POST HUMAN | L'ibridazione tra uomo e macchina — EDITORIAL GRAPHICS ELEMENTS @ abaroma

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POST UMANESIMO “A metà tra performance, body art e chirurgia plastica: il corpo naturale, anacronisticamente superato ed inadatto al mondo tecnologico in cui si colloca, si adegua artificializzandosi in una esasperata ricerca di identificazione con una realtà nuova” Il termine post human è stato coniato da Jeffrey Deitch con l’omonima mostra d’arte del 1992. Il post umanesimo è una dottrina che abbraccia, oltre alla filosofia, la letteratura e le arti visive. Il termine indica la concezione secondo la quale i problemi che affliggono l’uomo, come le malattie e l’invecchiamento, si possono sconfiggere tramite l’utilizzo della biotecnologia e dell’ingegneria genetica; attraverso l’ibridazione tra uomo e macchina (e quindi la creazione dell’uomo bionico), secondo i post umanisti, è possibile raggiungere persino l’immortalità, oltre ad un incremento esponenziale della abilità e dell’intelletto umani, controllando, quindi, l’evoluzione. Il concetto di post umanesimo viene esplicitato da Robert Pepperell ne Il Manifesto del Post Umano; il movimento si contrappone all’Umanesimo sia evidenziando i limiti dell’intelletto umano sia eliminando ogni differenza tra gli uomini e il resto della materia, se non la forma (illusoria) con cui appaiono ai nostri occhi. Inoltre, a differenza degli Umanisti, i quali credono che il corpo non sia altro che un vettore per la mente (la “coscienza”), per i post-umanisti questi due elementi sono indivisibili. Inoltre, essendo la coscienza parte del corpo e quindi della materia ritengono che tutti gli esseri – anche le macchine – la possano raggiungere fornendo loro le giuste condizioni. Un post umanista, inoltre, rinuncia alla ricerca dell’origine dell’universo in quanto futile e inconcludente ed è aperto all’occultismo e al mondo del paranormale, in quanto il metodo scientifico non è da considerare, aprioristicamente, superiore agli altri. Inoltre, secondo alcuni sociologi, molte previsioni del passato riguardo lo sviluppo tecnologico si sono rilevate errate, e le ambizioni che i post-umani si pongono sono esagerate. Modificare l’essere umano comporta altrettanti

rischi che benefici, e quindi occorrerebbe prestare molta attenzione: alcuni studiosi, come Bill Joy, ritengono che l’uomo rischia seriamente l’estinzione a causa delle mutazioni e delle trasformazioni transumanistiche. La reazione di alcuni conservatori e clericalismi come Giuliano Ferrara è, semplicemente, di bollare come immorale qualsiasi tentativo dell’uomo di alterare la propria natura. L’arte occupa un ruolo di prim’ordine in questa dottrina, tant’è che lo stesso Robert Pepperell afferma che l’era postumana potrà verificarsi solo quando si riuscirà a vincere la “sfida” posta dagli Umanisti, secondo i quali l’arte, massima espressione dell’ingegno umano, il senso del bello e la creatività siano di dominio esclusivo dell’uomo e non trasferibili nelle macchine. Nel cinema e nella letteratura, tematiche come l’ibridazione tra uomini e macchine e clonazione sono affrontate nel genere cyberpunk. In letteratura, le prime avvisaglie del cyberpunk sono rintracciabili in 1984, di George Orwell e nei romanzi di Asimov. In realtà, la fede nel fatto che le nuove tecnologie possano diventare parte integrante dell’uomo e aumentarne le abilità era presente anche nel Medioevo. L’ambientazione dei romanzi cyberpunk è il futuro prossimo ipertecnologico ma decadente, solitamente visto in chiave distopica. Tuttavia, molti film e autori influenti vengono accumunati a questo genere. Tra i film ricordiamo Blade Runner, Terminator, Robocop, Akira, Matrix, Io, robot e Inception.

Articolo a cura di Valerio Rubino




“POSTHUMAN” La mostra a cura del gallerista-critico americano Jeffrey Deitch dal 02 ottobre 1992 al 22 novembre 1992 La mostra “Post Human”, a cura di Jeffrey Deitch, inaugurò nel giugno del 1992 al FAE Musée d’Art Contemporain di Pully-Losanna, in seguito al Castello di Rivoli-Torino (nel novembre del 1992) e alla Deste Foundation for Contemporary Art di Atene (3 dicembre 1992 – 14 febbraio 1993). Gli artisti in mostra: Dennis Adams, Janine Antoni, John M. Armleder, Stephan Balkenhol, Matthew Barney, Ashley Bickerton, Taro Chiezo, Clegg & Gutt­mann, Wim Delvoye, Suzan Etkin, Fischli/­ Weiss, Sylvie Fleury, Robert Gober, Felix Gonzalez-Torres, Damien Hirst, Martin Honert, Mike Kelley, Karen Kilimnik, Martin Kippen­ berger, Jeff Koons, George Lappas, Annette Lemieux, Christian Marclay, Paul McCarthy, Yasumasa Morimura, Kodai Nakahara, Cady Noland, Daniel Oates, Pruitt•Early, Charles Ray, Thomas Ruff, Cindy Sher­man, Kiki Smith, Pia Stadtbäumer, Meyer Vaisman e Jeff Wall. Il tema della corporeità e l’ideale del corpo così come viene rielaborato dalle strategie comunicative sono i nodi centrali di questa mostra che raccoglie artisti internazionali appartenenti alle tendenze più significative degli anni Novanta. I mass media ci restituiscono una rappresentazione idealizzata della realtà, elaborando stili di vita che si impongono come modelli individuali assoluti. La costante ricerca della perfezione del corpo e il miglioramento della tecnologia applicata all’ambito chirurgico, portano a una ricerca spasmodica di sistemi per combattere l’avanzare del tempo e per rincorrere i modelli imposti dai media. Manipolazioni genetiche,

interventi chirurgici per il miglioramento del proprio corpo, terapie anti-invecchiamento sono ormai pratica generalizzata. Gli artisti presenti in questa occasione pongono in questione proprio l’eccessiva attenzione per la realtà virtuale imposta dai media, attraverso opere che svelano tutte le nevrosi della società contemporanea. Alcune sono dichiaratamente provocatorie, come le sculture antropomorfe, a volte comico-grottesche che caratterizzano i lavori di Kiki Smith, Pia Stadtbäumer, Paul McCarthy, Robert Gober o le opere a esplicito riferimento pornografico di Felix Gonzalez-Torres, Ashley Bickerton, Charles Ray e Jeff Koons. In altri lavori centrale è l’indagine sui modi in cui viene codificata dai media l’immagine femminile, come nelle fotografie di Cindy Sherman o nelle opere di Janine Antoni che evidenzia le nevrosi legate al cibo, attraverso i suoi cubi di lardo o di cioccolato, o come ancora nelle installazioni di Sylvie Fleury, composte da serie di scarpe di moda o da sacchetti di Chanel, che pongono in discussione il sistema mercificato dei beni mobili di lusso. Anche nei ritratti di Thomas Ruff basati sull’indebolimento dei tratti distintivi del personaggio o nelle fotografie dei consigli di amministrazione di grandi gruppi aziendali scattate da Clegg & Guttmann, quello che risulta evidente è come il potere, la massificazione, i continui dettami della moda imposti dai media, minino l’equilibrio psicofisico dell’individuo e di conseguenza dell’intera società. Articolo a cura di Chiara Olivieri Bertola


Dennis ADAMS

n. 1961, Ginevra, Svizzera Dennis Adams è diventato noto negli anni ‘80 grazie ai suoi interventi urbani e alle sue installazioni che scoprono sottocorrenti storiche e politiche della nostra memoria collettiva, sia statunitense che europea, meglio documentata nella monografia intitolata Dennis Adams: The Architecture of Amnesia (1989). Iniziando nel 1999, Adams iniziò ad esplorare il mezzo del video e l’impegno sociale tramite progetti come OUTTAKE (1999), Makedown (2004), Spill (2009) e più recentemente Malraux’s Shoes (2012). Nei progetti di Adams la fotografia rappresenta l’elemento figurativo astratto che rientra nel concetto di astratto americano. Dalla metamorfosi di Patricia Hearst per la SLA, e, tornando indietro, alla prova di Klaus Barbie, dalle omissioni e distorsioni di Joseph McCarthy all’esecuzione dei Rosenberg, Adams si è focalizzato su figure controverse e eventi relativi al nostro passato non troppo distante che, anche se seppelliti sotto strati di silenzio, trascinano ancora una carica esplosiva. Negli ultimi quattro decenni, Adams ha prodotto lavori specifici di un sito, spesso in posti molto visibili come pensiline degli autobus, e contesti pubblici urbani che si focalizzano sul fenomeno dell’amnesia collettiva della fine del XX secolo.

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Janine ANTONI

n. 1964, Freeport, Bahamas Dopo aver studiato al Sarah Lawrence college di New York, nel 1989 ha conseguito un master in scultura alla Rhode Island school of design di Providence; vive e lavora a New York. Le sue opere più note risalgono agli anni ’90, in cui ha realizzato una serie di studi sull’identità di genere, sulla percezione culturale della fisicità, la bellezza e la sessualità femminili usando il proprio corpo come parte costitutiva della performance. Tra le sue opere principali di questi anni: Gnaw, focalizzata sulle ‘malattie sociali’ della bulimia e dell’anoressia, in cui Antoni ha cesellato con i suoi stessi denti due cubi di 270 kg, uno di cioccolato e l’altro di lardo, ricavandone poi cuori di cioccolato e rossetti per labbra; Loving care in cui ha usato, inginocchiata a terra, i capelli per dipingere la galleria, con un rovesciamento dello stereotipo femminile della cura e della pulizia; Slumber, in cui, dormendo all’interno del museo, ha registrato la propria attività cerebrale in fase REM (Rapid Eye Movement) per tessere poi una ‘coperta dei sogni’ che riproducesse il tracciato encefalografico. Tra le opere più recenti, il video Touch (2002) e la performance unica To Draw a Line (2003), esperimenti funambolici e metafore sull’equilibrio e alcuni lavori sulla maternità.

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John M. ARMLEDER

n. 1948, Ginevra, Svizzera Pittore, scultore e curatore, l’artista elvetico è fra gli autori più influenti della sua generazione. Armleder non crede nelle univoche distinzioni di ruoli applicati al mondo dell’arte, promuovendo piuttosto un approccio basato sulla collaborazione, sul dialogo e sullo scambio. Fondò nel 1969, nella sua città natale, lo storico Groupe Ecart, insieme a Patrick Lucchini e Claude Rychner. Conosciuto per un’estetica che si distingue per l’assenza di uno stile caratteristico, il lavoro di John Armleder spazia tra diversi mezzi, da pittura e scultura a design, performance e installazione, ed è vagamente connesso a una comprensione dell’arte non gerarchica e democratica, basata sui temi dell’appropriazione, dello humor e dell’opportunità. Negli anni successivi si avvicinò al movimento Fluxus, anche grazie all’influenza del compositore John Cage. Dalla Tate Liverpool al Kunstverein di Hannover fino alla Kunsthalle di Zurigo, sono molteplici le istituzioni culturali che hanno ospitato gli interventi di Armleder. L’artista non ha mai rinunciato alla propria autonomia e, ancora una volta, come ha sottolineato il curatore Samuel Gross, conduce il pubblico attraverso un “allegro rimescolamento di generi, con delicatezza e humour”.

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Stephan BALKENHOL n. 1957, Fritzlar, Germania

Frequentando la scuola di Belle Arti di Amburgo, fu esposto ai trend popolari minimalisti e concettuali dell’epoca, con insegnanti come Nam June Paik e Sigmar Polke. La sua esperienza in questa scuola ha influenzato profondamente la sua seguente pratica artistica. Percependo un’assenza in queste due scuole di pensiero, Balkenhol ha cercato la figura umana ed ha iniziato a prendere in considerazione una campagna per reintrodurla nell’arte contemporanea, dichiarando “Devo reinventare la figura per recuperare una tradizione interrotta.” Come artista rinomato, Balkenhol è riconosciuto non solo per la prodezza tecnica con cui scolpisce a mano ognuna delle sue sculture di legno, ma per la sua continua devozione all’esplorazione del ruolo della figura all’interno dell’arte contemporanea. Nel suo studio figurativo, con martello e scalpello, crea le sue figure da un unico blocco di legno, lasciandovi ben visibili le tracce degli utensili, dei nodi e delle crepe. Le sculture combinano figure umane anonime con alti piedistalli, tutti scolpiti a mano da singli blocchi, di pioppo o legno wawa. Le figure emanano atemporalità: vestiti semplici, a tinta unita e le pose fiduciose ma senza pretese dell’uomo comune.

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Matthew BARNEY

n. 1967, San Francisco, Stati Uniti Nelle frequenti visite a sua madre nella città di New York, venne a conoscenza di arte e musei. Una mescolanza di sport ed arte ha influito sul suo lavoro di scultore e regista. Dopo essersi laureato a Yale nel 1991, Barney ebbe rapidamente successo nel campo artistico. Fin dai suoi primi lavori, Barney ha esplorato il transcendence delle limitazioni fisiche in una pratica di arte multimediale che include le pellicole di particolare-lunghezza, le video installazioni, la scultura, la fotografia ed il disegno. È noto principalmente come produttore e creatore di Cremaster, una serie di cinque lavori visualmente stravaganti. I film rappresentano Barney in ruoli diversi, tra cui un satiro, un mago, un ariete, Harry Houdini ed anche l’infame assassino dal nome Gary Gilmore. Il titolo dei film si riferisce al muscolo che eleva ed abbassa il sistema riproduttivo maschile secondo la temperatura, la stimolazione esterna, o la paura. I film sono una grande mistura di storia, autobiografia, e mitologia dentro un universo intensamente particolare nel quale immagini e simboli sono esageratamente livellati ed interconnessi. Matthew Barney vinse il prestigioso premio europeo alla 45° Biennale di Venezia, nel 1996. È noto anche per il suo progetto Drawing Restraint 9 (2005).

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Ashley BICKERTON

n. 1959, Barbados, Caraibi È stato uno dei membri originari di un gruppo di artisti conosciuti come NeoGeo, emerso a New York negli anni ’80. Nel 1993, ha lasciato New York per Bali, in Indonesia, dove i suoi lavori assunsero un distinto esoticismo tropicale, spesso in netto contrasto con il suo lavoro Neo-Geo, che consisteva in un’esplorazione geometrica e astratta del consumismo e dell’industrializzazione. Nonostante ciò, la ricerca di Bickerton della materialità rimase un filo consistente durante la sua pratica. Sfumando spesso i confini tra media, genere e soggetto (fotografia e scultura; ritratto e paesaggio; realtà e fantasia), l’artista sfida i parametri della creazione artistica, tirando in causa il valore e il significato dell’oggetto artistico stesso. Lavorando a New York, Bickerton ha stabilito un marchio per se stesso, Susie. All’inizio della sua esplorazione del ritratto, Bickerton ha sostituito il suo logo con quelli di altri marchi utilizzati nella vita comune. Questa rappresentazione dell’io come accumulo di marche commerciali è il metodo di Bickerton per investigare la complessità della società dei consumatori. Tornato a Bali, si focalizzò sul figurativismo iper-realistico che fa parodia della fantasia occidentale della vita sull’isola tropicale.

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CLEGG & GUTTMANN

n. 1957, Dublino, Irlanda & n. 1957, Gerusalemme, Israele Il duo di artisti Clegg & Guttaman lavora da oltre trent’anni con una nozione d’arte che può essere compresa sotto forma di processo socio-comunicativo, per il quale non si dedicano solo a specifiche aree urbane, ma alla struttura stessa della pubblicità. Si dedicano alla ricerca sulla rappresentazione del potere nel genere del ritratto. Nell’arco della loro lunga carriera si osservano alcuni elementi che si sono mantenuti costanti fra le diverse opere ma che sono tradizionali del genere del ritratto storico (come la forte illuminazione laterale delle figure e l’uso di alcune tipiche pose, gesti e accessori per la caratterizzazione dei soggetti). Il termine Opera spontanea si riferisce a quegli oggetti che possono essere principalmente considerati eventi. In contrasto con ciò, il termine Scultura sociale include oggetti in un senso più ampio. Una terza classificazione dei loro progetti sono i Ritratti comuni; qui hanno considerato azioni intenzionali, il cui problema è la rappresentazione. Alcuni dei loro progetti sono ricontestualizzazioni di altri. Sito e modalità di presentazione collocano la loro opera in un contesto artistico discorsivo che la distingue dall’intervento puramente sociale e li colloca sulla linea divisoria tra azione socio-politica e scultura artistica.

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Wim DELVOYE

n. 1964, Freeport, Bahamas Artista belga, è noto per aver realizzato diverse installazioni anticonvenzionali Si recò nel 1997 in Cina per tatuare dei suini come gesto artistico. Ebbe una clamorosa risonanza, sia come sistema dell’arte che come caso mediatico, ma le sue idee provocatorie non hanno perso smalto. In Art Farm, trasformava maiali reali in opere d’arte viventi. E successivamente, oltre alle cotiche tatuate appese alle pareti di un grande salone d’esposizione, ha lavorato a pneumatici in gomma intagliati con intricati motivi, pale e badili decorati o modellini di camion in scala, in procinto di trasformarsi in cattedrali gotiche. In questi lavori è evidente l’idea di trasformare oggetti comuni in arte, di trasformare la dicotomia tra uso e valore: “Gli artigiani realizzano cose utili, gli artisti opere che provocano emozioni e riflessioni”, dice lui. Sculture che decontestualizzate dal loro valore spirituale, diventano ornamenti di bronzo, doppi sensi che si trovano in tanti lavori di Delvoye. L’opera Cloaca, realizzata in varie versioni, riproduce il ciclo digestivo fino alla defecazione. La nuova serie Spud Gun, realizzata bel 2016, consiste in sculture che prendono il loro nomi da armi giocattolo usate dai bambini che usano patate come munizioni.

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FISCHLI/WEISS n. 1952, Zurigo, Svizzera & n. 1946, Zurigo, Svizzera

Peter Fischli e David Weiss, spesso abbreviato in Fischli/Weiss, sono due artisti svizzeri che lavorano in duo, attivi dai primi anni ottanta, hanno esposto nei maggiori musei internazionali in mostre personali e collettive. Nel 1995 occupavano lo spazio del padiglione svizzero alla Biennale di Venezia con un’installazione video di grandi dimensioni. Il loro lavoro, si inscrive nel filone concettuale dell’arte contemporanea. Usano lo humor, l’equilibrio, la casualità e il mimetismo per far leva su alcuni degli aspetti più seri della condizione umana tramite film, fotografie e sculture che, come descritte da Mr. Fischli, “non hanno mai avuto paura dello scherzo stupido, quello scherzo così brutto da risultare imbarazzante”. La vena raffinatamen� te umoristica del debutto, contestualizzata in situazoni di vita quotidiana, resterà una costante della loro opera, che si esprimerà sui fronti più diversi, dalla fotografia al film alla videoarte, alle complesse sculture polimateriche, ai libri d’arte, alle installazioni multimediali. Ironici e surreali, mai scontati, ci hanno guidato ad un’osservazione mai banale del mondo che ci circonda e, di rimando, ad una riflessione sulla nostra esistenza, spostando continuamente piani e punti di vista.

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Sylvie FLEURY

n. 1961, Ginevra, Svizzera Tacchi alti e borse, ruote delle macchine e razzi: sin dall’inizio della sua carriera, che nel frattempo è diventata internazionale, Sylvie Fleury è sempre stata interessata alle insegne del potere e della seduzione. È diventata famosa nei primi anni ’90 grazie a un’installazione cche comprendeva diverse borse di etichette di lusso, semplicemente posizionate come se la porta fosse appena stata chiusa. È nota per le sue installazioni, sculture e mezzi misti. I suoi lavori generalmente dipingono oggetti legati tanto al consumismo quanto al paradigma della nuova era. I lavori di Fleury incrociano elementi della pop art e dell’arte concettuale, per cui l’arte concettuale è più determinante; più precisamente come l’idea che Marcel Duchamp ha stabilito con i suoi ready-made. Un oggetto nel mondo dei prodotti viene trasferito nel museo, e solamente attraverso questo cambiamento di posizione diventa arte. In realtà, al contrario dell’inventore dell’arte concettuale, Sylvie Fleury cambia il suo articolo di consumo selezionato. Lo riempe d’oro, lo gonfia in uno stato mostruoso o lo ironizza attraverso il suo modo di mettere in scena, presentando un carrello della spesa d’oro o un pneumatico per auto presentato su un piedistallo luccicante.

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Robert GOBER

n. 1954, Wallingford, Stati Uniti Scultore americano, i suoi lavori sono principalmente relativi al domestico e agli oggetti relativi alla vita quotidiana come lavandini, porte e gambe. Sin dall’inizio degli anni ’80, Gober ha creato sculture paradossali che sembrano incorporare allo stesso tempo le qualità sia degli oggetti fatti a mano che di quelli prodotti dalle macchine. L’artista attira e inganna i suoi spettatori dando l’impressione di familiarità mentre si cimenta con le sorprendenti complessità dell’identità sessuale moderna, della religione, della politica e della storia dell’arte. Le sue opere affrontano le aspettative di coloro che sono dentro e fuori dal mondo dell’arte formale; asserisce un’intimità studiata e soggettiva nella sua arte, mentre pone le sue idee all’interno del celebre lignaggio dell’arte moderla, essendo sia intensamente presente che storica, e invocando allo stesso tempo esperienze personali e universali. Scegliendo oggetti relativi alla vita quotidiana come soggetti delle proprie sculture, il lavoro di Gober è influenzato dal lavoro del ready-made: estrae oggetti dalla vita quotidiana rilegando loro una nuova identità come oggetti d’arte. I lavori di Gober, tuttavia, non sono ready-made nel senso proprio del termine, ma richiamano l’impatto della libertà artistica di quel movimento.

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Félix GONZÁLEZ

n. 1957, Miami, Stati Uniti È stato un artista cubano influenzato dall’arte minimalista e dalle posizioni politiche del suo periodo d’attività. Cresciuto a Porto Rico si trasferì a New York dove espose dal 1990 fino alla sua morte. Le sue opere, molte delle quali invitano il visitatore a portarne via una parte e che vedono fra i materiali l’uso di lampadine, orologi, carta, caramelle, son considerate una rappresentazione del suo rapporto con l’AIDS. Una serie di opere permettono al visitatore di portare via delle caramelle poste in un dispenser in un angolo della sala, altre distribuiscono sottili fogli di plastica trasparente o stampe in serie. I dispenser sono riempiti non appena il loro contenuto diminuisce. La lettura più diffusa dei lavori di González-Torres vuole che i cambiamenti delle sue opere, le lampadine fulminate, l’esaurimento delle caramelle, siano una metafora del processo di morte. Una delle sue opere più famose, Senza Titolo del 1991, è un cartellone pubblicitario apparso a New York con la fotografia in bianco e nero di un letto vuoto, scattata dopo la morte per AIDS del suo compagno Ross. Il mio pubblico era Ross. Il resto della gente viene solo per i lavori”.

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Damien HIRST

n. 1965, Bristol, Regno Unito Capofila del gruppo conosciuto come YBAs (Young British Artists), è noto soprattutto per una serie di opere contradditorie e provocanti, tra cui corpi di animali imbalsamati e immersi in formaldeide, vetrine con pillole o strumenti chirurgici o “mandala” costituiti di farfalle multicolori, o il celebre teschio ricoperto di diamanti. La morte è il tema centrale delle sue opere. Hirst domina la scena artistica britannica durante gli anni ’90. Manifesto della sua poetica è The Physical Impossibility Of Death In the Mind Of Someone Living (ovvero, L’impossibilità fisica della morte nella mente di un vivo), consistente in uno squalo tigre di oltre 4 metri posto in formaldeide dentro una vetrina. Quell’opera divenne il simbolo dell’arte britannica degli anni ’90. Il primo obiettivo di Hirst è di creare un avvenimento, ciò che importa non è l’arte ma lo shock che provoca. Hirst, come d’altronde molti grandi artisti da Warhol in poi, non crede più nella manualità dell’autore, ormai l’intento è comunicare idee, lui vuole essere un marchio. Le opere di Hirst più note si interrogano sul senso dell’esistenza e sulle prospettive umane della mortalità, così come l’esorcizzare la morte attraverso lo strumento della medicina, della religione, della procreazione o della esaltazione della materialità.

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Martin HONERT

n. 1953, Bottrop, Germania Conosciuto per le sue sculture veristiche di ricordi o immagini legate alla sua infanzia, sin dall’inizio degli anni ’90, Martin Honert ha ridefinito le possibilità della scultura contemporanea. Ha seguito le lezioni di Fritz Schwegler all’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf negli anni ’80; ha delineato il concetto di specificità media. Ciò ha portato a lavori estremamente vari: per ogni opera, l’artista sviluppa un processo individuale e una materialità. Lavora nel suo studio per diversi anni creando ognuno dei suoi lavori a mano. Opere tridimensionali accuratamente elaborate catturano l’ambivalenza associata ai ricordi dall’infanzia, per comprendere la perseveranza di un’immagine, il significato di ciò che non è immediatamente evidente, nemmeno per l’artista stesso. Table with Jell-O è la solita altezza di un tavolo, ma nelle sue altre dimensioni si stacca dalle dimensioni usuali. La sedia luminosa e il Jell-O oscillante introducono l’elemento della memoria nelle opere. Non stiamo semplicemente osservando oggetti nel presente, ma l’illuminazione della sedia localizza la sedia in condizioni di illuminazione specifiche, ad una certa ora. Ma quando e dove questi particolari si riferiscono rimangono poco chiari, chiamando in causa dove risiede la verità nella memoria.

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Mike KELLEY

n. 1954, Wayne, Stati Uniti Artista visivo e musicista, Kelley ha utilizzato lungo il suo percorso un’esuberante commistione di linguaggi e medium (disegno, pittura, installazione, performance, video) in cui risuona un’ispirazione intensa e multiforme, centrata su tematiche di ordine psichico, sociale e culturale: la repressione del desiderio, l’autorità, la religione, l’infanzia, il potere dell’immaginazione e la sostanza emotiva dell’esperienza quotidiana. Quella di Kelley è un’esplorazione del cattivo gusto, del sentimentalismo vernacular, della televisione trash, delle sottoculture giovanili. Le sue installazioni manifestano in modo esplicito il carattere di un’esperienza creativa in cui forma e stile non hanno più significato e il cui posto è preso da una incontrollabile proliferazione di residui, frammenti, scarti, materie “abiette” che riflettono un’assoluta sfiducia nell’ordine sociale e nelle virtù salvifiche del linguaggio. Let’s Talk about Disobeying (“parliamo di disobbedienza”) si legge su uno striscione di feltro colorato del 1993 sul quale appare anche l’immagine di un barattolo di biscotti, una dichiarazione in cui si mescolano memorie infantili, suggestioni di rituali sadomaso ed echi familiari semiseri, una strana, ambigua mescolanza che torna nell’intero percorso dell’artista.

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Karen KILIMNIK

n. 1955, Filadelfia, Stati Uniti Pittrice e installatrice, ha viaggiato da piccola per gran parte degli Stati Uniti e del Canada. Parlava spesso di Russell, in Manitoba, come fonte d’ispirazione per i suoi ultimi lavori. Ha studiato alla Temple Universiy a Filadelfia. Le sue installazioni riflettono un giovane punto di vista della cultura pop. Un esempio di questo lavoro è l’esordio del suo The Hellfire Club Episode of the Avengers, che è composto da immagini fotocopiate, vestiti, disegni e altri oggetti che incarnano reverenzialmente in glamour, il rischio e il kitsch degli show televisivi degli anni ’60. Il lavoro ha esemplificato lo stile dispersivo delle sue installazioni. I dipinti di Kilimnik, caratterizzati da una pennellata sciolta, colori audaci e “imbarazzo del negozio dell’usato in base ai numeri”, sono pastiche degli antichi maestri e spesso incorporano ritratti di celebrità. L’artista fonde insieme l’arte concettuale artistica e l’appropriazione degli anni ’80 con l’attuale interesse per la psicologia e l’identità femminile. Jonathan Jones ha descritto il suo ritratto di Hugh Grant (1997) come “un bell’esempio di un genere relativamente nuovo di pittura, che potremmo chiamare ritratto iconico, non commissionato dalla sua sitter ma basato su fotografie, ritagli di riviste, filmati.”

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Martin KIPPENBERGER n. 1953, Dortmund, Germania

Descrivendosi come qualcuno che vuole cambiare l’umore delle cose, Kippenberger ha fatto molto di più. L’eredità di questo artista tedesco di talento plurimo conta centinaia di pezzi diversi che includono dipinti, sculture e installazioni. È considerato uno degli artisti più influenti e sperimentali del dopoguerra, che combina stili come l’espressionismo, il dadaismo, il fotorealismo, la performance, la pop art, il neoespressionismo e il realismo sociale. La varietà di temi che usava, spesso conteneva connotazioni politiche e esprimeva una critica della moderna società dei consumi. La sua ossessione con il rock ’n’ roll, diversi nomi di scena ed etichette discografiche mostrano il livello del suo carisma e della sua energia, espressi attraverso l’arte. Ciò che distingue l’artista dagli altri è la sua brama per la costante sperimentazione e la sua socievolezza. Le sue sculture e le sue installazioni si opponevano direttamente alle norme ampliamente accettate dal mondo dell’arte. Non è strano vedere immagini provocatorie e motivi accattivamenti che a volte rappresentano lo stesso Martin, volti a disturbare e scioccare gli spettatori. Nel 1990 ha creato Feet First, una scultura autoironica di una rana crocifissa con un uovo e un boccale di birra, come reazione alla critica.

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Jeff KOONS

n. 1955, York, Stati Uniti L’artista statunitense ha studiato al Maryland Institute College of Art di Baltimore e allo School of the Art Institute di Chicago. Vive e lavora a New York. Sin dalla sua prima mostra singola, nel 1980, i lavori di Koons sono stati esposti nelle maggiori gallerie e istituzioni in tutto il mondo. Le sue opere furono poi il soggetto di una mostra maggiore organizzata dal Whitney Museum of American Art, Jeff Koons: A Retrospective, che si è tenuta poi al Centre Pompidou di Parigi e al Guggenheim Bilbao. È emerso nella scena artistica con uno stile che fondeva diversi stili esistenti - pop, concettuale, artigianale - per creare il suo unico modo d’espressione. Le sue opere vertono su argomenti caldi come sesso, razza, genere e fama, e prendono vita in forme come palloncini, articoli sportivi bronzati e oggetti gonfiabili da piscina. La sua arte dà vita a una dimensione psicologica inaspettata, come il cambiamento di colore, scala e rappresentazione che assumono un nuovo significato. Lo spettatore può spesso trovare qualcosa di completamente nuovo nel modo in cui gli esseri umani, gli animali e gli oggetti antropomorfi prendono vita. Koons è principalmente riconosciuto per le sue sculture iconiche Rabbit e Balloon Dog tanto quanto per la scultura floreale Puppy.

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George LAPPAS

n. 1950, Cairo, Egitto Ha studiato psicologia e lavorato in diversi ospedali psichiatrici negli Stati Uniti. Ha studiato poi scultura e architettura in India e successivamente architettura a Londra e arte alla Scuola di Belle Arti di Atene. Ha lavorato nel Regno Unito e in Francia prima di diventare professore alla Scuola di Belle Arti di Atene. È uno degli artisti greci della sua generazione maggiormente riconosciuti. Durante il suo lavoro, Lappas ha riflettuto sui limiti del corpo e sulle sue deviazioni dalla normalità. Per lui frammentazione, fluidità, discontinuità e destrutturazione rappresentano le caratteristiche della cultura contemporanea analogica. L’artista trasforma la vita di tutti i giorni per trascenderla meglio. Anima oggetti mondani, dà vita a immagini e frammenti di corpi per portare lo spettatore verso una nuova dimensione e per dare l’impressione di una presenza metafisica. Le sue sculture ci portano in aree che possiamo comprendere solo se siamo disposti a liberarci delle immagini preconcette con cui i media ci sommergono. Deformazione, rimodellamento e riorganizzazione dei volumi sono le molteplici espressioni che trascinano verso un mondo non-euclideo e trasformano il visibile in una “visione”. I titoli delle sculture seguono gli stessi principi e vanno letti come suggerimenti per interpretarle.

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Annette LEMIEUX

n. 1957, Norfolk, Stati Uniti Artista, concettuale, docente all’Harvard University. Dopo alcune iniziali esperienze pittoriche, si impegna in un lavoro fondato sul riuso di immagini e oggetti preesistenti, scelti dall’artista e inseriti in nuovi contesti e combinazioni così da creare imprevedibili significati. Lavora con artisti che incorporavano frequentemente forme d’espressione dei mass media e della cultura pop nei loro lavori. Utilizzando le tecniche più diverse, che spaziano dalla scultura alla fotografia, fino alle grandi installazioni in spazi pubblici, si pone come obiettivo quello di rivelare allo spettatore i legami profondi che lo connettono con gli oggetti esposti che filtrano l’esperienza personale di chi guarda con la memoria condivisa. Nelle sue installazioni, infatti, compaiono allo stesso titolo ricordi d’infanzia e frammenti della storia sociale del suo Paese, o del mondo intero, a significare che l’interiorità e la realtà esterna non sono due mondi contrapposti, ma un’unica dimensione, che per l’artista diventa operativa in nome di una sua precisa responsabilità sociale. La guerra, i campi di sterminio, ma anche la società contemporanea con i suoi emarginati e il suo stile di vita paradossale sono tematiche che ricorrono spesso nella sua opera, presente nelle collezioni permanenti dei maggiori musei mondiali.

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Christian MARCLAY

n. 1955, San Rafael, Stati Uniti Non solo artista visivo, ma anche compositore, il cui lavoro innovativo esplora la contrapposizione tra la registrazione del suono, fotografia, video e film. Nato in California e cresciuto in Svizzera, ha tenuto una doppia nazionalità. Come performer e sound artist, Marclay ha sperimentato, composto ed eseguito con i dischi fonografici e giradischi dal 1979 per creare il suo unico “teatro del suono trovato”. È stato influenzato da Marcel Duchamp, offrendo una voce unica, fresca e innovativa che ha ispirato un’intera generazione di musicisti, artisti e teorici. L’artista lavora costantemente con l’idea di decostruire la cronaca, nel suono e teoria. Egli tenta di portare alla luce il deterioramento del vinile come medium. I rumori residui che si perdono contribuiscono a rendere l’ascoltatore consapevole del mezzo del vinile: trova il potenziale creativo dei difetti registrati che di solito, nel mondo musicale, vengono ignorati, dando voce alle rotture e ai graffi all’interno del suono registrato e fornendo una panoramica del caos. Nel 2000 Marclay registrò il video e il suono di una chitarra elettrica trascinata di notte sull’asfalto di una strada del Texas, dal punto di vista strettamente acustico, non è altro che il suono del trascinamento della chitarra, notevolmente danneggiata dall’esperimento.

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Paul MCCARTHY

n. 1945, Salt Lake City, Stati Uniti Vive e lavora a Los Angeles. Conosciuto per la sua ampia gamma di opere, spesso inquietanti e provocatorie, che comprendono performance, fotografie, film, installazioni multimediali, sculture, disegni e quadri. Disordinata, antagonistica, sessualmente esplicita e politicamente carica, la produzione di McCarthy prende di mira il consumismo, la cultura popolare e le nostre paure e nevrosi più profonde, come il sesso, i fluidi corporei e gli orifizi umani. Mentre si appropria regolarmente delle icone della cultura popolare e dell’infanzia tra cui gnomi, Babbo Natale, Barbie, Biancaneve e Heidi: nelle sue opere, sono ricamati come violenti, maliziosi e depravati. Il suo immaginario, che può essere sia esplicito che brutale, è spesso scioccante, e si diletta nel sovraccarico sensoriale, producendo un lavoro intenzionalmente destinato a suscitare sensazioni di disagio e disgusto. In una carriera durata circa cinque decenni, McCarthy è diventato uno dei più grandi cronisti e trasgressori delle norme sociali contemporanee e dei tabù. Ridicolizzando senza pietà l’autorità e le così chiamate regole della società corretta, la sua opera anarchica mescola sia l’alta cultura che quella bassa, e provoca un’analisi delle nostre credenze più fondamentali e sacrosante.

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Yasumasa MORIMURA

n. 1951, Osaka, Giappone L’arte del travestimento è la chiave attraverso cui Morimura rilegge la cultura, i miti e la storia del XX secolo. Ciò che spinge l’artista a reinterpretare in prima persona le opere di grandi pittori quali Leonardo da Vinci, Van Gogh, Rembrandt, Frida Kahlo, o a calarsi nei panni femminili delle attrici del secolo passato non è la necessità di inscenare parodie irriverenti e dissacranti di queste icone, quanto l’esigenza di osservare dall’interno i miti occidentali che, dal dopoguerra, tanto peso hanno avuto nel ridefinire i costumi, i gusti e la cultura del suo Paese. In A Requiem: Laugh at the Dictator, Morimura decide di affrontare la figura di Adolf Hitler attraverso la caratterizzazione che Charlie Chaplin ne fece in Il grande dittatore (1940). Vediamo Morimura/Hitler/ Chaplin nel suo studio intento a danzare con un mappamondo e pronunciare infervorato il suo discorso: una rielaborazione del film di Chaplin che esorta alla liberazione dell’uomo da ogni forma di sfruttamento nella speranza di un mondo migliore. “Non voglio essere un dittatore”, dichiara all’inizio Hitler/ Morimura, ma a differenza di Chaplin prosegue interrogandosi su quali possano essere oggi le forme di dittatura. “Chiunque debba il suo benessere alle sofferenze di altri, può essere definito dittatore”.

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Kodai NAKAHARA

n. 1961, Kurashiki, Giappone Nakahara mantiene una posizione importante nell’arte, in quanto connette e allo stesso tempo sottolinea la differenza tra la vecchia e la nuova generazione che circondano la coscienza delle avanguardie nelle arti in Giappone successivamente alla guerra. Dagli anni ’80, il suo lavoro comprende un ampia gamma di materiali. Fu acclamato per aver esplorato un terreno completamente nuovo: negli anni ’90, ha preso d’assalto il mondo dell’arte quando ha iniziato a mettere in discussione la sua funzione di artista usando i Lego e altri oggetti ready-made. Nakahara ha iniziato a recuperari i colori audaci di Mono (che significa “oggetti” in giapponese) e l’espressione vaga per comprendere se avere una forma sul confine fosse affrontato abilmente attraverso i vari soggetti, indipendentemente dalla scultura e dai dipinti. Assemblate con i blocchi Lego, le opere di Nakahara collegano in modo figurato il flusso al passato, ma ha un elemento diverso dal Post Mono-ha in quanto l’immagine originale è totalmente diversa. Gli spettatori hanno la stessa impressione anche dalle simulazioni connesse rappresentate da Murakami Takashi e Aida Makoto, che sono apparse in seguito. Dal 1995, dopo una pausa dal lavoro come artista, ha ampliato le sue attività oltre i parametri dell’arte.

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Cady NOLAND

n. 1956, Washington, Stati Uniti Noland espone il mito dietro alla promessa del sogno americano. Il suo lavoro affronta ciò che essa considera l’ansia dell’America per il fallito impegno del paese in termini di libertà, sicurezza e successo per tutti. Combinando oggetti e immagini iconici (bandiere, lattine di birra e foto di celebrità) con elementi di base (cestini della spesa, manette e barriere metalliche portatili), la sua produzione tende a disposizioni casuali che rappresentano compromissione sociale e mobilità fisica. Come nella sua massiccia installazione delle lattine di birra Budweiser, il lavoro di Noland suggerisce anche una cultura dell’eccesso e dello spreco, un luogo in cui i media e gli interessi aziendali distorcono gli eventi e oggettivizzano le persone. Le sue installazioni parlano di un piano abbandonato, di speranze scartate. Come Andy Warhol prima di lei, Noland ritiene che la serigrafia sia un mezzo particolarmente appropriato con cui sfruttare i suoi soggetti. Usando le tecniche di produzione e consumo di massa, esagera ulteriormente il linguaggio dei media e chiede allo spettatore di mettere in discussione le sue affermazioni di verità. E per lei, l’apparente crisi di identità di Hearst paragona l’identità incerta dell’America, e esprime profondamente la disillusione che l’artista cerca di catturare.

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Daniel OATES

n. 1964, Svizzera Le sculture di Daniel Oates sono opere d’amore, e un’ode agli eroi e alle eroine della classe operaia. Questo giovane artista inglese, educato nell’antica arte dell’intaglio del legno, ha creato un cast irresistibile di quelli che lui chiama Happy Workers: piccole figure a fumetti di donne che puliscono, lavoratori e postini. Simili a giocattoli eppure stranamente dignitosi, e realizzati a mano con grande abilità, possiedono la purezza e la bellezza dell’arte religiosa. La loro missione sembra essere quella di superare la nota distinzione alto-basso con una nuova rotta: completa sincerità. Nella sua seconda personale presenta Cops, una scultura di due poliziotti ordinari. All’incirca alti quanto bambini di 5 o 6 anni, sono coinvolti in na conversazione casuale. Uno dei due è basso e tondo mentre l’altro è più corpulento, e dalle loro mani di mungitura, alle loro scarpe grasse, Oates non perde dettagli nel linguaggio del corpo, espressione o abbigliamento. Le figure sono fatte di intonaco dipinto su polistirolo; le uniformi sono cucite e i manichini, le radio e persino i bottoni sono intagliati in legno. La sua fusione tra il fumetto e il reale mostra un lato più surrealista, in un largo tavolo da notte il cui cassetto aperto rivela una grande rivoltella e una versione ancora più lunga della stessa pistola appesa al muro.

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PRUITT & EARLY n. 1964,Washington, Stati Uniti & n. 1962, Raleigh, Stati Uniti

Rob Pruitt e Jack Early hanno formato un collettivo di artisti dagli anni ‘80 ai primi anni ‘90. Prima della nascita di questa collaborazione, entrambi lavorano nel mondo dell’arte newyorkese: Early alla galleria Leo Castelli e Pruitt presso Sonnabend. Il loro lavoro è segnato da un interesse per i temi di genere, sessualità e razza in relazione al mondo americano. La cultura popolare, gli oggetti simbolo del mondo contemporaneo e l’immaginario dei giovani americani sono il loro punto di partenza. Nel ritratto che fanno dell’adolescente medio americano, in un compendio di desideri e ossessioni di un’intera generazione, compaiono Harley Davidson fiammeggianti, lattine di Budweiser personalizzate con adesivi che rimandano a un universo di feticci inconfondibili: dall’heavy-metal a Playboy, dalla marijuana al gotico. Il loro è un tentativo alla moda nello spirito di Jeff Koons di far collidere la cultura di massa con l’alta arte. Nel 1992 la mostra ‘Red, Black, Green, Red, White and Blue’ alla galleria Leo Castelli, che esibiva poster di famosi personaggi afroamericani con un sottofondo di musica rap, viene bollata come razzista. Il fatto è chiaro indice del falso moralismo americano e quella mostra segna la fine della collaborazione tra i due artisti.

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Charles RAY

n. 1953, Chicago, Stati Uniti Famoso scultore, è considerato uno degli artisti più significativi della sua generazione. È meglio conosciuto per le sue sculture di oggetti e pezzi familiari modificati e rimodellati che aderiscono a un’estetica minimalista. Ha studiato scultura all’Università dell’Iowa e alla Rutgers University. Nei primi lavori basati sulle performance, ha iniziato a inserire il proprio corpo nei suoi pezzi, come una scultura in cui si è inchiodato tra le tavole contro un muro. Le sue opere successive riflettono spesso le forme geometriche ridotte dell’arte minimalista, ma altri pezzi includono anche figure in fibra di vetro a grandezza naturale e sculture monumentali in legno. La produzione di Ray non è facilmente classificabile in quanto stili, materiali, soggetto, presenza e scala sono tutti variabili. Ciò che è coerente è che Ray si fissa su come e perché le cose accadono, per non parlare di ciò che accade realmente nel campo visivo e di come tali eventi potrebbero essere modificati per diventare arte. Questo e il livello di consapevolezza storica dell’arte dietro alle sue opere ha portato molti critici a definire Ray uno “scultore di scultore”. Tuttavia, la sua arte è riuscita a trovare un vasto pubblico, grazie, in parte, alla sua natura spesso sorprendente o seducente. Ray attualmente insegna all’Università della California a Los Angeles.

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Thomas RUFF

n. 1958, Zell am Harmers., Germania Ruff è un esponente di spicco di quel gruppo di artisti cresciuti all’Accademia di Düsseldorf nel nome della coppia di fotografi Bernd e Becher. Partendo dal presupposto che la fotografia può catturare soltanto la superficie delle cose, volge tutto il suo interesse alla costruzione dell’immagine e alla manipolazione durante i processi di stampa. Distaccandosi dall’insegnamento dei suoi maestri, preferisce al bianco e nero la seduzione del colore, cambiando radicalmente la tradizione della fotografia documentaristica. Con la serie Astratti, inizia ad interessarsi alla poetica del digitale; le immagini sono costruite da macchie di colore. Nei Nudi, Ruff preleva immagini pornografiche scaricate da siti internet a bassa risoluzione, ingrandite e trasformate in fase di stampa in senso pittorico, operazione che spesso le priva della loro naturale carica aggressiva. In alcune opere l’artista, ibrida l’immagine attuale dell’architettura con immagini d’archivio che documentano la struttura dell’edificio nella sua forma originaria e nel contesto urbano, in un gioco di rimandi tra presente e passato. L’intera opera di Ruff è volta all’analisi della struttura delle immagini. Quasi fosse uno scienziato che procede attraverso esperimenti, per ogni tema scelto realizza numerose fotografie, ordinandole in serie.

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Cindy SHERMAN

n. 1954, Glen Ridge, Stati Uniti Poco tempo dopo la sua nascita, la famiglia lasciò il New Jersey per trasferirsi a Long Island. L’artista cominciò a interessarsi di arti visive già al college, dove cominciò a dedicarsi alla pittura, che però abbandonò presto per dedicarsi alla fotografia. Per un breve periodo si focalizza sulla pittura dipingendo in maniera realista copie di foto tratte da riviste e ritratti. Quando in America ci fu la contestazione femminile, Sherman si appropria dello stereotipo maschilista della donna sensuale, lo interpreta in prima persona per riutilizzarlo in chiave ironica. Usa lo stereotipo per eliminare lo stereotipo. Sherman produce serie di opere, di cui essa stessa è il soggetto, indossando una varietà di costumi. In serie recenti si presenta come clown. Sebbene essa stessa non consideri il proprio lavoro femminista, molte delle sue serie, come Centerfolds, richiamano l’attenzione sullo stereotipo della donna come appare nella cinematografia, nella televisione e sui giornali. A livello di post-produzione, l’artista non manipola in alcun modo le sue foto, ma all’estremità opposta c’è invece la fotografia composta e manipolata, resa finzione. Adotta questa modalità al fine di esporre una finzione filmica tramite una serie di fotografie usate come fotogrammi di una pellicola cinematografica.

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Kiki SMITH

n. 1954, Norimberga, Germania Kiki Smith è figlia d’arte: suo padre era Tony Smith, noto scultore minimalista. Usa materiali tradizionali e malleabili (scultura e disegno su carta in particolare) per affrontare tematiche comuni e quotidiane come l’identità, gli stereotipi sessuali e il corpo, lavorando con alcune artiste degli anni ‘80-’90 come Rosemarie Trockel e, come lei, schierandosi all’interno del movimento femminista. Il suo lavoro è forte e correlato con il tema della materialità del corpo, della sua deperibilità e vulnerabilità. In particolare è il corpo femminile ad essere preso in esame, specie come oggetto erotico visto attraverso la lente degli artisti di sesso maschile. Altro tema affrontato da Smith in tempi più recenti è quello del rapporto tra l’uomo e la natura, tra il corpo e il mondo. A volte le opere dell’artista americana sono ispirate al mito, alla favola (Cappuccetto Rosso), alla letteratura (Alice nel paese delle meraviglie), sempre nello sforzo di reinterpretarne il significato in chiave attuale. Le favole sono un luogo privilegiato di elaborazione primaria di strutture dell’inconscio; l’artista le scompone in un montaggio alternato di frame che ne evidenzia il sostrato angosciante, sottraendo lo schema narrativo dell’e vissero tutti felici e contenti. Al giorno d’oggi è tra gli artisti più quotati al mondo.

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Pia STADTBÄUMER n. 1959, Münster, Germania

Artista tedesca, ha studiato presso l’Art Academy di Düsseldorf. È nota per le sue sculture realistiche realizzate in cera o plastica versate in stampi di gesso. Esse consistono in bambini e/o adulti collocati casualmente in una stanza non completamente vestiti o con anomalie. La testa delle sculture sdraiate è sempre appoggiata sul muro o su un’altra scultura. Le sue sculture identiche di un ragazzo, Max, e una ragazza, Clara, sono state presentate in diverse mostre. Sono state modellate utilizzando fotografie, anche se l’artista ha cambiato le caratteristiche dei bambini originali così che non fossero riconosciuti. Il ragazzo e la ragazza di circa sei anni posano immobili in diverse apparenze identiche. Gli elementi aggiunti alla nudità del bambino, potrebbero essere letti come segnali aggressivi ed erotici e non adatti ai temi dell’innocenza o del gioco. Il nostro normale punto di vista viene sfidato in modo irritante per mezzo di queste piccole aggiunte, oggetti che non hanno nulla in comune con i giochi occasionali in maschera d’infanzia. Una combinazione quasi surreale di segni non esattamente decifrabili provoca il risveglio di storie fantastiche, sequenze oniriche, possibilmente di ricordi che iniziano una vita propria negli occhi di chi guarda con le sue proiezioni e riflessioni.

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Meyer VAISMAN

n. 1960, Caracas, Venezuela Negli anni ’80, l’artista ha ottenuto un ruolo fondamentale nella scena artistica dell’East Village di New York, dando inizio così al suo ruolo nel mondo dell’arte. La sua proposta iniziale consisteva in una performance per la quale si sarebbe mascherato come agente della Border Patrol, apparendo perso alla guida della sua auto di pattuglia a Tijuana. Tuttavia, questa proposta rappresentava un rischio elevato per l’artista stesso a causa della violenta atmosfera intorno al confine in quel momento. Dopo una serie di indagini, ma con l’idea originale ancora in mente, l’artista ha creato un’installazione nel centro di Tijuana, sfruttando l’attrazione turistica esistente dei famosi muli zebrati. L’artista si mise l’uniforme di pattuglia e dipinse il carrello esattamente come un veicolo ufficiale. Negli anni la sua modalità di lavoro subirà cambiamenti, dai quadri ironici postmoderni ai tacchini tassidermiti a una replica della baracca venezuelana piena di oggetti personali della sua camera da letto per bambini. Mentre sono immersi nell’auto-riflessività, questi lavori interrogano anche la natura dell’oggetto d’arte. Viene inoltre messa in discussione l’originalità, con gli stessi motivi ripetuti l’uno accanto all’altro o riprodotti in forme positive e negative. Le sue opere sono l’esatto opposto di “outsider art”.

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Jeff WALL

n. 1946, Vancouver, Canada “Jeff” Wall è un artista canadese meglio conosciuto per le sue fotografie cibachrome retro-illuminate di grandi dimensioni e per i suoi trattati di storia dell’arte. Il suo tableaux fotografico è spesso formato da una miscela di peassaggi e realtà di Vancouver, tra cui bellezze naturali, degrado urbano, postmoderno e industriale. Studiò dapprima storia dell’arte ma presto iniziò a lavorare nel campo artistico. Solitamente presenta fotografie di grande formato retroilluminate con enormi lightbox. Wall si definisce “un pittore della vita moderna” e spesso basa il contenuto e la forma delle sue immagini sul realismo del XIX secolo. Wall si prepara con largo anticipo per scattare una fotografia: tutte le scene sono interpretate da attori, rappresentate in grandi set, riprese fotograficamente, e qualche volta assemblate o postprodotte digitalmente. Ad un primo impatto le immagini di Wall sono prive di impatto spettacolare ma comunicano la loro complessa struttura solo dopo una lunga osservazione. Wall mostra i simboli della vita moderna, include le forme del paesaggio urbano come imposizione dell’agire sociale. Gli attori messi in scena da Wall si confondono con gli attori della vita, creando una visione surreale del mondo che rende fragili le certezze dell’agire umano nel nostro tempo.

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TRANS UMANESIMO Così l’umano può difendersi dal postumano Quando Julien Huxley aveva inventato il termine “transumanismo”, riferito poi alla «tecnologia che permette di superare i limiti della forma umana». Molte trasformazioni sono già visibili, si parla del corpo come un nuovo “oggetto connesso”, una “nanobioinfo-neuro machine”, che annuncia la fine dell’età umana. Quale spazio rimarrebbe per quell’attività umana che consiste nell’agire libero e nel dare regole all’agire? Scomparirebbero i diritti “umani”, e con essi i principi di dignità e eguaglianza? L’orizzonte si è dilatato, la definizione del postumano non è riferita solo alle innovazioni legate a biologia e genetica, ma è il risultato della convergenza di elettronica, intelligenza artificiale, robotica, nanotecnologie, neuroscienze. Alla realtà “aumentata” dall’elettronica si accompagna la prospettiva dell’uomo “aumentato”. O piuttosto spossessato di tratti dai quali riteniamo che l’umanità non possa essere separata? Verrà un giorno, dicono i più radicali tra i transumanisti, in cui l’uomo non sarà più un mammifero, si libererà del corpo, sarà tutt’uno con il computer, dal suo cervello potranno essere estratte informazioni poi replicate appunto in un computer, e potrà accedere all’immortalità. E l’intelligenza artificiale viene presentata come quella che ci libererà da malattie e povertà. Perché, allora, quattrocento scienziati chiedono di valutarla con attenzione critica? In quel documento si parla di sistemi autonomi, veicoli autonomi, forme autonome di produzione, armi letali autonome. Ma autonomia rispetto a che cosa? La comparazione è con situazioni in cui le decisioni sono affidate alla consapevolezza delle persone. Ora, invece, l’autonomia sembra abbandonare l’umano e divenire carattere delle cose, capovolgendo la prospettiva di un postumano come “meglio dell’umano”, finendo con il presentarsi piuttosto come ideologia della tecnoscienza. Una nuova forma sociale si manifesta. Una società liberata dal lavoro o insidiata da più profonde servitù? Trasformazioni guidate dal profitto o dall’interesse per le persone?

Interrogativi che mostrano come le risposte non possano essere affidate all’intelligenza artificiale, ma a quella collettiva. Il vero rischio, infatti, non è quello di una politica espropriata dalla tecnoscienza. È il suo abbandonarsi a una deriva che la deresponsabilizza, e induce a concludere che davvero malattia e povertà siano affari ormai delegabili alla tecnica e non problemi da governare con la consapevolezza civile e politica. Tornano i principi di riferimento. Lo human enhancement, il potenziamento dell’umano non evoca soltanto rischi, ma descrive recuperi di funzioni perdute, accesso ad opportunità nuove, arricchimento di legami sociali. Si incontra il tema della libertà e dell’autonomia, poiché il potenziamento non può risolversi nella disponibilità del corpo altrui. Né può essere violato il principio d’eguaglianza. Quale criterio governerà l’accesso alle opportunità offerte dalla tecnoscienza? Il potenziamento dell’intelligenza sarà riservato a chi dispone delle risorse necessarie per comprarlo sul mercato? E la dignità scompare quando gli interventi sul corpo determinano dipendenza dall’esterno. Queste vicende dell’umano rinviano a due processi: l’ominizzazione, dunque l’evoluzione biologica, con l’emersione di una sola specie umana, con un processo di unificazione tendente all’universalismo; e l’umanizzazione, dunque l’evoluzione che si è articolata attraverso le culture, con un processo di diversificazione tendente al relativismo. Oggi l’accento dovrebbe cadere piuttosto sull’ominizzazione, poiché la profondità del mutamento dei processi biologici e il loro intersecarsi con la tecnoscienza sembrano portare ad una diversificazione della specie umana, fino alla creazione di nuove specie. Nei processi di umanizzazione, al contrario, si colgono significativi segni di un movimento verso l’unificazione, di cui è testimonianza il diffondersi di norme giuridiche comuni nei settori in cui l’umano è messo più visibilmente alla prova dalla tecnoscienza. Articolo a cura di Stefano Rodotà




BLACK MIRROR La serie che mette in scena gli incubi della Rete. “Viviamo in tempi di grandi cambiamenti: è eccitante e preoccupante”, dice il creatore Charlie Brooker I voti dati via app a servizi e conoscenti, che diventano ossessione e discrimine sociale. L’odio che solo la Rete a volte riesce a creare, così forte da farsi furia omicida. I ricatti di un hacker che comanda a bacchetta un adolescente di cui ha rubato i segreti. Un soldato che ha contratto uno strano virus in una missione dai contorni poco chiari. E ancora le sperimentazioni nei videogame con la realtà aumentata, quella di Pokémon Go per intenderci, che si trasforma in esperienza terrificante ad alta definizione. Incubi dai quali una volta entrati non si riesce o non si può uscire. La terza stagione di Black Mirror, appena pubblicata su Netflix, picchia duro sulla nostra quotidianità digitale. Sei diversi episodi, da poco meno di un’ora, ognuno indipendente dall’altro: cambiano gli attori, cambia la storia, ma resta il denominatore comune che li lega in qualche modo al Web. “La tecnologia aveva promesso di liberarci, invece ci ha insegnato ad arretrare rispetto al mondo reale e a rinchiuderci nella distrazione e nella dipendenza”. Parole di Nicholas Carr, tratte da Utopia is creepy: and other provocations, mandato alle stampe da W W Norton & Company il 27 settembre. Provocazioni, le chiama l’autore americano, che l’era di Google e Facebook non l’ha mai digerita. A tal punto da chiamare la tecnologia “la più grande religione degli Stati Uniti”. Il suo racconto nasce da fatti realmente accaduti, storie di vite distrutte magari da un tweet o da una citazione fasulla che hanno portato a lapidazioni pubbliche online. Charlie Brooker, “padre” di Black Mirror, la pensa alla stessa maniera. Solo che lui si spinge oltre usando lo strumento della fantascienza per sottolineare i pericoli con il pennarello rosso. “Viviamo in tempi di grandi cambiamenti”, ha dichiarato. “È eccitante e preoccupante. Ed è quello che riflette la mia serie, senza mezzi termini”. Classe 1971, Brooker da giornalista e fumettista si è poi inventato presentatore, scrittore e sceneggiatore a partire dal 2005. Umorismo nero e dissacrante in salsa hi-tech con un fiuto innegabile nel leggere la realtà.

Un episodio della seconda stagione, Vota Waldo!, ha ricordato a molti la campagna elettorale di Donald Trump. Ma quello che a tutti è rimasto in mente è Messaggio al Primo Ministro, puntata pilota della prima serie: il capo del governo inglese era costretto a un rapporto sessuale con un maiale in diretta web per salvare la principessa rapita da quello che sembrava essere un maniaco omicida con capacità da hacker. Uno specchio nero nel quale guardare dentro per fermarsi a pensare. “Cosa che non molti show in tv fanno”, ha spiegato la produttrice Annabel Jones. Che stavolta ha avuto più fondi a disposizione. I sei episodi, dove compiano fra gli altri Bryce Dallas Howard, Alice Eve e James Naughton, con la colonna sonora di Max Richter, sono più ricchi dei precedenti da ogni punto di vista, anche da quello degli effetti speciali. Giochi pericolosi dedicato ai videogame di prossima generazione, Odio universale che parte dagli “haters” del web e vira verso la biotecnologia, Zitto e balla, che invece racconta del ragazzino ostaggio di uno sconosciuto online, sono forse i più riusciti. Ma è Caduta libera, dove la protagonista tenta la scalata sui social e dove le recensioni online di tutti su tutto regnano sovrane, quello più inquietante e alla fine più realistico. “Spaventoso, divertente e intelligente”, ha scritto della serie Stephen King. Il quale, in un vecchio saggio del 1981 intitolato Danse Macabre, parlava della paura come di un sentimento reazionario, perché “reagisce” al nuovo e al diverso. Nelle mani di Charlie Brooker, nato sulle pagine di Pc Zone negli anni Novanta dove recensiva videogame, questi temi vengono trattati con una buona dose di allarmismo accordandosi con le voci di tanti critici, sempre più numerosi, nei confronti della Rete, del digitale e della tecnologia. L’irriverenza dell’esordio, la ferocia, sono stati mitigati. Linguaggio più universale quindi con intuizioni intelligenti.

Articolo a cura di Jaime D’Alessandro Illustrazione di Billy Butcher



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