Sportivissimo Febbraio 2018

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SPORTI magazine mensile di sport nco bia distribuito gratuitamente direttore responsabile

Luigi Borgo

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Iscrizione al Tribunale di Vicenza il 21 dicembre 2005 n.1124

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SSIMO

Tempo al tempo

H

editoriale

di Luigi Borgo

o aspettato. Tanto. Un intero anno. E adesso dico la mia. E’ sempre elegante, diceva Flaubert, aspettare un po’ prima di rispondere. Anche quando, ma non è questo il nostro caso, si riceve una cortesia da parte di qualcuno. Contraccambiare subito è segno di poca classe. Sembra quasi che si voglia chiudere all’istante il nostro debito morale con la persona che ci ha fatto un favore. Facciamo passare un po’ di tempo, invitava Flaubert, prima di esprimere materialmente la nostra gratitudine, in modo da sentire dentro di noi il sottile dovere della riconoscenza. Il 25 gennaio 2017 alle ore 14.44 l’Agenzia Europea per l’Ambiente pubblicava il suo annuale rapporto sullo stato del nostro ecosistema continentale con una messe di dati assai poco lusinghieri per noi sciatori, tanto che subito i giornali di tutta Europa pubblicavano articoli uno più catastrofista dell’altro. Ne conservo, in fotocopia, uno, intitolato: “Il funerale dello sci è previsto nel 2050”. Riscaldamento dell’aria, innalzamento dei mari, estati secche e torride, inverni miti e senza precipitazioni, ghiacciai in continuo, irrisolvibile scioglimento… quindi morte dello sci. Dunque la montagna sarà solo estiva. Al contrario dei ricchi americani del nord che nel Novecento andavano a Miami a passare l’inverno al caldo, gli europei di domani andranno a trascorrere in montagna le sempre più calde estati. La montagna bianca è finita. Dimentichiamoci lo sci. Anche per una seconda, collaterale, ragione: uno studio austriaco, citato nel rapporto, sostiene che l’invecchiamento della popolazione rappresenta un problema per gli sport invernali, notoriamente poco adatti a persone anziane. Insomma una catastrofe! Ma poi, in autunno del 2017, è arrivata la neve sotto i 1000 metri. È nevicato a est come a ovest dell’arco alpino; è nevicato in abbondanza sull’Appennino centrale e meridionale, e ovunque abbiamo iniziato a sciare già dall’ultima domenica di novembre. Quel giorno, al rientro dalle piste, mi sono riletto il rapporto e l’articolo sulla fine dello sci. A dicembre, poi, ne è caduta dell’altra, di neve, e abbiamo trascorso le vacanze di Natale in condizioni d’innevamento perfette. Tutte le stazioni di sci erano strapiene di sciatori felici. Un giorno sì e un giorno no, mi sono riletto il rapporto e l’articolo. Poi a gennaio la neve è entrata perfino nei corridoi dei condomini a Sestriere. E alcuni paesi di montagna sono rimasti isolati a causa delle abbondanti nevicate. A Time Square, New York, mentre l’orologio scandiva la fine dell’ultimo dell’anno, la temperatura registrata era – 20, ma nel Minnesota si è arrivati a – 38, superando di 3 gradi il precedente record storico, i – 35 gradi del 1924. Per almeno una dozzina di volte mi sono riletto rapporto e articolo. Godendo. Infinitamente godendo di come il tempo faccia ancora quello che vuole, di come sia in grado di smentire ogni previsione scientifica dell’uomo. Scrive un poeta: «“in diretta”, dentro le nostre case, vediamo le condizioni del “cielo”, quel cielo che è pur sempre là, profondamente enigmatico e familiare, densamente simbolico, anche quando possiamo addirittura anticiparne la configurazione mediante simulazioni da videogame. Questo nostro potere, da un lato, non gli impedisce di sorprenderci con una superiore potenza, che è spesso causa della perdita di vite umane, in occasioni di calamità per le quali la nostra “preveggenza” e previdenza si dimostra illusoria, mentre, d’altro lato, fa insorgere il dubbio su ciò che sia il “vero” della nostra visione: il cielo nei nostri occhi, quando alziamo lo sguardo, o quello degli occhi “satellitari”», così Zanzotto. Come a dire: se sai già che lo sci non ci sarà più nel 2050, dimmi anche quando avverrà la prossima alluvione, il prossimo terremoto… La scienza dovrebbe conoscere l’alta fallibilità delle sue previsioni. Certo i dati sono i dati: ma tutti sappiamo che basta l’imprevedibile eruzione di un vulcano in qualche isola del sud per sconvolgere il clima dei prossimi 100 anni. Certo, un drastico ridimensionamento dell’inquinamento atmosferico da parte dell’uomo è cosa sacrosanta: ma perché sparare contro anche all’incolpevole sci? Tanto, come abbiamo inventato la neve artificiale, inventeremo anche la neve sintetica e, vada come vada con il clima, un grande futuro sarà davanti a noi sciatori.

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Montagna e cuore: sciare per Sof ia

La famiglia Mountain Elkx si sta attivando per aiutare la piccola Sofia, una bambina di Vicenza che necessita di cure speciali

“Non è importante come sali ma con chi sali” questo il motto di MOUNTAIN ELKX, questa l’essenza dello spirito della montagna. MOUNTAIN ELKX è un team nato nel 2014 da undici amici appassionati da sempre di sport con cuore pulsante pronto a rispondere al richiamo della montagna. Oggi conta circa 100 iscritti. Le parole d’ordine sono passione, voglia di divertirsi, desiderio di condividere nuove avventure con gli amici di sempre e con i nuovi che si incrociano durante il cammino. “Quando uomini e montagne si incontrano accadono grandi cose” così William Blake descriveva il suo Amore per la montagna, così, questo incredibile gruppo è in grado di regalare grandi emozioni attraverso ogni impresa. Ascoltare i racconti di ogni esperienza è coinvolgente. Data da segnare negli annali è l’8 gennaio 2015, prima spedizione, dove gli undici pionieri si mettono alla prova. Il grande desiderio di galleggiare sugli sci e di essere a contatto con una natura unica li porta in Canada. Destinazione: WHISTLER in british Columbia. Il comprensorio sciistico di Whistler Blackcomb è ritenuto la località sciistica più importante del NordAmerica, regno del Powder, neve


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fresca, neve leggera, una neve che fa sognare. Quando sei in vetta o in mezzo ad un bosco ogni profumo ti ipnotizza. Silenzio ed il solo rumore della lamina degli sci sulla neve regalano un meraviglioso senso di libertà. Perché fare freeride, alla fine, è un po’ come volare. Quando assapori la natura in tutta la sua bellezza non puoi che sentirne la voce, anche da lontano. Così la seconda impresa, datata gennaio 2016, li porta a LA PLAGNE in Francia, suggestiva località sulle Alpi Francesi, luogo definito “Paradiski”, dove è

possibile sciare su ben 425 Km di piste infinite. Qui il suono dell’aria ghiacciata si infrange sul viso, qui, precisamente all’Aiguille Rouge, 3300 m, si fissano nel cuore e nella mente immagini del Monte Bianco e delle Alpi Valdostane sullo sfondo. Terza impresa: Giappone, precisamente a Niseko nel cuore dell’Hokkaidō: 19 ore di volo, 3 scali, 3 ore di furgone e 9 ore di fuso orario. Questa volta i nostri esploratori devono fare i conti con forti venti e con temperature che arrivano a -25 C. Nessun timore, piano B sempre pronto. Il gruppo decide di dirigersi

fiordi. In un luogo lontano da rumori artificiali dove scorre l’ineguagliabile rumore della neve ed il dolce fluire delle acque, l’intesa degli amici diventa ancora più forte. Un’altra incredibile esperienza non solo sugli sci ma anche a bordo del “mitico Framstig”, un’imbarcazione a vela, tutta in legno. Mountain elkx una squadra, ormai, una Famiglia che non si spaventa davanti a nulla.

verso Rusutsu. Finalmente la prima esperienza con Japan Powder. Il via all’adrenalina. Sciare con sciatori di ogni parte del mondo, neve soffice che sfiora le ginocchia, paesaggi che regalano come sfondo l’Oceano Pacifico, sono la cartolina di un viaggio che rimarrà sempre impresso nel cuore. Ed è proprio quando ci si confronta con le difficoltà che la forza del team La voglia di viaggiare e di emerge. mettersi alla prova, infatti, lì condurrà in Iran il prosQuarta tappa: 2017 Norve- simo 16 febbraio. Incuriogia. Un Paese meraviglioso siti dai racconti dell’amico che comprende montagne, Massimo Braconi, famoso ghiacciai e profondi lunghi freeskier, hanno ceduto al


8 ci hanno detto che non esiste una cura

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Conosciamo l’SPG47 E’ una rara forma di PARAPLEGIA SPASTICA EREDITARIA, la numero 47, una malattia neurodegenerativa genetica. E’ causata da una mutazione di un gene che agisce sul trasporto delle proteine, soprattutto a livello neuronale. I bambini che ne sono affetti, presentano un grave deficit cognitivo e di linguaggio e progressiva spasticità agli arti

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abbiamo deciso di lottare insieme per trovarla, con la terapia genetica

associazione SPG47 IL MONDO DI SOFIA SPG47: 18 casi al mondo. Troppo pochi perché la ricerca si attivi. E così è iniziato il nostro viaggio. Mamma Desy, papà Luca, assieme con amici e parenti, hanno scelto di diventare loro stessi promotori di un progetto di ricerca: così è nata l’associazione SPG47 Il mondo di Sofia. Vogliamo realizzare una rete di solidarietà intorno a Sofia, cercare altri casi, raccogliere i fondi necessari per sostenere un progetto di ricerca di una cura, coinvolgendo più persone possibili. Abbiamo bisogno del tuo aiuto

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E’ una bambina davvero speciale, che ha inondato le nostre anime di amore. Chi si ferma a guardarla rimane rapito dai suoi grandi occhi scuri e dalla sua capacità di comunicare anche senza parole. Felice e assolutamente inconsapevole dei suoi limiti, lei ama ascoltare la musica e ballare. Se fosse per lei passeremmo le giornate a cantarle canzoni. E ride! Ride lanciando indietro la testa, ride smettendo di respirare, ride e chi le è intorno non può fare a meno di ridere con lei, tanto è contagiosa. Ogni giorno lavora sodo per raggiungere traguardi che per gli altri sono ridicoli, ma per lei e per noi rappresentano delle medaglie olimpioniche. Sofia non sa cos’è la disabilità, non guarda con tristezza gli altri bambini, perché lei non vede ciò che manca, pensa a quello che c’è e che vuole avere, soprattutto quando si tratta di biscotti e cioccolata. E anche in questo caso Sofia ci ha dato una grande lezione. Ci ha fatto alzare gli occhi per vedere che l’arcobaleno si trova nei posti più inaspettati, nelle piccole cose Abbiamo dato la vita a Sofia e Sofia ci ha insegnato a respirare, respirare una vita di amore incondizionato

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energia che la Famiglia MOUNTAIN ELKX desidera porre l’attenzione sul caso della piccola Sofia. Sofia è di Vicenza. È una bimba di soli 6 anni, dai grandi occhi scuri. Ama ballare, però, i suoi piccoli piedi faticano a muover-

si. È stata colpita da una malattia rara, SPG47, una paraplegia spastica di natura genetica. La malattia è di natura degenerativa. Esiste un’unica possibilità: una costosissima cura sperimentale. Aiutiamo ad aiutare Sofia.

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“TRIATHLON: emozione, passione, divertimento”, parola di Martina Dogana

È lei, una delle triatlete italiane più conosciute in Italia e all’estero, l’ispiratrice della nuova associazione sportiva “Martina Dogana Dogana Triathlon Team”, il gruppo perfetto per chi vuole avvicinarsi alle grandi imprese di questa disciplina.

S

i respira un’energia particolare, nel mondo del Triathlon. Gli sportivi sembrano tutti supereroi, oppure dei pazzi, dipende. Sembra quasi impossibile scoprire che oltre le infinite ore di allenamento ci sono persone normali, che hanno fatto cose impensabili magari proprio per loro stessi, solo alcuni anni prima. “Quando le persone mi dicono che hanno iniziato a fare Triathlon anche grazie

a me, mi sento responsabile e anche un po’ in colpa, perché so quanta fatica si deve fare per esprimersi ai massimi livelli” racconta Martina Dogana, una delle triatlete italiane più conosciute in Italia e all’estero. Attorno a lei è nata una nuova società, il “Martina Dogana Dogana Triathlon Team” formata da gruppo di amici accomunati dalla passione per questo sport e dalla voglia di diffonderlo a livello capillare. Stefano De Marzi, presidente della società, racconta che l’idea è nata ed è stata


11 resa concreta con grande entusiasmo, in poco più di un mese di lavoro. Oggi Martina Dogana Triathlon Team è una realtà pronta per promuovere e diffondere questo sport nel territorio vicentino, aiutando neofiti e non a raggiungere i propri obiettivi di sport e divertimento. Sono numerose le testimonianze di fiducia raccolte: sono già state attivate convenzioni con sei piscine, tre palestre, due centri di medicina sportiva e negozi specializzati. Il Triathlon è uno sport

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giovane, che mette insieme nuoto, ciclismo e corsa, unendole senza che tra esse ci sia soluzione di continuità, in un’unica prova. Inserito tra i giochi olimpici dal 2000, è in continua crescita, come dimostrano i dati forniti da FITRI (Federazione Italiana Triathlon): nell’ultimo quadriennio i tesserati sono aumentati del 51%. Il 2017 si chiuso con 461 associazioni sportive di Triathlon in Italia, delle quali 48 solo in Veneto. Le gare realizzate in Italia nel 2017 sono state 616 (26 in Veneto), per un totale di 75.306 atleti partecipanti (60.075 uomini, 15.231 donne). In questo scenario la neonata società si propone di giocare un ruolo da protagonista, partendo proprio dall’esperienza di Martina Dogana, “Il Triathlon è uno sport che mette alla prova la testa, oltre che il corpo, perché insegna ad allenare la motivazione e la costanza” spiega Martina Dogana, reduce da un brutto incidente durante un allenamento alla fine dell’anno

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12 e già in pista per iniziare nuovi progetti. Martina Dogana Triathlon Team intende diventare un punto di riferimento per quanti vogliono praticare la disciplina con lo spirito del divertimento e della sana competizione, condividendo le esperienze degli atleti che già praticano da alcuni anni, organizzando allenamenti guidati di gruppo, anche per neofiti. “Non occorre essere supereroi per fare questo sport.”, ripetono spesso i componenti del team, che si sono avvicinati alla pratica per motivi diversi e in età diverse. Per il momento il team è a prevalenza maschile, ma la punta di diamante è una donna e sperano tutti in altre adesioni. Tra i progetti futuri, l’avvio di una Academy per avvicinare al Triathlon anche i bambini. La neonata società ha voluto adottare un codice

etico, per chiarire subito lo spirito con il quale intende promuovere la disciplina, all’insegna dei più sani valori sportivi, etici, morali. Per questo, uno dei primi legami che il Martina Dogana Triathlon Team ha voluto stringere è stato quello con la Fondazione per la Ricerca sulla Fibrosi Cistica, con la quale è stata avviata una collaborazione per la raccolta fondi. Per la campagna di tesseramento dei nuovi atleti e simpatizzanti i componenti del team saranno presenti nel mese di febbraio tutti i lunedì e martedì dalle 18,00 alle 19,30 presso il negozio We_Beat di Cornedo Vicentino e tutti i giovedì e venerdì dalle 18,00 alle 19,30 presso la palestra We_Beat di Schio.

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grandi viaggi

Nel paese dei f iumi

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di Bepi Magrin

La risalita per 450 km del Bramaputra, uno dei grandi fiumi del Bengala

uori da tutti i circuiti turistici e circondato da paesi che invece propongono mete classiche e teatri delle grandi sfide alpinistiche himalayane, il Bengala rimane un angolo della terra, dove solo viaggiatori “originali” si avventurano in cerca di nuovi orizzonti e conoscenze. Vi siamo andati soggiornandovi per un mese, anche sull’onda delle giovanili letture dei celebri racconti di Emilio Salgari, le cui storie hanno popolato i sogni della prima gioventù. Grande come circa metà dell’Italia conta la massima densità di abitanti per km quadrato del mondo. Ovvero circa 1150 ab/km, (l’Italia ne conta 180/ km) concentrati per la massima parte nella capitale e nelle poche grandi città. Sono 160/170 mln di abitanti di cui ufficialmente 16 mln a Dhaka, ma molti vivono nelle baraccopoli marginali e non sono conteggiati. Esso è notoriamente un paese povero e tuttavia abitato da gente dignitosa: contadini, pescatori, commercianti, artigiani di cento mestieri che danno sé stessi ad umili lavori mantenendo tuttavia il sorriso sulle labbra e le ingenuità curiose delle gente umile, insieme alla gentilezza e alla disponibilità, specie verso i bianchi che nel nord del paese in molti casi non si sono mai visti. Rarissimi sono stati sin qui i viaggiatori occidentali che hanno trovato modo di risalire il corso del grande fiume: il Bramaputra che verso Dhaka si unisce al Gange per portare all’oce-

ano indiano le acque della catena himalayana e dei monsoni che vi si abbattono con indescrivibili quantità di pioggia. Paese pianeggiante di terre sabbiose (non si trova un sasso neanche a pagarlo) segnato per ogni dove da corsi di fiumi (ce ne sono circa 600) stagni e laghi, con grandi risaie e coltivi di patate, tabacco, grano, colza, cotone, canna da zucchero, mango, ecc. che annualmente vengono allagati dal monsone, talvolta con grandi danni a strade, campagne e villaggi e sensibili cambiamenti dell’orografia. Insomma un paese che vive per i fiumi e sui fiumi. Ecco perché conoscere il Bramaputra è conoscere il paese. Le sue dimensioni sono grandiose, esso è largo anche 20 km e intervallato da isole di sabbia che al venire del monsone possono sparire per ricomparire altrove. Lungo il suo corso numerosi villaggi di pescatori e contadini, abbiamo incontrato un solo lunghissimo ponte a circa 2 terzi della nostra

risalita che dai pressi della capitale si è svolta per 450 chilometri fin quasi alla frontiera indiana. Con due barche tipiche del fiume, e una discreta organizzazione, questa cosa si può fare, ma nessuna agenzia turistica vi proporrà qualcosa di simile. A gennaio atmosfere fredde e nebbiose di notte e con pallido sole di giorno, ci hanno accompagnato nella risalita. Le nostre barche di notte ancorate sulla riva aspettavano il levarsi del sole e il dissolversi delle nebbie per poter ripartire. Da quanto è largo il corso fluviale spesso non si vedevano le rive e si procedeva solo grazie alla grande esperienza dei nostri barcaioli che conoscono ogni piega del corso delle acque. Nei villaggi sulla riva quando sbarcavamo si facevano attorno tutti gli abitanti che ci seguivano in processione ad ogni nostro spostamento, curiosi nel vedere per la prima volta le nostre pallide facce e il nostro vestire per loro inconsueto. Alla ripar-


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tenza la gente si radunava gioiosamente sulla riva per salutarci. In ogni aja dei villaggi al nostro avvicinarsi predisponevano spontaneamente un cerchio di sedili per invitarci a prendere un the, e stare un poco con noi. E si facevano attorno donne, vecchi, uomini e bambini, che erano visibilmente felici e onorati di conoscerci. Si contraccambiava con sorrisi e picco-

li regali, ma era il contatto umano la miglior gratifica di quei momenti. Ma come siamo arrivati fin qui? Un caro amico eccellente fotografo e viaggiatore: Oliviero Masseroli di Castion della Presolana (BG) ci aveva seguito due anni fa nella grande traversata dell’Himalaja, raccontandoci del suo generoso amore per questa sperduta regione dell’Asia e suscitando cosi il nostro interesse. Oliviero è una persona speciale per le sue doti di umanità, di sensibilità e di cultura. Dopo alcune traversie in patria, egli, 8 anni fa aveva deciso di chiudere una redditizia attività lavorativa, e dedicarsi interamente alle sue passioni: ai viaggi, alla


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fotografia, e… alla gente delle regioni più settentrionali del Bangladesch, dove la conoscenza casuale di un missionario suo conterraneo lo aveva portato. Scomparso il suo mentore (p. Schiavi) , un prete molto originale che in margine alle Missioni cattoliche aveva deciso di calarsi interamente nella società tribale che occupa alcuni villaggi a ovest di Rangpur verso il confine indiano e vivere il resto della sua vita come loro in una capanna per condividerne ogni momento, ne aveva raccolto l’eredità morale continuan-

do a modo suo l’opera sociale del prete. Ormai sono una ventina i suoi lunghi soggiorni e viaggi verso quella parte del paese, in particolare a Bachtipur dove sorge una casetta per accogliere chi viene. Presso alcuni di quei villaggi, si possono vedere le opere portate avanti da Oli (il soprannome): casette in mattoni, terreni coltivati a patate e riso acquistati per poter distribuire cibo ai più poveri, un trattore che dà lavoro e produce reddito ad un clan di famiglie, vestiti, strumenti, pompe di sollevamento dell’acqua per

migliorare igiene e qualità delle misere vite ecc. ecc. ecc. Oli, nelle sue ricorrenti venute in Bengala (paese che dovrebbe dargli la cittadinanza onoraria) porta con sé altri amici ai quali chiede di conoscere e di finalizzare un piccolo contributo per questa o quella famiglia bisognosa, e aumenta così l’incidenza dell’aiuto in quella che lui chiama “Operazione acqua e riso” e la consistenza delle opere in corso di realizzazione, frutto di disinteressata e generosa solidarietà umana. Vi do il suo numero per il

caso che qualcuno volesse contattarlo, invitarlo a presentare o esporre le sue magnifiche opere fotografiche, o documentali come il filmato dal titolo “Grida e silenzi” o addirittura andare con lui in Bengala per uno dei suoi ricorrenti viaggi. Se avrete spirito di adattamento e qualche altra qualità, vi regalerete certamente una grande, indimenticabile avventura di viaggio e di umanità. Il contatto di Oliviero Masseroli è 320-0768477.

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vicenza Foto Adriano Dondi e Africa Eco Race

Ritorno a Dakar Dopo oltre vent’anni Franco Picco è ritornato alla mitica spiaggia sul Lago Rosa chiudendo con un ottimo decimo posto la Africa Eco Race 2018 Monaco-Dakar

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l mitico traguardo e sempre laggiù, bagnato dalle acque dell’Oceano Atlantico che lambiscono le spiagge senegalesi e dal lago di color rosa che fa da confine a quella lunga lingua di sabbia che, fin dagli albori della avventura dakariana, ha rappresentato il raggiungibile miraggio, il sogno ed il premio della faticosa impresa per tutti i piloti di rally raid. Una lunga spiaggia a pochi chilometri dalla città di Dakar, dove salire sul palco finale per festeggiare la gran-

de avventura, e dove godere della lunga corsa portata, finalmente, al compimento: Franco Picco, il Leone africano, mai domo e sempre pronto a rimettersi in gioco, e ritornato su quella sabbia dove arrivò per la prima volta nel 1985, terzo al debutto nella sua carriera da pilota di rally raid. Trentatré anni dopo, nella Africa Eco Race

che si e corsa dal primo al 14 gennaio di quest’anno da Montecarlo a Dakar, Franco Picco e stato ancora una volta attore importante: settimo nella prima parte della gara, ha dovuto cedere qualche posizione a causa di un problema di carburazione e surriscaldamento nelle tappe più calde; sfruttando la sua smisurata esperienza e le sue capacita di guida e navigazione, ha saputo però recuperare efficacemente e chiudere con un ottimo decimo posto. Una grande soddisfazione, ed anche una bella emozione per il ritorno alla “sua” Dakar dopo tanto tempo.


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La “Dakar” si e trasferita dal 2009 in Sud America, e tu vi hai preso parte fino allo scorso anno con buoni risultati, ma ora hai cambiato rotta puntando tutto sulla Africa Race che ti ha riportato alla capitale del Senegal: a cosa e dovuta questa scelta? È stato un po’ tornare alle origini, riscoprendo quelle sensazioni che solo l’Africa ti sa dare. Il mio ritorno e stato stimolato da una serie di fattori, tra cui il fatto che gli organizzatori di Africa Race – che conosco da tempo in quanto anch’essi piloti d’Africa – mi hanno chiesto all’inizio dello scorso anno di diventare il testimonial in Italia della loro gara. Ho accettato subito, anche perché ero molto curioso di sperimentare questa corsa che, ormai giunta alla sua decima edizione, ha raggiunto una consistenza notevole in fatto di struttura organizzativa e di numero di partecipanti. Cosi, oltre a fare il testimonial, ho provveduto ad iscrivermi, per viverla da protagonista. Come si dice… una cosa tira l’altra! E’ stata una partecipazione da vero protagonista: sei soddisfatto del tuo risultato? Sì, mi posso dichiarare soddisfatto. Ho concluso al decimo posto assoluto dopo

essere stato anche settimo per un po’ di tempo; ho centrato anche un quinto posto nella tappa numero cinque Fort Chacal – Dakhla; purtroppo sono stato rallentato subito dopo nelle due frazioni marathon a causa del surriscaldamento che provocava problemi al carburatore: dovevo fermarmi, far raffreddare il tutto, ed intervenire sulla moto. Pensa che appena tornato a casa ho smontato subito un’altra moto identica per capire da cosa poteva derivare quel problema: una cosa da poco, il solito dettaglio da pochi euro che mi ha fatto perdere un sacco di tempo e tre posizioni. Beh comunque non mi lamento: come ho già detto e stato un risultato comunque positivo ed e stato bello ritornare dopo oltre 20 anni a tagliare quel traguardo sulla lunga spiaggia di Dakar. Ha parlato di interventi sulla moto: hai fatto tutto tu? Non avevi un meccanico al seguito? No, non avevo meccanico. E un po’ di tempo che corro affidandomi esclusivamente alla mia esperienza tecnica ed ai miei interventi; faccio tutto da me, anche perché ho curato personalmente lo sviluppo della moto e dovrei impiegare un po’ di tempo a spiegare ad un meccanico come lavorare sul mezzo. Invece mi rimbocco le maniche e faccio tutto io a fine tappa.


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Dunque questa Africa Race 2018 è stata una bella esperienza: pensi che potrà essere una buona alternativa all’altra Dakar migrata in Sud America? Quali sono le differenze tra le due gare? Sicuramente oggi Africa Eco Race è una interessante alternativa alla Dakar. Per quanto ho potuto riscontrare, mi sembra stia già ottenendo una buona attenzione da parte dei media e molti piloti ci stanno facendo un pensierino.

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21 C’è innanzitutto l’Africa, con il suo fascino impareggiabile: le tappe in Mauritania, l’arrivo da Saint-Louis a Dakar, ma anche tutte le piste marocchine sono un piatto prelibato per gli amanti dell’avventura. C’è un’atmosfera piu familiare al bivacco, e ci si aiuta in gara, come nei rally raid di una volta. Poi si parte dall’Europa, che logisticamente non e cosa da poco, ed infine ci sono i costi inferiori perché non devi trasferire tutto, uomini e mezzi, oltreoceano. Stiamo a vedere cosa succederà in futuro, ma sicuramente Africa Eco Race è destinata a diventare sempre più importante. E nel futuro di Franco Picco invece cosa vedi? A 62 anni, dopo 33 di carriera nei rally, il titolo della Federazione Motociclistica Internazionale che ti ha incoronato Cross-Country Rally Legend, ed un palmarès formidabile, sembra che proprio la tua sete si avventura non si plachi… Mi diverto, mi piace, e con tutta questa esperienza riesco a gestire molte situazioni senza grandissima fatica, ma intanto spero che arrivino sulla scena le giovani promesse italiane per questa disciplina: oltre all’ottimo Paolo Ceci

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che ha vinto questa edizione di Africa Race sarebbe bello rivedere una grande pattuglia di piloti tricolori tutti con le carte in regola per vincere, come negli anni ‘80 e ‘90! Per il futuro prossimo non ti so dire: c’è ancora qualche mese di attesa prima del lancio della Africa Eco Race 2019, alla quale potrei prendere parte nuovamente come pilota, oppure come team manager, visto che sono in molti a chiedere di partecipare alla prossima edizione assistiti da me. Come già successo in passato per altre gare, potrei organizzare un team con tre o quattro moto replica della mia, disponibili per i piloti che vogliono partecipare alla gara. Per il momento mi godo ancora le belle sensazioni di questa edizione appena terminata e ringrazio ancora una volta gli amici che mi supportano, gli sponsor e tutti coloro che vogliono vivere con me le avventure più belle del pianeta!


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natura

L’acrobata dei boschi: il picchio muratore di Dorino Stocchero

A osservare Il picchio muratore è uno spettacolo. Quest’uccello dinamico è instancabile nel ripetere i suoi eccezionali numeri di equilibrista. Spesso lo si vede camminare perfino con la testa all’ingiù.

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l picchio muratore (sitta europaea) a dispetto del suo nome comune non appartiene alla stessa famiglia dei picchi. Esso si lascia osservare più facilmente verso la fine dell’autunno e in inverno, quando si aggira tra i rami ormai spogli accompagnando i propri spostamenti con brevi versi. Agile e irrequieto il picchio muratore attira gli sguardi non solo per via delle piume rossicce che gli ricoprono il ventre e le due linee che passano sugli occhi che sembrano formare un’unica mascherina, con coda corta e ben squadrata, ma soprattutto per la vivacità con cui si sposta instancabilmente lungo i rami e i tronchi percorrendoli in tutte le direzioni. Tra tutti gli uccelli arrampicatori, il picchio muratore è l’unico in grado di discendere lungo i tronchi a testa in giù. A conferirgli questa capacità sono le robuste zampe, munite di possenti artigli, discende lungo i tronchi seguendo una traiettoria a zig-zag, prima di risalire o di involarsi rapidamente verso

l’albero vicino. Il metodico lavoro di ispezione non risparmia i rami, che vengono percorsi sia sul lato superiore sia su quello inferiore. La qualifica di picchio “muratore” si addice perfettamente alla sitta europaea, uccello abilissimo a lavorare il fango usando il becco come cazzuola. La femmina crea sul terreno delle palline di terra e saliva, poi le posiziona con cura intorno all’ingresso del nido riducendone il diametro a circa 30 millimetri: quanto basta per impedire l’accesso a uccelli più grossi. La struttura che ne risulta e ben rifinita e molto solida. Normalmente utilizza per nidificare i buchi nei tronchi fatti dai picchi, ma a volte si insidia anche nelle fenditure di rocce e costruzioni. L’interno della cavità è guarnito con foglie secche o sottili scaglie di corteccia, fra cui sembra preferire quelle dei pini. In aprile-maggio depone 7-8 uova, la cova dura una quindicina di giorni. Il maschio fattosi più taciturno, continua a sorvegliare il territorio e porta da mangiare alla compagna. Quest’ultima, dopo la schiusa, rimane nel nido per qualche giorno. Il soggiorno nell’accogliente


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e sicuro nido, è piuttosto lungo per uccelletti di queste dimensioni, poiché può durare 24-25 giorni. Dopo il primo volo, l’intera famiglia si dà da fare tra gli alberi per cercare il cibo. Nel giro di due settimane i giovani sono indipendenti e si disperdono. Il picchio muratore è un uccello sedentario e fedele al proprio territorio: ama vivere nei boschi di latifoglie. Generalmente si nutre di piccole prede catturate sotto la corteccia degli alberi: formiche e larve di invertebrati, coleotte-

ri e ragni. Inoltre è molto abile nel fare incetta di semi, nocciole e pinoli che spacca utilizzando il becco come uno scalpello e spesso finisce con il raccogliere più del necessario. Si premura di mettere al sicuro le proprie scorte, infilando i semi negli interstizi della corteccia. Molti di questi innumerevoli nascondigli sono destinati a essere dimenticati e i semi possono germogliare, dando vita a nuovi getti in punti insoliti. Di tanto in tanto sotterra prede perfino nel suolo. Diffuso in tutta l’Europa

fino alla Norvegia e in alcune zona dell’Africa Settentrionale e del Medio Oriente in Italia si trova un po’ ovunque al piano fino alla montagna, ma soprattutto nei boschi maturi di montagna (assente in Sardegna). Questi passeriformi nell’avanzare dell’estate diventano sempre più silenziosi, approfittando del riparo offerto dagli alberi con le loro foglie, diventando quasi invisibili agli occhi dell’escursionista. La specie è particolarmente protetta.


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schio o

PUBBLIREDAZIONALE a cura di Real Summan

Fido va in ferie

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arrivato anche quest'anno il periodo per programmare le ferie estive. Per evitare sorprese è consigliabile già pensare alle prenotazioni, in particolare per chi ha un'amico a quattro zampe. Non sempre si riescono trovare nella località prescelta delle strutture che accettano di ospitare i cani. Alcuni operatori limitano l'accesso alle proprie strutture a seconda della taglia, rifiutando cani più grandi, altri hanno solo una parte della propria struttura riservata ai possessori di cani, capita perciò ,a chi non si muove per tempo ,di non trovare posto per il proprio cane. A volte per chi va in ferie all'estero ,scegliendo l'aereo come mezzo di trasporto, si trova impossibilitato di portare il cane con se in quanto anche negli aerei i posti sono limitati. E bene ,ai fini di trovare una pensione adeguata per il proprio cane muoversi con un certo anticipo. Questo vi permetterà un certo margine di scelta, optando per la struttura che più si avvicina alle vostre aspettative. Dopo un primo contatto telefonico si farà visita alla struttura per verificare l'ampiezza dei box e per conoscere il gestore, ai fini di valutare l'effettiva professionalità di chi si occuperà del vostro cane. Particolare attenzione ai livelli di pulizia e alla presenza di spazi esterni recintati preposti allo sgambamento dei cani. Anche gli orari di apertura possono essere rilevanti ai fini di lasciare il proprio cane il periodo strettamente necessario.

Con degli orari ristretti, a volte ci si puó ritrovare costretti a portare il cane in pensione un giorno prima o a doverlo prendere un giorno dopo, questo non solo influisce nella spesa, ma vi priverà della compagnia del vostro amico a quattro zampe per un breve periodo. La Pensione per cani e gatti REAL SUMMANO, dispone di box di diverse tipologie, a partire da nove fino a 24 metri quadrati. Alcuni parzialmente e altri totalmente coperti. Il tutto inserito in un ambiente bucolico ricco di vegetazione arborea fresco e ventilato in collina ad un'altezza di oltre 400 metri slm. La pulizia del box prevede due passaggi giornalieri , quello del mattino con lavaggio, durante il quale i cani vengono fatti sgambare, e quello pomeridiano che prevede la raccolta delle deiezioni ed un'ulteriore se pur breve uscita dal box. Lo sgambamento puó essere in solitaria o in gruppo, questo verrá deciso da personale qualificato (educatori cinofili) in accordo con i proprietari, valutando i sogget-

ti che eventualmente possono condividere gli spazi. Visitando la nostra pagina face book potrete vedere il vostro cane sgambare giornalmente, infatti l'operatore (educatore cinofilo) durante la vigilanza effettuerà dei video che verranno postati. La disponibilità di orario presso la nostra struttura e ampia e flessibile. Sarà possibile consegnare o ritirare il cane tutti i giorni dalle 7 del mattino alle 18 di sera, alla Domenica solo al mattino fino le 11, e alla sera in un orario ristretto dalle 18 alle 18 e trenta. Chi desidera puó durante il periodo di permanenza richiedere dei corsi di addestramento o di socializzazione per il proprio cane. I costi per la pensione sono sogetti a variazioni a seconda della stagione e saranno giornalmente più bassi all'aumentare del periodo di permanenza. Su richiesta si puó chiedere un preventivo, se accettato sarà sufficiente una mail o un messaggio senza versamento di acconti. Per visite solo previo appuntamento chiamando 3466488446 o 3477868238.


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chi va lĂ ?



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Città di Valdagno

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Assessorato allo Sport

di Giulio Centomo

Abbiamo incontrato Hans Paul Pizzinini, giovane imprenditore valdagnese ma dal dna ladino, la cui passione per il pianeta trail lo ha portato a vincere la Trans d’Havet 2017.

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isurato e sempre impeccabile nel vestire, nella vita di tutti i giorni Hans si occupa con il fratello di una start-up che realizza scarpe artigianali, avvalendosi di un buon mix di innovazione e tecnologia. Quando però l’ufficio chiude ad avere la meglio è la passione per la corsa offroad e non c’è meteo che tenga.

Come nasce la tua passione per il running e il trail? A 3 anni avevo gli sci ai piedi e per diverso tempo mi sono dato all’agonismo. Poi è arrivato il momento di cambiare: lasciate le gare, prima sono diventato maestro di sci, poi ho iniziato gli studi universitari a Milano. A quel punto ho abbandonato del tutto allenamenti e gare. Mi mancava però un po’ di sana competizione e avevo l’esigenza di tenermi in forma. Un po’ come Forrest Gump ho sentito

Hans Paul Pizzinini, il runner che fa le scarpe... agli avversari


29 che avevo voglia di correre. L’approdo al mondo del trail è arrivato per scherzo durante un programma di scambio all’estero ad Hong Kong. Qui ho partecipato alla Oxfam Trailwalker, un evento di beneficienza a metà tra gara e occasione per il team building. Per intenderci, i principali team la prendono seriamente, uno tra tutti il Team North Face che la liquida intorno alle 11 ore, mentre chi sta più dietro se la gusta camminando. Insomma, nel team di un’azienda con cui ero in contatto mancava un membro e mi sono trovato in squadra con 3 manager koreani e un vietnamita. Ci siamo sorbiti 100 km di percorso e 46 ore di gara, ma ne siamo usciti molto uniti, anche grazie al support team che può accedere ad alcuni tratti di percorso per portare rifornimenti, un cambio di indumenti o anche per camminare al tuo fianco per qualche chilometro.

E da lì? La mia prima gara trail vera e propria è stata Ultrabericus, presa come sfida a me stesso. Mi sono preparato un piano di allenamento e alla fine ho chiuso in 9 ore e mezza, ma con crampi in ogni dove. A quel punto mi sono messo a fare sul serio: ho stilato un piano di allenamento più preciso e mi sono iscritto a Vicenza Marathon, dove ho potuto farmi seguire da Dario Meneghini. Le sue tabelle mi hanno messo sotto con 5 o anche 6 allenamenti a settimana, non una cosa da poco! Da fine 2016, poi, a seguirmi è Eros Grazioli. Essendo giovane e non avendo ancora famiglia, ovviamente riesco a conciliare meglio questo carico di lavoro, ma alla fine

in tanti la vedono peggio di quello che è. A volte basta un’ora di allenamento al giorno, costanza e magari un po’ più tempo per i “lunghi” del weekend. A fare la differenza è il fattore mentale, quello che ti fa uscire comunque, che splenda il sole, che piova o anche quando la stanchezza sembra avere la meglio.

Che gusto ci trovi? Correre fuori strada mi fa scoprire posti e percorsi nuovi, mi sento stimolato dal cambiamento e dalle cose che richiedono una certa adattabilità. Le cose che non cambiano, nello sport come nel lavoro, mi annoiano. Vado a correre e provo strade nuove, magari mi perdo, ma alla fine rientro sempre a casa, forse con qualche puntura di ortica in più sulle gambe. E con le Piccole Dolomiti a mezz’ora d’auto, come si può resistere?

Quali sono le tue gare preferite? Nella mia top 3 ci sono Trans d’Havet: è la gara di casa, quella che ho vinto lo scorso anno, quella che mi riporta in parte sui sentieri che conosco e in cui mi alleno. Poi metterei Ultrabericus, forse perché è stata la mia prima vera gara di corsa trail, infine la Lavaredo Ultra Trail. Potrei definire anche quest’ultima come “gara di casa”. Sono mezzo atesino da parte di padre e fin da piccolo conosco quelle zone e quelle montagne.

Che sia nello sport o nel lavoro preferisci il lavoro di squadra o quello individuale? Credo di avere una vera passione per il lavoro di


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Città di Valdagno Assessorato allo Sport

squadra. Sul posto di lavoro, quando ho un team in gamba mi piace esaltare la squadra. Preferisco che sia il team ad emergere e in quel modo mi sento esaltato pure io. Sono convinto che la qualità di un imprenditore di successo stia nel saper attirare e riunire persone che credono nel suo sogno, convincerle e mantenere alta la motivazione. Tengo molto a questo approccio. Non vedo una grande contrapposizione nel mondo sportivo, poiché lo sport individuale ti insegna molto, ma quello di squadra ha altrettanto da insegnarti.

Per chi come te si sentisse attratto dal mondo del trail, quali consigli ti senti di dare? Per cominciare deve comprare un paio di scarpe adatte, poi serve un programma di allenamento

fatto bene, non improvvisato. Meglio farsi seguire da una persona competente piuttosto che farsi male. Come per molte altre cose, bisogna iniziare per gradi, perché la corsa in montagna ha molte insidie. Si dovrà quindi dare priorità a creare una buona muscolatura in grado di reggere anche in discesa e dopo qualche chilometro di fatica. All’inizio consiglio di correre un po’ meno, piuttosto che strafare e rischiare i classici infortuni dei principianti. Infine, è fondamentale avere la voglia di farlo. L’alimentazione nello sport, poi, per me è uno stile di vita. Cerco di evitare cibi grassi e mangiare pesante, voglio avere energie per tutta la giornata e non arrivare al punto in cui ti verrebbe da abbuffarti.

In gara quali sono le sensazioni che provi?

Beh, il momento peggiore di una gara è quando sei convinto di essere prossimo all’arrivo o ad un ristoro (magari ti stai trascinando le borracce vuote da un po’) e scopri che mancano sempre quei 2-3 km di troppo. Prima o poi in gara arriva sempre la crisi e se non la sai gestire esplodi. In quel momento cerco di spacchettare i miei obiettivi: immagino il ristoro successivo, poi il rifugio poco più avanti e via così fino a quando ti riprendi. Il momento più bello è invece quando scopri di essere in testa. Così è stato per la Trans d’Havet nel 2016. Mi ero convinto di essere quinto e poi ho scoperto di essere terzo, mentre l’anno scorso sapevo che, una volta superato Francesco Rigodanza sarei stato davanti a tutti. La differenza è che non mi sarei aspettato di tenere quella posizione fino in fondo.


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Storia di “MONNA LISA”

di Girolamo Saccardo

L’eccezionale dossier dell’ISOTTA FRASCHINI FENC10, un automobile di cui oggi esitono solo 4 esemplari al mondo, ma uno solo, quello che vi presentiamo, in perfetto stato di conservazione con la maggior parte dei pezzi originali. L’auto fu costruita nel 1908 e venduta al prezzo di 6.500 lire dell’epoca, un prezzo altissimo, tanto che un aneddoto recita: “se non ti puoi permettere una Isotta Fraschini, prenditi una Rolls-Royce”. Girolamo Saccardo racconta la storia di quest’auto rarissima, dal suo acquisto in Argentina negli anni ‘60 per opera del padre, al suo quarantennale occultamento per ragioni di eredità familiare, fino alla sua definitiva assegnazione all’autore di questo racconto.

LA RICERCA:

Nel 1958 alla collezione di vetture d’epoca di mio padre Gian Luigi mancava solamente una Isotta Fraschini. Egli prediligeva le auto sportive e questo prestigioso marchio ne produsse non più di cento esemplari fino al 1910 e ne rimanevano censite solamente quattro: tre appartene-

vano a musei ed una era di un collezionista australiano. In quell’epoca, a cavallo dei “Favolosi anni ‘60”, si poteva ottenere tutto ciò che si desiderava ma non fu così per l’Isotta. Infatti, contattato il proprietario Mr Lyndon Duckett, Gian Luigi ottenne questa lapidaria risposta: “non

la vendo perché è Monna Lisa”. Comunque sia non si perse d’animo e la ricerca proseguì… doveva essercene almeno un’altra in tutto il pianeta… fino a quando l’amico e collezionista Nicolas Franco jr, proprio il nipote del dittatore spagnolo, importatore del marchio


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atlantica, arrivò a Genova una piccola cassa contenente ciò che si presumeva fosse la vettura e quando fu sbarcata, abituati ad immaginare le Isotta vetture mastodontiche, Gian Luigi esclamò: “mi hanno fregato!” Invece no, aperta per quanto fosse possibile la cassa, con gioia e stupore si poté finalmente vedere la FENC10. La si trasferì quindi a Schio nell’officina di proprietà dove mio padre restaurava le sue vetture con la collaborazione di Elio, il fido ed esperto meccanico. Nell’ambiente del collezionismo la notizia si diffuse e membri L’ARRIVO: Finalmente nel 1959, dopo del “Veteran Car Club”, l’attuale A.S.I., nonché gli la traveramici Conti Luigi Castelsata barco e Giovanni Lurani, Giulio Dubbini, SantoFerrari in Argentina gli scrisse una lettera che gli proponeva uno scambio in tali termini: “se mi trovi una Alfonso XIII (automobile da corsa con adattamenti stradali) ti faccio avere l’Isotta tanto desiderata” e gli spedì una foto della vettura ripresa in un pagliaio argentino. Non c’era tempo da perdere ed iniziarono quindi le ricerche della Alfonso XIII per Nicolas che fu rinvenuta in Francia. Potevano così iniziare le procedure per lo scambio e le pratiche per portare in terra d’origine “Monna Lisa”.

vetti, Carosi e molti altri che nemmeno rammento, giunsero da ogni dove per ammirare increduli l’Isotta Fraschini. L’intenzione fu quella di non restaurare la vettura ma eseguire solamente minimi interventi sulla meccanica per renderla funzionante affinché fosse prova evidente che non si trattasse di un falso tanto era l’incredulità. Fatto ciò fu l’unica vettura della collezione parcheggiata nel garage di casa trattata come una regina in attesa di presenziare a qualche raduno.

TEMPI DIFFICILI:

Arriviamo al 1969 e le vicende finanziarie delle Industrie Saccardo obbligarono Gian Luigi a vendere quasi tutta la sua collezione escluse le più amate: le Bugatti 13

Le Mans e Brescia e naturalmente Monna Lisa. Nel 1970, quando mio padre e mia madre Marina ebbero seri motivi di discordia, quest’ultima occultò l’Isotta, ad opera mia, che, per ironia della sorte, ritornò nascosta tutta intera in un fienile per rimanervi alcuni anni. Si rendeva però necessario trasferirla in varie sedi per farne perdere le tracce a Gian Luigi che la cercava disperatamente e che aveva pure pubblicato in tutta Europa una diffida all’acquisto ed una ricompensa a chi avesse fornito notizie. Decidemmo quindi di smontarla e confezionarla con cura in cinque casse, semplici e sicure da trasferire e parcheggiarle in un luogo sicuro ed idoneo alla conservazione per una presunta lunga sosta, almeno fino alla fine delle diatribe tra coniugi, con me nel mezzo sottoposto a non poche pressioni.

IL RITORNO A CASA:

Nel 2015, quando Gian Luigi mancò, nel testamento decise di assegnarmi la FENC che, come già detto era in mio possesso, con la certezza che anch’io, dato che si può affermare che vi ero cresciuto as-


34 GLI INTERVENTI ESEGUITI:

Innanzitutto era nostra intenzione intervenire solamente dove era strettamente necessario rispettando in modo assoluto la conservazione della centenaria. S’inizio con la pulizia di ogni suo componente per verificarne lo stato di conservazione ed ad un temporaneo assemblaggio per accertare che tutto andasse al posto dove doveva appunto andare, verificare se vi fossero parti mancanti ed eventualmente individuare quelle che necessitavano di parziale ricostruzione e/o sostituzione per rendere Isotta marciante con requisiti minimi di sicurezza. Verificato tutto ciò si stese un elenco di interventi da eseguire che mi accingo a redigere: • Sostituire la massa radiante del radiatore non più recuperabile compito affidato quindi alla ditta FART RADIATORI di Giuseppe Scalenghe. • Pulire e sigillare gli interni dei serbatoi olio e benzina affidati a “Bonfanti Garage”. • Sostituire alcune parti in legno del bachet definitivamente inutilizzabili, lavoro affidato al maestro d’ascia Mauro Gavasso che cercò e recuperò vecchie tavole in pioppo, legno usato originariamente, per tale scopo. • Ricostruire i bicchierini dell’oliatore ed il tappo radiatore che mancavano già al suo arrivo dall’Argentina . • Ricostruire il collettore dell’acqua tra pompa e radiatore. • Eseguire alcune piccole riparazioni degli ingrassatori che nello smontaggio erano stati danneggiati. • Ricostruire il guscio metallico del sedile passeggero che nel 1960 fu prestato a Giulio Dubbini per farne una copia e mai restituito. Vane sono state le mie ricerche presso i figli del medesimo, che non nutrono la stessa passione del padre, ed il suo meccanico Nardo, che dopo la dipartita del padre hanno pensato bene di sbarazzarsi di tutte le “cianfrusaglie” vecchie ereditate, compreso il sedile

di Monna Lisa. Mi rivolsi quindi all’amico Sergio Bedin, proprietario di una carpenteria, che affidò il complesso compito alle abili mani di un suo anziano operaio che lo ricostruì completamente e solamente a mano senza interventi di macchinari. • Ricostruire utilizzando i componenti originali le tappezzerie dei sedili. • Naturalmente abbiamo provveduto alla sostituzione degli pneumatici ridotti ormai alle tele e quindi non idonei all’eventuale uso su strada. Tutto, quanto descritto, è stato documentato fotograficamente ed i componenti sostituiti di necessità, conservati a scopo di documentazione storica. Non è mia intenzione “addobbare” Monna Lisa con strumenti indicati dal codice della strada per renderla circolante su strade aperte al traffico in considerazione del fatto che lo ritengo un sacrilegio alla purezza della vettura, sacrilegio che era stato perpetrato durante la sua permanenza in Argentina e che subito fu “esorcizzato”. Quindi: niente verniciatura, escluso il sedile passeggero, e nemmeno ritocchi. Tutto deve rimanere al puro stato di conservazione con gli evidenti segni del tempo ruggine compresa. Si provvederà solamente a proteggere la carrozzeria con una patina di cera d’api od altro prodotto idoneo, mentre la meccanica era stata revisionata già nel 1960.

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sieme, mai l’avrei venduta e sicuramente l’avrei conservata così com’era. Fu così il giorno 11 gennaio del 2016 mi recai con l’amico Angelo e suo figlio Daniele Camparmò nel luogo dove da oltre 40 anni Isotta riposava e con grandissima emozione iniziammo ad aprire le casse nelle quale era imballata. Fu notevole lo stupore nel ritrovare tutto come era stato lasciato ed in ottimo stato di conservazione malgrado qualche piccolo segno lasciato dal tempo trascorso. Tutto fu caricato e trasportato

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con cura nel luogo dove si sarebbero iniziati i lavori di montaggio della vettura che era mia assoluta intenzione non venisse eseguita da alcuna altra persona se non i tre citati.

IL RITORNO AL PUBBLICO DI ISOTTA:

Tutti coloro che hanno potuto ammirarla e che non sono purtroppo fa noi, sapevano che di Isotta Fraschini FENC10 ne esistevano solamente due, quella in Australia e quella di mio

padre Gian Luigi. Dopo 40 anni di oblio, ormai gli appassionati di automobili d’epoca avevano forse perso ogni speranza di rivederla od addirittura mettevano in dubbio la reale esistenza. Sarà quindi mio piacere ed onore abbracciare l’invito dell’HISTORIC CLUB SCHIO di presentarla per la prima volta al grande pubblico, magari a lavori non completamente conclusi, in occasione della mostra scambio d’autunno in Padova e successivamente partecipare a concorsi o manifestazioni

organizzate per far ammirare vetture che hanno fatto la nostra storia automobilistica. Sicuramente Monna Lisa non rimarrà più chiusa in un garage od un museo per il resto della sua esistenza, dato che ritengo sia giusto condividere la gioia di ammirarla, naturalmente come tante altre prestigiose automobili, con tutti i cultori di tali interessi. Mi auguro quindi di restare su questo pianeta abbastanza per godermela e coccolarla come si deve ad una vera Signora, Monna Lisa appunto.

I PREZZI PIÙ VANTAGGIOSI DELLA CITTÀ


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Specif iche tecniche della FENC10

L

a Isotta Fraschini fu fondata da Cesare Isotta in società con i fratelli Vincenzo, Oreste e Antonio Fraschini. Agli inizi l’azienda si occupava solamente della vendita delle Renault con motore De Dion nonché delle Mors e Pieper e solo successivamente si estese all’assemblaggio delle stesse. Nel 1902 la produzione contemplava tre vetture: una vetturetta di 669 cc con motore monocilindrico Aster, un’altra con motore di 2251 cc ed una più evoluta con motore De Dion di 785 cc. Il primo modello con meccanica di produzione completamente Isotta fu presentato nel 1903 ed era un progettato dall’Ingegner Giuseppe Stefanini nato in Lodi nel 1870 e laureato in Torino, soprannominato nel dialetto locale “Cou de Ram” testa di rame o rossa ed era spinto da un motore di 24 HP. Stefanini è stato sicuramente il pioniere della progettazione di motori in Italia e fu assistito dal 1905 dall’Ingegner Giustino Cattaneo, che successivamente sostituirà Stefanini alla progettazione dei motori IF considerato il vero progettista di un motore a distribuzione ad albero a cammes in testa e non Ettore Bugatti come si credeva. Il primo progetto, frutto della collaborazione dei due, fu il modello D da competizione di 17203 cc che erogava 100 HP con distribuzione ad albero a cammes in testa e partecipò alla Targa Florio del 1905.

Nel 1908 Stefanini progetta la Tipo FE, una vetturetta leggera con motore monoblocco di 1.207 litri sempre con distribuzione monoalbero in testa molto all’avanguardia, raggiungeva i 100 Km/h e partecipò al “Grand Prix de des Voiterettes di Dieppe” classificandosi all’ottavo posto prima del Primo Conflitto Mondiale. Il successo del Tipo FE convinse Fraschini a produrre la Tipo FENC10 che fu presentata per la prima volta alla Mostra del Motore Olimpico di Londra nel novembre del 1908 e salutata come una delle grandi rivelazioni della mostra stessa, è considerata tutt’oggi una delle prime vetture sport mai prodotte ed equipaggiata con un motore quattro cilindri in linea monoblocco di 1.32 litri, distribuzione monoalbero a cammes in testa che erogava 18 HP e superava i 100 Km/h. Le specifiche tecniche sono riportate nel manuale dell’epoca e di seguito esposte: Telaio in lamiera di acciaio stampato robustissimo numero 95. Sospensioni su solide ed elastiche molle di acciaio. Motore a quattro cilindri fusi in blocco unico in ghisa alesaggio 65 mm corsa 100 mm. Valvole intercambiabili applicate in testa ai cilindri comandate da un solo albero a cammes in testa racchiuso da un carter di alluminio. Accensione con magnete ad alta tensione ed anticipo all’accensione regolabile. Raffreddamento con acqua fatta circolare da una pompa centrifuga e raffreddata da radiatore. Carburatore speciale a polverizzazione con dosatura costante. Lubrificazione per caduta con contagocce



38 registrabile. Frizione progressiva a dischi metallici. Direzione robusta ed irreversibile che permette di girare in uno spazio ristretto. Trasmissione a cardano con ponte posteriore in lamiera di acciaio imbottita robustissima. Freni: uno sull’asse cardano comandato da pedale due sulle ruote posteriori comandati con leva a mano. Serbatoio benzina: nel tipo corsa è applicato nella parte posteriore del chassis, superiormente, la benzina è inviata sotto pressione al carburatore. Nel tipo turismo è applicato sotto il sedile anteriore: la benzina è inviata al carburatore per caduta. Lunghezza massima del chassis metri 3.144 Larghezza massima del chassis metri 1.450 Passo od interasse metri 2.100 Carreggiata o scartamento metri 1.250 Spazio disponibile per la carrozzeria metri 1.80x0.80 Pneumatici ruote anteriori e posteriori mm 7.10x90 Peso del chassis nudo circa Kg 600 Prezzo 6.500 lire del 1908

Personalmente desidero ringraziare il Consiglio Direttivo dell’HISTORIC CLUB SCHIO che in occasione della Mostra Scambio di Padova 2017 ha ospitato il sottoscritto e la sua Monna Lisa nel suo bellissimo stand dedicato e personalizzato per la prima presentazione al pubblico a livello mondiale della Isotta Fraschini FENC 10 di mia proprietà… anche se mi piace affermare… di tutti gli appassionati che con me condividono lo stesso interesse. L’accoglienza da parte dei tantissimi visitatori ed interessati è stata calorosa e cospicua come pure quella delle e mittenti e radio locali, l’informazione “stampata” di settore e non, nonché la stessa RAI che via ha dedicato un servizio nei suoi telegiornali. Girolamo Saccardo

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storia

Omaggio ad Achille Beltrame Il celebre illustratore di Arzignano che raccontò anche lo sport di Antonio Rosso Foto archivio Biblioteca Giulio Bedeschi - Arzignano

Una gara di corsa femminile a Parigi

A

La scalata dell’Everest

chille Beltrame nasce ad Arzignano il 19 marzo del 1871. Studia prima a Vicenza poi all’Accademia di belle arti di Brera a Milano, dove si stabilisce nel 1893. Qui lavora, prima come cartellonista, poi presso il periodico Illustrazione Italiana. A ventotto anni, viene chiamato a collaborare per la realizzazione delle tavole della Domenica del Corriere, come disegnatore. E’ l’8 gennaio 1900 quando esce il primo numero domenicale del Corriere della sera con in prima pagina, firmata da Beltrame, una grande tavola a colori che illustra trecento soldati bloccati da una bufera di neve sul Montenegro. Sarà la prima delle 4662 tavole che disegnerà nell’arco di oltre 40 anni. Il supplemento al Corriere della Sera, in sedici pagi-

ne, porta all’attenzione del lettore fatti particolari, racconti, curiosità di cronaca rosa e nera. Un’occasione per una lettura leggera e di svago. Le due grandi tavole, a tutta pagina, nella prima e nella quarta di copertina, disegnate e colorate, diventeranno la sua caratteristica. E’ la direzione a preferire i disegni alle fotografie, ritenendoli più coinvolgenti e diretti. Oltre ad intrattenere il lettore, c’è lo scopo, non troppo nascosto, di dare alle persone una formazione moraleggiante e patriottica con esempi d’altruismo portato, spesso, all’estremo sacrificio. Di divenire, infine, anche un palcoscenico per celebrare la patria ed i suoi rappresentanti istituzionali. Beltrame entra perfettamente nella parte. Nelle copertine riesce a riassumere fatti di cronaca, di costume

I drammi dei pionieri dell’aria: Orville Wright e il tenente americano Selfridge precipitando con l’aeroplano da trenta metri d’altezza

ed eventi sportivi, disegnandoli in modo così vivo e attuale da essere comprensibili anche per una popolazione non ancora del tutto uscita dall’analfabetismo. Oggi, a distanza di anni si viene, così, ad avere una visione della società e del costume italiano della prima metà del XX secolo. Egli non si muove mai da Milano, dove disegna, ma, grazie alla sua immaginazione ed aiutandosi solo con fotografie, riesce a rappresentare in modo rigorosamente realistico luoghi, fatti, persone e cose senza averle viste di persona. Beltrame si reca alla sede del giornale, ogni martedì, dove gli viene affidato il tema da illustrare per la prima di copertina, mentre quello della quarta gli viene dato al mercoledì. Completate le tavole, le porta in redazione dove vengono ag-


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La maratona italiana corsa a Milano, l’arrivo del vincitore

giunte le didascalie e spesso, con disegnatori interni, si provvede anche alla colorazione delle stesse. Sempre, comunque, su sua indicazione. Al settimanale, Beltrame lavora, sostituito solo nelle sue assenze fino al 26 novembre 1944 quando firma l’ultima sua copertina. Pur essendo noto per le sue illustrazioni, Beltrame è stato anche un apprezzato pittore. I suoi quadri ad olio, a matita, ad acquerello o a tempera, hanno per soggetti principalmente ritratti e paesaggi. Oggi si trovano in gallerie private e musei pubblici. Ha ricevuto anche commissioni di pale d’altare e di pitture

Il primo numero della Domenica del Corriere

Un nuovo gioco sulle spiagge di California: la pallacorda sui trampoli

murali ed ha partecipato alle Biennali di Venezia del 1912 e del 1924. Muore a Milano il 19 febbraio 1945, nella casa del nipote, in via Fiamma 27. Lo scrittore Dino Buzzati lo ha definito un cantastorie della giovane nazione italiana, e - continua ancora Buzzati - attraverso le immagini da lui create, i grandi e più singolari avvenimenti del mondo sono arrivati pur nelle sperdute case di campagna, in cima alle solitarie valli, nelle case umili, procurando una valanga di notizie e conoscenze a intere generazioni di italiani che altrimenti è probabile, non ne avrebbero saputo nulla o quasi. Un

Una foto di Achille Beltrame

Il giro d’Italia

maestro dell’arte grafica, quindi, ma anche un formidabile maestro di giornalismo... Le illustrazioni degli avvenimenti bellici della Grande Guerra e delle vicende degli Alpini sono certamente le più celebri, di Achille Beltrame, ma ha illustrato tantissime tavole anche con attività sportive. Ne proponiamo alcune: da Dorando Pietri squalificato nel 1908 alla maratona dell’olimpiade di Londra per un aiuto avuto dai giudici, quando stava per tagliare per primo il traguardo, alla nazionale di calcio che segna con Colaussi, in un’amichevole a Berlino, nel 1936 alla Ger-

mania; dall’alpinismo, al ciclismo; dalla corsa delle sartine alla partita di pallacorda sui trampoli ..... e così via, con l’unico scopo di rendere omaggio ad un concittadino poliedrico che a distanza di oltre un secolo riesce ancora a stupire e far emozionare. La collezione della biblioteca Giulio Bedeschi La biblioteca conserva la collezione delle tavole di Achille Beltrame. Un grazie al direttore Paolo Povoleri per aver concesso la pubblicazione delle riproduzioni e per la cortesia e disponibilità sua e dei suoi collaboratori nei confronti di Sportivissimo.

Partita Italia-Germania a Berlino. Colaussi segna il primo goal per l’Italia.


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storia

Progetto Aquädukt di Antonio Rosso foto di Stefano Caressa

La Grande Guerra in Alto Adriatico - 15a ed ultima parte

Ritrovato sui fondali di Grado un trasporto austroungarico carico di munizioni Il ritrovamento Il ritrovamento è recentissimo, di dicembre. Stefano Caressa, esperto subacqueo professionista, sta realizzando sui fondali di Grado alcune riprese per il documentario RAI “Le trincee del mare”, quando si trova davanti ad un’area completamente coperta da munizioni e dalla chiara forma di un relitto. Per la natura esplosiva del carico la questura di Gorizia fa venire da Venezia la Squadra sommozzatori della Polizia di Stato. L’intervento della squadra, giunta immediatamente a bordo di una motovedetta della Sezione Nautica di Trieste, permette di confermare le ipotesi fatte sulla data e l’appartenenza del relitto: le munizioni sono di fabbricazione austro ungarica e risalgono alla prima guerra mondiale. Ciò fa ipotizzare agli studiosi che il relitto appartenga ad una imbarcazione facente parte di uno dei convogli che partivano da Trieste con destinazione il fronte bellico. Una pagina di storia molto poco conosciuta ed una nuova pagina sulle vicende della grande guerra.

Il relitto L’area del ritrovamento si trova a due miglia al largo di Grado a dieci metri di profondità. Il relitto si presenta semi sepolto nella sabbia. In un secolo il mare ha corroso il legno della chiglia ma ha lasciato perfettamente visibile il carico situato al suo interno: proiettili di vario calibro, munizioni per il cannone di bordo, che, se c’è, è ancora sepolto sot-

to la sabbia, munizioni per armi leggere. La barca - è Stefano Caressa che ora racconta - è completamente capovolta e dalla disposizione del carico si vede benissimo la traccia del paramezzale e la forma tondeggiante dello scafo; non è una chiatta o una una imbarcazione a fondo piatto. Per alcuni esperti è un trabaccolo, per altri un bragozzo. In ogni caso, poiché tra poco inizieranno le operazione di recupero delle munizioni , sarà possibile vedere ciò che è rimasto della struttura e si potrà risolvere l’identificazione. Il recupero sarà effettuato dal Servizio Difesa Antimezzi Insidiosi (S.D.A.I.) della Marina Mi-

litare a cui è affidato tra gli altri, proprio il compito di concorrere alla bonifica degli ordigni esplosivi nelle acquee nazionali. Tutti gli studiosi concordano, comunque, che il relitto appartiene ad una imbarcazione che era parte di uno dei convogli, spesso trainati, con cui gli austriaci gestivano i rifornimenti verso il fronte. Tale flottiglia era stata costituita, per volere del Comando Austroungarico a Trieste, circa sette mesi dopo l’entrata in guerra dell’Italia ed i convogli di rifornimento caricavano nel porto di Trieste munizioni, armi, benzina,


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il piacere di giocare assieme

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44 vettovaglie, reparti destinati al fronte e tornavano indietro carichi di feriti e soldati in licenza. Per la posizione del ritrovamento, l’affondamento è avvenuto dopo che gli austriaci avevano sfondato la linea italiana a Caporetto. In un libro austriaco dal titolo tradotto, Marina in grigioverde del 1999, autore Peter Jang, si legge, tra l’altro, proprio delle difficoltà logistiche a cui sono gravati gli addetti alla flottiglia in questo periodo e alle lotte che il personale deve ingaggiare contro le burrasche di scirocco o di bora. Nel novembre del 1917 sono citati numerosi casi di affondamenti tra cui quello di un trabaccolo, carico di munizioni che si incendia ed esplode con conseguente affondamento. Viene citato anche un

altro caso a metà novembre, quando una furiosa tempesta sorprende diversi convogli. In questa circostanza affonda un’imbarcazione trainata dal vapore “Kwarner” caricata con un cannone navale da cm L/40 con accessori, munizioni ed altri materiali, mentre altre due unità vengono spiaggiate davanti a Grado. Il relitto rinvenuto, appartiene all’imbarcazione trainata? Lo sapremo presto. Interessante, però, una considerazione, che fa l’autore, sul comportamento italiano; subito dopo la descrizione dei fatti di novembre scrive: ... era incredibile che gli Italiani non tentassero mai di attaccare più energicamente i convogli in mare. Una flottiglia italiana di torpediniere colpì in pieno Caorle, ma più ad est non si era mai vista

una nave o un sottomari- ti vapori, imbarcazioni da pesca, piroscafi, che, no... nell’arco di poche settimane, vengono rinforzati, Progetto Aquädukt L’idea di una flottiglia la- blindati, armati e rivergunare nasce alla fine del niciati. La flottiglia pren1915, a Trieste, quando vie- de forma ed è formata da ne ordinata la formazio- cannoniere, motoscafi ed ne di squadre navali con altre unità di varia natura. compiti di scorta ai riforni- Allestite le imbarcazioni menti e di difesa costiera. ed addestrato il personale, Il comando della flottiglia la flottiglia di Trieste entra viene affidato a un ufficia- in azione nel maggio del le di Stato Maggiore della 1916. Poiché, per ragioni Marina, mentre i marinai, di sicurezza era proibito per non gravare sul per- l’uso del termine Lagusonale della flotta, vengo- nenflottille, fin dall’inizio, no reclutati attingendo al viene dato al progetto opeLandstrum, il battaglione rativo un nome di copertudella riserva, composto ra: Aquädukt (acquedotto), da uomini non più formal- nome che sarà utilizzato mente idonei alla leva. Per per tutti i movimenti ed i pilotare le imbarcazioni provvedimenti che riguarvengono reclutati pesca- deranno la flottiglia di cui, tori ed altro personale oggi, il mare ci ha restituipurché avesse un minimo to un suo esemplare, l’unidi competenza marittima. co finora ritrovato. Vengono subito requisi-

Considerazioni f inali Termina con questo, la serie di articoli sui relitti dell’alto Adriatico, legati al primo conflitto mondiale. Il primo articolo è apparso nell’aprile del 2015, con lo scopo di unire storia ed archeologia con relitti e sport subacqueo in un itinerario temporale parallelo alle vicende belliche, dal 1915 al 1918. In questi tre anni si è cercato, quando possibile, di mantenere un filo conduttore con il territorio di

P.S. Il Documentario Le trincee del mare è dedicato al primo conflitto mondiale in Alto Adriatico ed è prodotto dalla sede friulana della RAI a cura dei giornalisti Pietro Spirito e Luigi Zannini che ne firma anche la regia. Verrà proiettato alla mostra di archeologia subacquea Nel mare dell’intitmità: l’archeologia racconta l’Adriatico, allestita

Vicenza. Quanto descritto in quindici numeri, non esaurisce ciò che giace in fondo al mare di questo periodo storico, per cui, spazio permettendo, ci saranno ancora numerose immersioni da raccontare. Un grazie a Sportivissimo per la pubblicazione degli articoli e a tutti coloro che ne hanno permesso la realizzazione fornendo gratuitamente il materiale fotografico e storico.

al salone degli Incanti a Trieste. In questa esposizione si mostra al pubblico, con gli occhi dell’archeologia subacquea, le tante vicende di uomini e merci che si sono svolte sul mare Adriatico e lungo le sue coste, attraverso i secoli. La mostra è aperta fino al 1 maggio 2018.


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valli del pasubio di Federico Pozzer

Anche noi crediamo in te

Fiato, gambe e umiltà: Massimo Guerra di Valli del Pasubio è l’astro nascente del mezzofondo Azzurro, vincitore della borsa di studio “Io credo in te”, ideata dal grande maratoneta Azzurro Orlando Pizzolato

L

’atletica leggera (e in particolare le discipline del mezzofondo) è uno sport adatto per chi ha voglia di far fatica a testa bassa, menando le gambe e affidandosi solo ai propri polmoni perché nessun risultato arriva per caso. Nella regina delle discipline olimpiche servono diverse caratteristiche per andare forte: saper soffrire, faticare, e costanza nell’allenarsi sempre come se si fosse i secondi. Queste cose le sa bene Massimo Guerra, ragazzo d’altri tempi classe ‘98 di Valli del Pasubio, fresco di maglia azzurra ai campionati europei di corsa campestre che si sono corsi il 10 dicembre a Samorin (Slovacchia). Massimo, studente al quinto anno di Ipsia Garbin, è un giovane di una umiltà disarmante. C’entra veramente poco con tanti suoi coetanei di oggi che si montano la testa appena ottengono qualche risultato importante a livello nazionale. Usa pochissimo i social network, non ha acconciature strane,

non è altezzoso. Da buon montanaro, umile al limite della timidezza e gran lavoratore. Corre per l’Atletica Vicentina e si allena allo stadio di Schio. Il giovane atleta di Orlando Pizzolato (ex atleta vicentino vincitore due volte della maratona di New York e ora coach) si è imposto nel 2017 come uno dei prospetti più interessanti del mezzofondo italiano. Ha vestito la maglia della nazionale all’incontro internazionale su strada di Oderzo, mancando poi la qualificazione per gli europei junior per 86 centesimi di secondo sulla distanza dei 3000 siepi, ma togliendosi l’enorme soddisfazione di venir scelto da Stefano Baldini (vincitore della maratona olimpica di Atene 2004) per rappresentare l’Italia nella squadra junior agli europei di corsa campestre disputatisi 20 giorni fa. In quel frangente Massimo è giunto al 46° posto su oltre 100 atleti al via da tutta Europa, quarto su sei della squadra italiana.

Abbiamo intervistato Massi- Una scelta che va verso mo, che gentilmente si è pre- un impegno maggiore stato alle nostre domande. nell’atletica. Quanti sa-

crifici richiede l’attività Da chi sei stato allenato agonistica al tuo livello? negli anni? Molti, indubbiamente. AlIn un primo momento Erika Sella, Valentina Casarotto e Damiano Casalatina. Poi sono stato indirizzato verso Carlo Bocchi, storico allenatore dei mezzofondisti di Schio. Con Carlo ho raccolto risultati importanti nel 2016, tipo il 5° posto ai campionati italiani junior e la partecipazione con la mia società (Atletica Vicentina) alla Coppa Europa di Leira (Portogallo). Poi hai cambiato, e ti sei affidato ad Orlando Pizzolato. Sì, ho cambiato guida tecnica. Ho deciso di affidarmi ad un grandissimo professionista della corsa. Ci siamo avvicinati perché ho vinto la borsa di studio “Io credo in te” elargita proprio da Orlando ai mezzofondisti tra i 16 e 22 anni della zona scledense. Da settembre 2016 ho quindi iniziato a lavorare con lui, cambiando totalmente il modo di allenarmi.

lenamenti ogni giorno e centinaia di chilometri percorsi ogni mese. Conciliare scuola e questo impegno non è facile. Se non fosse per la mia famiglia che mi supporta in tutto e per tutto e per il mio sponsor tecnico non potrei permettermi di allenarmi tutti i giorni in condizioni ottimali. Per me è stato uno scalino importante, al momento tutta la mia giornata ruota attorno all’allenamento e all’essere sempre fisicamente a posto.

Cosa ti ha fatto fare il salto di qualità? Il lavoro quotidiano e sempre più intenso. So che molti vanno più forti di me e l’unico modo che ho per raggiungerli è allenarmi di più e meglio. L’anno scorso sono “sbocciato” vincendo tutte le campestri regionali, poi c’è stato il 4° posto al


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di Samorin. Descrivi le sensazioni di rappresentare l’Italia in un contesto europeo.

è andata bene, ho portato punti alla squadra e ho fatto il mio meglio, accumulando esperienza per i Magnifiche. La convocazio- prossimi appuntamenti di ne è stata una soddisfazio- fianco a tutti quei fenomeni ne enorme. A Samorin ho dell’atletica europea. capito che devo lavorare e correre tanto per arrivare Obiettivi per quest’anDopo Oderzo hai prose- al livello di quelli che sono no? E la tua miglior quaguito nella tua crescita davanti. Vanno veramente lità? fino alla convocazione forte! Per me comunque Obiettivo è migliorare tutto. cross internazionale dei 5 Mulini. Un miglioramento che mi ha fatto guadagnare la convocazione al Trofeo Opitergium di Oderzo, la mia prima maglia azzurra. Una soddisfazione indescrivibile, il mio obiettivo.

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Devo abbassare tutti i miei personali sui 1500, 3000, 3000 siepi. Solo così potrò partecipare ad altre manifestazioni internazionali e realizzare il sogno di diventare un atleta professionista. Solo con la determinazione, che penso sia la mia qualità più importante, riuscirò a farcela.


Chiropratica: la professione per PUBBLIREDAZIONALE a cura di Life Chiropratica la tua salute

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iamo il Dr. Stefano Asnicar e il Dr. Gaetano Fin, dottori in Chiropratica, titolari dello studio LIFE CHIROPRATICA. La chiropratica nasce nel 1895 negli Stati Uniti d’America ad opera di D.D. Palmer, il primo chiropratico dell’era moderna. Dopo cento anni dalla sua nascita, negli USA, si contano più di 70,000 chiropratici. La chiropratica è attualmente, negli Stati Uniti e in Giappone, la professione sanitaria più diffusa tra quelle che non si avvalgono dell’utilizzo di farmaci o medicamenti. La chiropratica è riconosciuta in Italia e nella maggior parte degli stati europei, come professione e può essere esercitata da professionisti con laurea magistrale a ciclo unico (5 anni full-time) in chiropratica. Lo scopo primario della cura chiropratica è quello di controllare la colonna vertebrale, in particolare di rilevare se esistono interferenze neurologiche dovute a mal-allineamenti vertebrali che noi chiamiamo “sublussazioni vertebrali”. Le sublussazioni vertebrali compromettono la funzionalità del sistema nervoso, creando un mal-funzionamento degli organi e dolori diffusi alla colonna (cervicali, dorsali, lombari) e problematiche/scompensi posturali quali scoliosi e cifosi. Il chiropratico quindi, toglie le sublussazioni dalla colonna vertebrale attraverso apposite e specifiche manovre chiamate “aggiustamenti”, in modo tale che il sistema nervoso possa funzionare al 100%, così che tutte le funzioni organiche e corporee siano espresse al massimo potenziale. Il corpo sarà più “forte” e si potranno godere

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di numerosi benefici quali: riduzione di sintomi (in particolare dolori alla colonna vertebrale), maggior energia, sistema immunitario più forte, maggior forza, meno assenze dal lavoro, più concentrazione, maggiore performance sportiva, miglioramento della postura e molto altro. Nei bambini la chiropratica si è dimostrata una cura efficace dei piccoli fastidi che a questa tenera età si possono avere, ma soprattutto si è dimostrata efficace come CURA DI PREVENZIONE! La tua colonna vertebrale necessita di particolare attenzione, molto più di quanto credi!

LIFE CHIROPRATICA: eliminiamo i tuoi fastidiosi problemi e ti aiutiamo a raggiungere un benessere ottimale in poco tempo

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Come ben sai per curare problematiche alla colonna vertebrale, quali mal di schiena, dolori cervicali, sciatica, parestesie e per risolvere numerosi fastidi quotidiani come mal di testa, insonnia, giramenti di testa, vertigini, nervosismo o semplicemente per aumentare il proprio stato di salute è necessario rivolgersi a professionisti qualificati del settore. Ti garantiamo un veloce recupero e un miglioramento del tuo stato di salute generale: • NO a programmi di cura lunghi che risultano a volte inefficaci e difficili da seguire • NIENTE aggiustamenti senza aver prima valutato in maniera oggettiva il paziente con specifici test atti a rilevare dove effettivamente il chiropratico deve agire • BASTA spendere soldi in cure e terapie che non portano alla soddisfazione globale del paziente. PRENOTA LA TUA CONSULENZA GRATUITA PRESSO IL NOSTRO STUDIO

Viale Trieste 66/A, 36073 Cornedo Vicentino Tel. 0445 952272 – 366 3050279 www.life-chiropratica.it info@life-chiropratica.it


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A me non piace e a voi? Il Veneto cambia lo slogan del suo marchio di promozione territoriale: non sarà più “Tra la terra e il cielo”, ma “The land of Venice”. di Luigi Borgo

“Tra terra e il cielo”, francamente, non era un granché: troppo vago, troppo lirico, troppo oscuro, anche

se aveva le sue ragioni: la terra veneta è la più variegata d’Italia con pianure, colline e montagne, fiumi, laghi e mare, e il cielo veneto è davvero unico, a volte tra il rosa e il celeste com’è nei quadri del Giorgione, sublime pittore veneto. Ma quello slogan non parlava delle nostre città e quindi della nostra storia. Ne veniva fuori un Veneto wild, terra selvaggia, che proprio non è. “Tra terra e cielo” sarebbe stato ottimo per il Kansas. Allora adesso è uscito questo “Veneto: The land of Venice”, presentato ufficialmente alla Borsa Internazionale del turismo di

Milano da Zaia in persona, che ha dichiarato: “spesso le soluzioni più efficaci sono le più semplici. Oggi ci dotiamo con sole quattro parole di uno strumento di marketing territoriale che permetterà l’immediato accostamento tra il nostro brand di punta, la città di Venezia, e il territorio che la circonda. I turisti internazionali arrivano per visitare Venezia che è universalmente conosciuta ma non associano immediatamente la città alla sua Regione di appartenenza. Ora abbiamo invece uno strumento in più per decongestionare e regolare i flussi di turisti che si concentrano in Laguna. Per evitare di sovraffollare Venezia è necessario anche spiegare bene qual è l’alternativa: un’intera regione che può offrire esperienze per ogni tipologia di turista”. Assolutamente vero. Il Veneto è tutto magico. Ma questo

slogan, in inglese poi, che lo rende oltremodo commerciale, quindi assolutamente inelegante, presenta l’intero territorio veneto come estensione, dominio o periferia o giardino, di Venezia, che proprio non è.

Non credo che questo slogan durerà a lungo, anche perché ne abbiamo uno, ancora più semplice e breve, come piace a Zaia, solo due parole, che racconta tutto del Veneto e del suo spirito, della sua storia e delle sue città, delle sue terre e delle sue bellezze, dell’anima delle sue genti, ed è “Veneto: serenissima terra”, uno slogan che ha più di mille anni e infiniti contenuti per dire al mondo chi davvero noi siamo.

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