Stampo Antimafioso 2015

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Cari lettori e care lettrici, Stampo Antimafioso vuole farvi gli auguri. Ormai il giornalino di fine anno è diventato una tradizione. 2013, 2014 e ora Stampo 2015. Come per le scorse edizioni, questo speciale raccoglie i nostri migliori articoli dell’anno appena passato. Ci sono tutti i temi che più ci stanno a cuore da sempre: notizie dal nostro territorio, notizie dal nostro Paese e notizie dal movimento antimafia. Così un occhio osserva la realtà criminale; l’altro, invece, monitora i passaggi e le esperienze di cambiamento, alla ricerca di nuovi strumenti più efficaci. Le pagine qui presentate raccontano un anno di lavoro sul nostro sito, www.stampoantimafioso.it. Non solo; sono anche un invito a continuare a camminare insieme. Un invito a mantenere e consolidare il rapporto che si è instaurato tra noi che ci impegniamo a scrivere e voi che scegliete di leggerci. È una volontà quotidiana, rinnovata giorno per giorno; è, di fatto, la nostra missione: informarci e informarvi. Ci guidano in questo compito le parole del giudice Paolo Borsellino: “Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali, però parlatene”, prendendo sempre a modello Giuseppe Fava. Così scriveva infatti, negli anni Ottanta, sul Giornale del Sud: “Onestamente la verità, sempre la verità”. L’informazione volontaria, si sa, ha sì il grande vantaggio dell’indipendenza e della libertà di pensiero ma sconta, nondimeno, il forte limite della gratuità. Diventa così più accidentato il percorso di un’inchiesta, per esempio. Ma questa difficoltà si può trasformare in opportunità di partecipazione e incontro. Stampo, come spesso accade nel mondo del volontariato, non conta grandi disponibilità economiche. Tuttavia, in questo 2015, siamo diventati più forti grazie al sostegno di amici cari che vogliamo qui ringraziare: l’associazione Bang, che organizzando il Progetto Legalità Brianza ha deciso di devolvere a noi e ad Addiopizzo il ricavato del concerto di beneficenza di Brunori Sas; i gestori del locale Bluè di Cernusco sul Naviglio, ideatori dell’iniziativa di finanziamento Caffè Corretto, celebrata lo scorso 27 gennaio con una bella festa. Ma ci sentiamo in dovere di dare spazio anche al Piccolo Teatro e all’Università degli Studi di Milano che, dopo aver scommesso sullo spettacolo E io dico no. Ogni notte ha un’alba (regia di Marco Rampoldi, drammaturgia di Nando dalla Chiesa e Marco Rampoldi, con la collaborazione di Paola Ornati) hanno creduto e dato risalto all’impegno non solo di Stampo, ma anche di Unilibera e Wikimafia, avviando per il 2015/2016 un nuovo ciclo di quattro appuntamenti teatrali. Il primo - 5 centimetri d’aria - storia di Cristina Mazzotti e dei figli rapiti - è andato in scena a dicembre 2015, avendo dovuto addirittura aumentare le repliche previste a causa delle numerose richieste di prenotazione. Queste sono meravigliose opportunità. Opportunità che abbracciano parole e azioni come partecipazione, impegno, solidarietà. Perciò, se anche voi credete che sul nostro lavoro si possa scommettere, aiutateci. Aiutateci a restare indipendenti. Andiamo avanti insieme. Bastano pochi semplici gesti: il passaparola, la condivisione di questo giornalino, una donazione dal sito, un invito nei circoli e nelle scuole a cui siete vicino. Vogliamo salutarvi ricordando Elena Fava, figlia di Pippo Fava e sorella di Claudio Fava scomparsa poche settimane fa, perché mai si è risparmiata nel rivolgerci attenzione e apprezzamenti. Come ha scritto Riccardo Orioles “resta l’orgoglio di averla avuta qui”.

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Buona lettura e buon 2016! La redazione di Stampo Antimafioso

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Indice Mondo

Lombardia Tra Bergamo e Brescia, l’altra “Terra dei fuochi”

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Messico: quando la resistenza è donna

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#MalaBrianza: Viaggio nella Brianza della ‘Ndrangheta

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La “narcolonización” in Argentina

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Fino Mornasco, tutto tace. O forse no?

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Spagna: organizzazioni criminali, riciclaggio e contatti con la politica

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Fino Mornasco. A quando lo scioglimento?

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L’impegno morale verso l’amministrazione di Fino Mornasco

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Il coraggio di mettersi in gioco: Libera Masseria

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Italia Processo La Svolta: le motivazioni della sentenza

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Mafie in Liguria, nasce l’Osservatorio “Boris Giuliano”: cultura e informazione contro il silenzio e l’omertà

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Andreotti assolto?

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La mappa della mafia al Nord

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La piazza virtuale e la piazza reale. Viaggio nel mondo dei Casamonica

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Quando la criminalità organizzata è su Facebook. E ricorda Borsellino

Pasquale Claudio Locatelli: il gioco dell’oca per un re del narco- 35 traffico È ora disponibile online Global Mafia!

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Cecenia: le guerre, i crimini, i criminali e i traffici

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Lituania, cos’è e come si muove la criminalità organizzata nel paese baltico

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La guerra che stiamo perdendo

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Movimento antimafia Bologna, 21 marzo. Così è stata la bellissima giornata di Libera

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Non solo camorra: vi presento il Tappeto di Iqbal

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L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti

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Quei giovani che a Milano raccolgono l’eredità di Giovanni Falcone

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La prima tesi di laurea in “antimafia” secondo Repubblica Napoli

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La Torre e dalla Chiesa: di padre in figlio, il coraggio di lottare

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Siani, a 30 anni dalla morte gli atti processuali online

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Di Matteo in Statale: strumenti di ieri e di oggi per la lotta alla mafia

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Africo. Un paese tra ‘ndrangheta e rivolta

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Mai più soli: apre in Lombardia SOS Giustizia

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I rapporti di Cross per la Commissione parlamentare antimafia 29

Mariano Nicotra, imprenditore coraggioso: “No al pizzo, voglio 55 essere libero” Sud est Milano: Libera c’è

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L’onda crescente dell’antimafia milanese

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Lettera a Denise

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L’Inferno e la Primavera. A proposito di lotta alla mafia

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Stampo Antimafioso 2015 Prodotto da Stampo Antimafioso www.stampoantimafioso.it Redazione e collaboratori: Martina Mazzeo, Roberto Nicolini, Thomas Aureliani, Valerio Berra, Luca Bonzanni, Ilaria D’Auria, Marco Fortunato, Matteo Furcas, Francesca Gatti, Davide Grossi, Clemente La Porta, Mattia Maestri, Sara Manisera, Samuele Motta, Chiara Muzzolon, Stefano Paglia, Adelia Pantano, Carmela Racioppi, Giorgia Venturini, Arianna Zottarel Gli articoli contenuti in questo lavoro sono frutto del lavoro di Stampo Antimafioso nel 2015.

Cliccando sul titolo di ogni articolo si può visualizzare l’originale sul sito. Il prodotto è distribuito con licenza Creative Commons Atribuzione – Non commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale Impaginazione: Roberto Nicolini; Copertina: Foto di Arianna Zottarel al quadro realizzato da Loredana Troia ed esposto in Piazza Politeama il 23 maggio 2014 Per info e segnalazioni: redazione@stampoantimafioso.it

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Tra Bergamo e Brescia, l'altra "Terra dei fuochi"

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di Luca Bonzanni A volte, certe coincidenze sono interessanti. E parecchio. Smontata Expo, spenti i riflettori milanesi e tutti con gli occhi puntati sulla suburra romana, ecco invece la condanna per uno degli ex re delle grandi opere lombarde. Arriva a Bergamo, si snoda attraverso Brescia e vede al centro Pierluca Locatelli, ex «imperatore» delle costruzioni, ex titolare di un colosso (la «Locatelli» di Grumello del Monte, nel Bergamasco) da centinaia di operai, milioni di fatturato e infinità di cantieri, ormai ex tutto. La data fatidica, quella della fine della sua corsa, è il 30 novembre 2011: dieci arresti intaccano mediaticamente (il 2 dicembre 2011, ad esempio, il Corriere della sera, in un articolo a firma di Claudio Del Frate, titola «La Brebemi come una discarica») la BreBeMi, in manette finisce lo stesso Locatelli, e ci finisce soprattutto (per un altro motivo) Franco Nicoli Cristiani, allora vicepresidente Pdl del Consiglio regionale e già assessore all’Ambiente di Regione Lombardia. Per la «capitale morale» del paese, una bella botta. Le accuse dei magistrati, e in particolare della Direzione distrettuale antimafia bresciana, sono pesanti: una mazzetta da 100mila euro recapitata da Locatelli a Nicoli Cristiani per sveltire l’iter per una discarica di amianto a Cappella Cantone (Cremona) e il presunto smaltimento illecito di rifiuti tossici sotto l’autostrada in costruzione (contestawww.stampoantimafioso.it

to all’imprenditore, non al politico), in particolare nei cantieri di Fara Olivana con Sola (Bergamo) e Cassano d’Adda (Milano). Ma occorre fermarsi un attimo, incastrare i tasselli del mosaico, tracciare il disegno di un quadro nero. La condanna a Locatelli, si diceva: quella giunta martedì 3 novembre 2015, infatti, riguarda un’altra storia. Ma è da questa vicenda che è partito il lavoro d’indagine che ha portato a far luce sull’«autostrada fantasma» lombarda. Tra le grandi opere affidate all’imprenditore c’era infatti la variante di Orzivecchi, provincia di Brescia. Snodo cruciale della trama: l’impianto di Biancinella (a Calcinate, Bergamo), di proprietà di Locatelli, in cui delle scorie di fonderia avrebbero dovuto essere «purificate» prima di giungere al cantiere bresciano per essere impiegate nella realizzazione del manto stradale. Per i magistrati, non è andata proprio così: quelle scorie non sarebbero state trattate adeguatamente. Impianto accusatorio sostanzialmente confermato in Tribunale: sei anni la condanna inflitta dal giudice Vito Di Vita all’imprenditore per il traffico illecito di rifiuti, e condanne pure alla moglie e ad altri collaboratori di Locatelli. Un round importante, su cui peserà ora l’iter verso l’appello, ma fondamentale. Perché riconosce un dato di fatto: tra Bergamo e Brescia c’è una bomba ambientale.

“Lo scopo della BreBeMi? Interrare rifiuti”

Nero su bianco. Parlano le inchieste, i documenti, i verbali. L’ultima relazione annuale della Direzione nazionale antimafia racconta del distretto giudiziario bresciano come di un territorio dove la criminalità ambientale è aggressiva e manifesta, con condotte «non meno e anzi forse più pericolose di quelle cui tanta attenzione si è dedicata, consumatesi in territorio campano, se non altro perché neppure il bagliore dei fuochi levantisi verso il cielo ha potuto segnalare la presenza di qualcosa di terribile nelle viscere ella terra». Meno prosaicamente: un’altra «Terra dei fuochi». Rieccoci alla BreBeMi, allora. Automobili che la frequentano? Poche. Ombre? Tante. Il 4 novembre 2014, una manciata di mesi dopo l’inaugurazione, di fronte alla Commissione d’inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti si svolge l’audizione di Roberto Pennisi, sostituto procuratore nazionale antimafia. Le sue parole sono pietre: «L’unico scopo al quale fino a questo momento è servita la BreBeMi è stato per interrare rifiuti. Spesso vado da Brescia a Napoli in ferrovia. La ferrovia corre parallelamente alla BreBeMi e io la vedo sempre vuota». Per quell’inchiesta (formata da due filoni distinti), un


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primo punto è stato segnato: sulla vicenda della discarica d’amianto, a ottobre 2014 è arrivato un patteggiamento per Nicoli Cristiani (due anni) e la condanna in rito abbreviato a Locatelli (due anni). La battaglia legale (rallentata da alcuni cavilli procedurali), ora, è tutta sullo smaltimento illecito di rifiuti (sotto accusa c’è l’ex imprenditore edile, mentre l’ex politico è estraneo; la società Brebemi si è costituita parte civile). L’imprenditoria, la politica e anche la pubblica amministrazione: sempre dinnanzi alla Commissione sul ciclo dei rifiuti, la pm bresciana Silvia Bonardi ha riferito dell’esistenza di rapporti «anomali» tra Locatelli e alti dirigenti dell’Arpa (l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) di Bergamo. E, guarda caso, quel 30 novembre del 2011 in manette finì pure Giuseppe Rotondaro, dirigente dell’Arpa lombarda (ha patteggiato un anno e otto mesi). Manca solo la criminalità organizzata. E questo, forse, è un fattore particolare del contesto «ecocriminale» bergamasco-bresciano: la ‘ndrangheta si vede poco, la sua presenza è solo sfumata, sono soprattutto gli imprenditori a sporcarsi le mani. Qualche rapporto tra la «Locatelli» e le ‘ndrine, co-

munque, è emerso. Tocca riavvolgere il nastro almeno al 2006, quando l’azienda bergamasca è impegnata nei lavori per l’alta velocità Milano-Venezia a Melzo. Ottenuto il subappalto dalla «De Lieto» (la principale impresa aggiudicataria), per alcuni lavori di movimento terra la «Locatelli» si avvale della «P&P», la ditta facente capo a Marcello Paparo, calabrese di Isola di Capo Rizzuto trapiantato a Milano, successivamente arrestato nel 2009 su richiesta della Dda meneghina. Durante quei lavori, la società di Paparo ha un problema non di poco conto: come aggirare le normative antimafia? Serve un consiglio, un suggerimento. A Romualdo Paparo, fratello di Marcello, glielo offre un geometra della «Locatelli» (i dipendenti dell’azienda bergamasca non avranno conseguenze penali per intervenuta prescrizione): sui camion della «P&P», «schiaffaci due targhette “Locatelli”, no?». Come non averci pensato prima?

Dolci colline di rifiuti Ci sono poi strane colline che spuntano dal nulla. Si prenda Montichiari, cittadina di 25mila abitanti a una ventina di chilometri di Brescia. Zona storicamente

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pianeggiante, negli ultimi anni ecco sorgere degli strani rilievi. Tettonica delle placche? Materia per geologi? No, la causa è un’altra: i rifiuti. Non lo dice un visionario: lo sostiene il procuratore generale di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, di fronte alla Commissione d’inchiesta parlamentare sul ciclo dei rifiuti, giunta da quelle parti per un’apposita missione tra il 15 e il 16 giugno 2015. «Montichiari è una zona pianeggiante, o perlomeno lo è stata dall’assestamento tettonico risalente a quando la nostra specie non era sulla terra – spiega il magistrato con una punta d’ironia –, fino ad alcuni anni fa. Attualmente, la pianura di Montichiari è un sito collinare. A parte i casi di vulcanismo, qui totalmente assenti, le colline non spuntano come funghi, e infatti si tratta di colline del tutto anomale, cioè di cumuli molto estesi di rifiuti, alcuni messi più o meno in situazione di attenzione, con qualche cautela». Contromisure? Nulla: «Non mi risulta che siano in atto studi o altro per una bonifica di Montichiari», sentenzia amaramente Dell’Osso. «Come è possibile?», è la domanda che sorge spontanea. Serve ripensare alle cave disseminate nella brughiera di Montichiari negli ultimi decenni: e dalle cave alle discariche (negli anni se ne sono succedute diciassette) e ai possibili illeciti connessi, il passo è breve.

Australian connection La Valle Camonica e l’Australia. Le montagne e il deserto, i camosci e i canguri, il freddo e il caldo. Qualcosa in comune? Nemmeno l’emisfero, verrebbe da dire. Eppure, nel 2009, a Tomago, centro di nemmeno trecento anime disperStampo Antimafioso

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so nel Nuovo Galles del Sud, qualcuno ha un’idea. E che idea. Perché lì, a Tomago, a due ore di macchina da Sidney, c’è praticamente solo un grande business: l’alluminio, e in particolare la fonderia della «Tomago Aluminium Company», giro d’affari miliardario. Gli scarti della lavorazione sono un’infinità, liberarsene non è facile. Tra settembre 2009 e febbraio 2010 inizia la traversata intercontinentale di quegli scarti, soprattutto celle elettrolitiche della fusione dell’alluminio. Ventitrémila tonnellate, cifra esorbitante: via mare da Sidney a Porto Marghera, via tir (800 tir) da Venezia a Berzo Demo. Ma cosa c’è in quegli anni a Berzo Demo, paesino incastonato in quella valle che separa la provincia di Bergamo da quella di Brescia? La «Selca», società sorta negli anni Novanta, guidata dai fratelli Flavio e Ivano Bettoni, che nel 1998 ottiene una prima autorizzazione da Regione Lombardia per trattare rifiuti speciali pericolosi e non pericolosi, autorizzazione che nel 2002 permette alla società di trattare fino a 150mila tonnellate annue. Coincidenze: chi è l’assessore regionale all’Ambiente dal 1995 al 2005? Franco Nicoli Cristiani, finito in manette per l’affaire Cappella Cantone. Oltre che dalla «Terra dei canguri», rifiuti da trattare arrivano anche da tutta Italia, dall’Europa, persino dall’Asia. «Trattare i rifiuti», tuttavia, è un eufemismo. Benché si presentasse come «altamente specializzata», la

reale prassi adottata dall’azienda la illustra Pier Luigi Maria Dell’Osso alla Commissione sul ciclo di rifiuti: «Questi rifiuti tossici non erano trattati adeguatamente, la Selca non ha mai avuto la disponibilità di attrezzature. Inoltre, risulta che rivendesse stabilmente i medesimi rifiuti tossici come materie prime secondarie in dettaglio quali combustibili ad acciaierie e cementifici». Scorie non trattate, rifiuti abbandonati a se stessi, probabili sversamenti, emissioni fuori controllo. E falde acquifere inquinate, come rilevato dall’Arpa: particolare non da poco, a due passi dall’azienda scorre il fiume Oglio, che fra Costa Volpino (Bergamo) e Pisogne (Brescia) va a formare il lago d’Iseo. Capita pure che sulla «Selca» si posino gli occhi della criminalità. Premessa fondamentale: dalla seconda metà degli anni Duemila (nel 2004, nel frattempo, la magistratura bresciana effettua il primo sequestro di rifiuti), la società entra in crisi e nel 2010 arriva il fallimento. Per salvarla, a un certo punto, si interessa Guido Catapano, alla testa dell’omonimo gruppo imprenditoriale napoletano, secondo alcune fonti in odore di camorra, poi arrestato il 29 marzo 2011 insieme ad altre tredici persone per associazione a delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta. E la storia dell’Australia? Altre ombre, e per far luce si sta muovendo Dell’Osso: «Ho già avviato indagini sull’impresa

australiana, perché in Australia la ‘ndrangheta c’è, contrariamente a quello che gli australiani pensano». C’è anche nel Nuovo Galles del Sud, infatti. E da decenni: nel 1977, a Griffith, ad esempio, viene ucciso Donald Mackay, deputato del Nuovo Galles del Sud, primo omicidio eccellente della mafia calabrese in terra d’Australia. È una storia che si annuncia ancora lunga e tortuosa, quella della «Selca». Sotto più fronti. In primis, quello ambientale, una ferita aperta e destinata a produrre effetti pesanti. Dal punto di vista giudiziario non si è certo messi meglio. I fratelli Bettoni sono stati rinviati a giudizio per falso e traffico internazionale di rifiuti, ma la giustizia procede lentamente: la prima udienza, prevista per il 5 giugno di quest’anno, è stata rimandata al 27 ottobre e successivamente rinviata al 7 dicembre per un’incompatibilità del giudice. Sullo sfondo, lo spettro ricorrente: la prescrizione (scatterebbe a metà 2017) e l’ennesima storia d’impunità all’italiana. La ciliegina sulla torta: Giacomo Ducoli, curatore fallimentare dell’azienda, è indagato per disastro ambientale. Stando all’accusa, non avrebbe utilizzato con la dovuta «priorità» i fondi (circa 9 milioni di euro) a disposizione per la bonifica. Quei rifiuti, insomma, sembrano abbandonati a loro stessi. Un po’ come questa nuova «Terra dei fuochi».

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Il Vostro articolo menziona la Società di Progetto Brebemi S.p.A. nell’ambito di vicende giudiziarie relative ad una discarica di amianto in provincia di Cremona e alla variante alla tangenziale di Orzivecchi, ancorché sia noto che tali vicende non riguardino in alcun modo la stessa Società. Non si comprende dunque l’affermazione “dieci arresti azzoppano la Brebemi”, di tutta evidenza non veritiera, fuorviante e gravemente lesiva dell’immagine della stessa Società. Non ci risulta inoltre che l’ex vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia, Franco Nicoli Cristiani, sia “finito in manette” per un presunto “affaire Brebemi”. Inizia così la dichiarazione fattaci pervenire dal settore “Affari legali” della Società di progetto Brebemi spa in relazione all’articolo Tra Bergamo e Brescia, l’altra “Terra dei Fuochi”, pubblicato su StampoAntimafioso il 9 novembre 2015. Il testo integrale qui.

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#MalaBrianza: viaggio nella Brianza della ‘ndrangheta di Giorgia Venturini e Samuele Ghiozzi La mattina che segue un’Operazione Antimafia è sempre una sorpresa. Un risveglio insolito. Un boato inaspettato. In poche ore scopri che il politico più in vista del paese viene accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. L’amico, quel imprenditore che tanto stimavi, fa affari con la ‘Ndrangheta. Mentre il bar, dove eri solito incontrare amici e compaesani, accoglie summit dei più influenti boss della zona. Quella mattina ti svegli ed è uno stupore nuovo. Lo stupore di chi scopre per la prima volta che la mafia bussa anche a casa tua. Che, i vecchi luoghi comuni che hanno accompagnato generazioni passate, quelli che da sempre tracciano una linea invalicabile tra nord e sud, tra imprenditoria mafiosa e imprenditoria lombarda, oggi non hanno più fondamenta. E non basta che tu abbia letto libri o partecipato a convegni. Perché, diciamolo, nessuno è realmente preparato a scoprire che i luoghi della propria infanzia sono covi prediletti del crimine organizzato. Perlomeno, non in Brianza. Qua, vince ancora l’indifferenza. Ciò che è veramente insolito, però, è che di risvegli inaspettati ce ne sono stati parecchi. Di boati i cittadini brianzoli ne hanno sentiti molti. Ma ogni volta è uno stupore nuovo, come se finita l’influenza mediatica dell’Operazione precedente, tutto si azzeri. Il cittadino dimentica e aspetta che un’altra Operazione venga a risvegliare l’interesse. Tuttavia, c’è sempre qualcuno che reagisce diversamente. Non aspetta, si convince di averlo già fatto per molto tempo. Decide di osservare, di capire e di denunciare, a gran voce, che qualcosa sta cambiando. Anche in Brianza. Prende coscienza. Noi, queste persone, abbiamo deciso di incontrarle. Politici, magistrati, giornalisti e cittadini che hanno vissuto e hanno fatto sì, seppur in tempi e in Comuni diversi della Brianza, che quella mattinata fosse possibile. E, a modo loro, hanno cercato e trovato soluzioni a un problema che ora è impossibile negare. Risultato? È una storia. La storia di un territorio fertile alla collusione mafiosa e alla corruzione. La storia di chi si è lasciato travolgere dai grandi affari della ‘Ndrangheta e di chi ha detto no. La storia della grandi Operazioni Antimafia. I suoi protagonisti e i suoi luoghi. La loro

storia, quella delle Locali e delle ‘ndrine della zona, e la nostra storia, quella del cittadino brianzolo. A volte storie che si intrecciano, a volte no. Viaggio nella Brianza della ‘Ndrangheta nasce da una di queste mattinate. Quella che ha coinvolti i nostri di Comuni. Noi, che seppur formati a dovere tra i banchi dell’università, non neghiamo di aver fatto parte di quella percentuale di cittadini che considera casa propria immune dalla mafia. Ma non ci sono territori immuni dalla mafia in Brianza, ora lo abbiamo capito. L’idea è, quindi, quella di ripercorrere, attraverso un viaggio, quei luoghi coinvolti nell’Operazione Infinito del 2010 per capire, a distanza di anni, ciò che è cambiato. La voglia di sapere ci ha spinto a visitare beni confiscati, intervistare persone e fare ricerca per comporre tutti i pezzi di un puzzle degli anni in cui volevamo solo vedere, ma non osservare. E se si deve parlare di stupore, allora quello che ci ha regalato questo viaggio è, senza dubbio, la facilità con le quali le persone ci hanno accolto. Aperto le porte di casa, degli uffici e hanno iniziato a raccontare. La loro storia. La nostra storia.

5 puntate... #1: Brianza, terra di ‘ndrangheta. La sfida di Salvatore Bellomo #2: Desio, frazione di Melito Porto Salvo. Il coraggio di Lucrezia Ricchiuti #3: Nella Giussano di Erminio Barzaghi, cosa è cambiato #4: Seregno e le grandi operazioni antimafia #5: #MalaBrianza SiCura

...e ancora Brianza...il viaggio continua Stampo Antimafioso

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a cura di Marco Fortunato Stampo Antimafioso

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Fino Mornasco, tutto tace. O forse no? barbaramente lo scorso giugno. Come ricostruito dai quotidiani, Albanese minacciò su Facebook di fare “i cartelli con Nome e Cognome come quelli dei Morti fino in Calabria». Barbaramente si diceva. Sì, perché egli venne ucciso da trenta coltellate, e lasciato dissanguare nei boschi vicino a Guanzate. Venne seppellito il giorno seguente in un cantiere, mentre altri “compari” ridevano e scherzavano ad una grigliata allestita a pochi metri dal luogo di sepoltura. Ma quello di Albanese non è l’unico omicidio che coinvolga la ‘ndrangheta nel comasco: e stranamente tutti e cinque i casi sono localizzati nella cintura di comuni vicino proprio a Fino Mornasco.Il primo caso fu quello, nel 2008, di Franco Mancuso, ucciso a colpi di pistola da un killer, mai identificato, giunto in motocicletta al bar “Arcobaleno” di Bulgorello frazione di Cadorago e dove lo “freddò” mentre era seduto ad un tavolino. La sera dell’8 marzo 2008 venne rapito e ucciso Salvatore Deiana, i cui resti sono stati trovati pochi giorni fa in un bosco di Oltrona San Mamette, grazie alle rivelazioni di uno degli assassini, Giuseppe Monti (l’altro omicida è Franco Virgato) e di uno dei personaggi sopracitati: Luciano Nocera. AnGli omicidi nella cintura che lui come Albanese venne ucattorno a Fino Mornasco ciso a coltellate, in un bar a Vertemate, e fu sepolto nudo nel bosco. Luciano Nocera, colui che avrebbe Oltre a Salvatore, il 20 luglio 2012 il potere di dare voti ad un consisparì il fratello Antonio, del quale gliere regionale, è inoltre indagato però non si hanno più tracce da nell’ambito dell’indagine sull’omiallora. L’ultimo omicidio prima di cidio di Ernesto Albanese, spacquello di Guanzate avvenne il 27 ciatore al servizio dei clan, ucciso aprile 2009, quando venne ucciso

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Nessuna novità “ufficiale” nella vicenda di Fino Mornasco, il comune su cui si erano accese le luci della stampa, anche a livello nazionale, in seguito alla possibilità di un suo scioglimento per infiltrazioni mafiose da parte del Prefetto. Nell’ottobre scorso, infatti, erano state pubblicate delle intercettazioni con l’allora Presidente del Consiglio comunale Luca Cairoli che affermava che il “santista” Luciano Nocera avrebbe procurato voti per le elezioni regionali di Gianluca Rinaldin. Dopo questa vicenda l’ex Assessore al Commercio Cairoli, “vittima di un sistema malavitoso” secondo il sindaco Giuseppe Napoli, ha presentato le sue dimissioni, ed è stato sostituito da Roberto Fornasiero. Ma Cairoli non è stato l’unico a smettere di far parte della Giunta comunale: pochi giorni dopo, infatti, si dimise Laura Barresi, assessore all’urbanistica: «Per me è diventato pesante, a livello umano, sopportare questa situazione» (e sostituita da Katia Arrighi). Oltre ad essi si dimise anche Riccardo Bianchi, componente della commissione quartiere di Socco, cugino proprio di Luca Cairoli.

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Antonio Tedesco nel maneggio di Salvatore di Noto: Tedesco venne attirato nel maneggio di Bregnano con il pretesto di farlo diventare un “affiliato” del clan. Gli spararono e lo finirono a picconate, per poi seppellirlo a Bernate Ticino. Di questo omicidio si seppe solo quando il boss “pentito” di Giussano, Antonino Belnome lo rivelò agli inquirenti. Motivo dell’omicidio era che Tedesco si era vantato di essere stato con la sorella del boss: gli altri affiliati lo uccisero per evitare che il boss stesso lo facesse per “vendicare l’onore della famiglia”.

L’inchiesta di Klaus Davi In questo clima si inserisce anche la video inchiesta di Klaus Davi, noto giornalista giunto lo scorso dicembre a Fino Mornasco per analizzare la situazione appena accennata. Da essa è emerso un quadro preoccupante del clima di omertà presente nel piccolo comune comasco: infatti su ben 100 commercianti, solo cinque hanno deciso di esporsi alle telecamere e dichiarare che loro non hanno mai pagato il “pizzo”. Di questi cinque, però, uno si è “ritirato”, chiedendo che le riprese che lo riguardano non venissero pubblicate. Nella sua inchiesta, oltre a sottolineare l’omertà che si respira a Fino Mornasco, Davi intervista Alessandro Tagliente, presidente della squadra di calcio Cadorago Elio Zampiero e che, anche tramite la moglie, ha in gestione i due bar Bulldog. Secondo l’operazione “Arcobaleno”, Alessandro Tagliente è «da sempre uomo di fiducia di Iaconis e suo socio in affari (e) influiva sulle decisioni delle amministrazioni comunali (…) mettendo (…) a disposizione (…) il proprio tessuto relazionale costi-


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tuito da uomini politici, pubblici ufficiali, imprenditori». A proposito dei suoi rapporti con Bartolomeo Iaconis, boss ‘ndranghetista arrestato nell’operazione “I fiori della notte di San Vito” del 1994, afferma che ha «un ottimo rapporto perché è un’ottima persona. Quando comunque ho un amico non sto a chiedergli il certificato penale. […] Quindi non sto facendo niente di male» domandandosi perché dovrebbe smettere di frequentarlo. Sostiene inoltre che non è vero ci sia racket a Cadorago e dintorni e che «siamo in uno Stato di polizia, è un attimo essere pregiudicati (…) quindi non c’è da vergognarsi.» Ammette di aver fatto propaganda per un assessore, sfruttando il fatto di essere un personaggio pubblico e benvoluto. Nel corso dell’intervista si interroga inoltre su cosa sia la mafia: «Mi piacerebbe sapere cos’è la mafia. È una cosa che non so, non conosco, mi piacerebbe sapere cos’è». All’affermazione di Davi che anche Riina e Provenzano si chiedono che cos’è la mafia, Tagliente risponde:«E non sono stupidi. Cos’è la mafia? (…) Forse si stava meglio quando la mafia, quella mafia che era veramente unita e giostrava un attimino tutto» e che ora fanno più disastri i delinquenti singoli. A proposito dell’omicidio di Albanese si chiede «chi ci dice che questi quattro sono mafiosi? […] ci vuole la condanna definitiva prima di dire che sono mafiosi. (…) L’associazione a delinquere è pericolosa, non la mafia che magari vanno a mangiare un po’ di capra» Riguardo proprio ai filmati diffusi dalla Procura, in cui gli ‘ndranghetisti si trovano a mangiare capretto, dice «secondo me è proprio un modo per stare assieme, credo eh, perché ripeto, io non so cos’è.»

Nel frattempo, continuano le indagini del Prefetto Bruno Corda sugli atti del Comune, per valutare se esiste la possibilità di scioglimento. L’opposizione di Fino Mornasco, insieme a quella di Cadorago, ha organizzato per il 7 marzo una conferenza nel quale parlare del radi-

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camento delle organizzazioni mafiose nel territorio comasco. Sarà l’occasione ideale per sviscerare i temi della legalità e della presenza della ‘ndrangheta e analizzare come questi due Comuni possano svolgere un’azione coordinata per affrontare il fenomeno.

Fino Mornasco. A quando lo scioglimento? altri il capo della Locale di Fino Mornasco, Michelangelo Chindamo, per il quale sono stati chiesti 20 anni di carcere. «È vero – ammette davanti ai Ros – il timore degli uomini dei clan “ha condizionato le mie scelte. Ho deciso di procedere con la nuova ordinanza per paura. Ero terrorizzato”. E prosegue: “non che ci fossero minacce esplicite […] ma temevo che mi sarebbe successo qualcosa L’ordinanza della Giunta se avessi leso gli interessi” di persoMa andiamo con ordine. A seguito ne note per essere vicine alla crimidelle lamentele di alcuni residenti nalità calabrese.» per il “rumore” proveniente da un Oggi, in un’intervista concessa al noto locale della zona, la Giunta quotidiano “La Provincia”, Napoli Comunale emana un’ordinanza ritratta le sue dichiarazioni ai Ros, per chiudere un’ora prima i locali affermando che non ha posticipato notturni. Fin qui tutto bene, anzi, l’ordinanza per paura, ma per eviil comportamento della Giunta è tare possibili “ricorsi” dei gestori dello stesso bar. encomiabile. Quello che preoccupa, però, avviene poche settimane dopo: l’en“Vittima di un sistema trata in vigore dell’ordinanza viene malavitoso” posticipata di qualche mese. E il perché lo spiega lo stesso Napoli Nel corso del medesimo colloquio, davanti ai Carabinieri pochi giorni quando chiedono al Sindaco Nadopo l’operazione Insubria, che ha poli se percepisce la presenza delsvelato i nuovi assetti della ‘ndran- la ‘ndrangheta nel suo Comune, gheta nella provincia lariana e che la risposta è esemplificativa: «Sì, si attualmente vede imputato tra gli coglie dalla ritrosia delle persone Hai paura della ‘ndrangheta? Temi di subire ritorsioni? Allora è giusto che un Primo Cittadino eviti di avere problemi e favorisca i clan. Purtroppo questo non è un pensiero, a dir poco assurdo, del sottoscritto, ma una semplice deduzione che deriva dal comportamento del Sindaco di Fino Mornasco Giuseppe Napoli.

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ad affrontare l’argomento. Intimorisce solo nominare la parola ‘ndrangheta. Ieri l’altro un giornalista mi ha detto di essere stato in giro per il paese e nessuno ha voluto rilasciare commenti sulla vostra operazione Insubria». Anche Luca Cairoli, l’ex Presidente del Consiglio Comunale la pensa così su questa vicenda: «Il sindaco e io eravamo intimoriti.» Da queste dichiarazioni non emergono dubbi sui pensieri del sindaco. La ‘ndrangheta c’è ed è ben identificata. Esse però vanno in contraddizione con quanto dichiarato pochi mesi prima, quando i giornali avevano appena pubblicato le intercettazioni tra Cairoli e Luciano Nocera. Infatti il sindaco aveva dichiarato che Cairoli è stato «vittima di un sistema malavitoso» e lo stesso Cairoli ha affermato: «mai mi sarei sognato che le persone con cui parlavo facessero parte della ‘ndrangheta». Lo stesso Sindaco, come riportato dal quotidiano “Il Giorno” a proposito di un suo colloquio con Klaus Davi (inchiesta sull’omertà qui), aveva detto: «Questi dialoghi risalgono a più di quattro anni fa e Luca non sapeva che quella persona era legata alla ’ndrangheta, su questo ci metto la mano sul fuoco». Ammettendo che ciò sia vero, vuol dire che in poco tempo i due hanno ben capito con chi avevano a che fare, ma non hanno deciso di denunciare, bensì di assecondare i clan.

ch’io, ma ho sempre pensato che mollando l’avrei data vinta a chi vuole imporci il silenzio. In passato c’è chi ha messo la testa sotto la sabbia come lo struzzo, qui come altrove, noi abbiamo cercato di portare pulizia». Qui compare una seconda contraddizione. Sì, perché il colloquio è del dicembre 2014, l’ordinanza “cancellata” è del 2013. Un anno dopo Napoli mente clamorosamente al giornalista. Molti amministratori nazionali, regionali e comunali parlano di “lotta alla mafia”, ma spesso, purtroppo, sono solo parole al vento. Due citazioni di un giudice che ha combattuto davvero la mafia, Paolo Borsellino, possono far capire benissimo ciò che va fatto. «La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e

quindi della complicità». «Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia […]. E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto… e no! […] Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto».

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Il “puzzo del compromesso” Nello stesso colloquio sopraccitato, Napoli afferma: «In questi anni non nascondo di aver avuto paura. Ho ricevuto minacce anwww.stampoantimafioso.it

Il sindaco di Fino Mornasco Giuseppe Napoli (lista civica Progetto per Fino) dall’8-6-2009


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L’impegno morale verso l’amministrazione di Fino Mornasco «Mai mi sarei sognato che le persone con cui parlavo facessero parte della ‘ndrangheta». Sono queste le parole dell’ex Presidente del Consiglio Comunale di Fino Mornasco Luca Cairoli, durante un’intervista per il giornale “La Provincia” di Como il 12 dicembre dello scorso anno, facendo riferimento alle intercettazioni che lo hanno visto chiedere i voti per Gianluca Rinaldin a personaggi legati alla ‘ndrangheta e di cui vi abbiamo raccontato qui. Alla luce di quanto traspare dalle intercettazioni presenti nell’informativa del Ros dei Carabinieri, del 2013, nell’ambito dell’indagine “Insubria”, appare quantomeno lecito dubitare della veridicità delle dichiarazioni dell’allora Presidente del Consiglio comunale del Comune comasco. Si legge infatti che iI Cairoli «è vittima, ma sembra ben inserito nella cerchia calabrese, tanto da cercarne i voti per sostenere la candidatura di una collega di giunta, BARRESI Laura per le elezioni regionali del febbraio 2013. L’attività di intercettazione nei confronti di CAIROLI Luca ha evidenziato, tra l’altro, i suoi stretti legami con LAROSA Salvatore “Satana”, finalizzati anche al sostegno della campagna elettorale di BARRESI Laura». Quindi, stando a quanto emerso dalle investigazioni, anche a distanza di qualche anno Cairoli chiese “sostegno elettorale” agli stessi personaggi e ci si può chiedere, ancora una volta, se egli facesse riferimento a Salvatore Larosa e Luciano Nocera per una sua “ingenuità”.

“Hanno un impegno morale con noi”

iniziare a dirlo a loro dicendo: guardate, voi mi avete conosciuto, non so se… sapete come la penso, io mi candido per questi ideali La gravità della vicenda in quequa chi, chi vuole, senza impegno stione emerge in maniera preponmi dia una mano; e lei mi fa: e ma derante dalle intercettazioni dei abbiamo una riunione con gli altri Carabinieri. Sempre in relazione ai candidati; dico: cazzo ma Laura voti che la Barresi avrebbe dovuto non è che… adesso la priorità non cercare, Cairoli telefona al Sindaco è quella, la priorità è far… Napoli per esprimere i suoi dubbi sul comportamento della collega: CAIROLI: se ti dico che ieri ha detto: adesso devo raccogliere le firme, «CAIROLI: mmmm, si… eh, cioè di qua e di la… gli ho detto: ma tu ieri… non è che… non ha ancora te ne devi fottere della raccolta fircapitocos’è che deve fare questa qua ma, la raccolta firme ma falla fare eh, al partito tu devi andare a stringere le alleanze che ti servono per, per, NAPOLI: no… per… perché poi si muovono per te per recuperare voti, perché non CAIROLI:cioè ma deve raccogliere hai bisogno… adesso non è il movoti… non ha capito un cazzo, cioè mento di recuperare voto per voto, lei pensa, eh la legalità e di qua e di adesso devi tro… le ho detto: la falà e di su e di giù, ho capito, ma la miglia LAROSA di Socco, visto che base, c’è che devi andare a prendere comunque sono stati, sono vicini voti, quindi devi cominciare a chiaall’amministrazione e tutto quanmare delle persone fulcro in alcuni to, hanno un impegno morale con posti, stringere le alleanze con quenoi… ste persone, chiedergli una mano e, e, e muoversi, è questo quello che NAPOLI:ma non solo… anche con devi fare…» lei…» Il commento dei Carabinieri è esemplificativo: «Le citate “persone fulcro” vengono esplicitamente indicate negli appartenenti alla famiglia calabrese dei LAROSA, abitante nella frazione Socco di Fino Mornasco, famiglia che sembra abbia già reso servigi all’attuale giunta comunale»

Ancora una volta, il commento dei Carabinieri è inquietante: «In relazione all’affermazione compiuta dal CAIROLI circa l’effettivo grado di “vicinanza” elettorale già in passato dimostrata dai LAROSA, si osserva che, effettivamente, in occasione delle elezioni comunali del 2009, proprio nella frazione Socco, ove la citata “famiglia” risieNAPOLI: tu figurati che gli ho detde, i due candidati hanno riportato to domani sera di andare a “PROun significativo successo elettorale GETTO PER FINO” perché… (percentuali del 60,78 e del 21,26), Stampo Antimafioso

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Barresi, nella tornata elettorale del febbraio 2013, non conquista i voti aspettati, ottenendo solo 15 voti nel medesimo seggio dove Cairoli, alle elezioni del 2009, ne aveva raccolti 45. Proprio per l’esiguità dei voti raccolti, ed anche perché non facente parte della coalizione vincente (si presentava infatti con la lista facente capo a Umberto Ambrosoli), la Barresi non venne eletta. I Carabinieri scrivono, però, che: « La vicenda dimostra che CAIROLI Luca si ritiene esperto conoscitore della macchina elettorale ed è convinLo schieramento politico non to di potere manovrare o contare su pacchetti di voti di famiglie fa differenza calabresi. Le idee politiche non È da mettere in evidenza che la contano poiché CAIROLI ritiene di poter far convergere su BAR-

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verosimilmente sintomatico di un effettivo sostegno elettorale loro garantito dal “grande elettore” LAROSA. Lo stesso brano della conversazione contiene inoltre un’ulteriore affermazione quanto mai significativa, laddove il CAIROLI, facendo ancora riferimento ai LAROSA, afferma “hanno un impegno morale con noi…”.Tale affermazione risulta oggettivamente dimostrativa dell’esistenza di un vero e proprio patto che lega il politico ai LAROSA.»

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RESI Laura – che si presenta per il centro sinistra – i medesimi voti che erano confluiti nella precedente tornata elettorale regionale sul centro-destra di RINALDIN Gianluca.» Infine bisogna dire che i personaggi presenti in questa vicenda non sono indagati dall’Autorità Giudiziariae dunque non hanno commesso nessun reato. C’è un “però”. Si parla spesso a sproposito di “questione morale”, e i finensi sono liberi di votare e di ritenere “un buon Sindaco” chiunque, ma c’è da chiedersi quanto il voto di ogni cittadino conti, e se non ci si trovi dinanzi a dinamiche “più grandi” in cui un gruppo di persone possa prendere le decisioni a nome della collettività.


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Il coraggio di mettersi in gioco: Libera Masseria di Mattia Maestri Cos’è il coraggio? “Non posso insegnare ai miei figli a non fare, per paura, ciò che reputano giusto!”, disse l’avvocato Giorgio Ambrosoli a un conoscente. Il coraggio come virtù civile. il coraggio come forza del cuore. Il coraggio come valore dell’esempio. Esempio che hanno dato i volontari di Libera, della Caritas e del Comune di Cisliano, che dal 13 maggio presidiano ventiquattro ore su ventiquattro la “Masseria”, un bene confiscato nel 2010 al clan Valle, una potente famiglia di ‘ndrangheta attiva nella zona sud ovest di Milano, in particolare a Vigevano. Una struttura immensa, formata da un ristorante-pizzeria, da quattro appartamenti, da un grande terreno con piscina. “Presidio permanente di legalità”, così è stata chiamata la “difesa” del bene, frutto della decisione congiunta dell’amministrazione comunale con il sindaco Luca Durè, di Libera con il referente regionale Davide Salluzzo, e della Caritas con il responsabile Zona 6 Don Massimo Mapelli. Ma perché dei cittadini decidono volontariamente di presidiare un bene confiscato alla mafia? La storia, dopo la confisca nel 2010, riparte dal 13 ottobre 2014 quando la confisca diventa definitiva. A quel punto inizia a mettersi in moto il meccanismo farraginoso, e per certi versi controverso, della destinazione e assegnazione del bene. Dopo i quattro anni di abbandono, la “Masseria” continua a non avere un futuro. Non solo.

Il bene, dalla data di confisca definitiva, comincia ad essere oggetto di furti e atti vandalici. Il ragionamento dei boss è molto semplice: nel momento in cui ciò che era di mia proprietà passa nelle mani dello stato, io te lo distruggo. A fronte di questi ingenti danni, le segnalazioni con documentazioni fotografiche fatte dal referente regionale di Libera Davide Salluzzo, vengono trasmesse dal presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro al Procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario di Milano, con la richiesta di proteggere e sorvegliare questa imponente struttura. Anche l’amministrazione comunale di Cisliano, il 9 dicembre, si impegna per la causa: scrive all’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati (ANBSC), manifestandosi interessata all’assegnazione della “Masseria”, al fine di conservarla. La risposta fu il silenzio. Nessuno rispose. Così, il primo aprile del nuovo anno il Comune ci riprova. Passano altri venti giorni, e a Cisliano succede un fatto straordinario. Viene indetto un Consiglio comunale aperto alla cittadinanza, e la risposta è sorprendente: partecipano quasi trecento persone. Politica vera, quella che ogni persona si aspetta di vivere nei propri territori. Si discute, si analizza, si vota. “Viene deliberato all’unanimità l’impegno del sindaco per proteggere il bene confiscato alla criminalità organizzata e per ottenere risposte dall’Agenzia”. Ma tutto ciò ancora non basta. La

soluzione estrema rimane il presidio permanente per la legalità, che a distanza di dodici giorni dal suo avvio ottiene la prima grande vittoria: l’Agenzia autorizza nell’immediato, con una nota del 21 maggio, la possibilità di stipulare un comodato d’uso gratuito per rendere immediatamente disponibile il bene alla collettività. Per il futuro non c’è niente di certo. Si sta valutando la possibilità di utilizzare gli appartamenti, per dare le prime risposte alle emergenze abitative di Cisliano. Il comodato d’uso gratuito impegna il Comune ad utilizzare la “Masseria” a fini sociali, e per questo motivo Davide Salluzzo spiega che avvieranno, insieme all’amministrazione, a Caritas e a tutte le altre realtà associative, “una progettazione partecipata per rilevare le esigenze sociali e definire l’utilizzo del bene comune sottratto alla ‘ndrangheta”. Ora si continua sulla via tracciata. Uomini e donne, giovani e anziani, si danno il cambio per fare in modo che il luogo del malaffare non sia mai privo di facce oneste e libere. C’è chi non dorme a casa, ma con un sacco a pelo presidia un bene di tutti. C’è chi non studia in biblioteca, ma utilizza gli spazi immensi che offre la Masseria per abbinare cultura e impegno civico. C’è anche il Sindaco Luca Durè che si mette quotidianamente al lavoro insieme ai volontari presenti. Un giorno ci sono le ragazze di Libera regionale e la notte i membri del presidio Sud Ovest. Un giorno i ragazzi

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dei presìdi milanesi e la notte c’è Andrea, il muratore di Cisliano dal cuore buono. Cittadini consapevoli e coraggiosi. Da Davide a Massimo. Da Elena a Daniela. Da Martina ad Antonio. Da Fabio ad Erica. Coloro che non partecipano alle tavole rotonde nei palazzi, ma che fanno antimafia sul campo. Coloro che non presentano dati e progetti utopistici nei convegni, ma che cercano di risolvere i problemi reali dei territori in cui viviamo.

Questa vicenda offre l’opportunità di riflettere sul delicato tema dei beni confiscati. Per quale motivo i beni sequestrati e confiscati non possono essere riutilizzati subito, in attesa della confisca definitiva, che nella maggior parte dei casi arriva a compimento dopo anni? Perché lo Stato non riesce a proteggere gli immobili di sua proprietà sottratti alla criminalità organizzata? Perché dopo la confisca definitiva, appurato che lo Stato non invochi il suo interesse, il

bene non viene immediatamente assegnato al comune ove è sito, al fine di evitare atti vandalici e sabotaggi? Perché, infine, dalla Legge 109 del 1996 abbiamo fatto dei passi indietro nella gestione dei beni confiscati? Ecco, in attesa di queste doverose risposte, godiamoci queste donne e uomini coraggiosi, che nel “Paese del dire” hanno scelto il “fare” responsabile e civile. E’ questo il significato della parola coraggio. UNA CRONISTORIA A CURA DEL COORDINAMENTO DI LIBERA IN LOMBARDIA Il bene “La Masseria” è situato a Cisliano (MI), in via Cusago, ed apparteneva al clan Valle. 13 ottobre 2014 Il bene è confiscato in via definitiva. Iniziano gli atti vandalici e le distruzioni sistematiche della struttura. 5 dicembre 2014 Il presidente del Tribunale di Milano Livia Pomodoro scrive al Procuratore della Repubblica presso il tribunale ordinario di Milano, trasmettendo la segnalazione con documentazione fotografica fatta dal referente regionale di LIBERA Davide Salluzzo relativa agli atti vandalici e alla necessità di sorvegliare e presidiare il bene.

L’interno della Masseria. Foto di Unilibera Milano

9 dicembre 2014 Il Comune di Cisliano scrive all’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati, manifestando la volontà di vedersi assegnata “La Masseria” in via definitiva, al fine di preservarla. Non ottiene alcuna risposta. • 1 aprile 2015: non avendo ricevuto risposta alla prima richiesta, il Comune scrive nuovamente all’Agenzia Nazionale dei Beni Sequestrati e Confiscati, ribadendo la volontà di ottenere l’assegnazione del bene anche in via provvisoria, in modo da poterlo proteggere dalle devastazioni. Si stimano ad oggi danni alle strutture pari a circa 500mila euro. LIBERA manifesta il suo supporto alla richiesta del Comune di Cisliano.

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21 aprile 2015 Il Comune di Cisliano indice un Consiglio Comunale aperto alla cittadinanza, in pizza, con l’ordine del giorno dedicato alla criticità della “Masseria”. Partecipano oltre 200 cittadini accanto alle realtà associative del territorio. In quella sede si delibera all’unanimità l’impegno del sindaco per proteggere il bene confiscato alla criminalità organizzata e per ottenere risposte dall’Agenzia.

L’esterno della Masseria. Foto di Unilibera Milano www.stampoantimafioso.it

13 maggio 2015, ore 10.00 Il Comune di Cisliano, LIBERA e la Cooperativa IES della Caritas danno il via ad un presidio permanente per la tutela e la salvaguardia del bene e invitano le realtà associative e la cittadinanza responsabile a partecipare.


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Processo La Svolta: le motivazioni della sentenza di Luca Traversa Il 7 ottobre 2014, come già documentato, il Tribunale d’Imperia ha emesso una sentenza storica, che ha riconosciuto per la prima volta l’esistenza della ‘ndrangheta nel Ponente ligure, radicata in due distinti locali, a Ventimiglia e Bordighera. L’8 gennaio 2015 sono state rese note le motivazioni del provvedimento: 677 pagine, in cui i giudici, che si sono equamente distribuiti la fatica della stesura, hanno scrupolosamente documentato una lunga serie di episodi criminali, fornendo una nitida fotografia dell’associazione di tipo mafioso. E’ da apprezzarsi, in particolare, la solida argomentazione giuridica che fonda gli aspetti più significativi della decisione (la prova del reato associativo, delle singole condotte di partecipazione ed il, mancato, “concorso esterno” di due imputati) e la paziente descrizione dell’operato dei singoli affiliati, a partire dal quale viene ricostruita con efficacia l’esistenza di un’organizzazione criminale. In generale, può affermarsi che il Tribunale si è attestato su posizioni tradizionali, ampiamente condivise in dottrina e giurisprudenza; ha evitato qualunque interpretazione innovativa, con l’esplicito obiettivo di fornire un solido impianto alla decisione, idoneo a reggere il giudizio di appello. La motivazione sviluppa tre temi fondamentali: 1) l’inquadramento dell’art. 416 bis: gli elementi strutturali della

fattispecie ed i problemi probatori che essa solleva; 2) il locale di Ventimiglia: l’associazione mafiosa guidata da Marcianò (capo A) ed i singoli delitti-fine; 3) il locale di Bordighera (capo A-bis): il sodalizio criminale dei Pellegrino-Barilaro e le varie condotte delittuose. Per quanto riguarda il primo aspetto, il Collegio passa in rassegna le più recenti pronunce della Suprema Corte, in tema di associazione mafiosa, che si sono soffermate sulla verifica del metodo mafioso (forza d’intimidazione-assoggettamento-omertà). Il Tribunale di Imperia sposa l’interpretazione più tradizionale (cfr. da ultimo Cass., Sez V, 13 febbraio 2006, n° 19141, Bruzzaniti; Cass., Sez II, 24 aprile 2012, n° 31512, Barbaro), che esige un’esteriorizzazione di tale metodo e la prova concreta della fama criminale del sodalizio. Viene invece respinto, perché non aderente alla lettera della norma, l’orientamento innovativo della Cassazione, che era emerso in alcuni procedimenti cautelari (Cfr. Cass., Sez. II, 11 gennaio 2012, n° 4304, Romeo; Cass., Sez. I, 10 gennaio 2012, n° 5888, Garcea): partendo dal presupposto dell’unitarietà della ‘ndrangheta (recente acquisizione del processo calabrese Crimine), si consentiva di trasferire il metodo mafioso dall’associazione tradizionale alle cellule figlie e di provare dunque, implicitamente, tale requisito, una volta dimostrato il collegamento del locale con la “Mamma”. Per

quanto concerne la consorteria di Ventimiglia, vengono documentati numerosi episodi delittuosi: l’usura subita da Alessandro D’Ambra (che dichiarò, in dibattimento, di avere paura delle conseguenze delle sue dichiarazioni) e da Gianni Trifoglio (a cui Pino Gallotta disse “Se non paghi ti brucio la casa”); la tentata estorsione al costruttore Parodi (la cui Suzuki Vitara fu colpita da otto colpi di fucile, per mano di Nunzio Roldi), finalizzata ad assicurarsi una percentuale sul movimento-terra legato alla costruzione delle banchine del porto. Emergono inoltre stretti legami tra il gruppo di Ventimiglia e i clan della Calabria (Piromalli e Mazzaferro in particolare). In un caso i Marcianò si recarono dalla titolare dell’Hotel Piccolo Paradiso di Vallecrosia, Carla Bottino, per indurla ad omettere la registrazione di Piromalli Gianluca, Romagnosi Cosimo e Ciurleo Giuseppe, tre ‘ndranghetisti in visita al Nord. In un’atra occasione, i ventimigliesi ospitarono Domenico La Rosa, un sicario, venuto dalla Calabria per vendicare la morte di Vincenzo Priolo, freddato da un tal Vincenzo Perri. Quest’ultimo, dopo il delitto, si era dato alla fuga verso la Liguria, sicché i compaesani di Ponente si erano attivati per risolvere la faccenda. “Papà, se lo troviamo qua, che non scenda più sotto. A questo bastardo lo dobbiamo fermare” diceva Vincenzo Marcianò al padre Peppino. Vengono inoltre descritti intensi rapporti con la politica:

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Marcianò si era speso in particolare per sostenere la candidatura alle Regionali del 2010 di Alessio Saso e Fortunella Moio ed aveva propiziato l’elezione di Armando Biasi a sindaco di Vallecrosia (dove aveva scelto addirittura, pare, i candidati della lista!). Punto di ritrovo tra politici e malavitosi era il ristorate “Le Volte”, dove si organizzavano frequenti cene elettorali: in queste occasioni, scrivono i giudici, si assiste ad una “processione di personaggi di vario genere, pregiudicati di origine calabrese, persone comuni, imprenditori, che si rivolgevano all’ottantenne Marcianò per la soluzione di qualsiasi problema”, dal recupero crediti alle raccomandazioni, passando per la richiesta di protezione. L’aspetto più controverso del processo riguarda l’affaire Marvon, una cooperativa sociale “di tipo B”, in mano al clan intemelio (come l’acronimo inequivocabilmente dimostra: Marcianò Allavena Roldi Vincenzo Omar Nunzio), cui vengono affidati in via diretta numerosi appalti pubblici. Gli inquirenti contestano in particolare tre opere assegnate dal Comune di Ventimiglia, relative al Mercato Coperto e al rifacimento dei marciapiedi di Lungo Roja e Corso Genova. Tali appalti vengono qualificati come “servizi”, mentre in realtà si tratta palesemente di “lavori”. L’assegnazione diretta, senza gara, sarebbe dunque possibile, ex art. 125 d. lgs. 163/2006, solo per la prima opera (di valore inferiore alla soglia consentita dei 40.000 euro), ma vietata per le altre due (ben più onerose). Anche il primo appalto, peraltro, era irregolare, poiché presentava la violazione: dell’art. 28, c. 2, d.p.r. 34/2000, che impone alle ditte assegnatarie il possesso di determinati certificati in tema di ambiente/beni culturawww.stampoantimafioso.it

li, documenti di cui la Marvon era sprovvista. Nonostante le violazioni amministrative, il Collegio decide però di assolvere gli imputati Scullino (ex sindaco) e Prestileo (dirigente generale del Comune), dalla duplice accusa di abuso d’ufficio aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa. Per quanto riguarda la prima imputazione, il fatto non costituisce reato poi-

ché le irregolarità, pur accertate, non erano sorrette dall’elemento soggettivo del dolo, ovvero dalla volontà di favorire esclusivamente l’interesse di un privato, a scapito del bene pubblico. Con riferimento al concorso esterno, la rigorosa giurisprudenza sul tema (cfr. Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, n° 33748, Mannino) esige la prova di un contributo concreto, speci-

Mafie in Liguria, nasce l’Osservatorio “Boris Giuliano”: cultura e informazione contro il silenzio e l’omertà Il 13 giugno 2015 nasce dopo un anno di incubazione l’Osservatorio Boris Giuliano sulle mafie in Liguria. E’ un portale web (mafieinliguria.it) dalla grafica accattivante ed al tempo stesso semplice e intuitiva, suddiviso in sezioni. Due di esse sono specificamente dedicate ai maggiori processi per 416 bis celebrati nella nostra terra: Maglio 3, sulla ‘ndrangheta a Genova, che ha visto tutti gli imputati assolti nel novembre 2012 per insussistenza del fatto, e La Svolta, sulle infiltrazioni nell’imperiese, che ha invece visto nell’ottobre dello scorso anno le prime condanne per associazione di stampo mafioso emesse in Liguria. E’ poi presente un’area “Approfondimenti”, contenente contributi di tipo più strettamente tecnico-giuridico, nonché cronache o analisi su fatti e problematiche extra-liguri; l’area “Archivio giudiziario”, con i file PDF integrali dei vari atti e sentenze; la “Rassegna stampa” dei contributi giornalistici sulla mafia in Liguria. Senza dimenticare le spettacolari vignette partorite da Stefano Rossi che contribuiscono ad alleggerire e rendere più piacevole il colpo d’occhio del sito. “La platea a cui ci rivolgiamo è per natura eterogenea” – spiega Luca, neo-responsabile dell’Osservatorio, gli occhi che brillano – “per questo abbiamo studiato differenti canali di comunicazione: le sentenze integrali per chi è più interessato, i nostri approfondimenti, la cronaca, i fumetti e addirittura un’infografica attiva sulla mafia in Liguria”.

Una foto della serata di presentazione a Palazzo Ducale di Genova il 13 giugno 2015


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fico, consapevole e volontario che si configuri come condizione necessaria per il rafforzamento o il mantenimento del sodalizio. Tutto ciò, ad avviso dei giudici, non era ravvisabile: Scullino e Prestileo non sapevano che dietro la Marvon vi fosse la ‘ndrangheta. E veniamo alla terza parte del provvedimento, relativa a Bordighera, in cui viene ricostruita l’esistenza di un locale che, nel tempo, si è guadagnato una certa autonomia (ed anzi, emerge a più riprese l’insofferenza di Marcianò per la rumorosità dei proprio “cugini”). Vi è un primo problema: i capi del sodalizio della città delle palme sarebbero Francesco e Fortunato Barilaro, Michele Ciricosta e Benito Pepé, tutti assolti in primo grado in Maglio 3 (l’inchiesta sorella della D.D.A. genovese), mentre nella Svolta il pm Arena contesta la partecipazione all’associazione mafiosa a tre dei quattro fratelli Pellegrino (Maurizio, Giovanni e Roberto) e ad Antonino Barilaro. Come coniugare questi differenti esiti processuali? Il Tribunale risolve l’apparente incongruenza con grande acume: il processo Maglio 3, celebratosi in rito abbreviato, non ha consentito un’approfondita istruttoria ed è culminato con l’assoluzione degli imputati con la formula dubitativa di cui all’art. 530, c. 2, c.p.p. (che si utilizza quando la prova manca, è insufficiente o contraddittoria). Diversamente, nella Svolta si è proceduto in rito ordinario, potendo così accertare, nel dettaglio, i numerosi delitti-fine commessi dagli associati (tali reati, peraltro, sono normalmente posti in essere dai meri partecipanti, non dai capi dell’organizzazione. Non deve sorprendere che i capi del sodalizio, processati in Maglio 3, non commettano personalmente, poniamo,

un’estorsione; costoro si occupano prevalentemente di questioni organizzative e politiche!). I Pellegrino hanno, tutti, precedenti per traffico di droga e/o detenzioni di armi e sono considerati molto vicini alla cosca Santaiti-Gioffré di Seminara (RC). L’accusa documenta numerosi episodi criminali: la tentata estorsione a Gianni Andreotti, finalizzata ad acquisire l’agriturismo “Del Povero” (con tanto di pestaggio della vittima e una testimone oculare, Brunella Mocci, terrorizzata all’idea di dover raccontare ciò che aveva visto: “Quelli sono mafiosi…”); le minacce subite dagli Assessori Sferrazza e Ingenito, non troppo entusiasti di concedere l’autorizzazione all’apertura di una sala giochi su cui avevano messo gli occhi i Pellegrino; altre minacce subite dall’ispettore di polizia Rocco Magliano (Roberto Pellegrino: “Ti scanno, so dove abiti”), dal M.llo Cotterchio (da parte di Antonino Barilaro), dal giornalista Tenerelli (Giovanni Pellegrino: “Se non scrivi cose giuste ti taglio le dita della mano”). Poi vi sono gli incendi dolosi a danno della Tesorini e della Negro di Bordighera, due ditte di movimento-terra concorrenti della Fratelli Pellegrino s.r.l.; ancora, l’assistenza offerta al latitante Carmelo Costagrande, ospitato e nascosto nella città delle palme, fatto per il quale Maurizio Pellegrino era già stato condannato per favoreggiamento personale aggravato; numerosi episodi di cessione di sostanze stupefacenti; infine cene e incontri elettorali, in particolare con Giovanni Bosio, il sindaco di Bordighera, ed Eugenio Minasso, già esponente di spicco di AN in Liguria. Con riferimento alle singole condotte di partecipazione,

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il Tribunale si esibisce in una dotta premessa, squisitamente giuridica, sposando la teoria della “compenetrazione organica”, elaborata nella citata sentenza Mannino. Solitamente si distinguevano due modelli: il modello causalistico (secondo il quale la partecipazione consisterebbe in un contributo apprezzabile recato al sodalizio) e quello organizzatorio (per cui basterebbe l’adesione formale, la disponibilità ad agire); ma in realtà, come osserva correttamente il Collegio, il secondo modello esprime unicamente una massima d’esperienza, in virtù della quale all’affiliazione/disponibilità seguono necessariamente fatti e atti concreti. Nella vicenda de qua la partecipazione di numerosi imputati al sodalizio mafioso era senz’altro ravvisabile. Infine, il Tribunale determina il trattamento sanzionatorio riservato agli imputati: 16 sono condannati per associazione mafiosa (oltre agli altri reati menzionati); 1 a titolo di tentativo (A. Macrì, che si era prodigato per ottenere il “battesimo”, dichiarandosi pronto a qualsiasi operazione, ma aveva incontrato il rifiuto di Marcianò, che lo riteneva troppo esagitato e pericoloso); altri 10 per fattispecie meno gravi; solo 9 vengono assolti da ogni addebito, tra cui i due “colletti bianchi” di Ventimiglia. Seguono i risarcimenti alle parti civili (Comune di Ventimiglia € 600.000, Comune di Bordighera € 400.000, Regione Liguria € 300.000) e le confische a numerosi imputati (ex art. 416 bis, c. 7, c.p., la confisca obbligatoria delle cose pertinenti al reato, ed art. 12 sexies d.l. 306/1992, la confisca dei valori sproporzionati ed ingiustificati).

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Andreotti assolto?

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di Mattia Maestri Il processo di Palermo, che ha visto imputato il sette volte Presidente del Consiglio e ventidue volte Ministro della Repubblica Giulio Andreotti, è considerato il caso esemplare per quanto riguarda le collusioni tra classe politica e Cosa Nostra. La vicenda Andreotti, infatti, oltre ad accertare le relazioni dell’imputato con esponenti di spicco della mafia siciliana, ha reso evidente un certo modo di fare politica “con le mani sporche”, come direbbe il filosofo americano Michael Walzer. Il processo Andreotti si sviluppò secondo i canonici tre gradi di giudizio. Iniziato nel 1995, dopo che il Senato approvò la richiesta di autorizzazione a procedere, pervenuta nel marzo 1993, si concluse nove anni dopo, il 15 ottobre 2004. La Corte d’Assise di primo grado assolse l’imputato “perché il fatto non sussiste”, nonostante fossero stati accertati in sede giurisdizionale i rapporti tra Andreotti e i cugini mafiosi di Cosa Nostra Nino e Ignazio Salvo, e i rapporti amichevoli tra l’imputato e il banchiere Michele Sindona, mandante dell’omicidio di Giorgio Ambrosoli ucciso l’11 luglio 1979. Il giudizio di primo grado fu in parte ribaltato dalla sentenza d’Appello, che provò la colpevolezza di Andreotti per il reato di associazione a delinquere fino alla primavera del 1980 (tuttavia il reato nel 2003 fu prescritto in quanto dal 1980 passarono più di ventidue anni e sei mesi), mentre confermò l’assoluzione per quanto riguarda il periodo successivo a tale data. Sia la difesa, sia la Prowww.stampoantimafioso.it

cura di Palermo, fecero ricorso in Cassazione: l’imputato per cancellare quella rilevante colpevolezza, e ottenere nuovamente l’assoluzione come in primo grado; i pubblici ministeri, invece, per confermare la colpevolezza anche per il periodo successivo alla primavera del 1980. La Corte di Cassazione, il 15 ottobre 2004, rigettò entrambi i ricorsi, confermando di fatto la sentenza della Corte d’Appello. In particolare vennero accertati e provati due incontri dell’imputato con l’esponente di spicco di Cosa Nostra Stefano Bontate, tenuti prima e dopo l’omicidio a Palermo del presidente della regione Sicilia (e compagno di partito di Andreotti) Piersanti Mattarella. Nel secondo incontro, Andreotti chiese spiegazioni a Bontate sull’omicidio Mattarella, e il boss lo zittì semplicemente con una frase. Nel libro di Umberto Santino, L’alleanza e il compromesso. Mafia e politica dai tempi di Lima e Andreotti ai giorni nostri, si legge la risposta di Bontate: “In Sicilia comandiamo noi, e se non volete cancellare completamente la Dc dovete fare come diciamo noi. Altrimenti vi leviamo non solo i voti della Sicilia, ma anche quelli di Reggio Calabria e di tutta l’Italia meridionale. Potete contare soltanto sui voti del nord, dove votano tutti comunista, accettatevi questi”. Anche in quell’occasione Andreotti decise di non denunciare ciò che era a sua conoscenza in base ai propri rapporti diretti con Cosa Nostra. Rimase per tutta la vita in silenzio, negando ogni accusa, talvolta anche con le più improbabili motiva-

zioni. Nonostante ciò, il senatore a vita Giulio Andreotti, fu sostenuto e appoggiato, direttamente e indirettamente dalla quasi totalità della classe politica italiana. Tralasciando la piccola ala radicale che ribadiva la colpevolezza di Andreotti, la netta maggioranza di esponenti politici ha garantito, non solo solidarietà al collega, ma anche una riabilitazione politica e morale totale, nonostante la prescrizione per il reato di associazione a delinquere confermata anche dalla Cassazione. Il processo Andreotti ha avuto il merito, non solo di far luce sui rapporti diretti della corrente andreottiana siciliana con Cosa Nostra, ma anche di porre interrogativi importanti al mondo politico, in particolare se sia lecito scendere a patti con la criminalità organizzata. Le reazioni di autorevoli esponenti politici inducono a pensare che questo metodo controverso di svolgere l’attività pubblica sia stato ‘perdonato’ al senatore a vita. Infatti, tutta l’ala centrista, moderata e popolare ha ampiamente espresso massima indulgenza nei confronti di Andreotti. Con le dichiarazioni di solidarietà e di appoggio incondizionato all’imputato per mafia, i politici che dominavano la scena hanno reso lecita l’attività pubblica di un’intera classe dirigente democristiana siciliana. Dall’altra parte, esponenti politici di sinistra non hanno preso una netta posizione di condanna. Tuttavia, si sono anche superati nell’esaltare il comportamento processuale tenuto dall’imputato, “come un signore”. Come se fosse diventato anormale difendersi in aula da accuse così gravi. D’altra parte, il più acceso indiretto sostenitore era stato Emanuele Macaluso, dirigente di spicco del vecchio Par-


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tito Comunista Italiano. Macaluso dedicò molte pagine alla vicenda Andreotti, e concluse le sue analisi affermando che la colpa di Andreotti fu di aver accettato il «quieto vivere», che le sue responsabilità sono quelle, politiche, di aver creato in Sicilia un blocco di potere che inglobava anche la mafia. Di fronte al problema etico-politico emerso dal processo Andreotti, la classe dirigente abbassò la testa, non per fare un mea culpa necessario, ma per declinare un problema reale alla quasi mera invenzione dei pubblici ministeri. Com’è stato possibile tutto questo? Immediatamente dopo la sentenza d’Appello, un plotone di giornalisti, intellettuali e politici, cominciò un’operazione di salvataggio mediatico dell’imputato Andreotti, attuando una sistematica mistificazione della realtà. L’opinione pubblica fu fortemente influenzata dal parere quasi unanime di politici e media, che ribadivano a più riprese l’innocenza del senatore a vita. Si aprì anche, negli anni, un dibattito pubblico tra gli innocentisti e i colpevolisti, quest’ultimi in netta minoranza. Soltanto alcuni ‘eroici’ giornalisti, come Marco Travaglio, Giann Barbacetto e Saverio Lodato, o storici, come Nicola Tranfaglia, Salvatore Lupo, Paolo Pezzino e Umberto Santino, o sociologi come Pino Arlacchi, studiarono le carte della Procura di Palermo e le motivazioni delle sentenze, arrivando ad una conclusione molto differente dalla proclamata assoluzione di Andreotti trasmessa ai cittadini dalla televisione e dai quotidiani nazionali. È credibile un Paese che cancella una verità storica e giudiziaria, tenendo il cittadino comune all’oscuro di rapporti indicibili tra Giulio Andreotti e uomini potenti di Cosa Nostra? Come può

il singolo realizzare nel proprio io un pensiero critico sulla vicenda se gli vengono negati gli strumenti necessari per produrlo? Eppure, sul processo Andreotti, ha regnato la disinformazione totale: la prescrizione scambiata per assoluzione; il reato commesso fino al 1980 scomparso dalle televisioni e dai giornali; la classe politica impegnata nel festeggiare la propria riabilitazione morale. Chi ci ha rimesso, purtroppo, è stato il cittadino. Da un lato, perché non ha potuto analizzare la vicenda per come è stata; dall’altro, perché il problema etico-politico è un tema sempre attuale, che la classe dirigente sembra proprio non voler prendere in considerazione. Il processo ad una delle figure più importanti del Novecento italiano,

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poteva senza dubbio essere l’occasione giusta per fare i conti con la realtà, prima che con la storia. Infine, è dunque possibile fare politica commettendo dei reati? Secondo la teoria filosofica realista, l’azione politica con le mani sporche è necessaria. Si sa, la politica è compromesso. Ma fino a che punto ci si può spingere? Può essere identificato come compromesso politico un rapporto pluridecennale tra una specifica classe dirigente e Cosa Nostra siciliana? Anche se mancasse una rilevanza penale degli incontri accertati del senatore a vita con esponenti di Cosa Nostra, è possibile giudicare positivamente, eticamente e moralmente, l’attività pubblica di Andreotti?

La mappa della mafia al Nord La mappa mostra le locali di ‘ndrangheta, i comuni sciolti per infiltrazione mafiosa, i beni confiscati presenti nei vari comuni e gli atti intimidatori. La mappa fa riferimento principalmente al periodo 2009-2014. La situazione dei beni confiscati fa riferimento ai dati pubblici sul sito dell’Agenzia dei beni confiscati e sono aggiornati al 2012. L’elevata presenza di materiale e le sue difficoltà di elaborazione potrebbero rendere il lavoro parzialmente incompleto. Eventuali mancanze o errori verranno sistemati. Per segnalazioni scrivere a: redazione@stampoantimafioso.it Clicca sull’immagine per aprire la mappa

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La piazza virtuale e la piazza reale. Viaggio nel mondo dei Casamonica

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di Luca Bonzanni È una storia di connivenze, di omertà, di controllo del territorio. Una storia che sfocia persino nel cattivo gusto. In senso letterale: nel tripudio del kitsch, tra carrozze pacchiane ed elicotteristi «spargipetali» la targhetta «Alitalia» appuntata al petto fino a poco tempo fa. Soprattutto, però, è una storia di paradossi. Paradossi grandi come il Colosseo, come la Città eterna, come le sue meraviglie infangate da consorterie di ogni risma: in vita, pur temuto da tutti, il nome di Vittorio Casamonica passava quasi inosservato agli occhi della grande opinione pubblica; da morto, e perciò innocuo, tutti ne parlano. Ai romani sarebbe bastato semplicemente aprire gli occhi; al resto d’Italia, una sana voglia d’informazione. Famiglia di origine sinti, partita dall’Abruzzo e insediatasi a Roma negli anni Sessanta e Settanta, divenuta più forte grazie al legame con i Di Silvio (altro piccolo impero della malavita capitolina), i Casamonica – quartier generale tra la Romanina, il Tuscolano, l’Anagnina e Tor Bella Monaca – non sono di certo degli sconosciuti. Nella relazione conclusiva della scorsa legislatura – un esempio tra i tanti – la Commissione parlamentare antimafia indicava il clan come «tradizionalmente dedito all’usura, all’estorsione, alla truffa, al riciclaggio, alla ricettazione e al traffico internazionale di stupefacenti», nonché in contatto con www.stampoantimafioso.it

«famiglie mafiose calabresi (in particolare i Piromalli, i Molè e gli Alvaro, ndr) e siciliane». E poi, ovviamente, i legami con la Banda della Magliana, nello specifico con Enrico Nicoletti (il «Secco» reso celebre da Romanzo criminale), l’uomo che ripuliva i denari sporchi di Enrico De Pedis e compari.

Bastava appunto avere lo scrupolo d’informarsi, di porsi qualche interrogativo sulla faccia oscura di Roma, ancor prima che a suggerire alcune risposte arrivasse la procura capitolina con lo tsunami di «Mafia Capitale».

La piazza virtuale Altro paradosso. Gli affari è me-

glio farli nell’ombra, ovviamente: restare nel «mondo di mezzo» (copyright Massimo Carminati) e trafficare lontano da sguardi indiscreti. Nell’universo della rete, tuttavia, nessuno si nasconde. È internet, oggi, la nuova arena in cui manifestare il proprio potere, la piazza virtuale che completa la

piazza reale. Rosaria Casamonica, nipote di Vittorio, ha ben chiaro il proprio obiettivo: i giornalisti. «Dovete farla finita di parlar male di un defunto, il più pulito di voi c’ha la rogna. Andate a confessarvi, l’invidia è una brutta bestia. Prima di parlare pulitevi la bocca con la candeggina: questa è l’usanza nostra, ma quale mafia», commenta su Facebook, raccogliendo


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un tripudio di «like», di affetto, di solidarietà. Poche ore dopo, il pensiero è ribadito: «Smettetela di fare polemiche su un funerale. Giornalisti, vergognatevi: andate a scavare tutte le cose passate e le mischiate ai funerali. Che c’entra tutto questo? Anche voi siete criminali e mafiosi, perché giudicate quando non siete sicuri di quello che dite. Lui (Vittorio, ndr) è stato sempre un uomo umile e per questo tutti gli volevano bene». E ormai virale è inoltre il video in cui il compianto Vittorio si destreggia al karaoke, caricato in rete da un altro membro del parentado. Di profilo in profilo, i Casamo-

ne, l’opinione pubblica e la politica, nel mirino ci finiscono tutti. Lo sfogo è ormai un mantra. C’è poi chi augura al defunto di «stare nella gloria del paradiso» e pure chi sceglie formule meno sacre ma ben più risolute, liquidando il dibattito come «invidia e ignoranza», ribandendo come «zio Vittorio» fosse semplicemente «il numero uno», «il re di Roma». «Senti come parlano», mormora online un altro Di Silvio, tra un link di Gomorra – La serie e una foto di un’auto di lusso: «Zio Vittorio è morto e questi stanno a di’ dello spaccio, dell’usura, di questo e di quell’altro. Mi fanno schifo».

nica e i Di Silvio si chiudono in una strenua difesa del familiare, condividendo e commentando i link che raccontano quel funerale ormai sulla bocca di tutti. Un’omonima della nipote del boss se la prende nuovamente con la stampa: «I giornalisti stanno a fa’ troppe cazzate, andate a vedere i fatti veri che stanno in mezzo a voi, non in mezzo a noi». La televisio-

Le polemiche, già: per farsi scudo, i Casamonica-Di Silvio «adottano» pure un «ideologo». Scorrendo i vari account, ecco spuntare a più riprese un post di Vittorio Sgarbi: «Il lutto è un fatto privato. C’è materiale solo per “Striscia la Notizia”. Che debba occuparsene il ministro dell’Interno è tragicomico». Vien facile rispondere allo Sgarbi-pensiero: un fatto talmente privato che ha mobilitato carroz-

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ze, Rolls-Royce, elicotteri, vigili urbani a dirigere il traffico.

Tra Romanzo criminale e Gomorra Non mancano, tra gli amici delle due famiglie, i riferimenti a Romanzo criminale. C’è chi, ad esempio, aggiunge il suffisso «Er Libanese» (al secolo Franco Giuseppucci) al proprio nome reale, rendendo poi omaggio a Vittorio Casamonica ed esprimendo il proprio cordoglio ai parenti dell’ormai ex «sovrano» di un grosso spicchio di capitale (che la giustizia non è mai riuscita a condannare per associazione a delinquere di stampo mafioso, va specificato). Dalla penna di Giancarlo De Cataldo (un magistrato, prima ancora che uno scrittore) e dai ciak di Michele Placido e Stefano Sollima al mondo reale, il passo – o meglio, l’infatuazione – è breve. E pensare che dal 14 ottobre sarà nei cinema Suburra, la nuova pellicola diretta da Sollima, tratta dall’omonimo noir scritto da Giancarlo De Cataldo e Carlo Bonini, una sorta di «Romanzo criminale 2.0» in cui, guardacaso, si narra anche della figura di Rocco Anacleti, «duca gitano», a capo di un potente manipolo di nomadi. Un confine labile, che si assottiglia ancor di più se si sommano i link sulla serie televisiva tratta da Gomorra. E riecco i paradossi: Gomorra, già, l’opera di Roberto Saviano, lo scrittore che da anni vive sotto scorta per le minacce subite dai Casalesi. Quegli stessi Casalesi spesso definiti alleati dei Casamonica.

La piazza reale. Luciano Casamonica, «mediatore culturale» di Buzzi e Carminati

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Dunque, il parroco non ne sapeva nulla. Don Giancarlo Manieri, il titolare della chiesa dove si celebrata la cerimonia, si è presto difeso: «Personalmente non conoscevo il nome del boss dei Casamonica». Un ritornello ricorrente, nella «piazza reale». Da tempo, però, la famiglia è nel mirino delle forze dell’ordine. A inizi anni Duemila, il Centro operativo della Direzione investigativa antimafia di Roma mette gli occhi su alcuni interessi economici di Michelle Venditti, nata nelle Filippine e all’epoca convivente di Consilio Casamonica, figura di primo piano del gruppo. Partendo da alcune «operazioni sospette», gli inquirenti iniziano a scavare. Finisce che, di lì a poco, l’attività investigativa porta alla mappatura dell’intera consorteria: ne vien fuori un’intricata tela fatta di 324 soggetti imparentati fra loro, di cui 48 gravati da numerosi precedenti penali, e pure un primo sequestro preventivo – scattato il 18 giugno 2003 – dell’ammontare complessivo di 85 milioni di euro (poco dopo, la Dia sospetta anche che alcuni capitali «ripuliti» siano stati fatti rientrare in Italia grazie ai vari «scudi fiscali»). Lo stillicidio di arresti, indagini e processi non si arresta. È un libro aperto, quello che racconta della sfida tra i Casamonica e la giustizia. Da un lato, quindi, l’usura, le estorsioni e il riciclaggio; dall’altro il traffico di droga, con caratteriwww.stampoantimafioso.it

stiche senza dubbio interessanti: una struttura «sostanzialmente autosufficiente», annota la Direzione annuale antimafia nella relazione annuale del 2012, sia per l’approvvigionamento della «materia prima» che nelle modalità di spaccio, con ruoli intercambiabili e una certa «orizzontalità» degli organigrammi, «senza alcun capo o organizzatore». Nell’area gover-

nata dai Casamonica, rimarcano i magistrati antimafia, il controllo delle strade è «sistematico», quelle lingue d’asfalto diventano delle «enclave all’interno delle quali la polizia giudiziaria non riesce a svolgere i suoi compiti istituzionali sia per il rischio di ritorsioni violente, sia per la sussistenza di una rete di sorveglianza efficacissima, composta da punti di avvistamento controllati da sentinelle». Insomma: un antistato nel cuore dello stato, una fetta della capitale che finisce sotto il ferreo regime di un gruppo criminale. Si spara anche, in alcuni casi. Recentemente, il 21 gennaio 2008, la gambizzazione di Enrico Casamo-

nica è un campanello d’allarme; ad agosto nel 2013, anche Stefano Casamonica si ritrova il piombo nelle ginocchia; il mese successivo, è ancora il nome di Enrico Casamonica a finire sui giornali, altri proiettili e altre ferite alle gambe. Il resto è storia recente. Il cognome è ciclico tra le carte di «Mafia Capitale». Per Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, il clan svolge il fondamentale ruolo di «mediatore culturale» nella gestione di un delicato «affare» inerente un campo rom a Castel Romano: quando il fondatore della «Cooperativa 29 giugno» e il «Cecato» incontrano le resistenze della popolazione nomade, ecco allora giungere l’intervento di Luciano Casamonica, che in cambio dell’interessamento avrebbe ricevuto – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – un corrispettivo di 20mila euro al mese. Infine, l’incubo di un pomeriggio di fine estate. Un funerale sfarzoso – non certo un caso isolato, nel mondo del crimine: tra i precedenti più recenti c’è quello del boss Vito Rizzuto, sepolto a Montreal in una bara d’oro – e una ridda di polemiche che è rimbalzata sui media del globo intero. Ma qualcosa – forse e finalmente – pare essere accaduto: Roma, l’Italia e il mondo si sono accorti dei Casamonica. E del loro potere, ostentato in rete e silenzioso nelle strade.


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Quando la criminalità organizzata è su Facebook. E ricorda Borsellino di Luca Bonzanni C’è chi condivide link a favore di una maggiore moralità nelle istituzioni. C’è chi si scaglia contro «Mafia capitale» e contro le collusioni tra politica e malaffare, morbo che dilania la Città eterna. C’è chi, infine, pubblica addirittura un’immagine per ricordare il sacrificio di Paolo Borsellino e della sua scorta: era il 19 luglio, d’altronde, e quel post pareva doveroso. Tutto giusto, verrebbe spontaneo dire. Sacrosanto, anzi. Peccato che, una volta spento il computer o lo smartphone, la vita reale di questi «viveur della rete» sia ben diversa. È la «coerenza» ai tempi di Facebook, o forse ancora qualcosa di più profondo, materia per psicologi e criminologi. L’ennesima riprova è recente, fresca, immediata. Il 22 luglio la Dda di Reggio Calabria chiude il cerchio e fa scattare l’operazione «Gambling»: ventotto ordinanze di custodia cautelare in carcere, tredici persone ai domiciliari, svariati obblighi e divieti di dimora e obblighi di firma, sequestri di undici società operanti all’estero e di quarantacinque aziende con sede in Italia, per un totale di 1500 punti commerciali «sigillati». Valore totale dei beni individuati dalla magistratura: due miliardi di euro, briciola più o briciola meno. Uno stillicidio senza fine per sferrare un duro colpo agli affari della ‘ndrangheta nel mondo delle scommesse e del gioco d’az-

zardo online, con gli uomini del clan Tegano a recitare la parte del leone. E se ci si immerge nel mare magnum di Facebook e si digitano alcuni dei nomi degli arrestati (molti profili sono «pubblici», con contenuti condivisi con l’intera rete e quindi nessuna restrizione di privacy), il viaggio è persino «istruttivo». L.B.G., residente in provincia di Bergamo, ad esempio, sarebbe secondo gli inquirenti il referente dell’organizzazione al Nord. Caterina Catalano, gip del capoluogo calabrese, nell’ordinanza lo tratteggia come un personaggio dalle «spiccatissime competenze informatiche, che ne aggravano la pericolosità sociale qualificata», uno che ha svolto funzioni «decisive e infungibili» per le sorti del gruppo. Quanto avrebbe guadagnato dall’affare? Stando all’impianto accusatorio, e in particolare a una telefonata intercettata, L.B.G. si sarebbe messo in tasca un milione di euro in tre anni. Sul proprio profilo Facebook, non più di una ventina di giorni prima di ritrovarsi le manette ai polsi, l’uomo si scagliava contro gli sprechi della politica: ecco allora un link che mostra come alla mensa del Senato una tagliata di manzo costi appena 3 euro e 41 centesimi, oppure un post che invoca la sforbiciata agli stipendi dei parlamentari. E ancora, un video in difesa della scuola pubblica (chissà quante borse

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di studio si potrebbero finanziare, con quei due miliardi sequestrati…) e un’immagine per scongiurare la chiusura del Parco dello Stelvio. Poi, però, non può mancare il link contro gli immigrati e il post con citazione mussoliniana. Tra gli «amici» dell’arrestato, virtuali ma anche reali, c’è il calabrese F.R., uno dei tanti destinatari dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere nell’ambito della stessa operazione antimafia. Sull’account di L.B.G., F.R. interviene definendo il bergamasco un «compare», termine che nelle logiche di ‘ndrangheta è solitamente ben chiaro. Cliccando direttamente sul profilo di F.R., invece, a questo giro i link «seri» sono ben pochi, giusto qualcosina contro le banche, quindi ecco una sfilza di post dedicati a poker e gioco d’azzardo, certo più consoni al taglio dell’inchiesta della Dda reggina. A destare le ire dell’uomo c’è infine un’altra «grave» tematica: non la criminalità organizzata, non la ‘ndrangheta che dalla «sua» Calabria ha colonizzato l’Italia, l’Europa, il mondo; Facebook alla mano, per F.R. il vero drama è rappresentato dai matrimoni gay… A.S., invece, è oggi un cittadino libero. Il carcere lo ha conosciuto qualche anno fa per un giro di estorsioni e usura nella zona del Lecchese. Vanta una parentela importante, pesante come un macigno: è nipote di Franco Coco Trovato, uno dei più importanti boss della ‘ndrangheta trapiantata in Lombardia, capace di fare dell’area tra Lecco e Milano (grazie al sodalizio con «Pepè» Flachi) una zona franca insanguinata da valanghe di omicidi, funestata da ingentissimi traffici di droga, strozzata da una tenacissima morsa usuraria. Sul social network più famoso del mondo, anche A.S. non disdegna l’«impegno civile»: lotta alle pensioni d’oro, solidarietà agli esodati, post contro i vitalizi ai politici corrotti.

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Stesso tenore pure su un altro profilo «degno di nota»: quello di A.S. (omonimo nonché parente del precedente), uno tra i più spietati killer di ‘ndrangheta, braccio destro proprio di Franco Coco Trovato, passato anche dal 41bis e oggi uscito di prigione dopo essere stato colpito dalla storica operazione «Wall Street» del 1993. Anche in questo caso, accanto a una sfilza di link scherzosi o divertenti o che promuovono la sua nuova attività commerciale, non mancano quelli più «impegnati»: su tutti, un paio di messaggi in ricordo della Strage di via D’Amelio. Una metamorfosi degna di Kafka.

Uno dei punti scommesse gestiti da L.B.G. finiti sotto sequestro preventivo

La prima tesi di laurea in “antimafia” secondo Repubblica Napoli di Martina Mazzeo Ebbene sì. Secondo Repubblica Napoli, sabato 24 ottobre 2015, sottolineo: 2015, all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli si sarebbe laureato il primo studente italiano (?!) in “antimafia”. Davvero? Quando ho letto la sorprendente notizia mi sono chiesta: e allora a Milano cosa si fa da sei anni a questa parte?!

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Un paio di considerazioni. Innanzitutto congratulazioni al collega. Sincere, proprio perché so e sappiamo quanta fatica richieda una simile attività di studio. Dall’anno accademico 2008-2009, ossia da quando il professore Nando dalla Chiesa ha introdotto il corso di Sociologia della Criminalità Organizzata presso la facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano, si sono moltiplicate a centinaia le tesi di laurea sul fenomeno mafioso e sul movimento antimafia (senza virgolette… sarebbe come mettere tra virgolette “tesi di laurea”: è un’espressione strana? forse insolita? da maneggiare con prudenza? bah…). Io mi ci sono già laureata due volte in “antimafia”: che prodigio. Ho anche degli amici, che negli ultimi due anni, hanno affrontato lo studio del fenomeno mafioso con gli strumenti del diritto penale e processuale, parlando (pensate!) di legislazione e collaboratori di giustizia!! Come il collega che Repubblica presenta come “il primo”. Qui e qui e qui, almeno, trovate testimonianza di ciò che dico, documentazione raccolta negli anni. Il problema, sia chiaro, non è lo studente laureato. Figuriamoci, che bello ci sia un altro futuro professionista disposto a studiare, ad attrezzarsi. Il problema, semmai, è ancora una volta la stampa: che non si informa (paradosso) prima di scrivere, che non controlla, che non verifica, che non si pone domande, che non è curiosa, che distorce la verità usando male le parole (ah, le lezioni americane di Calvino…) che – insomma – non fa il suo dovere. “Carte mute, carte false”, scriveva dalla Chiesa nel 1987: “il pubblico non sa, non avverte (e non immagina) quante cose gli vengano taciute”. Forse è ora di cambiare l’andazzo.

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Siani, a 30 anni dalla morte gli atti processuali online di Adelia Pantano Quest’anno il Festival di TRAME, svoltosi a Lamezia Terme, era stato dedicato a tutti i Giovani favolosi. In particolar modo a Giancarlo Siani, la sua Méhari verde esposta al pubblico durante i cinque giorni della manifestazione lo testimoniava. In occasione del trentesimo anniversario della sua morte, il giornalista Roberto Paolo ha voluto donare alla Fondazione TRAME l’archivio contenente gli atti del processo. Ospite durante una delle serate del festival, Roberto Paolo, giornalista del quotidiano Roma, aveva presentato il suo libro “Il caso non è chiuso. La verità sull’omicidio Siani” (Castelvecchi editore, 2014). Un lavoro di ricerca che ha portato alla riapertura da parte della Procura di Napoli dell’inchiesta sul giovane giornalista ucciso dalla camorra. Durante l’incontro, Paolo aveva parlato di un movente “camorristico-mafioso”, per sottolineare come nell’uccisione di Siani fosse coinvolta anche Cosa Nostra. In particolare i rapporti tra le due organizzazioni criminali, sarebbero stati mantenuti da Giovanni Brusca, colui che azionò il telecomando nella strage di Capaci. Brusca, il cui coinvolgimento sarebbe testimoniato da alcune conversazioni avute con il clan Nuvoletta di Marano, più volte si era recato a Napoli per “insegnare ai camorristi come sciogliere le persone nell’acido”. Secondo la tesi sostenuta da Paolo,

Giancarlo Siani sarebbe stato ucciso anche su pressione dei siciliani in seguito all’arresto di Valentino Gionta, il referente in Campania di Cosa Nostra. Proprio dopo l’episodio, il giovane Siani scrisse un articolo in cui affermava che “l’arresto di Gionta era stato il prezzo pagato dai Nuvoletta per giungere ad una pace con i Bardellino”. Parole queste, che non piacquero agli stessi Nuvoletta, considerati degli “infami e che costarono la vita al giornalista. “Quello che si può trovare nell’archivio rappresenta il nucleo fondamentale a cui qualsiasi studioso, storico, giornalista, avvocato, studente, può attingere per comprendere qualcosa in più su come si sono svolti i fatti”, afferma il giornalista, che ha voluto ringraziare la fondazione TRAME per l’attenzione che quest’anno ha riservato a Giancarlo Siani. “I documenti pubblicati in questa prima fase sono forse i più importanti della storia processuale dell’omicidio Siani, – continua Paolo – ma sono pur tuttavia solo una parte dei ventuno provvedimenti giudiziari che hanno costellato questa vicenda processuale durata oltre quindici anni. Altri documenti saranno aggiunti nel prossimo futuro.” Gli atti processuali sono disponibili e consultabili sul sito del Festival TRAME e contengono:

• L’ordinanza di proscioglimento per Ciro Giuliano, Giorgio Rubolino, Giuseppe Calcavecchia e Alfonso Agnello, 22 dicembre 1988; • L’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Gionta Valentino, Nuvoletta Lorenzo, Nuvoletta Angelo e altri, 23 ottobre 1995; • Sentenza di primo grado contro mandanti ed esecutori del delitto Siani emessa dalla Corte d’Assise di Napoli, seconda sezione,14 aprile 1997 • Sentenza di secondo grado contro mandanti ed esecutori del delitto Siani emessa con data 7 luglio 1999 prima sezione dalla Corte d’Assise d’appello di Napoli, , • Sentenza di primo grado contro Ferdinando Cataldo. Corte d’Assise di Napoli, quinta sezione, pubblicata il 5 luglio 1999.

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Africo. Un paese tra ‘ndrangheta e rivolta

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di Arianna Zottarel “Africo è un punto nel mondo, ma sono questi punti con cui i grandi governi del mondo sono costretti a fare i conti. Sono questi paesini che fanno la storia”. Così Nando dalla Chiesa descrive il piccolo paese di Africo, in provincia di Reggio Calabria, durante l’incontro organizzato per Bookcity alla Fondazione Corriere della Sera. Con lui sono presenti l’autore del libro, Corrado Stajano e Antonella Tarpino, scrittrice e giornalista. Africo è un libro uscito nel febbraio del 1979. E’ una denuncia, una descrizione attenta di un paese di ‘ndrangheta. “Quello che dicevano quando è uscito il libro” – spiega Nando dalla Chiesa – “ossia occuparsi di cose che non esistono più, era in realtà il nostro futuro. C’erano i sequestri di persona al Nord, e rimaneva la convinzione di qualcosa di arcaico. Il terrorismo rimaneva l’emergenza di allora, ma in realtà il terrorismo è finito e la ‘ndrangheta è cresciuta”. Si trattava di una ‘ndrangheta appena precedente al salto di qualità che l’avrebbe resa pochi anni dopo una delle organizzazioni più forti al mondo. “Quando è uscito il libro, nel ’79, ancora la ‘ndrangheta era un fenomeno molto giovane, anche come identità” – spiega dalla Chiesa. Leggere ora Africo è quindi rivedere quella realtà, riscoprirne le radici, capirne il peso della denuncia. Corrado Stajano ha dovuto affrontare un duro processo per ciò che aveva scritto; un processo da cui è uscito vincitore. “E’ stato un libro che è servito a difendere la liwww.stampoantimafioso.it

bertà di tutti nel raccontare la mafia. […] E’ stata una scelta quella di denunciare quello che non poteva essere denunciato. Corrado Stajano sapeva quando ha scritto il libro che altri erano stati denunciati per aver osato raccontare e denunciare questo prete padrone di Africo, […] E’ entrato consapevolmente su un terreno difficilissimo”, con uno scrupolo in grado di garantire la credibilità e la veridicità di ciò che ha detto, così lo racconta Nando dalla Chiesa. “Il processo fu molto pesante” – racconta Stajano – “è difficile dimostrare la mafia, mi veniva chiesto di fare i nomi delle persone che mi avevano parlato, ma loro rischiavano la vita. […] Sono riuscito a far venire al processo un magistrato che spiegò la ‘ndrangheta e aggravò la posizione di don Stilo che mi aveva querelato, un uomo molto potente. I giovani comunisti di Africo e della zona ionica appesero dei manifesti con scritto ‘per una volta la prepotenza non vince’ e per me fu una meda-

glia al valore”. Il lavoro di Corrado Stajano, come ci ricorda Antonella Tarpino “E’ un lavoro guida, un testo classico. […] E’ un libro su un paese che non c’è. Africo vecchio è un paese abbandonato, difficilissimo arrivarci, un paese dolente, rimasto esattamente come era nel ’51 quando fu travolto dall’alluvione. […] Africo nuovo è un ammasso di case anonime. E’ un paese senza identità, un non-luogo. Un non luogo su cui Stajano costruisce quello che uno scrittore come Calvino avrebbe potuto definire un libro paese, un libro che dà forma ad un paese con la sua sola scrittura, in questo senso è un classico, costruisce un’architettura letteraria; e lo fa con testimonianze vere. Sono storie che nascono ad Africo Vecchio, sulle pendici dell’Aspromonte. Ed è un paese che Corrado Stajano rinarra attraverso le parole di un altro personaggio, Umberto Zanotti Bianco, il grande meridionalista, che definisce Africo con queste parole: ‘un paese capace di incutere più paura della morte’. E Stajano spiega benissimo cosa può incutere una paura di questo tipo; questa sensazione di precarietà esistenziale totale, che descrive questo paese emblema della povertà del Sud. […] E’ un testo contemporaneo, i suoi echi continuano a riscontrarsi in quelle zone”. Un eco molto importante, che deve continuare ad essere studiato, approfondito. Poiché è proprio la contemporaneità la caratteristica chiave di questo libro. “La situazione ora si è aggravata perché le generazioni


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si specializzano sempre di più. Le capitali però rimangono sempre lì, in Calabria. Adesso c’è ignoranza, non conoscenza, sottovalutazione del fenomeno, soprattutto a livello politico” spiega Stajano. La ‘ndrangheta è un problema italiano e mondiale. “Bisogna de-calabrizzare questa situazione” ci ricorda Antonella Tarpino. “Il problema è sociale e molto vasto” – riprende Stajano – “e voglio citare quello che dice Ilda Boccassini, capo della direzione distrettuale antimafia di Milano: ‘spesso si parla di infiltrazione della ‘ndrangheta nell’economia legale, e il termine fornisce un’idea di una penetrazione di qualcosa di negativo all’interno di un tessuto sano, una sorta di at-

tacco dall’esterno nei confronti di una realtà che prova inutilmente a resistere. Va sfatata la pretesa purezza del destinatario dell’aggressione, che non è una vittima. La realtà che emerge dalle indagini è ben diversa e per evitare che il linguaggio crei una realtà inesistente è bene fare chiarezza’ […] Per capire perché è un problema così vasto”. Questo perché, come ci spiega Nando dalla Chiesa, la ‘ndrangheta ha una “vocazione colonizzatrice: ‘ciò che è Calabria e ciò che lo diventerà’, così come si legge in una intercettazione. E hanno questa consapevolezza. Al loro popolo raccontano la volontà di riscatto della Calabria, conquistando altri paesi. Si tratta di uno Stato in mar-

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cia”. Questo libro infine ci mostra l’importanza dell’osservatore, “un uomo di cultura, perché non si può raccontare se non c’è una cultura dietro. La militanza civile, la capacità di leggere la realtà, la capacità di sorvegliare la lingua. Giornalista e scrittore allo stesso tempo”, come lo descrive dalla Chiesa. Rimane quindi una priorità: armarsi di conoscenza, per evitare quelle sviste che troppo spesso riscontriamo nei giornali e nella conoscenza stereotipata dei cittadini. Andare a rispolverare i classici della lettura antimafia, come Franchetti, Colajanni, Mosca, Dolci, Stajano, sono i primi passi per creare forti infrastrutture per la comprensione del fenomeno.

Stampo Antimafioso è, assieme a Wikimafia e Unilibera Milano, una delle attività nate sulla spinta e intorno al Corso di Sociologia della criminalità organizzata, tenuto presso la Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano. Tra le altre reatà universitarie, dal 2014 è attivo l’Osservatorio sulla criminalità organizatta (CROSS www.cross.unimi.it). Osservatorio che nel 2015 ha pubblicato il secondo e il terzo dei Rapporti trimestrali sulle aree settentrionali, prodotti per la Presidenza della Commissione Parlamentare antimafia. Ve ne consigliamo la lettura! Cliccate sull’immagine.

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Messico: quando la resistenza è donna

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di Thomas Aureliani

Sono già passati due mesi da quando mi trovai in mezzo ad una fiumana di gente vestita di bianco, nel centro di Città del Messico. Spesso il trascorrere del tempo ti toglie le parole e offusca i ricordi, portandoti via anche le sensazioni che hai provato. A me è capitato il contrario. Quando esattamente 10 giorni dopo tornai in Italia non trovai la forza mentale di scrivere, anche se spesso ne sentivo la newww.stampoantimafioso.it

cessità. Ma le immagini rimangono limpide ed i rumori e le voci ancora squillanti. Quel giorno di due mesi fa era il 10 maggio, Día de la Madre, un giorno speciale per tante donne messicane. Da pochi anni alcuni collettivi di familiari di vittime e desaparecidos si trovano davanti al monumento a la madre, e dopo aver percorso insieme il Paseo de la Reforma, giungono all’Ángel de

la Indipendencia. Qui si riuniscono e raccontano le loro storie di sofferenze, ingiustizie e soprusi. Alle 10 del mattino il sole sulla capitale si fa sempre più cattivo, ma tante madri, sorelle, figlie e mogli non si fanno intimidire dall’afa soffocante. Portano tutte una maglietta, una foto, uno striscione sulla quale è impresso il volto del proprio desaparecido, spesso accompagnato da una breve descrizione personale, il colore degli occhi e dei capelli, gli anni che aveva quando qualcuno se lo portò via. Il fatto singolare è che molti dei familiari sanno esattamente chi sono i colpevoli, perché portano prove, raccolgono informazioni e sentono testimoni. Mentre le autorità brancolano nel buio ed evitano di indagare, a volte perché poco professionali e negligenti, spesso perché collusi o disinteressati. La marcia è un susseguirsi di cori cantati all’unisono. Il più ricorrente è “vivos se los llevaron, vivos los queremos”, “vivi li portarono via, vivi li rivogliamo”. Vengono i brividi quando noti che a guidare il coro è una ragazzina che a stento arriva a 10 anni, il cui urlo così violento e dolce rimane scalfito nei ricordi ancora oggi. Cerca suo padre con fierezza, e insieme alla madre e al fratellino espone la sua foto su un cartellone bianco. Come lei centinaia di famiglie camminano e gridano: “Dónde están, dónde están nuestros hijos dónde están? “Dove sono i nostri figli?” si chiedono ripetutamente tante donne unite da una maternità collettiva. Non può essere altri-


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menti. Ormai è riconosciuto che la desaparición è un problema strutturale del paese, dunque la lotta di una, è la lotta di tutte. Sono quasi 23 mila le persone scomparse dal 2007 ad oggi secondo fonti del governo, ma molti attivisti e familiari parlano almeno di 26 mila messicani spariti nel nulla. Non si tratta più dei desaparecidos come all’epoca della “guerra sucia”, la guerra sporca degli anni Sessanta e Settanta, quando lo Stato faceva sparire le persone scomode, spesso leader sociali e attivisti politici “antisistema”, o personaggi legati a gruppi insorgenti. Oggi si sparisce in Messico perché sei una bella ragazza da sfruttare o vendere nel mercato del sesso, come probabilmente successe a Monica, figlia di Adela, che mi racconta i suoi ultimi anni di ricerche. Dal 2004 ad oggi lei e suo marito Manuel non hanno smesso un giorno di cercarla. Chiedo a Manuel una foto di Monica, e con orgoglio mi consegna una fototessera della ragazza allora ventunenne che conservo tutt’ora. Fu un gruppo mafioso attivo nella capitale a portarla via quel martedì 14 dicembre di 11 anni fa.

Ma in Messico oggi puoi sparire anche perché sei un ingegnere, un biologo o un chimico. I cartelli hanno bisogno di professionisti da usare per aumentare le capacità del proprio gruppo criminale. Per questo motivo sparì Matuzalem, ingegnere agronomo desaparecido per opera della polizia municipale di Torreón, e consegnato direttamente agli Zetas. Sua sorella Maria Antonia lo cerca dal 2009. La storia è simile per molte famiglie: sparisce un familiare, aspetti 72 ore perché prima non si possono avviare le procedure di ricerca, salti da una procura all’altra e da un’autorità all’altra, ma alla fine niente. DESAPARECIDO. Maria Antonia è posata nel raccontare il calvario che sta vivendo da alcuni anni. I suoi studi universitari di diritto e l’esperienza che si sta facendo sul campo l’hanno trasformata in una vera e propria esperta in materia. Mi racconta che oggi aiuta persone che stanno cercando i propri parenti su alcuni gruppi di Facebook e gira il Messico con il collettivo di familiari di cui fa parte, FUUNDEM, a parlare della situazione dei desaparecidos.

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Ma della sua storia personale ha parlato per la prima volta solo a Libera, nel 2013. “Non mi aprii mai, ma loro sono gli unici che mi diedero fiducia, così raccontai”. I suoi occhi brillano quando parla del suo nipotino, figlio di Matuzalem. L’anno scorso ci passò insieme il compleanno, al santuario del Cristos de las Noas: “Entrammo nella cappella, ci sedemmo e gli dissi di parlare con Dio”, racconta piena di commozione. “Fai come se parlassi con un tuo amico. Lui ti ascolta, digli quello che vuoi”. “Sicura che posso chiedere quello che voglio? Sicura?” incalza il ragazzino, che poi ammette: “Voglio che faccia ritornare mio papà”. Quando tornai a casa da questo breve ma intensissimo viaggio in Messico cercai spesso di assegnare un’immagine a quell’esperienza, bloccandola in un’istantanea. Per molto tempo non ci riuscii. Oggi, dopo due mesi, ricomponendo il mosaico di quei giorni, appare sempre più nitido un volto di donna. Il nuovo simbolo della resistenza civile messicana.

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La “narcolonización” in Argentina

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di Filomena De Matteis Il 10 dicembre del 2014 la Policia de Seguridad Aeroportual (PSA) argentina ha sequestrato circa 235 kg di cocaina e arrestato i membri di un gruppo criminale che trafficava droga in Sud America e Europa: una vera e propria multinacional narco, secondo le fonti giornalistiche argentine. Le indagini, durate due anni, hanno visto coinvolti cittadini argentini, boliviani, peruviani e paraguaiani; mentre i camellos, cioè coloro che trasportavano la droga in Europa (precisamente in Spagna) sono europei. Per ogni viaggio questi ultimi guadagnavano circa 5000 dollari. Alla testa dell’organizzazione una donna boliviana che dal suo Paese guidava il gruppo narco. La cocaina entrava dalla Bolivia e giungeva a Buenos Aires, dove veniva dimezzata: metà per il mercato locale, l’altra metà destinata all’Europa. Casi come quelli appena citati sono aumentati considerevolmente nell’ultimo decennio in Argentina, così come il consumo interno. Ma come è stato possibile ciò? I fattori che hanno portato l’Argentina da Paese di transito secondario a Paese sotto influenza dei narcos (prima colombiani e messicani e negli ultimi anni locali) sono da ricercare nelle condizioni economiche, sociali, geografiche, legislative e infine in alcuni orientamenti operativi delle organizzazioni criminali straniere. Partendo dalle condizioni socioeconomiche va ricordato che negli anni Novanta, sotto il governo www.stampoantimafioso.it

Menem, numerose imprese vennero chiuse e quelle statali (come la compagnia aerea e le poste) privatizzate. Le privatizzazioni unite alle politiche neoliberali portarono al deterioramento dell’economia argentina e alla corruzione in tutti i settori istituzionali. Queste gravi condizioni condussero la popolazione allo stremo: si affermò in questi anni il narcomenudeo, ovvero la vendita di droga in strada. La situazione peggiorò ulteriormente durante la crisi economica che colpì l’Argentina nel 2001. Molte persone emigrarono dalle zone rurali o dai Paesi limitrofi a Buenos Aires e trovarono alloggio nelle villas miserias: qui, a causa delle precarie condizioni di vita, il traffico di droga si diffuse rapidamente. La criminalità organizzata, infatti, si diffonde rapidamente in questi insediamenti informali, simili alle favelas brasiliane, poiché sono “territori vietati” persino alle forze dell’ordine. Ogni membro dell’organizzazione ha il suo ruolo predefinito, la sentinella che avverte di ogni movimento sospetto e il soldatito. Quest’ultimo è solitamente un ragazzo tra i 13 e i 17 anni ed ha il compito di sorvegliare il bunker nel quale viene venduta la droga, come la cocaina, anche se ultimamente si è diffuso sempre di più il paco: droga simile al crack, lavorata a partire dagli scarti della pasta base di cocaina (PBC) mischiata con candeggina, topicidi, acido solforico e cherosene. Anche la condizione geografica ha giocato un ruolo fondamentale nell’aumento di droga. Non va di-

menticato che l’Argentina confina con Paesi come la Bolivia (produttrice di foglie di coca), il Paraguay (produttore di marijuana) e il Brasile (Paese con un alto tasso di criminalità). Le province maggiormente colpite sono: La Rioja, Salta, Jujuy, Mendoza e Tucumán dal lato nordovest e Entre Ríos, Chaco, Formosa e Santiago del Estero dal lato nordest. Le vie di entrata sono la ruta 34 (al confine con la Bolivia), la ruta 11 (confine con Paraguay) e la ruta 38 attraverso le quali il trasporto avviene per via terrestre (camion, autobus a lunga percorrenza e automobili, ma anche persone) o per via aerea, utilizzando piccoli aerei privati che atterrano nelle piste clandestine o da cui viene lanciata la merce (pratica del bombardeo). Altra modalità molto diffusa è la via marittima; tra le principali entrate e uscite vi sono il porto di Buenos Aires e di Mar del Plata e il fiume Paraná. Quest’ultimo in particolare ha molte zone libere dal controllo delle forze di sicurezza e collega cinque paesi strategici per i narcos: Argentina, Uruguay, Brasile, Paraguay e Bolivia. Una zona di frontiera molto critica è, anche, la Triple Frontera, dove confinano Argentina, Brasile e Paraguay. In questo luogo si verificano molteplici traffici, dal narcotraffico al traffico di armi, ma anche merci contraffatte e traffico di esseri umani. In tutte le zone di frontiera i controlli sono scarsi e questo non aiuta a contrastare alla criminalità organizzata. Vi è poi un ostacolo a livello legislativo da tenere in considera-


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zione: la ley 23.767 che criminalizza il possesso di stupefacenti. La maggior parte delle operazioni di polizia non inizia come risultato di un’indagine, bensì per la detenzione di sostanze stupefacenti; ad essere fermati sono i consumatori, i piccoli spacciatori di strada o le mulas (coloro che trasportano la droga nascosta tra gli indumenti). Il sistema giudiziario, infatti, è saturo di casi simili; bisognerebbe, dunque, cambiare a livello inquirente. La polizia dovrebbe effettuare indagini di lungo periodo per smantellare la rete che c’è dietro il traffico degli stupefacenti. Altra normativa che non viene rispettata è la ley 25.246, sul riciclaggio di denaro: la UIF (Unità di informazione finanziaria) argentina non sanziona in modo adeguato i casi sospetti e non effettua i controlli necessari a contrastare questo crimine economico. I casi che hanno visto importanti operazioni antidroga sono pochi, anche a causa del frequente coinvolgimento delle forze dell’ordine in rapporti di collusione. Gli episodi più ecla-

tanti si sono registrati a Córdoba e Rosario ed è proprio in quest’ultima città della provincia di Santa Fe che ha preso potere il gruppo criminale Los Monos. Guidato dalla famiglia Cantero, questo gruppo oggi risulta così potente da potersi permettere di costruire i propri beni immobili su terreni in possesso di altre persone senza alcuna autorizzazione, così come su terreni non edificabili, e con un immenso patrimonio ottenuto tramite le varie attività illecite. Nel febbraio del 2014 alcuni membri del gruppo criminale, insieme con insospettabili, furono indagati per associazione illecita. L’indagine mise in luce la fitta rete di relazioni personali con imprenditori, poliziotti (gli agenti coinvolti furono otto) e calciatori, nonché la struttura della banda: il nucleo era costituito da Ariel Máximo Cantero (detenuto), Ariel Cantero (padre dei due membri più giovani e attualmente latitante), Claudio Cantero (assassinato nel maggio del 2013) e Ramón Machuca (sul quale pende un mandato di cattura).

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Le lacune legislative, la sua posizione geografica e gli eventi socioeconomici degli anni Novanta hanno portato i narcos colombiani prima e quelli messicani poi a prediligere l’Argentina come Paese nel quale fare “affari”. In particolare i narcotrafficanti messicani hanno iniziato qui il loro traffico illegale di efedrina, precursore chimico dal quale vengono elaborate le metanfetamine. Questo traffico emerse nel 2008, con la scoperta del laboratorio di via Maschwitz (Buenos Aires): l’efedrina veniva importata dalla Cina o dall’India in Argentina, lavorata in quest’ultimo Paese e poi mandata negli Stati Uniti o in Europa, pronta per essere introdotta nel mercato. È dunque chiaro ora come corruzione e impunità, laboratori di raffinazione e struttura orizzontale dei Los Monos, abbiano comportato l’evoluzione del narcotraffico in Argentina, rendendo quest’ultima un Paese sotto l’influenza dei narcotrafficanti.

Leggi anche: Messico: guardie & ladri, cartelli, cartelitos e vigilantes di Thomas Aureliani

La criminalità organizzata in Messico. Tra cartelli della droga e forze di autodifesa. Quali sono le fazioni operanti più forti?

L’Argentina e il problema delle barras bravas di Filomena De Matteis

In Argentina ci sono gruppi di tifosi - la barra bravas - che sono diventati come “piccole mafie”. Chi sono? Cosa ha permesso questa trasformazione?

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Spagna: organizzazioni criminali, riciclaggio e contatti con la politica

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di Sara Manisera Se con la globalizzazione, le economie nazionali sono sempre più interconnesse le une alle altre, è anche vero che l’apertura dei mercati e lo sviluppo del commercio mondiale hanno permesso alle organizzazioni criminali di fare massicci investimenti nell’economia legale, laddove le condizioni (legali ed economiche) risultano più favorevoli. Uno dei paesi in cui le organizzazioni di stampo mafioso hanno trovato una seconda casa è la Spagna. Perché la Spagna? Anzitutto va ricordato che per quasi quarant’anni la Spagna ha vissuto sotto la dura repressione della dittatura franchista, che ha impedito lo sviluppo di una criminalità locale, a eccezione dei Gallegos Lancheros in Galizia. La controversa transizione spagnola, avvenuta con la morte di Franco dal 1975, ha aperto spazi vuoti in cui si sono inserite le organizzazioni criminali di diversa nazionalità: russe, cinesi, albanesi e italiane. In secondo luogo bisogna tener conto della posizione geografica della penisola iberica: snodo nevralgico per il transito di droga proveniente dall’America Latina e dal nord dell’Africa. E qui, dunque, le organizzazioni criminali, con i propri affiliati, cercano di controllare territori strategici per il traffico di droga, di cocaina e hashish. Non è un caso che molti narcos sudamericani, così come www.stampoantimafioso.it

latitanti italiani, si siano rifugiati per la latitanza e per i loro affari lungo la Costa Brava, in Galizia o a Tenerife. Basti pensare che già nel lontano 1983, Pasquale Pirolo, luogotenente di Michele Zagaria e braccio destro di Antonio Bardellino nel settore del reimpiego dei capitali illeciti, veniva arrestato insieme a quest’ultimo a Barcellona. La lista degli arresti in territorio iberico, tuttavia, è lunga; secondo il giornalista e storico, Joan Queralt, autore del libro “La Gomorra di Barcellona”, dal 2000 al 2009 sono stati arrestati 65 affiliati alla Camorra, 24 in Catalunya e 41 nel restante territorio spagnolo. La pervasività delle organizzazioni mafiose italiane è documentata anche dalla relazione della Commissione parlamentare d’inchiesta antimafia presieduta da Francesco Forgione dal 2006 al 2008, che accerta la presenza di clan camorristici attivi a Barcellona, Badalona, Valencia, Saragozza, Madrid, Toledo, Malaga, Marbella, Ceuta e Granada ma anche di ‘ndrine presenti a Barcellona, a Palma, Algeciras, Madrid e Malaga.

Non solo droga: riciclaggio di denaro, attività economiche e contatti con la politica locale Se da una parte, dunque, la Spagna può essere considerata un vero e

proprio hub delle rotte della cocaina e rifugio ospitale per molti latitanti, è altrettanto vero che essa costituisce un mercato inesplorato e di facile penetrazione, vista l’assenza nell’ordinamento penale spagnolo del reato di associazione per delinquere di stampo mafioso (esiste solo il reato di “Organizaciòn Criminal”, introdotto dalla Ley Organica 5/2010) e di un regime penitenziario speciale in riferimento ai detenuti per reato mafioso che ha permesso loro il mantenimento di relazioni con gli affiliati e la gestione degli affari dietro le mura del carcere. Inoltre esiste una legislazione in materia di perquisizioni particolarmente garantista poiché le forze di polizia non possono svolgere perquisizioni durante le ore notturne. Queste condizioni giuridiche ottimali, unite all’assenza di una severa legge sul riciclaggio del denaro (la “Legge di prevenzione del riciclaggio dei capitali e del finanziamento del terrorismo” è stata introdotta solo nel 2010) hanno permesso alle organizzazioni criminali di compiere massicci investimenti nella penisola iberica, tanto è vero che nel 2006, in Spagna vi era la più alta concentrazione europea di banconote da 500 euro, usate dai criminali per la loro comodità. I settori in cui la criminalità organizzata ha reinvestito ingenti capitali – grazie alla presenza di una borghesia para mafiosa compiacente costituita da notai, avvocati, banchieri e brokers – sono quello immobiliare e turistico, quello della ristorazione, il settore ittico e della distribuzione alimentare. Un esempio su tutti, la società creata a Barcellona a fine del 2002 da Raffaele


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Amato, La Mer Vacanze Immobiliare S.L, intestata alla moglie Elmelinda Pagano e finanziata con i soldi provenienti da una società offshore con sede nelle isole Vergini britanniche, il cui proprietario era Gaetano Pezzella titolare di una fabbrica di salumi e impresario attivo nel campo della produzione e della commercializzazione di prodotti alimentari, nonché addetto al riciclaggio di denaro sporco del clan degli Scissionisti. Il gruppo si avvaleva di un promotore finanziario della Banque Monégasque de Gestion di Monaco e di un consulente di affari della società Moores

Rowland di Montecarlo. Numerose tuttavia sono le operazioni giudiziarie negli ultimi anni che dimostrano l’enormità del potere economico della mafia italiana; nel 2012 e nel 2013, rispettivamente con l’operazione Laurel VII e VIII, vengono sequestrati più di 175 appartamenti, 141 garage, 43 imprese tra hotels, negozi e ristoranti e 19 ville riconducibili al clan camorrista di Giuseppe Polverino, arrestato proprio in Spagna a Jerez de la Frontera, cittadina in cui viveva anche Raffaele Vallefuoco, latitante a sua volta da dieci anni. Credere che le organizzazioni cri-

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minali di stampo mafioso si limitino solo alle attività economiche è piuttosto imprudente. L’operazione Pozzarro, ha accertato il tentativo del clan camorristico dei Nuvoletta di infiltrarsi nella politica locale di Adeje, cittadina situata nell’isola di Tenerife attraverso la candidatura di Domenico Di Giorgio, giovane avvocato e consigliere di Giuseppe Felaco, capoclan nelle Canarie. Di Giorgio, arrestato nell’operazione Pozzarro era inserito nella lista dei candidati del Partido Popular ed è stato persino fotografato insieme a Mariano Rajoy, leader del Pp e attuale primo ministro spagnolo.

Pasquale Claudio Locatelli: il gioco dell’oca per un re del narcotraffico di Luca Bonzanni Come nel gioco dell’oca, a volte si è obbligati a ricominciare da dove tutto era iniziato. Tornare indietro, perdere tutto, ripartire. Succede a molti, soprattutto a chi di strada ne ha fatta parecchia. Fin troppa. Per Pasquale Claudio Locatelli, conosciuto anche come «Mario di Madrid» o «Diabolik», quel giorno è arrivato. Un nome quasi anonimo, eppure estremamente pesante. Come le tonnellate di droga spostate da una parte all’altra del globo, per intenderci. Pesante ma quasi sconosciuto, appunto. D’altronde, là dove tutto è iniziato, in Bergamasca, ai piedi della valle Imagna, quel cognome passa inosservato, diffuso com’è. E poi, si sa, certe cose sembrano sempre succedere «lontano», paiono distanti ed estranee. Ma

casa». Estradato, per l’esattezza: il 7 agosto è stato rimpatriato in Italia dalla Spagna per scontare una condanna definitiva a 26 anni di carcere emessa dal Tribunale di Milano per associazione a delinquere finalizzata al traffico internazionale di stupefacenti.

L’inizio di un romanzo criminale Si parte dalla fine, ma questa è una storia che va raccontata dall’inizio. quel Locatelli non è uno dei tan- Una vicenda emblematica, significati: è l’«eroe dei due mondi» del tiva, intensa. Locatelli nasce nel 1952 narcotraffico. E ora, dopo una ad Almenno San Bartolomeo, paesi«carriera» iniziata all’ombra delle no della provincia orobica: terra di Mura venete e proseguita attra- lavoratori, dice la vulgata. Alcuni un verso oceani, prigioni, continenti po’ particolari, verrebbe spontaneo diversi, quel Locatelli è tornato «a sentenziare riavvolgendo il nastro Stampo Antimafioso

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proprio a Locatelli – la costruzione della più grande raffineria di eroina del Nord Italia. Nel 1989, le manette scattano nuovamente ai polsi di Locatelli: nel marzo di quell’anno, nella sua villa di Saint-Raphaël, la gendarmeria francese trova quaranta chili di cocaina. Sulla Côte d’Azur, comunque, non è il solo italiano a incidere nelle trame mondiali della droga: solo nei primi mesi del 1989, le autorità francesi mettono le mani su quasi 500 chili di coca e cinque tonnellate di hashish. A gestirle c’è tutta la pluralità delle organizzazioni criminali italiane, ma soprattutto la camorra. In particolare, è Michele Zaza – nome di spicco del clan Mazzarella – a tirare le fila dei traffici della mafia napoletana in quello spicchio di Francia; e anni dopo, il nome di Locatelli sarà affiancato proprio a quello del clan Mazzarella. La prigionia di «Diabolik» dura poco: qualche tempo dietro le sbarre poi, durante un trasferimento dal carcere di Grasse all’ospedale (si era rotto un braccio), il 2 settembre tre uomini assaltano il cellulare della polizia francese e Da Bergamo alla Costa liberano Locatelli. La nuova tappa Azzurra del suo peregrinare criminale lo Ma c’è qualcosa di più redditizio porta in Spagna. Dove diventa a delle auto rubate: la droga, ov- tutti gli effetti «Mario di Madrid». viamente. Bergamo gli sta stretta, Locatelli sceglie di «emigrare» in Mario di Madrid Costa Azzurra. Coincidenze: negli stessi anni in cui «Mario» si È nella penisola iberica che Locatrasferisce in Francia per motivi telli si afferma pienamente. Resta di «lavoro», propria a Rota Ima- un «libero battitore», non è afgna, in quella dolce valle ai cui filiato ad alcuna organizzazione piedi Locatelli è diventato uomo, ma collabora con tutti: la camoril potentissimo clan Sergi mette ra, la ‘ndrangheta, la Sacra corona a punto – grazie al fondamentale unita e persino vecchi reduci della connubio con Roberto Pannunzi, Banda della Magliana vengono affigura fondamentale nelle dina- fiancati al suo nome. L’affidabilità miche del narcotraffico globale è la sua forza, i legami con il carparagonata da Roberto Saviano tello di Medellín e Pablo Escobar

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della vita di questo Locatelli. Gli studi interrotti presto (dopo la quinta elementare), il lavoro col padre falegname, gli anni trascorsi tra Ponte San Pietro, Brembate Sopra e Curno. E fin qui, niente di particolare. Già allora, tuttavia, s’intravedono i segni che qualcosa, nel suo destino, sta già per cambiare: una personalità spiccata, il carisma da leader, il desiderio intenso della ricchezza che anche a Bergamo – nella «provincia bianca» per eccellenza – è scoppiato con l’avvento del consumismo. Inizia «dal basso», la sua «carriera». All’incipit degli anni Ottanta, uno dei primi arresti: secondo le carte dell’epoca, è a capo della «banda delle Mercedes», gruppuscolo di bergamaschi (finisce in manette anche il fratello) dedito alla commissione di furti di auto di grossa cilindrata, con la conseguente falsificazione di documenti e targhe e infine la rivendita, tanto in Italia che all’estero. Quisquilie, in fondo, se paragonate ai capitoli successivi del suo romanzo criminale.

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la sicurezza. Per collegare i «due mondi» del narcotraffico, il Sudamerica dove si produce e l’Europa dove si consuma, «Mario» mette insieme una vera e propria flotta navale che gravita attorno a Gibilterra; come se non bastasse, annoteranno gli inquirenti tempo dopo, posa le mani su alcuni istituti di credito, gestendo una banca a Zagabria e controllando la «Cassa Rurale di Ostuni», e investe anche nel mattone. La struttura della sua «impresa» è snella ma funzionale. In Zero Zero Zero, Saviano annota con chiarezza: «Famiglia stretta e uomini a libro paga da tenere sotto perenne pressione e controllo, gerarchie blindate, omertà. L’impresa bergamasca, pur senza avere alla base alcun legame storico, va sempre più assumendo i tratti dell’organizzazione mafiosa e con questo ne acquista anche la vincente impermeabilità». Sfugge agli inquirenti di tutto il mondo fino al 1994. Poi, a settembre, cade nella trappola. Un lavoro lungo, certosino, quasi fantascientifico, messo in piedi anche grazie al coordinamento tra diverse autorità investigative. Indagini tra Stati Uniti, Spagna, Italia. Infiltrati, intercettazioni, rischi sempre altissimi. Addirittura, una finta banca creata appositamente in un paradiso fiscale. L’operazione «Dinero» permette alla Dea, l’élite antidroga statunitense, di arrestare «Diabolik» (che in quel momento ha sulle spalle due condanne da dieci e vent’anni inflittegli in Francia); il «contorno»: 30 milioni di dollari in contanti sequestrati, quattro navi con i sigilli e persino delle opere d’arte di indiscusso valore (un Rubens e un Picasso, ad esempio) recuperate dalla polizia. Ma la sua biografia (parzialmente interpretata nel 2013 da Riccardo Scamarcio nel


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film francese Gibraltar) segnerà altre tappe.

Corsi e ricorsi, tessere nel mosaico Tutto (ri)torna. Dopo le manette in Spagna, presto Locatelli è rispedito in Francia. Ancora a Grasse, là da dove era fuggito nel 1989. Quando nel 1998 segue nel tribunale francese l’udienza che lo vede condannato a 18 anni di reclusione, le misure di sicurezza orchestrate dalle forze dell’ordine transalpine sono a dir poco imponenti: decine e decine di agenti a scortare il trasferimento dal carcere al Palazzo di giustizia, un elicottero con tiratori scelti a sorvolare l’area, una dozzina di agenti armati di mitra all’interno dell’aula. Nel 2004 viene invece estradato a Napoli: incredibilmente, di lì a poco la Cassazione lo scarcera. Locatelli non perde tempo, vola in Spagna; nel maggio del 2006, ad Alicante, è sorpreso con passaporto sloveno e 77mila euro in contanti, ma nuovamente un vizio di forma lo rimette a piede libero. Nel 2010, infine, gli uomini della Guardia di Finanza lo catturano per l’ennesima volta in Spagna. Seguono i soliti rimpalli burocratici, e per l’estradizione «definitiva» tocca attendere i nostri giorni. In mezzo, tuttavia, Locatelli resta una figura fondamentale per capire il

funzionamento del narcotraffico mondiale. Tocca fare un passo indietro. È il 4 marzo 2008: una soffiata porta i carabinieri di Villa d’Almè, altro paesino bergamasco, a sequestrare la bellezza di 917 chili di hashish all’interno di un furgone in un garage del capoluogo orobico. Di chi è quel box? Ecco un altro tassello che complica – o forse paradossalmente lo rende più chiaro – il mosaico: è di Gianfranco Benigni, ex sottoufficiale del Ros di Bergamo, quello stesso raggruppamento dell’Arma (successivamente la sezione orobica è stata sciolta) già finito sotto processo per presunte irregolarità in diverse operazioni antidroga (col coinvolgimento anche dell’ex generale Giampaolo Ganzer, condannato in Appello e in attesa della Cassazione). Per l’hashish nel box, Benigni ha patteggiato tre anni e otto mesi. Ma c’è di più, ovviamente: la regia del carico, partito dalla Spagna e destinato a giungere (in parte) anche a Napoli, sarebbe stata gestita – secondo gli inquirenti – da Locatelli, col coinvolgimento anche della compagna Loredana Ferraro, del fratello di lei Dario e di alcuni francesi. Di più: nel 2011 Benigni finisce nuovamente dietro le sbarre, questa volta arrestato dal Gruppo operativo antidroga della Guardia di Finanza di Napoli. Il motivo? Secondo la Dda di Napoli, tra 2005

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e 2006 Benigni sarebbe stato contattato da «Mario di Madrid» sino a diventarne uno stretto collaboratore: il compito inizialmente sarebbe stato semplice e secondario, giusto avere qualche contatto con gli ex colleghi, annusare l’aria in cerca di inchieste «calde» sul conto di «Mario»; col tempo, guadagnata la fiducia del boss, Benigni sarebbe diventato parte integrante dell’organizzazione, gestendo in prima persona il trasporto dello stupefacente (hashish, in particolare) dalla penisola iberica all’Italia. Lo sfondo dell’affare? Secondo i magistrati antimafia, un accordo tra Locatelli e il clan camorristico Mazzarella. Eccoli, allora, i corsi e i ricorsi della storia del crimine: dalla Costa Azzurra degli anni Ottanta, ai giorni nostri. Da Michele Zaza a Pasquale Claudio Locatelli. Tutto cambia, niente cambia: «Diabolik», pur braccato dalle polizie di mezzo pianeta, resta sempre in primo piano. O forse sì, qualcosa invece cambia: ora, dopo alcuni anni (di nuovo) nelle prigioni spagnole, «Mario» è rientrato in Italia, a Rebibbia. Deve scontare 26 anni e dire la sua in alcuni processi. Il narcotrafficante dei due mondi è quindi tornato (quasi) a casa, là dove tutto è iniziato, ma con qualcosa di più sulle spalle: almeno un quarto di secolo da passare in carcere. A volte, anche la giustizia vince.

È ora disponibile online il nostro documentario “Global mafia” Global Mafia riproduce diverse interpretazioni del sistema mafioso in Italia. Concentrando l’attenzione sull’attività della mafia calabrese, conosciuta come ‘Ndrangheta, il documentario cerca di spiegare la dimensione internazionale e globale che questa organizzazione criminale ha assunto nel tempo.

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Cecenia: le guerre, i crimini, i criminali e i traffici

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di Samuele Motta La Cecenia è una Repubblica autonoma della Federazione Russa situata nel Caucaso, sul confine con la Georgia. Storicamente contesa fra le varie potenze che la circondavano, i suoi abitanti hanno da sempre dovuto difendersi, coltivando una grande volontà combattiva e un forte sentimento etnico-patriottico. Da quando vennero sottomessi fra la fine del Settecento e i primi anni dell’Ottocento dall’allora Impero Russo, la resistenza del popolo ceceno contro l’invasore è una costante. Questa resistenza storica si manifesta in particolare durante lo sfaldamento dell’U.R.S.S. Negli ultimi mesi del 1991 il generale Dzochar Dudaev, approfittando degli intrinsechi sentimenti anticomunisti ceceni e della confusione regnante a Mosca, rovescia l’élite sovietica cecena e prende il potere a Grozny, la capitale della regione. Nasce così la Cecenia che nel 1993 dichiara unilateralmente l’indipendenza con il nome di “Repubblica cecena di Ichkeriya”. La scelta indipendentista crea però da subito una serie di problematiche: incertezze economiche e politico-istituzionali, infatti, favoriscono lo sviluppo di alcune attività illecite. Non solo, presto la Cecenia diventa un “porto franco” del terrorismo e della criminalità, grazie a un decreto – emanato dal neo-presidente ceceno Dudaev – dichiarante come prive di valore e www.stampoantimafioso.it

inapplicabili sul territorio ceceno quelle sentenze di condanna pronunciate dalle Corti dei Paesi che internazionalmente non avevano riconosciuto la Cecenia indipendente. Inoltre, una sorta di “guerra civile” non dichiarata fra le varie fazioni pro e contro Dudaev e l’embargo russo accentuano lo sviluppo di mercati paralleli e illeciti e la forza delle organizzazioni criminali. La successiva “Prima Guerra cecena” (1994 – 1996) fra la neonata repubblica e la Federazione Russa favorisce il fiorire e il prosperare delle organizzazioni criminali. Inoltre la chiamata al jihad da parte del Gran Muftì – un’autorità religiosa della Cecenia (che è a maggioranza mussulmana) – porta nel Caucaso centinaia di combattenti a rimpolpare le fila cecene. Ciò crea una situazione caotica i cui riverberi si sentono ancora oggi. Il conflitto viene “vinto” dai ceceni; i quali però “perdono” la pace. Infatti il Paese diventa un “buco nero” in cui gli affari criminali prosperano più di prima. Dimenticata da Mosca, senza un effettivo controllo da parte dell’amministrazione del neoeletto presidente Maskhadov e pervasa da una grave crisi economica seguita al conflitto, in Cecenia si sviluppa una perdurante presenza di “signori della guerra”, che in varie zone si sostituiscono completamente all’autorità governativa e com-

piono razzie e rapimenti. Forse anche grazie all’aiuto degli stessi servizi di sicurezza del Cremlino, la situazione si rende così fin da subito critica e instabile. La “Seconda guerra cecena” scoppia il 29 settembre 1999. L’appoggiarsi dei russi a frange minoritarie di “lealisti” delegittima le autorità elette e fomenta una vera e propria guerra civile. La forza e il pugno di ferro russo fanno sì che la “fase militare” del conflitto si chiuda in maniera vittoriosa per gli uomini di Mosca già nel 2002; anche se la “lotta al terrorismo” si è protratta fino al 2009. Nel frattempo nel 2005 viene ucciso Maskhadov, l’ultimo esponente “storico” di rilievo dell’indipendentismo “laico” ceceno. Così la lotta viene lentamente catalizzata dalla fazione ultrareligiosa, composta da numerosi mujhaeddin giunti grazie alla chiamata al jihad in occasione di entrambi i conflitti e finanziata dai Paesi arabi del golfo. È in questo panorama condito da instabilità politica, conflitti etnico-religiosi e guerra perenne che il territorio ceceno risulta essere uno dei luoghi più fertili per l’insorgere di ogni tipo di attività criminale. Il secondo intervento russo in Cecenia, infatti, oltre che come lotta al terrorismo di matrice islamica, viene presentato come una necessaria azione per eliminare un “nido” della criminalità organizzata,un rifugio da cui numerosi malavitosi già allora gestiscono tranquillamente affari in tutto il mondo. Questo perché la criminalità organizzata cecena è tra le più feroci ed efficienti. Chiamata Obšcina (che in russo significa “comunità”), trova nome e ori-


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gine nel movimento sovversivo fondato nel 1974 da Chož-Ahmed Nouchaev, uno studente universitario. Strutturata su un modello gerarchico, simile a quello di Cosa Nostra, ha ottenuto con gli anni una reputazione di livello internazionale, essendo considerata la più coesa e pericolosa fra le organizzazioni criminali su base etnica. Infatti, sebbene in ambito russo la maggior parte dei sindacati del crimine sia plurietnica, parecchi gruppi di ceceni – insieme con azeri e georgiani (con cui hanno da sempre una stretta collaborazione, data la vicinanza territoriale) – si sono nel tempo spinti fino alla Siberia, controllando piantagioni di oppio un po’ ovunque sul territorio ex sovietico. Inoltre, grazie alla loro solida e strutturata rete di contatti tra le forze dell’ordine, sono divenuti un partner più che efficiente negli affari per molti altri gruppi criminali, come ad esempio quelli tagichi o uzbeki. Alcuni studi investigativi recenti hanno dimostrato che la sfera di influenza della mafia cecena si estende da Vladivostok a Vienna; ma si spinge un po’ ovunque in tutto il globo. Ad esempio sono presenti nella cosiddetta “triplice frontiera” fra Argentina, Brasile e Paraguay, dove traggono appoggio dalla considerevole comunità mussulmana coinvolta nei traffici di sostanze stupefacenti e di armi dall’America all’Europa. Le attività cui si dedicano questi gruppi criminali sono di varia natura: la distribuzione di moneta falsa e l’appropriazione indebita, la ricettazione e il riciclaggio di denaro, il traffico illecito di clandestini e di sostanze stupefacenti (acquisendo persino il monopolio in talune aree) e finanche quello di sostanze radioattive come il plutonio.

La principale attività rimane comunque il traffico di droga. A nord e a sud del Caucaso, infatti, transitano le partite di oppio, morfina base e hashish provenienti dalla “Mezzaluna d’oro” e in particolare dall’Afghanistan. Esse arrivano dall’Iran o dal Turkmenistan, attraversano il Mar Caspio e si dirigono, passando il Mar Nero, verso i Balcani e verso l’Europa. Questo percorso, noto come “Rotta caucasica”, si connette con la “Rotta balcanica” o con la “Rotta baltica”, portando la droga a San Pietroburgo e negli Stati dell’Europa nord orientale e centrale. I tragitti che attraversano il Caucaso, oltre a raggiungere l’imponente mercato della Federazione russa, sono anche decisamente sicuri; infatti la mancanza di infrastrutture necessarie a proteggere i confini, le continue guerre o scontri e la scarsa cooperazione internazionale dei vari Paesi della regione rendono quest’area una ghiotta preda per i trafficanti. Il primato ceceno sembra indiscusso anche nel traffico delle armi. Ovviamente la fioritura di questo commercio si deve alla situazione presente e passata di continua tensione e conflitto della regione caucasica. Questo è un traffico importante, che in passato ha tratto vitalità dall’estrema facilità con le quale giungevano in Cecenia le armi dai depositi ex sovietici e dai Paesi del Medio Oriente e del Golfo Persico. Un terzo mercimonio importante

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compiuto nell’area è quello del petrolio, grazie tanto alla vicinanza dei grandi centri petroliferi caucasici – come quello di Baku in Azerbaigian – quanto al passaggio di una serie di oleodotti in Cecenia. Infatti pare che la mafia cecena abbia costruito gran parte delle sue ricchezze iniziali proprio rubando dagli oleodotti il petrolio e rivendendolo al mercato nero. Inoltre, il controllo dell’indotto illecito intorno al petrolio attualmente costituisce una fonte di arricchimento molto importante anche per i militari russi, la polizia cecena filorussa e gli uomini d’affari ceceni che dispongono di una buona rete di relazioni. L’affare del petrolio è redditizio persino a livello locale. I numerosi pozzi e le piccole raffinerie artigianali – detti “samovar” e costruiti e sfruttati illegalmente nei villaggi già dalla fine del primo conflitto – sono spesso oggetto del racket (consistente nell’autorizzazione a usarli e nella protezione in cambio di benefici) da parte sia dei militari dei vari schieramenti sia dei gruppi criminali. Infine, un’altra attività che ebbe grande importanza durante i conflitti, ma che comunque ne ha ancora per via della situazione di indigenza in cui versa parte della popolazione è il mercato nero; in cui al tempo confluivano tutte le merci che venivano sottratte nel corso delle varie operazioni di “pulizia”, come le cosiddette “zacistki” o “zaciski” (rastrellamenti indiscri-

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minati contro la popolazione civile in cerca di terroristi). Inoltre, durante i conflitti (specie nel secondo) si sviluppò anche l’usanza, soprattutto fra i militari russi, di ricercare il guadagno tramite la richiesta di un vero e proprio riscatto per le persone arrestate o catturate nel corso di queste azioni e persino per il recupero dei cadaveri; tanto che si venne a creare addirittura un sistema perfettamente rodato di tariffe. Tutto ciò era nelle mani di “brigate criminali russo-cecene”. Queste rappresentavano la connessione e commistione di interessi e azioni fra forze legali (i militari) e quelle illegali (i criminali), a tal punto che difficilmente si potevano distinguere le due sponde. Anche se affievolito, nel mercato nero tale binomio rimane. Il vuoto repressivo in Cecenia deriva da tre fattori distinti, ma perfettamente omologati e intersecati fra loro. Il primo consiste nella volontà politica di compiacere le organizzazioni criminali, da parte di uomini dello Stato – ceceno prima, russo ora – che con queste hanno profondi agganci, tanto che alcuni membri del governo centrale o delle ammini-

strazioni locali ne fanno parte. Il secondo nella corruzione pervasiva dell’apparato statale che garantisce una certa malleabilità e reverenza verso determinati soggetti. Il terzo fattore – forse quello determinante per il “buco nero” ceceno – risulta dalla distrazione dello Stato che, occupato a risolvere questioni di sicurezza nazionale come il conflitto prima ed il terrorismo poi, lascia ampio margine d’azione ai vari signori della guerra, sia criminali che militari. Il terrorismo è un elemento che non si può dissociare dal fenomeno criminale in Cecenia e nel Caucaso, soprattutto dopo il 2002. Infatti il terrorismo ceceno è andato presto associandosi a quello cosiddetto islamico (principalmente di stampo wahabita) sia per la chiamata al jihad promossa in entrambi i conflitti, sia per il persistente malcontento socio-economico della popolazione che vede nelle istituzioni islamiche le uniche davvero salde e con disponibilità economiche (dati i finanziamenti che ricevono dai Paesi arabi). Il caso ceceno diviene quindi paradigmatico per evidenziare i rapporti fra organizzazioni cri-

minali e quelle terroristiche. In Cecenia, infatti, si è formato un conglomerato paramilitare, che è un utile supporto per condurre azioni terroristiche, tanto dalla parte dei jihadisti, quanto da quella dei nazionalisti russi. Le stesse entità criminali russe e islamiche, che si sono politicizzate e legate al terrorismo, formarono da allora una sorta di “criminalità ibrida”, un mix tra criminalità organizzata e terrorismo, simile a quella che si può riscontrare nei Balcani o in Afghanistan. Ciò deriva da una sempre più costante sovrapposizione fra le attività terroristico – insurrezionali e le vie del narcotraffico, il che crea una stretta connessione fra tali attività e il traffico di droga attraverso il quale esse probabilmente si alimentano. In ogni caso in Cecenia le organizzazioni criminali autoctone non si schierano apertamente e definitivamente con nessuno dei diversi contendenti sul territorio, per potersi giovare al massimo negli affari di questa situazione di perpetua “no mans land”, così come fanno anche le diverse autorità federali, locali e militari.

Leggi anche: Contrasto alla criminalità organizzata: Europol c’è di Monica De Astis

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Cosa fa per il contrasto alla mafia Europol, l’agenzia dell’Unione Europea per la cooperazione di polizia?

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Lituania, cos’è e come si muove la criminalità organizzata nel Paese baltico di Marco Fortunato Deboli istituzioni statali, corruzione endemica e posizione geografica: sono queste le tre peculiarità della Lituania all’interno del panorama europeo

L’influenza storica russa La debolezza delle sue istituzioni deriva dal suo percorso storico e dal difficile rapporto con lo “scomodo” vicino russo. Già nel 1795, e quindi circa 500 anni dopo la sua nascita come Stato, la Lituania viene invasa dall’Impero Russo, subendo nel corso degli anni un forte processo di “russificazione”. La breve indipendenza nel 1920, seguita al Trattato di Mosca, viene interrotta dalla firma del Patto Molotov-Ribbentrop e dalla successiva annessione della Lituana all’URSS nel giugno 1940. Solo nel 1991 lo Stato Baltico acquista la sua definitiva indipendenza. Tuttavia, in poco più di un ventennio, le istituzioni statali non si sono sviluppate al punto da creare un argine alla criminalità organizzata, tanto che si è verificato, nel 2004, il primo caso di impeachment in un Paese dell’Unione Europea. L’ex Presidente Paksas, infatti, è stato infatti rimosso dal suo incarico per abuso d’ufficio, violazione di leggi costituzionali e soprattutto rapporti con la criminalità organizzata russa. Ma l’influenza russa non si è manifestata solo nell’aver impedito per molti anni la creazione di istituzioni statali autonome. Uno dei

fattori preponderanti dello sviluppo della criminalità organizzata in Lituania è stata la permeabilità delle frontiere durante gli anni della dominazione russa prima e sovietica poi. Non essendoci frontiere effettive, sul territorio della repubblica baltica si è andata insediando una forte minoranza russa, in cui la componente “criminale” è numericamente rilevante. Essi sono arrivati anche a causa dell’azione repressiva dell’Unione Sovietica: infatti fu una scelta del governo sovietico quella di spostare i criminali nelle maggiori città del Baltico, creando quindi contesti ideali per lo sviluppo di nuove organizzazioni illegali. Così negli anni ’60 iniziano a formarsi i primi sodalizi criminali nel Paese, con la presenza dei “vory v zakone”, i “ladri nella legge” già presenti in Russia e che poi si espandono sul Baltico. Anche in Lituania questi gruppi si spendono nella gestione di intensi traffici illeciti, come le transazioni in valuta,

il commercio di metalli preziosi, prostituzione e commercio di abiti contraffatti. Soprattutto la gestione del processo di privatizzazione, deciso a livello centrale dall’Unione Sovietica, ha garantito denaro alle organizzazioni criminali nella Repubblica Baltica. Un altro “mercato” importante è rappresentato da quello dei beni di prima necessità: infatti, la disgregazione dell’Unione Sovietica fa crescere nel Paese la domanda di beni essenziali come vestiti, scarpe e cibo. Una seconda fase inizia invece negli anni Novanta, con la transizione ad un’economia liberale e nuove opportunità per la criminalità organizzata. Infatti questi anni possono essere identificati come gli anni di fondazione della maggior parte dei gruppi criminali, con un cambio dei reati commessi: si è passati dai traffici di valuta a reati finanziari più elaborati, pur mantenendo il controllo sulla prostituzione. Oltre a ciò, si è registrato un aumento dei

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crimini violenti come furti d’auto, estorsioni e rapine. I gruppi criminali più attivi sono stati individuati nelle più grandi città del paese, così come nelle contee di Biržai, Kėdainiai, Kupiškis, Panevėžys, Šiauliai. La maggioranza di loro ha cominciato come raggruppamenti criminali uniti da interessi comuni o sulla base di un luogo comune di residenza. Così il gruppo criminale “Daktarai”, guidato da Henrikas Daktaras, è stato costituito a Vilijampolė, un sobborgo della seconda città più grande del paese, Kaunas. Si può parlare di “picco” del potere della criminalità organizzata nei primi anni Novanta anche per la sfida diretta allo Stato che questi gruppi hanno posto in essere. Tra il 1991-1993 sono stati molti i giornalisti, giudici e poliziotti intimiditi con gli omicidi: ad esempio venne ucciso un giornalista del quotidiano “Respublika” che aveva raccontato come il gruppo criminale “Brigade” fosse dedito al riciclaggio di denaro; sono stati uccisi anche 3 poliziotti di alto grado nella città di Panevėžys. Oltre a ciò una bomba è stata fatta saltare, alla fine del 1995, negli uffici del giornale “Lietuvos Rytas” dalla cosiddetta “Mafia di Kaunas”. Dalla metà degli anni ‘90 si apre una terza fase per la criminalità organizzata. Invece di sfidare apertamente lo Stato, decide di spostarsi più sul versante economico-finanziario. Questo cambio di strategia è stato pensato per differenti motivi. In primo luogo, in quegli anni il processo di privatizzazione stava volgendo al termine, dal momento che la maggior parte dei beni dello Stato erano stati trasformati in proprietà privata. Gli ex criminali stavano diventando banchiewww.stampoantimafioso.it

ri e proprietari di aziende legittime e imprese. Per nascondere le precedenti attività illegali e per riciclare il denaro prodotto, sono state create delle imprese fittizie. La criminalità organizzata si trasforma in uno stadio qualitativamente superiore: diventa infatti più professionale, più sofisticata e più complessa. In secondo luogo la situazione economica in Lituania comincia a migliorare rapidamente. Miglioramento facilitato dalla creazione e dallo sviluppo delle infrastrutture giuridiche e fiscali necessarie per un’economia di mercato funzionante. Infine, la trasformazione della criminalità organizzata si è verificata in risposta alla riforme della polizia e alla sua sempre maggiore efficacia. Questa terza fase, che può essere definita di “maturazione”, è proseguita con l’inizio del nuovo millennio e con l’avanzare del processo di integrazione europea. Infatti la libertà di circolazione di persone e merci ha favorito i contatti con i gruppi criminali di altri Paesi, provocando un vero e proprio fenomeno di criminalità transnazionale. Questo ha comportato lo sviluppo di traffici transnazionali, come il contrabbando, il riciclaggio di denaro, la tratta di donne ed il traffico di stupefacenti. A seguito di questa evoluzione, si può affermare che la criminalità organizzata in Lituania si sia evoluta in una vera e propria organizzazione di stampo mafioso. Questo in quanto sono riscontrabili i quattro requisiti del modello mafioso, definiti dal professor dalla Chiesa: – controllo del territorio; – uso della violenza come regolatrice dei conflitti; – creazione di rapporti di dipendenza personali; – rapporti con la politica. I primi due requisiti sono emersi nel tratteggiare i “cambiamenti” delle

organizzazioni criminali del Paese, il terzo si manifesta nella forte corruzione “endemica” del Paese, mentre il quarto è emerso in maniera evidente con l’impeachment del Presidente Paksas del 2004.

La corruzione Per analizzare il fenomeno della corruzione in Lituania si può partire da un semplice dato statistico: un imprenditore su due ha usato tangenti. Secondo uno studio di Transcrime, “I criminali utilizzano la corruzione per infiltrarsi nell’economia legale dove investono i proventi delle proprie attività illecite e usano la corruzione per garantirsi il controllo delle risorse disponibili (es. appalti, licenze, contributi).” Inoltre, da una ricerca effettuata da Transparency International, è emerso che, nel 2002, ben l’81% degli imprenditori intervistati ben l’80% ha sentito di richieste di tangenti da imprenditori di loro conoscenza e più del 56% ha ammesso di aver ricevuto tali richieste personalmente.

Kaliningrad e la Rotta Baltica Terza peculiarità della Lituania è la sua posizione geografica, situata proprio al centro dell’Europa e confinante a sud con l’enclave russa di Kaliningrad. Per dare una prima idea della regione, basta riprendere le parole dell’Enciclopedia Treccani: «disoccupazione, diffusione dell’HIV, traffici illeciti, inquinamento e crimine sono stati i tratti distintivi della regione tra il 1992 e il 1996». Il traffico principale della regione è quello di esseri umani, principalmente per essere sfruttati dal punto di vista lavorativo: tutto ciò senza


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che la comunità internazionale ed europea se ne interessi. Questo è possibile anche perché il 90% della popolazione della regione è immigrata, e dunque non ha le possibilità di accedere ai servizi essenziali, come quello legale per far valere i propri diritti. Ma la Lituania è importante geograficamente anche perché è uno dei punti di snodo della cosiddetta Rotta baltica. Con questo termine si intende il percorso che viene seguito nel traffico di stupefacenti, armi, sigarette, esseri umani (e altro) e che è diretto sia verso l’Europa che verso la Federazione Russa, e dunque verso il mercato asiatico, attraversando le tre Repubbliche Baltiche. Sono molte le organizzazioni criminali che utilizzano questa rotta per fare affari illeciti. La principale è la criminalità organizzata russa, la Mafija. Ma, come detto, essa non è di certo l’unica: nei Paesi Baltici sono anche i gruppi criminali autoctoni che usano questa rotta per i vari traffici. Tra di essi si distingue la criminalità organizzata lituana, definibile come organizzazione mafiosa, che la sfrutta grazie alla propria posizione geografica. Il traffico più importante che si sviluppa lungo la Rotta Baltica è senza dubbio quello di stupefacenti. Le possibilità di guadagno date da esso risultano essere un alto fattore di attrattiva, soprattutto per

i giovani, per entrare in uno dei gruppi criminali presenti in questi territori. La criminalità organizzata degli Stati Baltici ha ottenuto ingenti profitti svolgendo la funzione di facilitatore per quanto riguarda questo tipo di traffico, sia verso est che verso ovest. Ciò le ha permesso di divenire un attore rilevante in questa attività dapprima in ambito regionale e poi internazionale. Un secondo traffico che segue questa rotta è quello di materiale radioattivo, in particolare uranio. L’uranio arricchito proviene dalla Russia, in particolare dalla penisola di Kola, ed è poi diretto verso i Paesi Baltici e verso la Norvegia; può inoltre provenire, insieme al mercurio rosso, dalla regione di Mosca, dalla Repubblica degli Udmurti e dalla città di Arzamas, e diretto verso le Repubbliche Baltiche, verso l’Europa Centrale (Polonia, Ungheria, Italia) o verso India, Pakistan ed Iran. Inoltre furti di uranio possono essere effettuati direttamente in Lituania (nell’ex centrale nucleare di Ignalina) e destinati ai Paesi dell’Asia Centrale come India, Pakistan e Iran. Altra attività illecita molto importante, e che vede la Lituania come Paese d’origine e non solo come Paese di transito, è quello di esseri umani. Essa infatti, come riportato anche dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, è uno dei principali Paesi di origine del traffico

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di esseri umani, oltre ad essere un importante snodo di transito per il suo accesso alla zona Schengen e l’adesione all’Unione Europea. Le vittime della tratta o sono destinate al mercato tedesco dalla Lituania, attraverso la Polonia, o sono portate in Lituania dai Paesi ex-URSS. «Forse tutta l’Italia sta diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma…» Questa citazione di Sciascia non è affatto casuale. Infatti la stessa linea della presenza delle organizzazioni criminali e mafiose ha superato Roma, ha raggiunto e superato il Nord Italia ed ha raggiunto anche il Mar Baltico. Anche nel Nord Europa è presente da più di cinquant’anni la criminalità organizzata, e non proviene dall’Italia. Forse è più giusto dire che in Europa vi è una “linea” che proviene da Mosca e si espande verso ovest.

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La guerra che stiamo perdendo

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di Thomas Aureliani Quando ti attaccano a casa tua fa male, malissimo. Ti senti vulnerabile, debole, inerme. Oggi più che mai l’Occidente è questo, un insieme di entità, unite non si sa bene da cosa che si dimena nel buio del terrore portato dal nuovo nemico pubblico numero 1: lo Stato Islamico. Mai più di oggi questa costruzione artificiosa di ciò che siamo “noi” e di ciò che dovrebbe essere “l’altro” si trova in imbarazzo, nuda, di fronte a tanta violenza. La quotidianità sconquassata dall’altro in casa tua. La cosa peggiore del mondo. Oggi, 14 novembre 2015 è iniziata una guerra, è innegabile. Ma non è la guerra dell’Occidente contro l’islamico invasore. Non è la guerra della cultura occidentale e democratica contro quella barbarica del terrorista. È una guerra culturale. Una guerra che sta mietendo più vittime di ogni altra. È la guerra di chi parla senza conoscere, di chi etichetta senza sapere. È la guerra di chi non riesce a distinguere, una battaglia cieca di chi cerca di proteggersi attaccando. La “banalità del linguaggio”, parafrasando Hannah Arendt. Parliamo di tutto senza sapere, ci facciamo portatori di una bandiera senza averla mai tenuta in mano. Siamo politologi, esperti di relazioni internazionali e teologi allo stesso tempo. Resuscitiamo i nostri ricordi delle lezioni di religione che a malapena volevamo frequentare per vestirci da crociati e inneggiare alla guerra. Riabilitiamo mafiocrazie e dittature di ogni genere in nome della “suprema emergenza”, come fece Winston Churchill che iniziò www.stampoantimafioso.it

a giustificare i bombardamenti indiscriminati sulle città tedesche (e dunque sui civili) durante la minaccia nazista. Ci fregiamo di essere portatori di pace e speranza barricati dentro i muri della nostra vita borghese mentre d’estate ci culliamo nel mare macchiato del sangue dei migranti, mentre a qualche chilometro di distanza i mercanti di persone banchettano sui cadaveri di chi scappa dalla morte. Oggi più che mai l’Occidente è inerme di fronte a tutto questo. Si combattono guerre che noi non capiamo, che non vogliamo capire e che dunque finiamo per giustificare. Abbiamo perso il vocabolario per dare il nome alle cose. Il terrorismo. Infido, sicuramente. L’esercizio della violenza meno visibile e più devastante. Lo praticano senza ritegno oggi quelli dello Stato Islamico. O Al Qaeda. Ma nel nostro parziale libro di storia ci dimentichiamo che lo abbiamo praticato noi da sempre. In Italia ce lo ricordiamo bene, ed era un terrorismo di ogni colore che ha

profondamente mutato le sorti del nostro paese. Se lo ricorderanno bene gli abitanti delle città bombardante durante la Seconda Guerra Mondiale, era o non era violenza indiscriminata sulla popolazione civile? Se lo ricordano benissimo i sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki, i cui nonni hanno subito le bombe del più grande atto di terrorismo che la storia novecentesca ricordi. Però andava bene perché c’era la guerra, e perché loro erano i nemici. Purtroppo è una guerra che stiamo perdendo, quella culturale. Su tutti i fronti. Ed in questi casi non resta che stare in silenzio. Un doveroso silenzio rispettoso delle vittime. Quelle di Parigi. Le vittime della guerra in Siria. Le vittime di tutte le guerre, dei soprusi e delle violenze che ci dimentichiamo di menzionare quando ci facciamo professori e interpreti della realtà che irrimediabilmente ci sfugge. Quindi silenzio. Almeno oggi.


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Bologna, 21 marzo. Così è stata la bellissima giornata di Libera di Nando dalla Chiesa Scritto sul “Fatto Quotidiano” di domenica 22 marzo Al centro in prima fila ci sono i familiari del giudice Pietro Scaglione e dell’agente di polizia Nino Agostino. Loro non mancano mai. Il 21 di marzo è data “loro”, appuntamento fisso per rinnovare una domanda di giustizia. Il manifesto che ritrae l’agente il giorno del matrimonio con la moglie, anche lei vittima di assassini sconosciuti, è piazzato di fronte al palco. La piazza è strapiena e continua ad affollarsi su tutti i lati, anche dall’altra parte di via Indipendenza. Corrono e crescono le cifre. Cento, centocinquanta, duecentomila persone. E forse lo sono davvero, dietro le bandiere gialle, arancioni, viola, azzurre, di Libera, alcune che portano stampato il viso di Lea Garofalo, la donna simbolo dei testimoni di giustizia. Sul palco Romano Prodi sembra stupito, ammirato da quel popolo variopinto, zeppo di giovani e giovanissimi; dirà durante la chiusura del pomeriggio che non esiste nulla del genere in Europa, e su nessuna causa. La folla che cresce sembra abbracciare per cerchi concentrici sempre più larghi il recinto dove siedono i familiari delle vittime; sono loro il nucleo irriducibile del sentimento di giustizia su cui Libera ha costruito in vent’anni un autentico nuovo pezzo di società civile. E’ soprattutto a loro che in piazza VIII agosto parla don Luigi Ciot-

ti. E’ alla loro approvazione che fa appello il leader di Libera quando, citando quel che papa Francesco ha appena detto a Napoli (“la corruzione puzza”), denuncia un parlamento veloce ad approvare la legge sulla responsabilità civile dei magistrati ma terribilmente tardo e riluttante a fare le leggi che servono contro il falso in bilancio, contro la prescrizione facile e soprattutto contro la corruzione. La corruzione che spiana la strada alle mafie, tuona il prete torinese. La corruzione che fa trovare alle mafie i comitati di accoglienza, altro che infiltrazioni. La corruzione che fa ridere delle disgrazie della gente, si tratti del terremoto dell’Aquila o di quello dell’Emilia. E’ a loro che parla, denunciando chi vorrebbe cacciare i migranti dall’Italia “quando bisognerebbe cacciare i mafiosi e i corrotti”. I familiari lo seguono d’impeto con un applauso che sale come un’onda, e con loro applaude la piazza intera. Alla fine applaudono anche le autorità sul palco. Bisogna saperlo guardare il recinto dei familiari. Vent’anni sono passati dalla prima manifestazione. Il tempo è passato segnando molti

volti di rughe e imbiancando senza pietà un popolo di centinaia e centinaia di persone che ancora al 70 per cento è lì a chiedere verità e giustizia per i propri cari, come ha ricordato Margherita Asta, una madre e due fratellini uccisi a Pizzolungo nell’aprile del 1985. Nel frattempo tanti nuovi parenti sono entrati in questo popolo. Perché le mafie hanno ucciso ancora. Ma anche grazie a giovanissimi e giovani, figli di vittime antiche giunti progressivamente all’età adulta o nipotini coscienti della propria storia. Prolungamento di una domanda di giustizia che per la prima volta non si ferma con l’uscita di scena di vedove o genitori. Alla fine sono loro a manifestare solidarietà ai parenti dei desaparecidos messicani, giunti qui con una delegazione. Sono loro a inalberare le lettere scritte a una a una sui cartelli, componendo il messaggio da mandare in foto dall’altra parte dell’oceano: “Somos Todos Ayotzinapa”. Per dire che il dolore non ha frontiere. Come le mafie, purtroppo. Ma anche come la domanda di giustizia.

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Non solo camorra: vi presento il Tappeto di Iqbal

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di Mattia Maestri Oblio. Oblio. Oblio. E poi un giorno ti ritrovi sui giornali. “Barra: arrestato il boss latitante Luigi Cuccaro. La folla si riversa in strada per difenderlo”: così i titoli dei quotidiani nazionali all’indomani dell’arresto di uno dei tre fratelli Cuccaro, capi indiscussi della camorra a Barra, quartiere di Napoli. Rimane ancora latitante Michele Cuccaro, mentre Angelo è stato arrestato lo scorso anno. La notizia starebbe nel fatto che la gente del quartiere è scesa in strada per cercare di strappare il camorrista dalle grinfie dei carabinieri. La camorra, come qualsiasi organizzazione mafiosa, fa del consenso sociale uno dei suoi maggiori punti di forza. Quando si sente parlare di omertà e di silenzio, ci si sta riferendo proprio a questo “regalo” dei cittadini alle mafie. Ma in queste ore, però, sta passando l’idea che tutto il quartiere di Barra si è schierato dalla parte della spietata camorra. E allora vi assicuro che non è così. Una bella storia reale ve lo dimostrerà. Immaginatevi dei ragazzi giovani, con una pallina rossa sul naso e tanta voglia di raccontare. In sottofondo una chitarra suonata da un gigante buono. A sprazzi la voce dolce di un ragazzo. In mezzo, la legge dura della strada. La denuncia dell’illegalità. I trampoli. La breakdance. Le poesie. Numeri da circo. Vi presento il Tappeto di Iqbal: una cooperativa www.stampoantimafioso.it

sociale anticamorra che si occupa di pedagogia circense, con l’unico obiettivo di consegnare ai ragazzi del quartiere un futuro diverso da quello violento a cui probabilmente sarebbero destinati. Barra è la zona con il maggior numero di minori in tutta Napoli, ma anche quella con uno dei più alti tassi di dispersione scolastica della regione Campania. Mancano i servizi pubblici, i centri di aggregazione. Non esiste il cinema e nemmeno il teatro. E così Giovanni Savino, il presidente della Cooperativa “Il Tappeto di Iqbal” decide di costruire l’arena del riscatto sociale. Nelle strade dove si trovano per terra i bossoli dei proiettili veri delle guerre tra clan, Giovanni con la compagna Monica, il fratello Bruno e l’amico Iacopo, insegnano la bellezza attraverso l’arte. La musica, la recitazione, la danza sono tutti strumenti capaci di emancipare l’essere umano e di renderlo libero. Anche in terra di camorra. Non è un sogno. E’ coraggio. Impegno quotidiano. Dedizione. Amore per il prossimo. Oggi è una bellissima realtà che opera in uno dei quartieri più violenti d’Italia. E lo fa senza i riflettori di cui godono altre associazioni o altre zone, come Scampia per esempio. Senza l’aiuto dei media riescono comunque da anni a percorrere lo stivale portando le loro storie vere. Sono passati anche da Milano, nel gennaio 2014, e ve lo abbiamo raccon-

tato già allora. E proprio durante la permanenza nel capoluogo lombardo, il luogo dove loro si allenavano, la palestra della scuola Salvemini, è stato reso completamente inutilizzabile. Distrutto da chi ha capito che il Tappeto di Iqbal si contrappone alle loro logiche criminali. Ma anche questo tentativo distruttivo dei camorristi non smorza il sogno delle persone migliori del quartiere. Pochi mesi fa hanno prodotto il primo cd de Il Tappeto di Iqbal: “Figli di un La Minore”, che hanno portato in giro per l’Italia quest’inverno con uno spettacolo omonimo molto emozionante. Questi Figli di un La Minore si chiamano Marco, Pietro, Ciro, Michelangelo, ancora Ciro, Carlo, Antonio e Angela. Quest’ultima, mentre scrivo, è impegnata a Siena insieme a Marco, al Circo Mondo Festival in rappresentanza del nostro paese. Così come tutti i giorni, Giovanni e i suoi ragazzi accolgono duecentoventi bambini al loro campo estivo, e attraverso il circo, la danza e lo sport insegnano valori e ideali forse fino ad ora per loro sconosciuti. “Ci siamo tutti i giorni io e mio fratello Bruno, a Barra; facciamo fare circo a duecentoventi bambini, e nello stesso tempo il vicepresidente Marco Riccio, con Angela e Carlo, sono a Siena per rappresentare l’Italia al Circo Mondo Festival insieme a tanti altri popoli del mondo che invece vogliono riscatto, che odiano essere identificati come tutto un quartiere”, così il presidente Giovanni Savino esprime la sua rabbia per l’immagine che assume la gente di Barra nei pochi momenti in cui viene citata. Sono straordinari questi ragazzi. Come straordinaria è la loro capacità di comunicare. Se ne è


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accorta anche Save The Children, una delle più grandi associazioni mondiali in tema di infanzia, che ha deciso di investire su questo territorio e soprattutto su questo gruppo di persone, donatori di sorrisi e speranza. A raccontarvi questa storia è un ragazzo del nord, rimasto incredulo e commosso un anno fa davanti a tanta bellezza. Accendete i riflettori su questa realtà, e non solo quando fa comodo per riempire le pagine dei giornali. È naturale che se si arresta un boss, i familiari protestino. Ed è anche frequente che parte della popolazione si schieri con lui, perché altrimenti non esisterebbero mafia e camorra. Non è la prima volta che succede, e non sarà l’ultima. Ma se volete parlare di Barra qualche volta all’anno, parlate innanzitutto de Il Tappeto di Iqbal, una cooperativa che lotta ogni giorno contro

la dispersione scolastica, che si impegna a portare i ragazzi a scuola, che tiene i giovani lontano dalla strada, luogo del reclutamento criminale. Una cooperativa sociale che unisce il circo all’educazione civile, che fornisce una seconda possibilità a chi si è già bruciato la prima.

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Un esempio di come poter fare qualcosa per gli altri. Donare senza chiedere nulla in cambio. Semplicemente amare. Sperando che qualcuno si faccia vivo e bussi alla porta. Sperando che l’isolamento finisca. Sperando di uscire dall’oblio.

L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti di Martina Mazzeo Giovedì 29 gennaio. L’editore Navarra, in collaborazione con Wikimafia e la Scuola di Formazione Politica Antonino Caponnetto, organizza a Milano la presentazione del primo libro di Salvo Ognibene, “L’eucaristia mafiosa. La voce dei preti”. La location è delle più suggestive: 6Rosso, una libreria indipendente, intima e colorata, dietro Paolo Sarpi, la chinatown milanese. Oltre all’autore, stretto collaboratore dei Siciliani, interviene Massimiliano Perna. Modera la nostra Ester Castano. L’idea del libro nasce dopo il lavoro di tesi fatto da Salvo sul rapporto

tra chiesa e mafia. Sfogliando l’indice si spiega da sé il perché della seconda parte del titolo: “la voce dei preti”, infatti, è raccolta nelle numerose interviste che arricchiscono il testo. Qual è il Dio dei mafiosi? Ester introduce Salvo: “La chiesa non è riuscita a essere sincera fino in fondo, ci ha sempre parlato di un Dio buono, misericordioso. Il Dio del Vangelo. Il Dio vendicatore non ce l’ha mai raccontato e questa è stata in parte la forza della mafia, che è riuscita a plasmare, a ‘deviare Dio’, a propria immagine e somiglianza. Certi boss, come Bagarella che si

dichiaravano tanto potenti da poter decidere della vita e della morte delle persone, sono riusciti addirittura a identificarsi nella figura di Dio stesso”. Un’identificazione da delirio di onnipotenza che evidentemente si lega alla religiosità distorta dei mafiosi. Ma molti ecclesiastici, la storia ne è testimone, hanno delle responsabilità: legittimando impunemente i boss dei loro quartieri con funerali, matrimoni, feste patronali e processioni si sono piegati agli interessi mafiosi. “Una chiesa che è stata per anni silente e connivente sconta quindi una grossa responsa-

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bilità”. “Tuttavia, prosegue l’autore, c’è anche una chiesa che fa sentire un’altra voce, ed è quella che con fatica ha costruito una nuova pastorale. Una pastorale antimafiosa che si ispira ai valori del Vangelo. Nel libro infatti ho cercato di raccontare quei preti che si sono impegnati per costruire una morale civile antimafiosa, e hanno svolto il loro dovere di guida pastorale che si oppone alla mafia e a ogni forma di mafiosità”. Come dire: un conto è don Pino Strangio, parroco di Polsi, intervistato nel libro e che compare anche nel documentario di Attilio Bolzoni e Massimo Cappello,“Silencio”; un conto è don Giacomo Panizza, il cui impegno a Lamezia Terme è raccontato nel libro curato da Goffredo Fofi, “Qui ho conosciuto purgatorio inferno e paradiso”. Per citare un altro caso, “Monsignor Pennisi, l’arcivescovo di Monreale – che è la diocesi più grande e più potente della Sicilia – ha emesso un decreto che impedisce a chiunque abbia avuto legami con la mafia di far parte di confraternite. Questo è un modo di incidere sul territorio”. Voci diverse, dunque. Salvo ha realizzato numerose interviste in tutta Italia con l’obiettivo di rilevare la percezione del clero nei confronti del fenomeno mafioso, per conoscerne l’orientamento e il grado di informazione. “Qui al nord ho trovato solo tanti silenzi e rifiuti. “Il Cardinale di Milano mi ha detto di non avere nessun tipo di rapporto su questi argomenti. Il vescovo di Reggio Emilia mi ha risposto di non essere un esperto in materia e che non poteva aiutarmi.Beh, io credo che la chiesa dovrebbe avere una sola posizione contro la mafia: dovrebbe cioè contrastarla in quanto oppressione della libertà”. www.stampoantimafioso.it

Ma l’autore precisa: “Il libro non vuole essere un attacco alla Chiesa ma uno strumento di aiuto. Oggi il clero, di fronte alla mafia, non può operare in base a direttive chiare perché il Vaticano non esprime una sua posizione. Ma il giorno in cui queste direttive arriveranno si avvicinerà la svolta. Non dimentichiamo che l’Italia è per l’83% un paese cattolico”. Massimiliano Perna proviene dalla Sicilia Orientale ed è stato testimone di molte feste patronali “in cui la spiritualità lascia spazio a comportamenti che sono tutt’altro che spirituali. La religione può diventare uno strumento di potere, un’incredibile leva di consenso sociale. La mafia sfrutta questa occasione per diventare parte della tradizione, del folklore di certi paesi. Altra cosa invece è la fede: questa non credo che

sia manipolabile”. “A Cassibile, prosegue Perna, un prete gestiva un CARA molto discusso ed è stato sotto processo con diverse imputazioni”. A Siracusa, invece, un prete ha messo a disposizione dei migranti la sua canonica”. Esattamente come fece don Tonino Bello, vescovo di Molfetta, con i poveri e gli indigenti. Don Puglisi, don Diana, don Ciotti e tutti quei preti studiati e incontrati durante il seminario “L’Italia civile dei don” esprimono, con le loro azioni e le loro “prediche”, un identico messaggio. Lo stesso con cui Salvo saluta i presenti: “Non possono esistere dei preti antimafiosi, possono esistere dei preti mafiosi ma non dei preti antimafiosi perché il Vangelo è antimafioso nella sua normalità, senza bisogno di etichette”.

Una foto della serata. Seduto a destra l’autore del libro Salvo Ognibene


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Quei giovani che a Milano raccolgono l’eredità di Giovanni Falcone di Ilaria D’Auria “Il 23 maggio è una data che ha segnato la storia della Repubblica, che ha segnato la storia delle coscienze civili, che ha generato nuovi slanci all’interno del movimento antimafia”. È così che il professore Nando dalla Chiesa apre la serata promossa dall’Università degli Studi di Milano, da Libera e dalla Scuola di formazione “Antonino Caponnetto” per la commemorazione in vista del 23 maggio, giorno della strage di Capaci. L’incontro si tiene il 22 sera nella Sala Alessi di Palazzo Marino, sede del Comune di Milano, ed è uno dei tanti eventi che sono stati organizzati a Milano per la ricorrenza della strage. Nelle poche parole di apertura si capisce già quali saranno i veri ospiti della serata: i giovani del movimento antimafia milanese che hanno raccolto l’eredità lasciata da Falcone per svolgere giorno per giorno la lotta alla criminalità organizzata. Quale metodo migliore per ricordare la figura di Falcone se non quello di mostrare come oggi i giovani portano avanti la lotta da lui iniziata? La sala si riempie a poco a poco e si percepisce forte l’emozione negli sguardi delle persone, anche perché la serata è dedicata a Edda Boletti, storica esponente del movimento antimafia milanese, recentemente scomparsa. Al tavolo dei relatori, oltre a Nando dalla Chiesa, moderatore del dibattito, vi sono il sindaco di Milano Giuliano Pisapia, il presidente del Consiglio comunale di Milano Basilio Rizzo, il magistrato Giuliano Turone,

la referente provinciale di Libera Lucilla Andreucci, Guido Fogacci della Scuola di formazione politica Antonino Caponnetto ed infine Franco La Torre, figlio di Pio La Torre. Ognuno ricorda Falcone a modo suo. Viene menzionato il suo impegno, il suo rigore, la sua ironia. Turone, per esempio, ripercorre la sua storia professionale, dalla prima indagine di mafia, affidatagli nel 1980 quando arriva all’ufficio istruzione della sezione penale di Palermo, fino alla strage di Capaci che spezzerà la sua vita interrompendo l’impegno rigoroso che Falcone profondeva nel contrastare il fenomeno mafioso. Fogacci ricorda la brutalità delle accuse che il magistrato ricevette in vita da colleghi, giornalisti e scrittori. Fu proprio Sciascia a coniare il termine “professionisti dell’antimafia” per indicare in maniera dispregiativa chi usava la lotta alla criminalità solo come strumento di potere per fare carriera. Affronta poi il tema della nuova lotta al fenomeno mafioso che, oggi, si gioca soprattutto ed anche al nord. La Torre ricorda invece il metodo investigativo di Falcone. Il magistrato aveva sconvolto i canoni fino allora utilizzati nelle indagini in quanto aveva la capacità di leggere la realtà da punti di vista differenti e soprattutto perché alla base delle sue investigazioni vi era uno studio vero e profondo del fenomeno mafioso. A mostrare però nel concreto quale sia l’eredità lasciata da Falcone, è

Lucilla Andreucci che, con grande entusiasmo, mostra quello che ogni anno numerosi giovani svolgono all’interno di Libera, definendo questo movimento un “pool antimafia sociale”. C’è un senso di appartenenza forte che spinge i giovani a sacrificarsi non per fini strettamente personali bensì collettivi. Falcone a questi giovani ha insegnato sicuramente il rigore, ma soprattutto a fare squadra. “Se questo paese ce la farà, e c’è ancora tanto da fare, è perché ci mettiamo in gioco tutti. Libera siamo noi.” La memoria di Falcone, ma anche quella di Pio La Torre, del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, di Paolo Borsellino e di tanti altri, per Lucilla ha la capacità di infondere nei giovani motivazione e li stimola a non cadere in quello che, secondo la referente di Libera, è uno dei peggiori mali del nostro paese: l’indifferenza. La parte più emozionante della serata è però la seconda, quando Nando dalla Chiesa invita a parlare numerosi giovani chiedendo loro di scegliere e leggere una frase del magistrato. Uno a uno si alzano e raccontano il significato che ha per loro la memoria di Falcone. Arianna, Martina, Francesca, Dario, Valentina, Pierpaolo e Raffaella, ognuno con la propria formazione e ognuno impegnato in vario modo nella lotta alla criminalità organizzata. C’è chi è alle prime armi, come Arianna, che si è da poco avvicinata al mondo dell’antimafia o Francesca che è ancora una liceale,

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ma già organizza assemblee nel suo liceo per discutere di mafia. Poi c’è chi già da qualche tempo se ne occupa e mostra i risultati ottenuti grazie al loro impegno quotidiano – Stampo Antimafioso, WikiMafia, UniLibera Milano e l’Osservatorio Saveria Antiochia – e c’è chi come Raffaella dalla Calabria va a Pisa per seguire un

Master di contrasto della criminalità organizzata. A chiudere la serata è il sindaco Giuliano Pisapia che ricorda come Milano, negli ultimi anni, abbia rialzato la testa e visto fiorire numerose associazioni. La prova della presa di coscienza è proprio riscontrabile, per il sindaco, nella presenza di questi numerosi gio-

vani attivi nel territorio milanese. La nostra città sta “costruendo gli argini” per contenere il fenomeno mafioso e la mafia a Milano “può essere sconfitta definitivamente proprio perché ci sono persone come Francesca, Valentina, Martina, Lucilla, Raffaella…”

La Torre e dalla Chiesa: di padre in figlio, il coraggio di lottare

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di Luca Bonzanni «Questa è la mafia: la paura che passa di padre in figlio», scandisce Stefano Accorsi nelle battute iniziali de La nostra terra, film che narra le avventure di una bizzarra cooperativa pugliese sorta sul terreno confiscato al potente boss locale. La realtà, tuttavia, è un’altra storia. Lo si è capito bene venerdì 22 maggio allo Spazio Melampo di Milano, dove la presentazione di Sulle ginocchia – Pio La Torre, una storia, libro scritto da Franco La Torre, figlio del deputato comunista assassinato dalla mafia il 30 aprile 1982, ha raccontato del coraggio che invece può sconfiggerla, quella paura. Di padre in figlio, a essere tramandati non sono timore e codardia: all’opposto, a passare di generazione in generazione è la volontà di sconfiggere il potere mafioso. E se il personaggio interpretato da Accorsi pronuncia il suo discorso dal palco di un auditorium (vuoto, però), il pomeriggio milanese ha messo al centro chi contrariamente ha scelto il palcoscenico della vita www.stampoantimafioso.it

per praticare il proprio impegno. Preceduta dalla proiezione della pellicola diretta da Giulio Manfredonia, la giornata – inserita nell’ambito della commemorazione per il ventitreesimo anniversario della Strage di Capaci – è proseguita con la conversazione tra Nando dalla Chiesa e Franco La Torre. «Un incontro tra persone con tratti di storia comune, a partire dalle storie paterne», esordisce dalla Chiesa. Già, le storie di Carlo Alberto e Pio: due mondi distanti ma intrecciati, differenti ma convergenti nel medesimo obiettivo. «Entrambi i nostri padri, nell’immaginario collettivo, sono testimoni di un impegno civile grandissimo», risponde Franco La Torre, oggi componente dell’ufficio di Presidenza di Libera, in un «ping pong» delicato ma anche intenso: «Il filo rosso che li accomuna, seppur diversi, è il senso dello stato e del servizio per esso: la loro funzione si è esercitata attraverso il servizio. Mio padre non ha mai anteposto l’ambizione di carriera allo spirito

di servizio». In una sala gremita, la biografia del «padre» dell’associazione a delinquere di stampo mafioso è ripercorsa per intero, dagli studi di gioventù (figlio di contadini, s’iscrisse alla facoltà di ingegneria) alla carcerazione per diciassette mesi tra il 1950 e il 1951 («Lì visse esperienze traumatiche: il distacco dalla giovane moglie, la malattia e la morte della madre con l’ultimo saluto negato, la nascita del figlio durante la prigionia, le angherie dei secondini», ricorda Franco), senza omettere i particolari più duri e difficili, specie nel rapporto col partito. Per il Pci diede la vita, letteralmente; eppure, le delusioni non sono mancate: la freddezza durante l’anno e mezzo all’Ucciardone, il passo indietro dopo le Regionali siciliane del 1967 (in cui si registrò un arretramento rispetto alle recenti Politiche, per questo La Torre si dimise), certe diffidenze rispetto al suo attivismo contro la mafia. E poi, negli anni successivi a quel 30 aprile 1982, i tanti silen-


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zi. Troppi. E poi le assenze, la solitudine. Il disinteresse, addirittura: quello generalizzato di un’intera classe politica, che lo fa per «deficit culturale, per timore, e anche perché può trarre vantaggio dal disinteresse stesso. Ma un’organizzazione politica non può permetterselo», ammonisce con vigore La Torre. Il rapporto tra padre e figlio è anche fatto di contrasti, differenze, divergenze. «Entrambi abbiamo vissuto gli anni della contestazione», osserva a tal proposito dalla Chiesa, «però i nostri genitori hanno rispettato le nostre scelte. Certo – sorride il sociologo -, poi capita che una sera d’estate tuo padre inizi a sfogliare davanti a te il Codice penale: questo è reato, questo pure, e così via…». «Pio era contrario al mio extraparlamentarismo – rammenta Franco La Torre, in quegli anni simpatizzante di Potere operaio –: tutto però si doveva ricondurre a un confronto aspro ma aperto». Qual era la chiave? «Il binomio responsabilità-libertà», puntualizza il figlio del deputato.

Non solo nelle scelte personali, ma anche e soprattutto nella vita pubblica: «L’una senza l’altra non ha ragione di esistere. La libertà si conquista attraverso un impegno, non è mai concessa, e si mantiene tramite il senso di responsabilità». C’è spazio per un viaggio nella sfera più intima: quella onirica. La introduce dalla Chiesa: «Uno dei progetti di studio che più mi affascina riguarda i sogni dei familiari delle vittime. Qual è quello che ricordi di più?». Domanda non semplice, confessa La Torre con ironia, perché «i sogni o uno se li scrive subito oppure se li dimentica presto». Proseguendo nella discussione, la memoria invece riaffiora: «Periodicamente continuo a sognare mio padre: sono sogni che mi piacciono, non sono drammatici o paurosi. Per un certo periodo ho sognato situazioni in cui non si capiva se mio padre fosse effettivamente morto: tutti intorno non lo sapevano, ma lui lo sapeva, e viceversa». A volte poi bisogna tirare un bilancio. Ed è difficile, perché bisogna

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scavare nel profondo, accostando dolori e gioie. Il bilancio di un’esistenza intera, anzi di due esistenze: la propria, certo, e poi quella dei propri padri. «Abbiamo due storie parallele, tra delusioni e delitti, mafia e sogni. Ma entrambi possiamo dirci uomini fortunati», confessa non senza emozione dalla Chiesa, «con una vita felice e cognomi che raccontano di storie esemplari». Uomini soli, titola invece un libro di Attilio Bolzoni in cui le storie di Carlo Alberto e Pio sono ancora una volta accostate, insieme a quelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Persone lasciate sole dalle istituzioni, da pezzi del partito, dallo stato. Che qualcosa sia ora cambiato? «Sì, sono felice, perché mio padre era un uomo felice ed è morto da uomo felice», conferma Franco La Torre. Sì, qualcosa è davvero cambiato: i figli di «uomini soli» sono ora «uomini felici». Perché di padre in figlio non si è trasmessa la paura, bensì il coraggio. Il coraggio di continuare una battaglia interrotta troppo presto.

Leggi anche: Falcone, la storia più dura. Una vita per un mondo meraviglioso di Luca Bonzanni Milano, 23 maggio. Le 17.58 attese ai piedi dell’albero Falcone e Borsellino

Milano ricorda il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa di Davide Grossi Il 3 settembre 2015 Milano ha voluto ricordare il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo Sesto si illumina di sera di Mattia Maestri Venerdì 17 aprile si è tenuta una fiaccolata a Sesto San Giovanni per ricordare tutte le vittime di mafia Stampo Antimafioso

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Di Matteo in Statale: strumenti di ieri e di oggi per la lotta alla mafia como Ciaccio Montalto, magistrato milanese ucciso dalla mafia a Valderice, Trapani. E parlando di strumenti esalta l’introduzione della legge Rognoni-La Torre, legge che riconosce l’associazione mafiosa e consente la confisca dei beni ai mafiosi. Un’innovazione rivoluzionaria. Altrettanto rivoluzionario strumento di lotta è la memoria, scandisce con forza Lirio Abbate. Nell’anniversario dell’assassinio

che la violenza non porta consenso sociale”: hanno imparato la lezione stragista, ora stanno in silenzio corrompendo”. Abbate punta il dito su Roma, la cui amministrazione “è stata piegata per anni” dagli interessi mafiosi: si veda, Mafia Capitale. Ma Roma, che conosce i protagonisti di quelle indagini, dimentica chi siano, dimentica BR e neofascismo. E i cittadini, allora, hanno imparato la lezione? Chiude Abbate: “Usate la memoria, l’importante è che poi la tramandiate”. Interviene quindi Antonino Di Matteo. “Siete bombardati da notizie che raccontano una realtà che non c’è, vi rappresentano i magistrati sovversivi che vogliono fare politica. Credo quindi che questi incontri siano utili a voi cittadini per re-

del giornalista Mario Francese, il cronista sotto scorta de L’Espresso rammenta che “Ricordare i sacrifici di uomini e donne, servitori dello stato, e la morte di persone inermi, serve per non dimenticare errori che non devono essere più ripetuti”. “I mafiosi sanno adattarsi alla realtà che cambia, sanno

cuperare un rapporto di verità coi magistrati ma anche a noi, perché ci ricordano che lo scopo del nostro lavoro è rendere un servizio alla collettività, la giustizia. Il nostro è un ruolo di servizio, non di potere“. E prosegue: “Cosa nostra è l’unica organizzazione criminale che per un

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di Martina Mazzeo Lunedì 26 gennaio. L’Università Statale di Milano ospita un incontro organizzato dall’associazione studentesca L’Alligatore. Gli studenti di giurisprudenza che compongono l’omonima redazione hanno fatto sedere allo stesso tavolo alcuni importanti relatori per parlare di “strumenti di contrasto alla criminalità organizzata”. In ordine di apparizione nell’ aula 208: Bernardo Petralia, procuratore aggiunto a Palermo; Bruno Giordano, giurista e docente presso la Statale; Antonino di Matteo, il pm impegnato nel processo sulla Trattativa Stato-Mafia; Lirio Abbate, giornalista dell’Espresso e autore di fondamentali inchieste sul fenomeno mafioso, non ultime quelle su Mafia Capitale. La preside della facoltà di Giurisprudenza saluta e introduce l’incontro. Si congratula con gli organizzatori, che definisce “la crema dei nostri studenti perché sono così interessati ai temi di attualità che si sono impegnati a organizzare questa iniziativa”. Iniziativa che è costata fatica e non poche difficoltà, come ammette uno dei redattori dell’Alligatore. Non mancherà certo la soddisfazione, però, malgrado la fatica: l’aula è gremita, solo posti in piedi. Bruno Giordano, a cui va il compito di moderare, presenta da primo Petralia. Il procuratore ricorda gli esordi della sua esperienza in magistratura a fianco di Giangiawww.stampoantimafioso.it


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biennio (1992-1993, ndr) ha fatto politica a suon di bombe”, chiosa il pm che da sempre si occupa di mafia siciliana. Ricorda le parole di Ciampi dopo le stragi – il timore di aver rischiato di subire un colpo di stato -, ricorda Andreotti sette volte presidente del consiglio, ricorda Cuffaro a capo della regione Sicilia eppure condannato a sette anni per favoreggiamento alla mafia. “Vi prego quindi di dimenticare lo stereotipo di una mafia che opera solo in Sicilia: Cosa nostra ha condizionato la politica nazionale ai suoi più alti livelli istituzionali. Ci sono sentenze definitive, che hanno cioè passato il vaglio della Cassazione, il cui contenuto vi sfuggirà in buona sostanza perché il potere in Italia, di fronte a certe acquisizioni giudiziarie, è solito alzare il muro di gomma della confusione, dell’in-

differenza e del silenzio per attutire la verità“. Andreotti, per i più, infatti, risulta assolto. Non prescritto ma assolto. Basterebbe andare a rivedersi le prime pagine delle principali testate giornalistiche italiane. “Arrivai a Caltanissetta subito dopo le stragi e in direzione distrettuale antimafia mi trovai a interrogare Salvatore Cancemi, il collaboratore che aveva definito i dettagli operativi delle stragi. Diceva: saremmo stati una banda di sciacalli se non avessimo avuto il sostegno di politici, imprenditori, professionisti… Le istituzioni, oggi, hanno la medesima consapevolezza di quanto sarebbe importante recidere definitivamente questi rapporti? Solo così diventa possibile il salto di qualità ma credo che la risposta sia tuttora negativa”. E argomenta con durezza: “c’è chi contrappone

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l’operato dei magistrati di oggi a quello dei magistrati di ieri, i magistrati morti, e critica i magistrati di oggi con gli stessi “argomenti” con cui criticava i magistrati di ieri. Ma oggi, solo oggi, i magistrati di ieri vanno bene, non foss’altro che per attaccare i colleghi vivi”. E ritorna alla mente la lezione della storia che è da imparare, quella di cui riferiva Abbate. Le considerazioni di Di Matteo sono amare e suonano brutali. “La situazione è peggiorata rispetto a vent’anni fa. Un tempo i politici si riparavano dietro l’attesa della sentenza; oggi, malgrado sentenze definitive, certi politici non sono stati allontanati ma discutono di riformare la Costituzione su cui anche Paolo Borsellino aveva giurato”. C’è ancora tanto da fare.

Mai più soli: apre in Lombardia Sos Giustizia di Matteo Furcas Inascoltati, lasciati soli, abbandonati alle loro difficoltà. Sono le vittime di usura ed estorsione, i testimoni di giustizia ma anche i familiari delle vittime di mafia. Dall’otto giugno per tutte queste persone è attivo anche in Lombardia SOS Giustizia, il servizio di Libera in collaborazione con la Camera di commercio per l’ascolto e l’accompagnamento alla denuncia. Abbiamo chiesto a Davide Salluzzo, referente di Libera in Lombardia, le motivazioni e gli scopi dietro all’iniziativa. Da cosa nasce la necessità di aprire questo sportello? C’è stato un aumenStampo Antimafioso

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to di casi di persone in Lombardia gratuito qualora ve ne fosse la neche hanno subito estorsioni o usu- cessità. ra? Come funzionerà la sinergia con la La necessità di avviare questo ser- camera di commercio? vizio nasce da un dato di fatto: Libera è da sempre un punto di La sinergia con Unioncamere e le riferimento per quanti si trova- Camere di Commercio lombarde no coinvolti in problematiche di è un percorso comune iniziato usura, estorsione, racket. Quan- all’inizio del 2014, percorso che do ancora non esisteva il nume- ha portato all’apertura degli Sporro unico, le chiamate arrivavano telli Legalità “Riemergo” presso ugualmente tramite altri canali, sette Camere di Commercio (Misegnale del fatto che la Lombar- lano, Monza, Cremona, Pavia, dia non è immune a questi temi. Lecco, Lodi e Sondrio), mentre le A fronte di ciò, e considerando il altre cinque camere apriranno lo fatto che il servizio SOS Giustizia sportello nei prossimi mesi. Forti di ascolto e accompagnamento del rapporto diretto che le camealla denuncia è uno dei pilastri re hanno con gli imprenditori, i dell’attività di Libera in Italia, si è commercianti e i professionisti, strutturato il progetto per l’avvio gli Sportelli Legalità “Riemergo” del servizio anche qui. sono punti di informazione e sensibilizzazione su usura, racket, In cosa consisterà l’aiuto agli im- testimoni di giustizia, familiari prenditori? Sostegno psicologico o delle vittime di mafia, corruzioanche legale? ne: diffondono il numero unico di SOS Giustizia, forniscono inSOS Giustizia è un servizio di formazioni sulle procedure amascolto e accompagnamento alla ministrative e sulla normativa in denuncia: ascoltare, offrire vici- materia, collaborano con noi nel nanza senza giudizio alle vittime promuovere il servizio sui tere sostegno in merito alla loro si- ritori. In altre parole creano con tuazione, nonché accompagnarle noi una rete di sostegno che sia nei vari passaggi burocratici per più ampia possibile, coinvolgenla denuncia o per inoltrare la ri- do anche attori istituzionali, delle chiesta di sostegno economico forze dell’ordine e delle associasignifica non lasciare solo chi ci zioni di categoria. chiama in cerca di aiuto. Non offriamo sostegno legale, nel senso Quali sono (se ci sono) le particoche non mettiamo a disposizione larità degli imprenditori lombardi avvocati alle persone che ci con- vittime di usura o estorsione ritattano: il diritto alla difesa è un spetto alle altre regioni? diritto costituzionale e in Italia vi è la possibilità di avere il patro- Gli usurai e gli estorsori, così cinio gratuito o di chiedere un come le loro vittime, non hanno avvocato d’ufficio per quanti fos- una geografia o una regione di sero in difficoltà economica. Allo appartenenza. La caratteristica stesso modo, le strutture sanitarie che abbiamo riscontrato, non solo offrono il sostegno psicologico nei lombardi ma nelle vittime in

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generale di simili fenomeni, è il fatto che non si rendono conto della loro reale situazione: non si percepiscono come vittime di un reato, anzi spesso vedono nell’usuraio un “amico”, un sostegno, la persona che li ha aiutati nel momento del bisogno. Si può dire che la motivazione per l’apertura dello sportello sia l’effetto combinato della crisi economica e della penetrazione delle mafie? La colonizzazione delle mafie in Lombardia – evidenziata con forza anche nelle relazioni della DDA – è ormai un dato di fatto impossibile da negare. Che in un periodo di crisi economica ci sia maggiore difficoltà di accesso al credito e le famiglie siano sempre più impoverite è lampante e questo ci pone la necessità di essere particolarmente vigili rispetto a quelle situazioni di povertà e difficoltà dove le mafie riescono a trovare spazi con più facilità. Lo sportello è stato aperto da poco, ma avete già ricevuto qualche chiamata? Le chiamate e le segnalazioni ci sono sempre state; quando non era ancora stato strutturato il numero unico, chi aveva necessità di contattarci lo faceva tramite i canali di Libera oppure tramite gli sportelli SOS Giustizia di Torino e Modena, che avevano competenza sulla nostra regione per questi casi. Adesso si può evitare questo passaggio e le chiamate iniziano ad arrivare direttamente al numero di SOS Giustizia in Lombardia, dove si comunica direttamente con chi preparato e formato, sa ascoltare ed accompagnare.


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Mariano Nicotra, imprenditore coraggioso: “No al pizzo, voglio essere libero” di Marco Fortunato Quella di Mariano Nicotra è la storia di un imprenditore che si è rifiutato di pagare il “pizzo” alle organizzazioni mafiose. Ma che si sente “dimenticato” dallo Stato, come altri suoi colleghi. Vittime due volte. Mariano “nasce” imprenditore, nell’azienda gestita a Messina dal padre Giuseppe, che tramanda al figlio questa passione e lo avvia all’attività sin da ragazzino. E questa è stata sin da subito una scelta di vita: una vita che vedeva alternativa il diventare un criminale. “L’adolescenza a quei tempi non c’era. Si doveva scegliere subito la strada: o del lavoro o della delinquenza”. Il padre era un ottimo cottimista, aggiudicandosi diversi lavori e iniziando a farsi “un nome” nel campo edile “con un grande esempio di legalità, per quello che erano pure i tempi, perché all’epoca non era pensabile avere in famiglia uno “sbirro”, qualcuno che aveva il coraggio di denunciare”. Certo, perché fare impresa nella Sicilia del secondo dopoguerra era tutt’altro che semplice, ed era difficile tracciare un confine netto tra legalità e illegalità, specialmente per un padre di famiglia con quattro figli. E dal padre imparò subito il mestiere, standogli vicino nei vari lavori. Tutto ciò lo portò nel 1989, a soli 22 anni, a diventare un imprenditore autonomo. Mariano sa fare bene il suo lavoro e l’azienda cresce sempre di più “non avvalendomi mai di raccomandazioni, né di agganci politici, di loschi affari o

di aggiudicazione con turbativa d’asta” ci tiene a precisare. L’impresa diventa “di fiducia” di molti enti, e rimane sempre “pulita” e non indagata quando altre aziende, presenti negli stessi cantieri, vanno sotto processo. Il volume d’affari e le “commesse” aumentano, tanto da avere appalti pubblici anche dalle Ferrovie dello Stato. Sono le sue qualità, umane e imprenditoriali, che aiutano l’azienda a crescere, “anche se le difficoltà ci sono state”. Sì, perché Mariano cresce in uno dei quartieri a più alta densità mafiosa della città, in cui c’era la guerra tra le cosche per il controllo di Messina, quando il boss Gaetano Costa aveva deciso di spartirsi la città con altri capi clan. E con qualcuno dei futuri affiliati alla criminalità organizzata “andavamo a scuola assieme, giocavamo a nascondino, giocavamo a pallone”. Ma crescendo giunge il momento del distacco da questo gruppo: però è tutt’altro che facile, perché “possono anche fuorviare, perché un ragazzo lo immagina come un “mito”, come un riferimento da seguire e poi c’è chi (come Mariano, ndr) capisce che quella non è la strada da percorrere”. Crescendo così, però, ha imparato anche come funziona l’estorsione, come ti tengono sotto scacco l’azienda. Un punto di svolta importante si ha con quella che Mariano definisce “l’era del pentitismo”, dagli anni ’90 in poi. In questa fase le nuove leve, i nuovi affiliati cercano la ricchezza, e diventano come dei “cani

sciolti”, che non guardano in faccia nessuno. È allora che le cose iniziano a peggiorare, per Mariano e per la sua azienda. Nel ’95, infatti, subisce la sua prima tentata estorsione, dopo essersi aggiudicato una commessa per il recupero del patrimonio edilizio per ben 500 milioni di lire. I clan messinesi, dopo alcuni atti vandalici in cantiere, si presentarono nella persona di Francesco Picco, affermando che l’imprenditore avrebbe potuto contare su di lui per qualunque problema. La volontà era quella di far diventare Mariano Nicotra un imprenditore legato ai clan: infatti venivano chiesti 50 milioni per “averlo lasciato in pace” negli anni precedenti, più 5 milioni per tutti gli appalti che si sarebbe aggiudicato nel futuro. La reazione di Mariano fu ineccepibile: andò subito dai Carabinieri a denunciare, e notò la loro incredulità nel vedere un imprenditore denunciare i clan, poiché solitamente era (o forse bisognerebbe usare “è”) l’Arma a doverne convocare uno per chiedere spiegazioni su questi contatti “sospetti”. L’appoggio dei Carabinieri fu completo, ed organizzarono la consegna del denaro all’interno di un magazzino, dove intervennero ed arrestarono gli estorsori. Da quel momento la sua vita fu segnata: iniziò a subire minacce sempre più pesanti, non solo personali ma anche nei confronti della famiglia. Ma le parole che Mariano pronuncia sono esemplificative

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della persona che è e di ciò che ha passato: “Il mio non è stato un atto di eroismo. Il mio è stato un atto di egoismo. Perché per non essere ferito nel mio orgoglio, nella mia dignità di uomo e di imprenditore, io, senza pensarci due volte, ho rischiato di mettere a repentaglio, e l’ho messa, la vita della mia famiglia, per una grande sete di correttezza, di libertà. Quindi non mi reputo un eroe, ma un poco un egoista.” Ci si immaginerebbe che, a quel punto, gli amici, i vicini e i colleghi, si stringano attorno a lui per manifestare solidarietà e approvazione per il suo comportamento. Ma non erano solo i clan, purtroppo, a mostrare ostilità a Mariano. Dopo la denuncia ci fu una sorta di “ostracismo” nei suoi confronti anche da parte della cosiddetta società civile: “Tra tutto il quartiere, i miei colleghi c’era chi evitava di salutarmi, chi salutava con la mano nascosta per non fare un torto al malavitoso di turno” fino ad arrivare alle persone che, entrando nello stesso bar dove l’imprenditore stava prendendo il caffè, dicevano “Ma che puzza che c’è qui” o dandogli l’appellativo di “sbirro”. Mariano racconta, con un sorriso amaro, che, dopo che aveva parcheggiato la sua macchina, attorno ad essa c’era sempre posteggio: “Con il pretesto di buttare la spazzatura, anche a mezzanotte, i vicini scendevano a spostare la macchina dalle vicinanze della sua”. Tutto ciò lo portò a non poter più frequentare i locali dove era cresciuto, costringendolo a dover cambiare le sue abitudini, fino a doversi trasferire in un’altra cittadina della provincia messinese. Il messaggio che passa è forte e chiaro: sono i cittadini perbene, onesti, quelli che vogliono cambiare le cose a doversi spostare, non i clan. www.stampoantimafioso.it

Un anno dopo questi fatti, nel 1997, ci fu un altro episodio molto più inquietante. Mentre lavorava per la provincia regionale di Messina, subì un’altra richiesta di estorsione, ma stavolta da un geometra del cantiere, e dunque da un

“rappresentante della provincia”. 15 milioni era la sua richiesta, pari al 5% della commessa. “Mai mi sarei potuto immaginare che anche tra le persone perbene… e lì inizi a pensare a quella famosa linea di demarcazione tra il bianco ed il nero che è molto confusa… un signore, geometra, responsabile dei lavori, ebbe la sfacciataggine, l’atto ignobile, indegno sia come uomo che come rappresentante della provincia, per un tozzo di pane che gli era stato garantito, mi chiese una percentuale sull’importo dei lavori che aveva avuto. Percentuale pari al 5%, quindi circa 15 milioni. Questo li voleva prima che venisse emesso il saldo di pagamento.” La reazione di Mariano fu, ancora una volta, esemplare. Si recò dai Carabinieri per denunciare e, d’accordo con essi, simulò il pagamento del “pizzo” all’estorsore, il quale venne immediatamente arrestato. Ma la cosa che lo lasciò maggiormente con l’amaro in

bocca, è il fatto che il suo estorsore abbia potuto usufruire del patteggiamento, istituzione che non significa ammissione di colpevolezza. “Ma cosa diventa la vittima in quel momento per lo Stato?” – si chiede con molta amarezza – “Nulla.” è costretto a rispondersi. “Ma continuo a lavorare, orgoglioso di quello che ho fatto. Non ho mai avuto indagini dalla Guardia di Finanza, multe per manodopera in nero. Mai.” Passo successivo avviene una decina di anni dopo. Nel 2008 si aggiudicò un lavoro per il comune di Messina, le “Case Arcobaleno” di Santa Lucia sopra Contesse. Dopo poco alcuni suoi soci gli dissero di essere stati avvicinati dai clan per richieste di estorsione, e Mariano mise in chiaro, come se ancora ce ne fosse bisogno, che lui avrebbe denunciato. La risposta mafiosa non si fece attendere, con diversi atti di intimidazione in poco tempo: il box di lavoro smontato, un escavatore incendiato e molti altri. Dopo tutto ciò, si presentarono a lui alcuni affiliati del clan Spartà per la richiesta “ufficiale” del pizzo.E Mariano, per l’ennesima volta, si recò dai Carabinieri per denunciare l’accaduto, facendo scattare l’operazione “Alexander”. I clan decisero di agire più pesantemente contro di lui. 5 colpi di pistola, alle 5.15, contro la sua vettura mentre tornava dalla colazione al bar, come sua abitudine. Un “atto forte, non per volermi uccidere, ma per volere dimostrare che in qualunque momento lo avrebbero potuto fare, e che “certe cose” non si fanno, e che bisogna dare un peso a chi comanda nella zona”. Da lì gli venne assegnata la scor-


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ta, anche se non ne era convinto, “mi avrebbe procurato dei danni. Perché era come avere scritto “io ho denunciato”. Chiunque avrebbe voluto ristrutturare casa, chiamando Mariano Nicotra, potrebbe pure pensare che mi fanno saltare casa.” Scorta che gli venne revocata nel giugno 2013, in quanto non sussistevano più pericoli per la sua persona. L’assenza di pericoli è però opinabile, visto che eventuali ritorsioni possono tuttora verificarsi in seguito alle sue dichiarazioni del

dicembre 2014. Mariano poi, chiude l’intervista con un appello: “Non abbiamo bisogno di professionisti dell’antiracket, abbiamo bisogno non solo di repressione, ma di tanta prevenzione: e la prevenzione si fa, utilizzo un termine forte, “usando” i testimoni di giustizia, le vittime di mafia che hanno tanta esperienza, per farli andare nelle scuole a parlare. C’è bisogno di sensibilizzare, per far capire che oltre alla denuncia, (e dunque a essere onesti) ci può essere

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la convenienza, magari che la Prefettura o le scuole si riforniscano nel tuo negozio, iscritto nell’elenco del consumo critico. Io voglio essere libero. Ho messo a repentaglio la mia vita e quella della mia famiglia per continuare ad essere una persona libera, con la capacità da imprenditore di valutare l’affare migliore, ma restando sempre ligio alle regole.” Si può dire che chieda troppo?

Sud Est Milano: Libera c’è di Davide Grossi Libera e i suoi volontari presidiano il territorio del sud est Milano. Dopo due anni di lavoro, finalmente è nato un Presidio di Libera in quest’area. Il sud est Milano non è stato e non è tuttora un territorio immune alla criminalità organizzata e nella zona si trova ill dodici per cento dei beni confiscati alle mafie della provincia. La mancanza di un Presidio di Libera in un’area così segnata dalla presenza mafiosa era una grande lacuna, che oggi è stata colmata. Sabato 13 giugno, a Peschiera Borromeo, si è tenuta l’inaugurazione. Numerose associazioni del territorio, insegnanti in rappresentanza delle scuole e soci singoli, si sono riuniti per sottoscrivere il Patto del Presidio, che ne ha decretato la nascita. In presenza della referente del Coordinamento di Libera Milano Lucilla Andreucci , gli aderenti al Patto hanno scelto come Referente del Presidio Leonardo La Rocca.

Dopo averlo sottoscritto, i numerosi presenti si sono riuniti presso la sala consigliare del Comune per assistere alla presentazione. Di cosa si occuperà il Presidio? Come ha affermato Leonardo La Rocca, si è deciso di concentrarsi su tre temi principali da affrontare durante il primo anno di vita. La questione principale verte sui beni confiscati alla criminalità organizzata. Su questo tema si farà da una parte un lavoro di studio e aggiornamento, volto ad approfondire la conoscenza della presenza mafiosa sul territorio, mentre dall’altra parte si supporteranno le associazioni che vogliono riutilizzare i beni confiscati. La seconda questione è quella della formazione/informazione. Grande importanza verrà data alla formazione dei giovani nelle scuole e all’informazione per gli adulti. Il terzo tema è la scelta della vittima di mafia alla quale intitolare il presidio.

Alla presentazione del Patto erano presenti anche gli amministratori locali di sei comuni del sud est Milano (Peschiera Borromeo, Mediglia, Melegnano, San Donato Milanese, San Giuliano Milanese e Paullo) che hanno deciso di collaborare alla causa della legalità. Nei loro interventi hanno evidenziato le difficoltà incontrate nel riutilizzo dei beni confiscati e la necessità di un rapporto di collaborazione tra società civile e politica. La nascita di un presidio è un momento di felicità; tuttavia come ha ricordato Lucilla Andreucci, è solo l’inizio di un percorso duro che ha l’obiettivo di svegliare la coscienza della società civile. Anche Lorenzo Frigerio, Coordinatore nazionale di Libera Informazione, durante il suo intervento ha sottolineato l’importanza di un’antimafia sociale che sappia risvegliare la percezione degli italiani. Frigerio ha anche evidenziato come le mafie agiscano

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da molti anni all’interno del territorio del nord Italia attuando una colonizzazione e di come le loro attività siano favorite da un tessuto sociale troppo permissivo. Il 13 giugno di trentadue anni fa morivano per mano della mafia

tre carabinieri in quella che verrà tragicamente ricordata come la strage di via Scobar . Il primo atto ufficiale del neonato Presidio sud est Milano non può non esser il ricordo di Mario D’Aleo, Giuseppe Bommarito e Pietro Morici.

Tanti sforzi e fatiche aspettano i ragazzi del Presidio e soltanto la collaborazione tra istituzioni, cittadini e associazioni potrà garantire un futuro all’insegna della legalità e del bene comune.

L’onda crescente dell’antimafia milanese di Matteo Furcas

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Questo articolo è frutto del Laboratorio di Giornalismo Antimafioso introdotto presso la Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano, per cui Stampo svolge funzione di tutorship.

Di mafia al nord c’è ancora tanto bisogno di parlare. Da parte delle istituzioni e da parte della società civile. Sono loro a dover indicare la via per il passaggio fondamentale dalla negazione e dall’indifferenza alla consapevolezza. A Milano il fronte antimafioso è sempre più attivo e coinvolto. Dalla ricerca universitaria alla cultura, dalle associazioni al giornalismo. E negli ultimi anni si è mosso qualcosa anche nell’amministrazione della città. Mercoledì 22 aprile si è tenuto alla Casa dei Diritti di Milano il secondo incontro di “Libera le tesi”, iniziativa organizzata dal presidio universitario della Statale con il patrocinio del Ministero dell’Istruzione (MIUR) e della Fondazione Falcone per diffondere al pubblico alcune tesi dei laureati in Sociologia della Crimiwww.stampoantimafioso.it

nalità Organizzata. Cosa è stato fatto a Milano? Qual è stato il ruolo della società civile? Queste le domande a cui si è cercato di rispondere durante l’incontro, con il contributo del giornalista del Fatto Quotidiano Mario Portanova e di Lorenzo Frigerio, coordinatore di Libera Informazione. Ma i protagonisti di “Libera le tesi” sono stati naturalmente gli studenti, che hanno potuto presentare le loro tesi di laurea. La prima a prendere la parola è Martina Mazzeo, che ha raccontato nella sua tesi l’esperienza giornalistica di Stampo Antimafioso. Il sito è una delle tante ramificazioni sviluppatesi dal contesto universitario per diffondere la cultura e le conoscenze necessarie per contrastare adeguatamente le organizzazioni mafiose: nell’anno accademico 2008-2009 Nando dalla Chiesa introduce presso la Facoltà di Scienze Politiche il corso di Sociologia della Criminalità Organizzata. Da qui un effetto a cascata di iniziative. Negli anni successivi si sviluppa quel “moltiplicatore pedagogico” teorizzato dal professor dalla Chiesa: la

diffusione di conoscenza e consapevolezza che porta al fiorire di effetti culturali e civili. Stampo Antimafioso è uno di questi. Nasce come blog autofinanziato. Trae le sue energie dal capitale umano dell’università per portare in supporto della sua missione informativa il metodo scientifico proprio della ricerca, il rigore nella selezione di chi scrive e cosa viene scritto. Il risultato? Un giornalismo “lento”, approfondito perché frutto di conoscenze e libero dalle necessità dei siti di informazione di essere sempre sul pezzo, pena i pochi clic. Quanto creato non rimane confinato tra i muri universitari. Grazie a Stampo Antimafioso i risultati delle ricerche vengono diffusi alla cittadinanza di Milano e di tutta Italia. Ed era proprio questo l’obiettivo di “Libera le tesi”. Quali sono state le fonti per Martina Mazzeo? Un dossier sulle mafie in Lombardia a cura di Libera Informazione, intitolato “Ombre nella nebbia”, e il libro di Mario Portanova “Mafia a Milano”, uscito nel 1996 e aggiornato nel 2011. Ed è proprio nella “casa” dei libri che ha preso vita un’altra


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iniziativa, quella descritta da Valentina Valentini nella sua tesi di laurea. L’associazione “Saveria Antiochia – Osservatorio antimafia” mette a disposizione di docenti, studenti e cittadini una biblioteca specializzata e un centro studi e documentazione. Libri, periodici, atti giudiziari, atti di Commissioni parlamentari e di altre istituzioni e associazioni possono essere liberamente consultati. Perché non basta solo progettare un futuro libero dalla criminalità, è fondamentale conservare una memoria ricca e solida. A un futuro positivo potrebbe contribuire una sana gestione amministrativa. L’ultima tesi è presentata da Dario Parazzoli. La complessità del fenomeno mafioso rende insufficiente la sola repressione da parte dello Stato, perché il sistema amministrativo è uno dei principali ambienti colpiti. Le amministrazioni possono prevenire, a partire dalla rottura di quel rapporto tra poli-

tica e organizzazioni mafiose che a causa dei benefici reciproci non verrà mai spezzato volontariamente. Con dei costi altissimi, a causa del dispendio maggiore per quegli appalti consegnati alla criminalità organizzata e del costo della repressione. Occorre quindi partire dall’anello più debole, il politico. E farlo dai Comuni. Milano è stata la prima a istituire una Commissione antimafia, che ha già ottenuto risultati concreti grazie ai propri strumenti. In primis la mappatura degli eventi “spia” che segnalano un’attività mafiosa, a partire dagli incendi. Poi i controlli sui cantieri e gli appalti di Expo. Un grosso lavoro viene poi compiuto da un ufficio in Provincia che controlla tutti i database del comune per verificare incongruenze nelle attività commerciali. Senza dimenticare la trasparenza delle procedure: con la pubblicazione di tutti gli atti degli appalti, non c’è soltanto il controllo del Comune ma anche quello

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dei concorrenti che hanno perso la gara e possono accorgersi delle anomalie. Tutto questo forma un grosso nucleo di prevenzione e di intervento prima ancora che intervenga la magistratura. Il movimento antimafia milanese gode di buona salute e continua a crescere. Lo spartiacque del 2010 con l’operazione “Crimine Infinito” ha reso impossibile una volta per tutte negare la presenza della criminalità organizzata al nord. La rottura del silenzio e del cono d’ombra hanno reso l’opinione pubblica più consapevole. Ma per proseguire in questo percorso occorre una “continuità nella competenza”, come l’ha definita Mario Portanova. E può solo arrivare da esperienze come quelle milanesi, con il loro contributo di crescita culturale e civile. Per alimentare quella massa critica fondamentale per il contrasto alle mafie.

Siamo associazione partner del progetto MafiaMaps, l’applicazione sul fenomeno mafioso che verrà lanciata a marzo 2016!

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Lettera a Denise

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di Mattia Maestri Ciao Denise, vorrei dirti tante cose ora, ma non penso di averne il coraggio. Cosa potrebbe dirti un ragazzo del Lago di Garda, trapiantato a Milano, senza risultare banale e retorico? È difficile. Molto. Ma il desiderio di esprimere sentimenti ed emozioni è il risultato che scaturisce nel cuore di quel ragazzo, quando si interessa a queste storie. Come la tua Denise. Anzi, come la vostra, Denise e Lea. Si, perché scrivendo a te, cara Denise, è come scrivere anche a Lea, la tua mamma, colei che ti ha donato la vita e che ti ha protetto fino a quando ha potuto. Con le sue uniche forze. Con la sua tenacia. Con il suo coraggio. Ecco, vorrei che però fosse chiara una cosa. Quando si affiancano a queste storie le parole “coraggio”, “tenacia”, “amore”, non si vuole essere retorici o amanti della nobiltà da tastiera. È vero, qualcuno potrebbe sempre pensare che è troppo facile fare i “belli e cari” dopo. Ma durante? E prima? Giusta osservazione, direi. Ma come descrivere meglio della parola “coraggiose” due donne, unite indissolubilmente dall’amore reciproco, che si ribellano alla propria famiglia e ad una mentalità e cultura che come un macigno ti opprime dalla nascita? Ma soprattutto, come può un ragazzo del nord capire cosa voglia dire nascere e crescere in un paese sperduto nell’Aspromonte? Semplicemente non lo può capire. Pur avendo anch’egli la mafia “in casa” da quarant’anni, non può minimamente immaginare una vita, o anche solo un pezzettino di essa, www.stampoantimafioso.it

in quei luoghi così intessuti di valori ancestrali devianti. Valori snaturati a proprio piacimento. Luoghi nei quali l’onore e il rispetto hanno significati differenti da quelli che si usano in altre latitudini e in altri mondi. Quindi chi decide dove un uomo o una donna debba nascere? Se a Milano o a Beirut, se a Gaza o a Petilia Policastro? Forse il destino. E a volte quest’ultimo è crudele. Ti sottopone a delle interminabili sofferenze. Quelle che un ragazzo del Lago di Garda non può comprendere. E poi? E poi ci siete voi, Lea e Denise. Che avete cercato di sovvertire quel destino ingiusto a cui eravate destinate. L’amore della tua mamma nei tuoi confronti, Denise, era troppo grande per poterti immaginare donna di una casa di spaccio, silenziosa e compiacente. Perché quella, vita non è. Significa soltanto nascere e galleggiare per decenni, in attesa che qualcuno ti prenda e ponga fine alle tue sofferenze. Quindi la ribellione. Forte e decisa. Non di un uomo “pentito”, che decide di collaborare. Ma di una donna, soltanto testimone di un mondo criminale che non le appartiene e che non vuole condividere. Si chiama Lea, dal greco Leon e dal latino Leo, che significa “Leonessa”. Penso che, mai come in questo caso, il nome sia decisamente appropriato. Perché dopo aggressioni e intimidazioni, una leonessa entra nella caserma dei Carabinieri. A Petilia Policastro, in provincia di Crotone. “Io sono Lea Garofalo, soltanto Lea Garo-

falo”. I muri tremano, e come loro la famiglia Cosco. Sicuramente non sarò io, Denise, a raccontarti la tua storia. Anzi, penso che questa storia sia quasi soltanto tua. Non oso immaginare cosa significhi svegliarsi nel cuore della notte e assistere all’incendio della vostra macchina. Non oso immaginare cosa significhi assistere alle aggressioni alla tua mamma. Non oso immaginare cosa si provi nel cambiare identità, cambiare città e vivere nel terrore. Non lo so. E quasi mi sento colpevole e privilegiato nello stesso tempo. Colpevole perché non c’ero e non ho potuto aiutarti. Privilegiato perché questa sofferenza non so che sapore abbia. Ma, nonostante tutto questo Denise, voglio dirti due cose. Innanzitutto Scusa. Scusa a nome dello Stato che non è riuscito a proteggere la tua mamma. Scusa a nome di quel magistrato che revocò la vostra protezione dopo la morte di tuo zio. Scusa per quella solitudine subita per anni. Scusaci se non vi siamo stati vicino quando ne avevate bisogno. Scusaci se abbiamo inconsapevolmente permesso che tua madre fosse uccisa, e che il suo corpo fosse oltraggiato, bruciato e fatto a pezzi. Infine grazie. Grazie per quello che avete compiuto. Grazie per aver creduto lo stesso nello Stato, anche dopo i suoi errori. Grazie per aver dato l’esempio a tutte quelle persone, donne e figlie, che ogni giorno subiscono quello che avete subito voi. Grazie per il tuo coraggio. Nessuno potrà mai capire cosa significhi accusare in


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un’aula giudiziaria il padre, colpevole di aver ucciso la madre. Grazie per gli insegnamenti di amore e onestà che hai prodotto alla tua giovanissima età. Dopo aver visto il film, che spero sia entrato in tante case italiane, anche di Petilia Policastro, mi trovo qui a scrivere queste semplici righe. Che sono il frutto di anni di sentimenti rabbiosi messi in fila, uno accanto

all’altro. Ero presente al funerale. Ero presente alle fiaccolate. C’ero, si. Ma quando pensavo di scrivere, le dita si immobilizzavano. Rigide e impotenti. Imbarazzate. Perché era sempre la stessa domanda: “Cosa potrebbe dirti un ragazzo del Lago di Garda, trapiantato a Milano, senza risultare banale e retorico?”. Forse niente. Forse tanto. Non lo so. Oggi riesco a scriverti e ne ap-

L’inferno e la primavera. A proposito di lotta alla mafia di Pierpaolo Farina Ci sono momenti in cui ti chiedi se ne vale davvero la pena. Perché passi l’ideale, ma fai davvero molta fatica a restarci fedele o quanto meno difenderlo quando viene quotidianamente insozzato da persone che, a differenza tua, con l’antimafia da salotto ci fanno soldi e carriera, mentre tu stai a risparmiare anche i 50 centesimi perché di compromessi non ne vuoi fare e quindi soldi in quanto clientes non ne vuoi avere da questo o quell’ente pubblico. Lavori anni per il tuo piccolo sogno, dimenticandoti la differenza tra il giorno e la notte, tra Natale e Capodanno, arrivando a passare per pazzo perché uno lo hai passato addirittura a finire di scrivere la voce di Totò Riina invece di stappare bottiglie e svagarti con gli amici e poi… Poi arrivano loro, quelli che usano l’antimafia come strumento di

Potere, e in quattro e quattr’otto mandano a monte mesi di lavoro rigorosamente non retribuito, tuo e dei tuoi folli compagni d’avventura, perché nell’immaginario collettivo chiunque non si occupi di fenomeno mafioso in maniera superficiale e dilettantesca fa parte della “mafia dell’antimafia”. Non conta nulla la tua storia personale e quello che hai fatto: sei colpevole a prescindere, perché se cerchi di capire e di vedere, e di far capire e far vedere, automaticamente c’è qualcosa che non va in te e non lo stai facendo perché ci credi, ma perché ci guadagni qualcosa. Giuseppe Prezzolini, quasi un secolo fa (correva l’anno 1921) scriveva nel suo “Codice della Vita Italiana”: “L’Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l’Italia sono i furbi, che non

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profitto. Mi basterebbe solo sapere che tu sia cosciente di non essere sola. In qualunque parte d’Italia o del mondo tu sia, non sei sola Denise. E ci sarà sempre una parte d’Italia che ti chiederà scusa e ti ringrazierà. Perché il coraggio siete voi. Lea e Denise. Leonesse. Senza cognomi.

fanno nulla, spendono e se la godono.” Ecco, l’antimafia la mandano avanti i professionisti, ma chi fa la bella figura sono i carrieristi. La differenza è questa. Ma quello che mi faceva infuriare non era tanto il carrierista, quanto l’essere accomunato a lui, al suo arrivismo, alla sua totale ignoranza e deficienza. Questa era la cosa che mi faceva infuriare più di tutte, oltre a farmi male, perché noi non facciamo quello che facciamo per farci dire “bravi” da qualcuno ma perché noi alla mortalità del fenomeno mafioso in tutte le sue espressioni ci crediamo per davvero. Da qualche tempo, però, proprio con il moltiplicarsi degli scandali e anche l’esperienza di dolorose delusioni umane sul piano personale, sono giunto a una conclusione: non ha più senso stare a perdere tempo a rodersi il fegato per questa gente. Non ha più senso dargli un’importanza che non meritano e parlare di loro, perché è un’inutile perdita di tempo. E di cose ne abbiamo fin troppe da fare, perché mentre noi stiamo a scannarci su questa o quella questione nel movimento antimafia, Loro, i mafiosi, se la spassano allegramente e fanno tutto quello che vogliono a spese nostre, della nostra libertà e della

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nostra vita. D’ora in avanti dobbiamo sforzarci di andare oltre i muri che incomprensioni e modi di vedere hanno innalzato negli anni, fare rete tra le parti migliori del movimento antimafia e isolare i carrieristi e in generale tutti quelli che cercano un posto al sole nella lotta alla mafia senza fare una beneamata mazza dalla mattina alla sera. Io ho sempre pensato alla lotta alla mafia come ad un campo dove ci sono una varietà infinita di fiori, ognuno è unico, con il suo bagaglio di esperienze e da ciascuno di questi fiori arrivano altri semi, che faranno nascere altri fiori e così, per via incrementale, ad un campo arido, magari pieno di erbacce, viene restituita la bellezza. Perché noi lottiamo per difendere la bellezza, in tutte le sue forme. E perché non sia reso vano il sacrificio di chi ha pagato con la vita la

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difesa della libertà e della democrazia di questo paese. Il problema è che moltissime persone decidono di non sbocciare, vuoi per inconsapevolezza, vuoi per indifferenza, vuoi per paura. E qui sta la tragedia, sfioriranno anche loro, ma senza essere mai sbocciati. E la mafia vince laddove i fiori smettono di sbocciare. Perché non possiamo pensare di essere autosufficienti, di bastare a noi stessi, di essere i più bravi: noi abbiamo bisogno di quella biodiversità, di quella moltitudine di esperienze. Quindi bisogna far sì che sempre più persone “sboccino”, il che significa che dobbiamo fare in modo che si possano impadronire di ogni ramo del sapere e acquistino consapevolezza. In “Le città invisibili” Italo Calvino scriveva che: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo

tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” Ecco, per me prioritario non è pensare ora come ora all’inferno, ma a tutto ciò che “inferno non è” e farlo durare, e dargli spazio. Solo così si combatte l’inferno. Solo così sempre più fiori potranno sbocciare. Solo così potremo salvare la bellezza che ci circonda e che Loro vogliono distruggere. In tutti quei momenti in cui mi chiedo se ne valga davvero la pena, penso alla Primavera che verrà e mi do subito la risposta: ne vale sempre la pena.


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