinità, nel cui nome il Papa inizia a stilare le sue ultime volontà. Tutto, infatti, nella vita dell’universo e in quella di ogni singolo individuo, ha inizio e origine dal Padre per il Figlio nello Spirito, e tutto, nella vita dell’universo e in quella di ogni singolo individuo, ha compimento nel suo ritorno al Padre per il Figlio nello Spirito. La stessa vita del pontefice è stata vissuta con questa consapevolezza: la sua vita di fede come il suo magistero (basta pensare alle tre grandi lettere encicliche: Redemptor hominis, Dives in Misericordia, Dominum et vivificantem; o ancora al triennio di preparazione alla celebrazione del grande Giubileo dell’Anno Santo del 2000); l’azione liturgica come la testimonianza di vita, tutto è stato vissuto nel segno della Trinità Santissima, nel segno della comunione trinitaria, partecipata alla Chiesa e per mezzo di essa estesa al mondo intero; una comunione che origina tutte le cose e che di tutte le cose è la pienezza e la consumazione ultima: «Nel Nome della Santissima Trinità. Amen». Il testo biblico di riferimento, che anima l’intero scritto e il pensiero del pontefice sulla sua morte e sulla sua speranza finale, è tratto dal capitolo 24 del vangelo di Matteo ed è l’esortazione di Gesù rivolta ai suoi discepoli a vegliare e a stare pronti perché il giorno della venuta del Signore è sconosciuto. Questa verità fondamentale, che animava la Chiesa delle origini e che non ha mancato di interrogare tutte le generazioni di cristiani, è un tema importante per il vangelo di Matteo che attraverso diverse parabole vuole esprimere l’esigenza della vigilanza e dell’attesa operosa del Signore che viene, rifuggendo il pericolo della distrazione e del sonno, dell’accidia e della dissolutezza, della mollezza e di tutto ciò che non concorre ad alimentare le lampade della fede e della speranza, le lampade delle buone opere; quelle lampade, cioè, che alla fine, quando il Signore verrà per introdurre nel suo banchetto di nozze, e quando si udrà, nel mezzo della notte il grido: «Ecco lo sposo…andategli incontro» saranno indispensabili per poter rispondere “eccomi” e così entrare con lui alle nozze: Dunque, «Vegliate, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà» (cfr Mt 24,42). «Queste parole — commenfessava il Papa il 6 marzo del ’79 — mi ricordano l’ultima chiamata, che avverrà nel momento in cui il Signore vorrà. Desidero seguirlo e desidero che tutto ciò che fa parte della mia vita terrena mi prepari a questo momento. Non so quando esso verrà, ma come

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tutto, anche questo momento depongo nelle mani della Madre del mio Maestro: Totus Tuus».

Tutto nel nome della Trinità, ma nulla senza l’intercessione materna della Vergine Maria, la cui presenza ha fortemente caratterizzato il pontificato di Giovanni Paolo II che non ha mancato alcuna occasione per manifestare la sua intensa devozione mariana. L’eccomi del Papa, ha quindi come modello anche l’eccomi di Maria all’annunciazione; un “eccomi” incondizionato, assoluto, che si è tradotto in tutta intera la sua esistenza, fin sotto la croce, quando è stata associata alla passione stessa del suo Figlio. L’eccomi di Maria, fecondo perché suscitato dallo Spirito di Dio, è allora il modello a cui il Papa costantemente si è ispirato e a cui ha attinto perché anche la sua vita fosse vissuta nell’assoluta e incondizionata disponibilità alla volontà di Dio, al suo progetto di salvezza, al suo disegno di amore. Tutta la sua vita, gli “eccomi” che l’hanno segnata, afferma Giovanni Paolo II, sono stati la preparazione, quasi la gestazione di quell’eccomi finale che sarà chiamato a dare a Dio che lo interpella e lo chiama a sé. Anche quell’eccomi finale, con la certezza che la Madre di Dio assiste i suoi figli sempre, e soprattutto nell’ora dello loro morte, è sostenuto dalla Vergine Maria alla quale il Papa riconsegna nuovamente tutto se stesso. Non solo se stesso, ma anche tutto e tutti coloro che egli ha potuto incontrare nella sua vita, soprattutto attraverso il suo ministero. Alla Vergine il Papa affida prima di ogni altra cosa la Chiesa, ma anche la sua terra di origine, la Polonia, che tanto ha amato e che da sempre è stata oggetto privilegiato dei suoi pensieri e delle sue preoccupazioni. Il suo pensiero non si restringe solamente alla Chiesa e alla sua Nazione d’origine, ma raggiunge l’umanità intera, credenti e non credenti, popoli che vivono in pace e popoli segnati dalla sofferenza e dalla guerra: tutti, senza distinzione alcuna, sono stati oggetto dell’attenzione costante e della premura pastorale del Papa nei suoi frequenti viaggi, e tutti, ora, sono ancora al centro delle sue ansie e apprensioni, della sua preghiera: «Nelle stesse mani [di Maria] lascio soprattutto la Chiesa, e anche la mia Nazione, e tutta l’umanità» (6 marzo ’79). Il pensiero alla morte non chiude il cuore del Papa, ma lo dilata, diventando anche pensiero grato ancora nei confronti di tutti coloro che egli ha incontrato o dai quali è stato collaborato nel suo ministero, una gratitudine difficile da esprimere e che viene consegnata nelle mani di Dio: «Ringrazio tutti». Diventando anche richiesta umile di perdono per tutti quegli sbagli o quelle umane debolezze che hanno potuto segnare la sua

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vita: «A tutti chiedo perdono». Diventando invocazione rivolta alla Misericordia divina, con la consolante certezza della sua grandezza di fronte alla piccolezza e fragilità dell’uomo: «Chiedo anche la preghiera, affinché la Misericordia di Dio si mostri più grande della mia debolezza e indegnità» (6 marzo ’79). Egli sta invocando la Misericordia che è Dio, poiché Egli è Misericordia, Amore, e l’incontro con lui significa l’incontro con l’Amore che perdona, che riconcilia, che rinnova. Il Papa chiede, inoltre, seguendo anche in questo l’esempio di Paolo VI, di essere seppellito nella cruda terra, testimoniando ancora una volta la sua fedeltà a quanto più volte espresso nel corso del suo ministero e nei suoi ripetuti insegnamenti: la terra, simbolo della bontà del Creatore e della fragilità dell’uomo, è il ricordo costante dell’origine e della fine dell’uomo, è la madre che genera e che alla fine accoglie le creature umane. Essa, con quanto contiene nel suo grembo, appartiene però al Signore il quale può farla germogliare perché produca frutti di immortalità. L’importanza del Sacrificio Eucaristico è affermata in più occasioni, particolarmente quando il Papa chiede per sé, dopo la sua morte, la celebrazione di S. Messe di suffragio. L’Eucaristia, infatti, è vincolo di comunione che lega i fedeli tra di loro e con Dio in Cristo Gesù per la potenza dello Spirito Santo. Essa è sacrificio che ha il potere di donare la salvezza e di offrire la vita eterna. Durante gli esercizi spirituali seguiti dal 24 febbraio al 1 marzo del 1980, Giovanni Paolo II scrisse: «Anche durante questi esercizi spirituali ho riflettuto sulla verità del Sacerdozio di Cristo nella prospettiva di quel Transito che per ognuno di noi è il momento della propria morte. Del congedo da questo mondo — per nascere all’altro, al mondo futuro, segno eloquente (decisivo) è per noi la Risurrezione di Cristo».

Cristo ha manifestato pienamente il suo sacerdozio messianico e regale sulla croce. Lì egli, il re dei Giudei, come sacerdote si è offerto al Padre quale vittima sacrificale sull’altare della croce. Lì egli, sacerdote della nuova ed eterna alleanza, si è offerto al Padre con un sacrificio eterno e di soave odore. Egli, infatti, non è un sacerdote che deve offrire molti sacrifici per i peccati, prima per sé e poi per il popolo, perché, essendo senza peccato, ha offerto una volta per sempre un sacrificio a Dio. Sulla croce dunque l’eccomi di Cristo, che è venuto per fare la volontà del Padre, ha

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raggiunto il suo culmine ed ha portato a compimento il sacrificio antico spalancando il cielo. Il Papa associa il sacrificio di Cristo con il transito verso il Padre. Anche l’uomo fa della propria morte, in unione a quella di Cristo, l’esercizio supremo del suo sacerdozio battesimale vissuto come culto offerto a Dio; anche lui vive la sua morte come sacrificio puro e santo offerto a Dio in Cristo. Un sacrificio che comunque il cristiano è chiamato a vivere quotidianamente nella sua vita attraverso l’accoglienza docile e sincera della volontà di Dio e del suo progetto di salvezza. Con questi sentimenti nel cuore, il Papa, può aggiungere: «[…] ognuno deve tener presente la prospettiva della morte. E deve esser pronto a presentarsi davanti al Signore e al Giudice — e contemporaneamente Redentore e Padre. Allora anche io prendo in considerazione questo continuamente, affidando quel momento decisivo alla Madre di Cristo e della Chiesa — alla Madre della mia speranza».

E dopo aver ricordato che proprio mentre scriveva il mondo stava attraversando momenti «indicibilmente difficili e inquieti» e che in particolare la Chiesa stava vivendo una stagione eccezionalmente tesa e di rinnovate persecuzioni tanto da vedere ancora versare il sangue dei martiri, sempre durante gli esercizi dell’80 Giovanni Paolo II aggiungeva: «Desidero ancora una volta totalmente affidarmi alla grazia del Signore. Egli stesso deciderà quando e come devo finire la mia vita terrena e il ministero pastorale. Nella vita e nella morte Totus Tuus mediante l’Immacolata. Accettando già ora questa morte, spero che il Cristo mi dia la grazia per l’ultimo passaggio, cioè la [mia] Pasqua. Spero anche che la renda utile per questa più importante causa alla quale cerco di servire: la salvezza degli uomini, la salvaguardia della famiglia umana, e in essa di tutte le nazioni e dei popoli […], utile per le persone che in modo particolare mi ha affidato, per la questione della Chiesa, per la gloria dello stesso Dio».

Il Papa non intendere aggiunger altro a quanto detto precedentemente. Tutto ciò che desidera è solamente esprimere la sua assoluta prontezza a seguire il Signore, la sua totale fiducia in colui che lo ha chiamato e che sa quando verrà per lui il tempo più opportuno per concludere la sua esistenza terrena e portare a compimento l’opera affidatagli: «Non desidero aggiungere niente a quello che ho scritto un anno

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fa — solo esprimere questa prontezza e contemporaneamente questa fiducia»298. Il cristiano deve essere sempre pronto a seguire il Signore che chiama, sempre. Nell’esprimere questo pensiero sembra proprio che il Papa abbia in mente e nel cuore le parabole del vangelo, soprattutto quella delle dieci vergini…e del padrone di casa che torna dopo un lungo viaggio (cfr Mt 24,54-51; 25,1-13): in questi testi scritturistici, infatti, l’insistenza sulla necessità di essere “pronti” per accogliere il Signore che viene, è centrale, e caratterizza l’esistenza del cristiano e del discepolo. La prontezza, effettivamente, è di chi ha alimentato le proprie lampade, di chi è vigilante, di chi ha vissuto secondo la volontà del Signore e di chi è stato servo buono e fedele e che perciò non ha nulla da temere. È insomma di chi ha piena fiducia in Dio: non può esserci prontezza senza fiducia, né è possibile che quest’ultima non si traduca in una disponibilità a seguire totalmente il Signore, sempre, anche nel momento estremo della morte. La parte più consistente del Testamento è stata scritta durante il grande Giubileo del 2000, in un momento in cui il Papa volge lo sguardo al passato per ringraziare Dio il quale in maniera a tutti nascosta porta avanti il suo disegno provvidente nella vita degli uomini e della sua Chiesa. Il ricordo del Papa si porta sino ai giorni del conclave che lo avrebbe eletto al soglio pontificio, e quindi alle parole (profetiche) del Card. Stefan Wyszyn!sloki, Primate di Polonia, il quale, esortò l’allora Cardinale di Cracovia, Karol Wojtyla, ad accettare l’elezione alla Sede di Pietro qualora fosse stato chiamato per questo ministero, perché di certo Dio aveva preparato per lui un disegno provvidente: introdurre la sua Chiesa nel Terzo Millennio cristiano. Quando, il 16 ottobre del 1978 venne eletto Papa, Giovanni Paolo II ripensò a quelle parole e proprio all’apertura del grande Giubileo del 2000 vide il loro realizzarsi. Guardare al passato per contemplare la provvidenza e l’opera di Dio, e per rileggere così, alla luce del progetto di Dio, l’intero secolo ventesimo trascorso e il nuovo secolo che si stava aprendo: 298 In Geremia, dramma scritto da giovane, nel 1940, si leggono espressioni che sembrano ritornare qui: «…Ho camminato, camminato finché ho avuto vita […], Bisogna che ciascuno porti tanto quanto può E che ciascuno porti là dove può. E dopo — è una cosa di Dio, non dell’uomo» (Geremia, III, in ID., Tutte le opere letterarie, cit., 345-346).

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«Secondo i disegni della Provvidenza — scrive il Papa nel marzo del 2000 — mi è stato dato di vivere nel difficile secolo che se ne sta andando nel passato, e ora, nell’anno in cui l’età della mia vita giunge agli anni ottanta (octagesima adveniens), bisogna domandarsi se non sia il tempo di ripetere con il biblico Simeone “Nunc dimittis”». Le parole del vegliardo esprimono la consapevolezza che la vita è nelle mani di Dio e che va vissuta per compiere la missione che egli affida ai suoi servi. La vita è un dono, un pegno che va accolto e che al momento opportuno va restituito. Di questa verità il Papa è stato sempre cosciente, soprattutto a partire dall’esperienza dolorosa e forte dell’attentato subito a Piazza S. Pietro, durante l’udienza generale del 13 maggio del 1981. Proprio in quell’occasione, confessa il Papa, egli ha sperimentato che la Provvidenza lo ha salvato in modo miracoloso dalla morte. Egli è convinto, infatti, che non sia stato certamente un caso fortuito che sia sopravvissuto a quel terribile attentato. Tutto rientra in un progetto misterioso e amorevole di Dio, il Signore della vita e della morte, che aveva deciso di prolungare la sua vita liberandolo dalla morte e donandogli, quasi per una seconda volta, la vita: «Colui che è unico Signore della vita e della morte Lui stesso mi ha prolungato questa vita, in un certo modo me l’ha donata di nuovo. Da questo momento essa ancora di più appartiene a Lui». La consapevolezza che il Signore gli aveva fatto ancora una volta dono gratuito della vita, induce il Papa a rinnovare con più vigore il suo affidamento incondizionato nelle mani di Dio e a porre l’intera sua persona e azione al suo servizio, poiché al Signore appartiene la vita dell’uomo. Egli si affida a Dio con la serenità di chi sa di essere incessantemente aiutato e guidato dalla sua mano provvidente nel suo delicato ministero. L’unica cosa che il Papa chiede al Signore è che Egli possa chiamarlo a sé secondo il disegno della sua volontà e sapienza, poiché nella vita e nella morte l’uomo appartiene al Signore (cfr Rm 14,8), e che possa perciò ricevere da Dio la forza per portare avanti il suo ministero a servizio della Chiesa, sorretto dalla misericordia divina (12-18 marzo 2000). La morte, ha ripetuto insistentemente Giovanni Paolo II nel corso della sua vita, è la risposta a una chiamata, è un consegnarsi a Dio e lasciarsi da lui condurre. È l’ultimo, estremo atto di obbedienza incondizionata a Dio («Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola»: Lc 2,29, esclama il vegliardo Simeone accogliendo il bambino Gesù fra le sue braccia!). L’uomo non è padrone della propria vita, e di questo Giovanni Paolo II ne è perfettamente cosciente, anche perché nella sua stessa carne ha sperimentato, specialmente

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attraverso la dolorosa esperienza umana dell’attentato, che la vita dell’uomo è come il fiore del campo: fiorisce al mattino e avvizzisce la sera. Per questa ragione tutta la vita, ogni suo istante, va vissuta come dono gradito accolto dalle mani di Dio, un dono gratuito che solamente Dio può decidere di ritirare, poiché è lui che toglie il respiro. Senza il suo alito di vita le cose muoiono e ritornano nella loro polvere. Se la vita è nelle mani di Dio e ci può essere richiesta in qualsiasi momento, la morte non è altro che il disporsi assoluto e definitivo dell’uomo alla volontà dell’Altissimo: è Dio che concede al suo servo di andare in pace e di concludere il suo itinerario terreno; la morte è sì azione, ma è anche passione, obbedienza, sottomissione volontaria e consapevole dell’uomo che rassegna se stesso nelle mani del Padre: in Cristo, per Cristo, e in comunione con la sua filiale consegna al Padre suo sulla croce. È infine veramente straordinario vedere come il Papa, quasi alla conclusione dell’ultima parte del suo Testamento, dopo aver ricordato eventi ecclesiali di portata universale come il Concilio Vaticano II, vissuto da lui personalmente quando ancora era giovane vescovo, e che tanto ha segnato la sua esistenza e il suo ministero, ritorni ai ricordi più intimi e familiari che hanno solcato la sua infanzia, la sua giovinezza e i primi anni del suo ministero presbiterale. È commovente soprattutto il ricordo grato dei genitori, del fratello e della sorella, morta prima della sua nascita: «A misura che si avvicina il limite della mia vita terrena — egli dice — ritorno con la memoria all’inizio». All’approssimarsi della morte la fine viene quasi a coincidere con l’inizio. Ecco così il ricordo dei genitori e dell’infanzia, proprio a sottolineare come inizio e fine siano in realtà degli spiragli privilegiati, forse unici, che ci lasciano intravedere l’oltre. Per tutti ha ancora parole cariche di sincera gratitudine: «A tutti voglio dire una cosa: “Dio vi ricompensi”». «In manus Tuas, Domine, commendo spiritum meum». Sono queste parole di Gesù quelle che il Papa fa sue e che concludono il suo denso Testamento spirituale. Egli chiude il suo Testamento con queste parole quasi a voler dire (desiderare!) che in fondo l’itinerario terreno dell’uomo non può avere altro punto di approdo se non la perfetta conformazione a Cristo, la partecipazione alla sua morte e al suo sacrificio sulla croce. Nella morte oramai il cristiano è un alter Christus, si identifica con il Signore morente. Anzi, nella morte è Cristo a identificarsi, estremo atto di solidarietà, di svuotamento e di amore, con l’uomo che muore. Ancora una volta assume la sua passione e il suo destino mortale, muore in lui e

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per lui e trasfigura la morte, ultimo nemico, in evento pasquale. Nella morte dell’uomo, di ogni singolo uomo, per la partecipazione alla stessa Pasqua di Cristo, si consuma cosÏ la sconfitta della stessa morte e si afferma sempre piÚ il regno di Dio sino alla consumazione del mondo e alla risurrezione escatologica dei morti.

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CONCLUSIONE

Nella riflessione che ho proposto e che non ha avuto la pretesa di esporre compiutamente la ricchissima e davvero preziosa riflessione di Giovanni Paolo II, uomo e pontefice, sulla questione umana e cristiana della morte, in cui ho preferito che a parlare fosse lo stesso Giovanni Paolo II e che il lettore si incontrasse direttamente con le sue parole, dense, profonde, forti, sono tra l’altro emersi di continuo, tra le righe, almeno tre temi che rappresentano il nucleo del pensiero di Karol Wojtyla, uomo e pontefice sul tema della morte. Essi rappresentano tre momenti successivi che si compenetrano a vicenda: 1. l’uomo (dimensione personale, antropologica, esistenziale della morte; drammaticità della fine); 2. la terra (dimensione comunitaria della morte; la morte come destino di tutte le cose); 3. il cielo (la speranza cristiana; carattere pasquale del morire e prospettiva cristologica della spes christiana). Sovente, infatti, il Papa ricorre a queste tre “parole”, semplici e densissime di significato, per parlare della morte nella sua pluridimensionalità: la morte come evento personale e universale, con un significato antropologico ma soprattutto teologico; la morte come fine e varco. Solamente nell’articolazione di questi tre termini del discorso: uomo-terra-cielo, è possibile avviare un discorso sensato e significativo sulla morte. Solamente nella misura in cui si tengono unite la dimensione personale e quella universale della morte, ed entrambe si leggono nella prospettiva della speranza, è possibile penetrare nel cuore stesso di questo mistero senza per questo rimanerne totalmente posseduti, ma anche senza per questo esaurirlo. La speranza è perciò l’unica chiave di lettura capace di leggere la morte come destino dell’uomo e del mondo e di reggere il suo peso; una speranza che non è illusione né evasione, che non è maschera e neppure istinto di sopravvivenza, ma è opera di Dio che nel risuscitare il suo Figlio ha dato un senso al non senso della morte e al non senso che è la morte. Una speranza, tuttavia, che non vuole coprire l’orrore della morte né vuole illuminarne artificialmente il buio. Una speranza che è Cristo Gesù, l’Uomo-Dio nel quale la terra e il cielo si sono strettamente e indissolubilmente congiunti per sempre. Non è stato difficile rintracciare nella riflessione del Papa il costante sforzo di guardare alla morte senza cedere alla tentazione di sviare il terrore che essa genera nell’uomo, di oscurarne la natura tragica e drammatica. Della morte è stato detto ripetutamente che essa è evento personale e

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universale, colpisce il singolo e corrode il tutto; spaventa, ammutolisce, soggioga, spegne, copre l’uomo e tutti gli altri esseri viventi. Muore l’uomo e muore la terra. Nella morte l’uomo e la terra sperimentano la loro più triste e stretta solidarietà. Una solidarietà non cercata e non voluta, forse subita e imposta, ma che tuttavia è quella originaria e che reclama di essere purificata. Le domande dell’uomo si “atterrano” e non trovano alcuna risposta se non nella rivelazione. Solamente la speranza cristiana apre la terra, divenuta tomba e sepolcro per l’uomo, al cielo. La speranza supera lo scarto che c’è tra la terra e il cielo, lo colma, non lo annulla: lo riempie della parola di Cristo. In queste poche e sintetiche espressioni credo che sia condensata l’essenza della ricchissima riflessione consegnataci da papa Wojtyla sul mistero della morte. Concludendo questo studio, desidero ritornare al punto da dove ci eravamo mossi all’inizio. Desidero, cioè, operare una sorta di “ritorno tematico” (gli studi biblici parlerebbero di “inclusione”) che ci permetta di chiudere con lo stesso pensiero con cui abbiamo iniziato questo percorso di riflessione, tentando però un ulteriore approfondimento e sviluppo delle affermazioni iniziali. L’esistenza di Giovanni Paolo II è stata da sempre la risposta radicale ad una chiamata ancora più radicale. È stata, cioè, un lungo e ininterrotto cammino di sequela che lo ha portato ad una sempre più forte e profonda partecipazione al destino di Cristo, alla conformazione del discepolo al suo Maestro. A conferma di ciò, ad esempio, nel libro-testimonianza Memoria e identità, Giovanni Paolo II riflettendo sull’esortazione perentoria che Gesù rivolge ai suoi discepoli e anche all’uomo di oggi: “Seguimi!”, afferma che questo appello di Gesù è un invito a intraprendere il cammino sul quale ci conduce la dinamica del mistero della Redenzione. A tale dinamica si riferiscono le tre tappe attraverso le quali deve passare chi vuole seguire Cristo. Queste tre tappe (purificativa, illuminativa e unitiva) non sono invero tre vie, ma tre tratti della stessa via, sulla quale Cristo chiama ogni uomo. La via purificativa consiste nell’osservanza dei comandamenti di Dio e nella vittoria sul peccato. L’uomo è infatti costantemente sottoposto alla tentazione e giorno dopo giorno deve fare i conti con le sue debolezze, le sue fragilità, le sue infedeltà e i suoi compromessi. Quotidianamente egli è invitato a convertirsi, a cambiare vita, a riordinare e a ri-orientare tutta intera la sua esistenza, abbandonando quanto appartiene al peccato e

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aderendo senza riserve a Dio. La via illuminativa, che presuppone quella purificativa, consente invece all’uomo di comprendere i valori espressi nei comandamenti, di penetrare nel significato profondo della legge divina e di conformarsi così a quanto essa indica e comanda, riconoscendo nel suo contenuto la via della salvezza, la pienezza di bene e il sentiero della felicità e della perfetta realizzazione. L’ultima via, quella unitiva, rappresenta quindi il momento in cui l’uomo, purificato dal peccato e rinnovato dall’osservanza dei comandamenti, conosce l’unione con Dio, stabilisce con lui un rapporto intimo, vitale299. Le prime due vie costituiscono l’introduzione alla terza ed ultima tappa, quella unitiva che «si attua nella contemplazione dell’Essere divino e nell’esperienza dell’amore che ne scaturisce con intensità crescente. Si anticipa così in qualche misura quella che sarà la parte dell’uomo nell’eternità, oltre il confine della morte e della tomba»300. L’uomo è quindi un pellegrino; la morte rappresenta per lui una tappa fondamentale, unica, del suo itinerario verso Dio, sorgente della vita eterna, della sua “salita” verso il monte di Dio, verso la patria eterna, un cammino percorso dietro a Cristo Pastore e Maestro. L’uomo è per essenza un viandante, il cammino è per lui veramente costitutivo. Nella prima parte del Trittico romano, come faceva notare l’allora Card. J. Ratzinger nella presentazione del testo poetico di Giovanni Paolo II, il 6 marzo del 2003301, viene detto che affinché l’uomo possa trovare la sorgente e il senso della vita, è necessario che vada controcorrente, che vada in alto; lì, solamente lì troverà l’inizio e anche l’origine di ogni cosa e della propria stessa vita. Le tavole che compongono la riflessione del Papa sulla creazione e sulla ricerca dell’uomo del senso della vita e del mondo, secondo Ratzinger «ci guidano nella salita “controcorrente”. Il pellegrinaggio spirituale compiuto in questo testo conduce verso il “Principio”. All’arrivo la vera sorpresa è che l’“inizio” svela anche la “fine”. Chi conosce l’origine, vede 299 Parlando della maturità, il Papa afferma che è il momento in cui «il corpo al suo culmine approda alle rive d’autunno [….in cui è…] riconciliata l’anima col proprio corpo, più riluttante alla morte e ansiosa della risurrezione…[…] maturità è soprattutto l’amore, da cui il timore viene trasfigurato» (p. 91). [Quando saremo sulla riva d’autunno esploderà l’amore come brama di inoltrarsi verso Colui in cui la vita trova tutto il suo domani] p. 93. [L’uomo è colui che guarda verso la riva d’autunno] p. 93. 300 K. WOJTYLA, Memoria e identità, cit., 42. 301 Cfr OR (7 marzo 2003), p. 6.

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anche il dove e il perché dell’intero movimento dell’essere, il quale è divenire e proprio così anche perdurare: “Tutto perdura divenendo perpetuamente”».

Dove conduce la risalita, aggiungeva Ratzinger a commento dello scritto di Giovanni Paolo II, è perciò il Verbo eterno di Dio. Il Verbo ha un Volto, e il senso dell’uomo sta nella contemplazione di questa visione: tutta la sua esistenza è un peregrinare verso questo Volto, verso questa visione dalla quale è stato generato. «Ogni uomo è chiamato a “riacquistare questa visione di nuovo”. Il cammino che conduce alla sorgente è un cammino per diventare vedenti: per imparare da Dio a vedere. Allora appaiono il principio e la fine. Allora l’uomo diventa giusto», diceva Ratzinger. Il nesso tra principio e fine, per chi come Giovanni Paolo II pellegrina verso l’interno e verso l’alto, appare perciò chiaro proprio nella Cappella Sistina, dove Michelangelo ci ha donato le immagini dell’inizio e della fine — la visione della creazione e l’imponente dipinto del giudizio finale. Il centro della seconda tavola è rappresentato soprattutto dallo sguardo all’“origine”. «Che cosa vi vede l’uomo? — si domanda Ratzinger seguendo il pensiero di Giovanni Paolo II —. Nell’opera di Michelangelo il Creatore appare con le “sembianze di un essere umano”: l’immagine e somiglianza dell’uomo con Dio viene rovesciata in modo da poterne dedurre l’umanità di Dio, la quale rende possibile rappresentare il Creatore. Tuttavia, lo sguardo che Cristo ci ha aperto conduce ben oltre e mostra in modo rovesciato, partendo dal Creatore, dalle origini, chi l’uomo è in realtà. Il Creatore, l’origine, non è, come potrebbe apparire nel dipinto di Michelangelo, semplicemente “l’Onnipotente Vecchio”. È invece “Comunione di persone… un reciproco donarsi…”. Se all’inizio abbiamo visto Dio partendo dall’uomo, ora impariamo a vedere l’uomo partendo da Dio: reciproco donarsi — a questo è destinato l’uomo; se riesce a trovare la via per giungere a ciò, allora rispecchia l’essenza di Dio e dunque si svela il nesso tra il principio e la fine».

L’analisi dell’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede continua nella presentazione della terza tavola del Trittico, la salita di Abramo e Isacco sul monte Moria, il monte del sacrificio, del donarsi senza riserve. Tema, tra l’altro molto caro a Giovanni Paolo II il quale ha dedicato a questo episodio biblico riflessioni profonde nelle sue opere letterarie. Per il racconto biblico, rappresentato nelle sue fasi salienti

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da Michelangelo, la salita è l’ultima e decisiva fase del cammino di Abramo, iniziato con la partenza dalla sua patria, Ur dei Caldei. È la fase fondamentale nella salita verso la vetta, controcorrente, verso la sorgente, che è anche la mèta. «Nel dialogo inesauribile tra padre e figlio, fatto di poche parole e del portare insieme, in silenzio, il mistero di queste parole, si riflettono tutte le domande della storia, la loro sofferenza, le loro paure e speranze. Alla fine emerge che questo dialogo tra padre e figlio, tra Abramo e Isacco, è il dialogo in Dio stesso, il dialogo tra l’eterno Padre e suo Figlio, il Verbo, e che questo dialogo eterno rappresenta allo stesso tempo anche la risposta al nostro dialogo umano incompiuto. Infatti, alla fine vi è la salvezza di Isacco, l’agnello — segno misterioso del Figlio, che diviene Agnello e vittima sacrificale, svelandoci così il vero volto di Dio: quel Dio che ci dona se stesso, che è interamente dono e amore, fino all’estremo, fino alla fine (cfr Gv 13,1)».

Così, concludeva Ratzinger, proprio in questo concretissimo evento della storia, «appare evidente l’origine e la fine di tutto, il nesso tra discesa e salita, tra sorgente, cammino e mèta: diventa riconoscibile il Dio che dona se stesso, che è al contempo principio, via e mèta. Questo Dio traspare nella creazione e nella storia. Ci cerca nelle nostre sofferenze e nei nostri interrogativi. Ci mostra che cosa significa essere uomini: donarsi nell’amore, il che ci rende simili a Dio. Attraverso il cammino del Figlio sul monte del sacrificio si svela “il mistero celato dell’esordio del mondo”. L’amore che dona è il mistero originale e, amando anche noi, comprendiamo il messaggio della creazione, troviamo il cammino».

Radicato nell’agire stesso di Dio, nel suo amore fontale, l’uomo fa della propria vita un dono supremo all’altro, sino alla morte: l’inizio (nella disponibilità a morire), e l’orizzonte (l’atto del morire). Il dono di sé che la persona umana fa quotidianamente all’altro e che è chiamata a fare pienamente nella sua morte, è la liberazione dalla solitudine, è il partecipare a una comunione che non è oppressione, ma apertura. Una comunione che rende la vita un evento sensato, giustificato, fondato; una vita degna di essere vissuta sino in fondo, sino alla morte, anche questa non subita, ma vissuta come sacrificio per l’altro, come dono all’altro nella dedizione

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perfetta di sé, a immagine e come partecipazione al dono terno del Padre del Figlio e dello Spirito. L’uomo, immagine di Dio Trinità, Comunione eterna di Persone, è egli stesso dalla comunione e per la comunione. Vive veramente se rimane nella comunione e se realizza sempre più ciò che già nell’origine è iscritto nella sua essenza più profonda: la comunione per lui è origine e meta, sorgente e foce. La morte, vissuta nell’amore e come dono incondizionato a Dio e all’altro, è perciò stesso punto di arrivo e di partenza al contempo, approdo e inizio, realizzazione dell’amore che non può per sua natura attuarsi perfettamente in questo mondo del fuggevole e del transitorio, ma solamente nell’eternità di Dio. La morte è il prezzo che può essere richiesto, e che alla fine a tutti sarà richiesto, per il compimento di quel sacrificio per l’altro che nella vita di ogni giorno si è tradotto nella responsabilità e nella sollecitudine per lui. È ciò che si è compiuto in Cristo, l’uomo perfetto, l’Uomo nuovo, che ha fatto della sua morte l’estremo atto di amore nei confronti di coloro che durante tutta intera la sua esistenza erano stati oggetto della sua sollecitudine, della sua dedizione, della sua premura e della sua compassione. Nessun amore può essere perfetto se preclude il dono della vita, se si arresta di fronte alla possibilità reale di morire per l’altro, poiché non c’è amore più grande di quello che si consuma nel dare la vita per l’altro. In Cristo ci è stato mostrato questo amore poiché egli si è offerto all’uomo peccatore perché, redento dal suo dominio e dal potere della morte, potesse partecipare alla vita stessa di Dio, comunione del Padre del Figlio e dello Spirito Santo. L’amore è ciò che rende seria la vita e rende seria la morte. L’amore è ciò che fa della morte dell’altro, soprattutto se lo si ama, non tanto l’annuncio di un’assenza, di una sparizione, la fine, cioè, di questa o quella vita, ma la dichiarazione, ogni volta, della fine del mondo nella sua totalità, la fine di tutto il mondo possibile. L’amore è sì il “solvente” della morte, ma è anche ciò che permette alla morte di mostrare tutta la sua tremenda serietà, il suo potere di interrompere qualsiasi dialogo. La perdita di una persona amata, infatti, è realmente la fine stessa del mondo, ogni volta unica e assoluta. L’amore è soprattutto ciò che non consente alla morte di proferire i suoi proclami di vittoria sull’esistenza dell’uomo, della persona amata, del mondo. La buona notizia che il cristianesimo è chiamato a servire e a consegnare al mondo è la vittoria finale su ogni forma di male: sul peccato prima e quindi, pienamente nell’ultimo giorno, sulla morte e su ogni

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sofferenza. In tal senso, la vita terrena non è un cammino verso la morte, ma verso la vita, verso la luce, verso il Signore. «Il cristianesimo — disse Giovanni Paolo II in una sua omelia al cimitero del Verano — è un programma pieno di vita. Dinanzi all’esperienza quotidiana della morte, di cui la nostra umanità diventa partecipe, esso ripete instancabilmente: “Credo nella vita eterna”. E in questa dimensione di vita si trova la definitiva realizzazione dell’uomo in Dio stesso: “Sappiamo... che... noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2)»302.

L’uomo che sa guardare alla morte con la serena certezza che gli proviene dalla fede, accetta il senso del mistero al di là di se stesso; si scopre, come essere destinato per qualcosa di infinitamente più grande dell’esistenza storica, che per quanto affascinante e grandiosa, non può soddisfare ciò che custodisce il suo cuore e le profondità del suo spirito. Ci sarebbero molte cose da dire, ma ciò che desidero aggiungere è solo qualche altra suggestione prima di chiudere questo mio lavoro. E lo faccio prima di tutto attraverso un riferimento al ricordo toccante e grato di Giovanni Paolo II che Benedetto XVI ci ha consegnato in occasione degli auguri natalizi rivolti alla Curia romana il 22 dicembre 2005303. In quella occasione egli ricordava i grandi avvenimenti dell’anno 2005, e come è naturale tra di essi riconosceva un posto assolutamente singolare alle vicende legate alla fase terminale della malattia del Papa e alla sua morte. La dipartita di Giovanni Paolo II, affermava Benedetto XVI, è stata «preceduta da un lungo cammino di sofferenza e di graduale perdita della parola». Proprio lui che aveva predicato in tutto il mondo e nelle sue molteplici lingue, ora, quasi alla fine della sua esistenza terrena, veniva privato della voce, ma non della parola, perché attraverso la sua sofferenza ha continuato a parlare al mondo. Dopo la sua intensissima e irrefrenabile attività apostolica, proprio alla fine della sua vita «gli è toccato un cammino di sofferenza e di silenzio». Il tutto ha avuto il suo epilogo nella «muta benedizione della Domenica di Pasqua, nella quale, attraverso tutto il dolore, vedevamo rifulgere la promessa della risurrezione, della vita eterna». Il Papa, allora, «con le sue parole e le sue opere, ci ha donato cose 302 303

Omelia al cimitero del Verano del 1 novembre 1979, cit., 1-2. Cfr OR (23 dicembre 2005), pp. 4-5.

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grandi; ma non meno importante è la lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza e del silenzio». Già in Memoria e Identità, faceva notare Papa Ratzinger, Giovanni Paolo II «ci ha lasciato un’interpretazione della sofferenza che non è una teoria teologica o filosofica, ma un frutto maturato lungo il suo personale cammino di sofferenza, da lui percorso col sostegno della fede nel Signore crocifisso. Questa interpretazione — concludeva Papa Ratzinger — che egli aveva elaborato nella fede e che dava senso alla sua sofferenza vissuta in comunione con quella del Signore, parlava attraverso il suo muto dolore trasformandolo in un grande messaggio».

È ancora a Ratzinger che faccio riferimento in questa parte conclusiva del mio lavoro, perché è davvero indimenticabile l’omelia da lui tenuta, quale decano del collegio cardinalizio, ai funerali solenni di Giovanni Paolo II in piazza S. Pietro304. Un’omelia in cui il leit motiv fu proprio il rapporto tra l’invito-imperativo di Gesù rivolto al discepolo: Seguimi!, e la risposta generosa a questa chiamata da parte del discepolo. La dinamica prodotta tra la chiamata e la risposta è stata infatti l’anima delle riflessioni che ho proposto in questo studio, ma soprattutto è stata l’anima dell’esistenza di Papa Wojtyla. Ripercorrendo l’intera esistenza di Karol Wojtyla, il Card. Ratzinger nella sua omelia non poteva non constatare che in effetti essa è stata una sincera sequela di Cristo. Da giovane studente Karol, ricordava Ratzinger, era entusiasta della letteratura, del teatro, della poesia. Lavorando in una fabbrica chimica, circondato e minacciato dal terrore nazista, ha sentito la voce del Signore: Seguimi! In questo contesto molto particolare cominciò a leggere libri di filosofia e di teologia, entrò poi nel seminario clandestino in cui si formò sino all’ordinazione sacerdotale. «Tante volte — continuava il Card. Ratzinger — nelle sue lettere ai sacerdoti e nei suoi libri autobiografici ci ha parlato del suo sacerdozio, al quale fu ordinato il 1° novembre 1946. In questi testi interpreta il suo sacerdozio in particolare a partire da tre parole del Signore. Innanzitutto questa: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15,16). La seconda 304 Cfr OR (9 aprile 2005), p. 3. Interessante è anche l’articolo di G. GRIECO, Contempli in eterno il mistero di pace e di amore che dispensò fedelmente alla famiglia umana, pubblicato nello stesso numero del quotidiano della Santa Sede, pp. 3-4.

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parola è: “Il buon pastore offre la vita per le pecore” (Gv 10,11). E finalmente: “Come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9). In queste tre parole vediamo tutta l’anima del nostro Santo Padre. È realmente andato ovunque ed instancabilmente per portare frutto, un frutto che rimane. “Alzatevi, andiamo!”, è il titolo del suo penultimo libro. “Alzatevi, andiamo!” — con queste parole ci ha risvegliato da una fede stanca, dal sonno dei discepoli di ieri e di oggi».

Anche con la sua morte Giovanni Paolo II ha rivolto a tutti l’invito ad alzarsi e ad andare verso Cristo, ad accettare l’invito che il Maestro rivolge a coloro che vogliono seguirlo. «Il Santo Padre è stato poi sacerdote fino in fondo, perché ha offerto la sua vita a Dio per le sue pecore e per l’intera famiglia umana, in una donazione quotidiana al servizio della Chiesa e soprattutto nelle difficili prove degli ultimi mesi. Così è diventato una sola cosa con Cristo, il buon pastore che ama le sue pecore. E infine “rimanete nel mio amore”: Il Papa che ha cercato l’incontro con tutti, che ha avuto una capacità di perdono e di apertura del cuore per tutti, ci dice, anche oggi, con queste parole del Signore: Dimorando nell’amore di Cristo impariamo, alla scuola di Cristo, l’arte del vero amore».

Nel luglio 1958, rievocava ancora Ratzinger nella sua omelia, comincia per il giovane sacerdote Karol una nuova tappa nel cammino con il Signore e dietro il Signore: sarà chiamato ad essere prima vescovo ausiliare di Cracovia e quindi, in un secondo momento, vescovo titolare di questa importante città polacca. «Seguimi — Karol Wojtyla accettò, sentendo nella chiamata della Chiesa la voce di Cristo. E si è poi reso conto di come è vera la parola del Signore: “Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece l’avrà perduta la salverà” (Lc 17, 33)». Il Papa, proseguiva Ratzinger non ha, mai voluto salvare la propria vita, tenerla per sé; ha voluto dare se stesso senza riserve, fino all’ultimo momento, per Cristo, per gli uomini. Proprio in tal modo ha potuto sperimentare come tutto quanto aveva consegnato nelle mani del Signore gli è ritornato in modo nuovo. Tutto ciò che aveva dovuto abbandonare a motivo dell’impegno pastorale che gli era stato richiesto quale vescovo di Cracovia, l’amore alla parola, alla poesia, alle lettere, fu infatti una parte essenziale della sua missione pastorale e ha dato nuova freschezza, nuova attualità, nuova attrazione all’annuncio del vangelo, anche quando esso è segno di contraddizione.

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Nell’ottobre 1978 il Cardinale Wojtyla ode di nuovo la voce del Signore che lo invitava a seguirlo. «Si rinnova il dialogo con Pietro […]: “Simone di Giovanni, mi ami? Pasci le mie pecorelle!” Alla domanda del Signore: Karol mi ami?, l’Arcivescovo di Cracovia rispose dal profondo del suo cuore: “Signore, tu sai tutto: Tu sai che ti amo”». L’amore di Cristo fu la forza dominante del Papa: Cristo seguito, amato e annunciato a tutti. Insieme al mandato di pascere il suo gregge, Cristo annunciò a Pietro il suo martirio. Colui che in un primo momento non poteva seguire integralmente Cristo sino alla croce (“Dove io vado per ora tu non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi” dice Gesù a Pietro nel vangelo di Giovanni: Gv 13, 33.36), dopo la risurrezione giunge a quel momento, a quel “più tardi” di cui Gesù parlava durante l’ultima cena e che è il tempo opportuno perché il discepolo segua totalmente il maestro nel suo destino di morte e risurrezione. Pascendo il gregge di Cristo, infatti, Pietro entra nel mistero pasquale, va verso la croce e la risurrezione. La comunione con il Signore è nella sofferenza e della comunanza di una vita vissuta come servizio ai fratelli. È ciò che ha sperimentato nella sua stessa carne Giovanni Paolo II il quale proprio nella comunione col Signore sofferente ha instancabilmente e con rinnovata intensità annunciato il vangelo, il mistero dell’amore che va fino alla fine (cfr Gv 13,1). Animato dalla visione di Cristo sofferente e morto sulla croce per amore dell’uomo peccatore e perduto, il Papa ha sofferto e amato in comunione con il suo Signore. La ragione per cui il messaggio della sua sofferenza e del suo silenzio è stato così eloquente e fecondo sta proprio in questo. Cristo ha rivelato al mondo con la sua morte la Divina Misericordia. Giovanni Paolo II, concludeva perciò il Card. Ratzinger, «ha trovato il riflesso più puro della misericordia di Dio nella Madre di Dio. Lui, che aveva perso in tenera età la mamma, tanto più ha amato la Madre divina. Ha sentito le parole del Signore crocifisso come dette proprio a lui personalmente: “Ecco tua madre!”. Ed ha fatto come il discepolo prediletto: l’ha accolta nell’intimo del suo essere (cfr Gv 19,27) — Totus tuus. E dalla madre ha imparato a conformarsi a Cristo».

“Seguimi” è stato dunque per Giovanni Paolo II un appello costante, insistente, radicale, e anche un serio programma di vita: tutta la sua esistenza, infatti, nelle concrete situazioni in cui egli era posto, è stata il tentativo costante di corrispondere alla chiamata rivoltagli da Dio, di

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adeguarsi con fiducia filiale e confidente al progetto della divina misericordia e a quanto Gesù, Maestro e guida, gli richiedeva. Una sequela che ha inevitabilmente conosciuto molti momenti di prova e sofferenza, fisica e spirituale, sino alle ultime fasi della malattia che lo affliggeva e che diveniva sempre più chiaramente manifesta e devastante. La sofferenza è stata quindi per Giovanni Paolo II l’ultimo e il più alto gradino della sua disponibilità a seguire Cristo sin sulla croce: Totus Tuus. «“Seguimi” dice il Signore risorto a Pietro, come sua ultima parola a questo discepolo, scelto per pascere le sue pecore. “Seguimi” — questa parola lapidaria di Cristo, diceva Ratzinger, può essere considerata la chiave per comprendere il messaggio che viene dalla vita del nostro compianto ed amato Papa Giovanni Paolo II». Veramente dense e profonde sono le parole dell’allora Card. Ratzinger. Credo comunque che non ci sia conclusione migliore che quella offertaci dallo stesso Karol Wojtyla, il quale, con straordinaria profondità, nel Canto del Dio nascosto, esprime in modo davvero suggestivo il significato profondo della morte nella luce della speranza cristiana: «Dio presente, fa che questi occhi chiusi divengano interamente aperti — e l’esile soffio dell’anima, che trema in uno sbocciare di rose avvolgi nel Tuo vento immenso. Penso spesso a quel giorno di visione che sarà pieno di stupore per la Tua semplicità che tiene in pugno il mondo e in cui esso dura, intatto fin qui — e oltre. E allora il semplice imperativo diviene crescente nostalgia di quel giorno che ogni cosa avvolgerà nella sua semplicità sconfinata e in un soffio amoroso»305.

E ancora, rivolgendosi con calore e affetto a coloro che vivono l’ultima stagione della vita, l’anziano pontefice, alla vigilia del Grande Giubileo del 2000, scriveva: «[…] trovo una grande pace nel pensare al momento in cui il Signore mi chiamerà: di vita in vita! Per questo mi sale spesso alle labbra, senza alcuna vena di tristezza, una preghiera che il sacerdote recita dopo la celebrazione eucaristica: In hora mortis meae voca me, et iube me venire ad te — nell’ora della morte chiamami, e comanda che io venga a te. È la preghiera della

305

K. WOJTYLA, Canto al Dio nascosto, cit., 61.

213


speranza cristiana, che nulla toglie alla letizia dell’ora presente, mentre consegna il futuro alla custodia della divina bontà. “Iube me venire ad te!”: è questo l’anelito più profondo del cuore umano, anche in chi non ne è consapevole. Dacci, o Signore della vita, di prenderne lucida coscienza e di assaporare come un dono, ricco di ulteriori promesse, ogni stagione della nostra vita. Fà che accogliamo con amore la tua volontà, ponendoci ogni giorno nelle tue mani misericordiose. E quando verrà il momento del definitivo “passaggio”, concedici di affrontarlo con animo sereno, senza nulla rimpiangere di quanto lasceremo. Incontrando Te, dopo averti a lungo cercato, ritroveremo infatti ogni valore autentico sperimentato qui sulla terra, insieme con quanti ci hanno preceduto nel segno della fede e della speranza. E tu, Maria, Madre dell’umanità pellegrina, prega per noi “adesso e nell’ora della nostra morte”. Tienici sempre stretti a Gesù, Figlio tuo diletto e nostro fratello, Signore della vita e della gloria. Amen!»306.

306

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Lettera agli anziani 17-18, in EV/18, 1685-1686.


INDICE DEI NOMI Abele 67, 68, 70 Abramo 96, 97, 206, 207 Adamo 70, 89, 91, 94, 96, 110, 114, 115, 117, 118, 138

Grieco G. 210

Benedetto XVI 209

Ignazio di Antiochia (s.) 160 Isacco 96, 97, 206, 207 Isaia 77, 113, 175

Hünermann P. 164

Caino 61, 68, 70 Cavalcoli G. 173 Jagielka J. 87 Denzinger H. 164 Dziwisz S. 46, 176

Ezechia 81

Francesco d'Assisi (s.) 90 Francesco di Sales (s.) 166 Frossard A. 12 Fusi A. 169

Giacomo (s.) 136 Giacomo di Sarug (s.) 165 Giobbe 10, 25, 76, 77, 85, 120, 137 Giovanni (s.) 54, 96, 97, 112, 136, 149, 188, 212 Giovanni Cassiano 80 Giovanni Damasceno (s.) 165 Giovanni Paolo II (vd. anche Wojtyla K.) 3, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13, 14, 16, 17, 22, 24, 26, 29, 30, 35, 36, 46, 50, 59, 60, 63, 66, 70, 71, 74, 75, 76, 80, 87, 94, 96, 100, 102, 105, 108, 116, 117, 118, 126, 142, 145, 147, 150, 155, 157, 166, 169, 171, 173, 176, 185, 187, 188, 191, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 198, 199, 203, 204, 205, 206, 209, 210, 211, 212, 213

Lazzaro 108 Lazzati G. 136 Lenzen D. 22, 28 Leonzio V. 87 Lobato A. 30

Macho T. 173 Maria, madre di Dio 7, 13, 17, 96, 100, 101, 163, 164, 165, 166, 167, 168, 169, 177, 191, 195, 212, 214 Marta 108 Matteo (s.) 120 Michelangelo 206, 207 Modesto di Gerusalemme (s.) 165 Mokrzycki M. 3, 8 Moody R.A. 23 Mosè 66

Nicodemo 117, 122

O’Connor B.J. 37

Paolo (s.) 8, 26, 89, 94, 96, 97, 101, 102, 107, 112, 115, 119, 121, 123, 129,


130, 133, 135, 136, 148, 149, 159, 166, 187, 192 Paolo VI 87, 132, 136, 174, 191, 192, 193, 194, 196 Pietro (s.) 5, 47, 122, 131, 136, 198, 212, 213 Pio XII 164 Ponzio Pilato 104

Ratzinger J. 205, 206, 207, 210, 211, 212, 213

Scheler M. 23 Simeone 168, 199 Socrate 26 Spadaro A. 11 Styczen! T. 34, 46, 176, 184, 185 Susanna 78

Turchi A. 87

Vergine (vd. Maria, madre di Dio) Virgilio 74

Wojtyla E. 11 Wojtyla K. (vd. anche Giovanni Paolo II) 6, 8, 10, 11, 12, 15, 34, 35, 36, 44, 71, 73, 74, 75, 87, 88, 99, 100, 103, 106, 107, 108, 109, 120, 125, 132, 134, 136, 174, 175, 176, 177, 178, 180, 181, 183, 184, 186, 192, 198, 203, 204, 205, 210, 211, 212, 213 Wulf Ch. 22 Wyszyn!sloki S. 198


INDICE

PREFAZIONE .

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5

PREMESSA

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CAPITOLO I SQUILIBRI E CONTRADDIZIONI DEL MONDO CONTEMPORANEO: LA MORTE RIMOSSA . . . . . . 1. NATURALIZZAZIONE DELLA MORTE . . . . 2. AMBIGUITÀ E LIMITI DEL PROGRESSO . . . 3. L’OGGI NELLA TENSIONE TRA I CONFLITTI E LA PACE . . 4. LA SOLITUDINE DEL MORENTE . . . . 5. LA MORTE DI DIO, LA FRAMMENTAZIONE DEL SENSO . . 5.1. Timore e tremore . . . . . 6. CONTRO LA CONGIURA DEL SILENZIO . . .

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19 26 30 35 37 42 47 48

CAPITOLO II L’AVANZARE DELLA “CULTURA DELLA MORTE” 1. VERSO LA “CULTURA DELLA VITA” . . 2. IL PECCATO: AFFERMAZIONE DELL’ANTI-AMORE

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59 65 70

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INTRODUZIONE

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CAPITOLO III OLTRE LA VITA, OLTRE LA MORTE: LA RISPOSTA DELLA FEDE . 1. LA SACRA SCRITTURA . . . . . . 1.1. L’Antico Testamento . . . . . . 1.1.1. Le tappe di un cammino . . . . 1.1.2. “Per la caduta di uno solo morirono tutti” (Rm 5,15): il peccato e la morte . . . . . 1.1.3. Il potere di Dio sulla vita e sulla morte . . 1.2. Il Nuovo Testamento . . . . . . 1.2.1. La predicazione del Regno . . . . 1.2.1.1. L’opposizione al Regno . . . 1.2.2. La prefigurazione del sacrificio di Cristo e della sua morte in Croce . . . . . CAPITOLO IV CRISTO, REDEMPTOR HOMINIS E VINCITORE DELLA MORTE . 1. CRISTO “NOSTRA SPERANZA” CON LA SUA MORTE DÀ SENSO AL NON-SENSO DELLA MORTE . . . . . 2. LA SPERANZA PASQUALE E LA GIOIA DELLA SALVEZZA .

73 76 76 76 83 85 89 91 95 96

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101 104


2.1. Lo Spirito Santo dono del Risorto e “caparra della nostra eredità” (Ef 1,14), libera dalla morte e ridona la vita 2.2. L’obbedienza filiale come sacrificio al Padre . . 3. SOLIDARIETÀ DI CRISTO CON L’UOMO SOFFERENTE. . . . . LO SPLENDORE DEL VOLTO . 4. LA CROCE: MISTERO DI SALVEZZA E SEGNO DELLA VITTORIA DI . . . . . CRISTO SULLA MORTE 4.1. La morte dei discepoli e la solidarietà con il Maestro 5. LA SINDONE, ICONA DEL DOLORE E SEGNO DELLA VITTORIA . . . . DELL’AMORE SULLAMORTE .

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163 163

CAPITOLO VI DIMENSIONE ANTROPOLOGICA DELLA MORTE . . . . . . 1. L’UOMO A IMMAGINE DI DIO 2. L’UOMO, UNITÀ DI ANIMA E DI CORPO, PELLEGRINO DELL’ASSOLUTO . . 3. CENTRALITÀ E DIGNITÀ DELLA PERSONA UMANA 3.1. L’amore, realizzazione della persona . . . . . . 4. MORTE ED AGIRE MORALE .

. . . . . .

171 171 172 178 180 185

CAPITOLO VII “SEGUIMI!”. IL TESTAMENTO SPIRITUALEDI GIOVANNI PAOLO II

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191

CONCLUSIONE

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INDICE DEI NOMI

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CAPITOLO V LA CHIESA: POPOLO DELLA SPERANZA E PRIMIZIA DEL REGNO 1. “TUTTI… COMUNICHIAMO NELLA STESSA CARITÀ DI DIO” (LUMEN GENTIUM 49): LA COMUNIONE IN CRISTO TRA I VIVI E I DEFUNTI 2. I SACRAMENTI DELLA CHIESA: CELEBRAZIONE DELLA SPERANZA . . . . CHE È PIÙ FORTE DELLA MORTE 2.1. Il Battesimo, lavacro di vita nuova . . . 2.1.1. Il martirio, battesimo di sangue . . 2.2. L’Eucaristia, memoriale della morte e risurrezione del Signore . . . . . . 3. MARIA, DISCEPOLA DEL SIGNORE, IMMAGINE E MODELLO . . . . . . DELLA CHIESA 3.1. La “dormizione” della Madre di Dio


Collane di Synaxis

«NUMERI MONOGRAFICI DI SYNAXIS»

Synaxis XIII/1 - 1995

«La fuitina» A. LONGHITANO, La fuga consensuale: sopravvivenza del matrimonio clandestino S. CONSOLI, Comportamenti matrimoniali nei sinodi siciliani dei secoli XVI-XVII G. ZITO, Fuitina e prassi pastorale nei vescovi siciliani tra ’800 e ’900


Synaxis XIV/1 - 1996

«Chiesa e mafia in Sicilia» (esaurito) F.M. STABILE, Cattolicesimo siciliano e mafia C. NARO, Inculturazione della fede e “ricaduta” civile della pastorale N. FASULLO, Una religione mafiosa A. LONGHITANO, La disciplina ecclesiastica contro la mafia C. CARVELLO, La liturgia per i morti di mafia. Esequie cristiane o funerali di Stato? Annotazioni liturgicocelebrative S. CONSOLI, La mafia nel pensiero di Giovanni Paolo II. Indicazioni metodologiche per uno specifico intervento pastorale della Chiesa C. SCORDATO, Chiesa e mafia per quale comunità? G. RUGGIERI, Postafazione: la mafia interpella la Chiesa


Synaxis XV/2 - 1997

«La cultura del clero siciliano» F.M. STABILE, Luoghi e modelli di formazione del clero S. VACCA, Società e Cappuccini in Sicilia tra Ottocento e Novecento A. LONGHITANO, Le condizioni di vita del clero non parrocchiale nella diocesi di Catania M. PENNISI, Preti capranicensi siciliani fra prima guerra mondiale e fascismo G. ZITO, «O Roma o Mosca». Clero e comunismo nella Sicilia del secondo dopoguerra Persone e luoghi esemplificativi della cultura ecclesiastica siciliana: — M. NARO, Il palermitano domenicano Turano Vescovo — F. FERRETO, Il domenicano Vincenzo Giuseppe Lombardo — G. DI FAZIO, Il catanese Carmelo Scalia — G. CRISTALDI, L’acese Michele Cosentino — G. MAMMINO, Il seminario di Acireale


Synaxis XVI/2 - 1998

«Religione popolare e fede cristiana in Sicilia» F. RAFFAELE, Religione popolare e testi devoti in volgare siciliano nell’età medievale A. LONGHITANO, Marginalità della religione popolare nei sinodi siciliani del ’500 S. VACCA, La religiosità popolare nella Sicilia del ’500 secondo la testimonianza dei Cappuccini e dei Gesuiti S. LATORA, Religione popolare negli scritti dei fratelli Sturzo A. PLUMARI, La Mediator Dei di Pio XII e le sue conseguenze sulla pietà popolare in Sicilia C. SCORDATO, La settimana santa tra liturgia e pietà popolare: per una integrazione N. CAPIZZI, Religione popolare ed ecclesiologia. Aspetti e prospettive nella riflessione teologica post-conciliare S. CONSOLI, Atteggiamenti e indicazioni pastorali della conferenza episcopale italiana nei confronti della religiosità popolare


Synaxis XVII/1 - 1999

«Lavoro e tempo libero oggi» L. GIUSSO DEL GALDO, Lavoro e tempo libero nella prospettiva economica A. MINISSALE, Lavoro e riposo nella Bibbia P.M. SIPALA, Esemplari della condizione operaia nella letteratura italiana dell’Ottocento S.B. RESTREPO, La cultura del lavoro nella dottrina sociale della Chiesa G. PEZZINO, Morale e lavoro nello scetticimismo di G. Rensi M. CASCONE, Lavoro, tempo libero e volontariato F. RIZZO, Il valore del lavoro nella società dell’informazione


Synaxis XVII/2 - 1999

«Associazioni e confraternite laicali in Sicilia in età moderna» A. LONGHITANO, L’associazionismo laicale della diocesi di Catania nel ’600 M. DONATO, Le antiche confraternite della matrice di Aci San Filippo F. LOMANTO, Il laico negli statuti delle confraternite nissene del ’700 F. LO PICCOLO, Aspetti e problemi dell’associazionismo laicale a Palermo tra medioevo ed età moderna G. ZITO, Confraternite di disciplinati in Sicilia e a Catania in età medievale e moderna


Synaxis XVIII/2 - 2000

«Violenza ed educazione alla pace in Sicilia» S. MARINO, Convivenza tra cristiani, ebrei e musulmani in Sicilia (VII-XI secolo) N. DELL’AGLI, Violenza e ascolto nel cammino del credente: analisi psicologica A. NEGLIA, Tracce per una spiritualità della pace in Sicilia M. ASSENZA, Sabato santo per la pace in Sicilia? Una ipotesi di lettura delle esperienze di Caritas, volontariato, obiezione di coscienza V. SORCE, Gli ultimi, un popolo di violentati P. Buscemi, L’educazione alla pace in alcuni scritti del vescovo Mario Sturzo G. DI FAZIO - E. PISCIONE, La Sicilia e la pax mediterranea dai “colloqui” di La Pira al “meeting” di Catania M. PAVONE, Chiesa e movimento per la pace a Comiso C. LOREFICE, Chiamati ad essere costruttori di pace. Accentuazioni pedagogiche nell’azione pastorale di don Pino Puglisi V. ROCCA, Costruite città della pace. Pastorale giovanile ed educazione alla pace nei documenti della CESI S. CONSOLI, Violenza ed educazione alla pace nei discorsi di Giovanni Paolo II in Sicilia


Synaxis XIX/2 - 2001

«I sinodi diocesani siciliani del ’500» G. Zito, Potere regio e potere ecclesiastico nella Sicilia del ’500. Una difficile riforma A. LONGHITANO, Vescovi e sinodi nella Sicilia del ’500. Le costituzioni sinodali edite S. MARINO, Sinodi siciliani e italiani nel ’500 M. MIELE, L’ordo dei sinodi N. CAPIZZI, Sinodi siciliani e riforma tridentina S. CONSOLI, La predicazione G. BATURI, Il clero A. LONGHITANO, I peccati riservati F. FERRETO, La Chiesa e gli infedeli


Synaxis XX/2 - 2002

«Chiesa locale e istituti di vita consacrata» F. CONIGLIARO, Il presbiterio: un ministero per la Chiesa locale R. FRATTALLONE, I presbiteri “religiosi” e la pastorale diocesana A. NEGLIA, Il carisma degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica nella Chiesa locale C. TORCIVIA, Partecipazione dei membri degli Istituti di vita consacrata e delle Società di vita apostolica al progetto pastorale diocesano


Synaxis XX/3 - 2002

«Per una spiritualità del Vaticano II» P. HÜNERMANN, Esiste una spiritualità del Vaticano II? G. ALBERIGO, Le ragioni dell’opzione pastorale del Vaticano II G. ALBERIGO, Lo spirito e la spiritualità del Vaticano II


Synaxis XXIII/1 - 2005

«Dimensioni della ritualità» G. RUGGIERI, Introduzione A. COCO, Riflessioni su storia, struttura e rito nella cultura del secondo Novecento R. OSCULATI, Rito ed etica. Per una lettura dell’evangelo di Marco B. FRONTERRÉ, Il tema del sacrificio nella prima agiografia martiriale (II-III sec.). Appunti per una storia della morte nel cristianesimo antico A. LONGHITANO, Ritualità e dinamica del potere nella festa di S. Agata a Catania G. ZITO, Ritualità e conflitti sociali nella festa di S. Agata a Catania dopo l’Unità A. GRILLO, La ritualità della penitenza ecclesiale. intrecci e interferenze tra dimensione rituale, giuridica e teologica della esperienza del perdono R.M. MONASTRA, Fede e Bellezza e la confessione romantica A. Rotondo, Un cuore pensante… balsamo per molte ferite


«QUADERNI DI SYNAXIS»

AA. VV., A venti anni dal Concilio. Prospettive teologiche e giuridiche, Edi Oftes, Palermo 1984, pp. 230 (esaurito) AA. VV., Culto delle immagini e crisi iconoclastica, Edi Oftes, Palermo 1986, pp. 184 AA. VV., Il sinodo diocesano nella teologia e nella storia, Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 192 (esaurito) AA. VV., Manipolazioni in biologia e problemi etico-giuridici, Galatea Editrice, Acireale 1988, pp. 138 AA. VV., La venerazione a Maria nella tradizione cristiana della Sicilia orientale, Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 196 (esaurito) AA. VV., Chiesa e società urbana in Sicilia (1890-1920), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 334 AA. VV., Sermo Sapientiae. Scritti in memoria di Reginaldo Cambareri O.P., Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 264 AA. VV., Oltre la crisi della ragione. Itinerari della filosofia contemporanea, Galatea Editrice, Acireale 1991, pp. 170 AA. VV., La terra e l’uomo: l’ambiente e le scelte della ragione, Galatea Editrice, Acireale 1992, pp. 190


AA. VV., Prospettive etiche nella postmodernità , Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1994, pp. 136 AA. VV., Chiesa e Vangelo nella cultura siciliana, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1997, pp. 160 AA. VV., Inizio e futuro del cosmo: linguaggi a confronto, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 1999, pp. 280 AA. VV., Il Cristo siciliano, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (Milano) 2000, pp. 427 AA. VV., Cultura della vita e cultura della morte nella Sicilia del ’900, Giunti, Firenze 2002, pp. 240 AA. VV., Magia, superstizione e cristianesimo, Giunti, Firenze 2004, pp. 240 AA. VV., La Bibbia libro di tutti?, Giunti, Firenze 2004, pp. 312 AA. VV., Euplo e Lucia. 304-2004. Agiografia e Tradizioni cultuali in Sicilia, Giunti, Firenze 2004, pp. 424


«DOCUMENTI E STUDI DI SYNAXIS»

G. ZITO, La cura pastorale a Catania negli anni dell’episcopato Dusmet (1867-1894), Galatea Editrice, Acireale 1987, pp. 596 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. I. Gesù si manifesta a Maria Maddalena (Gv 20,1-18), Galatea Editrice, Acireale 1989, pp. 288 P. SAPIENZA, Rosmini e la crisi delle ideologie utopistiche. Per una lettura etico-politica, Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 158 A. G ANGEMI , I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. II. Gesù appare ai discepoli (Gv 20,1931), Galatea Editrice, Acireale 1990, pp. 294 A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. III. Gesù si manifesta presso il lago (Gv 21,1-14), Galatea Editrice, Acireale 1993, pp. 524 G. SCHILLACI, Relazione senza relazione. Il ritrarsi e il darsi di Dio come itinerario metafisico nel pensiero di Lévinas, Galatea Editrice, Acireale 1996, pp. 418 A. GANGEMI, Signore, Tu a me lavi i piedi? Pietro e il mistero dell’amore di Gesù. Studio esegetico teologico di Gv 13,6-11, Galatea Editrice, Acireale 1999, pp. 244


A. GANGEMI, I racconti post-pasquali nel vangelo di S. Giovanni. IV. Pietro il pastore (Gv 21,15-19), Edizioni Arca, Catania 2003, pp. 1032

G. MAMMINO, Gregorio Magno e la Chiesa in Sicilia. Analisi del registro delle lettere, Edizioni Arca, Catania 2004, pp. 240.

F. BRANCATO, La questione della morte nella teologia contemporanea. Teologia e Teologi, Giunti, Firenze 2005, pp. 168.

Sezione della collana: Ricerche per la Storia delle Diocesi di Sicilia

S. DI LORENZO, Laureati e Baccellieri dell’Università di Catania. I. Il fondo Tutt’Atti dell’Archivio Storico Diocesano (1449-1570), Giunti, Firenze 2005, pp. 168.

A. PLATANIA, La musica sacra a Catania tra Ottocento e Novecento. L’archivio musicale del Seminario arcivescovile di Catania, Giunti, Firenze 2006, pp. 360.


QUADERNI DI SYNAXIS 15

Cultura della vita e della morte nel ’900 Atti del Convegno di studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Catania (4-5 aprile 2001). a cura di SALVATORE CONSOLI – MAURIZIO ALIOTTA

ATTILIO GANGEMI MAURIZIO ALIOTTA

La morte e il dono della vita nelle Scritture Teologia della vita e teologia della morte

SALVATORE CONSOLI

La teologia tra vangelo della nonviolenza e cedimento alle istituzioni di violenza

SALVATORE AMATO

Il sacrificio della vita all’origine dell’esperienza giuridica

TOMMASO AULETTA FRANCESCO FURNARI GIACOMO PACE COSIMO SCORDATO FRANCESCO MIGLIORINO GIUSEPPE SPECIALE ANGELO PLUMARI

L’evoluzione nel contenuto dei rapporti giuridici familiari del ’900 Eros e thanatos nelle dipendenze da droghe La violenza dei minori Sopravvivenza quotidiana: osservazioni sulla vita di un quartiere popolare Bonifica umana: il manicomio giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto L’identità violata: gli ebrei in Sicilia Per grazia ricevuta: vita e morte negli ex voto siciliani


QUADERNI DI SYNAXIS 16

Magia, superstizione e cristianesimo Seminario interdisciplinare dei docenti dello Studio Teologico S. Paolo per l’anno accademico 2002-2003. a cura di SALVATORE CONSOLI – EGIDIO PALUMBO – MARIO TORCIVIA

GIOVANNI MAMMINO SALVATORE MARINO F. SAMBATARO - F. FURNARI GIUSEPPE RANIOLO ROSARIO GISANA PASQUALE BUSCEMI FRANCESCO FURNARI ATTILIO GANGEMI MAURIZIO ALIOTTA GIANBATTISTA RAPISARDA CORRADO LOREFICE ALBERTO NEGLIA EGIDIO PALUMBO

Magia e superstizione in Sicilia al tempo di Gregorio Magno Superstizione e magia nelle preghiere siciliane del siracusano La superstizione e le patologie psichiche Superstizione e magia Dio e i maghi: quale sovranità? Pietà popolare: domanda religiosa ed istanze morali nella cultura siciliana Fiducia nel Dio di Gesù Cristo e modelli di attaccamento Alleanza Magia, superstizione e Cristianesimo. Punto di vista dogmatico Magia, superstizione e cristianesimo. Indicazione del Magistero e della liturgia del Vaticano II Ripensare il significato della vita: dalla propiziazione all’invocazione, dal possesso al dono Itinerario di fede che aiuta a riscoprire il senso del dono Nel segno umile della bellezza di Dio. Per una rilettura della devozione dello Scapolare del Carmine


QUADERNI DI SYNAXIS 17

La Bibbia libro di tutti? Atti del Convegno di Studi organizzato dallo Studio Teologico S. Paolo e dalle Facoltà di Lettere e Filosofia, Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania (3-4 aprile 2003) a cura di GIUSEPPE RUGGIERI GIUSEPPE RUGGIERI JEAN-LOUIS SKA ROBERTO ANTONELLI GIUSEPPE RUGGIERI ALBERTO SOMEKH FUAD KABBAZI ANTONINO MINISSALE SERGIO ROSTAGNO BENEDETTO CLAUSI CONCETTO MARTELLO NICOLÒ MINEO GEMMA PERSICO GRAZIA PULVIRENTI GIUSEPPE SCHILLACI

Premessa La bibbia un libro aperto o sigillato? Leggere la Bibbia La Bibbia libro di tutti? La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista dell’ebraismo Il Corano libro esoterico? La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del cattolicesimo La Bibbia libro esoterico? Il punto di vista del protestantesimo L’esegesi patristica. Un percorso di lettura Allegorismo e saperi profani nell’esegesi esamerale del XII secolo Lettura dell’ “Inno ai Patriarchi” di Giacomo Leopardi Rivisitazioni bibliche e pratica tipologica nella letteratura vittoriana Apocalisse e utopia nella lirica espressionista tedesca Dirsi nell’umiltà della Parola


QUADERNI DI SYNAXIS 18

EUPLO E LUCIA 304-2004 AGIOGRAFIA E TRADIZIONI CULTUALI IN SICILIA Atti del Convegno di Studi organizzato dall’Arcidiocesi di Catania e dall’Arcidiocesi di Siracusa in collaborazione con Facoltà di Lettere e Filosofia, Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Catania Associazione Internazionale di Studio su Santità Culti e Agiografia Studio Teologico S. Paolo Catania-Siracusa 1-2 ottobre 2004 a cura di TERESA SARDELLA – GAETANO ZITO

S. PRICOCO, Introduzione • F.P. RIZZO, Il Cristianesimo siciliano dei primi secoli. Ruolo primario delle Chiese di Siracusa e di Catania tra III e IV secolo • V. GROSSI, La letteratura martiriale nella storiografia patristica • A. DI BERARDINO, Il modello del martire volontario • R. BARCELLONA, Leggende gregoriane su santi siciliani • F. SCORZA BARCELLONA, La passione di Euplo nella storiografia ecclesistica e regionale • C. CRIMI, S. Agata a Bisanzio nel IX secolo. Rileggendo Metodio patriarca di Costantinopoli • A. HEINZ, Agata, Lucia ed Euplo nella tradizione liturgica medievale • A. CAMPIONE, La Sicilia nel Martirologio Geronimiano • G. OTRANTO, La Sicilia paleocristiana nei concili di III-IV secolo • T. SARDELLA, Roma e la Sicilia nella promozione del culto dei santi siciliani: il pontificato di Simmaco • A. ACCONCIA LONGO, Santi siciliani di età iconoclasta • R. GRÉGOIRE, I testi agiografici: tra fonti bibliche, relazioni con ebraismo ed islamismo, ed influssi eterodossi • F. RIZZO NERVO, Lucia nelle altre vite di santi • R. OSCULATI, “Lege vitas sanctorum”: Cornelio a Lapide, il Nuovo Testamento e il martirio spirituale • B. BERTOLI, Il corpo di santa Lucia a Venezia • A. MILANO, Conclusioni





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