Cacciucco Umano

ALBERTO PETROSINO

Illustrato da

Romanzo

PRENZY

Un romanzo di ALBERTO PETROSINO Illustrato da PRENZY Etichetta FUMETTI DI CANE www.fumettidicane.it Direttore responsabile LUCIO STAIANO Direttore editoriale GIANLUCA CAPUTO Progetto grafico STEFANO ANTONUCCI © Shockdom srl via XX settembre, 40, 25121 Brescia info@shockdom.com Stampa Grafica Metelliana www.graficametelliana.it Prima edizione: Febbraio 2020 ISBN 978-88-31298-04-9 Il logo Cane è opera di Marco Petrucci “Cane è un progetto editoriale nato da una idea di Stefano Antonucci e Gianluca Caputo”.

Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo volume può essere riprodotta senza autorizzazione scritta, salvo per motivi di recensione, citazione o critica.

Ogni riferimento a persone o cose realmente esistite è puramente casuale e riflette una opinione personale degli autori.

Al Mago, che con l’ultima magia se ne è volato via.

-I-

Riccardo

(1)

Da bambino Riccardo sognava di diventare talmente ricco da non essere più costretto a salutare la gente.

A quell’età, quando fra i suoi amichetti le aspirazioni medie oscillavano tra il fare l’astronauta, il medico o il super-eroe, Riccardo continuava a ripetersi come un mantra la frase che suo nonno gli rifilava, quasi fosse una tradizione da non poter interrompere, ogni benedetta volta che lo andava a prendere all’uscita da scuola.

“Perché non saluti? Hai fatto vaini?” domandava indispettito l’anziano labronico nell’accogliere il nipote che, mentre tutti i suoi compagni si apprestavano a organizzare le squadre per giocare a calcio nella piazza vicina, scorgeva avanti a sé la prospettiva dell’ennesimo, “entusiasmante” pomeriggio trascorso al circolo ex-ufficiali dell’esercito, all’insegna di deprimenti partite a briscola e scopone scientifico in compagnia dei vecchi colleghi del nonno.

Bombardata a ripetizione da quel modo di dire, secondo il quale evidentemente chi aveva i “vaini”, ovvero i soldi in dialetto livornese, era esentato dal salutare gli altri, la mente del Riccardino di sei anni aveva ben presto scavallato gli schemi prestabiliti del non-detto per sviluppare un’affascinante teoria che a pensarci bene non si 8

discostava neanche troppo dalla realtà: i doveri di una persona normale, o nello specifico quelli di un bambino, erano direttamente inversi ai diritti di un ricco.

Se un bambino aveva il dovere di salutare i suoi conoscenti ogni volta che ne aveva l’occasione (gli adulti non si stancavano mai di ripetere quel concetto: “Saluta Tizio…”, “Dì ciao a Caio…”, “Non dai un bacino a Sempronio?”) i ricchi sembrava avessero il diritto di farlo quando pareva loro.

Intuire che tale regola potesse essere riutilizzata in altri contesti, e a volontà, non era stato difficile.

Quindi, perché no, se una persona normale, o il solito bambino, nello specifico Riccardo, aveva il dovere di passare un noiosissimo pomeriggio con il nonno all’uscita da scuola, magari un ricco possedeva il diritto di non farlo, e scegliere di correre come un matto dietro a una palla assieme ai suoi amichetti.

E ancora: se una persona normale (bambino) aveva il dovere di andare a letto presto, probabilmente proprio nel bel mezzo del cartone animato che gli piaceva tanto, forse un ricco aveva il diritto di stare alzato fino a tardi e guardarsi tutto ciò che gli pareva.

E via dicendo…

Non c’era proprio storia: quella strana disparità tra diritti e doveri, quella capacità di plasmare a piacere i secondi per godere dei primi era un potere che gli astronauti, i medici o i super-eroi neanche si sognavano (i super-eroi forse sì, ma essere costretto a salvare il mondo in continuazione pareva una faccenda piuttosto faticosa).

Naturalmente era solo la semplificazione della realtà vista con gli occhi di un bambino innocente e crescendo Riccardo aveva scoperto che le cose andavano in modo diverso… un ricco infatti poteva fare molto di più.

Così la sua teoria si era evoluta: i doveri di una persona normale, o nello specifico quelli di un adolescente, erano direttamente inversi 9

ai diritti di un ricco, e i diritti di un ricco erano proporzionali alla quantità di beni in suo possesso.

Tra gli anni delle medie e quelli delle superiori aveva sviluppato tutta una serie di progetti che gli avrebbero permesso, in teoria, di guadagnare così tanti soldi da poter cancellare dalla sua vita la parola “dovere”.

Durante il passaggio tra adolescenza e maturità quei fantastici piani purtroppo si erano andati a scontrare con una sorta di fastidiosa barriera invisibile chiamata realtà, la quale aveva imposto un improvviso rallentamento alla sua scalata per la ricchezza.

Adesso Riccardo aveva ventotto anni appena compiuti, viveva con i genitori che mal lo sopportavano, non possedeva una laurea, il suo diploma del liceo Classico era carta straccia, vendeva aspirapolvere porta a porta con un contratto a provvigione e ci rimetteva pure.

Però sognava ancora di diventare ricco sfondato, ed era felice.

Perché, come diceva ogni volta la nonna, quando uno ha un sogno la vita assume i colori dell’arcobaleno e l’aria profuma sempre di buono… *** “Oggi è l’ultima volta.”

Riccardo continuava a ripeterselo ogni giorno, da almeno quattro mesi.

Ogni benedetta mattina si svegliava e decretava che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe varcato la soglia di casa per andare a vendere aspirapolvere porta a porta.

E ogni benedetta sera, prima di andare a letto dopo una giornata faticosa, scarsamente produttiva e per niente remunerativa, si addormentava nutrendo inspiegabilmente le migliori intenzioni per 10

l’indomani, immaginandosi intento a chiudere decine e decine di contratti, fantasticando che finalmente sarebbe arrivato il suo momento se solo fosse stato pronto a cogliere al volo quel treno chiamato fortuna che, prima o poi, lo avrebbe atteso dietro la prossima porta per condurlo incontro al successo.

Per Riccardo la notte era un oceano solcato da buoni propositi, che all’alba affondavano irrimediabilmente nelle torbide acque della realtà.

Ma non si arrendeva.

Tutti i più grandi erano partiti da zero, e lui non era da meno.

Certo: il fatto che lui non partisse da zero, ma addirittura in passivo (teneva un piccolo resoconto dei guadagni e delle spese sostenute per quell’attività - benzina, telefono, pasti, provvigioni, ecc - e al momento, dopo quattro mesi circa, era in rosso di almeno duecento euro) non faceva ben sperare; ma per arrivare in cima alla montagna bisognava faticare, e lui non si sarebbe tirato indietro.

Nel mentre aveva escogitato alcuni piccoli espedienti che lo aiutavano a risparmiare e a riequilibrare i piatti della bilancia costi-benefici.

Andava a lavoro in bicicletta invece che in macchina o in autobus e questo, oltre a evitare un inutile spreco di soldi per i biglietti o la benzina, contribuiva a salvaguardare l’ambiente e a mantenerlo in forma.

Cercava di far coincidere la pausa pranzo con una dimostrazione a casa di qualche anziana e gentile signora che, se anche poi non acquistava l’aspirapolvere, solitamente finiva per offrirgli uno spuntino.

Fingeva sovente un guasto tecnico nel bel mezzo di una vendita, soprattutto quando questa era destinata ad andare male, dopo il quale era costretto a telefonare in sede per chiedere assistenza; poi bastava affermare di avere il cellulare scarico e per pietà, e per levar11

selo il prima possibile dai piedi, il cliente gli faceva usare il proprio apparecchio… a quel punto Riccardo si sentiva libero di chiamare chiunque avesse bisogno di contattare in quel momento: i genitori per dire che la sera non rientrava, il suo capo per chiedergli che giro doveva fare, gli amici per organizzare il dopo-cena o scambiare quattro chiacchiere; così non doveva preoccuparsi di spendere soldi neanche per il cellulare.

Era anche riuscito a sviluppare una sorta di libero scambio con alcuni potenziali clienti. L’idea, della quale andava molto fiero, era giunta quasi per caso al termine di un banale pomeriggio primaverile, quando lo spettro della giornata fallimentare andava già a profilarsi all’orizzonte baciato dal tramonto: proponendo al titolare di un negozio di barbieri una dimostrazione gratuita dei suoi speciali E.Q.U.A.L.A.M.D.A. (Ergonomico - Quattro velocità - Unico Apparecchio - Lucidante - Aspirante - Multifunzione - Detergente - A silenziatore musicale), nome che a detta del suo capo “spaccava il culo ai paperi”, si era sentito rispondere con le testuali parole: “Pago già una signora per pulirmi il negozio. Ma se qualche volta vuoi venire a farlo tu con ‘sto coso, poi ti faccio i capelli gratis”.

Quella frase gli aveva aperto un mondo chiamato “risparmio attivo”.

La cerchia dei commercianti che partecipavano al suo particolare baratto favori-servizi si era notevolmente ampliata negli ultimi due mesi: adesso faceva dimostrazioni gratuite una volta a settimana per numerosi “potenziali clienti” che, casualmente, non gli acquistavano mai niente; il lunedì per una piccola palestra, il martedì per il barbiere sopracitato, il mercoledì per un negozio di fumetti, il giovedì per una gelateria, il venerdì per un’estetista e, su prenotazione, a giorni prestabiliti per varie amiche della nonna.

Doveva stare attento a far coincidere quelle dimostrazioni speciali con il suo orario di lavoro, e con le varie zone della città che gli 12

venivano assegnate: se il suo capo avesse scoperto come utilizzava i preziosi E.Q.U.A.L.A.M.D.A. gli avrebbe spezzato le gambe; ma in cambio di tanta dedizione e professionalità adesso poteva tagliarsi i capelli gratis ogni volta che voleva, seguiva un corso di Spinning senza spendere un centesimo, leggeva le nuove uscite dei suoi manga preferiti senza doverli acquistare, si godeva frappè e gelati piccoli al costo di zero euro e aveva un buono per una lampada trifacciale a settimana da rivendere a qualche amico o scambiare per altri favori; senza contare le molteplici “paghette” che riceveva da tutte le anziane signore alle quali puliva la casa e che lo avevano eletto di fatto nipotino ad honorem.

C’era ancora da lavorarci su: escogitare nuovi escamotage per ridurre le spese e far lievitare i benefici, ma secondo i calcoli fatti da Riccardo ben presto quell’ingegnosa politica di risparmio lo avrebbe portato all’auto-efficienza economica; e da lì a diventare ricco sfondato il tragitto era breve…

Per adesso si accontentava di sognare a occhi aperti ogni volta che poteva, dato che tanto non costava niente.

Nello specifico in quel momento sognava di vendere l’aspirapolvere che stava presentando all’amabile vecchina la quale, seduta su un logoro divano di pelle proprio di fronte a lui, pendeva dalle sue labbra osservandolo con gli occhi amorevoli della tipica nonna bisognosa d’affetto.

Era giusto giusto l’ora di pranzo, per cui si stava permettendo di sognare in grande, ipotizzando anche che la signora gli avrebbe offerto un pasto degno di un re.

E se magari gli avesse fatto fare una telefonatina…

-E.Q.U.A.L.A.M.D.A. signora mia.- annunciò indicando con gesto pomposo l’aspirapolvere, -È questa la parola magica che sarà in grado di soddisfare ogni suo desiderio. Ripeta assieme a me!-È la Lambada?- ripeté felice, ma un tantino dubbiosa la vecchia.

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Riccardo sorrise affabile: con le signore di una certa età capitava quasi sempre che storpiassero il nome, ma era preparato; -Abbiamo anche quella…- esclamò strizzando l’occhio e cliccando uno dei pulsanti che costellavano il manico dell’apparecchio.

Subito l’allegra melodia della Lambada cominciò a risuonare nella stanza, fuoriuscendo dalle minuscole casse acustiche dell’E. Q.U.A.L.A.M.D.A. La signora unì le mani sotto al mento e sorrise contenta: -Ohi ohi, la ballavo fissa col mi’marito!- sussurrò con sguardo sognante.

-Con questa meraviglia sarà come tornare ai vecchi tempi…- disse Riccardo cominciando a spingere avanti e indietro l’aspirapolvere sul pavimento, ancheggiando a ritmo, -E potrà pulire a tempo di musica!- cliccò ancora il pulsante e una nuova canzone rallegrò l’ambiente.

-Pinguino! Piedino! Saltino…- Riccardo saltellò avanti tre volte obbedendo all’imperativo del cantante, spingendo l’E. Q.U.A.L.A.M.D.A. a fare il suo dovere.

La signora batteva le mani entusiasta rievocando chissà quali ricordi.

-Ergonomico Quattro velocità Unico Apparecchio Lucidante Aspirante Multifunzione Detergente A silenziatore musicale!- incalzò Riccardo urlando al di sopra della musica, ben consapevole di averla conquistata, deviando due volte a destra e poi due volte a sinistra a ritmo con la melodia, per mostrare l’estrema manovrabilità di quella meraviglia.

Poi spense la radio e si fece di colpo serio, -E questo è niente, signora mia. Che ore sono?- domandò, conoscendo bene la risposta.

L’anziana fuoriuscì dallo stato di semi-trance nella quale era sprofondata e lanciò un’occhiata alla pendola sistemata poco lontano, -Boia!- sbottò, -È quasi l’una è c’ho ancora da prepara’ ir porpo.A Riccardo brontolò lo stomaco per la fame; -Direi che allora sono 14

costretto a stregarla, signora mia…La vecchia sussultò come se l’avesse minacciata.

Lui tornò a sorridere, -Non mi fraintenda, ma credo che il poco tempo a nostra disposizione non mi permetterebbe di elencarle tutte le mirabolanti proprietà dell’E.Q.U.A.L.A.M.D.A.; così lei rischierebbe di perdere l’occasione per entrare in possesso di una simile meraviglia, e io passerei il resto della giornata a rammaricarmi di non averle fatto concludere un ottimo affare.- allargò le braccia con gesto plateale, -Allora, mentre lei prepara il pranzo, io potrei darle una dimostrazione di quanto questo prezioso gioiello sia efficace, efficiente e rapido. Questa sala è bellissima, signora mia; ed è anche piuttosto grande. Mi permetta di pulirgliela tutta, comprese le finestre, e vedrà che non potrà rinunciare al mio prodotto. Le assicuro che sarà pronta in un battibaleno!L’anziana parve titubare, -Non saprei… è che m’ha aiutato la mi’figliola a pulirla ieri…-E allora scelga lei la stanza, e l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. provvederà a trasformarla in una reggia.- ribatté lui, ben felice di non essere costretto a dover sgobbare nel grande salone.

La signora sorrise contenta, -De’,- rispose, -allora se proprio insisti…Lì per lì non fece caso a quella strana inflessione nella voce dell’anziana né, tantomeno, al lampo d’astuzia che le balenò per un istante nello sguardo.

Seguì la vecchia fuori dal salotto pregustando già la vendita, su per una stretta scala a chiocciola che portava al piano superiore. *** Quando dal piano terra la voce della signora aveva annunciato che “era cotto ir porpo”, all’incirca mezz’ora dopo essersi separati per 15

svolgere i rispettivi compiti, Riccardo non era ancora arrivato a un quarto dell’immensa soffitta che l’anziana gli aveva concesso di pulire.

A quel punto non poteva certo mollare tutto a metà, così le aveva risposto che sarebbe sceso a momenti.

Dopo un’altra ora di fatica immane, tra polvere e schifezze varie che dovevano essersi accumulate là in mezzo nel corso dei secoli, Riccardo aveva giudicato che il lavoro fosse soddisfacente (stando bene attento, mentre valutava il suo operato, a non guardare il cumulo incredibile di scatoloni ammuffiti che, ammucchiati in un angolo nella penombra, facevano capolino da sotto un telo), ed era sceso al piano inferiore per godersi un po’ di riposo, stipulare di certo un contratto di vendita e magari mangiare qualcosa.

Entrando in cucina aveva trovato la vecchina assopita su una sedia a dondolo, con la borsetta stretta tra le braccia e gli occhiali da vista in bilico sul naso. Il tavolo era ancora apparecchiato, e dietro a una bella bottiglia di vino bianco spuntava un piatto sopra al quale era stata appoggiata una stoviglia per non disperdere il calore.

A Riccardo si strinse il cuore nel vedere quella scena dolcissima: la signora gli aveva lasciato il pranzo in caldo, e doveva averlo pazientemente atteso per firmare il contratto, con borsetta e occhiali già pronti, fino a quando non aveva ceduto al riposino pomeridiano.

Di colpo la fatica fatta per pulire la soffitta, compresa la percezione di essere stato sfruttato da una vecchia strega, svanì per lasciare posto alla riconoscenza.

Stando bene attento a non svegliarla si sedette a tavola e cominciò a mangiare di gusto, nonostante il polpo fosse ormai ghiaccio stecchito e il vino sapesse d’aceto.

Stava facendo la scarpetta, cercando di biascicare un pezzo di pane duro come il marmo, quando l’improvviso strillo della vecchia lo prese alla sprovvista causandogli un mezzo infarto: -Oh bello, ma 16

caa fai, ti mangi ir porpo della mi’ figliola?Riccardo riuscì a stento a deglutire un mezzo mattone, rimanendo congelato a guardare la signora che si alzava dalla sedia a dondolo affrontandolo con dipinta sul volto l’espressione più cattiva della storia, -T’è preso ir matto?- domandò indicando il piatto ormai vuoto.

-Credevo l’avesse tenuto in caldo per me…- provò a giustificarsi lui, -Prima mi ha anche avvisato che era pronto.-Sì de’, larillallero!- sbottò l’anziana avanzando minacciosa, -Era du’ ore che stavi lassù, pensavo ormai fosse cotto ir porpo, o che tu ci fossi morto. Come si fa ora?-Mi dispiace…- si scusò lui.

-Mi dispiace una bella sega! Tra poco viene la mi’figliola a mangià da me e non c’ho nulla da darle.- strillò inviperita la vecchia, -Ora mi tocca prendé un primo al ristorante, ma di sicuro io i vaini ‘un li tiro fori.- e allungò la mano facendogli esplicito cenno di sbrigarsi.

Riccardo s’immaginò la sua personale bilancia dei costi che si squilibrava di colpo verso le perdite; era convinto che la signora avrebbe stipulato il contratto, e non voleva rovinare l’immagine di fronte a un potenziale cliente, così sfoderò il suo sorriso migliore e tirò fuori il portafogli; -Mi sembra giusto.- ribatté cercando di nascondere il tremito di rabbia nella voce, -Cinque euro possono bastare?-Cinque euri ni fanno come ir cazzo alle vecchie!- affermò la gentile signora incoraggiandolo con la mano protesa.

Riccardo deglutì e guardò sconsolato la banconota da dieci che languiva solitaria nel portafogli, -È tutto quello che ho con me…ammise in tono pietoso, estraendola.

-Dà qua.- fece lei strappandogliela di mano, -Per questa volta passi.Le sorrise smorzando la voglia di strozzarla, -Per quanto riguarda 17

la soffitta, se vuole dare un’occhiata allo splendido lavoro prima di firmare il contratto…-Quale contratto?- domandò lei ghignante, facendogli precipitare il mondo addosso.

-Il contratto per l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A.- annaspò lui.

-Senti coso, c’hai messo una vita per fa’ una soffittina. E poi io l’aspirapolvere non l’ho mai usato, e mi son sempre trovata bene senza. Quindi nulla.- ribatté l’anziana.

-Ma sembrava interessata…Lei scoppiò a ridere di gusto, -De’, lo fo sempre. Vien via bellino, non hai idea di quanti venditori fanno ir viottolino qui ogni giorno: hai voglia a dinne che non vuoi comprà niente; siete duri come le pine verdi.- batté un pugno sul tavolo, -Così li fo entrà e lascio che sfoghino le ruzze come hai fatto te. Stai sicuro che poi non ripassano.- affermò annuendo compiaciuta.

-Ma…-Ma ma ma ma…- lo scimmiottò l’anziana, -Ma nulla. Ora vai, se no chiamo le guardie.Fu solo un istante, ma Riccardo si ritrovò a pensare che il collo di quella vecchia megera in fin dei conti era tanto fragile e sottile che sarebbe bastata una minima torsione per spezzarlo…

Affondando la testa nelle spalle si scostò dal tavolo, prese la sua roba e si incamminò sconsolato verso l’uscita.

-Se comunque c’hai qualche collega di cui ti vuoi vendicare mandalo pure da me…- disse la vecchia sorridendogli amabile, sprangandogli poi la porta alle spalle non appena fu fuori.

Era ad Ardenza, quartiere di Livorno a due passi dal mare: la strada punteggiata da piccole villette a schiera che si stagliavano nella serenità di un caldo primo pomeriggio di metà giugno, tralasciando un tizio che si allontanava a zigzag in bicicletta, era deserta; cercando di non pensare alla recente delusione Riccardo si voltò verso dove 18

ricordava di aver lasciato la sua.

Niente.

Guardò dalla parte opposta della carreggiata, scandagliando ogni lampione o possibile punto d’appoggio, ma della bici che utilizzava per spostarsi nessuna traccia.

Un dubbio gli artigliò il cuore: si girò di scatto verso lo sconosciuto zigzagante, che ormai si trovava bello lontano, e un grido spontaneo gli fuoriuscì dalle labbra nel riconoscere l’amata due ruote, -Oh!urlò, lasciando cadere al suolo il pacco con l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. e cominciando a correre, -Quella è la mia bicicletta!Il tizio si fermò giusto il tempo per voltarsi a guardare: Riccardo vide i vestiti trasandati, i capelli lunghi e spettinati e la barba incolta, -Le parole le porta via ‘r vento…- gli strillò quello di rimando con voce arrochita, riprendendo a pedalare più veloce, -Le bicirette i livornesi!E sparì dietro una curva.

Riccardo fece ancora qualche metro e s’arrese.

-Che giornata di merda!- esclamò, tornando sui suoi passi.

Di solito faceva buon viso a cattivo gioco, anche di fronte alle avversità più grandi, quindi cercò ancora una volta di non scoraggiarsi e di guardare al lato positivo della cosa: di certo il pomeriggio non poteva proseguire peggio.

In fondo la bici era vecchia, e anche se magari avrebbe potuto continuare ad andarci per un bel pezzo senza problemi, provò ad autoconvincersi che era giunto il momento di cambiarla.

E il polpo cucinato dalla signora in fin dei conti non era poi così male, nonostante fosse ormai freddo come il ghiaccio, e una decina di euro li valeva tutti (forse).

Adesso aveva soltanto bisogno di fare un paio di telefonate, una al suo capo per spiegargli che quel giorno non sarebbe stato in grado di finire il giro dato che era rimasto a piedi, e una per avvertire la 19

palestra che forse avrebbe fatto tardi per la pulizia settimanale, e tutto sarebbe tornato alla normalità.

Riprese l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. che lo attendeva abbandonato al suolo davanti alla casa dell’anziana e si diresse fischiettando verso l’abitazione successiva.

Un bel giardino costellato da margherite in fiore e nanetti di gesso separava la villetta dalla via; Riccardo superò un cancellino lasciato aperto e seguì il corto sentiero d’accesso fermandosi a leggere il nome stampato sulla targhetta del campanello: “Andrea Stopardi”.

Si rallegrò alla prospettiva di trattare con un uomo: poteva sembrare strano, ma era più facile che vendere un aspirapolvere a una donna; forse era dovuto al tipico rapporto di fratellanza cameratesca che si andava a instaurare quasi subito tra due individui dello stesso sesso, o magari era bravo lui a toccare i tasti giusti della fiducia; inoltre gli uomini erano più propensi ad accettare consigli da “uno di loro” in termini di cura della casa o roba del genere, le donne lo guardavano invece dall’alto verso il basso soppesando ogni minima parola.

Certo che le cose avrebbero ben presto preso la piega giusta si sistemò i vestiti, dette una bella ravvivata ai capelli e bussò al campanello.

In un primo momento non rispose nessuno; stava cominciando a demoralizzarsi dopo l’ennesima scampanellata infruttuosa, che la porta si aprì di scatto con movimento repentino e il padrone di casa apparve all’improvviso.

-Chi sei tu?- domandò sospettoso l’uomo sulla quarantina, alto e ben piazzato, con i capelli scuri lunghi fin quasi alle spalle e una leggera barbetta a velare la carnagione pallida come un cencio.

Riccardo ci mise un paio di secondi a riprendersi dalla sorpresa, ma inquadrando il soggetto incalzò prontamente, rischiando un approccio pratico, diretto: -Signor Stopardi, potrei utilizzare un 20

sorriso di circostanza, un atteggiamento accomodante e frasi tipiche da leccaculo per infiocchettarle il discorso, ma sappiamo entrambi che finirebbe per chiudermi la porta in faccia. Lei non mi sembra il tipo che perde tempo in sciocchezze, e io non lo sono di sicuro, perciò veniamo subito al dunque.- tese la mano nella sua direzione, -Mi chiamo Riccardo e vendo un nuovo tipo d’aspirapolvere in grado di facilitarle di molto la pulizia della casa; sappia che con la sua prossima risposta potremmo guadagnarci o perderci entrambi…- puntualizzò deciso, -quindi non starò qui a sforzarmi per convincerla. Se vuole le do una dimostrazione gratuita dell’apparecchio, altrimenti arrivederci.- concluse, mantenendo la mano protesa.

Poi incrociò mentalmente le dita nella speranza di non aver esagerato.

L’altro lo squadrò con sguardo torvo: sembrava tentennare…

-Nessun problema.- annunciò Riccardo ritraendo il braccio e facendo per voltarsi.

-Entra.- disse l’uomo spostandosi da parte.

In casi come quelli, quando tutto sembrava andare male e di colpo un piccolo successo bastava per far apparire le cose sotto una luce migliore, gli tornava alla mente il vecchio detto: “Sorridi, che la vita ti sorride.”

Riccardo sorrise al padrone di casa dissimulando l’entusiasmo; quindi chiese permesso e varcò la soglia.

*** C’era un fresco profumo di violetta ad aleggiare tra le mura dell’abitazione; l’ingresso era una stanzetta di passaggio arredata in modo elegante, con un paio di composizioni floreali in bella mostra su 21

di un mobiletto in legno lavorato, un attaccapanni con appeso un giacchetto nero in pelle e delle specie di piccole decorazioni a forma di cuore che penzolavano dal lampadario.

Forse lo Stopardi non era single come si era immaginato.

-Faccia strada...- lo invitò Riccardo con un affabile sorriso, vedendo che l’altro gli si era piazzato di fianco.

L’uomo sembrò tentennare un istante, poi si diresse nell’adiacente corridoio guardandosi attorno come per cercare qualcosa.

Riccardo pensò che stesse valutando la stanza da fargli pulire, e sperò con tutto il cuore che quella casa non possedesse un’altra immensa soffitta.

Avanzò fino a una porta aperta, sbirciò dentro e proseguì; lui lo seguì buttando a sua volta un occhio: era una piccola cucina ammobiliata in uno stile molto particolare, chiamato shabby chic o roba del genere, che aveva lo strano potere di richiamargli alla mente la favola di “Riccioli d’oro”; da bambino si immaginava che la casa degli orsi nella quale si ambientava la storia fosse arredata proprio a quel modo.

C’era una porta socchiusa che dava sul retro del giardino.

Lo Stopardi infilò la testa in un’altra camera e continuò lungo il corridoio; si voltò verso di lui, gli indicò una porta chiusa e disse, -Qua no. Questo è il mio studio, ed è già in ordine.- puntualizzò.

Riccardo sorrise annuendo: non gliene fregava assolutamente niente.

Finalmente l’uomo sembrò decidersi e lo fece accomodare in un salottino: l’arredamento da casa di bambole sembrava persistere anche là; ma a parte il divano trapuntato, un tavolino sistemato al centro della stanza, la libreria sormontata da soprammobili deco22

rativi di dubbio gusto e la scaffalatura del televisore non c’era altro che potesse rappresentare un problema per la sua dimostrazione.

Riccardo tirò un sospiro di sollievo senza farsi notare e poggiò la scatola con l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A., pronto a cominciare l’opera di convincimento.

-Quell’affare pulisce le macchie?- chiese di colpo l’uomo piazzandoglisi davanti.

-Certo.- gli rispose, -l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. è uno strumento all’avanguardia per la cura della casa, in grado, da solo, di svolgere ogni opera di pulizia. Il nome infatti sta per Ergonomico Quattro velocità Unico Apparecchio Lucidan…-Pulisce anche le macchie sul pavimento e sulle pareti?- lo interruppe secco l’uomo.

-Ovviamente.- affermò Riccardo.

-Anche le macchie incrostate che non vengono via con l’acqua?

Anche quelle di…- ci pensò su, -pomodoro?- continuò.

-Come se non ci fossero mai state.- lo rassicurò, aprendo la scatola che conteneva l’aspirapolvere ed estraendo lo strumento per mostrarlo in tutto il suo splendore.

Sgranò gli occhi nello scorgere una lieve ammaccatura, una specie di bozzo nel rivestimento in plastica situato poco sotto la pulsantiera; voltò l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. all’istante, augurandosi che l’uomo non l’avesse notato.

L’altro sembrava troppo occupato a guardarsi intorno, -Voglio essere sicuro che le macchie spariscano completamente.- disse, tornando a fissarlo con occhi sospettosi.

Riccardo dette una pacca affettuosa all’aspirapolvere, -E io sono a sua completa disposizione per darle una dimostrazione delle stre23

pitose qualità di questo gioiello.-Allora vado a prendere qualcosa per provare. Tu stai qui.- ordinò categoricamente l’uomo indicando il divano; poi uscì a grandi passi dal salotto.

Lo Stopardi doveva essere un tipino molto particolare, valutò Riccardo tornando a concentrarsi sull’ammaccatura: a un occhio inesperto il bozzo non era poi così evidente, e magari l’altro avrebbe firmato il contratto senza nemmeno accorgersene; premette il pulsante dell’accensione e gli si gelò il sangue nelle vene.

Niente.

Deglutì, scosse su e giù l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. come se potesse servire a qualcosa e schiacciò di nuovo il tasto.

Niente.

L’immagine di lui che faceva cadere al suolo la scatola dell’aspirapolvere per inseguire il tizio in bici gli tornò prepotentemente alla memoria.

L’aveva forse rotta?

No… afferrò il cavo dell’alimentazione elettrica e si mosse il più rapidamente possibile alla ricerca di una presa di corrente; ce ne era una dietro la libreria: attaccò la spina e tornò ad accendere l’apparecchio.

Niente.

-Cazzo.All’orizzonte non c’era solo il rischio di far sfumare la vendita, ma che il capo gli facesse pagare di tasca sua il danno o gli spezzasse direttamente le gambe.

Annaspando alla ricerca di una soluzione si spostò a sbirciare nel corridoio: un rumore di scodelle che sbattevano proveniva dalla 24

cucina mentre lo Stopardi prendeva chissà cosa per la dimostrazione.

Forse faceva in tempo a chiamare in sede per farsi spiegare come rimettere a posto l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. Certo: c’era la possibilità che il capo lo folgorasse attraverso la linea telefonica, ma di sicuro avrebbe apprezzato il suo sforzo per risolvere il problema e sarebbe stato comprensivo.

Magari una gamba sana gliela avrebbe lasciata.

E poi non poteva andare peggio di come era andata fino a quel momento.

Facendo un bel respiro sgattaiolò fuori dal salotto e si incamminò verso la porta dietro alla quale stava lo studio: là si augurava di trovare un telefono.

Se lo Stopardi l’avesse sorpreso ad aggirarsi per casa, la vecchia scusa di essersi perso mentre cercava il bagno avrebbe fatto al caso suo.

Dalla cucina giunse il rumore di un vetro che andava in frantumi, seguito da un bestemmione agghiacciante; Riccardo si augurò che l’uomo perdesse altro tempo per mettere a posto.

Poi lo sentì rivolgersi a qualcuno che non replicò; evidentemente non erano soli in casa.

Raggiunse la porta dello studio, l’aprì e si intrufolò all’interno.

La stanza era avvolta nella penombra: senza perdere tempo a cercare la luce si spostò verso una scrivania sulla quale spiccava un vecchio telefono a tamburo; alzò la cornetta, si rallegrò che la linea fosse attiva e cominciò a far scorrere la ruota dei numeri…

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- II -

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Bernardo

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-Gli avevo detto di non muoversi da lì.- affermò con rabbia Bernardo, stringendo la presa sull’impugnatura del martello.

-Gli avevi detto di non muoversi da lì.- attestò la voce dall’oscurità.

-Gli avevo detto di non entrare in questa stanza.- continuò Bernardo con sguardo fisso al venditore porta a porta crollato al suolo a faccia in giù.

-Gli avevi detto di non entrare in questa stanza.- confermò la voce.

-E ora… ha avuto quel che si meritava…- disse Bernardo, lasciando che una sfumatura d’incertezza trapelasse nel suo tono.

Dopo un lungo istante di silenzio la voce lo rassicurò: -Ha avuto quel che si meritava.Si inginocchiò accanto al corpo immobile del venditore d’aspirapolvere: nonostante la penombra, era in grado di distinguere la strana forma che aveva assunto il cranio nel punto in cui lui lo aveva colpito con forza; stando bene attento a non sporcarsi con sangue o cervella gli appoggiò una mano sul collo.

Non c’era battito.

-È morto.- constatò.

-È morto.- testimoniò la voce.

Bernardo si alzò in piedi e trasse un respiro profondo; si voltò verso l’altra figura stesa a terra: la pozza di sangue attorno alla testa della ragazza era sempre lì, in attesa che lui trovasse un modo per

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pulirla senza lasciare traccia.

-È un bel problema.- stabilì.

-No.- lo corresse la voce che proveniva dall’oscurità, mentre lo sguardo di Bernardo si spostava da un corpo all’altro, -Adesso sono due bei problemi.*** E pensare che Bernardo voleva soltanto conoscere quella splendida ragazza che lavorava alla ferramenta.

Sì: forse con lei si era comportato in modo un tantino inquietante, e il suo non poteva certo definirsi un corteggiamento per così dire “tipico”… magari seguirla di nascosto ogni giorno, nel tragitto casa-lavoro e lavoro-casa, stando bene attento che lei non lo vedesse non era stato propriamente adeguato.

E il mandarle fiori a lavoro ogni lunedì pomeriggio alle 17.00 in punto, per festeggiare il suo personale “settimaniversario” della prima volta in cui l’aveva vista servire dietro al bancone…

E telefonare al numero della ferramenta sperando che fosse lei a rispondere, per poi restare in silenzio ad ascoltarne la splendida voce…

Comunque non poteva farci niente se si era perdutamente innamorato, se la ragazza lo aveva stregato, se era stato beccato in pieno dal più potente colpo di fulmine di tutti i tempi; come diceva il famoso detto “al cuore non si comanda”, e Bernardo non stava facendo niente di male con quel particolare approccio.

Non ancora, almeno…

Aveva letto da qualche parte che quelli come lui venivano definiti Stalker.

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Bernardo non era assolutamente stupido: su Wikipedia aveva trovato una descrizione dei comportamenti perpetrati dal cosiddetto Stalker nei confronti della vittima, ed effettivamente il suo atteggiamento con la ragazza non si discostava poi tanto da quell’elenco.

“Comportamenti molesti e continui, costituiti da ininterrotti appostamenti nei pressi degli ambienti comunemente frequentati dalla vittima” ce lo aveva; “intrusioni reiterate nella sua vita privata alla ricerca di un contatto personale per mezzo di pedinamenti e telefonate indesiderate” ce lo aveva; “invio di oggetti non richiesti” ce lo aveva…

Bernardo si era sentito molto triste nel constatare che quello che lui riteneva un corteggiamento passionale e d’effetto veniva invece considerato un crimine dalla società.

Poi la voce che veniva dall’oscurità gli aveva fatto notare che i comportamenti dello Stalker, per essere considerati reato, dovevano essere protratti per un tempo di almeno sei mesi, e Bernardo facendo un rapido calcolo mentale si era reso conto che erano passati appena centosessantotto giorni, ovvero all’incirca cinque mesi e mezzo da quando aveva visto per la prima volta la sua anima gemella.

Non era colpevole di niente, se non di troppo ardore…

A quella constatazione il cuore aveva spiccato il volo, librandosi alto verso l’infinita gioia tipica degli innamorati; consapevole comunque che il tempo cominciava a stringere, e che i sei mesi ben presto sarebbero trascorsi, aveva finalmente preso la decisione di dichiararsi di persona.

A tal proposito, per valutare bene le probabili conseguenze delle sue azioni, si era raffigurato molti scenari alternativi; forse si era rivelato troppo fiducioso, o magari avrebbe potuto sforzarsi un po’ di più con l’immaginazione… fatto sta che in nessuno di quegli ottimistici sogni a occhi aperti era prevista la possibilità di un rifiuto, né che la ragazza tanto amata, nel trovarselo di colpo davanti, si

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mettesse a urlare di terrore.

Così Bernardo, preso dal panico per la reazione inaspettata, aveva seguito il consiglio della voce che veniva dall’oscurità e si era trovato a improvvisare con ciò che aveva a portata di mano…

Nello specifico un martello. *** Bernardo lasciò che il pesante martello sporco di sangue e cervella cascasse al suolo con un tonfo.

Lo aveva comprato alla ferramenta dove lavorava la ragazza la prima volta in cui si erano visti, ed era stata proprio lei a incartarglielo imprimendovi sopra il suo tocco divino.

Da allora l’aveva tenuto sempre con sé, quale memoria di un legame infinito.

Lo stringeva in mano quando, convinto di farle una sorpresa gradita, le si era intrufolato di soppiatto in casa forzando la porta sul retro, apparendole di fronte all’improvviso per confessare che l’amava più di qualsiasi altra cosa al mondo.

Pensava che riconoscendo il martello, emblema di un destino che li aveva fatti incontrare, lei avrebbe capito…

E invece era successo quel che era successo, e Bernardo era stato costretto a darle una botta in testa per farla smettere di urlare.

Forse aveva colpito troppo forte.

Era rimasto immobile a osservarla mentre si accasciava a terra esanime; mentre il sangue si riversava dalla ferita, rompendo gli argini di una testolina perfetta per andare a formare una pozza scura sul pavimento; mentre dall’oscurità la voce cavalcava l’eco dei pensieri chiedendogli incessante “che hai combinato?”

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Non se l’era sentita di toccarla; sfiorarla con le sue mani sudice da assassino avrebbe corrotto la purezza che emanava da quel corpo perfetto.

Non era degno; non dopo ciò che era stato capace di fare.

Aveva ucciso un angelo del cielo.

Non si era accorto del tempo che passava fino a quando la voce nell’oscurità non lo aveva scosso dalla stasi, incitandolo all’azione.

La voce si prendeva cura di lui e non voleva che Bernardo passasse guai.

“Ormai il danno è stato fatto: inutile piangersi addosso” diceva…

“Ora devi trovare un modo per pulire tutto” consigliava… “Adesso non commettere l’errore che fanno tutti i criminali dei telefilm, e stai bene attento a cancellare ogni prova del tuo passaggio” ribadiva.

Poi avevano suonato al campanello.

Bernardo pensava fosse il padrone di casa: magari il fidanzato di cui aveva sempre sospettato l’esistenza senza mai trovare conferma…

Nei suoi furtivi pedinamenti alla ragazza aveva preferito non spingersi troppo oltre: così in cinque mesi e mezzo era entrato in possesso di informazioni marginali e poco approfondite.

Sapeva dove abitava, ma non sapeva con chi.

Conosceva il soprannome che le avevano dato a lavoro, “Rea”, ma non il nome vero.

Immaginava fosse figlia unica, ma non ne aveva la certezza.

Questa assenza di dati però non era così negativa: Bernardo amava pensare che, una volta assieme, avrebbero avuto tutta una vita per conoscere i segreti l’uno dell’altra.

La voce nell’oscurità, comunque, gli aveva consigliato di andare ad aprire la porta senza perdere tempo.

Lui non si era soffermato a fare troppe domande: la voce aveva sempre ragione.

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Anche quella volta si era rivelata essere nel giusto…

Il venditore d’aspirapolvere che l’attendeva all’ingresso era di certo un segno inviato dal cielo.

Adesso però anche lui si trovava morto ai suoi piedi, e per giunta non aveva neanche fatto in tempo a spiegargli come usare l’aspirapolvere per eliminare le chiazze di sangue sparse in ogni dove.

Per quale accidenti di motivo si trovava in quella stanza?

Poi vide la cornetta del telefono che penzolava giù dalla scrivania.

Si spostò rapidamente ad afferrarla e la portò all’orecchio: dall’altra parte non giungeva nessun rumore.

-Pronto?- domandò.

Un secondo dopo la linea fu interrotta e si avviò il segnale di fine conversazione.

Bernardo posò la cornetta e deglutì; qualcuno era rimasto in ascolto fino a quel momento.

Qualcuno che adesso sapeva.

Il venditore d’aspirapolvere, nello scoprire il cadavere della ragazza, doveva aver chiesto aiuto.

-Forse lo hai fermato appena in tempo.- suggerì la voce dall’oscurità.

-Sì, forse l’ho fermato appena in tempo…-Ma non puoi esserne certo.- continuò convincente.

-Ma non posso esserne certo.- confermò Bernardo.

-Quindi hai due possibilità.- sentenziò la voce.

-Due possibilità.- le fece eco lui.

-O scappi prima che possano arrivare a prenderti, e quindi rinvii solo il momento in cui ti beccheranno per colpa di tutte le tracce che hai lasciato…-O scappo e mi beccheranno…- valutò insicuro.

-Oppure punti tutto sulla speranza di aver bloccato in tempo quel ragazzo,- incalzò decisa la voce, -e ti fermi a pulire questo casino

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prima di scomparire per sempre.Bernardo aveva visto in tv troppe puntate di C.S.I., Dexter, R.I.S.-Delitti imperfetti per non sapere che, prima o poi, gli investigatori della scientifica avrebbero individuato qualche prova in grado di incastrarlo.

La voce aveva ragione ancora una volta: non poteva scappare senza prima ripulire la scena del crimine.

Doveva rischiare.

-È la scelta migliore.- approvò la voce leggendogli nei pensieri.

Ulteriormente rassicurato dalla conferma, Bernardo si sentì di colpo meglio.

Trasse un profondo respiro e si guardò intorno decidendo sul da farsi.

Per prima cosa doveva trovare un modo per far sparire i corpi.

Gli serviva una sega. ***

Lacci emostatici per non sporcare troppo in giro; grossa sega per tagliare le ossa senza sforzo; bustoni della spazzatura, di quelli condominiali, per far sparire i corpi senza attirare l’attenzione.

Nella personale lista della spesa del perfetto serial killer in teoria non doveva mancare altro.

Come sarebbe riuscito a portare via i sacchi una volta pieni, e dove li avrebbe buttati, erano problemi da affrontare a tempo debito.

Prima doveva procurarsi lo stretto indispensabile.

Senza aspettare il suggerimento della voce, un’idea brillante gli illuminò la mente: per onorare la memoria della sua amata avrebbe acquistato il tutto presso la ferramenta dove lei lavorava.

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-Ne sarebbe stata felice.- annunciò compiaciuta la voce nell’oscurità.

Il negozio in questione non era troppo distante.

Bernardo lanciò un ultimo sguardo alla stanza immersa nella penombra e valutò che non sarebbe stato necessario coprire i due corpi: se davvero il ragazzo aveva fatto in tempo a chiedere aiuto, allora era inutile provare a nascondere quel che era successo.

Rischiava soltanto di peggiorare le cose.

Posò il martello sulla scrivania accanto al telefono e lasciò lo studio chiudendosi la porta alle spalle.

Andò in cucina.

C’erano i cocci di un vasetto di vetro disseminati a terra, e l’uscio che dava sul retro era ancora socchiuso: aveva dovuto forzarlo per introdursi di nascosto nella villetta, ma si era ripromesso di pagare i danni non appena ne avesse avuto l’occasione.

Adesso, purtroppo, era una preoccupazione superflua.

Si augurò soltanto che il fantomatico fidanzato della ragazza, se davvero esisteva, tornasse a casa a lavoro concluso.

Certo: nell’eventualità non gli sarebbe dispiaciuto sfondare la testa anche a lui, ma preferiva non aggiungere problemi a quelli che già aveva.

Uscì all’esterno, nel piccolo resede seminascosto dal muro di siepi che delimitava la proprietà, e lasciò che la soglia ormai forzata sbattesse senza chiudersi; ad attenderlo appoggiata al muro c’era la sua fedele bicicletta verde.

Montò in sella e, senza curarsi troppo che ci fosse qualcuno a osservarlo, oltrepassò il cancellino secondario immettendosi in strada.

In giro a quell’ora c’era poca gente: il mix “bella giornata-caldo-pausa pranzo” spingeva la maggior parte dei suoi concittadini verso il mare, a trascorrere più tempo possibile sotto il sole alla ricerca dell’abbronzatura perfetta.

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Bernardo odiava gli stabilimenti balneari, odiava gli scogli di Calafuria, odiava le spiagge di Calambrone e Tirrenia e odiava l’estate.

Il caldo gli si appiccicava addosso, i polmoni ardevano incapaci di filtrare l’arsura e si sentiva come se qualcuno lo stesse obbligando a indossare una stretta e pesante pelliccia fatta di sudore.

Pedalò il più veloce possibile, nella speranza di ottenere un po’ di refrigerio dal venticello che gli accarezzava i capelli.

Avrebbe dovuto sentirsi triste per ciò che era appena successo. In fin dei conti aveva ucciso due persone, e una di esse era colei che per mesi aveva riempito tutto lo spazio possibile del suo cuore.

Invece, stranamente, era contento.

A fare da sottofondo ai suoni della città la voce nell’oscurità continuava a tenergli compagnia.

Era bello stare solo; solo con lei, naturalmente.

In presenza di altra gente la voce stranamente si zittiva scomparendo chissà dove, per poi tornare prepotentemente a farsi sentire quando non c’era più nessuno.

Era anche per quel motivo che Bernardo aveva cercato di rinviare il più possibile il momento in cui si sarebbe dichiarato al suo amore.

Temeva che una volta che la ragazza avesse accettato, la voce lo avrebbe abbandonato per sempre.

-Non ti lascerò mai.- lo rassicurò lei, ascoltando i suoi pensieri.

-Lo so.- esclamò Bernardo, pur covando nell’anima la consapevolezza che non fosse vero: con quella scelta aveva tradito la voce; nonostante le belle parole, dubitava che potesse mai veramente perdonarlo.

Ma ora non era il momento giusto per perdersi in stupidi ragionamenti.

Svoltò l’angolo scorgendo in lontananza, sulla sinistra, le mura della caserma militare; là il traffico diventava più intenso: le macchine sfrecciavano lungo la grande strada che faceva da spartiacque tra il

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quartiere Ardenza e il quartiere La Rosa.

La ferramenta era un edificio a due piani di forma cubica, circondato da un piccolo giardino privato, che sorgeva a lato della carreggiata.

Quando i suoi occhi incrociarono le pareti bianche, il cuore di Bernardo cominciò a battere forte. Tutto aveva avuto inizio con un acquisto effettuato tra quelle mura squadrate: era giusto che terminasse allo stesso modo.

La ragazza sarebbe stata d’accordo.

Appoggiò la bici alle inferriate di fronte all’ingresso, salutando con un cenno del capo un anziano signore che, poco distante, annaffiava i fiori cresciuti nel prato del negozio.

Quello lo squadrò torvo senza ricambiare il saluto.

Facendo spallucce Bernardo s’avvicinò alla porta a vetri ed entrò.

L’interno della ferramenta era piuttosto grande: un unico stanzone al piano terra costeggiato sui quattro lati dai ripiani appesi alle pareti; al centro vi erano cinque lunghe file di scaffali, alti più o meno un metro e mezzo e zeppi di merce, che formavano delle specie di piccoli corridoi tra i vari reparti; il piano superiore era stato soppalcato con un camminamento che seguiva il perimetro dell’edificio: facevano capolino dall’alto lunghi tubi di metallo, attrezzi da lavoro e altri arnesi più ingombranti. Una mezza dozzina di clienti si trovava sulla destra, in attesa di essere servita dai due commessi al di là del lungo bancone in legno.

Notando che questi ultimi si erano voltati a fissarlo, Bernardo fece un cenno del capo anche nella loro direzione.

Ancora una volta sguardi torvi e nessun saluto.

-Non attirare l’attenzione; prendi quel che ti serve, paga e vattene.ordinò la voce nell’oscurità.

-Sì.- rispose lui.

Bernardo cominciò a girovagare tra gli scaffali in cerca degli oggetti.

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-Sega, sacchi per la spazzatura, lacci emostatici.- mormorò tra sé scrutando il primo ripiano, -Sega, sacchi per la spazzatura, lacci emostatici.- ripeté passando oltre, -Sega, sacchi per la spazzatura, lacci…-Smettila.- urlò la voce.

Bernardo alzò di scatto la testa, convinto di essere stato beccato.

Dal bancone i due commessi lo stavano ancora fissando.

-Cazzo.- esclamò a denti stretti chinando il capo; proseguì cambiando reparto, muovendosi rapidamente.

Alzò lo sguardo.

I due parlottavano tra loro continuando a mantenerlo d’occhio.

-Mi hanno beccato?- chiese Bernardo bisbigliando, fingendo di valutare un tubo di plastica per l’irrigazione.

-No.- affermò la voce, -Ma sbrigati. E non guardarli.Quel divieto fu più forte di qualsiasi invito: alzò ancora una volta la testa, preso dall’ansia che tutto potesse precipitare all’improvviso.

Uno dei due disse qualcosa nell’orecchio all’altro; poi si girò verso di lui, poggiò un oggetto sul bancone e lasciò la postazione muovendosi nella sua direzione.

Era odio quello che gli leggeva negli occhi?

-No.- digrignò la voce sondandogli i pensieri, -Mantieni la calma, e tutto andrà bene.-Cosa faccio?- piagnucolò Bernardo, incapace di ascoltare, afferrando oggetti a casaccio dagli scaffali e riponendoli subito senza nemmeno guardarli.

-Devi solo…- la voce si zittì di colpo non appena il commesso fu abbastanza vicino.

Bernardo si immobilizzò trattenendo il respiro, congelato nell’incertezza.

-Buongiorno.- lo salutò con tono neutro il ragazzo sui trent’anni

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che indossava il grembiule da lavoro, -Posso aiutarla in qualche modo?L’aria fuoriuscì dai polmoni di Bernardo attraverso una profonda espirazione; si sforzò di sorridere; -Gra… Grazie.- rispose balbettando, -Non ti preoccupare, faccio da solo…-Sono qui per questo.- annunciò il ragazzo, facendosi più vicino.

La voce gli aveva detto di sbrigarsi e non attirare l’attenzione.

Bernardo si guardò intorno spaesato, -Cercavo…- tentennò, -Mi serve una sega. Una grossa sega…Il commesso gli fece un cenno con la mano, -Prego, da questa parte.- lo invitò, -Cosa ci deve tagliare?- insinuò.

-Perché lo chiedi?- gli domandò sospettoso.

-Abbiamo vari tipi di lame, a seconda dell’utilizzo.- rispose quello, -Se mi dice a cosa le serve, posso aiutarla meglio.Bernardo trasse un altro sospiro di sollievo, -Ecco… Roba dura.prese tempo; -Tipo…- non gli veniva niente in mente di simile alle ossa, -Tipo… tipo oss… ferro.- si corresse appena in tempo.

-Ferro…- ripeté il ragazzo.

-Ferro.- confermò deciso Bernardo.

Il commesso lo condusse tra gli scaffali fino a raggiungere un altro reparto; con sguardo esperto valutò i vari attrezzi disposti sulle mensole appese al muro e afferrò una sega.

-Ecco, questa fa al caso suo.- annunciò porgendogliela.

Bernardo la prese senza nemmeno controllare.

-Poi?- chiese il ragazzo.

C’era qualcosa che non gli piaceva nel suo tono di voce: tipo una specie di ostilità tenuta repressa; Bernardo gli sorrise sforzandosi di mantenere la calma: -Mi servono dei sacchi della spazzatura grossi.disse, -Per metterci dentro il ferro dopo averlo tagliato.- s’anticipò nel caso l’altro avesse voluto sapere a cosa gli sarebbero serviti.

Il ragazzo inarcò le sopracciglia ma non fece domande, si voltò e

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proseguì verso altre scansie.

Bernardo si compiacque tra sé e sé.

-Ecco a lei.- annunciò quello poco dopo, porgendogli una confezione di buste della spazzatura semitrasparenti.

-Tutte nere ce l’hai?- domandò Bernardo.

-Certo.- annuì il ragazzo, -Quante?Fece un rapido calcolo valutando l’altezza dei due cadaveri, -Quattro confezioni.- affermò convinto.

-Poi?- tornò a domandare il commesso.

Bernardo stava per dirgli dei lacci emostatici quando qualcosa di molto simile alla voce gli lanciò un avvertimento nella mente; forse quella richiesta sarebbe suonata un tantino sospetta.

-Fascette.- chiese, ritenendo che sarebbero andate comunque bene per fermare lo scorrere del sangue, -Di quelle che si stringono attorno alle cose. E basta.Il ragazzo lo servì ancora una volta, senza indagare oltre; quindi lo invitò a raggiungere il bancone e restare in attesa per il conto.

Bernardo era euforico.

Seguendo a debita distanza l’altro, che tornava verso la sua postazione, sentì di nuovo la voce nell’oscurità: -Ben fatto.- esclamò compiaciuta.

-Grazie.- rispose.

-Non c’è di che.- gli fece eco il commesso.

Raggiunse la fila di persone, ormai ne erano rimaste solo due, e si mise ad aspettare il suo turno con la merce stretta tra le braccia.

Tutto sembrava procedere al meglio.

Avrebbe pagato, lasciato una mancia al commesso tanto gentile, salutato con garbo e sarebbe uscito dal negozio.

Poi avrebbe preso la bicicletta e…

Nel voltarsi verso la porta a vetri, in direzione della bici appoggiata all’inferriata esterna, vide un uomo intento a montarci sopra.

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Vestiti trasandati, capelli lunghi e spettinati, barba incolta… e gliela stava palesemente portando via.

-Ti sta rubando la bicicletta!- lo avvertì la voce nell’oscurità.

-Mi sta rubando la bicicletta!- urlò Bernardo, catalizzando l’attenzione di tutti i presenti.

Poi si mise a correre verso l’uscita, nella speranza di acciuffare il ladro e fargliela pagare.

Alle sue spalle sentì il commesso gridare: -Fermatelo!Superò la porta a vetri che s’aprì con eccessiva lentezza e fu all’esterno.

Il ladro di biciclette stava già pedalando a tutta velocità nel traffico; strombettii nervosi di clacson accompagnavano il suo zigzagare incosciente tra le auto.

Bernardo fece qualche metro avanti superando il giardino della ferramenta.

Sentì il rumore elettronico dell’uscio alle sue spalle seguito da un altro grido: -Fermati, oh stronzolo!Si voltò giusto in tempo per vedere il giovane commesso che usciva a sua volta dalla ferramenta; sembrava avercela proprio con lui.

Sì: era odio quello che adesso gli leggeva negli occhi.

-Sanno quello che ho fatto!- esclamò Bernardo, vedendo che il vecchio intento a bagnare i fiori là vicino alzava minaccioso l’innaffiatoio di metallo al cielo.

-Scappa. Fai presto!- gridò la voce, togliendogli ogni dubbio.

E Bernardo scappò, stringendosi al petto la sega e tutto il resto. ***

Corse lungo la grande strada allontanandosi in direzione opposta alla casa della ragazza, sperando che così facendo sarebbe riuscito a

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disorientare il suo inseguitore.

Il giovane non mollava, ma non doveva essere molto allenato.

Bernardo correva incitato dalle urla della voce: -Vai, vai, vai!-, consapevole che il suo futuro dipendeva da quella fuga.

Si voltò e vide che il commesso perdeva terreno; -Gira adesso.- ordinò la voce.

Lui obbedì senza pensare, svoltando di colpo a sinistra a un incrocio; una signora di mezz’età che portava a spasso il cane fu travolta dalla sua fuga disperata.

Bernardo quasi non sentì l’urto dei due corpi; vacillò riuscendo a non perdere l’equilibrio e proseguì senza curarsi della donna che capitombolava a terra.

Si voltò ancora: in lontananza il ragazzo si era fermato ad aiutare la signora; altri sembravano essersi avvicinati per sincerarsi delle sue condizioni.

-Gira qua. Ora!- comandò la voce, sovrastando l’abbaiare del cane ormai distante.

Bernardo superò di corsa la carreggiata e si infilò in un’altra via.

Proseguì cambiando direzione più e più volte, controllando che nessuno lo stesse inseguendo fino a che la voce non gli consigliò di tornare alla villetta per concludere il lavoro.

E soprattutto per scoprire se qualcuno, nel frattempo, non si era presentato a controllare.

Scordandosi completamente della bicicletta rubata riprese a camminare a passo svelto, tirando il fiato, in direzione della casa.

La via principale sembrava tranquilla e silenziosa come l’aveva lasciata: nessuno a giro e niente di sospetto.

Solo una Mini Cabrio di colore giallo acceso, parcheggiata poco più avanti del cancello d’ingresso, differenziava lo scenario da quello dei suoi ricordi.

Bernardo aggirò il giardino in cui spiccavano i nanetti di gesso e

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raggiunse la stradina sul retro.

Il cancellino era ancora socchiuso; in giro nessuna traccia dei carabinieri.

Restò in silenzio soffermandosi ad ascoltare.

Nessun pianto straziante o esclamazione sconvolta giunse al suo orecchio.

-È andata bene.- attestò la voce.

-È andata bene.- ripeté sollevato Bernardo.

-Adesso entra a finire il lavoro.- continuò lei con tono dolce, -Poi tutta questa storia diventerà un brutto ricordo, e saremo di nuovo soli io e te.Bernardo sorrise, -Sì.- esclamò riconoscente.

Si infilò nel resede; il vento doveva aver fatto muovere la porta che dava sulla cucina: l’uscio sembrava più aperto di quanto ricordasse.

-È stato il vento.- assicurò la voce nell’oscurità, dando conferma ai suoi pensieri.

Bernardo l’ascoltò ed entrò in casa, troppo sollevato per muovere obiezione.

Dentro, naturalmente, non c’era nessuno.

-Visto?-Avevi ragione, come sempre…La voce non sbagliava mai.

Lasciò la sega e le altre cose sul tavolo; poi chiuse la porta e vi appoggiò contro una sedia affinché non si aprisse facilmente; armeggiò un po’ per sincerarsi della fattibilità della cosa, dato che non aveva altro modo per bloccarla.

Sembrava a posto.

Sbirciò dall’occhiello di vetro incassato nel legno per controllare che nessuno l’avesse seguito…

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- III -

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Carlo

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Quando una giornata cominciava male, di solito tendeva a finire peggio.

Carlo ne aveva la dimostrazione proprio sotto agli occhi.

L’uomo alto era accasciato al suolo, pigiato contro la porta in modo scomposto; lo sguardo vacuo fissava il niente, la bocca era storta in un grido muto.

La testa del martello aveva colpito con così tanta forza il cranio da essere rimasta incastrata nell’osso: il manico in legno si era trasformato in una specie d’antenna piantata nella tempia deformata del cadavere.

C’erano sangue e pezzi di roba molliccia sparsi un po’ ovunque.

Quando una giornata cominciava male…

-Oggi il mare me lo scordo.- sbuffò Carlo, spazientito. *** Carlo era il titolare della “E.Q.U.A.L.A.M.D.A. Vendite”, aveva trentacinque anni, era alto un metro e cinquantadue, mostrava una calvizie incipiente ma, cosa più importante di tutte, come 54

massimale alla panca piana alzava centoquarantotto chili.

Chi lo conosceva lo chiamava “Favollino”, a rievocare il fatto che per struttura fisica assomigliasse a un granchio in miniatura, ed egli faceva di tutto al fine d’esaltare quel soprannome non proprio lusinghiero.

Anzi, per qualche strano motivo che nessuno riusciva a comprendere ne andava addirittura fiero: per lui il girare in strada indossando unicamente canottiere di colore acceso capaci di mettere in mostra l’importante muscolatura, o short attillati in grado d’evidenziare quello che amava definire “il bimbo”, era un marchio di fabbrica per distinguersi rispetto alla massa.

Un uomo di un metro e cinquanta, vestito a quel modo e con la stessa prestanza fisica di un mini Mister Olimpia effettivamente non passava mai inosservato.

Non gli interessava che qualcuno potesse considerarlo ridicolo; quanti si azzardavano a esternare commenti denigratori in sua presenza di solito finivano all’ospedale con le ossa rotte, e Carlo non vedeva l’ora di trovare un pretesto per poter menare le mani.

“Non è importante quanto sei grosso”, ripeteva sempre prima di una rissa, quando con disprezzo gli facevano notare d’essere alto come un tappino di bottiglia, “l’importante è quanto sei cattivo”.

E poi giù botte da orbi, perché cattivo lo era davvero.

Maniere spicce, discorsi chiari, pugno di ferro, nessuna mezza misura.

E un ego inversamente proporzionale alla sua stazza.

Forse erano stati gli anni in riformatorio, o il breve periodo trascorso in carcere ad averlo indurito; magari, semplicemente, gli piaceva essere così.

Da quando era tornato a essere un uomo libero aveva fondato l’E. Q.U.A.L.A.M.D.A. Vendite e ufficialmente si era infilato nei pan-

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ni dell’onesto imprenditore.

Credeva veramente nelle potenzialità dei suoi Ergonomici - Quattro velocità - Unici - Apparecchi - Lucidanti - Aspiranti - Multifunzione - Detergenti - A silenziatore musicale; quella che inizialmente doveva rappresentare soltanto uno specchietto per le allodole, una facciata di rispettabilità, era diventata per lui qualcosa più di una semplice attività commerciale: era diventata un’ossessione.

I suoi gioielli non erano semplici apparecchi elettronici, non erano miseri aspirapolvere, non erano banale merce in vendita: erano il futuro.

Purtroppo le persone non sembravano abbastanza intelligenti da capire quel piccolo concetto, così l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. stentava a decollare sul mercato. Pochi contratti firmati significava scarsi guadagni; scarsi guadagni significava incapacità di pagare i fornitori; incapacità di pagare i fornitori significava impossibilità d’investire sul prodotto.

E impossibilità d’investire sul prodotto significava nessun futuro per i suoi sogni.

Non era pensabile.

Per far quadrare i bilanci in rosso dell’azienda, e per mantenere il discreto tenore di vita al quale si era ormai abituato, Carlo aveva tenuto contatti con alcune persone conosciute in carcere: cercando di non attirare l’attenzione delle forze dell’ordine portava avanti un’attività parallela ben più remunerativa dell’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. Vendite.

Lo spaccio di stupefacenti.

Quel pomeriggio si trovava con il suo amico Habib, un extracomunitario tunisino sistemato a Livorno ormai da tempo, incontrato anni prima attraverso conoscenze comuni e diventato per lui un punto di riferimento per qualsiasi attività più o meno illecita

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sul territorio.

Habib gli aveva portato un enorme panetto di fumo, prima qualità a sentirlo parlare, e i due ne stavano trattando l’acquisto in un luogo appartato dove erano soliti incontrarsi: sotto al cavalcavia tra le vecchie terme abbandonate e la stazione dei treni.

Era stato allora che, attraverso il trasferimento di chiamata impostato sul cellulare, Carlo aveva ricevuto la telefonata del suo dipendente Riccardo.

In principio, quando l’altro gli aveva riferito dei problemi occorsi al prezioso E.Q.U.A.L.A.M.D.A., Carlo aveva perso la testa e si era messo a urlare, sovrastando di rabbia le parole del ragazzo.

Aveva capito che qualcosa non andava, e attraverso un notevole sforzo si era imposto di calmarsi e restare in ascolto: c’era stato un tonfo seguito da un grido strozzato all’altro capo, e il cozzare ripetuto di un oggetto che sbatteva (forse il telefono stesso che cadeva a terra).

Poi silenzio, ma solo per poco.

Un uomo, a poca distanza dall’apparecchio ancora in linea, pronunciava delle frasi: era una voce in sottofondo, che poneva domande e si forniva risposte apparentemente da sola; non era tanto vicina da risultare chiara, ma Carlo aveva colto abbastanza da quel dialogo a senso unico per riuscire a farsi un’idea di quanto fosse appena successo: qualcuno aveva ucciso Riccardo per rubare il prezioso E.Q.U.A.L.A.M.D.A. Aveva chiuso la conversazione quando l’uomo si era accorto di essere ascoltato.

Senza stare a contrattare oltre sul prezzo del fumo, preoccupato unicamente della sorte del suo gioiello, aveva messo una busta piena di soldi in mano ad Habib; l’amico tunisino aveva accettato di buon grado, gli aveva lasciato il grosso panetto dentro una borsa e

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si era accomiatato consigliandogli di telefonare in caso di problemi.

A quel punto Carlo aveva raggiunto la sua Mini Cabrio gialla e si era messo in viaggio verso la posizione indicata da Riccardo prima di morire.

Via Ulvi Liegi si trovava nel quartiere Ardenza: le numerose villette immerse nel verde di giardini ben curati, probabilmente, erano abitate da persone benestanti.

A Carlo quella cosa lo aveva fatto incazzare di brutto.

Che senso c’era nell’andare a vendere un apparecchio per la pulizia della casa a qualcuno che, come minimo, poteva permettersi di pagare altri per farlo al posto suo?

Il vero problema dell’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. era che veniva proposto da venditori inetti, incapaci di percepire a fondo ogni minima sfaccettatura dell’eccezionale prodotto affidato loro: era importante immedesimarsi nella dimensione E.Q.U.A.L.A.M.D.A. per poterla trattare al meglio, per risultare convincenti e persuasivi con il cliente, per puntare dritti al bersaglio e concludere un contratto.

Carlo non si stancava mai di ripetere che bisognava credere nell’E. Q.U.A.L.A.M.D.A. per far sì che anche altri credessero in esso.

Mentre cercava parcheggio nei pressi del civico giusto si era riproposto di chiarire bene le cose con Riccardo, qualora l’avesse trovato ancora vivo: una gamba spezzata avrebbe reso più convincente la ramanzina.

La villetta in questione era circondata da un giardino costellato da margherite in fiore e nanetti di gesso sparsi un po’ ovunque; Carlo, portandosi dietro per sicurezza la borsa piena di fumo, aveva superato il cancello distogliendo lo sguardo dalle piccole statuette disposte qua e là: per qualche strano motivo che non aveva mai compreso, i nani da giardino lo inquietavano.

C’era scritto “Andrea Stopardi” sul campanello.

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Comunque in casa sembrava non esserci nessuno; aveva bussato più e più volte senza ottenere risposta, e dalle finestre del piano terra non era riuscito a vedere all’interno.

Così aveva fatto il giro della proprietà finendo per scoprire il resede sul retro e la porta lasciata socchiusa.

Era stata forzata.

Senza perdere tempo in tergiversazioni inutili era entrato per controllare cosa fosse accaduto, cominciando a esplorare l’abitazione apparentemente deserta.

Aggirandosi guardingo nelle stanze silenziose aveva finito per scoprire il fattaccio: un prezioso E.Q.U.A.L.A.M.D.A. si trovava abbandonato in mezzo al salotto, senza che nessuno fosse presente a controllarlo. Già di per sé quella era una cosa inconcepibile; ma quando Carlo aveva notato l’ammaccatura nella scocca in plastica del rivestimento, e appurato che l’apparecchio non funzionava, aveva perso il controllo.

Qualcuno l’avrebbe pagata cara…

Dato che di Riccardo non c’era nemmeno l’ombra, e che nessuno era là per risarcirlo, Carlo si era deciso a fare da solo.

Aveva cominciato a girare per casa alla ricerca di oro, gioielli, soldi, tablet, cellulari o qualsiasi cosa avesse potuto compensare anche solo in minima parte l’enorme danno che gli avevano causato.

Si era trasformata in una questione di principio: il prezzo di mercato dell’E.Q.U.A.L.A.M.D.A. a quel punto non importava più; c’era da tener di conto anche dei danni morali, del tempo perso, della benzina, dell’inflazione, della crisi…

E poi era entrato nello studio.

E aveva visto i corpi.

E il sangue…

Impietrito a osservare i due cadaveri stesi nella penombra aveva

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sentito dei rumori arrivare dalla cucina.

Sembrava che qualcuno parlasse da solo.

Non c’era stato tempo per pensare: i suoi occhi avevano scandagliato oltre il buio in cerca di una soluzione.

Sulla scrivania, proprio di fronte a lui, c’era un grosso martello… *** Quando una giornata cominciava male, di solito tendeva a finire peggio.

Ma Carlo aveva appena massacrato a colpi di martello un perfetto sconosciuto, era in possesso di una borsa piena di droga, nella stanza accanto c’erano altri due cadaveri (uno era pure un suo dipendente) e, come ciliegina sulla torta, gli avevano rotto un E. Q.U.A.L.A.M.D.A. Difficile credere che potesse peggiorare.

Era veramente finito in un fottuto casino.

Con gli occhi fissi sul morto cercò di riflettere.

Presto o tardi qualcuno avrebbe trovato i corpi; e anche se fosse riuscito a sgattaiolare via di nascosto, cancellando ogni minima traccia del suo passaggio, la polizia avrebbe scoperto che Riccardo lavorava per lui.

A quel punto sarebbero giunti a fare domande: magari, con un po’ di fortuna e qualche piccolo accorgimento, poteva sfangarla senza che l’associassero all’omicidio del tizio (anche se, con tutte le diavolerie che usavano per analizzare le prove, non si riusciva mai a stare tranquilli), ma di certo avrebbero ficcato il naso nei suoi affari, e da lì a scoperchiare il traffico di droga il passo era breve.

Carlo era già stato dentro per spaccio di stupefacenti, e un’altra condanna per recidiva era l’ultima cosa che desiderava: alle “Su-

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ghere”, il carcere di Livorno, si era fatto un po’ di amici, ma non ci teneva a rincontrarli tanto presto.

Per uscire pulito da quella situazione c’era solo una cosa da fare: la sega che adesso si trovava abbandonata sul tavolo della cucina lo convinse che il tizio ormai morto fosse giunto alla medesima conclusione.

Doveva fare a pezzi i cadaveri per portarli via da lì più facilmente; poi il suo amico Habib l’avrebbe aiutato a farli sparire.

Stando bene attento che nessuno lo notasse uscì sul retro e fece il giro della casa, tornando a passo spedito alla macchina.

Per strada non c’era anima viva.

Meglio così.

Prese il cellulare lasciato nel portaoggetti, afferrò una piccola cassetta degli attrezzi utilizzata per le riparazioni superficiali agli E. Q.U.A.L.A.M.D.A. e fece il tragitto inverso rientrando dalla cucina.

Chiamò Habib.

Il telefono squillò a vuoto per pochi secondi.

-Amico mio, qui parla Habib.- rispose poi il tunisino, con quella buffa inflessione della voce, -Dici me.Carlo tagliò corto, -Ricordi quando mi hai detto di chiamarti in caso di problemi? Ne ho tre belli grossi.-Hai problema? Niente problema. No problema!- rispose Habib, -Se no piace fumo, tu no preoccupa. Io porto cocaina, eroina…-Ma quale fumo Habib… fammi ragionà.- sbottò lui, -C’hai modo di far sparire dei sacchi pieni di roba? Sparire per sempre, intendo.-Che roba?- chiese l’altro, -Anzi no.- si corresse, -Tu no preoccupa.

Niente problema. No problema! Habib fa.Carlo si sentì sollevato, -Bene.- esclamò, -Ma è roba grossa; non voglio si sappia in giro.-

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-Niente problema. No problema!- cantilenò l’altro con lo strano accento.

-E va fatto oggi.- incalzò.

-No preoccupa. Habib fa. Dove sei, io venire ora.-No, ora no.- fece Carlo buttando un occhio al cadavere dell’uomo alto, -Devo… devo ottimizzare lo spazio. Facciamo tra due orette al solito posto?Il tunisino restò in silenzio pochi istanti, -Questo è problema…

Quattro ore?- rilanciò.

-Aggiudicato. Ci vediamo lì.- concluse Carlo soddisfatto, chiudendo poi la telefonata senza attendere risposta.

Posò il cellulare su un ripiano e si soffermò a studiare l’attrezzatura portata là dallo sconosciuto.

La sega era bella grossa, sembrava perfetta per il compito, e i sacchi della spazzatura sarebbero bastati quasi sicuramente a contenere i tre corpi fatti a pezzi. C’erano anche delle fascette in plastica, di cui ignorava l’utilità.

Quattro ore erano un mucchio di tempo: forse riusciva persino a dare una controllata all’E.Q.U.A.L.A.M.D.A.; se fosse riuscito ad aggiustarlo, gli avrebbe fatto comodo per pulire il casino che sarebbe venuto fuori a fine lavoro.

Studiò la cucina e spostò di lato tavolo e sedie per creare uno spazio abbastanza ampio.

Aprì la busta dei sacchi e ne prese uno; stando attento a non strapparlo tagliò un’estremità e creò una specie di larga tovaglia di plastica; ne prese un altro e ripeté l’operazione, stendendo poi i due teli al suolo.

Non sembrava così difficile.

S’avvicinò al cadavere, l’afferrò per i piedi e lo trascinò con una certa difficoltà fino alla copertura.

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Valutò se togliere i vestiti al corpo, poi ci ripensò.

Ma gli venne in mente che per non sporcare i propri forse gli sarebbe convenuto spogliarsi.

Qualche istante dopo si trovava in piedi davanti alla sala operatoria improvvisata, nudo come mamma lo aveva fatto, il “bimbo” all’aria e la sega stretta nella mano.

Aggiustò la presa sul manico dell’attrezzo, quasi a riflettere su quel che si stava apprestando a fare.

Scrollò le spalle: c’era sempre una prima volta per tutto.

Si inginocchiò a fianco del morto, e cominciò a segare. *** Carlo non avrebbe mai immaginato che fare a pezzi un corpo potesse richiedere una simile fatica.

Aveva passato il tempo segando arti alla ricerca del modo migliore per sezionare il cadavere: sudando come un porco immerso nell’icore e in brandelli di carne, tendini sfilacciati, pezzi di muscolo strappati a forza quando la sega sembrava non bastare.

Il sangue era ancora caldo: gli si appiccicava addosso imbrattandogli la pelle nuda, scivolando giù lungo le braccia, macchiandogli la faccia.

A tratti ne sentiva il sapore sulle labbra.

La cosa peggiore in assoluto, però, era il rumore della lama che intaccava le ossa.

Non era mai stato un tipo facilmente impressionabile; ma per un paio di volte aveva avvertito i conati salirgli su lungo la gola, ed era stato costretto a fermarsi per non vomitare e rendere il tutto ancora più disgustoso di quanto già fosse.

Non era affatto facile come pareva nei film horror.

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Le braccia le aveva tagliate in tre parti: all’altezza delle mani, del gomito e della spalla.

Le gambe avevano subìto il medesimo trattamento, con la divisione piedi, stinchi, cosce.

Poi era toccato alla testa, e a quel punto aveva rischiato di mollare.

Mentre la sua mano premeva sulla fronte, la sega aveva fatto avanti e indietro incidendo il collo dello sconosciuto: un movimento costante, continuo, accompagnato dal rumore di qualcosa di flaccido che si stracciava fino a che la lama non era arrivata a contatto con l’osso, cominciando a rosicchiare.

Però Carlo non aveva visto niente di quella specifica operazione, poiché i suoi occhi erano stati irrimediabilmente attratti da quelli ancora aperti, vacui, del cadavere: era finito in una sorta di trance.

Sapeva che sarebbe bastato chiuderglieli per interrompere il vincolo macabro, ma non era riuscito a farlo.

Non aveva neanche provato.

Ipnotizzato dallo sguardo fisso del morto aveva continuato a tagliare, e tagliare, e tagliare fino a che il pavimento non aveva opposto resistenza.

La testa si era staccata con un ultimo strappo finale, e il sortilegio era cessato.

Aveva guardato l’orologio: era passata un’ora, e ne mancavano ancora altre tre.

Si era sentito completamente svuotato da qualsiasi energia; sia fisica, che psichica.

Il tempo passava veloce.

Dopo una brevissima pausa, giusto per togliersi di dosso la maggior parte dello schifo e bere un bicchier d’acqua, Carlo era andato nello studio e aveva afferrato il corpo senza vita di Riccardo, trascinandoselo a fatica fino a quello che ormai era diventato un macello.

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Le braccia gli facevano male, i muscoli bruciavano per il continuo andare avanti e indietro senza sosta della sega e lo stomaco ribolliva di bile.

Quella volta aveva chiuso le palpebre al cadavere prima di cominciare.

Poi si era rimesso a lavoro.

Non era stato più facile: anzi…

Al termine di un’altra estenuante ora di smembramenti aveva capito che non sarebbe stato in grado di continuare oltre. Almeno non per il momento.

Aveva ficcato i pezzi dei due uomini riempiendo una mezza dozzina di sacchi della spazzatura, contemplando quindi lo scempio che si era lasciato dietro nella cucina.

Nonostante la copertura improvvisata, c’era sangue dappertutto.

Mancavano ancora un paio d’ore all’appuntamento; ripromettendosi di finire in un secondo momento con la donna, dato che di sicuro non sarebbe scappata da nessuna parte, aveva preso la piccola cassetta degli attrezzi e si era messo a controllare l’E. Q.U.A.L.A.M.D.A. abbandonato in salotto.

Il guasto era una cosa da nulla: un cavetto si era semplicemente staccato sotto la scocca di plastica del rivestimento esterno. Il familiare ronzio aspirante del suo gioiello, almeno, gli aveva ridonato un po’ di buonumore.

I tre quarti d’ora seguenti erano trascorsi mettendo alla prova tutte le straordinarie qualità dell’apparecchio: aveva pulito nello studio, evitando di toccare il corpo della donna per non lasciare prove, e poi era passato a sistemare la cucina.

Adesso si trovava in un locale splendente, molto più lindo di quando c’era entrato la prima volta, senza alcuna traccia del sanguinoso mattatoio in cui l’aveva ridotto.

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Al pensiero che quel miracolo era stato compiuto dal suo E. Q.U.A.L.A.M.D.A. il cuore gli traboccava d’orgoglio.

I sacchi neri lo attendevano vicino la porta; chissà se sarebbero entrati tutti nel piccolo bagagliaio della Mini.

Aveva più di un’ora prima dell’incontro con Habib; decise di portare con sé solo i pezzi dei due uomini, e di tornare eventualmente in seguito per completare il lavoro con la donna.

Era un rischio che poteva prendersi senza troppi pensieri: facendo sparire il suo dipendente, e l’uomo che aveva ammazzato a colpi di martello, non c’era più niente che lo collegasse a quel luogo.

Se anche qualcuno avesse trovato il cadavere della ragazza, sarebbe stato impossibile risalire a lui.

Per togliersi lo schifo di dosso andò in bagno e usò uno straccio e acqua bollente; non gli importava di ustionarsi: per quanto fosse rovente, era comunque preferibile alla sensazione del sangue caldo che gli schizzava sulla pelle.

Quello era un qualcosa che non avrebbe dimenticato mai più.

Quando si sentì pronto afferrò i primi due sacchi e cominciò a trasportare i pezzi d’uomo verso la Mini.

Tutto procedeva al meglio: per qualche ragione riconducibile di sicuro alla bella giornata, per strada non c’era ancora nessuno.

Carlo sospirò al pensiero di essersi perso preziose ore di mare.

Come molti suoi concittadini, il crogiolarsi al sole rischiando l’ustione e sfidando i tumori della pelle al fine di raggiungere l’abbronzatura perfetta era un qualcosa di imprescindibile. L’aver mancato l’appuntamento quotidiano, con la conseguente e inevitabile perdita di colorito, contribuiva a rendere più fosca la situazione.

Sotto sotto sapeva che era un’esagerazione bella e buona: come poteva “scolorirsi” in così poco tempo? Ma la logica faceva a cazzotti

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con le abitudini, e già al solo pensarci si sentiva più pallido.

E più nervoso.

Evitò di guardarsi le braccia nude per non rischiare paragoni pericolosi.

Cercando comunque di non dare nell’occhio, trasbordò le prime due buste nere nel piccolo bagagliaio dell’automobile.

Era ottimista: forse, con un po’ di sforzo, sarebbe riuscito a infilarcele tutte senza doverle spostare davanti in bella vista.

Ripeté l’operazione con altre due, cercando il modo migliore per liberare spazio incastrando le membra mozzate tra loro.

Quando toccò alle ultime, accadde il disastro.

La quinta sacca entrò senza troppi problemi; per la sesta dovette spingere, spostare di lato, mettere da parte.

Non voleva proprio saperne d’infilarsi tra le altre. Stava per arrendersi, propendendo per appoggiarla sul sedile posteriore, quando un lembo della plastica s’impigliò.

Strattonò senza pensarci, e la borsa si strappò senza nemmeno far rumore.

Prima un avambraccio precipitò sulla carreggiata con un tonfo sordo che sembrò echeggiare nel silenzio; Carlo, sgomento, provò a trattenere il resto stringendo a sé la busta; -Cazz…- digrignò tra i denti.

Una mano scivolò a terra; poi un polpaccio la seguì, rotolando per qualche tratto lungo la strada.

Perse la presa sull’estremità del sacco, ormai privo di buona parte del contenuto, e pezzi d’uomo macellato rovinarono al suolo macchiando irrimediabilmente di sangue l’asfalto.

Restò immobile, colpevole, quasi fosse un fuggitivo al buio inondato dall’abbagliante cono di luce di un riflettore, in attesa che un

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grido d’allarme rompesse la quiete.

Niente.

L’urgenza prese il posto del timore e l’istinto di sopravvivenza di Carlo dette una scossa al cervello facendolo ripartire.

Chiuse il bagagliaio di schianto, senza preoccuparsi dei sacchi all’interno, e si catapultò a raccattare i macabri resti disseminati al suolo.

Si chinava e li afferrava uno alla volta: stringeva a sé piedi, mani, braccia nella speranza che da lontano nessuno distinguesse il suo orrendo raccolto.

Aprì lo sportello e gettò il tutto dentro alla rinfusa, sui sedili posteriori della Mini; poi provò a coprire quella roba alla bell’e meglio usando i brandelli del sacco di tela.

Alla fine, tirando il fiato per l’agitazione, si guardò attorno ancora una volta.

Era un miracolo, ma sembrava che nessuno l’avesse notato.

La sua canottiera verde fosforescente, sul davanti, adesso era completamente imbrattata di sangue.

Chiuse l’auto, augurandosi che il cumulo seminascosto sul retro non attirasse sguardi indiscreti, e s’incamminò a passo rapido verso la villetta.

Appena dentro lavò la maglietta con foga, strizzandola più e più volte per farla asciugare un minimo; le macchie diventarono dei patacconi scuri sul cotone raggrinzito.

Valutò che potessero essere scambiate per qualsiasi cosa, magari sugo di pomodoro…

Pareva accettabile.

Con i battiti del cuore ancora a mille indossò la canottiera umida, afferrò l’E.Q.U.A.L.A.M.D.A., la cassetta degli attrezzi e la borsa piena di droga; ci infilò dentro il martello usato per uccidere lo

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sconosciuto, dette un’ultima occhiata alla stanza e lasciò la casa per tornare all’automobile. *** Carlo non era mai stato un autista ligio al codice della strada.

Ma quel giorno stette attento a ogni segnale di stop, a ogni precedenza, a ogni passante che pareva propenso ad attraversargli la via. Sull’Aurelia, la grande strada di cemento che tagliava in due Livorno facilitando gli spostamenti da un capo all’altro della città, si beccò una quantità di strombazzate e offese gratuite solo per aver mantenuto il limite di velocità, ed essersi fermato al giallo dei semafori.

Ogni volta che un clacson gli inveiva contro doveva sforzarsi per mantenere la calma: normalmente, in una situazione di simile bullismo stradale, avrebbe inchiodato, sarebbe sceso dalla vettura bloccando il traffico e avrebbe lasciato che a chiarire la questione fosse la legge del più forte.

Ma non poteva arrischiarsi d’attirare l’attenzione, non con tutta la roba che si portava dietro, così si era limitato a stringere la presa sul volante immaginando di avere per le mani il collo di qualche stronzo.

Era frustrante, ma non poteva permettersi di fare diversamente: sentiva la rabbia crescergli dentro a ogni minuto che passava; ben presto, però, Habib l’avrebbe aiutato a liberarsi dei cadaveri, e tutto si sarebbe risolto.

Pensava a quelle cose, fermo in attesa all’ennesimo semaforo, quando una botta di clacson squillante alle sue spalle lo fece trasalire; sentì il rumore di un motore che andava su di giri e la Golf nera

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dietro di lui che sterzava bruscamente affiancandolo sulla destra, montando sul marciapiede per superarlo. L’autista, nel passargli a fianco continuando a premere sul clacson, gli urlò: -Svegliati, nano di merda!-; poi svoltò in direzione della stazione.

Era verde.

Carlo fece appello a ogni briciola del proprio istinto di sopravvivenza per non mettersi a inseguire la macchina; dare di matto in quell’occasione non era consigliabile.

Ma si appuntò mentalmente la targa.

Prima che qualcun altro potesse mettergli fretta, accelerò e girò a sua volta.

Aveva bisogno di rilassarsi.

La tensione lo portava a mordersi di continuo il labbro inferiore, rievocando una specie di tic di quando era ragazzino.

Raggiunse il luogo dell’incontro e parcheggiò sotto al cavalcavia vicino alla stazione dei treni, in un punto isolato e fuori vista.

Guardò l’orologio: erano le diciotto e venti, e lui era in anticipo di circa tre quarti d’ora.

La consapevolezza che avrebbe dovuto attendere con le mani in mano fu l’ennesima goccia in un vaso al limite della capienza.

Carlo odiava aspettare, soprattutto con il nervoso che gli bruciava lo stomaco e gli faceva riemergere quegli odiosi tic.

Pensò che avrebbe potuto ascoltare un po’ di musica, o chiamare Habib per sollecitarlo a raggiungerlo.

Si girò più volte a controllare se la copertura improvvisata riuscisse a tenere nascosti i pezzi di corpo sparsi qua e là, rendendosi conto che il sangue avrebbe irrimediabilmente impregnato i sedili posteriori dell’amata Mini.

Guardò il meteo attraverso il cellulare, e scoprì suo malgrado che per i giorni successivi era previsto un peggioramento delle condi-

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zioni climatiche.

Niente mare per un po’, quindi…

Inconsciamente gli scappò l’occhio sulle braccia abbronzate, e gli parve che stessero già scolorendo.

Sbuffò: sembrava che ogni minimo evento di quella giornata congiurasse contro di lui per farlo incazzare.

Dopo cinque minuti d’attesa, capì che a stare fermo lì sarebbe impazzito.

Gli era venuta in mente un’idea che avrebbe contribuito, almeno in parte, ad allentare la tensione.

Girò la chiave nel quadro, fece retromarcia e imboccò la strada diretto verso l’Ipercoop: l’enorme centro commerciale situato a poche centinaia di metri dietro la stazione. *** Condusse la Mini fino al parcheggio coperto dell’Ipercoop, quasi deserto rispetto a quello esterno, lasciandola in un punto non troppo in vista e controllando che attraverso i vetri non si notasse niente di sospetto; aveva utilizzato un paio di sacchi neri per celare gli arti mozzati sul sedile posteriore.

Sembrava ok.

Mise il cellulare e il portafogli in un marsupio che teneva a mo’ di cartucciera, e si incamminò verso i negozi del piano superiore.

Poteva sembrare una pazzia, ma in fin dei conti quante possibilità c’erano che qualcuno andasse a ficcare il naso proprio nella sua automobile? Avrebbe sicuramente attirato più l’attenzione appartato sotto al cavalcavia, fermo in modo sospetto in un punto tanto isolato.

La borsa contenente il fumo l’aveva lasciata assieme ai cadaveri: se

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avessero trovato quelli, la droga sarebbe risultata l’ultimo dei suoi problemi.

Sentiva davvero il bisogno di rilassarsi; era stata una giornata tremenda, e aspettare ancora senza far niente, con la mente puntata alle preoccupazioni, l’avrebbe buttato fuori di testa.

Invece farsi una bella lampada dall’estetista del centro commerciale, così da curare anche l’abbronzatura, sembrava essere un’ottima idea.

La maglietta era sempre chiazzata di macchie scure, ma non se ne preoccupò.

A chi mai sarebbe venuto in mente che quello era sangue rappreso?

Al piano superiore c’era un sacco di gente.

Il centro commerciale era diventato un punto di ritrovo per chiunque non avesse un cavolo da fare; l’aria condizionata garantiva una via di fuga al caldo dell’estate incombente, e i negozi aperti fino a dopo cena, in barba alla crisi sbandierata dai mass-media, erano pieni di persone.

Carlo s’incamminò verso l’estetista cercando di non far caso ai sorrisi storti di quanti lo additavano pensando di non essere visti.

Lui era fiero del suo corpo, e adorava vestire in quel modo.

Forse, se avessero saputo cosa era stato in grado di fare solo poco prima, l’avrebbero considerato con rispetto.

S’aggiustò “il bimbo” costretto negli short attillati con una bella palpata, lanciando allo stesso tempo uno sguardo di sfida a un paio di ragazzine intente a fissarlo.

Per fortuna in fila dall’estetista non c’era nessuno.

Chiese per un lettino abbronzante e il tizio alla cassa lo condusse attraverso un breve corridoio, facendolo accomodare in una stanzina servita di tutto punto.

Nei successivi quindici minuti lasciò le preoccupazioni a crogiolare

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sotto i raggi ultravioletti della lampada, mentre lo schienale massaggiante dell’apparecchio contribuiva a cullare il suo umore.

Una volta terminato il trattamento, si sentì una persona nuova.

L’orologio segnava le sette meno dieci; sorrise: era in perfetto orario per l’appuntamento con Habib.

Si rivestì e andò a pagare.

Alla cassa, intento a parlare con il commesso, c’era un uomo tarchiato dal volto familiare.

Il buon umore appena riacquistato evaporò all’istante quando s’accorse che era lo stesso tipo che solo poco prima, a bordo di una Golf nera, l’aveva insultato in mezzo al traffico chiamandolo “nano di merda”.

L’uomo non parve riconoscerlo, o forse finse di non farlo; seguì a sua volta il commesso nel piccolo corridoio lanciando a Carlo un’occhiata beffarda.

Sentì la rabbia ribollire dall’interno; a un certo punto non ci vide più.

Quando fu il suo turno di pagare, le parole gli fuoriuscirono spontanee dalla bocca: -Mi son scordato una cosa dentro.- annunciò al tizio dietro alla cassa; senza dargli il tempo di rispondere si infilò di nuovo nel corridoio.

La porta della stanzina con il lettino era chiusa; Carlo l’aprì di scatto intrufolandosi all’interno.

L’autista della Golf si stava sfilando la maglietta dalla testa, e non poteva vederlo; sentì però il rumore dell’uscio che si spalancava: -Chi cazzo…- riuscì a farfugliare da sotto la t-shirt.

Poi Carlo gli fu addosso.

Lo colpì dritto allo stomaco con tutte le forze, impedendogli di capire cosa stesse accadendo; l’uomo si chinò in avanti buttando fuori l’aria in un grugnito di dolore.

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Carlo gli dette un pugno al fianco, una pedata sul ginocchio, una gomitata in testa mentre quello crollava.

Quando fu a terra, cominciò a prenderlo a calci sulla maglietta che gli ricopriva il viso.

-Non sei più tanto alto adesso, eh?- gli ringhiò contro.

Un grido da fuori lo costrinse a smettere.

-Sicurezza!- urlavano all’esterno, -Chiama la sicurezza!-Porca puttana.- esclamò Carlo tra sé e sé; sputò all’uomo che si contorceva agonizzante sul pavimento, quindi uscì fuori e cominciò a correre. *** C’erano un paio di guardie giurate che gli stavano alle calcagna, e di sicuro qualcuno da lì a poco avrebbe chiamato i carabinieri.

Che cavolo s’era messo in testa di fare?

Sgattaiolò facendosi largo tra la gente a spintoni, urlando di spostarsi a quanti gli si paravano di fronte.

Lui che doveva dare il meno possibile nell’occhio, in pochi secondi si era trasformato nell’attrazione principale del centro commerciale.

Che accidenti gli era passato per il cervello?

Scese le scale mobili mentre alle sue spalle un tizio in divisa gli urlava di fermarsi.

Notò che nella fila a fianco una bambina lo stava riprendendo con il cellulare.

Se l’avessero beccato, sarebbe stata la fine.

Raggiunse di corsa il parcheggio coperto, e si rese conto che non avrebbe potuto prendere la macchina.

Qualche telecamera all’uscita l’avrebbe ripreso, e la polizia sarebbe

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potuta risalire a lui attraverso la targa.

Ma non poteva neanche abbandonare là la Mini: non con tutto quello che c’era dentro.

Un lampo di genio gli balenò nella mente.

Corse tra le poche auto del parcheggio guardandosi alle spalle: le due guardie giurate erano sempre lì.

-Ma chi cazzo ve lo fa fare?- sbottò trafelato.

Girò l’angolo e si trovò davanti alla sua automobile; aveva solo pochissimi secondi: prese le chiavi della macchina e le fece scivolare sotto la Mini; poi riprese a correre.

Le guardie girarono a loro volta, più vicine.

Carlo puntò all’uscita del parcheggio, sperando che a nessuno fosse venuto in mente di bloccarla.

Era libera.

All’esterno sentì il suono di una sirena che si avvicinava.

Non perse tempo: nonostante la milza che minacciava d’esplodere da un momento all’altro, svoltò e cominciò a muoversi verso la stazione dei treni.

Le guardie erano dietro.

Tra tutti e tre non è che fossero dei fulmini di guerra in quanto a velocità: Carlo sembrava in forma perché faceva palestra, ma da buon “Favollino” aveva pensato sempre più a ingrossare i muscoli che a lavorare sul fiato.

Gli uomini della sicurezza, a loro volta, non parevano certo dei centometristi.

L’esterno dell’Ipercoop consisteva in un altro grande parcheggio, all’aperto, punteggiato d’auto.

Nella zona periferica di “Porta a Terra”, a parte un paio di villette che si stagliavano alla sua sinistra, non c’erano altro che rotatorie, strade deserte e altri centri commerciali.

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Carlo si tenne a ridosso di un’inferriata che delimitava lo spiazzo di un capannone.

Armeggiò con il marsupio ed estrasse il cellulare, componendo immediatamente il numero di Habib.

Un’auto gli sfrecciò accanto facendogli prendere un mezzo colpo.

Non era la polizia.

Continuò a correre.

Un unico squillo a vuoto, poi la voce trafelata del tunisino fuoriuscì dalla cornetta, -Amico, io arriva.- annunciò ansimando.

-Habib, zitto e stammi a sentire.- lo bloccò Carlo cercando l’ossigeno per parlare, -La mia Mini è nel parcheggio coperto dell’Ipercoop. Ho tirato le chiavi sotto l’auto per fartele trovare. Devi andarla a prendere tu. Ora!-Prendere tua auto?- chiese confuso Habib.

-Non fare domande del cazzo e muoviti.- urlò Carlo dirigendosi verso un muro di cinta; ormai, poco distante, c’era l’ingresso al sottopassaggio della stazione, ma preferiva provare a far perdere le sue tracce scavalcando in quel punto; guardò alle spalle: una guardia giurata era pochi metri dietro, e non sembrava intenzionata a mollare; -Dentro ci sono dei sacchi della spazzatura. È la roba che devo far sparire. Capirai quando la vedi… Ora prendi la macchina e portala via.-Ma è problema! Io no guida… io no patente.- si lamentò il tunisino.

-Ti do tremila euro se porti via quella cazzo di macchina da lì e fai sparire per sempre la merda che c’è dentro!- strillò Carlo disperato.

-Tremila?- esclamò Habib cambiando di colpo intonazione, -Tu no preoccupa.- annunciò, -Niente problema. No problema! Habib fa.-Bravo.- disse Carlo senza fiato, -Ti chiamo appena posso.- e buttò giù.

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Raggiunse il basso muro che divideva la strada dai binari della stazione; s’arrampicò con difficoltà su un cassonetto e cominciò a scavalcare.

La guardia giurata era sempre più vicina.

-Se mi segui t’ammazzo!- la minacciò Carlo, una volta che fu in procinto di saltare di là.

Poi si lasciò cadere dall’altra parte.

Il muro non era alto, ma Carlo ruzzolò a terra sbucciandosi le ginocchia contro i sassi dello sterrato.

La caviglia sinistra gli si piegò sotto al peso del corpo.

Si rialzò in fretta e continuò a correre zoppicando, ignorando il dolore.

In lontananza c’era sempre il suono della sirena.

Dopo pochi metri s’accorse che l’uomo non lo seguiva più.

Non vide nessuno scavalcare il muro, ma non si fermò.

Attraversò i binari a uno a uno, senza far caso ai segnali di pericolo.

Sentì un fischio venire dalla sua destra.

Un treno merci entrava in stazione proprio in quel momento, rischiando di tagliargli la strada.

Non poteva permettersi di perdere terreno.

Carlo superò l’ennesimo binario e attraversò la pensilina claudicando sulla caviglia malferma, ignorando le persone in attesa che si voltarono a guardarlo.

Il treno era sempre più vicino.

Ancora un fischio.

Sospirò di sollievo nel rendersi conto che presto sarebbe stato in salvo.

Si buttò sul binario, con il convoglio a pochi metri di distanza che cominciava a frenare stridendo, consapevole che sarebbe riuscito a passare in tempo.

Sarebbe…

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- IV -

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Federico

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Il dolore al fianco era tremendo.

Anche la faccia gli faceva male.

Da morire.

Era come se una maschera di patimento gli fosse stata calata a forza sul viso, rendendolo un campo minato d’acuta sofferenza: sentiva il sapore del sangue in bocca, le labbra gonfie e tagliate, le palpebre pesanti incapaci di restare aperte.

Ma il dolore al fianco era tremendo.

Gli si diffondeva dentro a ogni minimo movimento, attraverso una fitta violenta che esplodeva tra le costole e tracimava lungo l’intero tronco; ogni inspirazione era agonia, ogni espirazione era terrore.

Respirava l’inferno.

Federico era già stato coinvolto in altre risse: la vita dell’Ultras di calcio non era tutta rose e fiori, e l’incontro-scontro tra le tifoserie 84

rivali, o con i “pulotti” quando le cose tendevano a degenerare, di solito non si esprimeva attraverso una pacata condivisione d’idee.

Pestare ed essere pestato non si era mai rivelato un problema.

Fino a quel giorno…

Era come se un treno merci lanciato a tutta velocità l’avesse centrato in pieno.

Il primo colpo allo stomaco era stato il preludio a una miriade di botte a tradimento inferte senza alcuna pietà.

Federico non era riuscito a capirci niente: con la maglietta tirata sul viso era cieco, e le continue mazzate che gli avevano tempestato la testa, facendogli rimbombare di tuoni il cervello, erano state capaci di rincoglionirlo completamente.

Era entrato in un clamoroso tunnel degli “storci di ‘ollo” senza alcuna via d’uscita.

Poi la sassaiola di dolore si era interrotta quando qualcuno aveva urlato, là fuori chissà dove, e si erano aperte le porte degli inferi.

Le fitte al fianco avevano preso il controllo della realtà, invadendo ogni successivo istante d’esistenza.

Era stato aiutato a rialzarsi da mani sconosciute che lo avevano afferrato sotto le ascelle, acuendo ancor più la sofferenza, e condotto alla cieca verso una sedia benedetta.

Ogni suono, ogni voce, ogni rumore attorno a lui aveva galleggiato in un denso limbo d’ovatta per alcuni, lunghi momenti.

I lampi infernali si erano attenuati pian piano, sedati forse dalla posizione in cui si costringeva a restare, e le parole di chi lo circondava avevano cominciato ad acquistare senso.

Era stato vittima di un agguato bello e buono.

Sembrava che un tizio molto basso, vestito in modo discutibile e dalla “ghigna a tagliola”, l’avesse seguito nella stanzina della

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lampada prendendolo alla sprovvista e massacrandolo di botte. Il commesso se ne era accorto e aveva chiamato le guardie del centro commerciale, e quello s’era dato alla fuga creando scompiglio in tutta l’Ipercoop.

Adesso lo stavano inseguendo.

Il commesso, un uomo magro sulla quarantina senza più nemmeno un capello in testa e la pelle del viso bruciata dal sole artificiale, nel raccontare la storia pareva molto fiero di aver salvato Federico da una fine annunciata.

Nel mentre si era creato un piccolo capannello di persone di fronte all’ingresso del negozio; eventi del genere attiravano ogni forma di curiosi: c’era il medico improvvisato che consigliava, a mezzo metro di distanza da Federico, di farsi indietro per permettergli di respirare; il vendicatore che già raccoglieva consensi per approntare la fantomatica squadra punitiva in grado, semmai l’avessero beccato, di farla pagare all’aggressore; il vecchio che scuoteva la testa pensando ai bei tempi andati, quando quelle cose non accadevano; il tizio che aveva visto tutto e fremeva per raccontarlo agli altri; quello che voleva sapere per forza…

Nel marasma che lo circondava Federico riusciva a stento a estraniare in un angolino della mente il dolore al fianco, per cercare di capire chi l’avesse ridotto in quelle condizioni e per quale motivo.

Dopo l’ultima partita del Livorno, nelle baruffe fuori dallo stadio, era riuscito effettivamente a tirare un bel gollettone tra capo e collo a uno della tifoseria avversaria che non sembrava proprio un gigante.

Magari una vendetta?

Oppure poteva essere qualcun altro.

Il chiasso della gente, le fitte in tutto il corpo, le domande…

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Non riusciva a concentrarsi.

Stava lì, seduto come un paralitico alla mercé di una caterva di persone che provavano pietà per lui, e si sentiva incapace di reagire.

Ogni volta che provava a parlare, il fianco lo puniva.

Che vergogna.

L’avessero visto i suoi compagni…

-Tranquillo, hanno chiamato un’ambulanza.- annunciò il commesso del negozio facendosi vicino, con espressione impostata dalla responsabilità, -Tra poco starai meglio.-Non…- provò a replicare Federico sforzandosi di sconfiggere il dolore che lo artigliava a mezz’altezza, -Non voglio ambulanze del cazzo. Sono ok!- ringhiò, provando ad alzarsi.

Dovette desistere.

-Ma che dici?- sorrise affabile l’altro, -Tra pochi minuti sarà tutto finito. Quello picchiava duro, eh? Era piccino… ma c’era tutto!affermò ammiccando.

-Ma vaffanculo.- sbottò Federico in faccia all’uomo, -Son caduto da solo. Fammi alzà…La sofferenza lo prese in ostaggio ancora una volta, costringendolo a riadagiarsi sulla sedia.

-Poverino.- disse qualcuno.

-Sto bene.- esclamò lui: più del fatto di essere stato colto di sorpresa da quello che pareva essere un nano di merda, c’era la vergogna di ispirare pietà.

Nano di merda…

-Figlio di puttana.- sussurrò tra sé Federico con lo sguardo perso nei ricordi, quando capì chi lo aveva pestato.

Il tizio che guidava la Mini Cabrio gialla, fermo immobile al semaforo già verde, doveva averlo seguito per vendicarsi dell’offesa

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subita.

Effettivamente, a ripensarci, anche se lì per lì non ci aveva fatto caso l’aveva intravisto anche prima di farsi la lampada.

-Nano di merda…-Senti, io volevo solo aiutarti.- si sfogò il commesso, pensando si stesse riferendo a lui.

-Lascia perde’, sto bene. Dammi un minuto e me ne vò…- rispose Federico -C’è la polizia.- annunciarono dalla folla.

-Che palle.- sbuffò; se in quel momento poteva esistere qualcosa peggiore della pietà della gente, erano le forze dell’ordine.

Federico odiava ogni persona in divisa per partito preso. Forse era una conseguenza del suo scontrarsi costantemente con la pula dentro e fuori lo stadio; o qualche rimasuglio d’insofferenza rimastogli appiccicato addosso dagli anni delle superiori, quando il protestare contro la pubblica sicurezza per un motivo casuale pareva andare di moda…

Fatto era che non sopportava l’idea di dover collaborare con qualcuno di loro.

-Fate passare.- ordinava una voce impostata, -Fate passare.Dopo alcuni istanti un agente di polizia riuscì a far capolino tra la massa.

-Cosa è successo qui?- domandò imperioso.

Federico sentiva già l’amaro in bocca.

Il commesso rispose pronto, -Un matto si è intrufolato nel mio centro estetico e ha massacrato di botte questo povero ragazzo. Io l’ho visto bene, posso descriverglielo…-Che boiata!- lo stoppò Federico stringendo i denti per il dolore, rivolgendosi al poliziotto, -Son semplicemente caduto per terra

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mentre mi spogliavo, agente. C’è bisogno di far tutto questo casino per niente?L’altro lo squadrò sospettoso, -Mi risulta che sia avvenuta un’aggressione, e che stiano inseguendo il colpevole.-A me no.- lo sfidò a muso duro lui.

-Guardi che può fare denuncia…-A chi? Ai pantaloni che mi han fatto cadere?- sbottò Federico cercando di ridere, -Non c’è stata nessuna aggressione, son cascato da solo, punto. E sto bene, quindi non voglio l’ambulanza. Anzi…- si sforzò di alzarsi e questa volta, traballando, ci riuscì, -Ora me ne vo’.-Forse le conviene aspettare un medico,- consigliò l’agente, -non mi sembra messo molto bene.-Lei è un dottore?- lo incalzò, -O mi sta arrestando? In caso contrario vorrei andarmene.Il poliziotto scosse la testa, -Può fornirmi i documenti, per favore?-E perché li chiede a me?- domandò indignato Federico caracollando avanti; il fianco bruciava come prima, ma riuscì a resistere, -Guardi quanti siamo! Li chieda a tutti allora, no?-Solo un controllo…- continuò l’agente.

Federico estrasse a fatica il portafogli dai jeans e cercò la carta d’identità.

Il poliziotto la prese e cominciò a leggere i dati.

Dalla folla qualcuno urlò: -E dovreste ma anda’ a cerca’ i criminali, piuttosto che far perde’ tempo alla brava gente.-Che vergogna.- esclamò una voce di donna, -Si paga le tasse noi.Le persone tutt’attorno cominciavano a mormorare nervose.

L’agente tentennò ancora pochi istanti, quindi gli rese il documento.

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-Può andare, ma se vuole un consiglio…-No.- lo interruppe lui, -I consigli me li faccio da’ solo dagli amici.Ci fu una specie di applauso collettivo.

Poi Federico si fece strada tra la calca, sforzandosi di proseguire nonostante il dolore al fianco che sembrava diramarsi pian piano in tutto il corpo.

Il gruppo rimase indietro a parlottare, sfaldandosi allo sbiadire della novità.

Raggiunse la scala mobile stremato, ignorando gli sguardi dei curiosi; si aggrappò al corrimano trovando un leggero sollievo al dolore.

Già stava pensando al modo migliore per farsi vendetta da solo.

***

Quando arrivò nel parcheggio coperto dell’Ipercoop, lontano da occhi indiscreti, dovette accasciarsi a un muro per non capitolare al suolo.

Era peggio di quanto potesse immaginare.

Le fitte lo tormentavano a ogni passo quasi che un grosso ago, o una lama seghettata, gli stesse lacerando la carne da dentro.

Controllando che non ci fosse nessuno in vista, afferrò un lembo della maglietta e lo alzò; la pelle lungo tutto il fianco era violacea: un livido scuro che partiva da poco sotto l’ascella e si trascinava giù fino a lambire il tatuaggio delle B.A.L., le Brigate Autonome Livornesi ormai sciolte da anni, marchiato sull’anca a rimarcare il suo credo da Ultras.

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Non c’era traccia di ferite da taglio, ma la sensazione era quella di avere un pugnale conficcato tra le costole.

Per un istante si pentì di non aver atteso l’ambulanza.

Rimise a posto la maglietta e proseguì seguendo la parete.

Non ricordava che la macchina fosse così distante.

E che facesse tanto freddo…

Un uomo tirò indietro il figlioletto quando lo vide arrancare tra le poche auto parcheggiate; Federico gli sorrise mostrando la faccia pesta.

Il dolore lo seguiva a ogni passo strascicato.

Pensò che appena fosse giunto a casa, avrebbe chiamato la guardia medica.

Girò attorno a un pilastro in cemento armato, convinto ormai di aver perso l’orientamento, e la vide…

Anche se la sofferenza gli confondeva i pensieri; anche se le palpebre gonfie parevano calare sempre più; anche se quasi non riusciva a tenersi in piedi non poteva sbagliare: parcheggiata in un angolo in ombra c’era la Mini Cabrio gialla del nano di merda che lo aveva ridotto in quelle condizioni.

Di colpo il dolore scomparve.

La rabbia prese il sopravvento e Federico coprì i pochi metri che lo separavano dall’automobile senza caracollare. Un pensiero improvviso gli saettò nel cervello, e i suoi occhi guizzarono tutt’attorno alla ricerca dell’insignificante bastardo alto come un tappino di bottiglia.

Sembrava non essere là.

Si ricordò che qualcuno, lassù davanti al negozio dell’estetista, aveva accennato al fatto che lo stessero inseguendo. Federico sperò con tutto il cuore che quello riuscisse a scappare.

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Era suo.

Annotò mentalmente la targa, anche se numeri e lettere adesso parevano confondersi tra loro.

Ci si appoggiò contro per riprendere fiato.

In giro non c’era nessuno.

Riuscì a scorgere all’interno, e vide che sui sedili posteriori c’era qualcosa ricoperto da teli neri. Dette un pugno al vetro con tutte le sue forze; il contraccolpo di dolore al fianco fu terribile, ma lo ignorò.

Tossì: un attacco così acuto che lo fece piegare sul fianco dell’auto.

Portò una mano alle labbra e scoprì che erano macchiate di sangue.

Non ci pensò.

Cercò alla rinfusa nelle tasche dei pantaloni e tirò fuori un mazzo di chiavi. Con la mano che tremava, e l’ira in grado di sedare qualsiasi sofferenza, iniziò a rigare la carrozzeria della Mini gialla. Non serviva un artista per incidere degli enormi cazzi sulla fiancata di un’auto ma, nelle condizioni in cui era ridotto, Federico dovette accontentarsi di graffiare solo un pene stretto e storto lungo tutto lo sportello.

Fu una fatica colossale.

Pian piano la rabbia lasciò spazio al dolore, le forze gli vennero meno, le fitte al fianco aumentarono d’intensità.

Qualcosa gli cominciava a esplodere dentro: qualcosa che gli succhiava la vita a ogni secondo.

Un gelido buco nero sotto pelle che gli stava ciucciando l’anima.

Dette un altro colpo al vetro.

S’accasciò tossendo sangue, con le lacrime a bagnargli le palpebre pesanti.

Era impotente.

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Inspirò agonia, espirò terrore.

Stava quasi per lasciarsi andare quando notò, con sguardo ormai vacuo, che poco distante dall’auto c’era un paletto di metallo abbandonato al suolo: non si soffermò a domandarsi cosa fosse.

Le ultime energie alimentate dal desiderio di vendetta fecero da propellente alle membra ormai sfinite.

Federico caracollò fino alla sbarretta, si chinò gemendo disperato e la raccolse.

Prese lo slancio, per quanto potesse essere considerato “slancio” arrancare trascinato dal proprio peso in avanti, e si gettò contro il parabrezza della Mini puntando il piolo di ferro.

Il metallo cozzò contro il vetro con un colpo secco, crepandone la superficie.

Federico alzò il braccio al cielo, mentre una bomba atomica di dolore gli detonava tra le costole, e calò il paletto con rabbia.

Ancora.

E ancora.

Il parabrezza si spezzò e il picchetto vi si conficcò provocando una ragnatela di incrinature lungo tutta la superficie.

Federico gioì tra sé; la sensazione di un fiotto di calore liquido che rompeva gli argini, tracimando tra i suoi organi interni, giunse quasi nello stesso istante.

Il mondo vorticò a mezza strada tra visione e realtà.

Sentì una voce maschile, alle sue spalle, urlare parole d’allarme a cui non riuscì a donare senso compiuto…

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-V-

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Marco

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Il tunisino Habib, beni Ussein, al Salah, al Yufess in realtà non faceva beni Ussein, al Salah, al Yufess di cognome, non si chiamava Habib e, soprattutto, non era tunisino.

Il suo vero nome era Marco Sbrana ed era un ingegnere navale disoccupato trentacinquenne, nato e cresciuto a Pisa.

Si era trasferito nella vicina Livorno una decina d’anni prima, con la speranza di trovare un lavoro decente in linea con il suo percorso di studi.

Il destino gli aveva riservato invece una carriera da criminale, e una nuova identità.

In seguito a una serie di vicissitudini piuttosto particolari, e spinto dagli infruttuosi tentativi d’essere assunto con un contratto a tempo indeterminato, Marco era entrato in contatto con tale Giulio Petrotta, detto “il Bomba” per le cazzate che era in grado di inventarsi: un volpone della vecchia scuola deceduto ormai da qualche 100

tempo, che aveva fatto fortuna con lo spaccio di stupefacenti.

“Il Bomba” lo aveva in simpatia, nonostante in privato sostenesse sempre che la faccia da pisano di Marco gli procurasse un forte prurito alle mani, e se lo era messo sotto la sua ala protettrice instradandolo verso il mondo del crimine; lasciandogli in eredità, alla morte, un buon giro di contatti.

Il favore più grande che “il Bomba” gli aveva fatto, però, era stato donargli un consiglio la prima volta che si erano visti: “Nessuno lo ammetterà mai, ma qui a Livorno non importa quanto sei ganzo o bravo a fa’ le cose; importa quanto non sei pisano…” aveva confessato l’uomo prendendolo in disparte, “Quindi inventati qualcosa e togliti i “Gaò” e i “Maiale” dalla testa e dalla bocca, oppure emigra!”

Così Marco, prendendo spunto dal suo maestro, s’era inventato una cazzata colossale che in quei lunghi dieci anni aveva fatto la sua fortuna.

S’era finto tunisino.

Era stato più facile di quanto avesse potuto immaginare.

Si era affibbiato un nome falso, Habib, una storia piena di mistero circa la sua travagliata ordalia da immigrato e aveva cominciato a parlare in modo strano storpiando ad arte l’italiano.

La carnagione olivastra, i capelli neri, lo sguardo torvo e la folta barba che nel frattempo si era lasciato crescere avevano contribuito a rinforzare la nuova identità.

Certo, inizialmente aveva dovuto studiare un po’ di usanze tipiche della nuova cultura, e farsi una piccola infarinatura d’arabo giusto per recitare meglio la parte, ma essere un immigrato tunisino a Livorno in fin dei conti non era male: nessuno andava mai a frugare nel suo passato, e tutti parevano poco propensi a rompergli i coglioni se fingeva di innervosirsi.

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Bastava evitare contatti con i “connazionali”, e non calare troppo la mano nell’improvvisazione.

A quei tempi alla maggior parte della gente non importava delle sue origini africane, né tantomeno che sbarcasse il lunario portando avanti faccende losche o di malo affare.

A Livorno nessuno sembrava avercela con i tunisini, con i senegalesi, con i cinesi, con i Pokémon o con gli alieni. A nessuno fregava niente del colore della pelle, della religione, di come spendevi o guadagnavi i tuoi soldi o di chissà cos’altro.

Ma ogni volta che sentiva parlare dei pisani, Marco ringraziava tra sé e sé “il Bomba” per il prezioso consiglio.

Sembrava che quella rivalità intrinseca fosse radicata nel profondo dell’animo labronico alla pari di un istinto primordiale; s’era reso conto che non derivava neanche da un motivo ben preciso: alle domande poste dal tunisino Habib in merito venivano fornite spiegazioni più o meno vaghe che non andavano mai a parare da nessuna parte.

Non c’era vera e propria cattiveria: pareva semplicemente che i livornesi portassero avanti l’astio per tradizione, per sentito dire, perché era giusto così.

Per folklore…

E la cosa era ricambiata anche a parti inverse: quando abitava a Pisa, più volte aveva sentito battute o sfottò nei confronti degli “odiati” vicini, senza mai darci troppa importanza.

Marco non era un tipo campanilistico; ma vivere dall’altro lato della barricata sotto mentite spoglie, e subire indirettamente ogni giorno un dileggiante bombardamento goliardico a colpi di “Pisa Merda”, era tutta un’altra cosa. Un conto era ascoltare qualche presa in giro nei confronti di sconosciuti, un conto era esserne vittima quotidiana seppur di rimbalzo.

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Pian piano però si era immedesimato sempre più nella sua nuova pelle tunisina e aveva imparato a convivere con quella realtà in cui definire qualcuno “pisano” era molto peggio che offendergli la mamma.

Che gliene fregava a lui? Tanto Habib era “nato” a Beni M’Tir, una piccola città della Tunisia che, a leggere su Wikipedia, non doveva contare neanche mille abitanti. Marco non sapeva bene dove si trovasse, e naturalmente non c’era mai stato, ma risultava abbastanza insignificante e sconosciuta che nessuno si addentrava mai nei particolari quando il suo alter ego affermava di provenire da lì.

Negli ultimi tempi però le cose, e forse anche la tanto sbandierata mentalità aperta dei livornesi, avevano cominciato a cambiare.

Adesso gli sembrava di notare qualche sguardo storto in più, e il suo fingersi tunisino non passava così inosservato.

Comunque aveva preferito proseguire con la pantomima; Habib, in dieci anni di vita sotto copertura a Livorno, oltre a guadagnare un discreto gruzzoletto con il traffico di stupefacenti era riuscito a farsi anche qualche amico.

Marco era affabile e bravo nel suo lavoro, e quello forse era il motivo per cui “il Bomba” aveva creduto in lui.

Riusciva a galleggiare a mezza strada tra il crimine vero e proprio e la semplice malefatta, senza mai esagerare o spingersi troppo oltre: senza sbavature. “Il Bomba” gli aveva fatto capire che se fosse riuscito a non dare troppo nell’occhio, e non avesse cacato fuori dal vaso cercando d’arricchirsi con robe strane, non sarebbe mai stato beccato.

Bastava che continuasse a fare da intermediario tra produttore e compratore, magari arrotondando con qualche lavoretto di poco conto, e tutto sarebbe filato sempre liscio come l’olio.

Molti dei contatti lasciatigli dal suo mentore avevano apprezzato

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il modo in cui lui si muoveva, donandogli fiducia, e molti altri ancora erano arrivati pian piano negli anni grazie alla sua affidabilità, permettendo a Marco di ampliare giro e guadagni.

Uno dei clienti migliori di Habib, beni Ussein, al Salah, al Yufess si chiamava Carlo. *** Marco correva lungo il viale Carducci alla volta della stazione centrale, ed era sudato fradicio.

Nonostante fossero quasi le sette del pomeriggio, e il sole cominciasse già a scivolare dietro i palazzi, sentiva il caldo di quella giornata di metà giugno appiccicarglisi addosso senza alcuna pietà.

La maglietta ormai era diventata un tutt’uno con la pelle umida, la folta barba faceva da stufa portatile aggrappata sotto al mento e, a causa di una qualche maledetta forma di dermatite provocatagli dal suo stesso sudore, le gambe gli prudevano all’altezza dell’inguine facendolo impazzire a ogni falcata.

Per non farsi mancare niente, inoltre, era pure in ritardo all’appuntamento con Carlo.

Marco odiava arrivare in ritardo: riteneva che un punto fermo del lavoro fosse la professionalità, così si sforzava d’essere preciso sia nelle consegne che nel rapporto con i clienti.

Ciò che lo contraddistingueva dagli altri spacciatori era la perfetta affidabilità che i suoi concorrenti non riuscivano a garantire.

Per Marco quello era un business e come tale era intenzionato a trattarlo.

Si fermò un istante a riprendere fiato, passando una mano nella barba umidiccia con gesto automatico.

Mancava un minuto alle sette, ora dell’appuntamento, e doveva

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ancora percorrere quasi un chilometro di corsa.

Il problema non si sarebbe nemmeno posto, se quel pezzente figlio di puttana d’un barbone non gli avesse rubato la bicicletta da sotto il naso solo poche ore prima…

Era lì, a ripensare al furto, che il cellulare cominciò a squillare.

Afferrò l’apparecchio e lesse il nome sul display: “Favollino cell”.

Trasse un profondo respiro e si preparò a inventare qualche scusa per giustificare il ritardo.

-Amico, io arriva.- rispose ansimando… *** Da quando Carlo aveva pronunciato al telefono la formula magica “Ti do tremila Euro”, la fatica della corsa sembrava di colpo scomparsa.

Marco aveva allungato il passo senza più curarsi di caldo o sudore.

Non aveva ben capito cosa dovesse fare con l’auto di “Favollino”, o con quello che c’era dentro la vettura, ma l’avrebbe comunque fatto bene e in fretta.

Non era vero che non aveva la patente… semplicemente preferiva fingere di non possedere una macchina e di non saper guidare per evitare che qualcuno scoprisse, attraverso l’assicurazione del mezzo o associandogli la targa dello stesso, che lui non era chi diceva di essere; inoltre spostarsi in città con la bicicletta era comodo, fin quando l’aveva ancora…

C’erano però tremila buoni motivi per improvvisarsi autista.

Il luogo dell’appuntamento era cambiato ma per fortuna l’Ipercoop non era lontana.

Raggiunse la stazione dei treni e si diresse verso il sottopassaggio che l’avrebbe fatto sbucare nei pressi del grande centro commer-

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ciale.

S’accorse che qualcosa non andava quando vide un gruppo di persone radunate vicino alle scale che portavano al binario sette.

C’era una donna che piangeva: -Ho visto tutto!- affermava con voce stridula.

-S’andassero ad ammazza’ a casa loro, se proprio devono.- decretò un vecchio sputando a terra.

-Boia de’,- confessava un ragazzo a un altro, -è la decima volta che mi capita di perde’ una coincidenza in ‘sto modo qui.-Un sarà che porti merda te?- gli rispose quello ridacchiando.

Marco si fece strada tra la gente riunita a parlottare.

-Uno s’è suicidato buttandosi sotto a un treno. Sa, è la crisi…- spiegava un uomo di mezz’età con tono serio, rivolgendosi a una donna che annuiva di rimando.

Una sirena in rapido avvicinamento coprì il suono delle parole, mentre Marco si allontanava senza curiosare oltre.

Fu felice di non aver assistito all’incidente.

Nonostante il lavoro che faceva, il sangue gli aveva sempre dato noia.

Non che svenisse alla vista di una ferita, ma le budella gli si attorcigliavano per chissà quale motivo, e la nausea minacciava di farlo vomitare.

Cercò di non pensare allo scempio che doveva esserci là dove il treno aveva travolto il povero disperato.

Sbucò fuori dal sottopasso, trovandosi davanti un paio di uomini in divisa che fumavano in disparte: uno aveva il viso rigato dalle lacrime.

Marco fece spallucce e proseguì a passo svelto.

Costeggiò un’inferriata che delimitava lo spiazzo di un capannone e ben presto giunse in vista dell’enorme edificio che ospitava il cen-

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tro commerciale.

Nel parcheggio esterno, all’aperto, c’erano numerose macchine in sosta: i livornesi che tornavano dal mare dopo una giornata di caldo e sole sfruttavano quelle ore prima della cena anche solo per fare una semplice passeggiata tra i negozi aperti fino a tardi: “per vede’ du visi”, come amavano definire quel tipo di rapporto sociale.

Marco non prestò attenzione alle porte a vetro che si aprirono per invitarlo a entrare e si infilò dritto nel parcheggio coperto.

Temeva di dover perdere del tempo a rintracciare l’auto di “Favollino”, anche se una macchina gialla non è che fosse troppo difficile da notare, ma a dispetto dello spiazzo esterno là sotto vi erano ben poche vetture. Cominciò a camminare tra i pilastri di cemento armato aguzzando la vista.

Il parcheggio era deserto: poteva sentire il rumore dei suoi passi scandire il ritmo di una musichetta diffusa dagli altoparlanti.

All’improvviso udì uno schianto echeggiare alla sua sinistra; voltò la testa ma non vide niente.

Qualcosa si infranse ancora, con forza, contro quello che doveva essere un vetro.

Allarmato da una specie di sesto senso, si diresse a passo spedito verso il luogo da cui giungevano i rumori.

Ci fu un altro colpo, questa volta condito da un suono spezzato.

Marco svoltò oltre un pilone e si trovò di fronte un uomo intento a piantare un paletto nel parabrezza di un’auto.

Un’auto gialla, per la precisione una Mini Cabrio, sulla cui fiancata spiccava l’incisione di un cazzo tutto storto.

La macchina di “Favollino”.

-Ma cosa fai?- sbottò Marco scordandosi per un istante di non parlare italiano, cominciando a correre verso il vandalo.

Alzò il pugno al cielo inveendogli contro, mentre quello si voltava

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nella sua direzione mostrando un viso tumefatto e sanguinante.

Sembrava uno zombie.

-Pro…- lo sentì bofonchiare dalle labbra gonfie e violacee.

-Pro…- ripeté, con difficoltà, caracollando avanti.

Marco rallentò, spiazzato dalla reazione, con lo stomaco che cominciava a borbottare di disgusto.

L’uomo traballò per qualche passo e allargò le braccia, buttandoglisi poi letteralmente addosso.

-Protti!- gridò il vandalo con quanto fiato gli restava, stramazzandogli contro e sputando contemporaneamente una densa scatarrata di bava rossa che lo colpì dritto in faccia.

Marco afferrò il corpo per una sorta di riflesso spontaneo, sbilanciandosi per il peso inaspettato che gli rovinò sopra.

Sentì il calore appiccicoso del sangue impregnargli la barba, scivolargli giù lungo il collo, macchiargli la pelle.

Lasciò capitolare lo zombie al suolo con tonfo sordo, senza curarsi di niente se non della nausea che all’improvviso gli contorse le budella. Si chinò in avanti, vittima di un conato violento, e vomitò addosso allo sconosciuto riverso inerte sul pavimento.

Restò in ginocchioni a rigettare l’anima, senza riuscire a fermarsi, fino a quando non gli rimase che saliva da sputare. La gola bruciava e lo stomaco era in subbuglio.

Per terra davanti a lui c’era un tizio zuppo di sangue e privo di sensi, completamente ricoperto dal suo vomito.

Un altro conato giunse prepotente dal profondo.

Non aveva più nulla da buttare fuori.

Riuscì a tirarsi in piedi e a inspirare aria pulita.

Con gesto automatico portò una mano a lisciare la folta barba; dovette fermarsi non appena avvertì la disgustosa sensazione del pelo umido e appiccicoso, pregno di chissà quali schifezze.

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Il sangue dell’uomo gli aveva macchiato la maglietta.

Se lo sentiva scivolare addosso.

Ancora un conato in grado di farlo piegare a sputare bava.

Il vandalo non si muoveva.

Marco cercò di sforzarsi d’agire; non era raccomandabile farsi trovare in quella situazione: non ricoperto dal sangue di un tizio crollato di fronte a lui. Si chinò e lo voltò sulla schiena; -Svegliati, cazzo!- gli sbottò contro scuotendolo a forza, -Svegliati!Non ci fu nessuna reazione; solo la testa che sballottava a tempo con i suoi scossoni.

Marco lo riadagiò a terra e gli mise le dita sulla gola. Non c’era battito, o forse era così flebile che lui non riusciva a sentirlo.

Doveva chiamare un’ambulanza?

Avrebbero fatto troppe domande…

-Mi dispiace amico.- sussurrò rialzandosi, rinunciando momentaneamente a capire cosa gli fosse accaduto.

Certo era che non poteva lasciarlo lì. Guardò a destra e a sinistra ma non vide nessuno. Carlo gli aveva detto che avrebbe trovato le chiavi della Mini sotto l’auto. Si mosse verso la macchina, soffermandosi a valutare i danni a parabrezza e carrozzeria; -Però te lo sei meritato.- annunciò voltandosi verso il corpo steso al suolo. Guardò il suo riflesso nel finestrino per controllare in che stato fosse ridotto, e notò al di là del vetro il telo nero che nascondeva qualcosa.

Qualcosa di grosso.

Fece spallucce.

Tremila euro…

Dovette stendersi sull’asfalto per raggiungere il mazzo di chiavi abbandonato sotto l’auto. Le afferrò e aprì lo sportello.

Uno strano odore dolciastro gli riempì subito le narici.

Più che un odore, sembrava proprio puzza di morto.

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Sotto al posto del passeggero c’era la sacca con la droga che aveva consegnato a Carlo solo poche ore prima: l’aprì, e dentro trovò il grosso panetto di fumo in compagnia di un martello incrostato di scuro.

Si sporse sul retro, afferrò un lembo del telo che in realtà era nientemeno che un sacco di plastica della spazzatura, e tirò.

Un braccio, due gambe, pelle sporca di sangue, ossa spezzate.

Pezzi mozzati d’uomo sparsi sul sedile posteriore dell’auto di “Favollino”.

Le budella gli si annodarono su se stesse stringendo forte.

Nonostante ormai non avesse più niente da vomitare, Marco vomitò lo stesso. *** I successivi trecento secondi vennero scanditi da una serie di domande alle quali dette risposta agendo per semplice istinto di sopravvivenza.

“Perché “Favollino” aveva dei pezzi di cadavere in macchina?”

Ricoprì tutto alla bell’e meglio e uscì.

“Perché non li aveva messi nel bagagliaio per nasconderli?”

Andò ad aprirlo e scoprì che era pieno di sacchi neri della spazzatura; l’odore dolciastro là dentro era ancora più pungente. Non ci mise molto a comprendere cosa contenessero.

“Chi diavolo era il tizio che stava sfondando la macchina? Perché lo faceva? Era ancora vivo? Avrebbe potuto denunciare Carlo?

Avrebbe potuto riconoscere anche lui?”

Afferrò il vandalo da sotto le ascelle e, con un discreto sforzo, lo caricò sul sedile posteriore della Mini, tra le membra mozzate, coprendolo a sua volta con il telo.

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“Valeva la pena rischiare d’essere beccato dalla polizia, con chissà quanti cadaveri in macchina, per tremila, miseri euro?”

Tolse il paletto piantato nel parabrezza e si posizionò al volante senza indugiare, mettendo in moto e guidando fino all’uscita dal parcheggio.

Tutto stava nel non farsi fermare…

Capitava spesso che Marco fosse bloccato per un controllo: il tunisino Habib era un tipo che non ispirava fiducia nelle forze dell’ordine, e in fin dei conti era proprio ciò che egli sperava d’ottenere con l’identità alternativa.

Più sembrava losco, e meglio era: diventava facile, così, evitare le domande della gente e preservare la copertura.

A volte però risultava fastidioso essere scelto tra tanti, solo per il suo aspetto o per l’aura equivoca che gli aleggiava attorno. Viveva in un certo qual senso una forma di disagio, e rabbia, per quelle velate manifestazioni di razzismo che era costretto a subire: “perché devono fermare me e non l’uomo in giacca e cravatta che mi cammina accanto?” pensava; “e se quello dentro la ventiquattrore avesse dodici chili d’eroina e una bomba?”

Prima di diventare tunisino, non aveva mai prestato attenzione alle piccole cose che segnavano un confine invisibile tra le persone: a quei particolari che separavano la gente, che la classificavano in categorie, che quasi giustificavano determinati atteggiamenti discriminatori.

Negli ultimi anni invece s’era reso conto di un cambiamento generale, e il peso specifico del suo fingersi straniero era aumentato.

Se la rivalità tra pisani e livornesi si nutriva ormai di proverbi, detti e battute folkloristiche, restando sempre in equilibrio sulla bilancia della tradizione, quella che lui mentalmente definiva “guerra tra esseri umani ed extracomunitari” stava raggiungendo picchi

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pericolosi d’estremismo impari.

E se dieci anni prima viveva di rimbalzo l’astio contro i pisani, arrivando persino a riderci su, adesso era vittima diretta di un qualcosa che cominciava a fargli paura, contro cui voleva lottare.

Non era facile da spiegare… sarebbe stato semplice lasciarsi scivolare tutto addosso, conscio di recitare solo una parte; ma quando si trovava davanti un atto discriminatorio, che ne fosse bersaglio o meno, avvertiva ribollire dentro un fervente desiderio di giustizia.

Sotto sotto, forse, si sentiva in colpa per aver sfruttato a suo favore lo stereotipo garantitogli da quella falsa identità; non era stato proprio lui, per primo, ad alimentare il pregiudizio creando Habib, lo spacciatore tunisino?

Comunque non era certo il momento d’addentrarsi in riflessioni del genere.

Già rischiava d’essere fermato normalmente, e la macchina ridotta a quel modo non era certo uno slogan alla discrezione: il vetro di fronte non aveva ceduto del tutto sotto i colpi del piolo in metallo, però c’era una ragnatela di crepe sul lato destro, là dove si era aperta una breccia, che quasi gli impediva la visuale; il cazzo inciso sulla fiancata non passava propriamente inosservato e lui era un tantino sospetto, con la maglietta macchiata di sangue e la barba sporca di schifo.

Inoltre chiunque dotato d’olfatto, che si fosse avvicinato al finestrino aperto, avrebbe potuto nutrire qualche dubbio sulla tremenda puzza di morto che proveniva da dentro la vettura.

Deodoranti per interni al profumo di cadavere ancora non ne avevano inventati…

Uscì dal parcheggio coperto e prese la strada svoltando sulla destra.

L’odore nell’abitacolo era nauseabondo: i corpi dovevano essere lì da chissà quante ore, almeno da quando aveva lasciato “Favollino”

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poco dopo pranzo.

Il caldo di quella giornata li aveva cotti ben bene…

Provò a immaginare cosa potesse essere accaduto, ma ogni ipotesi si schiantava irrimediabilmente addosso a una realtà di senso compiuto.

Era tentato di telefonare a Carlo per chiedere spiegazioni, ma sarebbe andato contro la sua professionalità: ormai aveva accettato di svolgere il lavoro, doveva cavarsela da solo.

Glielo avrebbe domandato in seguito.

Mentre guidava senza una meta ben precisa, incrociando mentalmente le dita nella speranza di non incontrare qualche zelante pattuglia dei carabinieri, Marco pensava al modo migliore per far sparire i pezzi umani.

Ecco: a rifletterci quella sembrava proprio una delle tipiche “cacate fuori dal vaso” contro le quali “il Bomba” lo aveva sempre messo in guardia.

Ma chi glielo faceva fare?

-Tremila euro.- annunciò a voce alta.

Il sole tramontava dietro le case e il cielo cominciò a farsi più scuro.

Avrebbe potuto aspettare la notte per sbarazzarsi dei cadaveri.

Percorse l’Aurelia e si fermò a un semaforo, mettendo la freccia in direzione Ardenza, fingendo di non notare gli autisti al suo fianco che gli scrutavano la fiancata ridacchiando sotto ai baffi.

Valutò se appesantire i sacchi con dei massi o roba del genere, per poi gettarli in mare dal ponte di Calafuria.

Non sembrava una cattiva idea…

Poi gli venne in mente che la splendida scogliera a metà strada tra Livorno e Quercianella diventava ogni giorno un campo di battaglia, con orde di persone in equilibrio precario sugli scogli, alla caccia di un posticino scomodo per crogiolare al sole, e che qualche

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nuotatore intraprendente avrebbe potuto rinvenire un bel braccio mozzato, o una testa mangiucchiata dai pesci, là dove pensava di trovare ricci e arselle.

Gli venne un brivido lungo la schiena nell’immaginare i fantasiosi titoli che sarebbero apparsi sui quotidiani locali, il giorno successivo all’ipotetico ritrovamento dei macabri sacchi della spazzatura.

“Raccolta differenziata? La stai facendo male.”

“Cacciucco umano.”

“Piranha Serial Killer!”

“Jack lo squartatore non è morto. Era in vacanza a Castel Sonnino.”

Ma sarebbe potuta andare peggio…

Comunque accantonò l’idea di gettare i sacchi in mare, relegandola momentaneamente tra i piani B. Magari avrebbe potuto buttarli nei fossi del quartiere Venezia: là persino un sub avrebbe faticato a trovarli, con l’acqua tanto sporca e verde da sembrare vernice...

La soluzione giunse superando un incrocio, quando comparve, poco più avanti, la forma tozza di un edificio squadrato sulla cui facciata campeggiava l’insegna “Ferramenta”.

Avrebbe comprato un badile e sarebbe andato a seppellire i corpi in campagna. *** Parcheggiò l’auto sul marciapiede di fronte al cancello d’ingresso; un piccolo giardino separava la struttura dalla strada. Attraverso la porta a vetri del negozio, vide un commesso che spazzava il pavimento; un altro stava contando i soldi in cassa.

Marco scese dalla vettura lasciando accese le quattro frecce, cercando di pulire in qualche modo le macchie sulla maglietta; corse

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dentro alla ferramenta nella speranza che non avessero già chiuso.

-Mi dispiace, siamo chiusi…- annunciò con voce annoiata il ragazzo con la scopa in mano, senza neanche alzare lo sguardo.

Quello che contava l’incasso, invece, lo vide fare irruzione nel locale e si spaventò: alla vista di un extracomunitario dal volto stralunato e la barba lunga e sospetta, con gli abiti sporchi di macchie che parevano sangue, si portò le banconote al petto lasciandosi sfuggire un lamentoso -Oh mamma mia!- che attirò l’attenzione del collega.

Quest’ultimo guardò verso il nuovo arrivato e, per riflesso, strinse con forza il manico della scopa.

Marco sentì la rabbia ribollire dentro, ma si costrinse a fermarsi e ad alzare la mano in segno di pace.

Non avrebbero reagito a quel modo, se al posto suo fosse entrata una vecchia e amabile signora che brandiva una mannaia…

I due rimasero fermi nelle loro posizioni, mantenendosi sulla difensiva; il ragazzo che impugnava la scopa ripeté, questa volta più deciso: -Siamo chiusi.-No problema amici…- esordì Marco nei panni di Habib, sorridendo, -io comprare. Io soldi.-Non mi hai sentito? Ho detto…- continuò minaccioso il giovane, spostando in maniera inequivocabile la ramazza.

L’altro lo interruppe con voce stridula, -Dagli quello che vuole, Davide.- sembrava terrorizzato da chissà cosa.

A Marco venne quasi voglia di dare fondamento a quella paura irrazionale, ma si ricordò ciò che aveva in macchina e desistette, -A Habib serve pala, per fare buca in terra.- chiese, mostrando un bel sorriso.

Il commesso con la scopa lo squadrò per qualche istante e, controvoglia, si incamminò verso un corridoio tra gli scaffali.

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-La vuoi con il manico d’acciaio o di legno?- domandò.

-Ferro!- rispose Marco, -Più forte!- e strinse i pugni a evidenziare la cosa.

-Costa di più…- annunciò il ragazzo con tono strafottente.

-No problema.- disse lui, continuando a ribollire.

Il commesso tornò portando con sé un badile; non gli chiese nemmeno se andava bene: lo appoggiò sul bancone e si mise a fianco del collega, incrociando le braccia.

L’altro lesse l’etichetta, -Sono quarantatré euro e settanta…- annunciò nervoso.

Habib annuì, -Molto buono.-; mise una mano in tasca e tirò fuori un rotolo di banconote da cinquanta.

Si divertì a vedere la reazione dei due alla vista dei soldi: il ragazzo s’accigliò restando fermo nella sua posizione, il secondo sgranò gli occhi e deglutì.

Poteva immaginare i loro pensieri…

Pagò.

-Comunque c’è un orario da rispettare.- annunciò astioso il ragazzo, -La prossima volta…- spostò casualmente lo sguardo all’esterno e si bloccò: -È tua quella macchina?- chiese, indicando la Mini gialla parcheggiata fuori.

Marco si voltò, -Sì.- fu pronto a rispondere, aspettandosi qualche battuta sul cazzo inciso nella fiancata, -Perché chiede?-Niente…- continuò il giovane incupendosi, mantenendo lo sguardo fisso sulla vettura; sembrò pensarci su, poi riprese la tiritera, -La prossima volta vieni prima.- continuò, -Qui ci sono delle regole.

Non potete fare sempre come vi pare.Il collega lo interruppe, -Allora grazie e arrivederci.- disse sbrigativo porgendogli il badile, felice di potersi sbarazzare di lui.

-Grazie, grazie.- Marco prese la pala e chinò il capo in segno di ri-

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spetto; -Bello negozio…- annunciò con un nuovo sorriso, subito prima di varcare la porta a vetri, -io torna con amici.E uscì.

Fuori si stava facendo buio e la strada cominciava a illuminarsi dei fari delle auto in transito.

Marco montò a bordo e partì; il badile ce l’aveva, adesso doveva solo trovare un posto abbastanza isolato dove seppellire i corpi; si prospettava una bella faticata.

Tremila euro…

Il tizio che gli era crollato addosso nel parcheggio non aveva più dato alcun segno, e lui non si era arrischiato a tirare via la copertura per controllare se fosse ancora vivo; se lo era, avrebbe prima interrogato Carlo sul da farsi.

In caso contrario sarebbe stato costretto a fare una buca più grande.

Viaggiava ancora senza una meta ben precisa, cercando di ricordare qualche posto appartato in cui poter scavare indisturbato, interrogandosi sul perché il commesso del negozio si fosse interessato così tanto a quell’auto.

Lì per lì pensava fosse per via degli sfregi sulla carrozzeria, ma quello sembrava più sconcertato che altro.

Forse era semplice discriminazione: magari non gli sembrava giusto che un extracomunitario come lui girasse con tutti quei soldi e una macchina tanto costosa.

Era lì che covava la rabbia, provando a immaginare una possibile spiegazione, quando una figura in bici sbucò all’improvviso dal marciapiede alla sua destra, tagliandogli la strada e costringendolo a inchiodare.

Sentì alle spalle uno stridio di gomme sull’asfalto, subito seguito da una strombazzata di clacson.

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Marco tirò fuori la testa dal finestrino, pronto a mandare al diavolo l’incauto ciclista.

Si bloccò sgranando gli occhi per la sorpresa.

Illuminato dai fari delle macchine, incurante delle ingiurie di quanti erano costretti a frenare di colpo per non andargli addosso, il barbone che quel pomeriggio gli aveva fregato la bicicletta pedalava zigzagando nel traffico come se nulla fosse, diretto chissà dove. *** Era affezionato alla sua vecchia bicicletta: il Petrotta gliela aveva regalata qualche anno prima, quando la scelta di Habib di non usare la macchina si era rivelata un tantino problematica per gli spostamenti in città.

Era uno dei pochi ricordi che Marco aveva del “Bomba”, ed era intenzionato a riprendersela.

Accelerò sorpassando a pelo una vettura poco più avanti, beccandosi a sua volta una buona dose d’offese e strombazzate gratuite dagli altri autisti.

Il ladro di biciclette procedeva evitando le macchine, scavallando sul marciapiede, invadendo la corsia opposta incurante del pericolo; non fu facile restargli dietro, ma con qualche manovra azzardata e un po’ di fortuna riuscì a seguirlo fino a che non svoltò in una via relativamente sgombra; quasi lo perse quando tagliò di netto la strada a un camion, travalicando qualsiasi regola del codice stradale e inventandosi di sana pianta un incrocio personale che lo fece sbucare da tutt’altra parte.

Marco circumnavigò la chiesa dell’Apparizione e tornò indietro di qualche centinaio di metri, ribeccandolo poco dopo.

Gli restò a debita distanza: l’uomo pedalava senza voltarsi, proce-

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dendo verso una zona disabitata che costeggiava campi incolti; non montava la bicicletta donatagli dal Petrotta, ma sperava che lo potesse portare dove la teneva.

Sempre che ne fosse stato ancora in possesso; perché in caso contrario…

Tra lo stress causato dal ritrovamento dei cadaveri, l’ingrato compito che si era accollato senza sapere di cosa si trattasse e l’atteggiamento da stronzo del commesso della ferramenta Marco si sentiva particolarmente nervoso.

Non era un violento ma a volte perdeva la pazienza e, di conseguenza, la capacità di giudizio.

Stava viaggiando con dei sacchi da spazzatura nel bagagliaio, pieni zeppi di pezzi umani; sui sedili posteriori c’era un groviglio di gambe e braccia mozzate e, per non farsi mancare niente, come passeggero aveva un tizio che poteva essere morto stecchito già da un bel po’.

Ma non riuscì a far altro che seguire il barbone, con propositi di vendetta a solleticargli la mente e la tenue speranza di ritrovare l’amata bicicletta.

“Se si scopre che un disadattato mi ha rubato la bici,” pensava, cercando di giustificare in qualche modo le sue azioni, “che figura ci faccio nell’ambiente?”

Il barbone pedalò ancora per un po’, superando un complesso di negozi, supermercati e capannoni commerciali recuperato da qualche tempo, sorto là dove, solo pochi anni prima, si estendeva a vista d’occhio un degrado fatto di edifici abbandonati e fabbriche cadenti; poi svoltò di colpo a destra imboccando una stradina sterrata immersa nell’oscurità.

Marco inveì tra sé e rallentò fino a fermarsi; non ci mise molto a scegliere sul da farsi. Spense i fari dell’auto e girò a sua volta, man-

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tenendosi distante e perdendo di vista l’obiettivo.

Il viottolo era accidentato e pieno di buche, sembrava abbandonato da chissà quanto; mise a dura prova le sospensioni della Mini procedendo alla cieca, sperando di non finire in un fosso nascosto.

Del barbone nessuna traccia, ma la via seguiva un’unica direzione, a meno che non vi fossero svolte celate nelle erbacce, e Marco procedette a passo d’uomo.

Dopo qualche decina di metri sobbalzanti, e un paio di “maiale” molto poco tunisini imprecati a denti stretti, intravide la sagoma di un grosso edificio emergere nella penombra.

Sembrava quel che restava di una fabbrica dimenticata dall’uomo e conquistata dal tempo; un basso muro crollato in più punti ne cingeva i confini, ergendosi insicuro tra le sterpaglie e la spazzatura che punteggiava uno spiazzo nei campi; lo scheletro di un cancello divelto penzolava malfermo tra due colonne scrostate.

Marco parcheggiò e spense il motore. Per un istante gli sembrò di sentire un rumore in lontananza, poi tutto tacque.

Là anche i suoni del traffico giungevano ovattati. Era buio, e solo la luce di una luna crescente provava a donare senso alla vista creando ombre lunghe e dense.

Del barbone nessuna traccia.

Non sapeva di quel posto; un rudere abbandonato a poche centinaia di metri dalla città, del quale si era perso il ricordo. Gli venne in mente che sarebbe stato un luogo perfetto per scavare una buca profonda… un luogo perfetto per nascondere qualcosa.

O qualcuno.

Un brivido gli percorse la spina dorsale e lui scosse la testa per cacciare i brutti pensieri; da piccolo sua zia gli raccontava che i brividi improvvisi erano un segno: “è passata la morte”, diceva lugubre.

Non era il momento giusto, né il posto adatto per ricordi del ge-

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nere.

C’era un qualcosa di inquietante nell’atmosfera.

All’improvviso, una luce esitante filtrò tra un pertugio che si apriva al piano terra.

Marco si decise a muoversi; prima di uscire dalla macchina però, si chinò a cercare sotto al sedile del passeggero. Dalla borsa che conteneva la droga prese il martello incrostato di scuro.

Non si poteva mai sapere… meglio essere cauti.

Smontò e chiuse lo sportello cercando di non fare rumore.

Nella penombra si vedeva a malapena; si incamminò verso la fabbrica stando attento a non inciampare nelle buche del terreno. Oltrepassò il cancello e proseguì fino a raggiungere un ingresso: una porta scorrevole in metallo lasciata aperta abbastanza da permettere il passaggio.

La luce veniva da dentro.

Restò in ascolto: da qualche parte all’interno del rudere, qualcuno stava cantando.

Si guardò intorno.

Nessuno.

Strinse il manico del martello con la mano che si era fatta di colpo sudata e scivolò all’interno della fabbrica abbandonata.

*** “I ricordi felici lascian le cicatrici, i ricordi più brutti li dimentican tutti…”

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Una voce roca, persa da qualche parte, accolse Marco rendendolo inquieto.

Per quanto potesse essere possibile, dentro la fabbrica lo scorrere del tempo si rivelava ancora più inclemente.

C’era puzza di combustibile; la muffa si arrampicava su muri scrostati imbrattati di murales e scritte di pennarello; pezzi di piastrelle spezzate e polvere di gesso segnavano il passo su un pavimento punteggiato da cumuli di macerie e immondizia. C’erano due grossi bidoni di metallo, all’interno dei quali ardeva il fuoco: le ombre delle cose s’allungavano nella grande stanza, perdendosi nel soffitto alto almeno venti metri, rifuggendo la luce tremolante prodotta dalle fiamme.

Nonostante il caldo dell’estate imminente e i falò scoppiettanti nei fusti accesi, Marco sentì un nuovo brivido corrergli giù lungo la schiena.

Al centro del locale che un tempo doveva ospitare enormi macchinari di chissà quale tipo, c’erano decine, se non centinaia di biciclette.

La follia, perché quella era l’unica spiegazione plausibile che la mente di Marco riuscì ad associare a ciò che aveva di fronte, era che tutte quelle bici erano state incastrate con cura tra loro a formare una struttura che si protendeva leggermente sghemba verso l’alto, fin quasi a lambire il soffitto.

Assomigliava a una torre sbilenca il cui scheletro era fatto di ruote, manubri, telai, sellini e pedali saldati tutti assieme, composta da un numero incalcolabile di cicli e sorretta da due robuste impalcature in ferro da esterni, che la cingevano in una morsa protettiva.

A Marco per un istante passò il ricordo della Torre di Pisa, pendente allo stesso modo e circondata dai ponteggi per la ristrutturazione.

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Scosse la testa scacciando lo stupido pensiero.

Un’altra bicicletta era stata abbandonata al suolo poco distante dall’ingresso.

Restò immobile a fissare la folle opera architettonica fino a che il forte odore di benzina che impregnava l’ambiente non gli fece notare le taniche in plastica disseminate tutto attorno.

“Se vuoi dormire sogni contenti…”

La voce roca cantilenò ancora, giungendo ovattata da qualche luogo imprecisato nella fabbrica.

Marco strinse l’impugnatura del martello guardandosi attorno e studiando meglio l’ambiente.

C’erano dei grossi cassoni di metallo, simili a container, sparsi qua e là a bloccare la visuale. Un buco nel muro alla destra conduceva verso altre stanze dell’edificio; notò una luce, simile al fuoco tremolante dei bidoni, provenire fioca da oltre il pertugio.

Da una parte avrebbe voluto darsela a gambe, lasciarsi alle spalle quel luogo che sfuggiva alla sua comprensione; poi pensò che il barbone potesse essere una specie di strambo scultore, di qualche ancor più stramba corrente artistica moderna, e che quel posto oltre a essere la sua casa fosse una sorta di bottega.

Un giaciglio sfatto e dei vestiti ammonticchiati a ridosso di una parete avallarono la prima parte della teoria.

Come avrebbe reagito l’uomo nel trovarselo di fronte all’improvviso? Era un tipo aggressivo?

Di certo era un ladro.

Aveva davvero rubato così tante biciclette solo per costruire quella…

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Nel contemplare di nuovo la struttura pendente, riconobbe incastrata quasi alla cima la bici che gli aveva regalato il Petrotta.

Doveva essere una delle ultime che il barbone aveva montato; svettava a circa venti metri da terra, là dove la “torre” si appoggiava a una delle due impalcature.

Bastò quello a fargli prendere una decisione.

S’incamminò verso i ponteggi, mantenendo d’occhio il buco nel muro che sembrava essere l’unica altra via d’uscita dalla stanza. “…lascia andar via i tuoi rimpianti.”

La cantilena proseguiva senza aumentare d’intensità.

Marco infilò il martello nei pantaloni; si augurò non dovesse servire, ma sarebbe stato comunque in grado di difendersi.

Raggiunse i tubi d’acciaio montati a sorreggere le biciclette: c’era una scaletta in metallo che conduceva a delle assi situate a due metri da terra; poi da lì in su avrebbe dovuto arrampicarsi per un altro paio di metri, per arrivare alle tavole successive, e così via fino in cima.

Poggiò le mani sulle bici che formavano la base della torre e strattonò con energia: le intelaiature sembravano umide, appiccicose, e la puzza di combustibile si faceva più forte; immaginò che fossero state spruzzate di benzina, magari per chissà quale esigenza artistica, ma non se ne curò.

La struttura non si mosse di un millimetro; le bici in basso erano di certo saldate tra loro.

Marco sperò che la sua fosse solo incastrata; si trovava in cima, non sarebbe stato facile riprenderla.

Dette un ultimo sguardo al buco e iniziò la scalata.

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Al contrario della torre, l’impalcatura non era per niente solida: cominciò a cigolare non appena mise il peso sulla scaletta; salì un paio di gradini, accompagnato da rumori poco rassicuranti e da un discreto traballare dei tubi ai suoi lati.

Quando raggiunse le prime assi, gli scricchiolii e i suoni inquietanti parvero cessare.

Anche la voce aveva smesso di cantare.

Marco si chinò, in attesa che il barbone sbucasse di colpo e lo cogliesse in flagrante. “È solo un gioco di sentimenti, tu non puoi vincer se ti lamenti…”

La cantilena riprese subito, quasi a volerlo rassicurare.

Si fece coraggio, pensò che in fin dei conti per quella bicicletta valesse la pena correre qualche rischio e ricominciò a salire.

L’odore di benzina era pungente.

Quando fu a circa quattro metri dalla cima, gli scricchiolii e i cigolii stridenti dell’impalcatura iniziarono ad accompagnare ogni suo minimo movimento, ogni centimetro di scalata, ogni respiro.

La presa si faceva sempre più difficile, a causa delle mani sudate e della paura che tutto cedesse da un momento all’altro.

Alla fine raggiunse le ultime assi e si rannicchiò guardando in basso.

Da lassù il suolo sembrava molto più lontano rispetto a quanto gli era parso il soffitto visto da giù.

Ma la bicicletta che gli aveva regalato il Petrotta era lì a portata di mano.

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Si allungò e l’afferrò per la canna, provando a smuoverla tirandola a sé.

I tubi di metallo sotto di lui parvero tremare in risposta.

La bicicletta si mosse leggermente, facendogli pensare che magari non fosse stata saldata come le altre; tirò ancora e gli sembrò potesse cedere.

Il manubrio di un altro ciclo posto poco più in basso la teneva incastrata per un ruota.

Marco tirò fuori il martello dai pantaloni e fece leva con l’impugnatura.

L’impalcatura oscillò cigolando.

Sentì il pezzo cominciare a piegarsi; provò a strattonare di nuovo ma niente; vide che sulla destra un pedale era incuneato tra i telai.

Passò una mano nella barba ormai sudata e sbuffò.

Come diavolo aveva fatto il barbone a infilarle in quel modo?

Questa volta provò a percuotere con il martello.

Il colpo risuonò nella stanza, subito seguito da un suono stridente.

Appena la bici si mosse leggermente verso di lui, Marco capì che avrebbe funzionato; picchiò ancora, cercando di restare in equilibrio sull’impalcatura sempre più precaria.

I cigolii divennero talmente acuti da costringerlo a fermarsi.

Quando si bloccò, però, i gemiti del metallo proseguirono aumentando sempre più d’intensità.

Udì un clangore poco più in basso, poi un altro, poi l’asse sotto ai suoi piedi oscillò verso destra.

Marco si lasciò prendere dal panico e dimenticò all’istante la bici del Petrotta; i suoi occhi cominciarono a vagare tutto attorno, alla ricerca di un qualcosa a cui aggrapparsi; vide i tubi che si staccavano a uno a uno, sconnettendosi tra loro in un reiterato tintinnare di ferro contro ferro; all’improvviso il ponteggio si spostò indietro,

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allontanandosi di colpo dalla torre e piegandosi dal lato opposto.

In un attimo di lucida consapevolezza Marco si preparò a saltare verso le biciclette, sicuro che non avrebbe avuto altra occasione.

-Maiale!- urlò, dimenticando Habib e tornando se stesso, come se quel tipico intercalare pisano avesse potuto conferirgli maggior slancio; le assi scivolarono via velocemente, reagendo alla spinta delle sue gambe.

Il roboare dell’impalcatura che crollava al suolo riecheggiò in ogni dove e lui fu in aria, sospeso in volo tra la morte certa e una torre pendente fatta di biciclette.

Le dita delle mani si strinsero con la forza della disperazione attorno al manubrio della bici del Petrotta. Sbatté contro i telai di quelle sottostanti, sentendo i vestiti stracciarsi all’impatto e fitte di dolore là dove la pelle venne lacerata dalle estremità acuminate dei cicli sporgenti.

Per un istante pensò che il metallo non avrebbe retto al suo peso.

Resse.

Appeso a mezz’aria come un novello Uomo Ragno, mentre i tubi dei ponteggi spezzati si infrangevano sul pavimento con un effetto domino che iniziò a tirare giù anche la seconda impalcatura, trasse un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo e ringraziò la buonanima del “Bomba” per avergli salvato la vita.

Adesso doveva trovare un modo per scendere prima che…

Vagando con lo sguardo verso il basso, notò che c’era un uomo che si nascondeva a ridosso di uno dei tanti container disseminati nella stanza.

Vide che stava fissando nella sua direzione, tenendo la bocca spalancata per lo stupore; nella luce tremolante dei falò, riconobbe il ragazzo della ferramenta che lo aveva servito brandendo la scopa.

Che diavolo ci faceva…

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- VI -

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Raffaele

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C’era stato un giorno in cui il suo nome era Raffaele; ma nel pericoloso viaggio della vita ci sono svolte tortuose e strade chiuse, rotatorie infinite, traffico condensato, lavori in corso, dirittoni tempestati d’autovelox, spie luminose che annunciano la fine del carburante…

Ci sono prese di consapevolezza improvvise e devastanti che ti fanno capire quali sono, veramente, le cose importanti: e la banalità di un nome proprio non è tra queste.

Adesso chi riusciva a vederlo, chi faceva lo sforzo di notarlo, chi aveva abbastanza coraggio per ammettere che lui non era solo un bizzarro elemento d’arredo della città, non una semplice sconfitta della società, non una macchia di colore sbiadito al limitare della percezione ma, inevitabilmente, ciò che restava di un essere umano, lo chiamava affettuosamente “Tom Tom”.

“Tom Tom” non sfrecciava più sull’autostrada dell’esistenza a bordo di un’auto potente, di una familiare, di un’utilitaria; “Tom Tom” non seguiva più i cartelli stradali, non rispettava il senso di 134

marcia, non si fermava agli stop o al rosso dei semafori.

“Tom Tom” ora sfidava il traffico del mondo cavalcando una bicicletta senza freni: pedalando instancabile, con il vento a soffiare nei pensieri, le lacrime della pioggia a rigargli l’anima e lo sguardo fisso, inamovibile, a una meta ben precisa.

*** -I ricordi felici lascian le cicatrici…-

Il suo capo lo aveva spinto con l’inganno a toccargli il cazzo.

-…i ricordi più brutti li dimentican tutti.-

Lui lo aveva aggredito dopo mesi di rimuginare interiore, ed era stato licenziato.

-Se vuoi dormire sogni contenti…-

Sua moglie lo aveva abbandonato.

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-…lascia andar via i tuoi rimpianti.-

Gli aveva portato via i due figli.

-È solo un gioco di sentimenti…-

Non era più riuscito a saldare le rate del mutuo.

-…tu non puoi vincer se ti lamenti.-

La banca gli aveva pignorato la casa.

-Nella realtà non esistono amici, solo sconfitte e sacrifici.-

Aveva perso tutto, diventando un senzatetto.

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-Giunge un bel giorno, la verità, che ti travolge e non mostra pietà.-

Viveva senza alcuno scopo, trascinandosi stancamente nel presente.

-Così poi capisci, che è meglio se cresci…-

Fino a che non si era reso conto che gli restava ancora una cosa…

-I ricordi più belli li faccio a brandelli.-

La vendetta!

-Nei ricordi brutti c’è odio per tut…-

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Il crollo dell’impalcatura di metallo nella stanza accanto sovrastò i pensieri di “Tom Tom” troncando di netto i versi della canzone, interrompendo il suo defecare e concedendo per un solo istante pace alla rabbia.

Tirò su i pantaloni senza pulirsi, appallottolò il volantino pubblicitario che stava studiando e lo tirò nel falò acceso di un bidone.

Sputò per terra e si incamminò fischiettando verso la sala della creazione.

Pensava che la sua esistenza fosse finita mesi prima, quando il destino si era messo a giocare a domino con lui facendogli crollare addosso, a una a una, le tessere che aveva poggiato con tanta cura in una lunga vita di sacrifici.

I ricordi si erano fatti vaghi negli ultimi tempi: andavano a sovrapporsi a immagini cruente e flash improvvisi che gli sfioravano i pensieri, e tingevano di rosso sangue ogni minimo ragionamento.

C’era l’odio a guidarlo. L’odio aveva sconfitto la disperazione e l’aveva salvato.

Si trovava davanti all’ufficio chiuso del suo capo, quando tutto era cominciato. Identificava con quell’istante, ancora impresso nella memoria, l’inizio della fine.

Poteva ancora sentire i rumori dei macchinari in funzione della fabbrica di biciclette, le voci in lontananza dei suoi colleghi, l’odore pungente dell’uomo che gli stava di fronte, con entrambe le mani occupate dall’ingombro di un’enorme scatola di cartone piena di chissà cosa.

Gli piaceva lavorare a Pisa, alla fabbrica di biciclette. Gli piaceva svegliarsi la mattina presto, fare colazione mentre tutti ancora dormivano, dare un bacio in fronte a sua moglie, ai suoi figli, montare

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in macchina e percorrere l’Aurelia con la musica della radio in sottofondo, e un po’ di tempo per vagare con i pensieri.

Ci metteva circa trentasette minuti da casa sua alla fabbrica, situata in un quartiere periferico della città vicina.

Salutava i colleghi, si fermava a fare qualche battuta ripetendo a memoria le frasi lette sul Vernacoliere, condivideva un po’ di livornesità lasciandosi prendere a sua volta in giro dalla controparte pisana, timbrava il cartellino e cominciava la giornata.

Costruiva biciclette. Gli piaceva.

Fino a quando il suo capo, fermo davanti all’ufficio chiuso in quella insospettabile pausa pranzo di metà Ottobre, con entrambe le mani impegnate a sorreggere lo scatolone e il solito sorriso dipinto sul volto non gli aveva chiesto un favore.

“Puoi prendermi le chiavi della porta, Raffi?” aveva detto, appellandosi a quel nomignolo che usava solo quando doveva proporgli degli straordinari, “Sono nella tasca sinistra dei pantaloni…”

Cosa ci poteva essere di sbagliato?

Cosa?

Quale era stato il suo errore?

Aveva messo una mano nella tasca dell’altro, in cerca del mazzo di chiavi.

Aveva toccato qualcosa…

Tastato…

Strusciato…

Il sorriso del suo capo che lo fissava dritto negli occhi.

La consapevolezza di stare stringendo un cazzo turgido, infilato a trappola in un buco dei pantaloni.

Aveva estratto la mano, in silenzio, senza alcun commento, ed era tornato al posto di lavoro.

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Su tutto scivolava una rossa cortina di rabbia, vergogna, colpa… e la memoria si confondeva.

Era stato mesi a rimuginare sull’accaduto, sentendo il peso degli sguardi dei suoi colleghi e chiedendosi se sapessero…

Aveva continuato a lavorare, a costruire biciclette, a fare su e giù da Livorno a Pisa, a vivere con un groppo sullo stomaco che si faceva sempre più ingombrante.

Nessuno sapeva; nessuno doveva sapere.

Le cose procedevano come se niente fosse successo.

Tranne per lui.

Poi il suo capo lo aveva chiamato di nuovo “Raffi”, non ricordava neanche per quale motivo, e non ce l’aveva fatta più.

Non era mai stato un tipo violento, ma lo aveva aggredito. Davanti a tutti. Senza un motivo apparente. E… Era stato licenziato.

Sua moglie lo aveva abbandonato.

Gli aveva portato via i due figli.

Non era più riuscito a saldare le rate del mutuo.

La banca gli aveva pignorato la casa.

Aveva perso tutto, diventando un senzatetto.

Viveva senza alcuno scopo, trascinandosi stancamente nel presente.

Fino a che non si era reso conto che gli restava ancora una cosa…

La vendetta!

-I ricordi felici…- canticchiò, entrando nella grande sala dove lo aspettava la sua creazione: -lascian le cicatrici.- guardò verso dove si aspettava di trovare la Torre di Pisa, e vide che le impalcature posizionate a sorreggerla erano crollate.

-I ricordi più brutti…- continuò, senza scomporsi, ammirando l’o-

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pera che gli si parava di fronte, -li dimentican tutti.Credeva mancasse un’ultima bicicletta da posizionare sulla cima, per renderla perfetta; ma a osservarla così, senza più i ponteggi a storpiarne la visione d’insieme, si rese conto che ormai era terminata.

Finalmente era pronta.

Mesi e mesi di lavoro: di duro lavoro.

Una soddisfazione immensa.

L’idea gli era venuta all’improvviso, facendosi largo a forza in uno dei tanti brutti pensieri che ormai affossavano la sua esistenza.

Alle volte, un gesto simbolico raccoglieva un significato maggiore rispetto a chissà quale altra azione.

Costruiva biciclette in una fabbrica di Pisa; il suo capo era pisano; i colleghi che sapevano di certo ciò che era accaduto, e non avevano fatto niente per difenderlo, erano pisani; la banca che gli aveva pignorato la casa era pisana; persino l’ormai defunto padre di sua moglie, la donna che l’aveva abbandonato proprio nel momento del bisogno portandogli via i figli, era pisano, e quindi, di conseguenza, pure lei e addirittura i suoi stessi bambini avevano sangue pisano nelle vene…

Percepiva con chiarezza che la mente stava pian piano abbandonando il contatto con la realtà, ma possedeva ancora quel barlume di lucidità capace di fargli capire che Pisa era l’artefice principale di ogni sua minima disgrazia.

Pisa e i pisani…

Quindi, cosa avrebbe potuto fare di più significativo, se non vendicarsi di questi dando alle fiamme la loro amata Torre Pendente?

Ecco l’idea che serviva; ecco la svolta: avrebbe appiccato il fuoco alla Torre di Pisa.

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Il fu Raffaele non era pazzo, o forse sì… comunque si rendeva perfettamente conto che non sarebbe mai stato in grado di farlo con quella originale.

Ma, come continuava a ripetersi, un gesto simbolico raccoglieva un significato maggiore rispetto a chissà quale altra azione.

Così, dato che “le biciclette” erano l’altro elemento cardine della rovina, aveva deciso di costruire una Torre Pendente tutta sua proprio utilizzando queste come struttura portante.

Erano stati mesi intensi.

Un continuo percorrere le strade di Livorno in cerca di bici lasciate incustodite dai proprietari.

Ne aveva rubate a decine, a centinaia, perlustrando ogni quartiere, ogni vicolo in un perpetuo su e giù da quella fabbrica abbandonata individuata come luogo perfetto per creare l’opera, che era anche diventata la sua nuova casa.

La gente ormai aveva imparato ad accettarlo come uno dei tanti strambi personaggi che donavano un tocco di colore alla città: aveva preso il posto di un’altra figura leggendaria di Livorno, deceduta da qualche tempo, che come lui cavalcava la vita del senzatetto in sella a una bicicletta.

Il nomignolo “Tom Tom” rievocava il suo essere sempre in movimento, il suo spuntare nei viottoli più nascosti e sconosciuti, il suo conoscere alla perfezione ogni curva, ogni anfratto, ogni luogo, proprio come l’omonimo navigatore satellitare.

Nessuno sapeva il perché rubava le biciclette; nessuno sapeva dove le portava; nessuno doveva sapere…

E se anche ogni tanto lo beccavano con le mani nel sacco, bastavano un sorriso e una battuta per farla franca. Perfino le forze dell’ordine avevano imparato a scherzarci su.

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Nessuno poteva anche solo lontanamente immaginare che ogni azione di “Tom Tom” era ispirata dall’odio e indirizzata verso un unico obiettivo: la vendetta.

Ogni tanto era costretto a elemosinare…

Odiava farlo, ma il corpo aveva bisogno d’energia per mandare avanti l’opera, e gli servivano soldi per comprare gli strumenti necessari a costruire la Torre.

Era riuscito ad acquistare una saldatrice, o forse aveva rubato anche quella, non ricordava bene…

E poi aveva messo da parte parecchi litri di benzina.

Più la Torre prendeva forma, più percepiva la necessità di completarla.

Sentiva nelle mani il formicolio dell’attesa; l’impellente sensazione di stare per raggiungere una meta.

La Torre Pendente di biciclette cresceva, e cresceva, e cresceva salendo in altezza, in significato, mentre l’odio aveva finalmente una struttura portante alla quale aggrapparsi.

E crescere a sua volta…

Pian piano che si avvicinava al soffitto della stanza, sentiva il dovere di fare più in fretta.

Aveva trascorso gli ultimi giorni rubando biciclette come se fosse stata l’unica cosa che contava: scordandosi spesso di mangiare, di bere, di dormire.

Non gli interessava di essere scoperto: qualsiasi pallido tentativo di sotterfugio aveva lasciato il posto alla fretta.

E cresceva…

Cresceva.

-I ricordi più belli…- ricominciò, annuendo soddisfatto: il crollo dell’impalcatura era di certo un segno.

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-Li faccio a brandelli.Si spostò verso il giaciglio che usava per riposarsi: il formicolio dell’attesa adesso si era esteso lungo le braccia; non riusciva a smettere di sorridere.

Cercò tra le coperte sudice, rendendosi conto in un lampo di lucidità delle condizioni in cui aveva vissuto per tutto quel tempo.

-Nei ricordi brutti…- scosse la testa tornando all’obiettivo, -c’è odio per tutti!Afferrò un grosso lucchetto di metallo.

Era il momento dell’assolo di strumenti: nella sua testa le chitarre salivano e scendeva una ripida scala d’accordi scatenati; la batteria segnava il tempo. Cominciò a fischiettare a ritmo, con la felicità trattenuta a stento e la voglia di mettersi a correre gridando di gioia.

Andò verso la porta scorrevole di metallo, l’unica entrata e l’unica uscita ancora aperta della fabbrica, e la chiuse con tale forza che l’eco dello schianto rimbombò per tutta la sala.

-Lascia andar via, i tuoi rimpianti!- urlò, con quanto fiato aveva in gola, mentre il lucchetto bloccava le maniglie e sbarrava la via di fuga. Provò a strattonare l’uscio, che non si aprì.

Tirò la chiave all’esterno, attraverso un buco nel ferro arrugginito, e si voltò verso la Torre Pendente con gli occhi umidi d’orgoglio.

I ricordi si confondevano, ma per la prima volta da quando aveva memoria si sentiva artefice di qualcosa di buono.

Adesso si trovava in Piazza dei Miracoli, a Pisa: teneva il Battistero alla sinistra e avanzava tra la folla di turisti che s’accalcavano lungo la via, immobili a reggere il cielo in pose ridicole.

Il sole lasciava posto alla luce calda del tramonto; l’aria baluginava di flash.

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Afferrò una tanica abbandonata sul prato verde a lato della strada; i cartelli “Non calpestare” valevano per tutti, ma non per lui.

Lui aveva creato quel luogo.

Un cinese gli si avvicinò per chiedergli di fargli una foto; lui lo mandò a fare in culo senza mezzi termini.

Avanzò e raggiunse la base della Torre; nessuno lo guardava, a nessuno importava di lui.

-Nella realtà non esistono amici,- intonò, svitando il tappo della tanica e respirando il pungente odore della benzina, -solo sconfitte…Cominciò a versare il liquido infiammabile sulla struttura, -e sacrifici.Girò attorno alla Torre Pendente, trovando abbandonate sul prato altre taniche e altra benzina.

Sembravano essere là proprio per lui.

Le usò tutte, irrorandola a fondo, tenendo l’ultima da parte.

Un rumore alle sue spalle lo fece voltare. Proveniva da dietro uno dei container…

Anzi, no. Da dietro un baracchino che vendeva souvenir.

Fece spallucce.

-Giunge un bel giorno, la verità, che ti travolge e non mostra pietà…cantilenò a voce alta.

Alzò la tanica sopra la testa e si rovesciò la benzina addosso, boccheggiando liquido per respirare.

-Così poi capisci…- tirò il contenitore che sbatté sul prato con un tonfo sordo; afferrò un accendino dalla tasca e fece lampeggiare la fiammella tenendola davanti a sé giusto il tempo di un lungo pensiero, -Che è meglio se cresci.Si dette fuoco…

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- VII -

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Davide

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All’improvviso fu l’inferno.

Il fuoco.

Ovunque.

Bruciava la torre di biciclette. Bruciavano le ultime vestigia della torcia umana. Bruciava la fabbrica.

Bruciava…

E presto sarebbe bruciato anche lui. *** Per Davide c’erano dei pro e dei contro nel lavorare con la donna amata.

La sveglia che lo destava dal sonno, alla mattina, era diventata uno dei suoni più meravigliosi del mondo: dava il via al personale conto alla rovescia che terminava non appena il suo sguardo incontrava quello di Rea. Non sentiva la fatica, il lavoro era leggero come un petalo di rosa, percepiva una speciale tredicesima ogni volta che lei sorrideva e i rari “straordinari” trascorsi assieme erano davvero straordinari.

Almeno per lui… che l’amava più di qualsiasi altra cosa.

Ma a volte la sveglia che lo destava dal sonno, alla mattina, era un rintocco di campana a morto che decretava l’inizio di un nuovo 152

giorno di tortura.

Lo sconforto rendeva pesanti come macigni i pensieri, la realtà delle cose era ghiaccio gelido sul cuore, nella busta paga a fine mese c’era sempre un ammanco d’amore e i frequenti “straordinari” trascorsi assieme erano fin troppo ordinari.

Almeno per lei… che lo vedeva solo come un collega.

Non aveva mai avuto il coraggio di rivelarle ciò che provava. Nella testa c’era sempre stata impressa l’immagine di un piedistallo sopra al quale lei svettava.

Per Davide, la bella Rea, era semplicemente troppo.

Troppo.

Così si accontentava di rubarle qualche momento, rapirle uno sguardo, creare un miraggio generandolo da un suo sorriso.

Bearsi dell’averla conosciuta, e di starle a fianco in ogni terzo di giornata… weekend esclusi.

Il loro rapporto si consumava in maniera professionale, senza eccessive sbavature da parte di lui, senza segnali d’interesse da parte di lei.

Andava bene così.

A volte Davide provava a pensare al futuro: alla fattibilità di vivere per sempre vincolato a un sogno.

Quanto sarebbe potuta andare avanti quella storia? Per quanto tempo il suo cuore si sarebbe accontentato di pompare battiti a vuoto?

Quando avrebbe trovato il coraggio di dirle: “Rea, ma non senti che io ti amo?”

Mai. Per sempre.

Galleggiava…

Non era male galleggiare. A volte scivolava sott’acqua, e beveva

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fino quasi a soffocare; ma per la maggior parte del tempo teneva gli occhi puntati al cielo, e se non ci pensava gli sembrava di volare.

E andava avanti così. Ogni terzo di giornata (weekend esclusi) lo viveva accanto a lei; per tutto il resto del tempo erano insieme, seppur nei suoi sogni.

C’era quel detto che recitava “In amor vince chi osa…”

Davide avrebbe voluto osare, ma la paura di perdere quel briciolo di intimità che c’era tra loro lo congelava all’immobilismo assoluto.

E se lei gli avesse detto no?

Il fatto che la realtà delle cose fosse già un “No”, non lo incitava comunque a rischiare.

E se lei se ne fosse andata?

No. E poi, riflettendo, “In amor vince chi osa…” era una frase inventata da qualcuno che non aveva mai avuto a che fare con i tizi che solitamente giravano attorno a Rea. Ce ne era uno in particolare. Uno di cui non conosceva il volto ma del quale aveva solo sentito parlare…

Lei ogni tanto gli raccontava (lo diceva anche agli altri colleghi, ma amava pensare che si confidasse solo con lui) di essere braccata da uno spasimante segreto.

Lo diceva trasformando la storia in un divertente aneddoto; ma a ben pensarci non c’era niente di così divertente in quella faccenda, e a Davide sembrava quasi che Rea in realtà ne avesse paura.

Non sapeva come si chiamasse, non lo aveva mai visto in faccia, non immaginava proprio chi fosse… quello strano corteggiamento proseguiva ormai da mesi sotto forma di telefonate anonime mentre lei era a lavoro, fiori recapitati da chissà chi, sensazione di essere seguita nel breve tragitto che divideva la ferramenta dalla sua casa.

No: Davide non ci trovava proprio niente di divertente. Un po’

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per pura e semplice gelosia e un po’ per normale apprensione.

Però poi Rea ci rideva su, scuotendo la testa e chiedendosi come facesse il suo “principe d’ombra”, così lo chiamava, a perdere tanto tempo dietro a una come lei…

E Davide un po’ moriva dentro, perché per “una come lei” lui aveva perso il cuore.

Si era ripromesso di seguirla, qualche volta. Solo e soltanto per cercare di beccare il pedinatore che la perseguitava di nascosto.

Ma aveva paura che Rea lo scoprisse, e travisasse le sue intenzioni.

Negli ultimi tempi, comunque, aveva alzato il livello di attenzione: cercava di tenere d’occhio tutti i tipi strani che bazzicavano troppo spesso i dintorni. Si era convinto che lo spasimante segreto tenesse sotto controllo la sua amata; che fingesse di essere un cliente, per farsi servire proprio da lei; che non potesse fare a meno di sbirciare dalla porta a vetri della ferramenta, anche solo per guardarla un istante.

Lui, al suo posto, avrebbe fatto così.

E in effetti c’erano un paio di tizi che gli sembravano alquanto sospetti.

Tra questi, uno gli provocava ansia e agitazione.

Lo aveva visto aggirarsi per le strade d’Ardenza, sia nell’orario che precedeva di poco l’ingresso a lavoro che subito dopo, alla fine del turno. Spesso si presentava a comprare piccole cose alla ferramenta: chiodi, bulloni, robetta così… e non c’era stata una sola occasione in cui non si fosse messo in fila per essere servito proprio da Rea. Magari non significava niente; magari era uno dei tanti a essere caduto preda dell’amore; magari…

Alto, robusto, moro, pallido come la morte.

Parlava da solo.

Davide lo aveva intravisto in più di una circostanza intento a un

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acceso dialogo con se stesso.

Anche quel particolare forse non dimostrava nulla, ma l’ansia e l’agitazione gliela faceva venire lo stesso.

“Se fosse lui?” pensava quando lo scorgeva in lontananza.

E sotto sotto temeva “E se lei gli dicesse sì?”

Comunque quel giorno il suo relativo livello d’attenzione aveva subìto un’impennata inaudita.

Rea era tornata a casa per la pausa pranzo, come faceva sempre, ma non era rientrata a lavoro in orario. Di per sé non era una cosa grave: il loro capo era un tipo alla buona e lasciava che fossero i commessi a gestirsi i turni; in questo modo riuscivano quasi sempre a coprirsi a vicenda in caso di bisogno. Però lei non aveva nemmeno avvertito, e quando avevano provato a telefonarle, sia a casa che al cellulare, non c’era stata risposta.

Niente di trascendentale: potevano esserci mille spiegazioni valide.

Ma l’ansia e l’agitazione di Davide erano puntualmente aumentate quando aveva fatto il suo ingresso nella ferramenta il tizio che parlava da solo.

Sembrava più sospetto del solito: s’aggirava tra gli scaffali con sguardo perso, voltandosi ripetutamente nella direzione del bancone come se temesse d’essere spiato.

E in effetti era proprio così. Davide non gli aveva tolto gli occhi di dosso nemmeno per un istante. Provava un’inspiegabile antipatia nei confronti di quell’uomo.

Non ne aveva motivo, ma più che lo studiava e più gli montava la rabbia.

Continuava a girovagare tra gli strumenti da giardinaggio parlottando tra sé, afferrando la roba e rimettendola a posto senza nemmeno osservarla; poi rialzava lo sguardo verso Davide e il suo collega, entrambi intenti a servire altri clienti, e tornava a confabulare.

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Era inquietante.

Anche l’altro commesso si era accorto della cosa; a un certo punto, parlandogli a bassa voce per non farsi notare, aveva consigliato a Davide di avvicinarsi all’uomo per controllare cosa stesse facendo.

Lui non se lo era fatto ripetere.

Incamminandosi nella direzione del potenziale molestatore, per un attimo aveva incrociato i suoi occhi: era stata paura quella che gli aveva letto nello sguardo?

E, soprattutto, perché sembrava piagnucolare?

Aveva cercato di mantenersi il più possibile neutro, sia nel tono che nei modi.

Fino a prova contraria quello era un cliente come tutti.

Nonostante un po’ di stranezze, qualche atteggiamento indefinibile e un fare decisamente preoccupante, era riuscito a trovare in poco tempo ciò che l’altro stava cercando, strappandogli persino un sentito “grazie” che per qualche minuto gli aveva fatto rivalutare la precedente impressione.

Solo per qualche minuto, però, perché poi si era scatenato il putiferio.

Poco prima che toccasse a lui pagare, l’uomo si era messo a urlare dal nulla qualcosa su di una fantomatica bicicletta che gli era stata rubata, e tenendosi ben stretta al petto la merce era corso fuori dalla ferramenta lasciando tutti di sasso.

Tutti, ma non Davide.

L’aveva inseguito, sfogando quella rabbia inspiegabile che provava nei confronti dello sconosciuto.

Era un ladro: matto come un cavallo, ma pur sempre un ladro.

Un ladro troppo veloce per lui.

Lo aveva perso di vista quando si era fermato a soccorrere una vecchietta travolta dall’altro nella fuga.

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Aveva provato a chiedere in giro se qualcuno l’avesse visto, a perlustrare un po’ il quartiere, ma l’uomo sembrava essersi volatilizzato nel nulla assieme alla roba che non aveva pagato.

Una sega per metalli, dei sacconi della spazzatura, qualche fascetta in plastica…

Valeva davvero la pena combinare tutto quel casino per pochi euro di merce?

Davide era tornato alla ferramenta, covando la speranza di riuscire prima o poi a ribeccarlo.

Il pensiero di ciò che era appena accaduto però l’aveva distratto solo per breve tempo: amplificata dagli eventi, la preoccupazione per la strana assenza di Rea si era fatta sempre più assillante.

Dopo l’ennesimo tentativo di contattarla al cellulare, Davide aveva chiesto al suo collega di sostituirlo per una breve pausa fingendo d’aver bisogno di un caffè.

Casa di Rea non era lontana: giusto un paio di centinaia di metri dalla ferramenta; affrettando il passo, era andato a controllare.

Un po’ si vergognava: bussare alla sua porta, senza alcun motivo valido se non l’inspiegabile angoscia per un’assenza che si poteva spiegare in mille maniere, lo faceva sentire uno sciocco. Già s’immaginava l’espressione scocciata di lei nel trovarselo davanti.

Avrebbe fatto un ulteriore passo indietro nel loro rapporto?

Ma non riusciva a levarsi dalla testa che quella giornata era nata con un piede storto, e che qualcosa di strano era nell’aria...

Prima di andare a suonare al campanello, però, aveva fatto un giro attorno alla villetta: giusto per verificare che non fosse nel giardino retrostante.

Si era pentito immediatamente d’aver ficcato il naso nei suoi affari.

Dal cancellino sul retro aveva visto uscire un uomo: sapeva che le ragazze belle come Rea erano attirate dai tipi strani, ma quel “fa-

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vollo” di un metro e cinquanta, carico di muscoli che strabordavano da una t-shirt fosforescente, evidentemente troppo stretta per il suo fisico palestrato, era stato veramente un duro colpo da digerire.

Si trattava, forse, del suo fidanzato?

Era ridicolo; un po’ come era ridicolo che lui se ne stesse appostato là fuori a farsi i fatti della collega. Si era nascosto dietro l’angolo sperando di non essere notato.

Non aveva neanche voluto ipotizzare di venire scoperto da Rea mentre era intento a spiarla.

Non avrebbe mai più potuto guardarla negli occhi.

Sporgendosi quel tanto che bastava per buttare uno sguardo alla strada aveva seguito le mosse di “Muscolo”, il nano forzuto.

Quello si era avvicinato a una Mini Cabrio, gialla come un canarino: lo aveva guardato sporgersi dentro dalla parte del passeggero, in cerca di qualcosa.

Quando l’uomo era sbucato fuori dalla macchina, con in pugno una specie di cassetta per gli attrezzi, Davide aveva tirato un sospiro di sollievo.

Magari si trattava dell’idraulico.

L’individuo era rientrato in casa di Rea dalla porta sul retro.

Cercando di autoconvincersi che quello era solo un tecnico, e non il Mister Olimpia alto un metro e cinquanta che si trombava fino allo sfinimento l’amata collega, Davide era tornato a lavoro.

La giornata iniziata male, era poi proseguita peggio: tra il solito trantran dei clienti rompiscatole, lo stare segregato al chiuso mentre fuori esplodeva l’estate, il tempo che non sembrava passare mai e l’immaginazione intenta a bombardargli il cervello con fantasie tremende di Rea vestita da Biancaneve, in dolce compagnia del suo nano palestrato preferito, le ore si erano trascinate a fatica fino al tramonto.

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Al momento di chiudere la ferramenta, quando ormai erano rimasti solo lui e il suo collega (non lo aveva reso partecipe del sopralluogo a casa della ragazza), era entrato in fretta e furia il tunisino a dargli il colpo di grazia.

Oltre ad averlo infastidito (e un tantino spaventato, ma non l’avrebbe mai ammesso) con quell’atteggiamento da sbruffone tipico di chi pensa di comandare a casa d’altri, a fargli aumentare ancora una volta l’ansia e l’agitazione c’era stata la macchina con la quale il tizio era arrivato.

Nonostante fosse ridotta in uno stato pietoso, con evidenti segni di vandalismo sulla carrozzeria sfregiata e il parabrezza semisfondato, l’aveva riconosciuta subito. Ne era certo, anche perché a scanso d’equivoci aveva memorizzato il numero di targa: era la Mini Cabrio gialla parcheggiata solo poche ore prima dietro casa di Rea. Di “Muscolo” nessuna traccia.

Perché la guidava quell’extracomunitario?

Per quale motivo l’auto era ridotta così male?

Ogni associazione plausibile di idee era andata a farsi benedire quando il tunisino aveva pagato un badile tirando fuori dalla tasca un rotolo di banconote da cinquanta euro così grosso che sia Davide, sia lo spaventato collega, erano rimasti senza fiato per lo stupore.

Col cavolo che un idraulico guadagnava tanto!

In che giri si era andata a ficcare Rea? Non ci aveva pensato su per più di qualche istante: senza dare tempo all’altro commesso di replicare, gli aveva chiesto di occuparsi della chiusura ed era uscito di corsa prendendo con sé il casco del motorino.

Poi si era messo a seguire nel traffico, mantenendosi abbastanza lontano, la Mini Cabrio gialla con a bordo lo straniero. Forse non

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aveva senso, come sembrava non averlo l’essersi recato a controllare quel pomeriggio a casa di Rea, ma voleva vederci chiaro.

Oh: in fin dei conti là si stava parlando dell’amore della sua vita.

L’auto aveva proseguito per un po’, tenendo un’andatura tranquilla, accodandosi alle altre vetture nella luce artificiale di fanali e lampioni.

Non era stato difficile starle dietro.

A un certo punto però aveva inchiodato di colpo, rischiando di provocare un incidente quando una macchina per poco non le si era schiantata contro. Davide aveva decelerato, nel caos improvviso di clacson e urlacci lanciati a chissà chi più avanti.

Non vedeva bene…

Con uno stridio di gomme sull’asfalto la Mini gialla era ripartita a tutta velocità, quasi grattando la fiancata nel superare l’auto avanti a sé.

Le era rimasto incollato; non sapeva per quale motivo il tunisino avesse deciso di giocare a “Fast and Furious” per le strade d’Ardenza, ma la preoccupazione per Rea lo aveva spinto ad accelerare a sua volta.

L’altro aveva mandato a tavoletta la vettura scomparendo in lontananza.

Davide se l’era di nuovo visto passare a fianco, dalla parte opposta della carreggiata, poco prima della rotonda dell’Apparizione.

Aveva fatto inversione a U e gli era rimasto dietro.

Andava verso via Grotta delle Fate, verso i nuovi centri commerciali, e sembrava procedere a velocità più “umana”.

Fino a quando non si era fermato nel bel mezzo della strada.

Aveva pensato d’essere stato scoperto. Stava già provando a inventarsi una scusa quando la Mini aveva spento i fari ed era ripartita svoltando nel buio dei campi. Là l’ansia aveva raggiunto livelli

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estremi.

“Rea” ricordava d’aver pensato, “ma perché?”

Naturalmente aveva spento le luci, imboccando a sua volta la stessa stradina sterrata.

Ormai aveva fatto trenta…

Seguendo il rumore del motore, stando bene attento a non essere disarcionato dalle numerose buche disseminate nel terreno e pentendosi d’essersi infilato in una simile situazione, era andato avanti fino a che l’oscurità non era tornata a farsi silenziosa. Aveva subito spento il motorino, zittendo di netto il suo borbottare. Nella luce della luna era riuscito soltanto a distinguere l’enorme sagoma di un edificio fatiscente.

Il tunisino era sceso dalla macchina, aveva chiuso lo sportello e si era incamminato nel buio.

Davide aveva abbandonato il mezzo adagiandolo nell’erba al limitare del sentiero e gli era rimasto dietro. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per Rea, ma aveva cominciato ad avere un po’ di paura; era sperduto nel nulla, senza nessuno che l’avrebbe potuto aiutare in caso di bisogno.

Cosa si era messo in testa di fare?

Gli era tornato alla mente l’atteggiamento aggressivo dell’extracomunitario, nella ferramenta: non c’era da scherzare con gente del genere…

Prima il ladro, poi quello.

Si era intrufolato nell’edificio, che in passato doveva essere stato una fabbrica gigantesca, scivolando attraverso una porta di ferro scorrevole.

Perché non tornava a casa?

Dentro era illuminato: nascosto dietro un grosso container di metallo, Davide aveva intravisto le fiamme ardere all’interno di alcuni

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barili disposti qua e là per lo stanzone.

E poi l’occhio gli era caduto sull’immensa torre fatta di biciclette, le quali si arrampicavano fino al soffitto incastrandosi sbilenche tra loro, appoggiate contro un’impalcatura di assi e tubi.

E aveva visto il tunisino di schiena, che camminava verso la struttura con lo sguardo rivolto al cielo e un martello stretto nel pugno.

E aveva sentito la voce cantare… “…lascia andar via i tuoi rimpianti.”

Davide s’era reso conto, finalmente, d’essere stato uno stupido.

Che accidenti ci faceva là dentro?

Ma invece di voltarsi e andarsene tornando sui suoi passi, era rimasto incantato a osservare il tunisino che si arrampicava con difficoltà lungo l’impalcatura. Lo stridio dei tubi di metallo non sembrava promettere niente di buono, e forse era proprio per quel motivo che non era riuscito a distogliere gli occhi dalla scalata.

La nenia cantata da chissà chi, chissà dove, aveva accompagnato buona parte dell’impresa.

Nel mentre si era reso conto del puzzo di benzina che aleggiava nell’aria: c’erano delle taniche posizionate in vari punti del pavimento.

La sua mente non era riuscita a fornire spiegazioni plausibili.

Che aveva a che fare Rea con… con quello?

Un colpo di metallo contro metallo lo aveva distratto da improbabili ipotesi.

Sulla cima della torre di biciclette il tunisino stava aggredendo a martellate la struttura cigolante.

Lo aveva fatto per due o tre volte, poi si era bloccato.

Lo scricchiolio acuto dell’impalcatura era proseguito per un po’, aumentando d’intensità. Davide era rimasto in silenzio, immobile

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a bocca aperta come uno scemo, mentre i tubi a uno a uno iniziavano a staccarsi e la struttura portante crollava su se stessa.

Gli istanti successivi si erano susseguiti con allucinante lentezza, quasi che la realtà fosse fatta di fotogrammi che andavano a imprimersi a fuoco nella memoria.

Il tunisino che era balzato con la stessa agilità di un gatto, o più probabilmente con la disperazione di un uomo a tu per tu con la morte, ed era riuscito ad aggrapparsi per miracolo a una bici prima di precipitare al suolo.

Il tunisino che si voltava, con occhi sgranati, e incrociava lo sguardo disperato con il suo.

Il tunisino che veniva risucchiato verso il basso dall’improvvisa forza di gravità.

Il sangue.

Lo schianto.

Il silenzio.

La canzone.

L’uomo vestito di stracci che era spuntato da un buco nel muro.

Ancora la canzone.

Il freddo del container quando ci si era schiacciato contro con la schiena, sperando di scomparire.

L’incapacità di muoversi.

Il cuore che batteva tanto forte da far sembrare impossibile che l’altro non lo sentisse.

La sagoma trasandata del barbone che cantava, e cantava ancora passandogli proprio di fronte senza neanche vederlo.

La porta che si chiudeva con uno schianto, l’urlo impazzito dell’uomo, lo scatto del lucchetto.

La paura.

Il buio davanti agli occhi sprangati a forza.

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“Dio ti prometto che pregherò tutte le sere”.

L’odore della benzina.

Lo sforzo disumano per sporgersi a osservare.

Il terrore quando l’altro si era voltato improvvisamente nella sua direzione, guardando lui ma vedendo oltre.

La tanica di benzina alta nel cielo.

Ancora il freddo del container, le palpebre chiuse, le preghiere disperate.

Le parole.

La canzone.

Le grida.

Terribili.

Grida.

Il pensiero, istantaneo, di essere lì solo e soltanto per amore.

Il fuoco a riscaldare il cuore.

L’incendio che ardeva ovunque, tutto attorno. *** Non furono le strilla d’agonia della torcia umana a risvegliarlo dal torpore.

Fu il silenzio improvviso che seguì.

Un silenzio che significava morte.

Durò poco… giusto il tempo necessario alla mente per percepire il crepitio del fuoco.

E il calore.

Davide si alzò di scatto mentre qualcosa crollava al di là del container.

La torre di biciclette era un’immensa pira ustionante: le fiamme si erano arrampicate fino al soffitto, danzando su scie di vampe blua-

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stre e aggredendo ciò che restava della struttura.

Dall’alto precipitavano palle di fuoco. Su buona parte del pavimento si estendeva un lago ardente. Il barbone ormai era diventato un tutt’uno con l’inferno.

Davide si rese conto che ben presto avrebbe fatto la stessa fine; cercando di tenere a bada il panico corse verso la porta.

Chiusa.

Strattonò più e più volte, tirando e spingendo nella speranza che il ferro arrugginito cedesse.

Il lucchetto sconfisse ogni illusione di salvezza.

Alle sue spalle esplose un muro di fuoco, poi il fumo cominciò a rendere il mondo una strana accozzaglia di lacrime e colpi strozzati di tosse.

Quasi non riusciva a respirare.

Vagò per un po’, evitando il materiale in fiamme che precipitava implacabile dal soffitto, premendosi contro il naso la maglietta sudata.

Arrivò vicino ai resti dell’impalcatura che un tempo sorreggeva l’enorme feticcio di metallo ardente. Là l’incendio non era ancora giunto. Con la vista offuscata dal pianto, vide spuntare tra tubi e assi spezzate un braccio che tendeva al niente.

Il tunisino almeno non sarebbe stato arso vivo.

Mentre la disperazione gli attanagliava il cuore iniziò ad afferrare dal cumulo crollato quanti più pezzi di legno possibile, e a tirarli lontano.

Magari se fossero rimasti solo i tubi di metallo, là attorno a lui, le fiamme non l’avrebbero raggiunto.

Quanto tempo ci sarebbe voluto prima dell’arrivo dei pompieri?

Quanto gli restava, prima di morire soffocato?

Alzando a fatica un’asse più grande delle altre, vide un martello

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semisepolto tra i rottami.

Era quello con cui il tunisino si accaniva contro le biciclette poco prima di precipitare.

Era la sua unica speranza.

L’afferrò, estraendolo dalle macerie neanche fosse stato una moderna Excalibur, abbandonandosi completamente all’istinto di sopravvivenza.

Corse di nuovo verso la porta chiusa.

L’aria si era fatta venefica: puzza di gomma bruciata e fumo nero come pece.

Alle spalle, al di là della cortina tossica, il mondo in fiamme.

La testa del martello si schiantò contro il lucchetto.

Libero!

Fece scorrere l’uscio arrugginito tirando con tutte le forze, catapultandosi all’esterno, nella notte benedetta. Caracollò avanti, piegandosi poi sulle ginocchia fino a che la tosse non lasciò spazio a respiri puri e profondi. Si voltò a osservare il rogo appropriarsi pian piano della fabbrica abbandonata.

L’impeto dell’adrenalina cominciò a scemare: gli sembrò di rivivere gli ultimi istanti al rallentatore.

Scoprì di non riuscire a smettere di sorridere.

Era salvo.

Nella destra impugnava ancora il martello; restò immobile a fissarlo. Davanti a lui l’edificio veniva divorato dall’incendio: le fiamme consumavano senza distinzione ogni cosa, compresi i cadaveri dei perfetti sconosciuti dei quali aveva assistito alla morte; era scampato per miracolo a una fine terribile, ma non poteva distogliere lo sguardo dallo strumento che teneva stretto in mano.

Era della stessa marca di quelli che vendeva alla ferramenta.

Scoppiò a ridere.

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Se lo infilò nei pantaloni, ripromettendosi di tenerlo con sé, mentre il volto di Rea tornava con prepotenza a invadere i suoi pensieri.

Doveva scoprire cosa le era successo.

Lasciandosi l’incendio alle spalle, s’incamminò verso il motorino.

Si rese conto che, preso dal panico e dalla foga dell’azione, non aveva fatto la cosa più semplice di tutte: chiamare aiuto con il cellulare.

Come aveva potuto non pensarci?

Sarebbe bastato…

Passando accanto alla Mini gialla, sentì una puzza terribile che lo fece bloccare di colpo.

Nonostante la difficoltà a respirare bene, e le narici ancora assuefatte al fumo dell’incendio, l’olezzo pungente gli fece venire la nausea.

Non ci aveva fatto caso in precedenza, forse perché non le si era avvicinato tanto, ma la macchina emanava un vero e proprio tanfo di morto.

Sentì un peso sul cuore: Rea? Terrorizzato dal pensiero, si sporse a guardare attraverso i finestrini.

Il riflesso delle fiamme sui vetri rendeva la notte meno oscura: vide sul sedile posteriore un cumulo di sacchi che nascondeva qualcosa.

L’odore era impossibile.

Facendosi coraggio, aprì lo sportello. *** Nel vuoto ingombrante che gli riempiva la testa c’era un unico spiraglio di realtà.

Rea. Non riusciva a capire quanto tempo fosse trascorso.

Una volta sbirciato sotto al velo della ragione, il mondo si era fer-

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mato.

Non aveva alcun senso: non lì, non a Livorno, non a lui…

L’incendio divampante non c’era più; la fabbrica non c’era più; la disperazione degli istanti appena trascorsi non c’era più.

Solo l’orrore per ciò che celavano dei banali sacchi della spazzatura.

Come se fosse stato un semplice spettatore, era rimasto imbambolato a osservare la sua mano spostarsi spontanea a toccare quei…

C’era un uomo steso immobile sul sedile posteriore, con gli occhi spalancati al niente, ma tutto attorno erano ammassati dei…

Le dita avevano toccato qualcosa di freddo e duro; si erano mosse, spinte da una morbosa curiosità, a indagare là in mezzo sfiorando pelle fatta di ceramica.

Erano parti.

Pezzi.

Incompleti.

Non sapeva il perché, ma era andato a controllare anche nel portabagagli.

Altri bustoni dell’immondizia.

Pieni.

Aveva strappato la plastica che conteneva quelle…

I tranci erano cascati al suolo uno a uno, mentre lui svuotava disperato i sacchi in cerca di un indizio che potesse ricondurlo a Rea. Lo aveva trovato.

Nella zuppa di diverse membra umane che si mischiavano ai suoi piedi aveva visto rotolare due teste mozzate: una era dell’uomo che quel pomeriggio aveva rapinato la ferramenta.

Lo stesso che lui immaginava essere il molestatore della ragazza.

Non si era fatto domande: che motivo avrebbe avuto?

Non c’era nessun senso in quello che stava accadendo.

Non lì.

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Non a Livorno.

Non a lui.

Aveva telefonato alla polizia, cercando di riassumere in poche, difficili parole quello che aveva sotto agli occhi e rispondendo alle richieste di una voce scettica.

Aveva promesso di restare immobile, ad attendere l’arrivo delle volanti.

Poi era montato in sella al motorino ed era partito a tutta velocità verso casa di Rea. Il traffico gli scorreva a fianco in colori scuri di carrozzerie anonime e lampi di fari saettanti. Non andava abbastanza veloce.

Gli inopportuni pensieri pornografici su Rea in compagnia del suo nano muscoloso erano ormai stati sepolti da una valanga di prospettive agghiaccianti.

Nella mente c’era il sangue. Le urla. La disperazione impressa nell’ultimo sguardo della ragazza mentre un’ombra sovrastante le rubava la luce.

Cosa le avevano fatto?

Perché non era stato in grado di proteggerla?

Il desiderio di schiantarsi contro un muro a tutta velocità fu surclassato dal tenue calore di una speranza che andava affievolendosi.

Un lumino solitario nella notte piena di terrore.

Non riusciva a ricollegare le ultime cose che aveva visto; vissuto; subìto…

Era impossibile che roba del genere fosse accaduta proprio lì; proprio a Livorno; proprio a lui.

Era da film.

Un’americanata bella e buona.

Inconcepibile.

Gli avevano insegnato che i mostri non esistevano: affare da favole,

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da storie grottesche, da quattro chiacchiere davanti all’ennesimo servizio shock del telegiornale, da titolone in prima di copertina.

Chi li aveva mai visti, davvero, i mostri?

Erano realtà distanti e aliene, tanto più effimere quanto più venivano ingigantite.

Di sicuro non potevano essere lì.

Come era possibile che dentro una macchina abbandonata nella periferia della banale Livorno ci fossero degli esseri umani fatti a pezzi?

Che li trovasse lui?

E l’uomo schiantatosi al suolo davanti ai suoi occhi?

E la torcia agonizzante che cantava al cielo la propria morte ardente?

No. Rea. Contava solo Rea. Tutto il resto sarebbe stato chiarito una volta trovata Rea. La casa della ragazza, buia e silenziosa nella tranquillità di una via deserta, apparve davanti a lui come uno scoglio al quale aggrappare la ragione.

Davide parcheggiò il motorino di fronte al vialetto d’ingresso e corse a suonare al campanello con sopra inciso “Andrea Stopardi”.

Suonò di nuovo; bussò; urlò.

Dalle imposte chiuse non trapelò nessun bagliore di speranza.

Sentì il rumore delle persiane che si alzavano, da qualche parte là dietro, mentre i vicini delle altre villette tiravano fuori la testa per nutrire la loro curiosità a scapito della sua disperazione.

Non se ne curò.

Saltando le aiuole del giardino girò attorno all’edificio sbattendo le mani a ogni finestra.

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-Rea.- gridò, -Andrea!- la chiamò, esclamando il suo vero nome.

Nulla.

Raggiunse il resede sul retro, con le budella attorcigliate dall’ansia e il cuore a soffocare ogni respiro.

La porta attraverso la quale aveva visto passare “Muscolo” quel pomeriggio era socchiusa.

Forzata.

-Andrea!L’aprì ed entrò in casa.

Tastando alla cieca a lato del muro, trovò un interruttore; respirò a fondo, terrorizzato dall’idea di cosa avrebbe trovato.

La luce illuminò una cucina tenuta in perfetto ordine, c’era odore di buono, ma nessuna traccia di Rea. Silenzio.

-A… Andrea?- la chiamò, cercando di non lasciar trapelare la tensione nella voce.

Spuntò in un corridoio al buio; un nuovo interruttore scacciò le tenebre e mise in mostra un arredamento dal gusto raffinato.

Non era mai stato a casa della sua amata, ma era esattamente come se la era sempre immaginata.

Il sorriso spontaneo che gli illuminò il volto al pensiero della ragazza venne immediatamente represso dalla consapevolezza che, forse, non l’avrebbe mai più rivista.

Guardò dentro una camera in penombra sulla sinistra, proseguendo avanti verso una porta chiusa dal lato opposto.

L’aprì.

Dentro quello che doveva essere uno studio, l’oscurità si ritirava lontano, rifuggendo alla luce proveniente dal corridoio.

Davide stava per passare oltre, quando vide al suolo un’ombra più densa delle altre.

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-Rea.- la chiamò, affrettandosi verso il corpo immobile; le si inginocchiò al fianco, afferrandola per le spalle e ruotandola con dolcezza, adagiandole la testa in grembo.

La chiamò ancora una volta per nome, il vero nome, con le lacrime che sgorgavano libere dagli occhi e le dita a scostarle i ciuffi di capelli arruffati dal bel viso.

Aveva del sangue incrostato sulla tempia destra, e un bernoccolo che al tatto sembrava grosso come una noce.

-Che ti hanno fatto?- singhiozzò; -Scusa. Scusa. Scusa.- ripeté disperato, mettendole la mano sulla gola, come aveva visto fare nei film, alla ricerca di chissà cosa.

Rea emise un debole lamento.

-Oddio grazie! Ti… ti amo.- riuscì a balbettare Davide, incapace di esprimere in altro modo la gioia che gli esplose nel cuore.

Era viva.

Come a confermare la lieta notizia, la ragazza si lagnò ancora.

-Tra poco starai bene.- la rassicurò lui cullandosela tra le braccia, -Ci sono io adesso.Di colpo i tragici eventi delle ultime ore erano scomparsi. Il cuore si era fatto di nuovo leggero e l’ansia era fuggita via, lontano, in qualche luogo sepolto in fondo all’anima.

Nonostante tutto ciò che era accaduto, quello era uno dei momenti più belli della sua vita.

La strinse a sé, inspirando con passione e beandosi dell’intimo contatto che agognava da anni.

Sapeva che tutto sarebbe cambiato; che lei, una volta aperti gli occhi, avrebbe finalmente capito.

Non sarebbero servite parole.

Un gioco di sguardi, nulla più… e per sempre insieme.

Le accarezzò i capelli, soffermandosi sul bozzo sottopelle a lato del-

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la fronte.

-È solo un bernoccolo, piccola mia.- disse, pregando in cuor suo d’avere ragione; ma il fatto che lei fosse viva, dopo il cumulo di brutti pensieri che lo aveva travolto, bastò a cacciar via ogni dubbio.

Tutto sarebbe andato bene.

-Andiamo bella addormentata,- sussurrò afferrandola con presa sicura e tirandola su senza sforzo, -ti metto a letto e chiamo qualcuno per farti visitare.Dette un ultimo sguardo allo studio in penombra: sembrava tutto a posto, nessun segno di colluttazione.

Qualsiasi cosa fosse accaduta là dentro, di certo non era riconducibile all’orrore che aveva trovato sui sedili posteriori della Mini gialla.

Il ricordo della macabra visione si faceva già più vacuo.

“I mostri non esistono…” ripeté tra sé.

Forse qualcuno era entrato per derubarla. Magari era inciampata e caduta da sola, e per la porta forzata potevano esserci mille altre spiegazioni.

Forse il nano palestrato di quel pomeriggio era semplicemente un fabbro chiamato per una riparazione.

E poi…

Scosse il capo e tornò a stringersela al petto.

Ma aveva davvero tanta importanza?

Ci avrebbero pensato a tempo debito, insieme…

Stando attento a non farle sbattere la testa la portò fuori dallo studio, fino alla camera che aveva intravisto poco prima; qualcosa gli dava noia all’altezza dell’inguine, premendogli a forza contro la gamba, ma non ci fece caso.

La luce proveniente dal corridoio contribuiva a illuminare debol-

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mente la stanza.

Decise di non cercare altri interruttori: una volta sveglia, la penombra l’avrebbe aiutata a rilassarsi.

Adagiò Rea sul letto, sorridendo quando lei borbottò muovendosi impercettibilmente.

Si piegò in avanti per scostarle i capelli dal viso, e la pressione sull’inguine tornò a infastidirlo.

Si era completamente dimenticato del martello che gli aveva salvato la vita.

Lo tirò fuori dai pantaloni soffermandosi un istante a osservarlo.

Chissà quanto avrebbe riso Rea, una volta scoperto che quel banale oggetto che loro vendevano per pochi euro alla ferramenta aveva contribuito a salvarli entrambi.

E a far nascere, magari, qualcosa di tanto bello…

Lo appoggiò su un comodino accanto al letto, vicino al cellulare che Rea non portava mai a lavoro, e tornò a concentrarsi sulla ragazza.

Forse stava scomoda?

Gli venne in mente che alle persone svenute bisognava tenere sollevate le gambe. Non sapeva il perché, ma non era il caso di perdere troppo tempo in stupide domande.

Si mise in cerca di qualcosa di adatto.

Nella parziale oscurità della stanza lo sguardo gli spaziò da un mobile all’altro: proprio là vicino c’era un divanetto, sopra al quale s’adagiava un orso di pezza.

Sorrise.

Tenera, come se l’era sempre immaginata.

Il cigolio alle sue spalle.

Il rumore di qualcosa che grattava contro il legno del comodino.

Si girò, pronto a cominciare una nuova vita assieme…

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- VIII -

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Andrea

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Andrea Stopardi, detta “Rea” dai più, lasciò la presa e il martello precipitò al suolo con un tonfo.

Aveva le vertigini, una fitta tremenda percorreva il cervello da parte a parte e per la foga l’aria le si strappava nel petto a ogni respiro.

Davanti a lei, steso sul pavimento della camera in una pozza scura che andava via via allargandosi, c’era il mostro che l’aveva aggredita.

Morto?

-Bastardo.- digrignò tra i denti, rivivendo gli ultimi mesi colmi d’angoscia.

Aveva provato a scherzarci su, a sdrammatizzare, a rendere il problema più piccolo di quanto fosse.

“Un ammiratore segreto; un principe d’ombra, che sarà mai…” diceva ridendo, mentre dietro ogni angolo, a ogni squillo del telefono, a ogni nuovo anonimo mazzo di fiori sentiva stringersi attorno al cuore le catene dell’oppressione.

Servivano sei mesi per definirlo reato…

E per poco non ne rimaneva uccisa.

Scoprì di non riuscire a smettere di tremare.

Tutto quel tempo trascorso nella paura, nel sospetto, nell’ansia, nella ricerca silenziosa di un conforto.

E poi…

Accoccolata sopra al letto, Andrea rimase immobile a fissare il cor-

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po senza vita di Davide, il suo collega della ferramenta, immerso in un lago di sangue.

Non avrebbe mai potuto immaginare, anche se… no. Era impossibile che fosse lui: non riusciva a pensare a niente di più subdolo, schifoso, vile e meschino.

Sembrava un ragazzo tanto gentile.

Buffo…

La sconvolgente consapevolezza che gli episodi di molestie vissuti in quei sei mesi di terrore erano solo la punta di un iceberg sommerso, di cui lei non aveva mai nemmeno sospettato l’esistenza, le provocò la nausea.

Non ricordava quasi nulla: solo che era tornata a casa, in pausa pranzo, e una figura avvolta nell’ombra l’aveva aggredita prendendola di sorpresa, sbucando dal nulla.

Non l’aveva visto in volto: rammentava di aver urlato, e il dolore fortissimo alla tempia che affogava lentamente nell’oblio del niente.

Adesso era buio: la luce proveniente dal corridoio era artificiale.

Era già notte?

La mente si rifiutò di soffermarsi su cosa fosse accaduto; sentiva la testa girare, le forme confondersi sotto lo sguardo.

Passò una mano sul corpo, temendo d’essere nuda.

Davide l’aveva forse…

Sembrava tutto ok: non sentiva dolore, solo i capogiri dovuti alla botta e il voltastomaco per ciò che aveva scoperto. Sulla tempia aveva un bernoccolo enorme.

-Tutto questo tempo…- sussurrò con disprezzo.

Il cadavere di Davide non rispose.

La vibrazione improvvisa che ronzò al suolo, vicino ai resti del comodino infranto, le provocò un mezzo colpo…

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Post Scriptum: La nascita di questo romanzo/fumetto/progetto folle meriterebbe storia a sé.

Perché accidenti non è un semplice romanzo? Perché diamine non è tutto a fumetti?

Perché Antonucci continuava a scrivere “CACIUCCO” con una sola “C”, invece di “CACCIUCCO”, in ogni maledetta prova di stampa?

Avremmo potuto utilizzare questo spazio per infilarci uno spiegone tremendo in grado di svelarvi tutto... Magari una paginata piena di bla bla bla, o una geniale illustrazione capace di raccontare con una semplice immagine “il dietro le quinte” del progetto.

E invece no… invece vi toccherà alzare la mano quando ci incontrerete alle presentazioni del libro (il primo che lo farà, ogni volta che capiterà l’occasione, riceverà in dono da Prenzy un suo ritratto personalizzato a grandezza naturale*) per domandarci: Cos’è CACCIUCCO UMANO? Proveremo a parlarvene senza troppi giri di parole.

In attesa di quel momento ecco a voi un piccolo assaggio di ciò che questo romanzo/ fumetto era in origine. A seguire le parti di narrativa che in principio completavano ciascun capitolo, prima che le meravigliose tavole di Prenzy contribuissero a donargli un’anima… divertitevi a scoprire le differenze! * “ATTENZIONE: questo dettaglio potrebbe non essere vero.”

1) RICCARDO …Dopo alcuni “Tuuuuut tuuuuut” a vuoto la voce squillante del capo rispose dall’altra parte del ricevitore: -E.Q.U.A.L.A.M.D.A. Vendite, al vostro servizio!-Pronto, Carlo… Sono Riccardo. Mi trovo al 49 di via Liegi e ho avuto un problemino con l’aspirapolv…- la frase gli morì in gola quando, nell’abbassare lo sguardo proprio di fronte, vide steso al suolo il corpo di una donna.

Aveva il volto rivolto verso il basso, e i lunghi capelli biondi sembravano annegare in una pozza scura che si stagliava sotto la testa.

-Che cazzo hai fatto al mio E.Q.U.A.L.A.M.D.A.?- sbraitò una voce dall’altra parte della cornetta.

Riccardo, congelato a osservare il cadavere, parve non sentirla.

E non sentì neppure l’uomo che aveva fatto il suo ingresso nella stanza prendendolo alle spalle.

La straziante fitta che gli lacerò i pensieri quando qualcosa lo colpì con forza alla testa sfondandogli il cranio però la sentì distintamente; ma fu solo il dolore di un attimo.

Poi tutto diventò buio.

Per sempre…

2) BERNARDO …-È tutto ok…- lo tranquillizzò con tono divertito la voce.

-Sì, è tutto ok.Si voltò per spostarsi verso lo studio.

Non fece a tempo a girarsi completamente che intravide con la coda dell’occhio una figura bassa: una piccola forma dai colori appariscenti che gli si fece contro rapidissima.

Una fitta lancinante gli straziò la gamba quando qualcosa di duro e pesante si abbatté con forza sul ginocchio fracassandoglielo; perse l’equilibrio.

Mentre cadeva al suolo, incapace di reggersi in piedi a causa del dolore, a Bernardo parve di distinguere quello che sembrava essere un bambino muscolosissimo, o forse uno dei nanetti di gesso venuto dal giardino, vestito con una canottiera verde fosforescente e short neri a mezza coscia.

Fu il martello che il nano palestrato teneva stretto in pugno, però, a catturare tutta la sua attenzione.

L’avrebbe riconosciuto tra mille: era quello che aveva acquistato dalla ragazza la prima volta in cui si erano incontrati.

Digrignò i denti per il dolore, mentre la voce gli urlava nel cervello “Alzati! Tirati su!”

Poi la mano del miniuomo forzuto s’alzò puntando al cielo, e compì un arco discendente mirando alla sua testa.

Avvertì un’esplosione di luci ardenti nel cervello.

L’ultima cosa che Bernardo sentì prima dell’oblio fu un grido straziante provenire dall’oscurità.

Morì sperando che la voce non avesse sofferto troppo.

3) CARLO …Come nel peggiore dei film d’azione, Carlo mise male il piede contuso su uno dei tanti ciottoli che riempivano le rotaie.

Sentì la terra cedere e precipitò in avanti perdendo l’equilibrio.

Ci furono delle grida allarmate, ma il fischio gli invase i pensieri.

Voltò la testa, e per un attimo i suoi occhi s’incrociarono con quelli disperati del macchinista a bordo della locomotiva.

I freni stridettero ancora.

Carlo alzò le braccia e urlò a squarciagola, quasi che la sola forza della voce potesse bastare a fermare chissà quante tonnellate di metallo lanciate a tutta velocità.

Non bastò.

L’impatto fu tremendo.

Sentì un tonfo carico di dolore colpire in pieno le sue mani, per poi procedere veloce lungo gli arti e diffondersi in tutto il corpo.

Percepì ogni singolo osso andare in mille pezzi in un infinito istante di sofferenza, mentre il treno lo sovrastava travolgendolo.

Finì sotto la locomotiva e le sue membra che venivano strappate, e macinate, e spolpate sotto le pesanti ruote di metallo furono un’allucinante cacofonia di patimento che arrivò dritta al cervello, attraverso un bombardamento straziante di input elettrici.

Il cranio si sfondò, il cervello esplose e, finalmente, Carlo morì.

4) FEDERICO …Si voltò, distinguendo tra le ombre che parevano farsi sempre più dense una figura corrergli incontro.

Agitava le braccia.

Esultava per un gol segnato all’ottantaseiesimo.

Esultava per una storica rete che profumava già di serie B. -Pro…- farfugliò Federico staccandosi dalla macchina e traballando avanti, tornando indietro nel tempo fino al 2002.

-Pro…- continuò, mentre l’altro si faceva sempre più vicino, inneggiando alla vittoria del Livorno sul Treviso.

-Protti!- gridò felice, stramazzando fra le braccia aperte del suo idolo calcistico, sputandogli addosso un fiotto denso di sangue e bava che lo colpì in piena faccia.

Poi l’emorragia interna, causata dalla rottura di una costola durante l’aggressione, terminò di consumarlo vigliaccamente da dentro.

5) MARCO …La domanda si troncò di netto non appena il cervello percepì il pericolo: il manubrio della bici non resse al suo peso e si spezzò all’improvviso con uno schiocco sordo; Marco sentì la forza di gravità tirarlo prepotentemente verso il basso.

Picchiò contro le bici sottostanti; provò ad aggrapparsi senza riuscire ad afferrare niente; si impigliò con un piede finendo capovolto a testa in giù, ma solo per un misero istante; percepì chiaramente qualcosa di tagliente corrergli nella carne lungo tutta la schiena.

I mille colori dei telai della torre gli sfrecciarono davanti agli occhi fuggendo verso l’alto, accompagnati dal sibilo dell’aria e da una voce che urlava di terrore.

Era la sua.

Il contatto con il suolo arrivò improvviso, così come l’estremità del tubo spezzato che gli maciullò il volto portandogli via la parte sinistra della faccia.

L’osso del collo si spezzò nell’impatto.

6) RAFFAELE …I vestiti furono percorsi da una vampa di calore bluastro; un istante dopo cominciò il dolore.

-I ricordi felici lascian le cicatrici i ricordi più brutti li dimentican tutti se vuoi dormire sogni…- iniziò a urlare le parole senza curarsi delle pause, a ritmo velocissimo, strillando fuori dalle labbra la sofferenza in acuti improvvisi e strazianti, -…contenti lascia andar via i tuoi rimpianti…- con le membra avvolte dalle fiamme si gettò addosso alla Torre fatta di biciclette.

Scoppiò l’inferno.

Il fuoco ardeva senza sosta: gli strappava la pelle accartocciandogliela, fondendosi con le ossa, con i bulbi oculari, con i capelli.

Strillava a squarciagola, senza capire se la voce c’era ancora o se le fiamme avessero inghiottito pure quella; si costrinse a terminare la canzone, concentrandosi su di essa per tentare, invano, di allontanare il dolore, -…è solo un gioco di sentimenti tu non puoi vincer se ti lamenti nella realtà no no no aaargh non esistono aiuto no aaaaargh amici solo sconfitte e noooooo…Il fuoco cominciò a salire, dipingendo una scia multicolore che danzava sulla benzina con la quale erano state cosparse in precedenza anche le biciclette più in alto.

L’uomo crollò sui telai, dimenandosi incurante delle ferite da taglio, ardendo nel profondo.

Una torcia ustionante che strillava, e strillava, e strillava: -Odio per tutti!- gridò.

E strillava, strillava, strillava e poi non strillò più.

7) DAVIDE …Vide la sagoma sul bordo del letto.

Il braccio che si alzava impugnando qualcosa.

-Figlio di puttana!- la sentì strillare, mentre il martello lo colpiva forte in piena faccia.

Provò a biascicare parole sconnesse, vacillando sotto l’impatto; il dolore gli esplose tra gli occhi come fuoco.

Un’altra botta tremenda lo travolse sulla mascella; -Schifoso!- gridò la ragazza, poco prima che un nuovo tonfo carico di sofferenza lo centrasse sulla fronte.

Davide sentì le gambe cedere: s’afferrò a qualcosa, sbracciando nel buio improvviso tempestato di lampi intermittenti.

-Pezzo di merda!- sentì Rea urlare, giusto un istante prima che il comodino cedesse sotto al suo stesso peso, e la testa d’acciaio del martello che gli aveva salvato la vita gli fracassasse il cranio.

8) ANDREA …Raccolse il suo cellulare e, con gli occhi che le si incrociavano per le vertigini, lesse il nome comparso sul display: “Amore”.

Sorrise, premendo a fatica il dito per ricevere la chiamata.

La sua voce risuonò allegra come sempre, donandole sicurezza e tranquillità: -Ehi “Stopardipalle”,- esordì, chiamandola con l’irriverente soprannome inventato quando lei aveva confessato di odiare che la si chiamasse “Rea”, -ma che fine avevi fatto? È da un’ora che provo a telefonarti. Giornata pesante?Fece un bel sospiro cercando di contenere l’ansia, -Chiara, amore… era Davide, il mio collega di lavoro…-A fare che?- chiese la sua fidanzata; un accenno di preoccupazione le trapelò nella voce.

-Quello che mi ha seguita di nascosto per tutto questo tempo. Era lui.-

RINGRAZIAMENTI

Grazie a Riccardo, Bernardo, Carlo, Federico, Marco, Giulio, Raffaele, Davide, Andrea e Chiara: che esistono davvero e sono fottutamente più strani dei loro alter ego protagonisti di questa storia.

Grazie anche a Sara e a Jean che hanno visto nascere questo libro, a Prenzy che gli ha dato un’anima, a Gianluca che lo ha fortemente voluto, a Stefano che ha penato per impaginarlo e ad Alessia… perché sì!

Alberto

FEDELI ALL’UMANITÀ, INDIPENDENTI DAGLI UOMINI