MAG 01

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17 Osvaldo Licini Poesia, visione, segno, mutazione

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Vittorio Avondo Campagna e natura mitica

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Martha Rosler OUT OF THE VOX

numero

Magazine d'Arte della Gam periodico ottobre 2010 — marzo 2011 Galleria Civica d'Arte Moderna e Contemporanea di Torino

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mag #1 - GAM MagAZINE

Partecipazione:

Per chi? Riorentare la domanda

15 sezione a cura di Luigi Fassi

luigi fassi curatore di questo numero in mostra

La sezione contiene i contributi di: Martha Rosler Markus Miessen Walter Mignolo Bonnie Honig Chto Delat? Luca Scarlini

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vittorio avondo campagna e natura mitica di Sara d’Alessandro

in mostra

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Poesia, visione, segno, mutazione. di Arianna Bona

osvaldo licini

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mag #1 - GAM MagAZINE

martha rosler

in mostra

OUT OF THE VOX: Martha Rosler on art’s activist potential.

17 A/R di Martha Rosler

andata e ritorno a cura di Daniela Matteu

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rubriche

GAM EDUCATION a cura di Flavia Barbaro

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VIDEOTECA a cura di Elena Volpato

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BAcKSTAGE a cura di Arianna Bona

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conferenze GAM

MAG GAM MAGAZINE numero 1 anno I ottobre 2010/marzo 2011 chiuso in redazione il 4 ottobre 2010 Direttore Danilo Eccher Redazione Arianna Bona, Sara d’Alessandro, Daniela Matteu, Gregorio Mazzonis Hanno collaborato a questo numero: Flavia Barbaro, Luigi Fassi, Mario Verdun di Cantogno, Elena Volpato Traduzioni Laura Bianchetto 17|30 Jennifer Cooke 6|10|22 Laura Traversi 5|12|26|35|38|45 Simon Turner 15 Progetto grafico Design testata, impaginazione e consulenza Labxyz.com - Roma Stampa Tipograf srl - Roma Ringraziamenti Virginia Bertone, Zeno Birolli, Simone Damiani, Silvana Gennuso, Tanja Gentilini, Riccardo Passoni, Sebastiano Pellion di Persano, Gianluca Platania, Simona Rossi. In copertina TartanTorino Antonio Riello 2010 La costa è volutamente poco leggibile per rispettare il progetto TartanTorino realizzato da Antonio Riello in cui l’errore è parte integrante dell’opera.

BE SQUARE! GAM come ti vesto un museo di Daniela Matteu

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GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Torino Via Magenta 31, 10128 Torino Centralino + 39 011 4429518 Segreteria + 39 011 4429595 gam@fondazionetorinomusei.it comunicazionegam@fondazionetorinomusei.it www.gamtorino.it orari di apertura collezioni e mostre da martedì a domenica dalle 10:00 alle 18:00 lunedì chiuso

Fondazione Torino Musei Città di Torino con il contributo straordinario di Fondazione CRT


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editoriale Danilo Eccher – Direttore della GAM

All’uscita del N.0 di MAG, lo scorso giugno, non ci saremmo mai aspettati il successo che ha effettivamente avuto. Era infatti un numero di prova, dedicato al museo e alle sue attività, certo arricchito di interviste, approfondimenti, ma pur sempre accompagnato da piccole incertezze tipiche dei primi passi. Il riscontro è stato invece entusiasta: complimenti, suggerimenti attenti e consigli utili per il futuro. In poco tempo MAG è diventato uno strumento di comunicazione diretto, più immediato e scorrevole dei cosiddetti materiali istituzionali, ma non per questo povero o superficiale. Uno sguardo fresco che ha aiutato a cancellare l’impressione del museo come luogo “immobile” e ne ha restituito il carattere vivo e creativo. Oggi MAG è distribuito in alcuni dei principali musei di Arte Contemporanea in Italia, così come nelle gallerie e nei luoghi di ritrovo di Torino, e si prepara con il nuovo numero a raggiungere un pubblico ancora maggiore. Per questi motivi eccoci, dopo pochi mesi, pronti con il N.1, quasi una nuova partenza ancora più forte, poiché vede la realizzazione completa del progetto MAG GAM. Come anticipato nello scorso numero, MAG sarà d’ora in poi affidato ad un curatore specifico, ferme restando le rubriche redatte dalla ormai solida redazione interna. Per il N.1 abbiamo coinvolto Luigi Fassi, che ha integrato il progetto con il ciclo di conferenze che si svolge da ottobre a febbraio alla GAM. La scelta è caduta su un tema trasversale, l’azione politica dell’arte sulla società, che si è espanso fino a coinvolgere autori provenienti dalla teoria politica e dai Cultural Studies, dall’architettura e dal teatro contemporaneo. Punto di partenza è stato il lavoro di Martha Rosler, figura fondamentale dell’attivismo artistico, militante e teorica femminista, alla quale la GAM dedica la prima ampia retrospettiva mai tenutasi in un museo italiano. Abbiamo infine voluto distinguere il N.1 di MAG con una copertina “vestita”: la fascetta riporta infatti “TartanTorino”, motivo creato da Antonio Riello, ispirato ai colori della città, con cui ha realizzato le uniformi per il progetto BE SQUARE! GAM che saranno indossate dall’intero staff GAM. Il ringraziamento va ancora una volta a tutti coloro che hanno collaborato, all’Associazione Amici della Fondazione Torino Musei che ha sostenuto attivamente la realizzazione di MAG, e, ovviamente, ai nostri lettori che speriamo di non deludere.

When issue N. 0 of MAG magazine was launched last June, we were surprised by the successful reception it gained. Being our pilot issue, it was in fact mainly dedicated to the museum and its activities, and despite the interviews and the in-depth articles that added some extraappeal, we still felt the typical uncertainty that accompanies any first endeavor. Our new readers instead responded enthusiastically, with positive feedback as well as useful suggestions and some practical advice for the future. MAG has quickly proved to be a medium of direct communication: without being shallow or simplistic, it reads with the immediacy and fluidity that institutional materials inevitably lack. Its fresh outlook on our museum reality has shown its lively and creative side, overcoming the widespread misconception that a museum is merely a “static” structure. Today, MAG is circulated in some of Italy’s main Museums of Contemporary Art as well as art galleries and other meeting places throughout Torino. And of course, we are ready to reach a wider readership with every new issue. So here we are again: after only a few months, issue N. 1 is ready to hit the scene, now powered by the completion of the MAG GAM project. As anticipated in the previous issue, every new edition of MAG sees the contribution from a different curator, while the magazine’s regular columns are always followed by our solid editorial team. The present issue has been assigned to Luigi Fassi who has integrated the MAG project with a program of conferences to be held at the GAM, between October and February of next year. This time, the subject of choice has been the political outcome of art in our society – a wideranging topic that was expanded involving professionals from fields as diverse as political and cultural studies, architecture and contemporary theatre. The starting point of it all has been the oeuvre of feminist militant and theorist Martha Rosler, a key figure in activist art, with the GAM hosting the first major Italian retrospective of her work. Finally, our first issue stands out for its “dressed-up” cover reproducing the “TartanTorino” pattern: it has been specifically designed for our museum by Antonio Riello, who took inspiration from the colors of the city of Torino to create the tartan uniforms worn by our entire staff as part of the BE SQUARE! GAM project. Once again, acknowledgement goes to all our collaborators, the Associazioni Amici della Fondazione Torino Musei – who is actively contributing to the creation of MAG – and, of course, to all our readers, who we hope will continue to enjoy our newborn publication.


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in mostra Osvaldo Licini. Poesia, visione, segno, mutazione.

in mostra

Osvaldo Licini. Poesia, visione, segno, mutazione. di Arianna Bona Osvaldo Licini nasce nel 1894 a Monte Vidon Corrado in provincia di Ascoli Piceno, dove muore nel 1958, poco dopo l’attribuzione del Gran Premio Internazionale della Pittura. La GAM di Torino vanta il privilegio di avere proposto la prima grande mostra retrospettiva museale, a cura di Aldo Passoni e Zeno Birolli, dal 23 ottobre 1968 al 6 gennaio 1969, esposizione che seguiva quella che lo stesso Licini ebbe modo di predisporre nel 1958 a Ivrea con l’amico Marchiori al Centro Culturale Olivetti. Lettore attento, è assiduo osservatore dell’arte contemporanea ma allo stesso tempo, dopo gli anni della giovinezza trascorsi a Parigi, figura appartata nel suo paese marchigiano. Ama i primitivi senesi, Giotto, Masaccio e naturalmente gli antichi maestri. Stima e si confronta

con Modigliani, Cocteau e l’ambiente parigino del primo dopoguerra, Picasso e Matisse, Klee e Kandinskij. Frequenta il mondo della letteratura, i grandi poeti dell’Ottocento, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, la poesia italiana di Leopardi, Palazzeschi, Ungaretti, gli ermetici, e ammira fino all’ultimo Marinetti. Dopo aver aderito nel 1914 con Morandi al futurismo, nel 1915 si trova costretto a partire per il fronte dove rimane gravemente ferito e rientra a Firenze. Mirabilmente pittore, ma anche critico, scrittore e “poeta”. Nella raccolta dei suoi scritti Errante, erotico, eretico. Gli scritti letterari e tutte le lettere, nel questionario del 1929 che gli sottopone Giovanni Scheiwiller, alla domanda «Che cosa intende lei per Arte Moderna?», risponde: «Forza – Colore – sentimento umano: Poesia».

Parrebbe addirittura in sintonia con il poema del 1797 di S.T. Coleridge, Kubla Khan o una visione in un sogno. Osvaldo Licini è poeta visionario: ha il potere di rendere visibili luoghi meravigliosi che si elevano oltre la realtà. È artista, capace di generare apparizioni di una bellezza assoluta che, a partire dal 1911, con i primi lavori di matrice figurativa, si materializzano su tela, tavola, carta, con segni decisi di pittura a olio che lambisce forme diverse di arte. Nella dimora di delizie che Kubla Khan fa costruire nello Xanadu, c’è un fiume sacro, Alf, che «scorre per caverne vietate all’uomo». È l’irruente flusso creativo che avvicina al divino solo colui che possiede l’immaginazione, il poeta o l’artista. Questa è la potenza di Licini, un filo sotterraneo che lega memoria ed esperienza, una linea o fiume sacro


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OSVALDO LICINI capolavori Exhibition Area dal

2010

24/10

Comitato Scientifico

30/01

2011

al

Zeno Birolli Luciano Caramel Fabrizio d’Amico Danilo Eccher Riccardo Passoni

nella pagina precedente

—Paesaggio fantastico Il capro, 1927. a sinistra

— Amalassunta su fondo blu, 1955.

io, me ne vado un po’ svolazzando per conto veleggiano queste sue creature figlie della che, mutevole e in crescendo, passa da un mio, nei cieli della fantasia: e così di cielo in visione che, nel contesto di astrazioni dipinto all’altro attraversando tutto il suo cielo, sono diventato un angelo abbastanza tragitto pittorico. Il suo è un mondo sempre rarefatte e fiabesche, trovano un’esistenza ribelle, con la coda, insomma, e qualche volta, giustificata. Nei dipinti si inseriscono più magico, astratto, surreale in modo mi diverto a morderla, questa coda!». lune sospese che generano lettere, parole speciale, che si manifesta attraverso linee e Angeli e Arcangeli, come Angelo ribelle abbozzate. Verbalismi e numeri diventano segni tra fantastico e meraviglioso. su fondo blu (notturno) del 1954, non sensuali assumendo le forme di bocca, seno, I segni densi e scolpiti di Autoritratto (1913) sono affatto eterei e asessuati ma forti ombelico, occhi, nasi, membra sospese. diventano rarefatti nella raffigurazione di creature carnali, dinamiche e demoniache, I volti di Amalassunta (1952), La grande amica Paesaggio fantastico (Il capro) del 1927. Esili che possiedono i cieli con sguardi dai corna in erezione verso il cielo migrano oltre (1950) e Italia (1950) germogliano in mani molti occhi e lune sul capo, illuminati e piedi, a indicare una connessione tra la forme di paesaggi scavati nel tempo come da una luce sacrale. dimensione terrena e quella metafisica e, in Servigliano del 1926. Le linee taglienti I numerosi nuclei che per affinità si meglio, il superamento della condizione e rigorose del periodo astratto generano individuano nella sua opera erano oggetto umana e la conquista dell’eternità. unioni di forme geometriche come Schemi di continue attenzioni stilistiche. Licini Marchiori scrive che nel 1939 Licini astratti su fondo rosso (scherzo) (1933). Il Capro ritornava sempre sui lavori precedenti con «esponeva due quadri nella sala dei futuristi: è l’antesignano della figura diabolica, che continui interventi dettati dall’idea del forse non ricordava più quei paesaggi del riprende e si mescola con l’Arcangelo Gabriele momento. Aggiungeva e sottraeva segni 1924. Stava consumando anche l’esperienza del 1919 e del 1934 e passa e pensieri sulla tela, anticipando per il costruttivismo e l’astrazione che cosa intende lei per arte moderna? il suo stesso mutamento. Allen dell’Uccello 2 del 1936, per giungere “forza­­—colore—sentimento umano: poesia” Ginsberg definiva la “profezia” nel dopoguerra ad incontri non come la previsione di un astratti ed evocativi con creature evento nel futuro ma come l’aver capito astratta e avviandosi alla grande avventura immaginarie. L’evoluzione di questa pittura e sentito qualcosa che qualcuno capirà dei “personaggi” e delle Amalassunte». approda in viaggi stellari popolati da albe, e sentirà fra 100 anni. L’approfondimento sul suo lavoro continua notturni e Missili Lunari (1957). Osvaldo Licini è profeta di una pittura idealmente in una delle ultime lettere a I tratti distintivi di Licini trasformano ogni che azzera il tempo e non cessa di essere un amico: «Poi, quando mi accorsi che tela in un cosmo monocromo di colori osservata ponendo continui interrogativi l’astrattismo era pure una bella cosa, me ne forti e vorticosi. È un teatro popolato da alla nostra sensibilità contemporanea. feci paladino, con altri pochi amici. (…) io personaggi fantastici: Lune, Amalassunte, Olandesi volanti, Arcangeli, Angeli ribelli. adesso non sono più astrattista al 100 per 100 Nell’azzurro surreale, nel rosso e nel giallo, come lo fui nel periodo 1930-1940; adesso,


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in mostra Osvaldo Licini. Poesia, visione, segno, mutazione.

Osvaldo Licini. Poetry, Vision, Line, Mutation. Osvaldo Licini was born in 1894 in Monte Vidon Corrado near Ascoli Piceno, where he died in 1958, soon after the appointment of the Grand International Painting Prize. The GAM in Turin can boast the privilege of showing his first great museum retrospective exhibition, curated by Aldo Passoni and Zeno Birolli, from 23rd October 1968 to 6th January 1969, an exposition which followed the one planned in 1958 by Licini himself in Ivrea with his friend Marchiori at the Olivetti Cultural Centre. A careful reader, he was a regular observer of contemporary art, although – after his youth spent in Paris – he was a solitary character in his village in Le Marche. He loved Sienese early painters, Giotto, Masaccio and, of course, old masters. He appraised and related to Modigliani, Cocteau and the post-war Parisian milieu, Picasso and Matisse, Klee and Kandinskij. He was familiar with the literary world, the great nineteenth-century poets, Baudelaire, Rimbaud, Mallarmé, the Italian poets Leopardi, Palazzeschi, Ungaretti, the Hermetic poets, and he admired Marinetti until the very end. After joining Futurism in 1914 with Morandi, in 1915 he had to leave for the front where he was seriously wounded and returned to Florence. Marvellously, he was painter, but also critic, writer and “poet”. In his writings collection Errante, erotico, eretico. Gli scritti letterari e tutte le lettere (N.d.T. Erratic, Erotic, Heretic. All the Literary Writings and the Letters), in the questionnaire submitted by Giovanni Scheiwiller in 1929, to the question «What do you mean by Modern Art?», he answered: «Strenght – Colour – human feeling: Poetry». This might even seem attuned to 1797 poem by S.T. Coleridge, “Kubla Khan or, a Vision in a Dream”. Osvaldo Licini was a visionary poet: he had the power to visualise wonderful places, rising above reality. He was an artist able to create visions of absolute beauty, which, from his first figurative works in 1911, materialized on canvas, panel, paper, with sharp oil paint strokes lapping different art forms. In the home of delights built by Kubla Khan in Xanadu there was a sacred river, Alph, which «ran through caverns measureless

in alto

— La Grande Amica, 1950.

to man». The impetuous creative stream draws closer to the divine only him who possesses imagination, either poet or artist. This is Licini’s strength, an underground thread binding memory and experience, a line or sacred river flowing, changeable and growing, from one painting to the other, across his whole artistic journey. His is a more and more magical, abstract world, surreal in its own way, expressing it through lines and strokes between fantasy and wonder. The thick and sculptural strokes in Autoritratto (Self-Portrait) (1913) become rarefied in 1927 picture Paesaggio

recalling and mingling with 1919 and 1934 Archangel Gabriel, passing through constructivism and abstraction in 1936 Uccello 2 (The Bird 2), to reach during the Post-war abstract and evocative encounters with imaginary creatures. This painting evolution came to stellar journeys peopled with dawns, nocturnes and Missili Lunari (Lunar Missiles) (1957). Licini’s distinguishing traits turn each canvas into a monochromatic universe of strong and swirling colours. It is a theatre peopled with fantastic characters: Moons, Amalasuntha, Flying Dutchmen,

What do you mean by Modern Art? “Strenght – colour – human feeling: poetry” Fantastico (Il capro) (Fantastic Landscape – The Goat). Frail horns raised to the sky migrate towards forms of time-excavated landscapes as in 1926 Servigliano. The sharp and strict lines of the abstract period create combinations of geometric shapes as in 1933 Schemi astratti su fondo rosso (scherzo) (Abstract Schemes on Red Background – scherzo). Il capro (The Goat) is the forerunner of the devilish figure,

Archangels, Rebel Angels. In a surreal light blue, in red and yellow, these creatures fruits of vision soar, finding a justified existence in this context of rarefied and fairy-tale abstractions. His paintings feature hanging moons creating letters and sketchy words. Verbalisms and numbers become sensual, taking on shapes of mouth, breasts, navel, eyes, noses, hanging limbs. In Amalassunta


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in alto

— Italia, 1950. a sinistra in alto

— Angelo ribelle su fondo blu (notturno), 1954. a sinistra in basso

— Angelo ribelle su fondo rosso, 1949.

(Amalasuntha) (1952), La grande amica (The Good Friend) (1950) and Italia (Italy) (1950) faces spring from hands and feet, thus symbolising a connection between terrestrial and metaphysical dimension or, rather, the overcoming of human condition and the gaining of eternity. Marchiori wrote that in 1939 Licini «displayed two pictures in the Futurists

room: he maybe could not remember those 1924 landscapes anymore. He was also consuming the abstract experience and turning towards the great adventure of “characters” and “Amalasuntha”. The focus on his work ideally continued in one of his last letters to a friend «Then, when I realised abstraction was also a nice thing, I became its champion, together

with few other friends. (…) I’m no longer a 100% abstract painter like I was between 1930 and 1940; now, I fly solo in the skies of imagination: so from sky to sky I became a quite rebel angel, well, with the tail and sometimes I take pleasure in biting this tail!». Angels and Archangels, like 1954 Angelo ribelle su fondo blu (notturno) (Rebel Angel on Blue Background – Nocturne), are not at all heavenly and asexual, but strong, dynamic and evil creatures ruling the skies with multi-eyed gazes and moons on their heads, lit by a sacred light. The numerous groups we can by affinity identify in his work were constantly undergoing stylistic attention. Licini would always go back on his previous works frequently reworking them according to his new ideas. He would add and remove strokes and thoughts on the canvas, anticipating his very change. Allen Ginsberg defined the “prophecy” not as the foretelling of a future event but as the understanding and feeling of something someone will understand and feel in a hundred years’ time. Osvaldo Licini is the prophet of a painting which clears time and does not cease being observed raising new questions to our contemporary sensitivity.


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in mostra vittorio avondo: campagna e natura mitica

in mostra

VITTORIO AVONDO: CAMPAGNA E NATURA MITICA I dintorni di Roma nei disegni di uno dei massimi protagonisti della cultura piemontese ottocentesca. di Sara d’Alessandro | foto di Arianna Bona La molteplicità degli interessi di Vittorio Avondo è stupefacente. Intellettuale impegnato attivamente, nel 1865, a soli ventotto anni, è chiamato a far parte del comitato scientifico della grande mostra dantesca a Firenze e conclude la sua carriera, dal 1890 fino alla morte nel 1910, alla direzione del Museo Civico di Torino. Profondo conoscitore di arte medievale e moderna, acquista nel 1872 il castello valdostano di Issogne e si occupa di un restauro accurato e dettagliatissimo, in linea con le esperienze positiviste e storiciste di d’Andrade e d’Azeglio. È coordinatore di costumi e scenografie per il Teatro Regio, collezionista e figura fondamentale nelle nascenti politiche di salvaguardia nazionale del patrimonio culturale. Soprattutto, ed è quello che qui ci interessa, Avondo è pittore e disegnatore, in un percorso che da solo riassume l’apertura e la ricchezza delle sue esperienze. Nel 1854 è allievo del paesista romantico Alexandre Calame a Ginevra, ma già due anni dopo, a seguito di un viaggio in Provenza, mostra l’acquisizione di un naturalismo

libero probabilmente influenzato dai modi francesi. Si sposta a Roma nel 1857, ed è durante questo soggiorno che esegue la maggior parte dei disegni in mostra, nucleo fondamentale delle collezioni GAM passato al museo perlopiù per volere testamentario dello stesso Avondo. Roma e la campagna che la circonda perdono, nei suoi disegni, ogni carattere pittoresco, didascalico, per privilegiare paesaggi rustici, assolati, vuoti e solitari, con un Tevere (oggi impensabile) selvaggio protagonista. La grande città rimane sullo sfondo, come un profilo riconoscibile ma lontano – Sponde del Tevere con la Cupola di San Pietro (Passeggiata del Pussino), (1865) – e persino quando lo sguardo si addentra nelle sue strade appare serena e ancora rurale. Più che sul dettaglio, al quale Avondo teneva molto nella sua attività di conservatore e collezionista, nei disegni come nella pittura si sofferma su grandi masse trattate in senso chiaroscurale, che rappresentino un centro abitato come in Veduta di Castelgandolfo (1857-60) o una natura mitica come in Bosco della Ninfa Egeria (1857-60). È ancora più

interessante scoprire che questa visione sintetica si confronta curiosamente con le ricerche fotografiche contemporanee, come confermato dal ritrovamento, fra le carte di Avondo, delle “carte salate” in mostra del pittore fotografo Giacomo Caneva, anch’esse immagini di ampi orizzonti contadini. I modi di Avondo variano nel tempo, come notiamo nel morbido Cervara (1858), in cui l’attenzione agli effetti luminosi si unisce ad un segno più compiuto, o in Alberi sferzati dal vento (1860 ca), disegno a penna più vicino alle acqueforti originali per nervosismo e forza di tratto. Mutamenti che sono specchio delle influenze più diverse, il romanticismo di Calame, l’amicizia con il gruppo di Rivara, d’Andrade, Delleani, Bertea, Reycend, la conoscenza della lirica di Fontanesi, ma anche il realismo francese e le ricerche dei Macchiaioli (dai suoi frequenti viaggi a Firenze): una ricchezza artistica che ritrae a pieno le diverse facce dell’arte italiana di fine Ottocento, ricca di spunti e ancora in parte inesplorata.


mag #1 - gam magazine

VITTORIO AVONDO: Countryside and Mythical Nature The diversity of Vittorio Avondo’s interests is astonishing. An actively engaged intellectual, in 1865, when he was only twenty-eight, he was summoned to join the scientific committee for the great Dante exhibition in Florence and he ended his career – from 1890 until his death in 1910 – as curator of the Museo Civico in Turin. A fine connoisseur of medieval and modern art, in 1872 he bought the Issogne castle in Val d’Aosta and carried out its accurate and detailed restoration, in compliance with d’Andrade’s and d’Azeglio’s positivist and historicist examples. He was in charge of costume and stage designing at the Teatro Regio, whilst being a collector as wells as a key figure in the rising politics for the protection of national cultural heritage. Above all, we are mainly concerned with Avondo as a painter and draughtsman, following a path which itself encompasses the broadness and wealth of his background. In 1854 he was apprenticed

SUL VERO

VITTORIO AVONDO E LA CAMPAGNA ROMANA Wunderkammer

24/10

2010

dal

a cura di Pierangelo Cavanna

al

30/01

2011

to romantic landscape painter Alexandre Calame in Geneva; however, already two years later, after a journey in Provence, he gained a free naturalism, most likely due to the influence of French manner. He moved to Rome in 1857, and during this sojourn he executed most of the drawings on display – i.e. the main core of GAM’s collections bequeathed by Avondo himself. Rome and its surrounding countryside lose in his drawings any picturesque and didactic character favouring rustic, bright, empty and forlorn landscapes, with the Tiber as a (nowadays inconceivable) wild protagonist. The big city towers in the background, a far but recognizable outline – Sponde del Tevere con la cupola di San Pietro (Banks of Tiber with St. Peter’s Dome), (1865) – and even when the gaze probes its streets it appears quiet and still rural. In his drawings and paintings, Avondo dwelt upon great chiaroscuro masses rather than details – though cherished by the artist, being a curator and a collector, either when depicting inhabited places as in Castelgandolfo (1857-60), or mythical wilderness as in Bosco della Ninfa Egeria (The Grove of Egeria) (1857-60). Moreover, it is most interesting to discover that this synthetic vision surprisingly recalls contemporary photography, as confirmed by the finding – among Avondo’s documents – of the salted papers by painter and photographer Giacomo Caneva here exhibited, similarly depicting broad peasant horizons. Avondo’s manner changes in time, as we can infer from the delicate Cervara (1858), where the attention to luminous effects blends with a more defining stroke, or in Alberi sferzati dal vento (Trees Shaken by the Wind) (1865 ca), a pen drawing closer to the original etchings for its nervous and strong line. These changes reflect his diverse influences – from Calame’s romanticism and his friendship with the members of the Rivara school, namely d’Andrade, Delleani, Bertea and Reycend, to his acquaintance with Fontanesi’s lyricism, French realism and the Macchiaioli’s work (during his frequent travels to Florence): an artistic wealth perfectly conveying the different facets of Italian art in the late nineteenth century, replete with starting points and yet to be fully uncovered.

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–a sinistra e in alto–

La selezione dei disegni di Vittorio Avondo per la Wunderkammer.


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be square! gam come ti vesto un museo

come ti vesto un Museo

Cos’è una comunità? Ce lo chiede Antonio Riello attraverso una divisa tartan realizzata appositamente per tutto lo staff GAM. di Daniela Matteu foto di Sebastiano Pellion di Persano

Antonio Riello, artista eclettico e versatile, definito uno “spacciatore di identità”, ha scelto la GAM di Torino per presentare, per la prima volta in Italia, il suo progetto site-specific: BE SQUARE! Tutto lo staff del museo – la Presidente, il Direttore, gli impiegati, le cassiere e tutto il personale di custodia – indosserà per tre mesi un’uniforme, pensata e disegnata dall’artista con la collaborazione di Gianluca Marziani. L’idea da cui parte BE SQUARE! è l’analisi del fattore umano che caratterizza una comunità. E quale comunità è più interessante di quella che lavora all’interno di una istituzione culturale, dove ogni ruolo è ben definito ma dove ogni persona opera per lo stesso obiettivo? Per questo Riello parte dalla realizzazione di un particolare Tartan (pattern scozzese) che riporta i colori identificativi della collettività:

per Torino ha scelto il bianco e nero e il granata delle due squadre di calcio, il blu e il giallo (colori dello stemma della Città e della GAM), aggiungendo una striscia di verde a indicare il ruolo di Torino nell’Unità d’Italia e la numerosa comunità islamica che qui vive. Il Tartan di Riello presenta sempre un errore, un colore alterato, una linea discontinua, a significare l’elemento rigenerativo che deriva dall’imperfezione. A differenza dei capi realizzati per la Kunsthalle di Vienna e per il Baltic di Newcastle, decisamente eccentrici, l’artista ha tenuto conto anche dell’identità “Sabauda”, pensando una divisa in denim scuro, di taglio classico e elegante. Gli abiti sono cuciti su misura per ogni persona e completamente sponsorizzati dalle ditte del nord Italia che li hanno prodotti.


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he has chosen black and white and garnet red, representing the city’s football teams, and the blue and gold of the GAM and of the city’s emblem, adding a green strip as reference not only to the role played by Turin in the unification of Italy, but also to the large Islamic community now living here. Riello’s Tartan always has some deliberate glitches: a flaw in weave or colour, representing its uniqueness and the renewal process that derives from imperfection. The outfits created on this occasion differ from the modern and eccentric ones created for the Wien Kunsthalle and the Newcastle Baltic: here the artist has tried to capture Turin’s “Sabaudian” identity, designing a classic and elegant dark denim uniform, individually tailored for the entire staff and sponsored by the North-Italian weaving factories that have manufactured them. BE SQUARE! GAM how to dress a Museum Antonio Riello, a versatile artist often defined as an “identity dealer” has chosen Turin’s GAM for the first Italian presentation of his site-specific project: BE SQUARE! For three months, the entire museum staff – President, Director, office employees, front desk and security personnel – will be wearing a uniform specifically designed by the artist in collaboration with Gianluca Marziani. The idea behind BE SQUARE! is to examine the human factor of a particular community. And is there a more interesting community than the one working inside a cultural institution, where every role is individually defined to achieve a common objective? This is the starting point for Riello’s design of a particular Tartan (the classic Scottish pattern) using the colours that identify this collective group. For Turin la sciarpa catalogo I capi prodotti sono in serie limitata, non vengono commercializzati perché BE SQUARE! rientra nella logica della moda, ma ribaltandola. È l’artista che crea l’abito, è l’artista che decide di rinunciare al profitto, usa il “Fashion system” ma non ne diventa schiavo. Ma una mostra deve avere il suo catalogo: i visitatori interessati

potranno trovare al bookshop della GAM la speciale sciarpa di Tartan che Riello ha realizzato come catalogo e avranno la possibilità di portare a casa un vero e proprio “pezzo di mostra”.

TartanTorino, Antonio Riello, 2010



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Magazine d'Arte della Gam periodico ottobre 2010 — marzo 2011

Partecipazione: per chi? Riorientare la domanda di Luigi Fassi I contributi di questo primo numero di MAG sono stati commissionati e raccolti per attivare una riflessione critica sul tema della partecipazione. Termine cruciale del dibattito artistico recente dagli anni Novanta in poi, l’idea di partecipazione, intesa come piattaforma di collaborazione sociale e politica, di condivisione e di progettualità non conflittuale, sembra oggi prestare il fianco a molteplici difficoltà. L’ipotesi di una modalità partecipativa, in cui utopia, democrazia e consenso possano allearsi per generare forme efficaci di attivismo sociale e di pacificazione politica, richiede da più parti di essere radicalmente ripensata, anche a fronte di una recente recrudescenza di fenomeni come il populismo e le derive autoritarie. Una volontà criticamente interpretativa dell’esperienza come prima istanza dell’impegno politico richiede una continua ridefinizione di modi, forme e canoni teorici con cui essere attuata. Da quali

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luigi fassi Direttore di ar/ge kunst Galerie Museum a Bolzano, Helena Rubinstein Curatorial Fellow presso il Whitney Museum ISP nel 2008-2009 a New York, ha organizzato diverse mostre in ambito internazionale, tra cui Theoretical Practice, ISCP, New York (2009) e Archeology of Mind, Malmö Konstmuseum, Svezia (2008). Suoi contributi critici appaiono su Mousse, Artforum, Site, Flash Art, KLAT. Luigi Fassi is the director of ar/ge kunst Galerie Museum in Bolzano, Italy. A 2008-2009 Helena Rubinstein Curatorial Fellow of the Whitney Museum ISP in New York, he has organized several exhibitions internationally, including “Theoretical Practice”, ISCP, New York (2009) and “Archeology of Mind” at the Malmö Konstmuseum, Sweden (2008). His writings appears in publications such as Mousse, Artforum, Site, Flash Art, KLAT.

punti fermi è necessario partire per portare avanti la riflessione sulla partecipazione? Quale genealogia privilegiare nel rapporto tra premesse teoriche e loro sviluppo? L’obiettivo del numero di MAG e delle conferenze che lo accompagnano è dare voce a un gruppo eterogeneo di filosofi e artisti, curatori e critici, architetti e antropologi, tutti impegnati in progetti ed elaborazioni fortemente significative per riformulare i presupposti e gli obiettivi del termine partecipazione. Ne consegue come il distacco critico dal dibattito teorico e artistico sviluppatosi dagli anni Novanta sul tema della partecipazione si accompagni alla necessità di porre in primo piano lo spazio rinnovato della responsabilità individuale. Dai contributi evidenziati emergono inoltre nuove urgenze terminologiche, una più approfondita attenzione all’eredità della storia coloniale europea, l’interesse a ridefinire il concetto di uguaglianza e la convinzione che il conflitto sociale sia un elemento fondamentale ed ineludibile del confronto politico. Senza dimenticare di parlare del pubblico dei musei oggi e della viva esperienza di chi vuole esercitare attivamente il diritto di partecipare agli eventi espositivi e alle mostre. PARTICIPATION: FOR WHOM? Reorienting the question The contributions in this first issue of MAG have been commissioned with a view to initiating a critical reflection on the theme of “participation”. Ever since the 1990s, a crucial aspect of recent artistic debate has been that of participation, which is considered as a starting point for social and political cooperation and communion, and for a non-conflictual approach to planning the

future. Today, however, it appears to be open to a whole series of dilemmas. In view of the recent resurgence of phenomena such as populism and the tendency towards authoritarianism, there is currently a need for a radical review of the concepts behind a participatory model in which utopia, democracy, and consensus can be brought together to create effective forms of social activism and political pacification. The desire to ensure a critical interpretation of experience as the initial premise for political commitment requires a constant redefinition of the means, forms, and theoretical canons to be used in order to bring it about. What are the solid bases from which we need to start out when considering the theme of participation? What lines need to be followed in order to move the theoretical premises forward? The aim of this issue of MAG and of its associated conferences is to give a voice to a diverse group of philosophers and artists, curators and critics, architects and anthropologists, all of whom are working on highly significant projects that aim to reformulate the presuppositions and objectives of the term “participation”. The result of this is that the critical detachment from the theoretical and artistic debate that has arisen on the subject of participation since the 1990s is now accompanied by a need to focus attention on a new area, which is that of individual responsibility. The various contributions also reveal new terminological needs, a closer examination of the legacy of European colonial history, and an interest in redefining the concept of equality, as well as the conviction that social conflict is a fundamental and inevitable aspect of political debate. Without neglecting the need to take into consideration those who visit museums today and the significant experiences of those who wish to exercise their right to participate in shows and exhibition events.


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partecipazione: per chi? participation: for whom? - a cura di luigi fassi

CONFERENZE GAM

i contributi

/ p. 16

martha rosler Artista, vive e lavora a New York. Ha esposto alla Biennale di Venezia (2003), a Documenta, Kassel (1982, 2007), all’ICA, Londra (2005), ed è presente nella collezione del MOMA, New York. Dal 24 ottobre 2010 fino al 30 gennaio 2011 la GAM di Torino ospita la sua personale, Martha Rosler As if. Artist, lives and works in New York. Her work has been seen in Venice Biennal (2003) Documenta, Kassel (1982, 2007), ICA, London (2005), and in MOMA collection, New York. From October the 24rd to January, the 30th, 2011 GAM hosts her solo show “Martha Rosler As if”.

A. Li

nk

e

/ p. 22

markus miessen Architetto, consulente e scrittore, vive e lavora a Berlino. Dirige lo Studio Miessen, agenzia dedicata alle strategie spaziali, ed è co-fondatore dello studio nOffice. È ricercatore ad Harvard, e sta completando il

suo dottorato al Centre for Research Architecture (Goldsmiths, Londra). Architect, consultant and writer based in Berlin. He runs the collaborative agency for spatial practice Studio Miessen, and is co-founder of the architectural practice nOffice. He is currently a Harvard Fellow, and completing his PhD at the Centre for Research Architecture (Goldsmiths, London). www.studiomiessen. com

/ p. 26

walter mignolo Semiologo italo-argentino. È William H. Wannamaker Distinguished Professor alla Facoltà di Letteratura, Studi romanzi e Antropologia Culturale e Direttore del Center of Global Studies and the Humanities alla Duke University, USA. Sarà curatore della mostra Decolonial Aesthetics a Bogota, Colombia. Italo- argentine semiotician. William H. Wannamaker Distinguished Professor (“Program of Literature, Romance Studies and Cultural Anthropology) and

Director of the Center of Global Studies and the Humanities at Duke University. Curator of a forthcoming exhibit in Bogota, Colombia, titled “Decolonial Aesthetics”.

/ p. 30

Bonnie honig Politologa americana. È Sarah Rebecca Roland Professor alla Facoltà di Scienze Politiche alla Northwestern University e Senior Research Professor all’American Bar Foundation di Chicago. È autrice di Democracy and the Foreigner (Princeton, 2001) e Emergency Politics: Paradox, Law, Democracy (Princeton, 2009). American political theorist. Sarah Rebecca Roland Professor of Political Science at Northwestern University and a senior research professor at the American Bar Foundation in Chicago. She is author of “Democracy and the Foreigner” (Princeton, 2001), and “Emergency Politics: Paradox, Law, Democracy” (Princeton, 2009).

22 ottobre 2010 sala conferenze  18.00 Martha Rosler

/ p. 35

chto delat? Collettivo russo fondato nel 2003 a San Pietroburgo e composto da artisti, critici, filosofi e scrittori. Dal 9 settembre 2010 l’ICA di Londra ospita la loro personale, Chto delat? (What is to be done?) - The Urgent Need to Struggle. Russian artists, critics, philosophers, and writers workgroup founded in 2003 in Petersburg. From September the 9th to October the 24th, 2010 ICA in London hosts their solo show “Chto delat? (What is to be done?) - The Urgent Need to Struggle”.

/ p. 38 luca scarlini

Saggista, drammaturgo, storyteller e interprete. È docente di Storia e Teoria della Scenografia all’Accademia di Brera, Milano, collabora con numerosi teatri e festival, con Radio3 e con la Scuola Holden di Torino. Playwright, writer, performer and storyteller. History and theory of Scenography Professor at Accademia di Brera, Milan, he works with a number of theatres and festival, with Radio3 and Scuola Holden in Turin.

2 novembre 2010 sala uno  18.00 Yael Bartana Artista, vive e lavora a Tel Aviv. Ha esposto al Moderna Museet Malmö, Svezia e al PS1 Contemporary Art Center di New York. Artist, lives and works in Tel Aviv. Her work has been seen in Moderna Museet Malmö, Sweden and PS1 Contemporary Art Center, New York. 24 novembre 2010 sala uno  18.00 Katerina Gregos Critica d’arte e curatrice indipendente, vive e lavora a Bruxelles, Belgio. Curatrice della Biennale Video di Mechelen (Belgio) Contour 2009 e del Padiglione Danese alla prossima Biennale di Venezia. Indipendent critic and curator based in Bruxelles, Belgium. Curator of Contour 2009, 4th biennial for video art; curator of Danish Pavilion for the next Venice Biennial. 14 dicembre 2010 sala uno  18.00 Markus Miessen 11 gennaio 2011 sala uno  18.00 Emanuela De Cecco Critica e curatrice, vive e lavora a Milano. È docente di Storia dell’arte contemporanea e semiotica dell’immagine presso la facoltà di Design e Arti della Libera Università di Bolzano. Indipendent critic and curator based in Milan. Contemporary Art History and Semiotics of Images Professor, Free University of Bolzano, Italy. 20 gennaio 2011 sala conferenze  18.00 Chantal Mouffe Politologa belga. Docente al Dipartimento di Scienze Politiche e Relazioni Internazionali dell’Università di Westminster, Londra. Fra le sue pubblicazioni, On the Political, 2005, The Democratic Paradox, 2000 e, con Ernesto Laclau, Hegemony and Socialist Strategy, 1985. Belgian political theorist. She holds a professorship at the Department of Politics and International Relations Professor, University of Westminster, London. She published “On the Political”, 2005, “The Democratic Paradox”, 2000, and together with Ernesto Laclau, “Hegemony and Socialist Strategy” (1985). 2 febbraio 2011 sala uno  18.00 Johanna Burton Storica dell’arte e scrittrice. Direttore di Dipartimento al Bard College’s Center for Curatorial Studies, New York. Art historian and writer. Director of the Graduate Program at Bard College’s Center for Curatorial Studies, New York.


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DELLA SERIE

— Beauty Knows No pain or Body Beautiful, 1966-72 Tutte le opere courtesy l’artista e Mitchell-Innes & Nash, New York

in mostra

OUT OF THE VOX:

Martha Rosler on art’s activist potential. di Martha Rosler In questo saggio apparso su Artforum nel settembre del 2004 Martha Rosler analizza da una prospettiva storica e militante i rischi che segnano il controverso rapporto tra arte e attivismo politico nel tempo presente. L’arte politicamente impegnata acquista di solito maggiore visibilità durante i periodi di disordine sociale (tra i più recenti “Il marxismo e l’arte” negli anni Settanta e “l’arte politica” negli anni Ottanta). In genere la maggior parte degli artisti nei propri lavori si espone in maniera esplicita, ma i garanti istituzionali cercano di manipolare questa dimensione politica dell’arte, riducendo la militanza degli artisti

a un discorso universalizzato sugli ideali umanistici e sull’espressione individuale. Di fatto tutte le avanguardie e le rivoluzioni nel mondo dell’arte, dal Costruttivismo al Dadaismo, fino all’AbEx e oltre, hanno risentito di questa rilettura. I giochi sono cambiati nuovamente quando curatori con un’inclinazione verso la geopolitica hanno organizzato le più recenti Documenta, confermando il trend internazionale che aveva legittimato una certa espressione politica nell’arte, con lavori che per la maggior parte aderivano alla corrente postcoloniale – ma anche collaborazioni e lavori extra-istituzionali, come ad esempio Park Fiction, Superflex e Sarai (una battuta citata di frequente dice che per essere un “artista post-coloniale” bisogna trasferirsi in Europa e diventare un artista di mercato, un simile problema si ripresenta nella maggior parte

dei riferimenti artistici, sia per gli artisti impegnati a lavorare da tempo nell’ambito della classe operaia sino ai graffitari e agli skaters). In generale, la mancanza di un impegno politico riconoscibile con chiarezza – la cosidetta autonomia dell’arte – è congeniale alla maggior parte degli artisti occidentali e alle istituzioni. In fin dei conti, chi siamo? A quali cause siamo fedeli? Un certo “imborghesimento” – in ambito domestico, nella salute, in famiglia e nel tempo libero, assieme alla controversa questione dell’identità – ha per molti di noi sostituito lo stile bohémien, rendendo più difficile una forte identificazione con i diseredati, i reietti, i senza diritti, e tutti coloro che sono sfruttati sul lavoro. Ben fatto! Si lagna chi denuncia quanto poco le istituzioni di sinistra abbiano fatto per gli artisti. Ma la


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Partecipazione: per chi? Participation: for whom? a cura di Luigi Fassi

totale libertà degli artisti occidentali mette in evidenza in modo ineluttabile la loro scarsissima rilevanza sociale, così come l’interiorità ossessiva rivela alienazione dalla società e narcisismo, se non addirittura infantilismo. Il collasso dell’idealismo utopico come orizzonte a cui tendere ha privato l’arte di una sostanza filosofica ed etica, permettendo ai curatori di dedicarsi ad attività capricciose (sarcasticamente definite “hobby sponsorizzati” dalla curatrice russa Ekaterina Dyogot) vendute come simboli di autonomia, di progresso artistico e persino di trasformazione sociale. Modeste formule di condivisione spacciate per impegno sociale e deboli interpretazioni dell’arte confezionate come dono generosamente elargito, riducono le rivendicazioni per un’arte agente di trasformazione sociale ad una pausa terapeutica ad uso e consumo di individui annichiliti ed ombre sbiadite di artisti, entrambi misura del nuovo soggetto postborghese, che prova ogni giorno a recitare una nuova identità.

Il collasso dell’idealismo utopico come orizzonte a cui tendere ha privato l’arte di una sostanza filosofica ed etica La mia posizione sul ritorno dell’“arte politica” come campo aperto di azione o di analisi è ambivalente. Essere alla moda la renderebbe immediatamente liquidabile. Ancora peggio, gli artisti vengono ormai considerati giullari, mentre alcuni curatori celebrano attivamente il solito tema frivolo (portato avanti da chi si potrebbe definire Scimmia del mondo dell’arte) del collettivismo anni Sessanta. D’altra parte è tristemente superficiale ridurre le potenzialità politiche dell’arte a un semplice “agit prop”, ignorando il dibattito sulla sua strumentalizzazione condotto da Adorno, Brecht, Benjamin e altri. Questi pensieri mi hanno portata a rileggere (curiosamente è successo lo stesso anche ai giovani artisti attivisti del gruppo di lettura di Beaver 16, New York) l’articolo di Theodor Adorno del 1962 intitolato Commitment, in cui si sostiene che l’arte risponde con silenzio e biasimo alle deformazioni della modernità: «Oggi ogni fenomeno culturale, anche se è un modello di integrità, rischia di venire

soffocato dalla cultura del kitsch. Ma nella stessa epoca, paradossalmente, sono state le opere d’arte ad assumersi il fardello di esprimere silenziosamente ciò che alla politica è vietato». Si rimane perplessi su quell’“esprimere silenziosamente”, sul disprezzo che Adorno nutre nei confronti della “teoria dell’informazione” nell’arte, visto quanto oggi l’arte dipende dall’informazione diretta e particolareggiata. A partire soprattutto dalle proteste di Seattle del 1999, molti artisti attivisti si rendono conto di non potersi occupare del mondo dell’arte e della sua “impresa culturale”, così come venne definita dallo storico dell’arte Chin-Tao Wu. La fine del socialismo come struttura significa che l’“interventismo” o si rivolge alle varie declinazioni dell’anarchia (alcune meglio teorizzate di altre, alcune violente nei confronti delle istituzioni artistiche di ogni genere) o prende congedo da qualsiasi fondamento teorico. Forme di arte elettronica hanno dato vita a momenti di attivismo – come in “tactical media” – e spesso a sofisticate analisi politiche, disponibili in rete su numerosi siti. («La rivoluzione avverrà in rete!», scrive Geert Lovink). Attivisti e hacker hanno riempito lo spazio lasciato libero dal video, la cui utopia in espansione e il potenziale di attivismo sono stati depoliticizzati, dal momento che la “video-arte”, così come la fotografia ancora prima, è stata sottratta allo spazio pubblico per venire rinchiusa in musei-mausolei e collezioni private. Nel contesto attuale, le opere politiche della fine degli anni Sessanta e dei Settanta, ora liberate dalle contingenze di quel tempo e riportate all’attenzione generale dai cicli del mercato, possono essere considerate in modo diverso. Guardate con nostalgia da parte dei giovani artisti che le hanno studiate nei corsi di storia dell’arte, offrono un nuovo punto di partenza a cui agganciarsi, un momento d’origine nel quale tutti gli attuali trend artistici amano identificarsi. Quello che inizialmente appariva attraente per l’aspetto esteriore diventa, oggi, ancora più stimolante per il suo impegno sociale. Nel suo momento migliore, l’arte concettuale e altre forme post-Pop hanno reso possibile un incontro incredibilmente produttivo tra artisti e “mondo reale”, aprendo uno spazio di deduzione, esposizione e analisi, ma anche di

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— Beauty Knows No pain or Body Beautiful, 1966-72 Tutte le opere courtesy l’artista e Mitchell-Innes & Nash, New York


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autorivelazione e gioco. Il gioco, insieme ad un senso postmoderno di ironia e parodia, e alla sovversione di ciò che è ufficiale, diventa più evidente quanto più ci si avvicina al presente – anche se tutto ebbe inizio con le performance delle guerriglie Yippie e con gruppi musicali come The Mothers of Invention, The Fugs e Country Joe and The Fish. I gruppi di artisti degli anni Sessanta e Settanta si organizzavano principalmente intorno ad azioni pubbliche, adottando uno stile di protesta specifico del momento. Artiste della West Coast, come Suzanne Lacy e Leslie Labowitz erano impegnate in performance sulle piazze pubbliche. Molti dei collettivi anni Ottanta di New York allestivano strutture ombra di gallerie commerciali, mentre altri come PAD/D, REPOhistory e Group Material operavano dentro e fuori le istituzioni pubbliche. Molti gruppi come i Bread&Puppet Theater, gli Zapatisti (che ovviamente non erano un gruppo artistico), le Guerrilla Girls e il Critical Art Ensemble (ora imprigionati nella rete orwelliana del Patriot Act) mescolavano pratiche diverse. Fra i gruppi più recenti troviamo Attac, Ne Pas Plier, Las Agencias, Sub Rosa, gli Yes Men, RTMark, Boat-people.org, Disobbedienti/Tute Bianche e altri, che operano in quello che l’artista Greg Sholette ha definito come il lato oscuro di resistenza alla sfera pubblica. Fra i collettivi mediatici di più lunga data Paper Tiger e Deep Dish; fra i più recenti Whispered Media e le Indymedia successive al ‘99 sparse per il mondo, così come le radio pirata (tralascio la consistente arte comunitaria e pubblica, movimento che negli Stati Uniti ha scarso interesse nell’unirsi al mondo artistico“burocratico” che segue Artforum e non ospita né favorisce le sue azioni politiche pubbliche). Le azioni di molti dei suddetti collettivi – la maggior parte dei quali rifiutano l’etichetta di artisti – vanno da sberleffi sinistroidi ad un uso strategicamente organizzato della criminalità (come il taccheggio coreografato di Yomango) e del vandalismo. La globalizzazione del movimento per la giustizia sociale, i molteplici siti di lavoro socialmente utile e le nuove tecnologie di comunicazione hanno aiutato a creare comunità che esistono in primo luogo attraverso mailing-list ma che in ultima istanza producono risultati concreti.

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— Uno scaffale della libreria di Martha Rosler

OUT OF THE VOX: Martha Rosler on art’s activist potential. La domanda quindi non è “è arte?”, ma “arte di chi?” La domanda non è “è arte”, ma “arte per chi?” La domanda è “che cosa è arte?”. Se uno crede, come me, che l’arte fornisca una nuova modalità per interpretare l’esperienza (anche se massacrata in questa ricerca dall’industria mediatica), offrendo la possibilità di un chiaro impegno politico, allora l’appiattimento dell’arte politica ad opera delle mode o di esigenze politiche vitali ma a breve termine è un’opportunità mancata. La nuova svolta verso l’estetica kantiana è incoraggiata principalmente da coloro che cercano di rinnovare un’estetica ormai decrepita, ma alcuni scrittori, come Susan Buck-Morss, sembrano rivolgersi a Kant come ha fatto Adorno, per supportare l’idea che l’arte offra una diversa forma di conoscenza. Nonostante questo, io non sono kantiana. Ma in un momento di indubbia crisi in ogni campo – culturale, politico e fiscale – negli Stati Uniti come nel resto del mondo industrializzato, e nonostante il terribile declino delle condizioni di vita delle moltitudini in Africa e in Asia, sono ancora una volta gli artisti che (pur in atteggiamenti di autocelebrazione) cercano di riorientare il proprio pubblico, dando vita a gruppi di consapevolezza civile. L’invito è a cercare di capire cosa l’arte sia, al di là di ciò che suggerisce l’attuale regressione dello stesso mondo artistico.

Art with a political face typically gains visibility during periods of social upheaval (cf “Marxism and art” of the 70s and “political art” of the 80s, among the most recent). A good proportion of artists typically aim their work into the thick of things, but institutional gate-keepers try to manage this political dimension of art, blunting artists’ partisanship into a universalized discourse of humanistic ideals and individualized expression. Virtually all avant-gardes and art-world insurgencies from Constructivism to Dada to AbEx and beyond, have suffered this reinterpretation. But the game changed again when curators with a bent toward geopolitics organized successive recent Documentas, confirming an international trend that legitimated some political expression in art, mostly work fitting the rubric of postcoloniality – but also collaborative and extra-institutional work, such as Park Fiction, Superflex, and Sarai. (A commonly voiced witticism, however, was that to be a “post-colonial artist,” you had to move to Europe and become a market artist; a similar reframing problem attends most borrowings and importations, from artists working long term in local working-class communities to graffiti artists and skateboarders.) Generally speaking, a lack of clear political alignments – “artistic autonomy”– works well for most Western artists and their institutions. Who are we, after all? What are our allegiances? “Embourgeoisement”– in home, health, family, and leisure, and the vexed matter of identity – has for


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Partecipazione: per chi? Participation: for whom? a cura di Luigi Fassi

many supplanted bohemianism, making it harder to identify too strongly with the dispossessed, the dejected, and the disenfranchised, let alone with those whose labor is exploited. Fine! Mutter those who observe how little use the organized left has had for artists. But the total freedom of the artist in Western society ineluctably also signals total irrelevance, just as obsessive interiority speaks of social disconnection and narcissism if not infantilism. The collapse of utopianism as a horizon has often deprived art of a philosophical or ethical backstory, allowing curators to treat whimsical activities (tartly termed “sponsored hobbies” by Russian curator Ekaterina Dyogot) as symbolic of autonomy, of artistic advance, or even of social transformation. Thin notions of communalism pass for social engagement, and weak interpretations of art as a gift freely given reduce the claims made for art as socially transformative to a therapeutic time out for atomized individuals, mirror images of artists – the new post-bourgeois subject performing self anew every day. I am ambivalent about the return of “political art” as a flat field of action or analysis. Fashionability makes it susceptible to dismissal. Much worse, artists are hailed as merry pranksters, as some curators actively celebrate the frivolously empty riff (by what might be termed the Monkees of the art world) on 60s collectivism. Conversely, there is a sad superficiality in reducing art’s political possibilities to “agit prop,” ignoring the debates about the instrumentalization of art between Adorno, Brecht, Benjamin, and others. This thought recently drove me – and by odd chance, the young activist artist reading group at 16 Beaver – to revisit Theodor Adorno’s 1962 article Commitment in which art is said to provide a silence and reproach to the deformations of modernity: «Today every phenomenon of culture, even if a model of integrity, is liable to be suffocated in the cultivation of kitsch. Yet paradoxically in the same epoch it is to works of art that has fallen the burden of wordlessly asserting what is barred to politics». One stumbles over “wordlessly asserting” over Adorno’s expressed scorn for “information theory” in art, for much today depends on direct information retailing. Especially since the Seattle protests of 1999, many activist artists find they can’t be bothered with the

art world and its “enterprise culture,” as denominated by art historian Chin-Tao Wu. The end of socialism as a framework means that “interventionism” looks to various inflections of anarchism (some much better theorized than others, some virulent toward artworld institutions of every stripe) or is flying theory-blind. Electronic art forms have provided a moment of activism – as in “tactical media”– and often sophisticated political analysis, available online (of course) at a number of sites. («The revolution will be webcast!» writes Geert Lovink.) Activists and hacktivists have stepped into the space vacated by video, whose expansively utopian and activist potential has been depoliticized, as “video art,” much like photography before it, has been removed from wide public address by incarceration in museum mausoleum sites and in collectors’ cabinets. In the present context, the political work of the late sixties through the seventies (now purged of exigency), brought out of the closet by the market cycle, may be evaluated differently. Although possibly tinged with nostalgia for young artists likely to have encountered it in art history classes, it offers a starting point to connect with, an ur-moment that all trends in art prefer to locate. What initially seemed attractive for its look becomes more compelling for its commitment. At its best, conceptual and other post-Pop forms led to a tremendously productive encounter between artists and the “life world,”providing a space for deduction, exposition, and insight, as well as selfrevelation and play. Play, including (postmodern) irony and parody, and a subversion of officialdom is more evident the closer one gets to the present – though it started with the Yippie guerrilla performances as well as musical groups like The Mothers of Invention, the Fugs, and Country Joe and the Fish. Artists’ groups of the 60s and 70s were mostly organized around public actions, adopting the protest style of the day. West Coast women, such as Suzanne Lacy and Leslie Labowitz or the Waitresses, were more likely to engage in civic-square performances. Bridging groups range from Bread & Puppet Theater to the Zapatistas (not an art group, of course), the Guerrilla Girls, and the Critical Art Ensemble (now caught in the Orwellian web of the Patriot Act); newer ones include Attac, Ne Pas Plier, Las Agencias, Sub Rosa,

in alto

— La pagina di un articolo di Martha Rosler dal suo archivio personale

The collapse of utopianism as a horizon has often deprived art of a philosophical or ethical backstory


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MARTHA ROSLER AS IF

Gam Underground Project

new series, 2004

Tutte le opere courtesy l’artista e Mitchell-Innes & Nash, New York IN basso

­ Appunti sulle mostre in — preparazione nello studio dell’artista

the possibility of intelligible political engagement, then the flattening of political art by trendiness or vital but short-term political exigencies is a missed opportunity. The new turn to Kantian aesthetics mostly emanates from people seeking to renovate a decrepit aestheticism, but some writers, such as Susan Buck-Morss, seem to be looking to Kant as Adorno did, to support a conviction that art offers a different way of knowing. So far, I am no Kantian. But in a moment of unmistakable crisis, in all

dal

24/10

2010

in alto Della serie — Bringing the War Home:

a cura di Elena Volpato

al

30/01

2011

the Yes Men, RTMark, Boat-people.org, Disobbedienti/Tute Bianche, and others operating as what artist Greg Sholette has referred to as the dark matter of the counterpublic sphere. Long-lived media collectives include Paper Tiger and Deep Dish; newer ones, Whispered Media and the post-’99 Indymedias around the world, as well as pirate radio. (I am leaving out the robust community art, or public art, movement in the US that has little interest in joining the more mandarin artworld that, say, follows Artforum and also does not fit this group of providers of political public actions and spectacles.) Practices of many such collectives – most of which would refuse the artist label – range from left-wing pranks to strategically deployed criminality (such as Yomango’s choreographed shoplifting) and vandalism. The globalization of the social justice movement, the diffuse sites of social labor, and new communication technologies helped create communities that exist primarily through list-servs but finally wind up with feet on streets. The question then, isn’t, is it art, but whose art is it? The question is not, Is it art but art for whom? The question is, what is art? If one is to believe, as I do, that art provides a different frame for interpreting experience (although clobbered in its reach by corporate media), offering

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dimensions, cultural, political, and fiscal, in the US and the rest of the industrially developed world, and a terrible decline in the lives of the multitudes in Africa and Asia, it is once again artists who, in all self-aggrandizement, seek to reorient their audiences, forming them into public constituencies. Let us also try to figure out what it is about art that is more than the artworld’s present regression suggests.


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partecipazione: per chi? participation: for whom? - a cura di luigi fassi

The External Agent: Crossbench Praxis as a Mode of Criticality di Markus Miessen

Backbench, arena per Manifesta 8, progetto di nOffice (Miessen Nilsson Pflugfelder), video di Ergin Cavusoglu, fotografia di Pablo Ferao


mag #0 #1 - gam magazine

Assertore della positività potenziale di contrasti e criticità, Miessen propone un modello di partecipazione conflittuale per riformare e migliorare la natura dei sistemi politici e socio culturali. La figura del consulente esterno in ambito professionale può essere adoperata per esemplificare ciò che vorrei definire come Uninvited Outsider (N.d.T. l’ospite

indesiderato) o Crossbench Practitioner (N.d.T. battitore libero). Volendo studiare la manifestazione di criticità dal punto di vista del mercato, la situazione è abbastanza chiara: la criticità tende a muoversi tra i margini con un movimento dall’esterno verso l’interno, e non solo all’interno dello stesso sistema esistente. Se un’azienda o un’istituzione vuole provare a cambiare parte della propria organizzazione strutturale, è più probabile che si cimenti in questo tentativo non mediante l’impiego di forze interne (il potenziale esistente), ma piuttosto coinvolgendo un outsider a riflettere criticamente sui meccanismi di quell’azienda stessa, per analizzare i processi chiave e, dove necessario, proporre un’alternativa critica ma produttiva. All’interno di un sistema dato, è difficile organizzare un cambiamento. Per la maggior parte di coloro che operano all’interno dei confini di un sistema, è assai arduo riuscire a mettere a fuoco – o a prevedere – i possibili difetti di quel sistema. La cultura ha una natura storica e include elementi e tabù radicati, di cui solo difficilmente si può avere piena consapevolezza. Ciò può complicare le cose, generando un senso di inibizione ad agire e a progettare il proprio modus operandi. Un sistema tende a confermare i paradigmi esistenti e solo raramente prova ad andare al di là dei propri schemi sicuri e prevedibili. Che cosa significhi proporre un’alternativa “produttiva” e chi veramente ne benefici è una domanda da porsi caso per caso. In ambito aziendale ci sono idee e convinzioni molto diverse su come un agente esterno possa funzionare. I due metodi più interessanti nell’ambito della prassi critica sono il modello McKinsey e il suo opposto, dato dall’approccio Königswieser1: un modello analitico contrapposto a un modello integrato. Il modello McKinsey si fonda sull’analisi dell’esperienza e su un sistema di gestione della conoscenza messo in atto da McKinsey a partire dalla fine degli anni Trenta. Königswieser è invece conosciuto per la “consulenza complementare”. Questo metodo è radicalmente diverso in quanto studia le specificità di un’azienda a partire da una strategia a lungo termine.

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Rispetto a quello analitico, esso si caratterizza per un approccio morbido e multifunzionale rispetto ai problemi da risolvere, evitando di ricorrere alla rigidità di formule predeterminate. Il suo insieme di protocolli soft, intuitivi piuttosto che analitici, riconosce la positività potenziale del fallimento, del pensiero non lineare e dell’apprendimento in corso d’opera. Anziché prescrivere soluzioni, questo metodo prova a favorirle attraverso processi di cambiamento sostenibile, riconoscendo che non si possono risolvere problemi, ma solamente provare a limitarne la loro portata. Al posto della pianificazione strategica, tale modello promuove dunque un processo di ripensamento della struttura in cui si sta operando. L’approccio analitico è probabilmente inefficace, in termini di riprogettazione critica, in quanto tende a fondare gli elementi del cambiamento sulla struttura esistente, senza porre domande più generali. Per usare le parole di Arnab Chatterjee, espresse durante un recente think tank in Austria: «Se si chiedesse rispettivamente a un consulente McKinsey e a un designer di riprogettare un bicchiere, avremmo due reazioni completamente opposte: il consulente McKinsey guarderebbe il bicchiere ed escogiterebbe un modo in cui poterlo fisicamente riprogettare, da un punto di vista estetico. Il designer guarderebbe il bicchiere e lo penserebbe invece come un recipiente per la reidratazione». Questo naturalmente solleva un interrogativo su quali siano i limiti entro i quali ci si può muovere. Un processo di design iterativo (Königswieser) passa attraverso una continua serie di esercizi di ristrutturazione, in seguito ai quali difficilmente il risultato sarà compreso nella struttura originaria. Se l’insieme di quei processi di cambiamento può stimolare il conseguimento di un nuovo risultato, favorendo uno spazio di conversazione e di comunicazione produttiva, allora l’esito finale di tutta l’operazione altro non è che il riposizionamento di problemi e criticità su una meta-scala più ampia. Una capacità decisionale intelligente si fonda sempre su variabili dinamiche e sulla capacità di prendere in considerazione contemporaneamente molteplici piani e


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livelli. Il tessuto connettivo di una data situazione non conduce da nessun parte in sè – ciò che conta infatti è solo la posizione e il modo in cui ci si muove all’interno di quella specifica rete. Dal problema alla proposta

strumento per ripensare le strutture del futuro, in chiave pienamente propositiva. Per progettare e realizzare cambiamenti occorre tempo. A tal fine è fondamentale dare spazio e visibilità ai conflitti esistenti, anche attivando volontariamente alcuni elementi conflittuali come fattori scatenanti dall’esterno. Gli accordi consensuali nelle prime fasi del processo di progettazione devono essere evitati. Infatti quanto maggiore è lo spazio lasciato per lo

sana curiosità come principio base per verificare l’efficienza di un dato sistema, lasciandosi guidare da una capacità intuitiva di comprendere una specifica situazione. Le risposte critiche e la sfida alle strutture convenzionali possono riuscire a emergere solo nella realtà della prassi, trasformando istanze teoriche in momenti pienamente fattuali di azione e proposizione. Senza cadere nella trappola dell’urgenza, in quanto l’urgenza non lascia mai tempo per ciò che è importante.

Da una serie di conversazioni con la politologa Chantal Mouffe, ho imparato di più sulla comprensione e definizione dei problemi che sulle possibili soluzioni che si possono proporre. Mouffe è molto brava Per approfondire nel delineare l’aspetto la lettura di questi problematico, ma meno temi confronta: efficace nel saper trovare Markus Miessen, gli strumenti utili per The Nightmare andare oltre e giungere of Participation a una risoluzione. (Crossbench Praxis as Come si possono a Mode of Criticality), affrontare criticamente Sternberg Press, 2010 le condizioni esaminate, al contempo www.studiomiessen. trasformandole in un com discorso costruttivo 1 e propositivo? In un Vedi anche: contesto aziendale, http://www.mckinsey. com/ e http://www. ciò che Mouffe fa koenigswieser.net/ si chiamerebbe “formulazione del The Violence of Participation, installazione spaziale, progetto per la Biennale di Lione 2007, disordine”. Per di Markus Miessen e Ralf Pflugfelder The External disordine, in questo Agent: Crossbench Praxis as a caso, si intende il territorio di indagine e svolgimento di futuri conflitti all’interno Mode of Criticality azione. Si dà piena formulazione a ciò che di un progetto, tanto più ampie sono le sue non funziona al fine di convincere sé stessi possibilità di successo a lungo termine. In business terms, the concept and o gli altri che le cose devono cambiare. Tale procedura racchiude il potenziale practice of the external consultant could Come metodologia strumentale, questo perché i possibili conflitti rimandino be compared and mobilized as a useful approccio rende possibile la comprensione sempre ad una modalità produttiva. example of what I would like to introduce condivisa di un problema, oppure – come I sistemi socioculturali evolvono as the “Uninvited Outsider” or “Crossbench Mouffe direbbe – di uno spazio comune autonomamente. I conflitti servono a Practitioner”. in cui vi è un accordo sul dissenso. Per sostituire l’immagine distorta condivisa in If one was to investigate the phenomenon un consulente, ciò significa che si sta partenza con una piena trasparenza. of criticality from the point of view of preparando il terreno, prendendo atto delle Gli azionisti di un’impresa hanno la the market, here, things are pretty clear: realtà con cui ci si deve confrontare, al fine tendenza a definire i problemi senza di sviluppare delle alternative concrete. Ciò contesto, ponendoli in relazione a soluzioni criticality tends to merge through the margin, from the outside in, not from stimola ad affrontare una circostanza in già note e in riferimento a un insieme di within the existing system itself. If a cui vi sia consenso condiviso sull’esistenza vincoli universali come il tempo, il denaro company or institution wants to change di un conflitto bilaterale, per poterlo così e l’informazione. Entro questo registro, le part of their structural organization, they gestire in modo produttivo. Per focalizzare deviazioni dalla norma tendono a essere il disordine o un terreno di conflitto, è percepite come minacce. Ma è più probabile are most likely attempting this not by mobilizing their internal forces, in other importante osservare e comprendere la che un problema non sia un aggregato di words their existing potential, but inviting struttura razionale del sistema, conoscerne singoli fattori, ma piuttosto un elemento an outsider to critically reflect on what la storia e osservare i suoi funzionamenti. indipendente e repentino, imprevedibile. they are doing – to review, detect and In tal modo il problema stesso diventa uno L’outsider dovrebbe saper assumere una


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analyze the key processes, and, where needed, to propose a critical but productive alternative. Within an existing system, change is difficult to organize: for most actors within a given system, it is hard to understand or predict the possible shortcomings of that system. Culture is historic. It has historic registers and taboos that one can barely consciously relate to, a sense of intimidation to act, behave and design the way we do things. A system tends to confirm existing paradigms, but rarely attempts to discover that, which is beyond its safe and imaginable framework. Now, it is of course a case-specific question what this ‘productive’ alternative really means, and who it benefits. In the commercial business milieu, there are very different notions and practices of how this external agent can or will function. The two most interesting methods in the context of critical practice are the McKinsey model opposed to the Königswieser1 approach: an analytical opposed to an embedded model. Whereas McKinsey’s analysis is based on a catalogue of experience, a knowledge management system, which has essentially been built up by McKinsey since the late 1930s. Königswieser is best known for what they call Complementary Consulting. This method is fundamentally different in that it enters the companies through long-term involvement. Such alternative method beyond the analytical seeks a specificity that allows for a network approach regarding problem solving without formulas. Its intuitive rather than analytical set of soft protocols acknowledges the value of failure, non-linear thinking, and the notion of ‘learning from’. Rather than prescribing solutions, it tries to enable them through processes of sustainable change, realizing that one cannot solve problems, but only tweak their performance. Instead of strategy planning, such model promotes a redesign process of the structure that one is working in. The analytical approach is arguably, in terms of critical re-design, likely to fail, as it tends to base the elements of change on the existing structure without asking the wider question. Or, as candidly noted by Arnab Chatterjee during a recent think tank in Austria: «if one asked a McKinsey consultant and a designer to redesign a

glass, there would be two fundamentally opposing reactions: the McKinsey consultant would look at the glass and think about a way in which it could physically be redesigned, in other words: aesthetically. The designer would look at the glass and think about it as a vessel for rehydration». This of course poses a question as to the boundaries that one sets as well as permits. An iterative design process constantly goes through a series of reframing exercises, whereby the result is very unlikely to be within the orginal framework. Now, if those processes of change can be stirred through a design towards conversations and productive communication, design in this context is understood as the re-ordering of affairs on a meta-scale. Smart design decision-making is always based on dynamic variables and addresses and interacts with more than one layer and several variables at once. The network itself does not produce anything – what is crucial is the position within the network. From Problem to Proposal Through a series of conversations with political theorist Chantal Mouffe, I have learned more about the understanding and outlining of problems than about possible solutions that one may propose. Mouffe is very good in outlining the problematic, but rarely delivers any productive means to move forward. How can one deal critically with the conditions that one is surrounded by or investigating, but simultaneously turn it into a constructive and propositional discourse? In a corporate context, what Mouffe is doing would be called ‘formulating the mess’. The mess, in this case, should be understood as the territory of investigation and action. One formulates the mess in order to convince oneself or others that things have to change. As a method or tool, it creates a common understanding of a problem, or – as Mouffe would phrase it – a joint space in which there is an agreement to disagree. For a consultant, it means that one is preparing the ground, mapping the realities that one is dealing with, in order to develop alternatives. It denotes a stimulation of a circumstance in which there is a consensus

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about the existence of a bilateral conflict, which can – as a result – be dealt with in a productive way. In order to map this mess or field of conflict, it is important to observe and understand the rationale of the system, learn its history and watch how it performs. The mess, in this case, acts as a tool to design structures for the future, to become propositional. Designing change takes time. Designing through playing out the conflicts that exist, and by inserting certain conflicts as productive triggers from the outside, is crucial. Consensual agreements within the early phases of the design process have to be avoided. In fact, the more room a design leaves for future conflicts to be played out, the more successful it will be in the long run. Such design would then embody the potential for those conflicts to always return to a productive mode. Sociocultural systems are self-evolving. Conflicts replace the distorted shared image by transparency. Individual stakeholders have a tendency to define problems free of context, relating them to solutions that are already known and in regards to a set of universal constraints such as time, money and information. Within this register, deviations from the norm tend to be understood as threats. But a problem is most likely not an aggregate, but an independent and emergent property. The Outsider should invest a healthy curiosity as a driving force for testing the performance of a given system, driven by an intuitive understanding of a situation. Critical practices and the challenging of conventional structures and truisms can emerge only from the actualities of praxis and the extrapolation of the feedback-loops of the purely critical into the propositional, the applied. Without falling into the trap of urgency, as urgency never leaves time for the important. For further reading, please find: Markus Miessen, The Nightmare of Participation (Crossbench Praxis as a Mode of Criticality), Sternberg Press, 2010 1

See also: http://www.mckinsey.com/ and http://www.koenigswieser.net/


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Intervista di Luigi Fassi a Walter Mignolo Professor Mignolo, le ricerche storiche e teoriche sviluppate nei suoi libri sono indirizzate verso ciò che lei ha definito “una decolonizzazione della conoscenza”. Il tentativo è svelare come la storia europea e occidentale sia nel suo complesso l’esito di una logica coloniale tesa a giustificare il dominio politico globale, naturalizzando e assolutizzando gerarchie di potere temporanee. Proprio così. Direi che in questo momento nella modernità/de-colonialità collettiva ci stiamo muovendo verso la decolonizzazione del sapere e del sentire. Questo significa ristabilire il senso dell’aesthesis così com’era prima che il pensiero Europeo se ne appropriasse e lo colonizzasse per trasformarlo in estetica, secondo quella percezione del bello e del sublime che Kant riassume con una vena fortemente patriarcale e razzista nelle sue Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime. Inoltre aggiungerei che la “storia europea e occidentale” nel nostro (cioè condiviso) e nel mio lavoro è da ricondursi a un modo generale di considerare “la matrice coloniale del potere” (termine specifico e tecnico per “Eurocentrismo”), che è il modo in cui teorizziamo e storicizziamo l’altra faccia della modernità: la colonialità. Per tornare alla domanda, il nostro lavoro di decolonializzazione parte dal fatto che la retorica della modernità (salvezza, progresso, sviluppo) è strettamente legata alla colonialità (appropriazione, espropriazione, sfruttamento, svalutazione patriarcale e razziale degli esseri umani, distruzione della vita in

generale, del pianeta e degli esseri umani che lo popolano). Lei argomenta che il passato “non esiste ma è sempre creato, in accordo alle necessità e ai progetti politici” e che la storia è una forma di controllo disciplinare conseguente al modo in cui si è inventato il passato. La storia funziona così come un possesso totalitario del passato del mondo che cancella e sopprime “altre storie”. In tale contesto, la nozione stessa di democrazia sembra compromessa. Certamente, quello che voglio dire è che il concetto di “storia” occidentale è dato dall’appropriazione della memoria, così come nell’Europa del XVII secolo l’estetica è definita dall’appropriazione dell’aisthesis (sensazione). È un processo che opera simultaneamente in due direzioni: da un lato con la canonizzazione della Bibbia e la sua secolarizzazione nella filosofia della storia di Hegel e dall’altro con la forzatura del concetto di “storia” nelle civiltà nonoccidentali. Ciò ha significato costringere tutte le memorie non-occidentali nella definizione di “storie”, valutandole in base a ciò che il concetto regionale e imperiale di “storia” ratifica cosa la storia sia – cioè non solo come racconto del passato ma anche come codifica di un modo universale di comprendere il passato. Per questo motivo ad esempio, in Ecuador gli intellettuali di origine africana narrano il proprio passato in termini di “ancestralità” e non di “storia”. La democrazia non è attuabile

secondo un’epistemologia uni-versale e mono-topica come quella delle categorie monotopiche del pensiero imperiale occidentale. Dai suoi testi si può inferire come la democrazia possa essere realizzata solo a partire dalla premessa di accettare modi diversi di scrivere la storia, accogliendo narrazioni storiche differenti, senza tentare di imporre una singola prospettiva. L’univocità infatti è la conseguenza di una colonizzazione di spazio e memoria. Sì, ma questo non vale solo per la storia. La civiltà europea è stata l’ultima a emergere. Non esisteva una civiltà occidentale prima del 1500, prima cioè delle traiettorie congiunte del Rinascimento europeo e dell’inizio del consolidamento della cultura occidentale e dell’espansione imperiale. Tale consolidamento ed espansione è stato perpetuato respingendo ogni altra memoria, conoscenza, lingua (a parte il Greco e il Latino e le sei lingue europee di loro derivazione), epistemologia e modalità percettiva (sarebbe interessante rileggere i capitoli tre e quattro di Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime di Kant sotto questa luce). Quindi, pur se va apprezzato e riconosciuto il contributo dato dalla civiltà occidentale alla storia dell’umanità e della vita sulla terra, le pretese crescenti da parte degli imperi dell’Europa occidentale e cristiana, con la loro continuità negli Stati Uniti, sono del tutto inaccettabili. Siamo ormai nel pieno di una complessa transizione


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verso un mondo policentrico, i cui fari guida sono modalità indipendenti di pensiero e libertà epistemica. Come ha seguito il dibattito sulla partecipazione, sull’idea di moltitudine e sulle strategie partecipatorie che è andato avanti dagli anni Novanta in poi, specialmente nell’ambito dell’ arte contemporanea? Per rispondere devo lasciare da parte la terminologia della moltitudine e della partecipazione e ricorrere a quella della disobbedienza civile ed epistemica, del delinking1, dei damnès. In altre parole quello sulla partecipazione è un dibattito importante ma solo euro-americano. Il mio impegno e quello di altri va in un’altra direzione, segue altri contesti, legati a differenti genealogie di pensiero, percezione e azione. Ritengo che gli intellettuali euro-americani abbiano attualmente dei problemi molto urgenti da affrontare e risolvere; è questo il punto del loro dibattito. Per noi, invece, il problema riguarda “l’altro”. Lei si è fatto promotore di una ricerca teorica critica e alternativa, volta a dare spazio e voce a chi è subalterno, contrastando l’immagine chiusa e unilaterale di subalternità. Ritiene che l’arte possa contribuire alla costruzione di questo progetto teorico? I subalterni si sono sempre espressi, ma l’egemonia dell’epistemologia occidentale ha impedito loro di partecipare al dibattito. Uno dei compiti degli intellettuali de-coloniali è quello di contrastare i luoghi istituzionali di

“resistenza” al subalterno. La resistenza infatti non dipende dai subalterni ma dall’egemonia del pensiero dominante e delle strutture di potere. Non potrà esserci nessuna democrazia finché la struttura sociale attualmente egemonica continuerà ad oppore resistenza ai subalterni, siano questi persone o Paesi. Una democrazia con uno sguardo monotopico è da considerarsi una forma di totalitarismo, come sì è visto bene in Europa. Tuttavia, quella della subalternità resta una categoria troppo limitata per dare una risposta alla domanda. Prendiamo il caso della Cina, cui per anni è stato impedito di parlare. La Cina non è certo un paese “subalterno”, né secondo l’interpretazione di Gramsci, né secondo l’adattamento de-coloniale che ne ha dato un gruppo di intellettuali di sinistra dell’Asia meridionale. La Cina era “l’impero giallo” e ora si sta riscattando dalla grande paura che ne aveva l’Occidente. Il periodo del silenzio imposto dai media occidentali, dai funzionari di stato e dagli intellettuali marxisti è ormai finito. La Cina e l’Asia orientale non solo sono delle potenze economiche ma stanno anche fortemente contribuendo al dibattito sulla de-occidentalizzazione e ora vengono ascoltate! La de-occidentalizzazione fa parte del percorso verso un mondo policentrico, nella sfera limitata della democrazia globale. Infatti, non possiamo aspirare a una democrazia globale sperando che 190 paesi del pianeta seguano quanto dettato dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti sul significato di democrazia. In un articolo recente (The communal and the decolonial – Il comunale e il decoloniale) lei ha scritto infatti che «la genealogia del pensiero

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europeo non ha il monopolio di immaginare e dettare come possa essere un futuro non capitalista». Ancora una volta, questo implica la necessità di riconfigurare completamente la nostra cognizione della democrazia e dei processi emancipatori. Proprio così, come ho spiegato in parte nella risposta precedente. Il concetto di emancipazione è stato introdotto nella storia Europea in riferimento all’emancipazione di una nuova classe etnica: la borghesia. E il termine preferito in ogni processo di de-colonizzazione avviato nel Terzo Mondo durante la Guerra Fredda era “liberazione”. Pertanto, liberazione e decolonizzazione si rifanno a forme di pensiero indipendenti e alla libertà de-coloniale del (e nel) mondo non-Europeo. In conclusione, sì, l’Europa e gli Stati Uniti non hanno più il privilegio di controllare la matrice coloniale del potere e di decidere che cosa debbano fare gli altri popoli. I barbari, i primitivi, gli anthropos, gli irrazionali, i meno umani, “i gialli”, hanno tutti capito che queste sono solo delle categorie Europee che non corrispondono ad un’ontologia del mondo esterna ai canoni europei di classificazione. Lei è anche attivo come scrittore di arte contemporanea e curatore. Che ruolo può avere l’arte per riformare il pensiero occidentale e condurlo a un approccio non più determinato da modelli coloniali? La decolonizzazione del sapere è strettamente legata alla decolonizzazione

pubblicazioni The Idea of Latin America (2005) La Idea de América Latina (2007) La formula “America Latina” presuppone che esistano due diversi continenti in contrapposizione: in questo manifesto geopolitico di cui esiste

un’edizione inglese e una in spagnolo, Mignolo rivisita l’idea di Latinità. Local Histories / Global Designs (2000) Scienze e studi sociali sono ad oggi inadeguati: Mignolo

introduce la nozione di “differenza coloniale” nello studio del mondo coloniale moderno e di nuove forme di conoscenza definite come “border thinking”.

The Darker Side of the Renaissance (2003) Letteratura, semiotica, storia e storiografia, cartografia e studi culturali sono qui usati per esaminare il ruolo del linguaggio nella colonizzazione Americana.

Writing Without Words (1994) La storia della scrittura è un processo ascendente dall’alfabeto al discorso. Writing Without Words sfida questa regola e la visione dominante di letteratura, storia, arte.


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del sentire e del percepire ed entrambe contribuiscono a sviluppare soggetti decoloniali. In questo momento stiamo allestendo una mostra a Bogotà (infatti sto rispondendo alle domande tra una riunione e l’altra con curatori, artisti e storici dell’arte). Il titolo della mostra è Decolonial Aesthetics ma tra di noi la chiamiamo “El Bogotazo”, perché questo progetto è una risposta alla mostra della Tate Britain, curata da Nicolas Bourriaud e intitolata Altermodern e a quella del MACBA (Museo d’Arte Contemporanea di Barcellona) dal titolo Modernolgies curata da Sabine Breitwieser. La nostra mostra intende essere un’affermazione decoloniale e la risposta alle considerazioni europee sulla modernità e l’altermodernità. Nel mondo nonEuropeo e non Eurocentrico (perché come sappiamo l’Eurocentrismo ha varcato i confini dell’Europa) l’argomento adesso sulla bocca di tutti non è la modernità ma la decolonialità. A questo proposito, oggi stiamo assistendo a un processo in tre parti simultanee così articolato: • Artisti contemporanei che lavorano principalmente con istallazioni, video e performance e fondano le proprie opere sull’estetica decoloniale (es. L’artista afro-americano Fred Wilson, l’artista messicano-americano Pedro Lasch e l’artista bosniaca Tanja Ostojic) • Storici dell’arte e intellettuali che decolonizzano la storia dell’arte accompagnando artisti che realizzano opere decoloniali • Storici dell’arte e intellettuali che eseguono una rilettura decoloniale dell’arte e della storia dell’arte dell’impero occidentale. Vedi anche: Walter D. Mignolo, “Delinking: The Rhetoric of Modernity, the Logic of Coloniality and the Grammar of Decoloniality”, in Globalization and the Decolonial Option. Routledge, London 2009. Vedi anche l’intervista completa su Reartikulacija 4, 5, 6 “Delinking Epistemology from Capital and Pluriversality – A Conversation with Walter Mignolo”. Questa terminologia non è ancora arrivata in Europa. Ma presto arriverà: l’Europa si ritrova nello stesso ritardo in cui si sono trovati in passato i popoli colonizzati. In realtà parte di questa terminologia si usa già in quella che una volta era l’Europa orientale, ma non nella vecchia Europa occidentale – quella che ora si chiama Unione Europea. (W.M.) De-linking – Desprenderse – nel senso di staccarsi o disfarsi dei vincoli, “disobbedienza epistemica” (N.d.T.)

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In your books and theoretical works, your historical investigations aim at moving toward what you call the decolonization of knowledge. Is it an attempt to explain how European, and Western history in general, is the result of a colonial logic that intends to justify domination and naturalize hierarchies? It is indeed. I would say that we, in the collective modernity/(de)coloniality, are moving toward decolonizing knowing and sensing. That is, reassessing the sense of aesthesis before it was appropriated (colonized) by European thoughts and before its mutation into aesthetics: sensing the beautiful and the sublime summarized with strong patriarchal and racist undertones by Immanuel Kant in his well-known Observations on the Beautiful and the Sublime. I would also add that “European and Western history” in our –that is, in the collective–and my work, is or refers to a general way of talking about “the colonial matrix of power” (the specific and technical term for “Euro-centrism”), which is how we theorize and historicize the underside of modernity: coloniality. So, the point of your question is that our decolonial work starts from the fact that the rhetoric of modernity (salvation, progress, development) goes hand in hand with its most obscure side, coloniality (appropriation, expropriation, exploitation, racial and patriarchal devaluation of human beings, destroying life on the planet–human beings included). You claim that “the past is always created according to specific political needs and projects”, and history is a disciplinary form of control, which derives from how the past is invented. “History” functions thus as a totalitarian ownership of the world’s past, which erases and suppresses “other histories”. In this framework, the notion of a genuine democracy itself seems to be compromised. Yes indeed, my point is that the concept of

Western “history” (as I have elaborated on several occasions) is the appropriation of memories – similar as to how aesthetics, in Eighteenth Century Europe appropriated aisthesis (sensing, feeling) – operating in two simultaneous ways: on the one hand by canonizing the Biblical narrative and its secularization in Hegel’s philosophy of History, and by forcing the concept of “history” in non-Western civilizations on the other. This means forcing “us” to conceive all non-Western memories as “histories” and evaluating them according to what the regional and imperial concept of “history” recognizes as such – history as not just the narration of the past, but also as the codification of a universal way to understand the past. For that reason – and just as an example – Black intellectuals in Ecuador are narrating their own past in terms of “ancestrality” and not of “history.” Democracy cannot be achieved under one uni-versal and mono-topic epistemology, such as that of the Western imperial categories of thoughts in their mono-topic diversity. From your texts one can deduce that democracy can be accomplished only by accepting different modes of writing history and different historical narratives, without attempting to impose a single perspective, which is the result of a colonization of space and memory. Yes, but not only history. Western civilization was the last one to appear on the planet. There was no such thing as Western civilization before 1500, before the combined trajectories of European Renaissance and the beginning of Western consolidation and imperial expansion. This consolidation and expansion operated by disavowing all kinds of memories, knowledge, languages (apart from Greek and Latin and its six European vernacular off-springs), epistemologies, sensing (once again, read Kant, section three and four, under this light). Thus, while the contribution of Western civilization to the history of human kind and life on the planet shall be celebrated, the increasing pretension of Western European and Christian empires and their continuity in the US, is


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unacceptable. We have already entered a very complex process toward a polycentric world, where the guiding light, and starting point, seems to be independent thought and epistemic freedom. How did you follow the debate on participation and multitude, on consensus-driven politics and participatory strategies that set off in the 1990s and included the contemporary art realm? This question will require a complex answer for I will have to leave the vocabulary of the multitude and participation behind, to enter the one of epistemic and civil disobedience, delinking1 the damnés instead of the multitude. In other words, it is an important debate, but it is a Euro-American centered debate; we are cooking another soup and following many other debates that are cast in other genealogies of thinking, sensing and doing. I think Euro-American intellectuals have important issues to deal with and to solve, it is their main problem now. So, as far as we are concerned, this is simply a problem that affects “the other”. You have been advocating a sort of counter-scholarship, capable of allowing the subaltern to speak, or at least to break up the monolithic notion of subaltern and disclose an alternative discourse practice. Is this something you think art could also contribute to creating? The subalterns have always spoken out, but the hegemony of Western epistemology has prevented them from entering the debate. One of the tasks of decolonial intellectuals today is to disrupt all institutional places of “resistance” to the subaltern. It is not the subaltern who resists: it is the hegemonic and dominant ways of thinking, and the structures of domination that are resisting the “subaltern.” And regarding “democracy”, there will be no democracy until the actual hegemonic and dominant social structure resists the subaltern, be them people or countries. A mono-topic democracy is indeed a form of totalitarianism as you, in Europe, know

quite well. However, “subaltern” is too much of a limited category to answer your question thoroughly. Consider China, which was prevented to speak for a long time. China is not a “subaltern”, neither in Gramsci’s sense nor in the adaptation by a mixture of leftist and decolonial intellectuals in South Asia. China was the “yellow empire” now recovering itself from the mountain fears of the West. The time China was prevented to speak because it was swallowed up by Western media, state officers and Marxist intellectuals, has ended. China and East Asia are not only economic powers: they are unfolding a strong discourse of de-westernization, and they are being heard! De-westernization is part of the march toward a polycentric world, in a limited sphere of global democracy. For we cannot think global democracy simply by hoping that 190 countries will follow the script of what it means to be democratic for Western Europe and the US. In a recent article “The Communal and the Decolonial” you stated indeed that «European genealogy of thought doesn’t have the monopoly to imagine and dictate how a non-capitalist future shall be». Does this imply we have to completely reconfigure our understanding of what democracy and emancipation might be? Yes, that is what I mean as I explained in my previous answer. Emancipation is a concept introduced in European history referring to the emancipation of a new ethno-class, the bourgeoisie. “Liberation” was the favourite word of all decolonization processes in the Third World during the Cold War. So liberation and decolonization refer to independent thoughts and decolonial freedom of, and in the nonEuropean world. And finally yes, Europe and the US no longer have the privilege to control the colonial matrix of power and decide what other people shall do. The barbarians, the primitives, the anthropos, the irrationals, the less human, “the yellows”, they all realized that these were European categories, which did not relate to an ontology of the world beyond European classifications.

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You are also engaged as a contemporary art writer and curator. Do you think art can play a relevant role in reshaping our understanding of the Western way of thinking, and adapt it to a noncolonial mind set? Indeed, decolonizing knowledge goes hand in hand with decolonizing sensing and both work together to engender decolonial subjects. As a matter of fact, we are currently working on an exhibit, and I am writing this in Bogota, in between meetings with curators, artists and art historians. The exhibit title is Decolonial Aesthetics but our in house title is as “El Bogotazo”, for this exhibit is a response to the one at the Tate Britain, curated by Nicolas Bourriaud and titled Altermodern and the exhibit at the MACBA titled Modernologies and curated by Sabine Breitwieser. Thus, the exhibit Decolonial Aesthetics shall be the de-colonial affirmation and response to European concerns over modernity and altermodernity. In the non-European world that is not Eurocentric (for Eurocentrism has expanded beyond Europe), decoloniality, rather than modernity is the talk of the town. In this regard, today are witnessing a triple and simultaneous process that involves: • Contemporary artists working mainly with installations, videos, and performances, framing their work in terms of decolonial aesthetics (e.g. Afro-American Fred Wilson, Mexican-American Pedro Lasch, Bosnian Tanja Ostojic); • Art historians and intellectuals, decolonizing art history and walking next to artists doing decolonial work; • Art historians and intellectuals performing a decolonial reading of imperial art and of imperial Western art history. See Walter D. Mignolo “Delinking: The Rhetoric of Modernity, the Logic of Coloniality and the Grammar of Decoloniality”, in Globalization and the Decolonial Option. London: Routledge, 2009. See also the extensive interview in Reartikulacija 4, 5, 6 “Delinking Epistemology from Capital and Pluriversality–A Conversation with Walter Mignolo”. I know, all these terminology did not make it into Europe yet. It is coming, Europe is going through the same time lag that colonized people went through in the past. Well, actually it made it to “former Eastern Europe” but not to “Former Western Europe” now called European Union. (W.M.)


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Partecipazione: per chi? Participation: for whom? a cura di Luigi Fassi

Partecipazione e desiderio di democrazia in

The Millionaire di Bonnie Honig | foto di Simona Rossi e Simone Damiani

foto © Simona Rossi

Bonnie Honig analizza criticamente the Millionaire, il film di Danny Boyle vincitore nel 2008 di otto premi Oscar, mettendo in luce i valori di cui si fa velatamente portatore e la necessità di ripensare il rapporto filosofico tra partecipazione, uguaglianza e democrazia nello scenario del capitalismo globale.

In un libro recente, Todd May distingue tra uguaglianza attiva e passiva evidenziando un concetto di estrema rilevanza per le politiche democratiche: l’importanza del modo in cui la distribuzione viene attuata o subita, e non soltanto, come sostiene John Rawls, se alla fine ci sia uguaglianza o se la disuguaglianza sia giustificata. Al contrario di Rawls, che suggerisce soltanto una “uguaglianza passiva” della giustizia distributiva, Jacques Rancière ne teorizza una “attiva”, in cui questa è una pratica, qualcosa di ottenuto, compiuto, eseguito, non accettato o ricevuto passivamente1. L’utile distinzione di May tuttavia presenta un limite: vi è nell’iniziale progetto di giustizia di Rawls l’impegno per un’uguaglianza più radicale, che diventa evidente quando

egli rifiuta ogni argomentazione su una disuguaglianza intrinseca. Secondo Rawls non c’è ordine politico, a prescindere da quanto sia radicata la sua distribuzione, che possa rendere legittimo il distacco dall’uguaglianza assoluta facendo leva sul merito. Qualunque ricorso a presunte basi di merito per giustificare una distribuzione ineguale è basato su null’altro che il caso. Se alcuni sono più intelligenti di altri, dipende dal fatto che questi sono vincitori di quella che potremmo definire lotteria genetica o perché sono stati allevati in un nucleo famigliare che valorizza l’intelligenza, piuttosto che, ad esempio, l’abilità nello sport, o la serietà piuttosto che un impegno mediocre. Ogni argomentazione che si basi sulle caratteristiche intrinseche o sull’impegno


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per legittimare le distribuzioni inique, si rivela, una volta raschiata la superficie, destinata a cadere irrimediabilmente nella spirale delle possibilità. Nella critica al merito2 come base della distribuzione, trova espressione il desiderio dello stesso Rawls per un’uguaglianza assoluta3. Ma il desiderio di uguaglianza non è un desiderio di democrazia, e ciò è al tempo stesso esemplificato e contraddetto nella teoria liberale di Rawls, in cui l’uguaglianza non è subita ma distribuita, e il distaccarsi da essa è accettato se è in qualche modo giustificabile. Il travagliato cammino verso la democrazia viene raccontato nel recente film The Millionaire, che osserva ciò che accade quando il sogno americano di scalata sociale viene importato in India, la più grande democrazia del mondo, organizzata in classi e caste. Così l’interesse della Nazione si risveglia quando un giovane sopravvissuto alle rivolte antimusulmane cresciuto orfano nei bassifondi di Mumbai, si trova a un passo dal vincere alcuni milioni di rupie in un nuovo show televisivo. Molti membri della classe più povera si identificano con l’eroe e fanno il tifo per lui, ma la polizia sospetta un imbroglio. L’idea centrale del film è che l’eroe, Jamal, per dimostrare ai poliziotti che lo interrogano di conoscere tutte le risposte alle difficili domande dello show, deve ripercorrere la storia della sua vita, la cui sorprendente particolarità si rivela con l’evolversi della vicenda. Attraverso una cinematografia spettacolare, il film mostra allo stesso tempo la brulicante massa umana dell’India, divisa in classi e religioni che vivono a stretto contatto l’una con l’altra, assieme ad un ritratto della indicibile unicità di una singola vita tra le tante. Il film ottiene il plauso del capitalismo globale, in quanto parla di lavori puliti e premi ottenuti con facilità, in contrasto con la realtà del degrado dei bassifondi indiani e il traffico ignobile di vite umane ad opera di capibanda locali e criminali. Lo sfruttamento indiano perpetrato dagli indiani stessi è provinciale e caricaturale.

Un padre adottivo di bambini di strada, apparentemente caritatevole, li manda in giro a elemosinare e raccoglie i loro “guadagni”, insegnando loro a cantare per ottenere più denaro. Sebbene li avvii a una vita da mendicanti, appare troppo buono per essere vero. E così è. Una notte acceca i bambini che cantano meglio, perché i cantanti ciechi raccolgono più denaro di tutti. Questo dickensianesimo del Ventunesimo secolo è terrificante, ma diversamente da Dickens il film è tutto incentrato su

Fagin4 e non dà spazio al riformatorio. Gli sfruttamenti e le violenze reali del capitalismo globale non compaiono nel film. Si descrive il terribile atto di accecare i bambini per profitto, ma non le amputazioni e le lacerazioni subite a causa del lavoro nelle fabbriche. Il volto del capitalismo globale è rappresentato dalla camicia bianca inamidata indossata da Jamal quando lavora al call center e dalla scalata che deve affrontare, un passo dopo l’altro, affiancato da un divertito presentatore. Nel film i conflitti principali

Gli sfruttamenti e le violenze reali del capitalismo globale non compaiono nel film si sviluppano tra coloro che riescono a trovare un’àncora di salvezza nella giungla del capitalismo globale, paradossalmente nel suo momento di maggiore debolezza, e coloro che, non trovandolo, verranno ad esso sacrificati. Jamal riesce a sopravvivere alla violenza dell’affarismo indiano e alle tentazioni seducenti del capitalismo globale mantenendo integri l’anima e il corpo.

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È aiutato nei suoi sforzi eroici dal fratello maggiore che in svariate occasioni gli salva la vita, e dal suo essere privo di ambizioni economiche. Dopo aver assistito da bambino all’uccisione della madre senza poter fare nulla per salvarla e avendo in seguito fallito nel tentativo di impedire il rapimento dell’amica d’infanzia Latika, Jamal non è interessato alla scalata sociale. In ultima analisi il fulcro della vicenda non è la storia d’amore tra i due giovani, ma la descrizione di un’unicità premiata, anche se inavvertitamente, da quel polpettone che incarna il (dis)ordine capitalistico, la società di massa e la scalata sociale: il moderno show televisivo. Se si vuole ravvisare un miracolo nel successo di Jamal, questo non è rappresentato da tutte le cose che sa – ogni risposta data ha una spiegazione nello scenario mozzafiato che ritrae la sua infanzia avventurosa e violenta – ma piuttosto dal fatto che il programma sia riuscito a mettere insieme una lista di domande che sembra tracciare una mappa della singolare vita del ragazzo. Una tale unicità viene di solito percepita soltanto da una madre: come nota Adriana Cavarero, anche la mostruosa Medea conosceva quei figli che lei stessa uccise e «che amò nella loro irripetibile unicità5». In questo caso l’industria dello spettacolo prende il posto della madre. Questa è la vera fantasia che il film vende in modo illecito, il suggerimento che l’unicità sia la via per fare soldi e che possa ottenere un premio e strappare un riconoscimento da un’economia che per sua stessa natura bistratta l’unicità ogni giorno. In ultima analisi tuttavia, come potrebbe sottolineare Jacques Rancière, quella che fa della storia di Jamal non soltanto una favola sull’unicità ma anche un racconto di democrazia è la sua dipendenza dalla fortuna. Non per tutte le risposte che il protagonista fornisce c’è un riferimento biografico: un paio di queste, inclusa quella finale, sono salti nel buio, momenti in cui Jamal sfida la sorte. Secondo Jacques Rancière, una così totale casualità è fondamentale per una democrazia in cui il popolo «non ha titoli individuali per governare. È la pura somma


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di “fortuna” che arriva per revocare ogni idea di legittima dominazione», motivo per cui ci è stato detto che alcune persone sono fatte per governare, altre per essere governate6. Rancière ritiene che il popolo debba affrancarsi da quei valori che si distaccano dal merito. In altre parole la democrazia deve includere la critica di Rawls al merito ma deve fare questo non a vantaggio di un sostituto migliore, come ad esempio la ragionevolezza, ma piuttosto di quella casualità che egli rifiuta. Jamal è totalmente immeritevole. Il presentatore lo mette ripetutamente al suo posto, sottolineando che sebbene lavori in un call center non è nemmeno un centralinista ma soltanto il ragazzo del tè che rifocilla gli operatori telefonici che si occupano del mercato occidentale. Il pubblico nello studio televisivo ride, ma coloro che guardano il film ne sanno di più. Jamal è ancora meno meritevole, un’incognita più di quanto non suggeriscano la sua camicia nuova di zecca e il lavoro al call center. Lo abbiamo visto misero, povero, picchiato e coperto di merda. In questo modo scopriamo anche qualcos’altro: egli è un ragazzo, come l’Antigone lacaniana, che non rinuncia al desiderio. All’inizio del film assistiamo alle gesta di Jamal bambino, quando viene chiuso dal fratello maggiore dentro ad una latrina, reo di averci passato troppo tempo. Il fratello si precipita a vedere Amitabh Bachchan, la star di Bollywood di passaggio nella zona. Anche Jamal vorrebbe vederlo e quando si ritrova chiuso nella latrina, senza la possibilità di incontrare il suo idolo, fa l’impensabile: si getta nella buca sottostante, esce da sotto alla latrina e si intrufola in mezzo alla folla radunatasi coperto di merda, con il braccio teso per avere l’autografo, che riesce a ottenere. Il fatto che Jamal, o qualsiasi altro ragazzo coperto di merda, possa crescere fino a diventare un milionario è la storia legittimata così come viene venduta dal capitalismo globale. Che egli possa conquistare la ragazza dei sui sogni e vivere con lei felice e contento è la storia romantica asservita allo stesso ordine economico che distrae il desiderio dalla sua perenne insoddisfazione e cerca di ricondurlo a forme più accettabili. Ma il film va oltre

anche in chiusura, quando l’esuberante danza di gruppo da “lieto fine” sembra accentuare la sua stessa artificiosità. Forse aspira a ricoprire di incredulità e artificio il romantico lieto fine di qualche secondo prima, impacchettato come realistico ad uso e consumo della soddisfazione degli spettatori. Se ciò dovesse essere vero, trasmetterebbe un certo tipo di informazione post moderna circa il grado di finzione della sua stessa storia. O forse, ma si tratta soltanto di un’ipotesi, c’è qualcos’altro. È uno sguardo rivolto alla natura del desiderio, al suo essere anarchico e privo di ragionevolezza. A vantaggio di questo tipo di lettura possiamo rievocare l’orribile scena iniziale del film, in cui vediamo il corpo di Jamal accasciato e contorto per il dolore mentre viene interrogato dalla polizia. La sequenza finale è speculare alla scena iniziale: il corpo di Jamal prima torturato qui si abbandona al piacere del ballo. La scena della danza, che dovrebbe essere la celebrazione del finale romantico (il ragazzo ha conquistato la ragazza) non è in effetti un ballo di coppia ma una brulicante danza di gruppo. Il tempo cronologico viene anch’esso rimescolato: gli attori che interpretano i tre ruoli principali nei tre differenti periodi della loro vita sono presenti sulla scena allo stesso momento. Il piacere manifestato da Jamal in questa scena è l’espressione del suo amore per Latika? Non sembra diretto a lei. È forse un riconoscimento come, in termini lacaniani, come non sia lei il vero oggetto del (suo) desiderio? Il piacere di Jamal si esplica nel movimento del corpo, nel ballo. Rispecchia quindi la favola del capitalismo globale, che pretende di essere in grado di soddisfare le nostre esigenze ma in realtà aspira a orientarci solo verso le esigenze che esso – il capitalismo – riesce a soddisfare. Ma tali esigenze hanno un risvolto inaspettato: il Desiderio – un piacere assoluto, indescrivibile, dis-economico, incarnato, materiale e ingovernabile. Lo percepiamo, lo troviamo nel ballo, non nella formazione della coppia, che è stata canonizzata e normalizzata, ma piuttosto nell’unicità dell’umano (apprezzata da Rawls) e nella brulicante danza democratica (apprezzata da Rancière).

Participation and the Desire for Democracy in Slumdog Millionaire In a recent book, Todd May distinguishes between active and passive equality and captures something important to democratic politics: that it matters how distributions are made or taken, not just whether they are in the end equal or whether their inequality is justified, as John Rawls requires. By contrast with Rawls, who offers only the “passive equality” of distributive justice, Jacques Rancière theorizes an “active equality” in which equality is an activity, something taken, enacted, performed, not accepted or received passively1. But May’s useful distinction also occludes something: there is in Rawls’ early project of justice a commitment to a more radical equality. It appears when Rawls rejects any and all arguments for intrinsic inequality. For Rawls, no political order regardless of how it grounds its distributions can legitimate any departure from absolute equality by appealing to deservingness. Any appeal to a supposedly deserving basis for unequal distribution is grounded in nothing other than contingency. If some are smarter than others, that is because the former are winners in what we would now call the genetic lottery or because contingently they happened to have been raised in households that value intelligence over, say, athleticism, or earnestness over cool underachievement. Any trait-based or even effort-based argument that renders unequal distributions deserved turns out, when its surface is scratched, to fall irretrievably into a spiral of contingency. In the critique of desert as a basis for distribution, Rawls’ own desire, a desire for absolute equality, finds expression.2 But that desire for equality is not a desire for democracy and so it is both instanced and betrayed in Rawls’ liberal theory, in which equality is not taken but distributed and departures from equality are accepted as long as they are justifiable. The travails of the desire for democracy are illustrated in a recent film, Slumdog Millionaire, which looks at what happens when the American dream of social mobility is imported to India. The world’s largest democracy is riven by class and caste, so when a young survivor of anti-


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muslim riots who grew up unparented as a Mumbai slumdog finds himself in a position to win millions of rupees on a new game show, the nation takes an interest. Most members of the national underclass identify with the hero and root for him but the police suspect him of fraud. The conceit of the film is that the hero, Jamal, in order to show his police interrogators how he knows the answers to the show’s arcane questions, must tell his life story. As the story unfolds, its striking singularity becomes apparent. While the film presents by way of gorgeous cinematography the teeming massness of Indian humanity, divided by class and religion but lived up close and inseparably, it at the same time also presents a portrait of the unutterable singularity of a life, but also each and every life, lived in its midst. The film touts the rewards of global capitalism, it offers clean jobs and fast track rewards, contrasting it with the dirt of India’s local slums and the corrupt traffic in persons conducted by native ganglords and other criminals. In the film, Indian exploitation of other Indians is local and cartoonish. A seemingly benevolent adopter of street children sends them out to beg and collects their “earnings”. He trains them to sing so as to earn yet more. He may consign them to beggars’ lives, but still he seems too good to be true. He is. Under cover of night, he blinds the ones who are the best singers because blind singers make the most money of all. This 21st century Dickensianism is horrific but unlike Dickens, the film is all Fagin3 and no workhouse. The exploitations and violences of global capitalism go unrecorded in this film. The horrific blinding of children for a profit is depicted. But the amputations and lacerations suffered in global capitalism’s factories and workplaces do not appear here. The face of global capitalism in this film is the starched white shirt worn by the film’s hero when he works in a call center. Its face is the upward mobility enjoyed by the game show host with whom the hero, Jamal, must go mano a mano. In the film, the central conflicts are between those who succeed in finding a handhold in the massive global capital jungle– gym, paradoxically at its weakest, least supportable moment right now, and those who will be sacrificed by it and go down.

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Jamal manages to survive the violence of Indian profiteering and the lures of global capitalism with his body and soul intact. He is helped by the heroic efforts of his older brother who saves him repeatedly, and by the fact that he is not motivated by money. He, who as a child witnessed his mother’s murder, impotent to save her, and then later failed also to save a childhood friend, Latika, from violent captors, is not interested in social mobility. In the end, the real romance of the film is not that between the two lovers, but its depiction of singularity rewarded, however inadvertently, by that sausage-making representative of capitalist (dis)order, mass society, and social mobility: the modern game show. If there is a miracle here in his game show success, it is not that Jamal knows the things he knows – each answer is accounted for by yet another breathtaking scenario from his violent and adventurous youth – but rather that the game show has managed

The exploitations and violences of global capitalism go unrecorded in this film to put together a list of questions that happens to map onto this boy’s life’s total singularity. Normally such singularity is seen perceptively only by a mother: as Adriana Cavarero notes, even the monstrous Medea knew the sons she killed by name and «loved them in their unrepeatable singularity». 4 But here the mass entertainment industry takes the mother’s place. Now that is the real fantasy that the film illicitly sells, the suggestion that singularity is a money-making trait, that it can find its reward and wrest recognition from an economy that by its nature betrays singularity daily. In the end, though, as Jacques Rancière might point out, what makes Jamal’s story not just a fable of singularity but also a tale of democracy is its dependence on chance. For not quite every one of the protagonist’s game show answers is accounted for biographically. One or two answers, including the very last, are shots in the virtual dark, moments when Jamal takes his chances. For Jacques Rancière, such utter contingency is fundamental to democracy in which the demos has «no individual title to govern.

1 — May, The Political Thought of Jacques Rancière: Creating Equality. Quando nel 1992-93 pubblicai una critica di Rawls (in Rawls on Politics and Punishment, 1992, PRQ e in Political Theory and the Displacement of Politics, capitolo 5, 1993), ancora non conoscevo l’analogo lavoro di Rancière, in cui si distingueva tra approccio democratico e approccio liberale alla giustizia, che presumevano un modello di cittadinanza attivo e consumistico. 2 — Nella versione originale è “desert” , termine che designa la condizione di meritare qualcosa, sia essa buona o cattiva (n.d.r.) 3 — Di fatto Rawls, nato e cresciuto nel Maryland, una volta mi disse durante una cena che la motivazione a scrivere Una teoria della Giustizia derivava dal desiderio di combattere il razzismo nel sud degli Stati Uniti, argomento mai menzionato nel libro. 4 — Fagin è un personaggio che troviamo in Oliver Twist di Charles Dickens (n.d.r.) 5 — Horrorism, Columbia University Press, 2008. 6 — Jacques Rancière, “Literature, Politics, Aesthetics: Approaches to Democratic Disagreement” intervistato da Solange Guénoun e James H. Kavanagh SubStance # 92, 2000, p. 19.


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Partecipazione: per chi? Participation: for whom? a cura di Luigi Fassi

It is the pure addition of ‘chance’ that comes to revoke all ideas of “legitimate domination» by way of which we are told only some people are able to govern and others must be governed5. For Rancière, the demos must break the tables of value whereby deservingness is ladled out. In other words, democracy needs to take on board Rawls’ critique of desert but to do so not on behalf of a better grounded substitute – like reasonableness – but rather on behalf of precisely the contingency he rejects. Jamal is thoroughly undeserving. The host of the game show repeatedly puts him in his place, pointing out that Jamal who works in a call center is not even a call-taker but only a tea server who caters to the outsourced servers of the West’s dependent consumers. The television show’s live audience laughs. But the film’s audience knows better. Jamal is even less deserving, even more a wild card than his crisp white shirt and call center job suggest. We have seen him abject, poor, beaten, and covered in shit. That is how we know something else too: this is a boy who, like Lacan’s Antigone, will not give up on his desire. Early in the film, we saw what Jamal does as a boy when, because he takes too long in an outhouse, his older brother locks him in. His brother is in a rush to see Bollywood superstar, Amitabh Bachchan, who turns up in their neighborhood. Jamal wants to see him too. When he finds he is locked in the outhouse and cannot get to his idol, Jamal does the unthinkable: he drops into the pit below, climbs out from beneath the outhouse, and turns up in the gathering crowd of admirers covered in shit, his arm outstretched for the autograph he does indeed win. That this (or any) shit-child can grow up to become a millionaire is the legitimating story sold by global capitalism.

That he can get the girl and live happily ever after is a romantic story that serves the same economic order when it distracts desire from its inherent dissatisfactions, and seeks to shape it into compliant forms. But the film points beyond even that when it closes with an overperformed “happy-ending” ensemble dance that seems to highlight its own artifice. Perhaps its aim is to rewrap in incredulity and artifice the happy ending romance it had seconds before packaged as realism for the viewers’ satisfied consumption. If so, it broadcasts a certain postmodern knowingness about the fictiveness of its own story. Or possibly, just possibly, it does something else. Perhaps it offers a peek at desire, which is anarchic and makes no sense. On behalf of such a reading, we do well to recall the film’s horrifying opening sequence, in which we see Jamal’s body by turns limp and contorted in pain as he is tortured by the police who interrogate him. The film’s final sequence is that opening scene’s double: here Jamal’s once tortured body is released into the pleasure of dance. Notably, the dance scene, which might be expected to celebrate the romance’s resolution (boy has now got the girl), is not in fact a couple dance but a teeming group formation. Time is teemed as well: the actors who played the central characters in three different life stages are all present in the dance at once. Is the pleasure exhibited by Jamal in this final sequence an expression of love for Latika? But it is hardly directed at her. Is there acknowledgment here that, in Lacanian terms, she is not (his) desire’s true object? Instead, his pleasure shows in his body’s movement, in the dance. This, then, is the mirror of the film’s global capital fable, which claims to be able to satisfy our wants but really aims to train us to be oriented to wants that it can satisfy. But want has its double: Desire – sheer, unutterable, aneconomic, embodied, material, ungovernable pleasure. We sense it, we find it, in the dance: not in the couple form as it has been commodified and normalized but rather in the singularity of the human (prized by Rawls) and its teeming democratic situation (prized by Rancière).

1 — May, The Political Thought of Jacques Ranciere: Creating Equality. I did not know Ranciere’s work in 1992 and 93 when I published similar critiques of Rawls (in Rawls on Politics and Punishment, 1992, PRQ and in Political Theory and the Displacement of Politics, chapter 5, 1993), distinguishing between democratic and liberal approaches to justice, each postulating active or consumer styles of citizenship. 2 — Indeed, Rawls, born and raised in Maryland, once told me in a dinner conversation that his motivation in writing A Theory of Justice was to reject the racism of the South, a topic never mentioned in his book. 3 — Fagin is a character who appears in Charles Dickens novel Oliver Twist (n.d.r.) 4 — Horrorism, Columbia University Press, 2008. 5 — Jacques Rancière, “Literature, Politics, Aesthetics: Approaches to Democratic Disagreement” interviewed by Solange Guénoun and James H. Kavanagh SubStance # 92, 2000, p. 19.


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un’altra forma di vita sociale

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Il conflitto è al centro dei tre film della trilogia, nella quale diversi gruppi sociali cercano di affermare il loro diritto a essere parte di una società autenticamente democratica. Il conflitto sembra essere lo strumento principale nelle loro mani per contrastare e avversare l’autoritarismo della classe dirigente. Cosa pensate della conflittualità in ambito politico e sociale? Vi sentite vicini alla formulazione teorica di democrazia agonistica?

Intervista di Luigi Fassi a Dmitry Vilensky foto Chto Delat? +

Avete appena terminato una trilogia di film articolata nei suoi capitoli Perestroika Songspiel, Partisan Songspiel, e Tower Songspiel. Le tre opere sono focalizzate su un’analisi critica della società russa dal principio degli anni Novanta a oggi e DElla riorganizzazione politica e civile a Belgrado in Serbia. La trilogia apre nel suo complesso un orizzonte di consapevolezza storica, attaccando l’ideologia repressiva che si cela dietro le politiche pubbliche e il modo in cui sono implementate. Come si è originato il lavoro e come avete cominciato a lavorarci? Chto Delat? mette in scena da tre anni quelli che noi chiamiamo “Songspiels”. Abbiamo iniziato a utilizzare questo termine per descrivere un tipo particolare di musical politico dove si presenta al pubblico un gruppo di personaggi collocati in una specifica situazione storica, con un coro che fa da commento alle loro posizioni e ai loro comportamenti. È una forma teatrale che risale all’antica tragedia greca oltre che un’evoluzione del metodo di estraniamento brechtiano che, attraverso le canzoni e un dialogo sovversivo rivela i vari rapporti di potere. Vogliamo mostrare come le relazioni sociali e politiche siano costruzioni temporanee e modificabili. Inoltre imitiamo le opere amatoriali di apprendimento in cui il dialogo implementa direttamente il “pensiero volgare” (Plumpes Denken, anch’esso

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sviluppato da Brecht) che dà la possibilità allo spettatore di mettere in continua discussione lo stato delle cose, evitando l’eccessiva identificazione con i personaggi. Nei Songspiels Perestroika e Partisans abbiamo rappresentato il coro in maniera realistica come voce collettiva di un’opinione pubblica ben radicata (il coro commenta la situazione dal passato o dal futuro). Mentre nel nuovo Songspiel The Tower non era possibile rappresentare la voce collettiva della società e inevitabilmente il coro è stato suddiviso in varie voci contrastanti. Tutti i nostri Songspiels rappresentano il tentativo di creare una nuova forma di tragedia contemporanea dove le persone (gli spettatori) reclamano l’unione delle forze per combattere il collasso della società civile.

Non so se la gente stia cercando “la via per una società democratica”. Nessuno sa veramente che cosa sia una società democratica. Nemmeno Toni Negri! Solitamente la gente si batte per una vita migliore, il che mi sembra legittimo. Inoltre abbiamo tutti il diritto biologico di attaccare l’autorità quando la vita diventa insopportabile. I conflitti non sono uno strumento, ma sono una conseguenza inevitabile in un contesto capitalista di esclusione e accumulazione per espropriazione. L’idea di agonismo è buona ma purtroppo è limitata, perché sembra rappresentare solo una situazione di scontro tra gruppi, che però condividono qualcosa in comune e dunque non esacerbano i contrasti. Credo che il concetto di agonismo non sia altro che una variazione all’interno


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partecipazione: per chi? participation: for whom? - a cura di luigi fassi

del medesimo sistema manageriale di governamentalità, che a certi livelli legittima tutto l’insieme di valori liberali. Tuttavia, in questo momento ci sono troppi conflitti non riconducibili a una semplice realtà di “amici-nemici”. I veri conflitti purtroppo assomigliano sempre più alla lotta contro il fascismo o contro i nazionalismi esasperati. Il che è triste. Preferirei una lotta agonistica... Il vostro lavoro sembra indicare la necessità di superare i limiti delle strategie partecipatorie privilegiando un impegno proattivo dell’individuo. A tal proposito cosa ritenete sia utile preservare e dismettere del dibattito sulla partecipazione dagli anni Novanta in poi? Oggi lanciare appelli per una vera partecipazione democratica è effettivamente sempre più problematico, ma questo non è certo un buon motivo per lasciare quest’idea nelle mani di populisti che assecondano i sentimenti umani più volgari e meschini, come il desiderio di possedere o di perseguire esclusivamente i propri interessi e piaceri. Mi sembra che l’arte e i media abbiano chiaramente il potere (seppur limitato) di far conoscere alla gente le condizioni in cui si trova, per far riflettere e stimolare così un processo di trasformazione che renda il consumatore passivo un individuo libero in grado di pensare e di amare. La cosa importante è che non si tratta di una condizione privilegiata o indipendente dall’individuo: essa deriva direttamente da una solida vocazione umana che, per quanto storpiata dallo sfruttamento capitalistico e dall’alienazione, non potrà mai scomparire del tutto. È una caratteristica ereditaria dell’essere umano a cui tutti potremo sempre ricorrere, per ispirare i cuori e addestrare le menti. Nella situazione odierna direi che la lotta politica rientra, come prima, nella categoria della lotta per l’egemonia di determinate idee all’interno della società. Non penso che sia il caso di seguire le ricette dei populisti e appellarsi al fatto che la gente vorrebbe partecipare, perchè oggi ci imbattiamo in una coscienza umana limitata, educata da decenni di propaganda al feticismo delle merci e al nazionalismo, con tutte le pretese e le brame che è logico aspettarsi. Tuttavia forse ha

senso provare a lottare per diffondere nella società altre idee, educare gli individui… Dalle vostre opere sembra emergere una valutazione positiva della nozione di moltitudine e delle sue implicazioni politiche. È così? Come molti altri umili pensatori, cerco di problematizzare i cambiamenti nell’attuale suddivisione in classi. Tempo fa c’è stato un momento in cui il concetto di moltitudine come concetto di classe sembrava essere la risposta più entusiasmante e stimolante. Molte persone (incluso il sottoscritto) si riconoscevano nella moltitudine (specialmente nella definizione data da Paolo Virno) ma quel momento ormai è superato e io non saprei come poterlo rinnovare. Al momento non ci sono nuove idee paragonabili a quella su come poter ristrutturare il concetto di classe. È quindi importante continuare a formulare ipotesi e lavorare criticamente sul concetto di moltitudine. Perché non sta funzionando? Perestroika Songspiel inizia con un coro che ricorda il tempo della Perestroika in Russia cantando: “Siamo qui per raccontare la storia di speranze che non si sono realizzate e di promesse non mantenute”. È un commento duro e doloroso sul fallimento in Russia di politiche incentrate sul consenso e la partecipazione, finite per trasformarsi in populismo e conservatorismo. Ci sono aspetti della Perestroika che ritenete siano ancora potenzialmente interessanti? Credo che questa rischi di diventare un’interpretazione non corretta, la perestrojka non è stata infatti caratterizzata da politiche dettate dal consenso, quanto piuttosto il contrario. È stato un momento di mobilitazione popolare e di esasperazione sociale, ma anche di entusiasmo liberatorio, in cui tutti gli aspetti della politica e della vita quotidiana si sono manifestati come ugualmente urgenti e visibili. Come intendete articolare ulteriormente il ruolo critico del

vostro lavoro artistico? Avete mai percepito ciò che Theodor Marcuse chiamava tolleranza repressiva, il rischio che il valore critico della vostra voce possa diluirsi e dissolversi all’interno della logica del sistema dell’arte? Per evitare che ciò accada ciascuno deve mantenere la propria logica e i propri obiettivi personali. Per il resto spero che ci sia ancora la possibilità di sopravvivere. Perché il nostro compito non è quello di raggiungere la perfezione nella criticità ma piuttosto nell’affermazione di altre forme di vita sociale futura.

ANOTHER FORM OF SOCIAL LIFE Interview with Chto Delat? You have just finished your trilogy in its different film – chapters – Perestroika Songspiel, Partisan Songspiel, and Tower Songspiel. They are respectively focused on a harsh critique of Russian society from the early 1990s to the present, and on current public politics in Belgrade, Serbia. The work draws a prospect of historical consciousness, by questioning the repressive ideology behind public politics and the way they are implemented. How was it conceived and how did you work on it? Chto Delat? has been working with the form we call “Songspiels” for the last three years. We started to use this term to describe a special form of political musical, where the audience is introduced to a group of characters acting in a particular historical situation and to a chorus that comments on their position and behavior. This particular form and method refers to Greek tragedy and is also a specific development of the Brechtian method of estrangement, which reveals relations of power through songs and subversive dialogue. We want to show how social and political relations are just temporary, and thus changeable, constructions. We also imitate amateurish learning plays, where the speech act is a direct


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implementation of “crude thought” (Plumpes Denken, also developed by Brecht) that allows the audience to permanently question the way things are and avoid over-identification with any one character. In the Songspiels Perestroika and Partisans, we found a way to realistically portray the chorus as the unified voice of a well-consolidated public opinion (the chorus reflects the situation from the past or the future). On the contrary, in our new Songspiel, The Tower, we found that we could not depict the unified voice of society, and so the chorus inevitably split into different, confrontational voices. All our Songspiels are attempts to create a new form of contemporary tragedy where people (the public) call for consolidation in order to combat the collapse of society. Conflict is at the core of the three films in your trilogy, in which diverse social groups are engaged in seeking a way to affirm their right to be part of a real democratic society. Conflict seems to be the main tool in their hands to oppose the authoritarianism of the ruling class. How do you understand conflict in the social and political realm? Do you advocate the notion of agonistic democracy? I am not sure that people are “seeking a way to a real democratic society”. In fact, nobody really knows what that is. Not even Toni Negri! People are usually fighting for a better life, and this is fair enough. Also, they have the biological right to smash the authority when life becomes unbearable. Conflicts are not tools; they are an inescapable situation under capitalist condition of exclusion and accumulation by dispossession. The idea of agonism sounds good, but unfortunately it’s limited, as it depicts a more or less nice situation with a quarrel happening between groups who have something in common. I think that this concept appeared as a sort of different level of managerial system of governmentality, which at certain new levels legitimises all set of liberal values. However, right now there are too many conflicts that cannot be reduced to a situation of “friendsenemy”. The real conflicts are unfortunately becoming more and more similar to the fight against fascism or ultra nationalism. That is

sad. I would prefer agonistic struggle… You seem to point to the necessity to oppose the shortcomings of participatory strategies by moving toward a pro-active engagement of the individual. In this regard, what do you think could be retained and what dismissed from the debate on participation which has been going on in the art realm from the 1990s onwards? Today, it is actually more problematic to call for a real democratic participation; however this is not a good reason to leave it in the hands of the populists, who follow only man’s vile and earthy attitude to possess, to pursue personal fulfilment, etc. I think art and the media have the undoubted (albeit limited) power to let people know about their condition, and to make them think about it, thus triggering a transformation process that can turn passive consumers into free individuals capable of thinking and loving. Most importantly, this is not a privileged position external to the individual; it actually derives from an indestructible human inclination that will never disappear, no matter how alienation and capitalistic exploitation may distort it. It will remain an inherited trait for all human beings and we will always have the chance to use it, to inspire the heart, to train the mind. In the current situation, I’d say that the political struggle is part of the larger struggle for the hegemony of certain ideas within our society. I don’t think we need to use the populists’ recipes and appeal to the fact that people would like to participate. This would be good of course, but we are facing a limited human consciousness right now, for people have been trained by decades of nationalistic and consumerist propaganda with all the greed that this entails, and the consequent demands. Yet, perhaps it might still be worth fighting to spread other ideas within our society, and to educate the people… In your works you seem to endorse a potentially positive value of the notion of multitude and its political implications. Is that so? I, as many other humble thinkers do, am trying to problematize the changes in class

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composition today. Some time ago, there was a moment when the concept of multitude as a class concept seemed to be an exciting and challenging answer. Because many people (myself included) could recognise themselves as part of the multitude (particular in Paolo Virno version), but this moment is now gone and I do not know how it should be developed. At the moment we do not have any other comparable idea on how to restructure class. So I think it is still important to speculate and criticize the concept of multitude. Why is it not working? Perestroika Songspiel starts with a choir recounting the time of Perestroika in Russia by singing: “We’ve come to tell the story of hopes that didn’t come true, of promises that weren’t made good”. It is a harsh and sad commentary on the failure of consensus-driven politics and participatory strategies in Russia, which ultimately turned into populism and conservatism. Do you reckon there are any aspects from the Perestroika time that might be potentially interesting to preserve? I think this is a misinterpretation – the Perestroika moment was actually not a moment of consensus-driven politics – It was quite the opposite. It was a time of popular mobilisation and rage. The most exciting part was when all elements of politics and everyday life became open. How do you want to further articulate the critical role of your art? Do you ever perceive the risk of what Theodor Marcuse used to call repressive tolerance, i.e. dissolving the criticality of your voice by becoming absorbed by the logic of the art system? To escape this situation we must have our personal logic as well as goals of our own. Then I hope there is still a chance to survive: because our task is not to execute perfection in the notorious criticality, but rather in the affirmation of other forms of life to come.


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COSA rimane oggi allo spettatore dei musei, smarrito tra eventi effimeri, mostre improbabili e isterismi artistici da show business? Un breve viaggio ironico nel mondo dell’arte e dei musei in Italia e all’estero di Luca Scarlini | foto di Gianluca Platania

Gli eventi accadono spietatamente, secondo un calendario che sempre più sembra voler assumere in sé il ruolo di principale forma d’arte da vedere, da considerare: dopotutto postconcettualismo e public relation sono spesso specchio uno dell’altra. Niente basta più per fare notizia, soprattutto per bucare l’attenzione dei media generalisti, che non hanno molta passione per questo mondo. Dalle pornostar scolpite, alla sculture di sangue, alle architetture sbilenche, alle spogliarelliste con il burqa le abbiamo

ormai viste tutte e l’epoca neobarocca in cui viviamo ama la delectatio morosa di sempre nuove meraviglie, costi quel che costi. La manifestazione, nella sua veste di inaugurazione, vernissage, finissage è fruita come festa, come mondanità certo, ma anche nel significato di avvenimento possibilmente felice. Non si contano più i dj, gli spettacoli, i cantanti, le ballerine che compaiono alla prima volta di una nuova collezione di opere, in specie di un autore contemporaneo, come se fosse sempre necessario creare dei diversivi,


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i musei stranieri più visitati nel 2009

National Gallery - Londra Metropolitan Museum - New York British Museum - Londra Tate Modern - Londra

fonte Il Giornale dell’Arte

Museo del Louvre - Parigi

National Gallery of Art - Washington Centre Pompidou - Parigi Museo d’Orsay - Parigi Museo del Prado - Madrid Museo Nazionale di Tokyo - Tokyo

Un tempo le mostre erano epocali oggi ce ne sono talmente tante, che spesso, a meno di non essere degli addetti ai lavori è difficile anche tenerne solo il conto. ammansire la tensione del giudizio. Questa accezione di intrattenimento si trova nel significato stesso di festival, come Richard Wagner ha spiegato una volta per tutte alla fine dell’Ottocento con il teatro-tempio di Bayreuth, dove le persone dovevano recarsi in spirito religioso per godere delle rivelazioni estetiche di lavori che, come Parsifal, erano in origine pensati per una rappresentazione esclusiva in quel luogo. Prima delle esecuzioni, degli araldi, con costumi adeguatamente neomedievali, si presentano, oggi come un tempo, per suonare i principali leitmotiven e chiamare a raccolta prima dell’evento. Un’intera generazione di artisti e scrittori trasse ispirazione da quell’idea, sognando spazi di comunione mistica con le forme dell’espressione estetica. Ovviamente oggi il numero dei fruitori è moltiplicato per migliaia di unità, se non milioni e quindi, anche se tutti, contro ogni probabilità, diffondono illusioni di esclusività, quello che conta è la qualità rutilante del momento, che specialmente eccita le autorità, disponibili a qualunque salto mortale, pur di comparire nel Book, per potere sorridere rilassati nella foto accanto al protagonista dell’esposizione o in

solitaria. Un tempo le mostre erano epocali, segnavano lo spartiacque della ricezione, ora sono epidermiche. Ce ne sono talmente tante, che spesso, a meno di non essere degli addetti ai lavori, è difficile anche tenerne solo il conto, ancora più complesso fruirne, se le cose si trovano in luoghi meno immediatamente frequentabili, lontani dalle grandi città. I centenari ormai determinano una crescita espositiva per spore, con il vento che capricciosamente dissemina. Per seguire un esempio recente, si sono contate centotrentadue esposizioni sul Futurismo, sfruttando spesso connessioni con la materia tanto vaghe quanto improbabili. Le esposizioni attirano decisamente più dei musei, che languono, spesso, e non solo in Italia, nella disattenzione, quando non sono ormai decisamente votati al disastro o all’estinzione. All’ingresso del Museo Civico di Bassano una custode accoglie il pubblico nella tenebra più oscura e dice con lentezza, scandendo: “Vado ad accendere la luce”, che infine illumina i meravigliosi bozzetti di Canova. A Oderzo, il paesaggio trevigiano accoglie la collezione di gotiche meraviglie di Alberto Martini, maestro

del macabro, che in tempo di Twilight potrebbe suscitare qualche interesse anche in un pubblico non specializzato, se si puntasse a una qualsiasi divulgazione. Volendo continuare in questo possibile elenco, la casa museo Mario Praz a Roma latita anch’essa, negandosi al visitatore. Tre momenti casuali, senza nessuna volontà o voluttà modellistica, tratti da itinerari dell’estate 2010, ma il gioco vale anche fuori dal Bel Paese e dalle Amate Sponde. Ci piace insomma sottostare alla dittatura dell’evento: ci dà un brivido vedere l’artista o il curatore, che a seconda del carattere, si vende benissimo al migliore offerente, fishes for compliments, o invece si nasconde, secondo quello stile Greta Garbo, che senz’altro ripaga allo stesso modo sulla lunga distanza, creando quello che serve per stabilire una propria identità: il personaggio. La collezione è statica, l’esposizione dinamica; mentre sullo sfondo si agita il fantasma dell’Expo Milanese del 2015, che dovrebbe trasformare una intera città per un anno in una isterica festa mobile, tornano alla mente le parole di Giorgio De Chirico nelle Memorie della mia vita, per cui il pittore chiedeva nei musei una maggiore qualità della visione, non sottostando alle ultime seduzioni della moda, ma disegnando uno standard della possibilità di fruire le opere. Ma ormai è tardi, il finissage del vernissage è vicino e urge correre a vendere il nuovo-vecchio personaggio e le sue eterne-recentissime opere.


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Some time ago, exhibitions used to be epoch making events, today there are so many of them that unless you are a professional it is quite hard to keep track. Calendar of events, or visual sonatinas Events take place relentlessly as they follow a calendar, which seems to be playing the role of major art form, wanting to be seen and considered itself first: after all, postconceptualism and public relations often mirror one another. Nothing seems to be newsworthy enough anymore; nothing seems capable of breaking through the generalist media, who have never been too fond of this world anyway. From sculpted porn star to blood sculptures, from lopsided architecture to burqa strippers: we’ve seen it all in our New-Baroque era that so loves this “delectatio morosa” of ever new wonders at all costs. Performance, taking on the guise of inauguration – be it vernissage or finissage – is now experienced as a party: it is certainly a mundane event, but it is also considered a possibly happy event. Countless dee-jays, shows, singers, and dancers star at the opening of a new collection of works, particularly when contemporary artists are involved, as if distractions were the ultimate necessity, perhaps to appease the tension of judgment that accompanies every inauguration. This sense of entertainment resides in the term “festival” itself, whose meaning was explained once and for all at the end of the 19th Century by Richard Wagner, with his Bayreuth temple-theatre drawing thousands of people who, with religious zest, enjoyed the aesthetic revelations of works – such as Parsifal – specifically conceived for that particular stage. Today, just like in the past, heralds make their appearance before the performance, wearing their medieval costumes and playing the main leitmotiven to gather the audience before the event. An entire generation of artists and writers dreaming of spaces of mystic communion with aesthetic forms was inspired by this

idea. It’s a fact that the number of art-users has increased tremendously by thousands, if not millions. And even if everyone, promotes against all odds the illusion of exclusiveness, what really matters now is the sparkle of the moment; a moment that particularly electrifies the authorities, who are willing to fall over backwards to feature in the Book, just to have their happy smile photographed, whether or not in the company of the artist. Some time ago, exhibitions used to be epoch making events; they were the critical point of acceptance, and now they are just another moment of appearance. There are so many of them that unless you are a professional it is quite hard to keep track, and just as difficult to enjoy them, especially when they are held in some remote venue, far from the big cities. Centennials have determined the growth of exhibits by spores, with a whimsical wind scattering them all over. In this regard we’ve counted one hundred and thirty-two exhibitions on Futurism, with many of them claiming some vague and all the same improbable relation to the subject-matter. Yet, temporary exhibitions seem to be inevitably more appealing than museums, which are often left languishing in carelessness, when not totally and inevitably fated to ruin or extinction. For instance, when entering the Museo Civico in Bassano a warden accompanies visitors into a pitchblack room while uttering “Let me just turn the lights on”, so that the wonderful sketches by Canova hidden in there can be viewed. At Oderzo, the Trevisian landscape hosts the collection of some marvellous Goth works

by master of macabre Alberto Martini that, in the times of the Twilight phenomenon, would be likely to attract a much broader public, had they just received a minimum of publicity. Finally, despite being under the aegis of Rome’s National Gallery of Modern Art, the Manzù Museum in Ardea seems to be missing in action. These are just four randomly selected examples, taken from our summer art itineraries for 2010: they should not to be held as a model, but the same seems to be happening outside our Bel Paese. We like to submit to the dictatorship of the event: we get a thrill from seeing the artist or the curator, who depending on their personality will either sell to the best bidder fishing for compliments, or hide in a perfect Greta Garbo style that in the long run undoubtedly and equally pays them back in setting up the basic element for their identity: the character. Collections are static, exhibits are dynamic. And ultimately, while on the backdrop of it all rises the ghost of the 2015 Milan Expo – the festival that will turn an entire city into a frenzied mobile feast – Giorgio De Chirico’s words come to mind: in Memorie della mia vita the painter asked museums to provide a better quality of vision without submitting to the latest fashion trends, but setting instead the standards for the best possible fruition of the artwork. Then again, it is too late now: we’re getting closer to the finissage of the vernissage and the imperative is to hurry and sell the new-old characters, and their everlasting-latest works.


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Mario Verdun di Cantogno Presidente dell’Associazione Amici della Fondazione Torino Musei

L’Associazione è stata costituita nel marzo 2007 per estendere a tutti i musei della Città di Torino l’attività della precedente associazione “Amici della Galleria d’Arte Moderna di Torino” nata nel 1999, con l’obiettivo di contribuire alla conoscenza ed alla valorizzazione del patrimonio storico ed artistico custodito nei Musei Civici: GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica, Borgo Medievale, MAO – Museo d’Arte Orientale. Per la realizzazione della propria mission e nell’intento di agire in favore di tutta la collettività, l’Associazione organizza visite guidate alle collezioni ed alle mostre temporanee dei musei civici e promuove incontri su temi di carattere culturale. Organizza inoltre viaggi di studio in Italia ed all’estero mirati ad approfondire, con il contributo di qualificati accompagnatori, la conoscenza delle più importanti istituzioni museali internazionali. L’Associazione si è anche impegnata nel sostegno ai programmi di salvaguardia e arricchimento delle collezioni dei Musei Civici ed ha voluto dare un forte segnale

di affezione al riaperto museo di Palazzo Madama. Ha percò interamente finanziato nel 2008-09 il restauro del dipinto del Rinascimento piemontese Lo Sbarco della Maddalena a Marsiglia (XVI sec.) di Defendente Ferrari, donato nel 1909 al Museo d’Arte Antica dal senatore Leone Fontana. Lo stato dell’opera era preoccupante soprattutto per il movimento della tavola di supporto che nel corso di precedenti restauri era stata dotata di un sistema di “pacchettatura” molto rigido. Questo sistema, impedendo il naturale movimento del legno, aveva provocato alcuni danni anche alla superficie pittorica. La tavola è ora dotata di un nuovo sistema a molle che garantirà una migliore conservazione futura. Sono stati inoltre restituiti i colori ed i dettagli del dipinto, oscurati da vecchie ridipinture e strati di sporco, ora nuovamente godibili nel loro splendore. Il tradizionale legame alle collezioni della Galleria d’Arte Moderna ha poi fornito l’occasione per una ulteriore forma di sostegno alla Fondazione Torino Musei attraverso il finanziamento del nuovo

contatti Via Magenta, 31 10128 Torino T +39 011 4429613 F +39 011 4429550 amici@fondazione torinomusei.it

Magazine d’arte della GAM. Gli Amici invitano coloro che ritengono l’arte un bene di inestimabile valore ad associarsi per garantire, con una più ampia azione di volontariato e di raccolta fondi, la continuità e lo sviluppo delle azioni da tempo intraprese nella valorizzazione e divulgazione dei musei della Città. –a sinistra

Lo Sbarco della Maddalena a Marsiglia di Defendente Ferrari

i vantaggi dell’adesione/membership benefits soci ordinari/ordinary MEMBERS

soci fondatori e benefattori/CHARTER MEMBERS

1

Invito alle inaugurazioni delle mostre. Invitation to exhibitions openings

1

2

Ingresso gratuito alle Collezioni e alle mostre che verranno allestite dalla Fondazione Torino Musei. Free admission to collections and exhibitions of the Fondazione Torino Musei

5

Due ingressi gratuiti. Two free admissions

6

Invito alle anteprime delle mostre. Invitation to exhibitions previews

7

Prelazione sulle prenotazioni dei viaggi organizzati. Pre emption on package tours booking

3

Possibilità di partecipare a visite guidate, conferenze e incontri con artisti e studiosi. Participation to free guided tours, conferences and meetings with artists and scholars

+

2

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3


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andata e ritorno marino marini e gilberto zorio

ANDATA/going to Marino Marini, Pugile 1934 a cura di Daniela Matteu Le opere della GAM in viaggio per il mondo e scelte per questo numero di MAG hanno una particolarità: Pugile di Marini, partita il 1 ottobre per New York, farà una seconda tappa a Bilbao, dove rimarrà fino a maggio 2011. Canoa di Zorio invece non viaggia sola: per la personale dedicata all’artista sono state scelte ben 3 opere delle nostre collezioni. Di ritorno in GAM quindi anche Stella di bronzo del ‘78 e Stella di cristallo del ‘77.

Solomon Guggenheim Museum

La mostra indaga l’arte che si sviluppa in Europa tra la I e II Guerra Mondiale, quando il “ritorno all’ordine” induce gli artisti a rifugiarsi nelle forme classiche. Anche il nostro Pugile documenta il tentativo di Marino Marini di analizzare l’arte antica e di evocare forme arcaiche pur mantenendo l’essenzialità moderna della forma.

New York

The exhibition concerns European Art developing between World War I and II, when the “call to order” urged artists to refuge in classic forms. Even our Pugile documents the attempt by Marino Marini to analyze ancient art and evoke archaist forms whilst maintaining a modern and essential shape.

Exhibition Chaos and Classicism: Art in France, Italy, and Germany, 1918 -1936

dal / al Aprile April

1th maggio may

giugno june

luglio july

agosto august

settembre september

— 2010 —

ottobre october

9th novembre november

dicembre december

gennaio january

febbraio february

— 2011 —

marzo march


R

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RITORNO/coming back Gilberto Zorio, Canoa 1987

GAM artworks travelling around the world and chosen for this issue have a peculiarity: Pugile by Marini, leaving on the 1st of October for New York, will have a second stop in Bilbao, where it will stay until May 2011. Canoa by Zorio, instead, does not travel alone: the solo-show dedicated to the artist took three artworks from the museum collections. Also Stella di Bronzo and Stella di cristallo are coming back to GAM.

Il Centro Galego de Arte Contemporanea, insieme al MAMbo di Bologna, ha dedicato una grande antologica a uno dei maestri del’Arte Povera, riunendo per le prima volta i lavori che includono tutta la carriera di Gilberto Zorio, dal 1966 al 2009. La mostra mette in evidenza l’interesse dell’artista per i processi fisici, chimici e alchemici, di cui le nostre tre opere sono un esempio.

Centro Galego de Arte Contemporanea Santiago de Compostela

The Galego Contemporary Art Center, together with MAMbo Museum in Bologna, dedicated a big solo show to a protagonist of the Arte Povera movement, assembling for the first time works of all Gilberto Zorio career, from 1966 to 2009. The exhibition highlights the artist’s interests for physical, chemical and alchemical processes, epitomized also by our three artworks.

Exhibition Gilberto Zorio

16th gennaio january

febbraio february

marzo march

Aprile April

27th maggio may

giugno june

luglio july

— 2010 —

from / to agosto august

settembre september

ottobre october

novembre november

dicembre december


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gam education alfabeto del corpo

alfabeto del corpo

Per connettere l’arte alla realtà quotidiana il Servizio Educativo propone un coinvolgimento fisico, emotivo e cognitivo con l’attività “Alfabeto del corpo”. di Flavia Barbaro foto di Giorgia Rochas Il Corpo umano, definito dal filosofo Merleau Ponty come luogo della vita, è stato sempre considerato un soggetto significativo per l’arte. Ampia dimostrazione del suo agire ne ha dato la mostra Il teatro della performance che ha offerto utili spunti per il programma della Educational Area, l’allestimento della “Palestra dei sensi” e l’avvio di svariate attività didattiche. Faccio riferimento, in particolare, al progetto “Alfabeto del Corpo”: la proposta che ha consolidato il rapporto di collaborazione della GAM con 18 classi dell’Istituto Comprensivo di via Ricasoli 30. Le articolate esperienze estetiche plurisensoriali, svolte in museo e a scuola con i bambini della scuola primaria, valutate positivamente da tutti gli insegnanti e dai genitori intervenuti a giugno – nelle due giornate di presentazione pubblica dei risultati – ci incoraggiano in autunno ad estendere la proposta ad altre classi. Nell’immediato futuro la stimolante mostra dedicata alle opere di Martha Rosler sarà, invece, l’occasione per riflettere sull’uso del corpo e del linguaggio come strumento di perpetrazione della cultura patriarcale e mezzo di comunicazione del potere politico. La ricchezza della ricerca dell’artista motiverà nuovi percorsi a carattere semiotico rivolti alla scuola secondaria che si svolgeranno con i giovani sperimentando la modalità di comunicazione tra pari – in linea con gli orientamenti educativi peer-to-peer.

Body alphabet The human body, defined by philosopher Merleau Ponty as living space, has always been considered a central subject in art. Deep demonstration of its acting was given in the exhibition The Theatre of Performance, which gave rise to many educational activities and inspired the Educational Area program and the setting of “Palestra dei Sensi”. In particular, we can refer to the project “Alfabeto del Corpo (Body Alphabet)”, which consolidated, with its suggestions, the relationship between GAM and the 18 classes of the Comprehensive School in via Ricasoli 30. The aesthetical and multi-sensorial experiences in museum and at school with children from primary school has been positively valued by parents and teachers during the public presentation of our results in June. These results encourage us to

extend our proposal to new school classes in autumn. In the near future, the stimulating exhibition of Martha Rosler artworks will be the occasion for a reflection about using the body and language as an instrument of perpetration of patriarchal culture and a communication tool for political power. The rich investigation of the artist will promote new semiotics paths for secondary school which will take place experimenting communication between equals – as in the educational peer-to-peer course.

gam education responsabile: Flavia Barbaro laboratori: Antonella Angeloro, Giorgia Rochas, Ester Viapiano prenotazioni: Laura Falaschi : 011 4429546/47


videoteca martha rosler

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MARTHA ROSLER di Elena Volpato

In occasione della mostra antologica Martha Rosler. As If lo spazio della Videoteca GAM ospita un programma di proiezioni di opere video che l’artista ha realizzato tra il 1974 e il 2006. Nell’ampio ventaglio di tematiche affrontate dall’artista in più di venticinque anni di ricerca c’è un elemento che può essere riferito a tutti i video presentati ed è la radicale mancanza di finzione televisiva. Martha Rosler riesce a mettere a nudo l’impianto compositivo e linguistico dell’opera, ottenendo un risultato di realtà che è l’opposto dell’effetto-realtà creato ad arte dalle convenzioni dell’intrattenimento e dell’informazione televisiva. Le fittizie costruzioni narrative sono fatte per nascondersi nel più che volatile spazio di coscienza dello spettatore, facilmente dimentico della differenza che separa la totalità dei fatti dalla loro presentazione, ricostruzione e montaggio. Nei primi video emerge con evidenza l’analisi del ruolo che la cultura tradizionale assegna alla donna, ritratta per lo più nei suoi “ambienti di pertinenza” quali la cucina e l’economia domestica, oltre che nelle innumerevoli situazioni di sfruttamento e consumo del suo corpo, dalla pubblicità, alle riviste femminili, fino alla più inquietante classificazione e “normalizzazione” delle sue misure corporee. Nelle opere più recenti emerge l’analisi della condizione di minoranze culturali ed etniche, e di altre forme di “consumo” imperialistico della dimensione corporea, fino all’inquietante immagine con cui si chiude la rassegna di un giocattolo meccanico, un piccolo soldato americano che suona God Bless America con la sua tromba, mentre la telecamera scende in verticale a rivelare, sotto la tuta mimetica arrotolata, una gamba da robot che si scopre totalmente uguale alle protesi che portano i soldati americani feriti in guerra. — Semiotics of the Kitchen, 1975 Courtesy the artist and GAM, Torino

On the occasion of the retrospective Martha Rosler. As If, the GAM Video Gallery presents a selection of video works created by the artist between 1974 and 2006. In more than 25 years of artistic research, Martha Rosler has addressed a wide range of themes and all her videos seem to share a common element: the radical absence of television fiction. The artist succeeds in divesting the structure of her work, both formally and linguistically; the result is a reality whose immediacy is the exact opposite of the reality-effect artfully created by conventional mass media standards, made to shape the most volatile area of consciousness of those viewers who tend to forget to see the difference between facts and the way these are presented, reconstructed and edited. Martha Rosler’s early videos clearly reveal her concern with the role traditional culture has assigned to women – depicted in the domestic environment they are relegated in – as well as with the countless ways of exploiting and objectifying the female body: from advertising to women’s magazines, down to the disconcerting classification and standardization of her bodily measurements. Her more recent works draw attention to the situation of cultural and ethnic minorities and other forms of imperialistic “consumerism” of the human body. As in the disturbing video that closes the GAM screening program: it features a toy soldier playing the tune God Bless America on his trumpet while the camera pans out to show the lower mechanism hidden under the uniform, blatantly identical to the prosthetic limbs of many US war veterans.


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BACKSTAGE allestimenti

Mimesi permanente. una mostra su simulazione e realismo. a cura di Alessandro Rabottini

Permanent Mimesis. An Exhibition about Realism and Simulation. Curated by Alessandro Rabottini. 01|Pratchaya Phinthong lavora a/working at 2017 (2010) 02|Danilo Eccher, Alessandro Rabottini allestimento della mostra/installation of the exhibition 03|Anna Barriball installa/working at Untitled (2008)

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04|Ritual (2009) di/by Seth Price 05|L’allestimento della mostra/ installation of the exhibition

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06|Simon Denny, Video Aquarium Broken Neon Copper (2010) 03

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CAStello Di rivoli MuSeo D’Arte ConteMporAneA

torino

eXhiBitiOn, eXhiBitiOn lUci d’aRtista cOllettiva

installaziOni lUMinOse PeR le vie della cittÀ

Rivoli, 21.09.2010–09.01.2011 GAM GAlleriA CiviCA D’Arte MoDernA e ConteMporAneA

Novembre 2010–Giugno 2011 GAM GAlleriA CiviCA D’Arte MoDernA e ConteMporAneA

FonDAzione SAnDretto re rebAuDenGo

OsvaldO licini MaRtha ROsleR MOdeRnikOn i caPOlavORi

Torino, 24.10.2010–31.01.2011

as iF

Torino, 24.10.2010–31.01.2011

pinACoteCA GiovAnni e MArellA AGnelli

aRte cOnteMPORanea dalla RUssia

Torino, 23.09.2010–27.02.2011

FonDAzione Merz

china POweR statiOn

MaRiO MeRz

Torino, 07.11.2010–27.02.2011

Torino, 12.05.2010–14.11.2010

aRte cOnteMPORanea cinese dalla cOlleziOne astRUP FeaRnleY

PaGeantRY OF PaintinG cORteO della PittURa

ovAl- linGotto Fiere

aRtissiMa 17

inteRnaziOnale d’aRte cOnteMPORanea a tORinO

Torino, 05–07.11.2010

www.contemporarytorinopiemonte.it



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