Speechless Magazine N° 2

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L'immagine di copertina e tutte le immagini di Simone Bianchi sono proprietà della Marvel (© 2012) gentilmente concesse a Speechless Magazine per questo numero.

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la REDAZIONE

DIRETTORE EDITORIALE Alessandra Zengo DIRETTORE RESPONSABILE Selene Pascarella CREATIVE DESIGNER Petra Zari COVER ARTIST Simone Bianchi REDAZIONE Marina Albamonte Giovanni Arduino Stefania Auci Valentina Bettio Alexia Bianchini Elena Bigoni Andrea Bresson Elisabetta Bricca Andrea Cattaneo Valentina Coluccelli Claudio Cordella Roberta de Tomi Fabio di Pietro Pia Ferrara Roberto Gerilli Carlo Lanna Barbara Maio Giulia Marengo Miriam Mastrovito Marco Piva-Dittrich Elisabetta Ossimoro Elena Raugei Manuela Salvi Francesca Scotti Christian Soddu Maila Daniela Tritto Federica Urso Andrea Veglia

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SI RINGRAZIANO Maurizio Bettini Simone Bianchi Rita Charbonnier Elisabetta Chicco Vitzizzai Rebecca Coleman Melanie Delon Natasa Dragnic Victoria Frances Marco Guadalupi Francesca Lia Block Loredana Lipperini Stefano Manferlotti Romano Montroni Tomoko Nagao Dan Panosian Vicky Satlow Wu Ming 4 ILLUSTRATRICI Max Rambaldi Claudia Cocci CORREZIONE BOZZE Cristiana Melis

SEGUICI ONLINE! SPEECHLESS magazine www.speechlessmagazine.com redazione@speechlessmagazine.com Speechless Magazine @Speechlessmag Speechlessmagazine URBAN FANTASY - Portale dedicato al Fantastico www.urban-fantasy.it DIARIO DI PENSIERI PERSI - Blog Letterario Collettivo www.diariodipensieripersi.com


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editoriAle  8 di Alessandra Zengo  10 IL RICORDO di Loredana Lipperini

coverartist  13 Simone Bianchi e i supereroi made in Italy di Roberto Gerilli

Musica  20 RUBRICA – Giro di voci di Elena Raugei

Editoria

NUMERODUE

sommario

 24 RUBRICA – Pixel Rubati di Giovanni Arduino  26 INTERVISTA – Vicki Satlow: al cuore delle parole di Elisabetta Bricca  28 RUBRICA – Nuovo atlante del libro: La Frontiera di Fabio di Pietro  30 Voci dallo spazio bianco tra le righe di Alessandra Roccato  32 RUBRICA – West Egg, Vaghezie dell'editor di Christian Soddu  34 Il fascino discreto della Libreria di Stefania Auci  38 RUBRICA – Il sottoscala di Manuela Salvi  40 INTERVISTA – Le metamorfosi del testo: Maurizio Bettini di Andrea Veglia


 48 Killing me softly, 50 sfumature di stalking nel sexy romance di Selene Pascarella  54 Tra vendette e compromessi: uno sguardo sulle donne di Maila Daniela Tritto  58 Piccole (e grandi) donne in cucina di Elisabetta Ossimoro  62 RACCONTO – Tre indimenticabili giorni di Rita Charbonnier  64 Le parole del nostro destino: quando l'amore supera i confini del tempo di Roberta de Tomi  66 INTERVISTA – Le relazioni pericolose: quando l'amante è un teenager di Alessandra Zengo  70 Miradar: Crocevia di solitudini interrotte di Elisabetta Ossimoro  72 RACCONTO – Faccia di Luna di Natasa Dragnic  74 Qualcosa di scritto che ti porta dentro a Petrolio di Viviana Filippini  78 Charles Dickens, il cantore dell'epoca vittoriana di Stefania Auci  82 Vita e morte di Lady Lazarus di Elisabetta Bricca  84 La seconda a destra, e poi dritto fino al mattino di Andrea Cattaneo  88 La dittatura delle fascette di Andrea Bresson  91 INTERVISTA – Memorie di Birra Man: Intervista a Victor Gischler di Marco Piva e Roberto Gerilli  94 RACCONTO – Un'ora movimentata di Arthur Conan Doyle  104 Fumo e specchi: l'immaginario di Neil Gaiman di Giulia Marengo  108 L'orda del vento: come coniugare fantasia, letteratura e successo di Claudio Cordella  111 RACCONTO – Figlia del Crepuscolo di Wu Ming 4  118 Angeli (sempre più) pericolosi di Giovanni Arduino  122 Battle Royale: tra sadismo e spirito di sopravvivenza di Federica Urso  124 RUBRICA – Viaggio nei luoghi dell'immaginario di Miriam Mastrovito  126 RACCONTO – Psycopatic Love di Marco Guadalupi  134 La principessa sposa: quando la storia è davvero infinita di Valentina Coluccelli

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sommario

Letteratura


Arte  140 Tomoko e Francesca  147 L'universo illustrato di Victoria Frances di Elena Bigoni

Cinema & serie tv  156 È un film? È un fumetto? No, è un Cinecomic! di Roberto Gerilli  160 The newsroom, quando il vero giornalismo torna a far notizia di Roberto Gerilli  162 Sons of Anarchy: storia e gloria di una dinastia di antieroi di Elena Bigoni  164 Il fascino dell’eccesso, ovvero perché amiamo True Blood di Barbara Maio  168 Six Feet Under e la sepoltura della morte di Elisa Emiliani  172 Homeland, caccia alla spia di Carlo Lanna  174 La fine di un'epoca, la morte degli ideali: Parade's End di Stefania Auci  178 King of Darkness: Tim Burton, macabro e malinconico menestrello di Alexia Bianchini  182 Miyazaki: cantastorie per i piccoli, sensei per i grandi di Valentina Coluccelli  188 Il mondo di Avatar e l'animazione che arriva da ovest di Pia Ferrara

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sommario

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stretch your fantasy, empower your IDEAS and di ALESSANDRA ZENGO

Illustrazione © Melanie Delon

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opo tre lunghi e faticosi mesi, torno a scrivere su queste pagine virtuali. Con grande attesa per l'uscita del secondo numero e per il responso dei lettori. Perché sono proprio i tantissimi lettori che hanno reso possibile questa splendida avventura; un percorso rappresentato da una commistione intelligente tra diverse forme di espressione: arte, letteratura, cinema e musica. I feedback positivi ricevuti non hanno fatto altro che accrescere la spinta al miglioramento, e infatti Speechless #2 è uscita diversa, più sobria ed elegante nella grafica, più definita nei contenuti. In molti hanno chiesto un'edizione cartacea della nostra rivista, ma la verità è che Speechless senza il supporto digitale non sarebbe mai esistita. Perché? Perché una rivista di cultura in edicola non è destinata a durare, soprattutto in un periodo in cui anche i settimanali più famosi arrancano. Inoltre, è più semplice distribuire una rivista in e-Book, che richiede costi nettamente inferiori. Ma non disperiamo, perché nell'era delle nuove tecnologie riusciamo a raggiungere grazie a Internet centinaia di migliaia di lettori, che molto probabilmente non ci avrebbero scoperto con la sola uscita in edicola. La fruizione è ampia, e il passaparola ci aiuta ogni giorno a farci conoscere anche negli anfratti più bui e dimenticati della rete, forse. In questo nuovo numero abbiamo deciso di dare più spazio all'espressione artistica. Speechless ospita, ancora

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una volta, artisti di fama internazionale: Victoria Frances, illustratrice spagnola che ha conosciuto il successo grazie alla pubblicazione di Favole; Tomoko Nagao, una delle maggiori esponenti della cultura MicroPop giapponese; e Dan Panosian, talentuoso fumettista statunitense. Le opere dell'italiano Simone Bianchi poi, disegnatore per Marvel, DC Comics e Bonelli, e cover artist per questo numero 2, sono impreziosite dalle illustrazioni interne di Max Rambaldi e Claudia Cocci. Per accompagnare la lettura di Speechless, Elena Raugei, giornalista che collabora anche con la storica rivista di musica Il Mucchio Selvaggio, segnala gli albi musicali più interessanti dell'ultimo periodo, con un focus su Alessandro Fiori, uno dei songwriter più originali in circolazione. Inoltre, autori di talento sia italiani che stranieri hanno deciso di contribuire al progetto. Marco Guadalupi, esordiente amante del genere fantastico, si destreggia insieme al veterano Wu Ming 4 tra due narratrici di calibro internazionale, come Rita Charbonnier e Natasa Dragnic. Guest Author: Sir Arthur Conan Doyle che, raggiunto tramite una riuscitissima seduta spiritica, ci ha concesso l'onore di pubblicare un suo racconto. E non è finita qui, cari lettori. Essendo io tormentata quotidianamente da idee folli, per Halloween non potevo esimermi dal pensare a voi. È nata così l'idea di I fuochi di Samhain, una raccolta di racconti

con protagoniste le streghe, le figlie della notte per eccellenza. Quale miglior modo di augurarvi una buona notte di Ognissanti? Le madrine d'eccezione di questa raccolta stregata, che vanta una cover illustrata da Victoria Frances, saranno Barbara Baraldi, autrice della prefazione, e Vanna de Angelis, che ci delizierà con un saggio conclusivo sulle indiscusse protagoniste dei racconti. Speechless è, insomma, una fucina di menti produttive. Ed è a questo microcosmo culturale che una delle maggiori scrittrici italiane di fantastico ha voluto lasciare la sua ultima opera, il racconto breve Ragazza che passa. Questo numero si aprirà con il ricordo sentito e nostalgico di un'amica per un'amica, di una grande autrice per una grande autrice; un omaggio alla donna e scrittrice che Chiara Palazzolo è stata. Per concludere questo editoriale, scritto a ridosso della pubblicazione (sono una ritardataria cronica), ho il piacere di annunciare che d'ora in avanti sarò coadiuvata dall'esperienza di Selene Pascarella, novello Direttore Responsabile di Speechless. Insomma, dovrò dividere il mio vertice con un'altra allegra donzella. E speriamo di starci, in due. Quindi ora, terminati i consueti deliri di rito, non mi resta che ringraziarvi per essere giunti alla fine di questo sconclusionato editoriale (se ci siete arrivati, ed è tutto da dimostrare!) e augurarvi buona lettura!

Now, don't talk, folks, just read! Scrivetemi a: alessandra.zengo@gmail.com

editoriAle

relax your mind reading

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N

ell’ultima scena di Giù la testa di Sergio Leone, Juan Miranda si volta verso il treno che sta per esplodere e dove il suo amico Johnny Mallory giace ferito a morte. Urla “Johnny”, e mentre lo fa sboccia un’onda di fuoco e fumo. Miranda guarda, con dolore e stupore negli occhi, e dice “E adesso, io?”. Giù la testa è una storia di amicizia maschile: legame che è stato celebrato e idealizzato fin da quando gli uomini hanno cominciato a raccontare. Da Oreste e Pilade fino al Cacciatore di Aquiloni, l’amicizia maschile non solo non è mai stata messa in dubbio, ma è stata spesso anteposta all’amore, o narrata come sentimento più puro e affidabile del medesimo. Al contrario, l’amicizia femminile non solo conosce in minima parte le glorie della letteratura o del cinema (con poche eccezioni, in questo caso, e su tutte Giulia, che Fred Zinnemann trasse nel 1977 da Pentimento di Lilian Hellman), ma viene spesso negata, o avvelenata dalle insidie della competizione, della rivalità, dell’invidia, dell’inaffidabilità. A farlo sono, molto spesso, le stesse donne. Juan Miranda e Lilian Hellman mi

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tengono compagnia dal 6 agosto, da quando Chiara Palazzolo, la mia amica più cara, è morta. Il suo ultimo romanzo, Nel bosco di Aus, è un romanzo sull’amicizia femminile, fra le molte altre cose. E sulla sua perdita: Rita, la migliore amica della protagonista, muore nelle prime pagine, e fino alle ultime righe Carla continuerà a sentirne la mancanza e a portare fiori rossi sulla sua tomba. Amanda Satriani, una delle streghe del bosco, racconta a Carla di aver perso un’amica, e dice anche che questo tipo di dolore viene raramente capito, come se fosse un dolore secondario, come se i dolori potessero essere divisi in primari e secondari. Dunque, mi è molto difficile parlare di Chiara come Chiara meriterebbe. Raccontare quel che ha fatto per la letteratura fantastica (e non solo). Raccontare i suoi personaggi femminili,


sempre divisi fra bene e male, due lingue della stessa fiamma, Mirta e Luna, Carla ed Ecate. Raccontare la sua lingua e la complessità dei suoi mondi, nascosti dietro storie di architettura impeccabile. Prima o poi, spero di farlo, e spero che molti altri lo facciano, come è già avvenuto in questi mesi.

Chiara con Mirta e Clara Illustrazione © Claudia Cocci

A Speechless (che Chiara amava molto, e che vedeva come uno dei luoghi dove intraprendere una discussione approfondita sul genere), per ora, posso solo consegnare la nostalgia, queste poche righe e la frase di Juan Miranda, “E adesso, io?”. Il resto, forse, verrà, perché anche i dolori più forti si attenuano. Passa, come tutto nella vita, scriveva Chiara nell’ultima pagina di Nel bosco di Aus. Ecco, su questo aveva torto: non passa.

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Il Ricordo di Loredana Lipperini


WOLVERINE ORIGINS

www.simonebianchi.com


13 di ROBERTO GERILLI

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Simone

Bianchi e i supereroi made in italy

Volendo fornire alcune note biografiche più dettagliate, possiamo dirvi che Simone Bianchi è nato a Lucca, quarant’anni or sono ed è cresciuto a pane e fumetti (come ogni disegnatore che si rispetti). Il suo primo lavoro, una striscia umoristica, lo pubblica a soli quindici anni sulle pagine de Il Tirreno e nella seconda metà degli anni ’90, dopo una discreta gavetta su varie testate regionali e nazionali, raggiunge

CoverArtist

er presentare SIMONE BIANCHI sarebbe sufficiente citare tre degli editori per cui ha lavorato e lavora tutt’ora: Bonelli, DC Comics e Marvel. Tre colossi che hanno fatto e fanno la storia del fumetto e che riassumono gran parte del panorama immaginifico di un appassionato italiano (e non solo).


la fama illustrando la prima edizione di Nembo e Rivan Ryan e venti tavole di Brendon per la Sergio Bonelli Editore. I suoi lavori vengono molto apprezzati tanto che nel 1998 vengono esibiti accanto a quelli di illustri colleghi come Will Eisner, Andy Kubert e Adam Kubert. Con il nuovo millennio inizia a insegnare anatomia per fumetti nella Scuola Internazionale del Fumetto di Firenze e inizia a farsi conoscere anche fuori dai confini nazionali tanto che nel 2005 viene scelto dalla DC Comics per illustrare la miniserie Shining Kinght, su testi di Grant Morrison. Bianchi stesso definisce questo evento come lo spartiacque della sua carriera. Il lavoro gli dà visibilità internazionale. Inizia a collaborare assiduamente con la DC creando le copertine di molte serie (tra cui Green Lantern, Batman e Detective Stories) e l’anno successivo “attraversa la strada” e firma un contratto in esclusiva per la Marvel. Per la casa editrice fondata da Stan Lee, Bianchi lavora su moltissime serie tra cui Wolverine Origins, Astonishing X-Men (per cui ha il compito di ridisegnare i costumi dei supereroi mutanti), Dark Avengers XMen: Utopia, Thor: For Asgard e Black Panther The Man Without Fear. Simone Bianchi è al momento uno dei più noti disegnatori italiani nel mondo e siamo orgogliosi di poterlo ospitare qui, nelle pagine digitali della nostra rivista.

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SPEECHLESS: Hai avuto la fortuna di lavorare sia in Italia che negli Stati Uniti. C'è molta differenza nell'approccio al lavoro artistico? SIMONE BIANCHI: No. Forse, in particolare alla Marvel e alla DC c’è un pochino più di libertà, nel senso che nel fumetto Bonelli, di cui io sono lettore accanito, ci sono delle restrizioni di gabbia tradizionali che ti impongono delle scelte un po’ più forzate. Da questo punto di vista forse negli Stati Uniti c’è una libertà di interpretazione della tavola scritta più arbitraria. S: Da un punto di vista culturale, invece,


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ASTONISHING X-MEN

pensi che italiani e americani diano lo stesso significato al mondo dei fumetti?

S: La rivalità tra la Marvel e la DC Comics è molto sentita dai fan. È un antagonismo di facciata o è radicato anche nei rispettivi ambienti di lavoro? SB: Direi che è piuttosto radicato. C’è uno spirito di squadra quasi cameratistico abbastanza evidente e percepibile “su entrambi i lati della strada” come dicono loro. S: Quanto lavoro c'è dietro a una tua illustrazione completa? Qual è il tuo approccio verso una nuova commissione? Quante e quali fasi di lavoro intercorrono tra l'idea iniziale e il prodotto finito? SB: Dipende moltissimo. Guarda, fino a circa 2 mesi fa era bozzetto in piccolo- riferimento fotografico per lo studio delle luci e delle pose – matita dettagliata – china, per poi passare il lavoro al mio colorista Simone Peruzzi e da questi al lettering. Negli ultimi tempi ho eliminato i riferimenti fotografici e passo direttamente da una matita veloce, istintiva su foglio A3, alla china. Ho cercato di semplificare il

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SB: Questa è una bella domanda. Forse in America è ancora più percepito come pura forma di intrattenimento, almeno per quello che riguarda le 2 grandi Case Editrici, che non come forma di espressione culturale. Però anche là le cose si stanno un po’ muovendo. Tanto per fare un esempio, Alex Ross ha appena terminato un’esibizione personale di ampio impatto emotivo e mediatico al Museo di Andy Warhol.


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THOR: FOR ASGARD


processo perché il risultato finale fosse più immediato, diretto, fresco. Ho avuto la sensazione che nei vari passaggi si rischiasse di perdere una parte di quella carica che avevo visto in fase iniziale. S: Quali fumetti ti hanno colpito tanto da farti sognare di diventare disegnatore? SB: Tutti quelli della Casa Editrice Corno e il numero 1 di Nathan Never di Claudio Castellini. S: Quali sono stati gli artisti che ti hanno ispirato maggiormente? Cosa si prova a diventare fonte d'ispirazione per giovani appassionati? SB: Claudio Castellini è stato colui che mi ha dato la voglia di ricominciare a disegnare, poi

ALLEGORY OF BEHING AND HAVING Enrique e Alberto Breccia, Trevis Charest, Frazzetta, Brom e Phil Hale; Alex Ross e più recentemente Olivier Coipel, che penso sia il miglior disegnatore a livello di storytelling e di interni al momento nell’ambiente. Dopo di me, ovviamente (risate a profusione). Oddio, riguardo ai giovani, è una percezione un po’ distorta perché li incontro solo alle fiere, per il resto dell’anno me ne sto rinchiuso a disegnare, quindi è quasi una fama virtuale. Sicuramente quando li incontro e mi manifestano affetto, è un motivo di grandissimo orgoglio e gratificazione allo stesso tempo. S: Quali sono state le tappe cardine della tua carriera? Quando hai capito di essere un professionista affermato nel tuo campo? SB: Sicuramente Shining Knight nel 2005 su

CoverArtist

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testi di Grant Morrison è stato lo spartiacque. Per la prima volta ho avuto attenzione non solo dai lettori Italiani ma anche a livello internazionale, per ovvi motivi di distribuzione. Al di là della scontatezza del fatto che a livello creativo non c’è veramente mai un punto di arrivo, da un punto di vista di riconoscibilità e di fama sicuramente il fatto di frequentare le conventions e fare signing anche all’estero e vedere un certo seguito ti dà una sensazione positiva su quello che sei riuscito a fare fino a quel momento.

Carnevale, di giovani mi piacciono moltissimo Matteo Scalera, Michele Bertilorenzi e non fra i giovani perché è molto affermato, mi piace molto il lavoro di Carmine Di Giandomenico.

S: Cosa ne pensi del panorama disegnatori/fumettisti in Italia? E all'estero?

SB: Ritirarmi e finalmente consegnare queste braccia al mestiere che più compete loro: l’agricoltura. Scherzi a parte, ce n’è uno enorme ma per la prima volta, per darvi la misura di quanto è segreto, dovrò firmare un Contratto di Riservatezza!

SB: In Italia, tolti ovviamente i grandi nomi che non hanno nemmeno bisogno che li citi, su tutti Castellini, Villa, Mastantuono, ovviamente Toppi, Frezzato, Dell’Otto,

AGE OF X

S: Qual è l'opera di cui vai più fiero? SB: A livello di visibilità e prestigio, il fatto di aver ridisegnato i costumi degli X-Men. A livello creativo, Thor per Asgard e questa ultima run di Evolution. S: Quali sono i tuoi progetti futuri?

COLOSSUS


CoverArtist UNCANNY XFORCE

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20 rubrica di di ELENA RAUGEI ZOOM Alessandro Fiori

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ra i songwriter più originali in circolazione, Alessandro Fiori ha alle spalle la lunga esperienza come cantante e paroliere dei pirotecnici Mariposa: “La mia band-madre, con cui sono partito e arrivato dove sono. Abbiamo fatto tante cose con libertà e forse un po’ di spocchia. Comunque, ci siamo creati un nostro piccolo spazio con cocciutaggine e coerenza d’approccio, non perché pensassimo che l’indie avesse bisogno di noi ma perché semplicemente noi stessi avevamo bisogno di noi. A novembre dell’anno scorso sono uscito dal gruppo perché non riuscivo più a dare e ricevere come prima”. L’esordio solistico del 2010, Attento a me stesso, era stato annunciato come “Il disco del moto a luogo”, mentre il nuovo Questo dolce museo come “il disco dello stato in luogo”: “Ciò che scrivo è filtrato, è il mio olio essenziale e il mio divenire. Ciò che scrivo sono io ancora più di me stesso e non comprende la teatralità della rappresentazione esperienziale, gli (auto)inganni del relazionarsi, del trovarsi un posto, darsi un senso e così via. Capisco qualcosa di me solo ascoltando i miei brani, che a volte infatti non capisco bene. Attento a me stesso è stato fondamentale, legato a un momento di passaggio con cambiamenti: “moto a luogo” perché la mia vita è approdata altrove. Questo dolce museo, invece, è nato all’ombra di una creazione unica, più grande: mia figlia. È una frenata, una pausa durante la quale forze e ingegno bruciano per lei

e per sua madre, che ne è in simbiosi l’alter ego. Ho osservato, mi sono svuotato e riempito, e l’album non poteva far altro che assecondarmi”. A dispetto degli arrangiamenti curatissimi e dei tanti strumenti impiegati, Questo dolce museo è nel complesso maggiormente uniforme, delicato e avvolgente: “Sto aspettando i pareri altrui, ma senza dubbio è un lavoro molto diverso dal primo disco, che di base aveva un ritmo più vario e un impasto timbrico più acustico”. Fiori si rapporta al meglio con la nostra tradizione cantautorale, da Lucio Dalla a Enzo Jannacci, e al contempo esalta la sua verve eccentrica: “Credo che Dalla e Jannacci fossero ben più eccentrici di me. Se si vive con pudicizia, curiosità e responsabilità, l’essere artista giorno per giorno è sintesi tra memoria storica e innovazione”. La poetica, immediatamente riconoscibile, dosa sensibilità e ironia, così come citazioni alte e basse, da Hemingway al SuperTeleGattone: “Mi fa piacere che la mia poetica sia riconoscibile, che di mio si leggano poesie, racconti o canzoni. Il mix di sensibilità e ironia, attitudini che vanno abbastanza di pari passo, è caratteristica di altri colleghi, come Dente o Brunori Sas. Basti poi pensare a eccellenti esempi del passato quali Pier Paolo Pasolini, Enzo Biagi, Carmelo Bene e Federico Fellini. Se un testo non viene fuori, vuol dire che non è pronto o che addirittura non c’è, quindi – anziché perder tempo nel cercare di estrapolare qualcosa di poco auten-


tico – preferisco dipingere”. Ecco, la pittura è da sempre una passione, tanto che il musicista toscano ha curato personalmente la copertina di Questo dolce museo: “La veste grafica è in sintonia con lo spaesamento generale. Sono impaziente di vedere mia figlia disegnare, la prima modalità espressiva alla quale ancora oggi mi dedico. Con la mia compagna abbiamo inaugurato l’Ibexhouse, studio/laboratorio dove sono già state ideate le confezioni dei miei ultimi cd e dei miei prossimi progetti, Betti Barsantini e Assodifiori. L’artwork trasmette al disco direzionalità comunicativa, oltre che dignità e

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valore in quanto oggetto fisico”. A proposito di Betti Barsantini, duo fondato assieme a Marco Parente, e Assodifiori, in coppia con Alessandro “Asso” Stefana, il futuro si prospetta in fermento: “Il debutto dei Betti Barsantini sarà molto pop, fresco e diretto, venato di punk. Mi aspettano anche l’uscita del primo album di Assodifiori e del vinile Cascata, a mio nome”. Per surreale conclusione, cosa racchiuderebbe Alessandro Fiori nelle teche del suo personale museo? “Un orto coltivato con amore, un pollaio, una cagnetta, dei funghi porcini e parecchia legna da ardere”.

GRANDANGOLO Cat Power – Sun

Alt-J – An Awesome Wave

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nato il folk step, è arrivato l’esordiochiave del 2012. Premendo Alt e J sulla tastiera di un computer Mac appare il triangolare simbolo Delta, che nelle equazioni esprime cambiamento. La band inglese cambia a sua volta le regole dello storytelling fondendo tradizione e modernità.

The Xx - Coexist

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on l’omonimo debutto ci aveva consegnato uno dei capolavori degli anni Zero. Ora il trio londinese conferma le belle promesse con un pop che unisce il calore soul delle voci alla glacialità dell’elettronica, avvolge con cupezza o si fa ballabile preservando intimismo. Da ascoltare in cuffia.

Yeasayer – Fragrant World

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lchimisti neo-psichedelici al terzo album, i tre artisti newyorkesi proseguono nell’ibridare dance, funk e R&B, trame sintetiche, ritmiche tribali, nuance esotiche, voci filtrate e infettive melodie freak. Specchio di un mondo stimolante, dove i confini di genere sono stati per fortuna aboliti.

David Byrne & St. Vincent – Love This Giant

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ex leader dei rivoluzionari Talking Heads, nome di punta della new wave, e una delle più innovative songwriter di oggi, capace di destrutturare la forma-canzone con la sua chitarra elettrica, uniscono le forze per un disco realizzato a metà. Pop-rock sperimentale con fiati sontuosi.

Musica

L'

eroina del cantautorato minimale e sofferto torna con un album spiazzante. Fa tutto da sola: compone, suona, canta, produce. Una svolta elettronica, qua e là screziata di venature etno, che tende verso l’esterno con immediatezza e si lascia a tratti illuminare da un nuovo ottimismo.




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Come sempre Pixel Rubati ruba. Oppure accetta quello che viene gentilmente offerto. Come in questo caso: un'e-mail mandata da un'amica che l'ha ricevuta da un'altra amica che a sua volta gliel'ha inoltrata, eccetera eccetera. La pubblico senza tagli, cambiando solo i nomi per proteggere colpevoli e innocenti. Statemi sani, buone letture e continuate a inviare al solito giovanniarduino@gmail.com

P IX E L RUBATI di GIOVANNI ARDUINO

e da lle m ill e sf um aterzur iamo?) (altro che solo cinquanta,

ma sch


e poi forse lui scortica e IMPRIGIONA me che è anche meglio perché come ho letto sul Panorama che mi ha prestato Graziella il sogno di ogni donna è di essere sottomessa e poi in fondo siamo tutte un po' geishe, non trovi ciccia?, e insomma credo che si stia rivelando una parte nascosta di me e ASSOLUTAMENTE lo devo a questa scoperta e in ufficio stamattina ho iniziato a parlarne con la stagista ventenne che, poverina, con il contratto che si ritrova, anzi il non-contratto, ih ih ih, vabbe' è giovane e deve fare esperienza, e ti dicevo che lei mi sembra un pochino stanca e le ho detto che forse aveva bisogno di più PEPE e le ho fatto l'occhiolino come credo mi abbia fatto la cassiera e lei mi ha risposto che è stanca proprio perché il PEPE non manca e ha sorriso e alla fine ci siamo fatte una risata, anzi, no, forse ho riso solo io e lei ha continuato a sorridere, ma non importa, tanto ho iniziato a scrivere dei commentini a lato delle pagine dei romanzi e sottolineare le frasi e le righe che mi sono piaciute di più e poi li passo a Mario perché impari e li metta in pratica il martedì e intanto aspetto che arrivino le ordinazioni da internet e ih ih ih, ma dai, perché non te li compri anche tu così mi racconti come funzionano per te (ogni tanto ti vedi ancora con Giorgio? anche se non è un quadro non dovrebbe fare troppa fatica a capire questi libri), perché devi smettere di leggere solo Fabio Volo e Federica Bosco e Massimo Gramellini anche se come scrittori, ASSOLUTAMENTE, tanto di cappello... ciao ciccia come sempre ti voglio un mondo di bene, smack <3 <3 <3

Editoria

Ciao ciccia... ti volevo raccontare di questo libro, anzi, non è uno ma sono tre, me li sono comperati all'iper perché in libreria mi vergognavo un po', all'iper li ho mischiati alle barrette pesoforma e al tonno al naturale e nessuno se ne è accorto, anche se mi pare che la cassiera mi abbia fatto l'occhiolino, vabbe', comunque, ho iniziato a leggere il primo l'altroieri sera e ho finito il terzo che erano le cinque del mattino, Mario dormiva vicino a me perché era martedì e può raccontare alla moglie di restare a casa di uno dei suoi amici del calcetto e comunque così non turba la mia singletudine (ti piace la parola? l'ho inventata, ih ih ih, forse anch'io dovrei scrivere), e va bene, allora l'ho svegliato e l'ho scorticato vivo, accidenti se sono potenti questi libri, e sono anche scritti bene, cioè non ti senti come se avessi visto un porno, le descrizioni fanno morire (sono anche un po' ironiche, ih ih ih) e poi ti insegnano delle cose, sono meglio di un manuale, tipo, io la storia del contratto in un rapporto mica la sapevo, e poi lei è così dooolce e lui, pensa, lo dice nel libro che fotte senza pietà, quindi puoi capire, e comunque si amano, lo senti proprio, alla fine si vogliono sposare (non che io lo farei, ih ih ih, con gli anta vicinissimi e la singletudine che adoro tranne quando sono sola) ed è un'idea così carina, dooolce anche questa, e mi ha fatto capire che il sadomaso (si chiama così, l'ho cercato su google) può essere una novità per qualsiasi relazione e ho visitato molti siti e ho visto anche molte robe non descritte nei romanzi e le ho ordinate e poi a Mario lo scortico davvero, ih ih ih,

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Vicki Satlow: al cu re delle parole di ELISABETTA BRICCA

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INTERVISTA

on conosco Mrs Satlow di persona, eppure, girando sul web, mi sono fatta di lei l'idea di una specie di dea degli agenti. Rispettata, potente, temuta e schiva. Non vi nascondo una certa reticenza nel momento in cui sono andata a contattarla per un'intervista su Speechless, e la mia sorpresa nell'avere, da parte sua, una risposta immediata ed entusiasta. Vicki Satlow, nata americana, e specificatamente bostoniana, trapiantata in Italia da un bel po’ di anni, rappresenta scrittori del calibro di Susanna Tamaro, Paola Calvetti e il giovane Mattia Signorini, solo per fare alcuni nomi. Crede negli autori che rappresenta, li sostiene, li tutela. E, soprattutto, ci mette il cuore. Ho dato un’occhiata a diverse interviste video da lei rilasciate e sono rimasta piacevolmente colpita dal sorriso di questa donna. Un sorriso che arriva a illuminare gli occhi. Somewhere over the raimbow, cantava qualcuno, e Vicki sembra proprio avere tutte le capacità per portare i suoi autori oltre la linea dell’arcobaleno.

26 Speechless: Ciao Vicki e benvenuta su Speechless. Cominciamo l'intervista con una domanda un po' scomoda: la crisi, più o meno confermata, e comunque vociferata, dell'editoria italiana. Cosa dobbiamo aspettarci per il futuro? Vicky Satlow: Si pretende sempre di più che l'autore si spenda con la promozione, i media, presentazioni etc. Le case editrici puntano su meno titoli ma con più forza di prima. Ma la richiesta anzi, il bisogno di grandi storie e di narrazione che commuove rimane. E solo la collocazione di questo contenuto che sarà modificato. S: Classici, storici, mainstream, fantasy, crossover, fantastico quale di questi generi, oltre i classici, è più semplice da vendere a un editore? E perché? Quali sono invece quelli che "sopportano" meglio la crisi del libro e che avranno successo nei prossimi mesi? VS: Paradossalmente è la copia di che si vende meglio. Quando propongo una storia fuori il trend oppure un genere fuori moda ricevo obiezioni. Eppure tutti i grandi fenomeni (da


S: Qual è la linea della tua agenzia? Su quale tipo di storie puntate? VS: Non ho una linea e non pretendo neanche di saper valutare un libro. So solo quello che piace a me e mi commuove. Tutto qui. S: Sei una delle agenti più quotate, e ricercate, sul mercato editoriale italiano. Quanti manoscritti ti arrivano ogni settimana e cosa deve avere una storia per colpire la tua attenzione? VS: Mi arrivano intorno a 20 proposte ogni giorno e il libro deve catturarmi – o per la scrittura o per la storia e poi deve lasciarmi in qualche modo cambiata. S: Qual è il tuo rapporto con l'autore che scegli di rappresentare?

S: Omologazione dei gusti. Mi sembra che il pubblico italiano stia andando sempre più verso questa direzione. Sbaglio? VS: Difficile sapere: di sicuro le librerie vanno in quella direzione e di conseguenza i lettori. Ma l'e-book e librerie online potrebbero cambiare questo trend. S: Avresti rappresentato E. L. James? VS: Ah! Me lo sono chiesto tante volte. Credo di sì. Il libro si fa leggere velocemente e la tensione drammatica c'è. Certo io, come tutti gli editori a cui l'ha inviato, mi sarei chiesto se c'era un mercato. S: E-book. Ben disposta o contraria? VS: Assolutamente ben disposta. Il futuro sta solo negli accordi di vendita, cioè prezzo di copertina.

VS: Di fiducia totale e rispetto. Pretendo che i miei scrittori si comportino come professionisti e investano in se stessi quanto io e l'editore investiamo in loro.

S: Cosa rende un romanzo un bestseller?

S: Sentiamo spesso dire dagli agenti che un libro scritto con il cuore, che abbia una propria voce, è ciò che cercano. Cos'altro deve esserci, secondo te?

VS: In questo momento: Biografia di Agsassi, Dalai Lama e The Pearl.

VS: Una vera storia da raccontare

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VS: Se sapessi.....! S: I tre libri sul comodino di Vicki Satlow?

S: E il tuo sogno come agente? VS: Poter cambiare il mondo... come tutti i bambini.

Editoria

Harry Potter a 50 shades) sono stati sorprese inaspettate.


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N U O V O

A T L A N RTOE DEL LIB

di FABIO DI PIETRO

LA FRONTIERA Prima Tappa

C'

è chi dice che il mondo dell'editoria libraria è percorso da una grande, ottimistica euforia riguardo alle nuove possibilità aperte dal libro digitale. E c'è chi sospetta che si tratti di uno scodinzolio, per imbonire un conquistatore che potrebbe portare via prestigio e lavoro a molti. Chi ha ragione, se qualcuno ha ragione? La verità è che noi lavoratori dell'editoria siamo qui, con i nostri scarponi di fatica e il nostro zaino d'esperienza, e non sappiamo dove andare. La mappa che ci ha guidati finora non vale più, le strade che sappiamo percorrere a memoria finiscono sullo sterrato. Le pianure sono state troppo edificate, le vette spianate. Il pilota automatico ci porta in vicoli ciechi, ma tanti anni a fidarsi di lui hanno atrofizzato la nostra capacità di trovare percorsi alternativi. Tuttavia non siamo bambini perduti, siamo esploratori. Siamo su una frontiera sconosciuta che ci induce a un'illusoria confidenza, perché i suoi rilievi somigliano a quelli cui siamo abituati.

Ma la frontiera è un pianeta diverso. Siamo esploratori con una bussola lenta, chirurghi di corpi mutati che non riconosciamo. In queste pagine proveremo a ricostruire l'atlante e l'anatomia del libro. Faremo il libro a pezzi con amore e, uno per uno, cercheremo di capire cosa hanno rappresentato e cosa rappresenteranno. Perché riscoprirci esploratori è la cosa migliore che potesse accaderci: essere professionisti dell'editoria vuole dire essere professionisti dell'esplorazione. Da dove cominciare se non dalla copertina, o meglio dalla “prima di copertina”? Uno dei più abusati e falsi adagi dell'editoria recita “non si giudica un libro dalla copertina”. E chi l'ha detto? In realtà che un libro si giudichi innanzitutto dalla copertina è risaputo. Se non altro perché, mentre ti aggiri per la libreria, non hai altro elemento di giudizio – a meno di non avere attinto a recensioni e opinioni. Più di un editor(e) ha scavato profondi solchi nel parquet, passeggiando nervosamente davanti a una prova appena sfornata dall'ufficio grafico, come la regina di Biancaneve davanti allo specchio. La copertina questo fa: seduce. Seduce l'intelletto attraverso la vista. È un finestrino che promette un viaggio, sempre e comunque: nel mondo, nella storia o anche “solo” nella mente umana. Anche una copertina priva di immagini seduce: lo fa suggestionando con la forza di un titolo, di un autore, di un marchio editoriale, lo fa promettendo che tu, potenziale lettore, non sei certo uno che si fa abbindolare da un'immagine, tu la sai più lunga, tu hai maggiore discernimento. Seduce attraverso la sua matericità, con le dorature e con la carta usomano, con i rilievi e con gli angoli smussati. Seduce con le immagini, spesso coloratissime, geneticamente modificate per sopravvivere alla feroce lotta in trincea sui banconi delle librerie, all'urlo (silenzioso) di “se ne noterà solo una”. La copertina è il biglietto da visita, la locandina e il ritratto del libro. O lo era? Perché di tutte queste armi di seduzione, nel mondo digitale, rimane ben poco.


Ma ci sono altri bocconi, ben più dolci, nello stesso pasto: nuove possibilità per costruire e diffondere i nostri libri, per ascoltare le opinioni di chi li legge, per scoprire nuove voci e metterle in contatto diretto e costruttivo con il loro pubblico. Cosa si può fare dunque con questa nuova copertina così sfuggente? Le certezze scarseggiano, del resto la frontiera è frontiera perché regolamenti e sceriffi qui non sono ancora arrivati. Ma le idee sì. Si può, per esempio, smettere di scannerizzare le copertine cartacee e pensare a copertine native digitali, decodificabili anche quando lillipuziane, prive di indicazioni non essenziali che risulterebbero comunque illeggibili; copertine audaci e nuove che mantengono il loro equilibrio sia a colori che in scale di grigio. Si può tentare la strada delle live-covers, già sperimentate da alcune riviste online e possibili al momento solo sui tablet, ed ecco che la copertina non è più statica ma contiene animazioni e possibilità di interazione. Ma la strada più ardita è la più brulla: copertine assenti. E se scoprissimo che, almeno in alcuni selezionati casi, si può fare tout court a meno della copertina, sposando soluzioni più pratiche? La nostalgia ci dice che la copertina è irrinunciabile, ma la nostalgia è raramente buona consigliera. Soprattutto esplorando la frontiera.

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Editoria

La copertina si disincarna, di lei restano i contorni, resta l'aura, resta il profumo. Non è più la tagliente, garantita arma di marketing che conosciamo e amiamo. La copertina di un e-Book solitamente è la stessa dell'edizione cartacea (quando esiste). Ma come la vedranno i lettori? L'editore non è in grado di saperlo. Il che, scusate, non è poco. Tutto dipende da un pugno di caratteristiche tecniche: quelle delle vetrine virtuali delle librerie online e quelle dei dispositivi sui quali gli e-Book verranno letti. Nelle vetrine dei retailer le copertine sono piccole, a volte piccolissime. Spesso è possibile ingrandirle, ma non sempre; spesso si può vederne il retro, ma non sempre; spesso le immagini godono di buona definizione, ma non sempre. Soprattutto: spesso le copertine saranno a colori, ma non sempre. Su tablet come iPad i colori sfolgoreranno quasi più che in un libro a stampa, ma su lettori a inchiostro elettronico come Kindle la speranza è che il bianco e nero sia davvero elegante come dicono, perché è l'unica possibilità. “Spesso ma non sempre” è un mantra cui dobbiamo abituarci. Perché, più sempre che spesso, la perdita di controllo diretto sul risultato finale dei nostri sforzi di pubblicazione è un boccone amaro che noi che facciamo i libri dovremo ingoiare.


VOCI

dallo [spazio bianco]

tra le righe

di ALESSANDRA ROCCATO

LE GIORNATE DELLA TRADUZIONE LETTERARIA DI URBINO

D

a ormai dieci anni, nell’ultimo week end di settembre, Urbino ospita le Giornate della traduzione letteraria, uno spazio in cui traduttori e scrittori, editori e docenti universitari si incontrano per esplorare le difficoltà e le sottigliezze di un mestiere svolto, per lo più nell'ombra e in solitudine, da personaggi il cui maggior pregio è stato finora ritenuto l'invisibilità. Ilide Carmignani, voce italiana di autori illustri (Sepúlveda e Bolaño tanto per citarne un paio), e Stefano Arduini, teorico della traduzione, docente di linguistica, direttore del Master di traduzione dell'Università di Urbino (e un sacco di altre cose), si sono inventati questo spazio nel 2003 per attirare allo scoperto chi si rintanava nel suo studio, accontentandosi della compagnia dei libri che traduceva, e che invece avrebbe avuto molto da dire e forse ancora di più da dare. Perché spesso, o forse sempre se il traduttore ha centrato il suo obiettivo, si tende a dimenticare che dietro la maggior parte dei libri letti, studiati e talvolta divorati dai lettori ci sono proprio loro, i traduttori. “La traduzione, ha detto Arduini nel saluto di apertura, è una pratica che si nutre di svariati saperi, che mette in contatto culture diverse e così facendo costringe a riflettere anche sulla propria e la trasforma, riempiendo dei vuoti."

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Ciò che si respira durante le Giornate è la disponibilità a confrontarsi di chi partecipa, dai grandi dell'editoria agli absolute beginners della traduzione. Si percepisce prima di tutto il desiderio di imparare e di trasferire saperi, la disponibilità a mettersi in discussione e ad accogliere altri punti di vista, altre visioni del modo di tradurre e di fare cultura. Un'opportunità che è stata colta al volo e con entusiasmo da chi crede ancora che i libri si vendano non per la bella copertina (o almeno non solo), ma per ciò che contengono. Che poi è quello che ha detto Gian Arturo Ferrari nel suo intervento: la crisi che stiamo attraversando è strutturale, e l'unica speranza per l'Europa del futuro sta nella letteratura, nel plurilinguismo, nello scambio tra le culture. A maggior ragione dunque, ha sottolineato Bart Vonk, ambasciatore del PETRA (European Platform for Literary Translation), è indispensabile una sempre maggiore sensibilità nel promuovere non solo traduzioni di qualità, ma anche occasioni di scambio, di incontro e di crescita professionale per i traduttori, perché è proprio "alla lettura attenta e ricreatrice del tradurre letterario che è affidata la trasmissione del patrimonio spirituale dell'umanità". Da questi spunti è partito il viaggio in questo mondo ricco di sfumature, fatto di tavole rotonde in cui i big dell'editoria hanno illustrato scenari

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futuri e limiti attuali di un panorama in continua evoluzione. Lorenzo Enriques (Zanichelli), Stefano Mauri (GeMS) e Mattia Carratello (Sellerio) hanno indagato l'impatto che l'avvento del digitale avrà sull'editoria in un futuro che appare ancora nebuloso ma già delineato; Maria Giulia Castagnone (Piemme) e Alberto Rollo (Feltrinelli), che in passato sono stati anche traduttori, si sono confrontati con Yasmina Melaouah, la voce italiana di Daniel Pennac, su un tema molto sentito – Quanto costa tradurre? – cercando di contemplarne tutti gli aspetti, non solo quello economico. Questi e altri temi ancora sono stati affrontati successivamente nei seminari, analizzando le problematiche della traduzione da una molteplicità di punti di vista: perché gli editor sono tanto carogne con i traduttori? Come si fa a diventare spalle comiche di uno scrittore umorista? Come ci si regola nel tradurre slang e turpiloquio, cosa non bisogna assolutamente fare traducendo, come si revisiona un testo, quali difficoltà si incontrano nel tradurre i titoli? Ancora, accanto ai laboratori pratici, dove si impara il vero mestiere più che su tanti libri di teoria, numerosi incontri hanno riguardato aspetti meno letterari e più concreti: il rapporto tra editore e traduttore, reddito e fiscalità della traduzione letteraria, l'utilizzo di strumenti di ricerca come i dizionari, cosa può fare un aspirante traduttore per trovare lavoro... Ma insieme ai contenuti, molto concreti e mai noiosi, è la passione che anima allo stesso modo relatori e pubblico a fare la differenza. E a rendere le Giornate di Urbino un appuntamento irrinunciabile.

PER SAPERNE DI PIÙ: http://traduzione-editoria.fusp.it/giornate-traduzione-letteraria http://www.facebook.com/GiornateTraduzioneLetteraria

Editoria

Così a Urbino saperi e competenze si incontrano (e a volte si scontrano), dando vita a discussioni, idee, progetti, riflessioni al cui centro stanno i traduttori, quelle misteriose creature la cui voce, per usare le parole di Ilide Carmignani, "arriva dallo spazio bianco tra le righe".


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rubrica

Io abitavo a West Egg, nella parte... bÈ, quella meno alla moda delle due

di CHRISTIAN SODDU

l e T O H T I E K I L E SOM « Diamo un'occhiata... L'incipit è tutto...». È la frase semiseria che tra colleghi si è pronunciata, qualche volta, accingendosi a leggere un manoscritto che aspetta da troppo tempo sulla propria scrivania. L’incipit, dunque. Senza frugare tra gli immortali, il paragrafo iniziale dell’Informazione di Martin Amis regala sempre un brivido di piacere, almeno al sottoscritto. Bret Easton Ellis, che tiriamo fuori dal secchio del nostro personale “C’eravamo tanto amati”, è talmente ossessionato dai giusti attacchi che ha aperto il suo penultimo romanzo, Lunar Park, trascrivendo tutti gli incipit dei suoi libri precedenti. E sarà perché mi trovo attualmente in California, aeroporto di Los Angeles, in attesa di salire sull’aereo che mi riporterà a Roma dopo aver trascorso tre settimane a guidare una “rental car” della Hertz su e giù tra L.A. e San Francisco; sarà per questo, per aver rischiato seriamente la vita in almeno due occasioni, che ripenso al disturbante «La gente ha paura di buttarsi nel traffico delle autostrade a Los Angeles», con cui inizia Meno di

zero. Un incipit che è riuscito a circoscrivere uno spazio con un colpo di forbici netto. Uno spazio fisico, caratteriale, mentale. E fin qui siamo banali. Ma, ecco, poi t’imbatti in un Truman Capote qualunque, che sembra prenderla alla lontana mentre in realtà sta partendo sparato quando apre il suo Preghiere esaudite con «Da qualche parte del mondo dev'esserci una filosofa straordinaria che si chiama Florie Rotondo [...]. Florie, tesoro, io so bene cosa intendi dire [...] Perché io ci sono stato al centro del nostro pianeta [...] E, senti, Florie: ho incontrato Mostri non rovinati. E anche Mostri rovinati». A leggere solo queste sole righe, non è dato sapere di cosa diavolo Capote stia parlando. Non lo sappiamo, ma già capiamo. Lo spazio ritagliato, suggerito e poi piano piano, si vedrà nel corso del libro, setacciato con un'emotività pornografica, una sincerità spudorata che costò all'autore l'esilio dalla Café Society che l'aveva finora adottato, è quello di una deformità morale, di una mostruosità tanto più intatta quanto più incastonata in profondità nello spesso stra-

to di privilegio, denaro e potere che pur l'autore corteggiò, frequentò, sedotto e seduttore. Uno “spazio dell'anima”, abbiamo imparato anni fa a dire e a scrivere. Un luogo amato e odiato. E se c’è una categoria che insegue da sempre e per sempre l’Ideale che si fa luogo, questa è la categoria degli scrittori. Gli autori che passano in casa editrice per fare un saluto prima delle vacanze estive irradiano cieca fiducia sul fatto che finiranno il libro grazie all'atmosfera della loro casetta al mare, e noi possiamo stare tranquilli, il nuovo giallo del commissario xxxx sarà pronto per settembre come da programmazione, ché lì in riva al lago si scrive tanto bene... Lo stesso fantasma estivo, la stessa magnifica ossessione del luogo perfetto, di uno spazio-scintilla che inneschi l’idea, l’opera, rendendo agili le dita sulla tastiera, nutriva evidentemente quel tizio, quello con la polo rosa, davvero somigliante a Capote (giuro, non è autosuggestione né fissazione agostana) con la sua delicata pinguedine, e quella «voluminosa testa da


Uno scrittore senza quel tipo di fama che rende immediatamente riconoscibili, e che in questo hotel ci resterà per i prossimi quattro o cinque mesi, finché conto in banca o ispirazione non li separi... Lui e l’hotel, intendo. Un hotel che, se i tanto abusati “luoghi dell'anima” esistono, è il re di questa specie che mai rischierà l’estinzione. Costruito nel 1880, un gregge di bianchi edifici stretti l’uno all’altro, sovrastati da tettucci rossi e da una pacchiana torre che lo rende simile a un castello disneyano... Ma davanti, verissimi, ci sono solo il verde e l’azzurro, lucidi prati e palme spettinate dal vento cal-

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do, chilometri di spiaggia e oceano Pacifico. E dietro c’è la storia. Non quella dei tanti presidenti e ospiti illustri che hanno soggiornato qui, ma del tempo che è semplicemente trascorso senza perdere nulla per strada, trascinando tutto in avanti come un’onda fino alle nostre rive. Il più celebre fantasma della California vive tra questi corridoi: una donna sedotta e abbandonata nel 1912. In effetti, la notte qui regala qualche scricchiolio e sussurro di troppo a cui ci siamo sforzati di fornire una spiegazione erotica... E nel 1959, in quest’albergo venne girato A qualcuno piace caldo (Some like it hot), con Marilyn Monroe e Tony Curtis che s’innamorano sullo sfondo dei tetti rossi. Servono, saranno serviti i tanto vagheggiati luoghi dell'anima ai nostri scrittori quest'estate appena passata? L'uomo dalla polo rosa avrà concepito il suo primo bestseller grazie allo scenario che ha fatto da sfondo alla più grande commedia della storia del cinema? Come inizierà il suo libro? Ci saranno, scommettiamo, l’oceano e l’urlo dei gabbiani, e qualche carattere altezzoso, pronto a innamorarsi o a uccidere qualcuno... Eppure, stando ai documenti conservati nel piccolo museo interno all’hotel, pensieri un po’ più terreni spinsero Billy Wilder a scegliere “Del Coronado” come set del suo capolavoro e alloggio per la troupe: era relativamente vicino a Hollywood e, soprattutto, pare che le stanze fossero piuttosto a buon mercato... Poca anima. In quel caso è bastato il genio.

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feto» che di lui descriveva Arbasino. Ricordo: l’ho visto starsene per quattro mattine di seguito al medesimo tavolo, l'unico di metallo e non di vimini, nel bar dell'Hotel Del Coronado a San Diego. Per noi le vacanze sono finite ma lui sarà ancora là, sicuro, con quel portatile vecchio modello, batteria ormai usurata, la spina sempre attaccata alla presa di una colonnina poco distante. Uno scrittore!, ho subito pensato dopo averlo notato la prima volta. Uno scrittore in cerca di suggestioni all’Hotel Del Coronado è come dire Rocco Siffredi nell’harem di un sultano immune da gelosia.


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Il fascino discreto della

Q

di STEFANIA AUCI

Libreria

ualche mese fa, il mercato editoriale fu scosso da un brivido di panico. Waterstone, la più grande catena di librerie del mondo anglosassone, chiuse i battenti. Più di duecento punti vendita abbassarono le saracinesche, lasciando nello sconforto migliaia di lettori. Si disse che il mercato editoriale si stava convertendo agli e-book, che la crisi economica stava erodendo anche l’editoria. Poche, timide voci parlarono del fatto che la globalizzazione aveva colpito anche il mondo dell’editoria, rendendo i volumi sempre più omogenei e indistinguibili. Poi, la svolta: un magnate russo acquistò la catena, la rivoluzionò tagliandone i rami secchi e impose una nuova filosofia all’azienda: al vertice di ogni punto vendita doveva esserci non più un responsabile delle vendite ma un libraio. Una per-

sona dotata di competenze specifiche, che unisse skills gestionali, conoscenza del mondo dell’editoria e una sensibilità verso il territorio che si sostanziava attraverso una forte presenza di testi autoctoni e originali sugli scaffali. Un ritorno alle origini, laddove il libraio riveste il ruolo di guida e consigliere per i propri clienti e non è più, o non è solo, un addetto alla cassa.

Un libraio. Una parola dal sapore antico, che racchiude in sé il profumo di un sapere e di una sensibilità culturale che si sta perdendo. In Italia esistono centinaia di librerie indipendenti. Sono piccole roccaforti il cui modo di intendere la cultura non è massificato, ma risponde alle esigenze dei lettori, che istaurano con il libraio un rapporto basato sulla fiducia e sul riconoscimento reciproco. Il rapporto fiduciario e di stima rappresenta il quid, quel valore aggiunto che le librerie di catena non hanno, in quanto coloro che vi lavorano non hanno una conoscenza e una competenza tale da poter accogliere il lettore in maniera adeguata. Nelle librerie di catena, il lettore è un cliente (magari con una tessera fedeltà, come al supermercato), e il libro è un prodotto. «Si tratta di commessi e non di librai» commenta Romano Montroni, autore de I libri cambiano la vita (Longanesi, 2012) e consulente del progetto Librerie Coop. «La libreria indipendente ha un’anima e una sua voce, ed è il luogo di elezione dei forti lettori che in quella sede possono soddisfare le loro particolari richieste.» Queste considerazioni possono fornire una chiave di lettura importante sul ruolo e sulla condizione delle librerie indipendenti in Italia. La crisi economica ha investito il mercato editoriale trasformandosi in una spirale drammatica da cui si fatica a uscire. Mentre le case editrici affrontano la crisi abbassando i prezzi e sfornando testi dalla qualità risibile – saturando il mercato di cloni –dall’altra parte la piccola editoria deve fare i conti con le esigenze di una progettualità a lungo termine che non sa se sarà in grado di mantenere, stante i costi della produzione. Oltretutto, vi sono i costi della distribuzione che incidono sul libro inteso come prodotto finito. Mentre i grandi gruppi come RCS, Mondadori, Feltrinelli, Gems possono sostenere una politica di sconti poiché si avvalgono di proprie linee di distribuzione, ciò non è possibile per le piccole


Editoria case editrici, che devono pagare la distribuzione dei volumi. In questi casi le promozioni attuate in libreria finiscono per ridurre drasticamente i ricavi sia delle case editrici che delle librerie. Un piccolo esercizio commerciale non può sostenere una serie di sconti sul lungo periodo poiché il prezzo di copertina è composto quasi per il 50% dai costi di distribuzione. Ovvio che le librerie online possono praticare una massiccia politica di sconto, poiché la distribuzione viene ridotta al minimo. Ultimo anello della filiera produttiva è, appunto, la libreria. Ma mentre la libreria di catena ha alle spalle una struttura finanziaria che la sorregge, la piccola libreria indipendente deve lottare contro le difficoltà economiche, confrontandosi con la tirannia dei distributori e i vincoli imposti dalle case editrici. «La concorrenza delle librerie

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DAL 31 OTTOBRE ONLINE

Prefazione di Barbara Baraldi Saggio conclusivo di Vanna de Angelis


affonda le radici in una visione mitteleuropea della cultura intesa come ricchezza e orgoglio di una nazione. Dunque, vengono premiati i negozi di libri che “fanno le librerie” e non quelli che spesso mescolano i volumi a gadget e ad accessori per la casa, come accade nelle grandi catene. Nelle librerie indipendenti è il libraio a scegliere cosa mettere in vetrina o quali testi privilegiare: accanto al libro del calciatore o al soft-porn di turno – utili per ottenere dei ricavi economici – piazzerà il romanzo dell’autore sconosciuto edito da una piccola casa editrice di qualità. E sarà merito suo, e del passaparola tra lettori, se magari quel romanzo arriverà a una platea più vasta, così come è accaduto per alcuni casi editoriali degli ultimi anni. La libreria indipendente è un luogo d’amore. In essa il libro vive della sua fisicità, in essa il lettore può sfogliare il testo, coglierne la bellezza segreta. E il libraio acquista un potere quasi sciamanico, poiché la sua saggezza e la passione permettono la conservazione di un sapere che altrimenti andrebbe perduto: quello delle emozioni che solo alcune storie sanno dare al nostro cuore.

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di catena è spietata, poiché esse possono avvalersi di privilegi e promozioni sui libri che aggirano la Legge Levi. Questa legge ha avuto il merito di frenare la corsa agli sconti selvaggi, ma non è sufficiente per tutelare le librerie indipendenti o le piccole case editrici che non hanno risorse adeguate», commenta Montroni, il quale cita il caso della Francia e della Spagna, stati in cui la percentuale di sconto sui volumi non può superare il 5%. «Si tratta di legislazioni chiare, e non soggette a interpretazioni fumose come invece accade per la legge italiana.» Eppure, nonostante il quadro economico sia così cupo, molte librerie indipendenti resistono alla crisi meglio delle rivali di catena, e anzi, segnano timidi progressi nel fatturato. Come mai? I fattori sono molti. Le piccole librerie sono legate al territorio in cui vivono, ne respirano umori e sensazioni, ne conoscono i bisogni e i limiti; il libraio conosce il proprio bacino di utenza e, nello stesso tempo, egli è dotato di una competenza strettamente legata alla sensibilità personale. Egli sa cogliere i gusti e le necessità dei lettori, soprattutto se esercita da molti anni il mestiere; attraverso tale capacità può fidelizzare il cliente alla ricerca del testo di nicchia o organizzare gli scaffali mettendo in luce testi che altrove prenderebbero polvere. La vera ricchezza delle librerie è data dalla qualità dei testi che esse sono in grado di offrire e che sfuggono alle logiche massimaliste e di mercato, oltre che dalla ricchezza dell’assortimento. Parole chiave sono qualità, varietà, originalità. «Se la qualità del rapporto tra cliente e libraio è alta ed è coniugata a una saggia gestione aziendale, allora la libreria indipendente può sopravvivere a questa fase di crisi, così come dimostrano gli ultimi dati sulle vendite» spiega Montroni, il quale sottolinea come i lettori, in questa fase storica, siano spesso alla ricerca di una guida nella scelta dei testi da comprare. «Il libraio non è un consulente di vendita: è un patrimonio umano ineliminabile», conclude. E di questo si sono resi conto da tempo in Germania: per diventare libraio è richiesto un curriculum che prevede la frequenza di una scuola per librai di durata biennale, una approfondita conoscenza del mercato locale e una legislazione fiscale agevolata per l’avvio dell’attività. Un modo di concepire il ruolo del libraio assai diverso da quello italiano e che


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Una rubrica di di MANUELA SALVI

Q

uaggiù nel sottoscala – il luogo riservato alla letteratura per ragazzi, come abbiamo accennato nello scorso numero – ogni tanto si fanno le Grandi Pulizie, mettendo in naftalina la roba vecchia ma principalmente riciclando il riciclabile. Quasi mai si ha il coraggio di buttare via qualcosa, perché è impossibile prevedere cosa tornerà di moda all’improvviso, cosa può essere spacciato come Classico Contemporaneo e cosa invece ha solo bisogno di una rinfrescata per tornare sugli scaffali. Michael Morpurgo e il suo “War Horse” insegnano: si può stare nel sottoscala per trent’anni e rinascere a nuova vita grazie al cinema hollywoodiano. Per esempio. In tempi di crisi, perciò, il riciclo è decisamente incoraggiato. Gli editori si sono guardati intorno e, dopo aver per anni infiocchettato, glitterato e lucidato le fiabe classiche – leggi: le principesse – in ogni modo concepibile da mente umana, si sono accorti che quelle bambine travolte dallo tsunami rosa cristallo sono cresciute. Sono ormai delle teenager smaliziate e probabilmente hanno già scoperto qualche falla nella teoria del Principe Azzurro e del vissero felici e contenti. Cosa fare? Come lenire la delusione? Soprattutto: come accontentare le numerose associazioni (anglosassoni) di protezione

dell’infanzia, pari opportunità, genitori attenti, lotta alla sessualizzazione precoce e simili? L’argomento principesse, infatti, pare farsi sempre più scottante, visto che al momento sembrano essere le dirette predecessitrici di soubrette, squillo e cantanti dal multiplo orgasmo – almeno nell’immaginario delle ragazzine che si affacciano alla pubertà. Gli editori quindi rilanciano. Dicono basta alla principessa in rosa e sostituiscono le scarpette di cristallo con un paio di quintali di armatura medievale. Biancaneve scende dal letto di rose e se la deve vedere con il rozzo cacciatore, il quale le dà una mano a riconquistare il regno perduto di suo padre, ora nelle grinfie della perfida regina con lo specchio fatato. È il caso di “Biancaneve e il cacciatore” libro-film (non è chiaro se sia nato prima l’uno o prima l’altro) uscito di recente. La storia rivaluta la figura della principessa inerme che deve essere salvata e relega l’apparizione del principe a un evento di contorno, talmente marginale da non diventare nemmeno, in effetti, il lieto fine della versione classica. Prenditi le responsabilità di una vera principessa, sembra dunque suggerire il tema. Pensa ai sudditi invece che ad arricciarti i capelli. Il modello Elizabeth che vince su Sissi, anche in “Mirror Mirror” con


Julia Roberts regina cattiva, altro film biancanevoso uscito qualche mese prima e sempre incentrato sulle doti da condottiera della principessa in questione. Ma senza il libro. Altra fiaba, invece, altro libro-film: “Cappuccetto rosso sangue”. Il lupo di giorno è un ragazzo, ma quale dei tanti che girano intorno all’incappucciata Valerie? Triangolo alla Twilight, amore impossibile, tante scene di mantello rosso che spicca sulla neve bianca, lui con ciuffo alla Edward Cullen ma in versione castana. Mmmmh. Per quanto interessante da un punto di vista del marketing, comunque, l’operazione appare piuttosto piatta e piena di cliché inevitabili, perché forse non basta una spada per fare di un personaggio passivo un’eroina. E probabilmente in “Biancaneve e il cacciatore” l’espressione persa di Kristen Stuart non aiuta. Per trovare qualcosa di interessante, invece, tocca andare un po’ più a fondo. Uscire dal cinema, tornare subito nel sottoscala e tirar fuori da sotto una pila di Licia Troisi originali un titolo che purtroppo non è stato molto sotto i riflettori italiani – perché non è ancora uscito il film e forse non uscirà mai, visti i costi di realizzazione di un mondo futuristico alla Blade Runner che ammicca alla Cina.

Ma il riflettore eccolo qui, adesso: si chiama “Cinder”, scritto da Marissa Meyer (un’altra Meyer, sì), pubblicato da Mondadori, e racconta la storia di una Cenerentola del futuro. Anche qui c’è del ferro, ma niente armature: Cinder è, infatti, un cyborg che, al posto della scarpina di cristallo, ha un piede di metallo troppo piccolo per la sua altezza. La matrigna cattiva la schiavizza, approfittando del fatto che a Nuova Pechino i cyborg sono apprezzati meno degli scarafaggi, ma Cinder è un bravissimo meccanico e incontrerà il principe ereditario proprio grazie a questa sua dote. Gli ingredienti ci sono tutti, compresa una zucca-automobile, e le copertine – sia quella italiana che quella americana – si sforzano di presentare una Cinder sexy e in linea con la favola originale, ma la vera forza di questo libro sta proprio nel suo tema centrale e nell’inquietante domanda: come reagirà il bel principe quando scoprirà che la ragazza da cui sembra tanto attratto appartiene alla razza più disgustosa e maltrattata del Pianeta Terra? Diversità. Bellezze mozzafiato che ipnotizzano e ingannano (vedi la cattiva regina della Luna) e difetti che incantano. La realistica sensazione di ruggine e bulloni in un corpo di ragazza, che sembra voler svelare la fragilità che si nasconde sottopelle. Una storia avvincente, scritta meglio di molti best-seller dello stesso filone, originale nonostante le premesse. Perciò viva Cinder. Cenerentola coraggiosa che zoppica ma non si arrende. Nemmeno a stare relegata nel sottoscala…

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i s o f r o m a t e m e L el testo: ta di ANDREA VEGLIA

intervis

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I N I T T E B O I Z a MAURI

sto a un contrafpo ap tr n co in tacola e tuttavia non ne os presfatto? no ta en nt co à es rit eg nt l’i o saggi spesso ac od m n cu al ettini: Non c’è B il gli ade o de zi pr ri m co au iti se cr a M ic to pl la im pa il siva”, il che la contraffazione sciano è e la n ch a no m io ri, bb ”– tà vo du el la ed ai i “f tt di de concetto esnfando nella cultura ti i lettori, m io tr en ne er ia io ff st az di er in ù op pi a lo im r es pe o la med poranea, per esempi si parla di i Roda em nt o co ci re G i da to at soprattutto quando ” di sa in o come la l punto senso della “parodia ol da o ne tt le rò pe Se un argomento spinos i. man manip i contemnda Hutcheon: come tuale et Li po ti ol m di a traduzione. st vi di rtes Christopher lazione, incrocio inte le’) a a an n’ o U ns e. pe er – rt i Ve ne fa ra e po on isua Eccezi (e perché no ‘interv Longley, Ted nel el ne io ha ic uz M ad tr e, e. lla gu de Lo ia tropolog da un certo original uttivo ire ad rt tr pa e et al B de io l'i riz – au M s esto Hughe mondo antico di or fodossalmente però qu ha am ra et Pa m hé la rc – pe e hi on tic zi an ce i degl che tini. Parlo di ec o di estetica, dato ù a fondo pi tip to ol m ga ie sp – si bisogno di un ‘orie to ch lu so he ic as et un po ni io az le loro oper r rendere fruibile le na pe er ’ od le m na e gi on zi ta at tr non una ipolazioni, ne rafforza an m e . su re ur ad tr di za. In sull’atto esenza e l’importan pr la o am bi ab percezione colla Di tutto questo ne , so ca ni og Maurizio o parlato con l’autore, l mito mp o parodia restan ca e un m de e da traduzione. rs Bettini, antropologo ve di se co e a Sien presso l’Università di ley. o nell’ambientt u tt ra op ke S ar : B S a r so visiting profes tario italiano i si er iv un te g uo sa greci e latini venSpeechless : Dal S ende ci si as cl pr più gio Vertere si ap deltà considerati per lo no go fe uche il concetto di pa a ria di uno studio er . te a m up il nziale all’originale si sv to spesso autorefe ente di a ll de a m le a m partire dal prob Se però teniamo di la ro pa a ll ltura romana detraduzione de cu la e ch po ntem r fusione creativa Dio. La cultura co e sotpe va ri m to ranea – in cui, co Masella greca, il rappor qu da o er tolinea ad esempi etica oso che il postmod oc gi st E clas simo Fusillo in intrattiene con la lizno Fe in e ra bana della letteratu sicità indica una modo, ca ti e st l’e al e o ticci – grazi culturale: zazione o un nuov do an in pone un problema cr in rapno camp si stan ca traduro gerarchico, di en m e ri op pr ciò che per noi signifi Steiner molte dicotomie e rtarsi all’antico? po le ta n de re – secondo Georg ci n della cultura oc ne è un dal el suo rappor to co N o : “una buona traduzio e famind B na M ta n lo al a no – si st nd sicità, il postmoder inale as ig cl abito nuovo che ci re or la un di o e tt pr e so co conc liare la forma che es

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(perché questa non è una categoria che vale nel valutare le traduzioni), ma in modo efficace, affascinante, capace cioè di ‘prendere’ il lettore o lo spettatore, bisogna tenersi il più possibile vicino al punto di vista della cultura di partenza. Ossia veicolando nel testo quei modi di pensare, quei modelli di cultura che suscitino il sentimento della alterità, non della identità o della omogeneità. Per me aveva ragione Antoine Berman, che concepiva la traduzione come un “albergo della lontananza”,

un luogo aperto e generoso, dove far spazio all’altro. Se riduco Plauto a un testo romanesco, usando il linguaggio di Belli o di Trilussa, o a un musical alla Garinei e Giovannini, avrò anche fatto un bel pastiche, che molti intellettuali mi loderanno, avrò ‘avvicinato’ il testo antico alla cultura contemporanea e diffusa – quella che già so, che già ho – ma avrò perso una grande occasione: ossia far sentire al pubblico che cosa prova uno schiavo in una società dove ce ne sono migliaia,

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(o come vogliamo chiamarlo) punta da un lato su parodie e riscritture, quando si tratta di operazioni creative; dall’altro sulla ricezione, quando si tratta di riflessioni a carattere saggistico o erudito. Questo si vede bene dalla enorme quantità di libri e Handbook dedicati, in Europa o in America, alla ricezione dell’antico dal Medioevo alla contemporaneità. Sa che cosa mi hanno chiesto di scrivere, alcuni amici americani, per un reader dedicato a Nerone? Un saggio sul Nerone di Petrolini. Come spiegare questa inflessione presa dagli studi classici nel mondo? Tutto sommato, questo a me continua a sembrare un segno di ‘noia’ verso i classici, un modo per liberarsene, per parlar d’altro senza dichiararlo apertamente. Come dire: non siamo ancora in grado, o non abbiamo ancora il coraggio, di fare a meno dei classici – ma più che di Sofocle e del suo Edipo re, preferiamo parlare di Pasolini. S: Tornando alle traduzioni: spesso le traduzioni contemporanee di opere greco-latine, pur nel loro rigore filologico, restano lontane dal lettore e perdono la loro capacità di generare effetti. È possibile ovviare o si ricade nella ormai nota divisione tra traduzioni source-oriented e target-oriented? MB: La traduzione non è un’operazione letteraria – e mi dispiace molto per chi continua a pensarlo – ma culturale. Questo significa che, per tradurre non dico “bene”

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terzina abbastanza ingenua, ma che piacque, e ancora gli piace, a uno dei classicisti più brillanti che ci siano in circolazione, Alessandro Fo. Eccola: “Studiando queste cose / dovremmo divertirci, / non renderle noiose”. S: Un errore comune, quando si parla del mondo classico, è dare per scontato che il nostro lessico, molto simile dal punto di vista del significante a quello antico, conservi quegli stessi significati. Tra noi e gli antichi c’è un’innegabile affinità, a cui però va contrapposta la necessità di una giusta distanza.

43 Come conciliare i due opposti, e quali ripercussioni si riscontrano nell’atto del tradurre? MB: Proprio così, fare antropologia del mondo antico significa prima di tutto questo: ripartire dalle parole, dal loro significato, dalla loro contestualizzazione culturale. Faccio un esempio. Di fronte a un vitello nato con due teste o a un crimine particolarmente efferato i Romani dicevano che si trattava di un monstrum: proprio come noi parliamo allo stesso titolo di un “mostro”. Solo che per loro questa parola, connessa a moneo, “far

ricordare”, indicava che quella nascita o quel crimine costituivano appunto qualcosa ciò che ci ammonisce, che ci fa pensare. A che cosa? Al fatto che gli dèi sono irati con noi, e dunque bisogna trovare le pratiche giuste per placarli. Dietro il mostro dei Romani si spalanca un orizzonte religioso totalmente assente nel nostro caso, perché la nostra cultura, a dispetto della sua origine, è molto diversa da quella romana. Tutto ciò rende più difficile tradurre dal latino, o dal greco, certo, perché viene meno l’illusione che esista fra le nostre lingue quella “intimità culturale” che ci hanno insegnato a dare per scontata: ma rende la traduzione anche molto più interessante e più degna di esser fatta, perché non solo illumina la cultura degli antichi, ma, per contrasto, anche la nostra S: Il nostro concetto di traduzione deriva da un misreading, da un fraintendimento dell’umanista Leonardo Bruni. A traductum si è dato un significato che il termine non aveva nel latino classico. Questo errore, che per un filologo sarebbe un obbrobrio, dà però una spinta propulsiva al nascente mondo moderno: almeno un aspetto della cultura occidentale deriva da un errore di interpretazione. L’anacronismo ha dunque una funzione positiva? MB: In realtà non possiamo sapere se Bruni si fosse davvero sbagliato, o se invece si

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che cosa prova un padroncino che dispone come amico di uno schiavo (forse che oggi ne esistono?), che cosa significa invocare una divinità in una società dove ce ne sono centinaia (non una sola o nessuna, come nelle nostre), e così via. Pensare che la “cultura”, soprattutto nel senso che a questa parola dà l’antropologia, sia per forza noiosa, è molto ingenuo! E denota anzi scarsa ‘cultura’ (nel senso tradizionale di questo termine). S: Nel Suo saggio, Lei spoglia il concetto di traduzione da quelle connotazioni, proprie del nostro mondo, ma estranee sia all’antichità, sia a popoli non occidentali. È stato difficile astrarsi dalle proprie strutture concettuali? MB: È sempre difficile compiere questa operazione, perché significa ogni volta decontestualizzare non solo ciò che si legge o si sa, ma direttamente se stessi. Per me però è l’unica operazione che vale la pena di compiere, perché è l’unica capace di rendere interessanti le cose che si studiano, non solo la cultura classica, ma qualsiasi cultura, anche quella in cui si vive. Del resto, a che serve studiare se non a questo? Forse a scrivere 150 pagine sulle riscritture di Seneca nel teatro goliardico della Germania fra 1568 e 1632? Una volta, era credo il 1983, scrissi una recensione in cui lamentavo la capacità annoiativa, se mi si passa il neologismo, degli studi classici, che era e resta formidabile. Composi anzi una


fosse preso una libertà con il latino, coniando un fortunato ‘solecismo’. Comunque esistono molti casi di creative misreading, come dicono gli Americani. Se qualcuno che ama il latino vuol divertirsi, può leggere a questo proposito l’Hommage to Sextus Propertius di Ezra Pound!

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S: I più importanti “riscrittori” contemporanei

di opere classiche sono di origine anglosassone o post-coloniale. Come si spiega che i fondamenti della cultura occidentale vengano inglobati nella incandescente fucina post-coloniale, caricati di nuovi sensi e livelli di intertestualità e riproposti all’Occidente come nuovo canone?

MB: Per rispondere, posso formulare un paradosso: i classici sono un rimorso, una necessità, una specie di voce interiore che non ne vuol sapere di stare zitta. Qualcosa di cui liberarsi ma, contemporaneamente, che ‘bisogna avere’. Così li vediamo spuntare nei territori più lontani, disparati, imprevedibili: riscritti (o semplicemente riappropria-


ché gli studi sulla fortuna dell’antico non sono presenti in ogni dipartimento di lettere antiche, e perché stentano ad affermarsi grandi progetti editoriali sulla ricezione dell’antichità? Einaudi, Carocci e altri editori minori si stanno muovendo in quella direzione, ma si è ancora lontani dai progetti inglesi di Oxford e Blackwell.

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S: In un Paese a tradizione classica come l’Italia, per-

L’antico non riveste attrattiva editoriale? MB: Gli studi sulla recezione, in realtà, stanno fiorendo abbastanza anche nel nostro paese, e l’insegnamento di queste discipline è presente in molti dipartimenti. Che poi alcuni classicisti non sentano il bisogno di rendere interessanti i testi che studiano, o la cultura che dicono di interpretare, è un altro discorso – e questo vale non solo per gli studi sulla ricezione ma per tutto il resto, come già dicevamo prima. Quanto all’editoria, ahimè, non mi pare che crisi, lentezze o timori riguardino solo le opere sul mondo antico. Riguardano un po’ tutto. Il problema è che i libri, in generale, godono cattiva salute. Ma non nel senso che stanno male quelli su carta e bene, poniamo, quelli che si leggono sui supporti informatici (il mito dei milioni di libri resi accessibili da Google…). A godere di cattiva salute sono in generale i testi, su carta o su schermo non fa differenza. I testi intesi come stringhe di caratteri dell’alfabeto, assai lunghe, che registrano pensieri strutturati, argomentati, che inglobano altri testi in forma di citazioni o materiali, che mirano a raggiungere conclusioni, suscitare domande, rispondere ad altri testi in un dialogo, etc. etc. Confronti tutto ciò con un twit, un sms o un post su Facebook, e tragga le sue conseguenze… Ma questo, ovviamente, è un altro discorso!

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ti) da gente che, proprio a motivo della marginalizzazione che ha subito, rifiuta di essere esclusa dai classici. Del resto, non mi pare un fenomeno diverso da Heitor Villa-Lobos che compone delle “Bachianas Brasileras”? Bach in fondo all’Amazzonia è come Omero nei Caraibi.




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di SELENE PASCARELLA

a ke t u o y h t ea Every bmr ove you make k Every bond you brea Every step you take Every atching you. ng) (Sti I'll be w

Da Cinquanta sfumature ai sexy mash-up di Jane Austen: nuove sottomesse, vecchi padroni e villain senza tempo nella nuova narrativa erotica.

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very breath you take, ovvero la più sdolcinata e la più inquietante delle canzoni sentimentali. Dove amore fa rima con controllo e la passione diviene un certificato di proprietà. Un pezzo del 1983 che potrebbe fare da colonna sonora al libro dell’estate, la trilogia delle 50 sfumature (di grigio, di nero e di rosso) che ha spopolato tra le signore del belpaese (e del globo). Scritto da E. L. James, pseudonimo di una lady middle class (è di nascita britannica!) con marito e figli che passerà alla storia come la madre di tutte le porn mum, il volume ha sdoganato al grande pubblico tematiche e stilemi del BDSM (acronimo per Bondage, Disciplina, Sadismo e Masochismo). Soprattutto ha inaugurato un sottogenere letterario, il sexy romance incentrato sul tema della dominazione sessuale, destinato a tenere banco nel prossimo biennio. Una formula semplice quella della James: una 21enne vergine (Anastasia, come la più obliata delle Disney princess) incontra un miliardario bello, giovane e tenebroso con un debole per il bondage (Christian Grey, il titolare delle sfumature). Tra loro sembra instaurarsi il classico rapporto padrone-sottomessa, eppure l’amore ha la meglio su latex e frustini. I due s’innamorano, si fidanzano e infine convolano a giuste nozze. Nel mezzo, una lunga serie di amplessi snocciolati con dovizia di particolari e un’attenzione ai gadget erotici che sfiora il product placement. Non proprio una trama sensazionale o trasgressiva. Eppure Fifty Shades of Grey è al vertice delle classifiche mondiali, è stato il colpaccio 2012 di Mondadori e ha salvato, da solo, l’annata del mercato librario italico. A ruota della James


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sono arrivati da noi i 90 giorni di tentazione di Lucinda Carrington (Newton Compton) e Giocando con il fuoco di Sadie Matthews (Nord) e non si faranno attendere a lungo anche le rivisitazioni soft core di grandi classici. Nella corsa al sexy mash-up la fa da padrona come sempre Jane Austen. Le eroine di Orgoglio e Pregiudizio e Northanger Abbey si cimenteranno con sesso “alla vaniglia” (cioè tradizionale) e ardito, ma si daranno da fare anche Heathcliff e Catherine di Cime tempestose, così come Sherlock Holmes e Mr Watson faranno outing regalandoci un bollente male/male romance. Se persino le protagoniste più toste e indipendenti delle letteratura sentono il bisogno di farsi scollacciare, sorge davvero il dubbio che E. L. James si sia fatta portatrice di un’istanza sottovalutata ma forte. «Nel momento in cui le donne sono in ascesa nei posti di lavoro – ha scritto la giornalista del Newsweek Katie Roiphe – consumano ardentemente miriadi e disparate fantasie di sottomissione», in grado di offrire loro «un sollievo, una pausa, un’evasione dalla noia e dal duro lavoro dell’essere eguali». Un’affermazione che racconta l’andamento del dibattito suscitato dal successo di 50 sfumature, che si incastra nella sterile dicotomia tra perbenisti e libertari, femministe e post-femministe, dimenticando il punto di partenza. Nell’equazione donne di successo uguale aspiranti sottomesse si cela, infatti, un doppio inganno. Il primo è quello, vecchissimo, delle “donne che comandano”. Comandano, ovvero soverchiano il legittimo primo sesso, ma nel farlo smarriscono la loro “vera natura” scavandosi da sole la fossa esistenziale e condannandosi all’infelicità. Il secondo si fonda su uno slittamento, graduale ma irreversibile, tra sfera privata (e sessuale) e dimensione sociale. Perché se c’è un elemento indiscutibile in Fifty Shades è che Anastasia non è disponibile (non subito) a subire dal suo fiancé punizioni corporali, ma gli permette su due piedi di controllare ogni aspetto della sua vita relazionale e lavorativa. Il che rende completamente sbilanciato il rapporto di potere tra i due. Benché Christian non eserciti il suo ruolo di “signore” BDSM e se non nelle fasi finali della trilogia, il suo dominio è stato gettato fin dalle prime battute. Quando sceglie (e paga) per Ana i costosissimi vestiti o l’automobile luxury,


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acquisisce l’azienda in cui lavora e le confeziona una carriera, stabilisce persino cosa, come e quanto deve mangiare. Un gap che nega il presupposto ludico-anarchico della pratica sessuale a cui il romanzo dovrebbe essere consacrato. Tant’è che non si perde occasione per ricordare che l’attrazione di Christian per il masochismo affonda nel suo passato di bambino maltrattato e adolescente abusato da una donna di mezza età. Per BDSM s’intende, invece, un insieme di pratiche sessuali che si muovono all’interno dello schema relazionale dominatore-sottomesso, ma si fondano sulla consensualità. I ruoli sono interscambiabili e possono essere rivestiti indifferentemente da uomo e donna; il rapporto deve garantire soddisfazione reciproca e in caso ciò non avvenga può (deve) essere immediatamente interrotto ricorrendo a una safeword, una parola d’ordine di sicurezza scelta in precedenza. Qualsiasi deroga a queste regole sposta la relazione nel campo, ben diverso, del sadomasochismo. Come dicono i protagonisti di Fifty Shades: «Il nostro scopo è il piacere». Per ottenerlo va bene qualsiasi cosa, dalla ball gag al divaricatore anale, purché si resti nel campo della sperimentazione gioiosa, ludica e libera e il role playing alla base della pratica non intacchi la parità tra gli individui che vi prendono parte. Un meccanismo efficacemente spiegato da Cara McKenna all’interno del manuale How to Write Hot Sex: Tips from Multi-Published erotic Romance Autors (curato da Shoshanna Evers per la Createspace nel 2011). «Se un personaggio dall’esterno sembra avere tutto il potere, assicu-

Illustrazione© Dan Panosian

rati che sotto la superficie possa essere quello disperato. Dall’altra parte assicurati che quello vulnerabile abbia alcune carte da giocare a proprio vantaggio e lascia che l’equilibro si sposti, lasciando tutti in bilico». Anastasia si attiene al decalogo BDSM, ma rinuncia alla regola base, quella dell’indipendenza. Si diverte a letto ma fuori dalle lenzuola è una persona dimezzata. Cammina sulle uova, costantemente macerata dalla paura che Christian «si arrabbierà». Perché è uscita da sola, ha preso il sole in topless o, semplicemente, non ha spazzolato tutta la cena come una «brava bambina».


finisce sempre per creare disastri, comportarsi male, trovarsi in mortale pericolo. Accettando, a posteriori, la verità: Anastasia ha sposato il suo stalker, ma l’ossessiva vigilanza del marito è giustificata dalla minaccia che si annida ovunque, appena varcata la soglia domestica. Al contrario grandi vantaggi si prospettano alla giovane signora Grey quando si dimostra arrendevole. «Dovrai imparare a essere sottomessa – a scrivere è ancora la Miriano – come dice San Paolo. Cioè messa sotto, perché tu sarai la base della vostra famiglia (…) È chi sta sotto che regge il mondo, non chi si mette sopra gli altri». A una lettura superficiale parrebbe la stessa affermazione della McKenna, eppure c’è stato un ribaltamento. Non c’è nessuno scambio bidirezionale di potere, nessuno sbilanciamento dell’equilibrio, se non il caro vecchio “sorridi e stringi i denti”. È un inferno domestico, ma viene spacciato per

HENRY MILLER

ovvero la differenza tra “scandaloso” e “osceno”

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ubblicato per la prima volta nel 1939, Tropico del capricorno è stato bandito per oltre vent’anni dalla censura Usa per i suoi contenuti “osceni”. La tardiva “riabilitazione” (era il 1961) da parte del Dipartimento di Giustizia (avvenuta contestualmente al Tropico del cancro), ha promosso il volume da libro erotico a “grande romanzo americano” e trasformato il suo autore in un’icona vivente. Quando il sistema stabilisce che l’opera di Miller è “letteratura” e in ciò massima, intoccabile, espressione del pensiero nazionale, la rivoluzione sessuale e l’impatto delle controculture sono ormai inevitabili. Del resto anche l’avvento della poetica beat sarebbe stato impensabile senza le feroci, patetiche e scanzonate scorribande on the road di Miller. A settembre Feltrinelli (che portò il romanzo in Italia per la prima volta, nel 1964) ha ripubblicato il volume (entrambi i Tropici), nella mitica traduzione di Luciano Bianciardi. Da leggere per riscoprire le ragioni dell’oscenità di Miller. Fatta di sesso, ma soprattutto di critica sociale. Sono gli anni ’20 e Miller disseziona con metodologia surrealista il ventre marcio del suo paese, a partire dagli uffici di un colosso economico patrio, la Western Union.

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Imposizioni irragionevoli, che dovrebbe rifiutare categoricamente, ma finisce per accettare di buon grado. Uscendo dalla “logica del dominio”, che è prerogativa maschile, per sposare quella dell’obbedienza. Sembra che a sussurrarle all’orecchio ci sia Costanza Miriano, l’autrice del pamphlet Sposati e sii sottomessa (pubblicato nel 2011 da Vallecchi). Il capo della casa è il marito, sostiene la Miriano. «Nel dubbio – consiglia alla sposa – comunque obbedisci. Sottomettiti con fiducia». Christian Grey è un maniaco del controllo, «ma è il suo maniaco del controllo». Il dominio che vuole esercitare su di lei diventa un’eccentricità d’amore, perdonabile; i suoi, rari,domi ripensamenti capolavori di gentilezza, concessioni quasi immeritate dalla fallace sposa. Che, quando si ribella,


la favola del «per sempre felici e contenti», un traguardo che le single possono solo sognare. Chiedetelo alla povera Genevieve di 90 giorni di tentazione, una over 30 che era triste e sola e nemmeno lo sapeva, non prima di incontrare un playboy dominatore deciso a farne una donna onesta. Non bisogna dimenticare la particolare genesi di 50 sfumature, concepito come fan fiction della Twilight Saga per un pubblico adulto. Come Bella Swan, Anastasia è insicura, goffa, con una spiccata tendenza al sacrificio. Ha una madrebambina e un papà-roccia, una suocera che incarna un modello materno irraggiungibile, pur se non fondato sul vincolo di sangue. Christian, d’altronde, non è un vampiro, ma si dipinge come un «mostro», un uomo senza cuore. «Stammi lontana!» ammonisce la sua principessa (proprio come Edward), ma non può staccarsi da lei nemmeno un minuto. Allora impone il ritmo della relazione e anche quando sembra cedere alla spontaneità, cambiare il proprio armamentario di regole sessuali ed emotive, sta solo abiurandole in nome di un codice superiore. Un codice cavalleresco fatto di legami eterni, promesse nuziali, protezione del nucleo famigliare da orribili e agguerriti villain. Che non sono vampiri ma molestatori, potenziali

assassini, amanti gelose, arrampicatori sociali. E se le rinunce di Bella per amore sembrano imparagonabili a quelle di Ana (perde addirittura l’anima!) lo scotto di quest’ultima per l’happy end è ben più alto. Non c’è per lei speranza di ribaltare l’equilibrio di potere nella relazione con Christian, al pari di Bella, che chiude il suo cerchio come potentissima immortale, capace di imporre la propria volontà su quella del compagno. Dopotutto questa è la vita reale, bellezza! L’ultima immagine di Ana è quella di una soddisfatta porn mum di extra lusso, una sottomessa col pancione, incatenata a un letto, emblema del «legame tra fare l’amore e dare la vita» che – parola di Costanza Miriano – rende il sesso «avventuroso e coraggioso» e il legame matrimoniale a un uomo «divertente, naturale», la risposta – con frustino – ai «nostri bisogni» di donna e ai «desideri di felicità». Non resta (a lei e a noi) che sperare che questo ruolo non le venga mai a noia, che il suo bel maritino non le sussurri come serenata l’inno internazionale dello stalker… Oh can't you see You belong to me? How my poor heart aches with every step you take…

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LE INGLESI LO FANNO MEGLIO Sadie Matthews sfida E. L. James con una sexy eroina britannica

Prendere il posto della timida ma focosa Anastasia Steel nel cuore delle signore che hanno amato 50 sfumature non sarà facile, ma molte autrici sono in corsa per essere la “nuova” E. L. James. Tra loro Sadie Matthewes e la sua Beth, l’eroina di Giocando con il fuoco (Nord, Ottobre 2012, 384 p., 14,90 euro). Sadie, come E. L. James, è una mamma inglese; Beth è una ragazza di provincia che arriva a Londra con un grosso peso sulle spalle – è stata tradita e umiliata dal fidanzato storico – e poche aspettative per il futuro. Dovrà badare all’appartamento, nonché al felino, di una parente conosciuta in famiglia per la sua indipendenza e tostaggine, ma soprattutto per la sua singletudine. Ma la gattara di successo non è il destino di Beth, che al primo giorno nella capitale si imbatte nel più grande colpaccio per una ragazza scaricata. Nel palazzo di fronte abita un uomo bello e impossibile, ricco come si conviene e con l’immancabile segreto celato dentro al cuore. Si chiama come il belloccio di una soap opera, Dominic, e la condurrà «lungo un sentiero lastricato di piacere e sensazioni uniche». Un successo annunciato…


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Tra vendette e compromessi: uno sguardo sulle

DONNE di MAILA DANIELA TRITTO

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a donna riveste, da sempre, un ruolo importante sia nella letteratura italiana, che in quella internazionale. Oggetto privilegiato di autori e autrici che ne hanno decantato la bellezza, inserendola in contesti diversi per farne emergere i suoi tratti caratteriali. La donna sa essere gentile, dolce, sensibile, affidabile e costantemente alla ricerca di un uomo che sappia amarla e proteggerla. Questo, almeno, in linea generale. Infatti, benché la donna − al di là della sua estrazione sociale − spesso, e volentieri, ricopra il ruolo di moglie e di madre, sa essere anche forte e indipendente o, al contrario, si dimostra debole e indifesa. Talvolta incapace di reagire alle offese e agli attacchi provenienti dall’esterno. Basti pensare, ad esempio, all’ampio panorama mass-mediale che, di frequente, propone immagini di donne perfette, sia dal punto di vista estetico che comportamentale. Ne deriva, si sa, una situazione in cui il mondo femminile cerca di conformarsi − e uniformarsi − affinché sia di gradimento al sesso opposto; al proprio partner, insomma. Spesso la pubblicità, che è puro prodotto mediale, non rappresenta le donne in modo autenti-

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co e veritiero: le svilisce e le fa apparire volgari; lontane dai normali canoni femminili o dalla quotidianità. È l’immagine della donna di estrazione tipicamente occidentale; priva di ogni difetto e felice e soddisfatta della propria vita, sia pubblica che privata. Inoltre, sempre la pubblicità ma anche le forme editoriali − dal momento che di editoria e di letteratura si sta parlando −, optano per alcuni mezzi prettamente legati all’eros e, dunque, ai suoi effetti che non sempre consentono alla donna di rappresentarsi nella sua vera e propria essenza. Pertanto, l’immagine proposta è strettamente legata alla perfezione, generando frustrazioni in chi − anche in minima parte − se ne discosta. Tuttavia, questa è solo una visione parziale del genere femminile ma che, in questa sede, mi interessa in modo particolare affinché possa ricollegarmi ai due romanzi che ho letto per Speechless: La vendetta (Einaudi, 2012), opera dell’autrice norvegese Anne Holt − da sempre interessata alla stesura di romanzi tipicamente polizieschi o che, comunque, ripropongono le scene del crimine − e Sono quello che vuoi, romanzo d’esordio di Enrica Aragona (Edizioni La Gru, 2012).


Fin dai titoli è possibile comprendere come entrambe le opere affrontino il tema piuttosto «scomodo» della violenza sulle donne; preferendo uno stile che sia quanto più vicino al romanzo criminale − nel primo caso − e, nel secondo, al thriller e all’hard-boiled, con un particolare riferimento alla realtà nostrana. È facile immaginare, prima ancora di aver letto le sinossi, come le protagoniste siano le donne: fragili nelle loro insicurezze emotive e, tuttavia, disposte a concedersi − senza alcun riservo − all’uomo che le vuole «sottomesse» e ben disposte a soddisfare ogni suo desiderio. Tale situazione rappresenta per le donne un vano tentativo di conquista della propria personalità o, almeno, alla comprensione della stessa. È noto, in effetti, come la letteratura sia in grado di proporre storie diverse e, allo stesso tempo, analizzare − più o meno sapientemente − i tanti contesti di cui l’uomo fa parte. In questo caso, i romanzi analizzati sono scritti da donne per indagare, forse con maggiore affinità e attenzione, quella parte del mondo femminile che, talvolta anche per insicurezza, trova nell’aspetto esteriore − e anche nella trasgressione − una

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«via di fuga» dai problemi che attanagliano la quotidianità. Si tratta di romanzi di denuncia che portano a riflettere sulle intime condizioni di vita, spesso anche nascoste per paura di compromettere la propria esistenza e gli affetti personali; o, ancora, la vergogna in un gioco perverso di vendette e compromessi che sviliscono l’anima. In certi casi, uscire da questo «circolo vizioso» è complesso, ma non impossibile. Le opere analizzate affrontano la vita di due donne: l’ispettrice di polizia Hanne Wilhelmsen, nel romanzo della Holt, che è la testimone oculare di casi di omicidio e Laura, una ragazza di ventisette anni, dal passato familiare problematico, nel romanzo della Aragona. Sono, queste, donne che subiscono − per motivi diversi − lo sguardo indagatore dell’uomo; quello stesso sguardo che fa sì che siano un po’ vittime e un po’ carnefici, in un connubio di «giochi perversi» in cui non c’è posto per la vita «facile e felice» tipica dei migliori romanzi rosa, caratterizzati dal lieto fine e solo per inguaribili romantiche. Sebbene gli scritti siano dedicati a due donne in particolare, entrambi si possono definire corali: rappresentano, infatti, quelle verità, un po’ taciute, di donne fragili e che non riescono a far fronte alle situazioni degenerative. Sono, inoltre, romanzi affrontati con uno stile che


57 unisce la suspense alla realtà e che potrebbero incuriosire per l’ardua scelta di aver affrontato tematiche che si discostano dal panorama editoriale. Come già precedentemente accennato, si tratta di donne insicure, alle quali la vita non ha riservato «sconti speciali» e che, tuttavia, si fanno portavoce − sebbene negativamente − di una realtà che oggigiorno è affrontata con sempre più attenzione, anche dagli stessi mass media che, il più delle volte, fanno emergere il prototipo della donna felice. È la realtà della violenza, non sempre fisica bensì anche psicologica. Tanto che, poi, il genere affrontato dalle due autrici

Inoltre, viene analizzato il fenomeno del ‘femminicidio’ che, purtroppo, accomuna le donne di tutto il mondo e che si verifica in particolare in ambito domestico o nelle relazioni di intimità. È un fenomeno, questo, che dapprima era nascosto − quasi ci si vergognasse dello stesso − ma che, in seguito, ha portato le donne alla consapevolezza di sé e alla denuncia. Se, poi, tale situazione non costituisce solo un episodio isolato ma «la norma» − come nel caso del romanzo di Anne Holt − tutto ciò non può essere non considerato ed è, quindi, necessario capire chi o cosa abbia dato origine a una serie di crimini raccapriccianti, che per Hanne Wilhelmsen: «non sono motivo di rabbia e nemmeno di rassegnazione, ma solo di un’immensa tristezza.» Tuttavia, e per fortuna, nella realtà ci sono alcune associazioni femminili che si propongono di denunciare e di prevenire − o almeno accogliere − quelle donne vittime della violenza maschile. Infine, sebbene il problema vada affrontato, ciò che la società dovrebbe evitare − o almeno controllare − sono i possibili attacchi misogini che vanno a ledere uno dei principi fondamentali: la libertà.

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diventa assolutamente secondario: l’obiettivo, infatti, è quello di riportare − seppure letterariamente − episodi di vita, simili a testimonianze.


Piccole (e grandi)

di ELISABETTA OSSIMORO

Donne in Cucina La Gastronomia Letteraria di Elisabetta Chicco Vitzizzai

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Bovary – uscito nel 2002 – ha inaugurato questa collana, quindi si può dire che Leggere è un gusto sia nata insieme al suo libro. Com’è nata l’idea di cimentarsi con un’impresa così inconsueta, come scrivere di gastronomia legata alla letteratura? Elisabetta Chicco: L'idea in sé è stata dell'editrice Anita Molino, io l'ho accolta con entusiasmo e non so perché ho pensato a Madame Bovary, forse perché a un livello subliminale ricordavo che nel

di cui tratta? Vuole raccontarci quali sono le fasi di gestazione e composizione di un Leggere è un gusto? EC: Fermo restando che nel libro o nell'autore prescelto i cibi e la cucina devono avere un'effettiva rilevanza, la struttura che do loro nasce dalle corrispondenze che si creano tra me e le opere indagate. Virginia Woolf è una delle scrittrici che amo di più e siccome circolavano varie leggende sulla sua presunta anoressia ho voluto verificare nei diari e nelle lettere, scoprendo una realtà del tutto diversa. Virginia frequentò addirittura una scuola di cucina e sfornava pane e dolci mentre scriveva i suoi romanzi meravigliosi, in cui sono tutt'altro che rari i riferimenti a piatti particolari. Per esempio, l'evento centrale nella prima parte di La signora Dalloway è proprio una cena, il cui piatto forte sarà il Boeuf en daube. Mi interessa molto il rapporto tra autrici e/o protagoniste di romanzi e la vita domestica, che era poi la dimensione prevalente nella vita delle donne di un tempo. Sotto questo punto di vista Scarlett O'Hara, la protagonista di Via col vento, va del tutto controcorrente: non ha alcun penchant casalingo, poiché preferisce essere una donna d'azione, ma adora i cibi gustosi e raffinati della cucina delle piantagioni e della cucina creola che le vengono serviti. S:Uno dei capitoli più interessanti del suo ultimo

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capolavoro di Flaubert si parla molto di cibo, come in effetti ho poi verificato. Il cibo in Madame Bovary non è citato come semplice elemento di ambientazione realistica, ma ha uno straordinario valore metaforico, come una sorta di correlativo oggettivo degli stati d'animo di Emma. S:Piccole donne in cucina è, invece, l’ultimo nato della collana, che, negli anni, si è arricchita di ben 63 titoli. Da Madame Bovary a Piccole donne è cambiato qualcosa del suo modo di approcciarsi alla materia

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hissà di che meravigliosa colazione si saranno private Jo, Meg, Amy e Beth, le mitiche sorelle March, per andare a sfamare i poveri Hummel! Piccole donne in cucina, l’ultimo libro di Elisabetta Chicco Vitzizzai, uscito a luglio 2012 all’interno della collana Leggere è un gusto (Leone Verde Edizioni), risponde a questa e ad altre domande di natura “letterario-gastronomica” legate al capolavoro alcottiano. I libri della collana Leggere è un gusto prendono spunto dagli autori e dalle grandi opere di letteratura e cinema per proporre ricette a tema, condite con brani tratti dalle opere in questione, a seguire con riflessioni di critica e storia letteraria e con contorno di dati biografici e curiosità sugli autori trattati. Elisabetta Chicco Vitzizzai (autrice, inoltre, di quattro romanzi, quattro raccolte di racconti e alcuni testi scolastici) oltre a Piccole donne in cucina, ha dedicato altri tre libri al connubio tra cucina e letteratura: La cucina golosa di Madame Bovary, Alla tavola di Virginia Woolf e A tavola con Scarlett O’Hara, tutti editi da Leone Verde Edizioni. Oggi noi di Speechless abbiamo il piacere di poterla intervistare, per poter assaporare appieno il lavorio letterario e gastronomico che si cela dietro questi suoi particolarissimi libri. Speechless: B e n v e n u t a Elisabetta. Il suo La cucina golosa di Madame


lavoro indaga il legame tra la biografia della Alcott e la storia che è raccontata in Piccole donne e i suoi vari seguiti, un mito per tante generazioni di lettori: curiosamente se ne desume che, nella sua opera, l’autrice ha edulcorato la propria storia personale, riducendo di numero e intensità le tante tragedie

to, forse anche perché cerca nello scrivere consolazione e risarcimento. E poi per pudore familiare non avrebbe certo potuto rivelare al pubblico l'inettitudine del padre come capofamiglia. S:Dopo essersi cimentata con le opere di Flaubert, Woolf, Mitchell e Alcott, ha già in mente quale sarà l’oggetto della sua prossima fatica gastroletteraria? Vuole anticiparci che cosa bolle in pentola? EC: No, di gastronomico-letterario non bolle alcunché in pentola. Il prossimo sarà un romanzo.

S:Delle ricette “alcottiane” ricostruite nel suo libro, ce n’è una che le sta particolarmente a cuore? La vorrebbe regalare ai lettori di Speechless? EC: Una delle ricette più curiose è quella dei Turnovers, che Jo e Meg si portavano da casa per fare uno spuntino nei rispettivi luoghi di lavoro, l'una come dama di compagnia di una vecchia prozia, l'altra come baby-sitter, e che chiamavano "manicotti" perché , essendo appena usciti dal forno , scaldavano lungo la strada le loro mani intirizzite dal gelo invernale.

60 e ristrettezze che l’hanno costellata. Che cosa spiega, a suo parere, questa scelta così contro corrente, specie in un’epoca in cui i contemporanei della Alcott tendevano, al contrario, ad esasperare sé stessi nei romanzi che scrivevano? EC: Non so se i contemporanei di Louisa Alcott tendessero a esasperare se stessi nei romanzi che scrivevano (in letteratura l'autobiografia è sempre anche molto immaginaria): la Alcott descrive la famiglia che avrebbe volu-


[Per 2 o 3 persone] Tritate finemente una cipolla e rosolatela in un cucchiaio di burro. Aggiungetevi 70 g di carne tritata e dopo 5 minuti 50 g di formaggio tagliato a pezzettini. Mescolate continuamente finchÊ il formaggio risulta fuso. Lasciate intiepidire. Ricavate da una sfoglia di pasta sei quadrati di 10 cm di lato. Suddividete il composto su metà di ogni quadrato. Ripiegate schiacciando bene i bordi. Mettete queste sfogliatine in una teglia imburrata e infornate a 200° per 20-25 minuti. Quando i turnovers sono dorati levateli dal forno.

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La ricetta dei TURNOVERS


RACCONTO

Tre indimenticabili giorni di Rita Charbonnier

È

ubriaca di un vino scadente perché ha visto quella gran mignotta della sua ex che gli si avvicinava guardandolo di sotto in su.

È accasciata sul divano e non ha la forza di spostarsi. Prova a mettersi supina ma lo stomaco le arriva alle narici e l’intestino si annoda su se stesso e nella sua testa cozzano nubi pesanti che sovrastano un mare incazzato nero aiuto aiuto qualcuno faccia qualcosa per me. E tutto questo per un bambino cattivo di quarant’anni con una macchina che assomiglia a un cassonetto dell’immondizia e l’alito puzzolente di vodka da due soldi, ma lui non si riduce mai in questo stato, come cavolo fa? Anzi ha un’aria straordinariamente salubre mentre parlotta tutto piacione sdilinquito e sghembo con quella gran mignotta della sua ex. Il bambino cattivo fa qualcosa per lei. La carica sul cassonetto dell’immondizia e la porta a casa propria e la accudisce per tre indimenticabili giorni e per tre indimenticabili giorni la ospita nel proprio letto dalle lenzuola umide di sudore. Lui non possiede una lavatrice e non apre mai le finestre perché è allergico alla primavera, è allergico alla vita, e nel suo frigo campeggia solo un iceberg quietamente disceso dal congelatore accanto a una cipolla ammuffita trafitta da un coltellaccio. Ma per lei, oh, per lei lui compra un chilo di mele gialle e profumate e per tre indimenticabili giorni taglia le mele gialle e profumate a pezzettini e la imbocca paterno, dopodiché alla fine dei tre giorni la rispedisce a casa e si rimette con quella gran mignotta della sua ex.

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è una scrittrice, sceneggiatrice e attrice italiana. Nata a Vicenza, ha vissuto a Matera e Mantova, per poi stabilirsi a Roma. Ha fatto studi musicali, ha frequentato la Scuola di Teatro dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa e il Corso di sceneggiatura della RAI. Ha recitato in teatro al fianco di celebri artisti, per poi dedicarsi prevalentemente alla scrittura. Ha collaborato come giornalista con riviste di spettacolo, ha scritto soggetti e sceneggiature per la televisione, e tre romanzi: La sorella di Mozart, La strana giornata di Alexandre Dumas e Le due vite di Elsa.

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Rita Charbonnier


Le parole del nostro destino: quando l’amore super a

le porte del tempo

di ROBERTA DE TOMI

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verseas è il titolo originale de Le parole del nostro destino, opera prima di Beatriz Williams, uscito il 6 settembre per Editrice Nord. Una parola che, oltre a riferirsi a un poema citato nel testo (in italiano, Oltremare), evoca un “oltre” che travalica i confini della ragione, per arrivare al cuore. Il romanzo della Williams è prima di tutto una storia d’amore, che combina azione e fantastico. La protagonista, Kate Wilson, è una brillante analista finanziaria alle prese con una scalata che sembra inevitabile. Improvvisamente, nella sua vita irrompe Julian Laurence. Un vero e proprio principe da fiaba, troppo perfetto per non nascondere un segreto. E infatti, sul più bello, l’uomo sparisce per cinque mesi, per poi ricomparire, consentendo in tal modo la concretizzazione di quello che è rimasto sospeso. Tutto sembra risolversi in un lieto fine, finché Kate non viene licenziata dalla sua azienda, perché accusata di avere fornito informazioni riservate alla società di Julian. Da questo momento la situazione si complica in un crescendo di rivelazioni sorprendenti. Kate scopre che Julian proviene dalla Francia del 1916, epoca in cui si recherà anche lei. La giovane scopre che con lui, viaggiatore nel tempo, è giunto qualcuno che si

oppone al loro amore. Come spiegato dalla stessa autrice, Le parole del nostro destino: “combina i due mondi che conosco meglio: l’esperienza britannica e la Wall Street dei giorni nostri”. E l’autrice, con la sicurezza di chi conosce bene gli ambiti specifici, riesce a ricreare una situazione in cui echeggiano riferimenti a La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo. Rispetto al romanzo di Audrey Niffenegger, però, la Williams sviluppa la trama in maniera più lineare, pur presentando due vicende spazio-temporali parallele. Lo stile ricalca quello di molti chick-lit di grido, con una scrittura agile, abbastanza convenzionale, ma improntata su un ritmo cadenzato, che porta a un crescendo di colpi di scena ben architettati, in cui il lieto fine non sembra così scontato. È proprio il ritmo e l’abilità nella costruzione della trama, oltre al lavoro di ricerca storica che è alla base del lavoro, quello che spicca, nel contesto di una storia che riprende elementi già molto sentiti. Interessante il disegno dei personaggi; in particolare quello di Julian è ispirato ai soldati-poeti raccontati da Vera Brittain, altra fonte fondamentale per l’autrice. Da Rupert Brooke a Wilfred Owen, Beatriz Williams ha attinto a un ampio repertorio che ha contribuito alla costruzione di questo personaggio nato nel periodo edoardiano e cresciuto in quello contemporaneo, evocatore dunque di un’epoca tramontata, ma non dimenticata. D’altro canto emerge Kate, giovane emancipata, che si scontra talvolta bruscamente con la mentalità dell’uomo d’altri tempi. Un po’ Cenerentola, un po’ Material Girl, un po’ Lady di Ferro, Kate non cede troppo alla tentazione del finale “e vissero felici e contenti”, anzi, vuole mantenere la propria indipendenza, anche se lo strapotere di Julian, in un certo senso, sembra avere la meglio. Rispetto al personaggio di Julian, c’è un altro lato della medaglia che solleva perplessità

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e riguarda la capacità all’adattamento alla vita moderna, poco credibile. Il giovane è un superuomo di quelli che ormai dilagano nel paranormal e nel romance. Esseri talmente eclettici e perfetti da non sembrare umani, come il Christian Grey di Cinquanta sfumature di grigio, che, pur nella peculiarità del modo di amare (o di non saper amare), sa fare tutto. Come in lui, però, anche in Julian c’è uno sprazzo di umanità; e il poetasoldato resta il principe che deve cedere alle esigenze della sua Cenerentola emancipata.


i n o i z a l e Le r

Avevo fatto cose terribili, e non erano ente neanche lontanam le che paragonabili a quel re. mi restavano da fa

: e s o l o c i r pe ndo l'amante è un teenager qua

I

Traduzione di Marco Piva-Dittrich

l 17 luglio Dalai Editore ha dato alle stampe un romanzo particolare: La scuola dei giochi segreti della newyorkese Rebecca Coleman, autrice che Speechless ha incontrato per una chiacchierata. SPEECHLESS: Rebecca, grazie infinite per aver accettato il mio invito e benvenuta su Speechless. Allora, cominciamo con una domanda standard: ti va di presentarti al pubblico italiano? Chi è Rebecca Coleman? REBECCA COLEMAN: Grazie di ospitarmi! Beh, ho una vita interessante... vivo vicino a Washington D.C. con i miei quattro figli e mio marito, che è un vigile del fuoco. Sia io che mio marito abbiamo finito per fare i lavori che speravamo di fare quando eravamo bambini. Interessante, no? S: Sveliamo alcuni retroscena. The kingdom of childhood è il tuo romanzo d'esordio ma non il primo che hai scritto. Quanto è stato difficile il percorso per arrivare alla pubblicazione? E quanto ha inciso il tipo di storia che proponevi? RC: Di solito gli scrittori si sentono dire che, se il romanzo è ben scritto,quando il lettore ha finito di leggerlo gli (o le) sembrerà come un sogno estremamente vivido. Sarà scorrevole come se l'autore lo avesse scritto di getto. Quello che

di ALESSANDRA ZENGO

il lettore non vede è l'enorme lavoro di revisione che necessita. Per lo meno, questo è vero per quanto riguarda The Kingdom of Childhood. È stato difficile da scrivere e ancora più duro da far pubblicare, e rappresenta tutto ciò che ho imparato a proposito della scrittura negli anni precedenti mentre lavoravo su altri progetti. Ma quando il libro arriva nelle mani del lettore tutto questo lavoro dovrebbe essere invisibile. Mi è sempre piaciuto scrivere storie che parlano di gente che proviene da gruppi e comunità piccole, perché sono curiosa di vedere com'è la vita in tali contesti, mi piace cercare di immaginarmela. Non è stato facile con "Kingdom", perché molti agenti avevano creduto che mi fossi inventata di sana pianta il concetto delle scuole steineriane, da quanto bizzarro e incredibile era loro sembrato. Non si erano resi conto che esistono davvero. S: Dicono che il rapporto scrittore/editor sia abbastanza travagliato. Come hai vissuto questo "cambiamento" dalla scrittura amatoriale a quella "professionale"? Quanto ti ha aiutato essere seguita da un editor nel tuo percorso di scrittrice? (Curiosità: qual è stata la prima impressione del tuo editor a The Kingdom of Childhood?) RC: Sono fortunata, perché ho un ottimo rapporto con la mia editor e considero i suoi suggerimenti e

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le sue idee preziosi. Chiaro, certe volte non sono d'accordo, ma cerco di rimanere flessibile e aperta alle sue critiche. Sia lei che il mio agente sono stati preziosi perché mi hanno dato un sacco di consigli e hanno tirato fuori il meglio dalla mia storia. Non penso mi sia stato particolarmente difficile accettare le critiche, perché sono estremamente ambiziosa e volevo che il mio libro fosse abbastanza buono da essere pubblicato, e quindi avevo la volontà di lavorare duro. Ma poi una notte mi sono ritrovata a piangere al telefono con la mia migliore amica perché avevo paura di non essere in grado di rendere il libro bello come avrebbero voluto loro. È stata una sfida enorme. La prima impressione che la mia editor ha avuto del libro è stata estremamente positiva. Le è piaciuto tantissimo, il che mi ha dato una grande soddisfazione: è bello vedere il proprio lavoro apprezzato e compreso. S: I punti di forza del tuo romanzo sono sicuramente i personaggi e la perfetta descrizione della loro psicologia. Come sono nati? E, soprattutto, scrivendo ti sei immedesimata in loro, nei loro sentimenti e nel loro controverso e torbido rapporto?

RC: Grazie! La prima idea che avevo avuto di Judy, l'insegnante, non funzionava. Me l'ero immaginata molto timida, confusa. Il libro non ha preso vita finché non l'ho cambiata rendendola molto più aggressiva. Con Zach, il teenager, volevo dipingere un bravo ragazzo che si ritrova in una brutta situazione, non quello che va a fumare di nascosto in bagno e ha un sacco di ragazze. In entrambi i casi ho pensato che dovessero essere complessi, non degli stereotipi. Quando mi chiedi se mi ci rispecchio... sì, mi ci posso identificare nel senso che, come molti, ho avuto relazioni che non mi davano nulla di positivo ma piene di passione e molto confuse, relazioni nelle quali mi sentivo impelagata e dalle quali non sapevo come uscire. Naturalmente non ne ho avuta nessuna con un teenager, ma la domanda è interessante: cosa succede se qualcuno ha quel tipo di feeling nei confronti di una persona con la quale avere una relazione è illegale? I rischi sono più alti, ma i sentimenti non cambiano. E magari, chissà, il rischio la rende ancora più eccitante. S: A cosa ti sei ispirata per scrivere questa storia? Da dove è nato l'imput iniziale e quanto questa storia rispecchia la

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R

ebecca Coleman non racconta una storia d'amore. Non c'è traccia di sincero affetto tra Judy McFarland, una maestra d’asilo quarantatreenne, e Zack Patterson, uno studente di sedici anni dalle maniere impertinenti. Il laccio che li tiene avvinti è l'ossessione. Judy riscopre la giovinezza grazie alla relazione proibita con un minorenne, mentre Zack viene iniziato ai dolci piaceri del desiderio fisico. L'autrice disvela lentamente, con un'efficace alternanza temporale tra passato e presente, quei «moti dell'animo» in continuo divenire che agitano i due protagonisti. Il lettore penetra nella sfera emozionale di Zack e Judy, viene a conoscenza dei loro sentimenti e delle loro motivazioni, ma non riesce a condannarli. Li condivide, invece, li sperimenta, li comprende. The Kingdom of Childhood, questo il titolo originale, è un romanzo disturbante, ma coinvolgente. Coleman narra le vicende con maestria e precisione; lo stile, lineare e coinvolgente, accompagna il lettore nella psiche dei protagonisti, rendendo ancora più vivida ogni azione, più sentita ogni scelta. Assolutamente consigliato.


concezione della sessualità oggi (ragazze giovanissime con uomini anziani; donne mature con uomini molto più giovani)? Cosa ne pensi di queste dinamiche? RC: Non penso che abbia importanza quando entrambi i partner sono adulti consenzienti, ma nella società nella quale vivo insegnamo ai bambini che fino all'età di 18 anni sono sotto la responsabilità degli adulti e non sono del tutto responsabili delle proprie azioni. Vedono gli adulti come figure di autorità e imparano ad obbedire. Il ragazzo ha imparato che l'adulto è la persona responsabile, il "capo", quindi non è in grado di essere davvero consenziente. E, dato che molte di tali relazioni sono illegali, un adulto non dovrebbe mai essere messo nella posizione di essere costretto a nascondere un crimine. È semplicemente sbagliato, qualunque cosa dica che vuole il minorenne. L'idea alla base della storia mi è venuta guardando il telegiornale parlare di una situazione simile: un'insegnante che aveva un'ottima reputazione aveva una relazione con un ragazzo minorenne. Mi sono chiesta, "Perché cavoli una donna vorrebbe rischiare tutto per avere una storia con un ragazzino?" Non aveva senso per me. E, siamo onesti, non è che un teenager sia comunemente considerato l'amante ideale. Perché non si è semplicemente trovata un adulto? Quello mi ha portato a chiedermi cosa passa per la testa di una donna che fa una follia del genere, e quindi ho scritto una storia al riguardo. S: Non è il caso del tuo romanzo, ma ipoteticamente credi possa esistere l'amore tra due persone di età tanto distanti? Come superare l'inevitabile divario generazionale che si presenterebbe? RC: Sì, penso che l'amore sia decisamente possibile tra due persone con una differenza di età simile. Ma una relazione solida deve avere equilibrio ed eguaglianza. Nel libro si vede Judy comandare Zach a bacchetta, e ha così tanta esperienza più di lui nell'ambito delle relazioni che Zach non sa neanche come litigare, come interrompere la relazione. Lei lo manipola e lo intimorisce. Ho guardato un documentario che parlava di donne che erano colpevoli di avere avuto rapporti sessuali

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con dei minorenni, e molte di loro ammettono di aver manipolato i ragazzi esattamente in quel modo, di aver insegnato loro a mentire riguardo a quello che stava succedendo. Se sei costretto a comportarti così, com'è possibile che si tratti di amore? Per quanto riguarda evitare il gap generazionale... non ne ho idea! Mio marito ha tre anni più di me, e quando in radio sentiamo certe canzoni che gli piacciono lo prendo in giro dicendo "Ah, quella è uscita prima dei miei tempi". Non riesco a immaginare cosa succederebbe in una relazione con una persona molto più vecchia o molto più giovane. Di che cosa si può parlare? S: C'è stata una parte particolarmente difficile da scrivere o particolarmente sentita? RC: È stato difficile scrivere la scena nella quale Zach e Judy sono in camera da letto e lui ha paura che la gente stia iniziando a capire cosa sta succedendo e quindi cerca di interrompere la relazione. Lei gli parla con un tono affettuoso, lo conforta, ma in realtà lo sta manipolando e lui non se ne accorge neanche e finisce per andarci di nuovo a letto. Scene come quella sono state durissime da scrivere perché sapevo che Judy si stava comportando in una maniera orribile, ma dovevo scrivere un dialogo amabile, convincente nonostante fossi schifata da quello che stava dicendo, da come si stava comportando. Da un lato quel dialogo stava uscendo dalla mia testa, dall'altro stavo pensando "Se capita mai che una parla a mio figlio in questa maniera la ammazzo". S: Qualche progetto per il futuro? RC: Beh, il mio prossimo libro, Heaven Should Fall, è uscito da poco negli Stati Uniti, e sto scrivendone un altro che dovrebbe uscire nell'autunno dell'anno prossimo. Parla di una donna innamorata di due uomini che decide che, invece di scegliere, preferisce avere una relazione con entrambi e vivere tutti insieme. Non voglio anticipare troppo, ma posso dire che non va così liscia come sperava.


Letteratura Cosa ci trovo in lei? si chiedeva disperatamente. Che cosa gli dava Judy che non poteva trovare altrove? Perché si ostinava a cercarla, a pensare a lei, a desiderarla, quando era la persona più sbagliata al mondo sotto quasi ogni punto di vista? Ma la domanda non era che la sua stessa risposta. Perchè era proibito. Perché scoparsi una donna su un aereo che precipita è mille volte più eccitante che farlo in una camera da letto di una bella casa.

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Crocevia di solitudini interrotte:

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Miradar

di Ilaria Mavilla di ELISABETTA OSSIMORO

U Via dei Confini collegava Campi Bisenzio a Prato. Era una strada a scorrimento veloce costeggiata da campi incolti e qualche fabbrica abbandonata. In fondo, prima del semaforo, un distributore di benzina e un albergo decrepito con un’insegna luminosa che funzionava a giorni alterni, il Miradar. A seconda di quante lettere decidevano di illuminarsi, il suo nome diventava Radar, Mira, Ira, Ar. Avevo bisogno di un lavoro e sapevo che all’interno dell’albergo c’era un locale, una specie di discoteca anni ottanta che il proprietario stava cercando di svecchiare. Mi presentai a lui per un provino.

n incipit dal sapore vagamente nabokoviano ci introduce senza troppi complimenti al centro dell’azione di Miradar, il romanzo che ha sbaragliato tutta la concorrenza al concorso Il mio esordio, bandito da Il mio libro, ottenendo la pubblicazione nella prestigiosa collana I Narratori, titolo di punta della nuova stagione per Feltrinelli. L’autrice, Ilaria Mavilla, 31 anni, dichiara: “Era il primo romanzo che scrivevo e ho partecipato al concorso senza aspettative, anche perché eravamo davvero tanti. Fino ad allora avevo scritto qualche testo teatrale, qualche cortometraggio, una manciata di racconti. E credo che ci sia qualcosa di tutto questo in Miradar, nella sua struttura che intreccia monologhi. Bellissimo è stato il lavoro editoriale successivo al concorso. Ho imparato a prendermi cura delle parole e ho visto il testo lievitare, crescere con me.” Miradar è un fulmine di 128 pagine in cui una varia umanità ferita si sfiora, si incontra, si scontra in una contraddanza ruvida e problematica che mi ha ricordato il film di Paul Haggis Crash – Contatto fisico: lo contraddistingue una struttura altamente cinematografica, una studiata “poetica


di loro troverà la propria personale resa dei conti, in una notte di pioggia battente in cui i destini di tutti finiranno per influenzarsi e compiersi. Ilaria Mavilla ha scritto un racconto che, aldilà delle singole storie -alcune più riuscite di altre- conquista soprattutto per lo stile tagliente, quasi “mazzantiniano”, per il ritmo serrato della narrazione, per la struttura originale e per la sottile poesia con cui sono finemente dipinti anche i quadri più squallidi. Ancorché non un capolavoro, un esordio degno di nota che ci ha permesso di conoscere una nuova narratrice dalla penna molto personale. Restiamo in attesa dei suoi prossimi lavori.

Letteratura

del dettaglio luminoso” che permette al lettore di mettere a fuoco la storia per gradi, tassello dopo tassello, andando ad incastrare ogni storia nel punto esatto in cui trova una congiunzione – o una disgiunzione – con le altre. L’autrice alterna i narratori, dando voce in prima persona a Margherita, Barbara, Marilù, Clarissa e Sugar, che “non saranno gigli, son pur sempre figli, vittime di questo mondo”, per dirla con De Andrè: papponi, puttane, ballerine di strip club sono i protagonisti di queste pagine, personaggi archetipici che celano solitudini inconfessate, sogni di una vita diversa, infanzie di stenti e violenza. Ma Miradar è soprattutto un luogo dell’anima, una nebbia sottile dove ognuno

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RACCONTO

traduzione di ROBERTA MACIOCCI

Faccia di Luna P

aula aveva una sola cosa in testa. Guardava i due bambini. Era così che li chiamava, ancora, bambini sebbene suo figlio avesse già trentatré anni, e la ragazza accanto a lui solo uno di meno. Ma sembravano entrambi così fragili e indifesi. Deglutì rumorosamente e si allontanò di un passo dalla finestra. Come se potessero sentirla. Leggere i suoi pensieri. Come se avessero occhi e orecchie per qualcun altro a parte loro stessi. I loro visetti schiacciati, a luna piena, erano luminosi e lei non poté fare a meno di ridere. Essere così innamorati. Un’altra volta e basta. Sarebbe meraviglioso. Vide Jan alzare la mano verso i capelli biondi e morbidi della ragazza e... certo, sì, la ragazza... anche se sapeva appena parlare, non sapeva leggere né far di conto, né riusciva a fare nient’altro di impegnativo, era pur sempre una donna, e le carezze di Jan le piacevano, chiudeva gli occhi e piegava la testa indietro. Come in un film. Gli mise le braccia al collo e rise forte. Paula sapeva che stava ridendo, anche se il rumore che le giungeva somigliava più a una tosse profonda. Secca e in un certo senso... rallentata. Stagnante. La bocca minuscola le scomparve fra le pieghe del volto e Jan cominciò a ridere a sua volta. Allora, come sempre, si mise la mano sinistra davanti alla bocca, quasi si vergognasse. Anche lui chiuse gli occhi dietro le spesse lenti degli occhiali e se ne stettero così, in veranda e pensavano, probabilmente, che il mondo fosse loro. Paula appoggiò la fronte al vetro della

finestra e chiuse gli occhi. Ma non rise. Sapeva che il mondo è crudele e non avrebbe permesso tutto quello. E nemmeno il padre di Ada, nella cui officina lavorava Jan. Paula lo conosceva, quel padre. Jan, lo sopportava e basta. Voleva passare da buon vicino, mostrare la sua magnanimità. Guardate qua, ho assunto un disabile! E nel frattempo, teneva nascosta sua figlia. Paula aveva scoperto Ada in un pomeriggio di fine estate, mentre andava a prendere Jan al lavoro. Lui aveva ancora delle cosette da fare, così Paula scese dalla macchina, si sedette sul cofano e si voltò verso il sole morente. Chiuse gli occhi e sorrise per il tepore. All’improvviso, si sentì osservata, ma non si mosse e tenne gli occhi chiusi. Cominciò a canticchiare una canzone, una che per anni aveva cantato a Jan per farlo addormentare, a volte gliela cantava ancora, se aveva avuto una giornata particolarmente agitata. Canticchiò a lungo. E proprio quando cominciava a pensare di essersi sbagliata e stava per smettere, sentì un’altra voce a pochi passi da lei, che provava a seguire la melodia, senza tuttavia azzeccare una sola nota. Paula lo sapeva di sicuro, per istinto e un lampo di conoscenza, un’immagine completa e dei rumori si accesero nella sua testa. “Ciao” disse, senza aprire gli occhi. “Ciao” le rispose una voce rauca e una mano grande, dalle dita corte si posò sulla sua spalla. Da allora erano passati tre mesi in cui il paterno proprietario dell’officina aveva affermato in modo debole ma insistente di non avere alcuna figlia,

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Nataša Dragnić

tantomeno “una così”. Per poi, alla fine, tre settimane prima, ammettere in lacrime che sì, quella era sua figlia e che se ne vergognava tanto e che non poteva sopportare quella vita, che non se l’era meritata, e perché dio l’aveva punito così e sperava che presto finisse tutto e perché la madre era dovuta morire di parto, che non era giusto e che lui figli manco ne voleva e che quella era lì come una palla al piede e lui non ce la faceva più. Paula gli poggiò una mano sulla spalla e non poté fare a meno di pensare a quella figlia che, in quello stato di totale abbandono, seguiva solo i suoi istinti. Paula vide Jan sistemarsi gli occhiali sul naso con un dito e scuotere la testa. La bocca si muoveva piano e Paula era certa che suo figlio stesse raccontando qualcosa. Jan aveva sempre un mucchio di cose da raccontare. A scuola, l’insegnante di sostegno aveva trascritto molte delle sue storie e le aveva fatte pubblicare sul giornalino della scuola. Alcune le aveva mandate a dei concorsi e la stanza di Jan si era riempita di premi e attestati. Per il suo diciottesimo compleanno Paula gli aveva regalato un dittafono. Due anni prima era uscita la sua prima raccolta di racconti. Paula si asciugò una lacrima dalla guancia. E ora quello. Per la prima volta nella vita di suo figlio accadeva qualcosa che le faceva paura: perché non lo capiva appieno, non sapeva dove potesse portare e metteva sottosopra la loro vita insieme. E cosa doveva fare, prego, con quel padre che accompagnava sua figlia da loro, certo, ma

nascosta nel bagagliaio! Nel bagagliaio?! Non aveva voglia di lottare per un altro figlio. Era sfinita. Ada rise ancora. La lingua saettò fuori dalla bocca, rapida e incontrollata e rimase penzoloni un paio di secondi. Il sole tramontava, piano. Era una giornata fredda ma senza vento. La casa profumava di sformato di spinaci al forno, il piatto preferito di Jan. Ada voleva rimanere anche a cena e sarebbero venuti a prenderla più tardi, al calare del buio. Forse a quel punto avrebbe potuto persino mettersi sul sedile posteriore. Ma doveva stare sdraiata. Naturalmente. Non si è mai troppo cauti. Era venuto il momento di chiamare i ragazzi in casa. Jan poteva apparecchiare. Oggi si usano i piatti di plastica. Ancora. Chissà come si comporta Ada a tavola. Come una bambina di tre anni, al massimo. Paula fece un profondo sospiro. Molte cose non le capiva. Padre e figlia, marito e moglie, figlia e figlio. Mentre Paula bussava alla finestra per far segno a Jan che dovevano rientrare, non aveva che quel pensiero in testa. Quella domanda non le dava pace. Tirò le tende e si coprì il viso con le mani. Come si può sapere? Essere sicuri al cento percento? Da cosa si capisce? C’è una canzone che dice che la risposta sta in un bacio. Lei non se lo ricordava più. Jan e Ada stavano lì nel corridoio a strofinarsi a vicenda le dita gelate. E ridevano.

Letteratura

è nata nel 1965 a Spalato, Croazia. Nel 1995 si è laureata in Lingue e letterature straniere e si è specializzata in studi diplomatici. Vive a Erlangen, Germania, dove insegna Lingue nell'università locale. Ogni giorno, ogni ora è il suo primo romanzo, pubblicato in Italia da Feltrinelli.


4 7 o t t i r c Quel Qualcosa di s o i l o r t e P a o r t n e d che ti porta di VIVIANA FILIPPINI

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on so se vi sia mai capitato di trovarvi in libreria, di aggirarvi tra gli scaffali e di fermarvi davanti ad un libro perché avete l’impressione che si rivolga a voi dicendovi: «Comprami e leggimi». Fervida immaginazione? Stramba impressione di una appassionata lettrice? Non so, ma vedendomi davanti Petrolio di Pier Paolo Pasolini (Oscar Mondadori, 2005) ho avuto questa sensazione, poi però ho optato per Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi. Leggo la trama del libro treviano e alla fine me ne vado dalla libreria portando con me anche Petrolio, ed è proprio la sua copertina – nera per i tre quarti della superficie – che mi fa pensare a quel liquido denso con sfumature marroni e verdi, quell’elemento naturale che si infiamma facilmente e si nasconde sotto la crosta terrestre. Un liquido torbido che nasconde e brucia, come ardono la mia curiosità e la voglia di capire il perché Petrolio di Pasolini ha suscitato nel corso della sua esistenza tante opinioni contrastanti. Con il pensiero rivolto all’oro nero di Pasolini comincio la lettura di Qualcosa di scritto di Emanuele Trevi. Protagonista di questo romanzo/saggio ambientato nella Roma dei primi anni Novanta è un giovane studioso trentenne, dipendente del Fondo Pier Paolo Pasolini. Qui il giovane con il suo carattere un po’ cinico, ma allo stesso ingenuo, approda per effettuare un possibile documentario sulle

interviste di Pier Paolo Pasolini. La volontà di portare a termine il progetto c’è tutta, ma l’ambiente del Fondo e il rapporto con la sua direttrice, detta la Pazza, porteranno il giovane a crearsi una nuova immagine dell’autore friulano, morto tragicamente nel novembre del 1975, e di


Nelle pagine di Trevi, Laura Betti non è più la giovane ragazza dei film di Pasolini, ma è una donna matura, un po’ bisbetica, ossessionata dal cibo e da Pasolini stesso. Ed è proprio questo amore viscerale, non corrisposto, verso lo scrittore friulano che l’ha indotta a dare vita a un archivio interamente dedicato allo stesso, a diventarne la direttrice e a curarne ogni attività, divulgando nel tempo la memoria di un grande scrittore, di un regista, di uno profondo indagatore di esperienze nel mondo dell’arte e della vita di ogni giorno vissuti fino all’estremo. Il rapporto tra il giovane e la Pazza costituisce la cornice strutturale del romanzo di Trevi, entro la quale prende vita un cammino di crescita e apprendimento molteplice, che non coinvolge solo chi vive nelle pagine della narrazione, ma investe – e forse non tutti i lettori se ne accorgeranno alla prima lettura – anche la dimensione del fruitore di Qualcosa di scritto. Quest’ultimo è un libro, infatti, che racconta un processo di formazione, o meglio, di iniziazione più che alla vita, alla conoscenza di una parte del vissuto e di alcune opere (Salò e Petrolio) di

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uno dei più importanti letterati italiani della seconda metà del Novecento. A dire il vero, il cammino di conoscenza del nuovo non riguarda solo il protagonista di Qualcosa di scritto, anzi esso tocca da vicino ogni lettore. Perché? Per il semplice fatto che il giovane scrittore non ha una identità precisa: non ha un nome e nemmeno un cognome specifici che permettano a chi legge di identificarlo con un io certo. Anonimo, soprannominato Zoccoletta dalla Betti, permette a chi legge di immedesimarsi in lui e di compiere un viaggio di comprensione e conoscenza delle idee e dei substrati socioculturali dai quali hanno preso vita la pellicola filmica di Salò e in particolare di Petrolio. Questo volume incompiuto è, a quanto esprime Trevi attraverso il suo alter ego letterario a pagina 120 di Qualcosa di scritto, l’esempio di «una trasformazione radicale e irreversibile di tutto l’essere, che si manifesta nella formazione di una visione, o di una serie di visioni». Lo stampato di Emanuele Trevi, arrivato tra i finalisti del Premio Strega 2012, propone al pubblico di lettori un doppio pellegrinaggio, in quanto, da un parte, chi legge conosce la vita del ragazzo protagonista nella Roma dei primi anni ’90, poi arriva nella Grecia culturale dello stesso periodo e si immerge negli interessi intellettuali del Fondo Pasolini sul finire del secolo scorso. Dall’altra il protagonista, che a volte può sembrare un po’ spocchioso, ci accompagna verso la conoscenza dei contenuti e del processo creativo che hanno caratterizzato Petrolio. Da subito siamo avvisati che nel suo ultimo romanzo Pasolini non si presenta al lettore come io-narratore, ma assume i panni dell’io-uomo che, raggiunta una conoscenza e consapevolezza tale della vita, può essere identificato come l’uomo perfetto consapevole del tutto, perché lo ha sperimentato sulla propria pelle. In origine Pasolini aveva pensato di realizzare un romanzo di 2000 pagine circa, nel quale convogliare ogni esperienza della sua vita. Basti pensare che nel 1975 in un’intervista comparsa su «La Stampa Sera», il 10 gennaio, Pasolini dichiarava alla giornalista Rossella Re: «Ho iniziato un libro che mi impegnerà per anni, forse per il resto della mia vita. Non voglio parlarne (...) basti sapere che è

Letteratura

alcune sue opere poco comprese dalla critica e dai lettori, tra le quali l’incompiuto Petrolio. La Pazza è in realtà Laura Betti, una cantante e l’attrice che Pasolini spesso definiva «una tragica Marlene, una vera Garbo con sopra al volto una maschera inalterabile di pupattola bionda».


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e del contenuto letterario per l’attore principale di Qualcosa di scritto. I due saranno uomini nuovi con uno sguardo diverso e puro rivolto al mondo. Il loro sarà lo sguardo di “iniziati”. La lettura in simbiosi di Qualcosa di scritto e di Petrolio è molto utile e la consiglio perché i lettori impareranno attraverso le esperienze del giovane dipendente del Fondo quello che Pasolini stesso ha ricercato, ha letto e ha scritto per dare vita a Petrolio. Un’opera che nelle sue schegge costruttive fa emergere tutta la volontà di espressione di ricchezza stilistica e delle tematiche di riflessione più a cuore a Pasolini. Il romanzo di Trevi non si limita a raccontare un cammino di formazione interno al libro, esso è qualcosa di esterno che investe anche chi legge, permettendogli di conoscere meglio una parte della vita – l’ultima – di Pier Paolo Pasolini e la genesi di alcune sue opere. L’io protagonista del romanzo di Trevi conosce quello che ha originato Petrolio e nello stesso momento in cui il giovane aspirante scrittore vive questa iniziazione anche il lettore, cioè noi, impara e conosce attraverso le esperienze del protagonista narrativo tutti gli eventi e gli ingredienti che determinarono la formazione di Petrolio. Qualcosa di scritto è un libro ricco e corposo di sentimenti e significati, come lo è lo stesso Petrolio di Pasolini al quale ogni lettore viene iniziato. Un vero e sincero elogio va rivolto ad Emanuele Trevi che con Qualcosa di scritto ha creato non solo un bel romanzo e, allo stesso tempo, un bel saggio letterario, ma ha regalato a noi lettori un’utile guida letteraria o, concedetemelo, manuale di istruzioni per l’uso, che aiuta il fruitore a conoscere meglio la fluente densità culturale ed umana di Pier Paolo Pasolini.

Letteratura

una specie di “summa” di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie.» L’esperienza della condizione umana da parte dello scrittore di Casarsa in realtà assomiglia a quella del protagonista di Petrolio di Carlo Valletti (primo e secondo). Carlo è un giovane appartenente alla borghesia torinese, nato nel 1932, laureatosi in Ingegneria a Bologna nel 1956, dipendente dell’ENI e fervente cattolico comunista. Questo giovane impegnato in un processo di scalata sociale ha una doppia personalità in perenne bilico tra razionalità e torbida passionalità. La convivenza in uno stesso io di questa duplice natura determina tutte le contraddizioni che caratterizzano il personaggio principale di Petrolio e lo portano a vivere esperienze estreme per dare il compimento al processo di iniziazione ai misteri della vita. Il giovane adulto Carlo sperimenta, come il protagonista di Qualcosa di scritto, un cammino iniziatico che lo porterà a conoscere la verità profonda del vivere umano (il pellegrinaggio sperimentato dal giovane scrittore creato da Trevi riguarda anche la conoscenza di uno scrittore e di alcune sue opere). Attraverso queste prove e con il viaggio mistico, Carlo Valletti e il dipendente del Fondo Pasolini del romanzo di Trevi attuano una vera e propria riflessione sulla vita personale e sull’Italia nella quale vivono. Nonostante il lasso temporale che separa i due personaggi sia evidente (Valletti vive negli anni Cinquanta Sessanta, mentre il giovane di Qualcosa di scritto negli anni Novanta) entrambi intuiscono un progressivo e brutale imbarbarimento della società italiana che ha perso ogni aspirazione e valor del vivere. Questa consapevolezza di Carlo Valletti, come quella del personaggio treviano, sono i segni di una completezza di coscienza che garantirà ai due la possibilità conoscere la verità profonda del vivere per il protagonista di Petrolio


Char les

Dickens

SPECIALE il cantore dell'epoca vittoriana

di STEFANIA AUCI

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el 1812 il piacere della lettura era un privilegio riservato ancora a pochi. Scarsi erano i romanzi pubblicati in quel periodo, spesso di bassa qualità; nessun autore scriveva intendendo quest’attività come il proprio mestiere e si stava appena iniziando a progettare macchine per la stampa azionate a vapore. È in quell’anno che nasce

Charles Dickens, l’autore che ha radicalmente trasformato il ruolo dello scrittore e che, più di chiunque altro, ha segnato la cultura e la società anglosassone con la sua sterminata produzione. Dickens non aveva pensato di diventare uno scrittore: il suo vero amore era il teatro, e successivamente la carriera giornalistica. Tali esperienze

personali furono preziose, ed egli iniziò a metterle a frutto quando comprese, dopo la pubblicazione de Il circolo Pickwick, che le sue doti di narratore potevano garantire una certa sicurezza economica. Grazie alla crescente diffusione delle rotative azionate a vapore, dagli anni trenta del XIX secolo si diffuse la lettura di riviste e quotidiani, cui erano


l’Inimitabile Dickens. Per questo subì gli effetti deleteri del successo di massa: ad esempio, in America, le sue opere venivano regolarmente piratate e in più di una occasione vi furono scene di isteria collettiva per le letture pubbliche. La sua scrittura potente e pulita, lo stile scorrevole e la tipologia di storie che narrava erano comprese anche da chi aveva una scarsa alfabetizzazione, sed etiam coinvolgeva chi aveva un’istruzione (e un rango) superiore. Sul punto, sono illuminanti le considerazioni di Stefano Manferlotti, professore ordinario di Letteratura inglese presso l’Università di Napoli Federico II, nonché uno dei più importanti esperti di Dickens nel nostro paese, che ha curato una splendida traduzione dell’ultima opera dell’autore, Il mistero di Edwin Drood, (Roma, Gargoyle) rimasto incompiuto. Speechless: Dickens viene considerato il primo autore che scrisse assecondando i gusti del pubblico e per denaro. Nell'epoca vittoriana il suo stile era considerato "populist" da parte dei critici. A suo avviso, questa è più un'accusa infondata o è la misura di una personalità geniale che ha rivoluzionato la figura dello scrittore?

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Stefano Manferlotti: La questione va posta diversamente. In epoca vittoriana la pubblicazione dei romanzi in fascicoli settimanali, unita alla crescente

alfabetizzazione, determina un'impennata vertiginosa nelle vendite, quindi nei guadagni che dalle loro opere ricavano gli scrittori. In breve tempo ciò li rende autonomi dal punto di vista economico. Si tratta di una rivoluzione vera e propria. Possono perfino apparire i primi scrittori proletari. Dickens è uno di questi. Naturalmente, la pubblicazione a dispense imponeva anche una serie di strategie compositive che mantenessero vive le attese dei lettori. In questo Dickens era un maestro: seguiva i gusti del pubblico, ma contribuiva anche a formarli. Col crescere della sua fama, il secondo processo ebbe sempre più il sopravvento sul primo. S: La seconda parte della produzione di Dickens si concentra sullo studio di caratteri e topoi umani.

Letteratura

allegati dei romanzi suddivisi in capitoli e pubblicati in fascicoli. Il successo di queste pubblicazioni fu enorme e la loro diffusione capillare: esponenti di ogni strato della popolazione – dalla Regina Vittoria fino ai lavoranti delle botteghe di Londra – si appassionavano ai feuilleton pubblicati settimanalmente e attendevano con ansia le uscite successive. Charles Dickens riuscì a manovrare alla perfezione i meccanismi narrativi, lasciando perennemente i lettori con il fiato sospeso ed esplicitando il concetto di turn page novel. Autentico genio narrativo, lo scrittore inglese aveva la capacità di delineare personaggi coerenti e credibili in cui si mescolavano luce e ombra, cinismo e generosità, crudeltà e compassione. Nessun altro prima di lui aveva avuto un simile mix di talento, ambizione e energia: Dickens sapeva scrivere per le masse ma altresì riusciva a creare una relazione personale e intima con ciascun lettore. Questo legame era rafforzato anche dalle letture aperte al pubblico che egli stesso eseguiva, o meglio, recitava nei teatri della Gran Bretagna prima e degli Stati Uniti poi. Tournee estenuanti cui l’autore si sottopose sia per ragioni economiche – era fortemente indebitato – sia perché egli amava il contatto con il pubblico. Istrionico e sottile, Dickens mise a frutto la sua esperienza di ex attore e mescolò paura, ironia, orrore e tenerezza nelle sue performance, creando in maniera scientifica il mito di sé stesso, arrivando a definirsi


il mistero di

Edwin Drood

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L’

ultima opera di Charles Dickens è un romanzo incompiuto: un rompicapo che ha affascinato studiosi e appassionati. Edwin Drood è una storia di grandi passioni, di gelosie e di invidia, ricca di intrighi familiari che si intrecciano in una sequela di scambi e vendette. Edwin è il promesso sposo di una giovane, Rose, di cui è invaghito anche Jasper, zio del protagonista. Jasper, più che Edwin, rappresenta il fulcro della narrazione: maestro del coro della parrocchia, persona stimata e apprezzata, è in realtà un’anima nera, dotato di un fascino perverso con cui cela i propri vizi, primo fra tutti la dipendenza dall’oppio. Dall’altra parte, Edwin è una figura piena di sé, un ragazzotto superficiale che non ha lo stesso charme oscuro dello zio. Attorno a loro, una miriade di personaggi che colpiscono per la loro icasticità: dal sindaco al benefattore – che Dickens descrive con un’ironia mordace intrisa di critica – fino a Neville e alla sorella, figure ostiche e scostanti, che non riescono a integrarsi con il microcosmo del villaggio, fatto di ipocrisia e perbenismo. Sebbene sia un’opera incompiuta e dunque non rifinita, sotto-trame e personaggi si intersecano in una struttura complessa e raffinata con poche, sapienti frasi. Come termina il romanzo? O meglio: quale sarebbe stato il finale se Dickens avesse potuto scriverlo? Le notizie in nostro possesso sono incerte: sebbene in molti ritengano che il colpevole della morte di Edwin Drood sia Jasper, nessuno è in grado di sapere come Dickens avrebbe raggiunto quest’esito. E, per dirla come il professor Manferlotti, ci vorrebbe una seduta spiritica per conoscere le intenzioni dell’autore…


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lavorare in fabbrica per un breve periodo di tempo mentre il padre era rinchiuso in carcere per debiti. La vergogna e la desolazione che egli riusciva a trasmettere ai propri lettori erano autentici poiché derivavano da un doloroso vissuto personale. Divenuto uno scrittore famoso, egli cercò di appuntare l’attenzione sulla terribile condizione dei minori, assumendo così il ruolo di “Intellettuale impegnato” ante litteram. Ecco cosa osserva in proposito il professor Manferlotti. S: Il ruolo dell'intellettuale nella rappresentazione della realtà sociale vive con Dickens un punto di svolta: la prima parte della sua produzione è incentrata su tematiche forti quali la povertà e il degrado della metropoli, la condizione dei minori e lo iato tra città e campagna. Quale è stato, a suo avviso, il ruolo della produzione

dickensiana nella letteratura di impegno sociale? SM: Dickens è stato un acuto "diagnostico" dei mali del suo tempo, non ci sono dubbi. Ma nel valutare i suoi romanzi "sociali" non va mai dimenticato che si tratta innanzitutto di uno scrittore creativo, che per fortuna nostra non si limitò mai alla mera denuncia. In letteratura, insomma, la centralità spetta sempre alla forma. È col suo stile inimitabile che Dickens ci affascina. Non vi sono dubbi, tuttavia, che le sue descrizioni dello sfruttamento minorile - per fare un esempio - impressionarono talmente l'opinione pubblica che il Parlamento dovette prenderne atto, varando leggi che ponessero un freno almeno alle storture più macroscopiche. Non dobbiamo dimenticare che per certi versi il romanzo aveva allora la funzione che oggi ha la televisione.

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Si tratta di figure iconiche che incarnano archetipi umani facilmente riconoscibili dai lettori. Quali sono stati, secondo lei, i motivi di questo cambiamento di rotta? SM: Devo essere sincero: respingo con forza queste distinzioni manualistiche. Nel caso di Dickens, poi, sono destituite di fondamento. Stiano parlando di uno dei più grandi narratori di tutti i tempi: sì, in Dickens non mancano i "tipi", ma ben più numerosi sono i "personaggi", indagati nel profondo, delle loro coscienze. Formidabile è anche la costruzione e descrizione degli ambienti, dei contesti soprattutto urbani, per non parlare dell'attenzione per il dettaglio e della capacità dimostrata nell'evitare i pericoli del realismo d'ordinanza. Basta leggerlo con attenzione e si vedrà che la definizione "cambiamento di rotta" è riduttiva, non regge al confronto coi testi. Ma la grandezza di quest’autore non risiede solo nello stile o nella capacità di affabulare il pubblico. Egli, pur mantenendo un tono “populist” attirò l’attenzione sulle grandi problematiche che affliggevano la società vittoriana: la povertà delle metropoli, lo sfruttamento e la delinquenza minorile. Temi particolarmente cari a Dickens che nella sua infanzia aveva dovuto


Vita e morte di ELISABETTA BRICCA di Lady Lazarus 82 rò mai felice, ma “Luglio 1950. Forse non sa basta la casa stasera sono contenta. Mnsi o di stanchezvuota, un caldo, vago se tutto il giorno al za fisica per aver lavoratompicanti, un bicsole a piantare fragole raherato, una ciotola chiere di latte freddo zucc nna. Ora capisco di mirtilli affogati nella paere senza leggere, come la gente possa viv uno è così stanco, senza studiare. Quando bisogno di dormire alla fine della giornata ha lo aspettano altre e il mattino dopo, all'alba,si va avanti a vivefragole da piantare, e così enti come questi re, vicino alla terra. In mom di più...” sarei una stupida a chiedere

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on è facile scrivere di Sylvia Plath, cogliere la sensibilità, il messaggio e l’essenza dei suoi scritti. Quando si tratta di affrontare un’anima sfaccettata e tormentata come la sua, le parole vengono a mancare. Sylvia Plath è stata una poetessa e scrittrice, fragile e immaginifica. Viscerale e scettica. Nata a Boston nel 1932, da immigrati tedeschi, dimostra da subito un talento precoce per la scrittura. Nell’età adulta, la sua vita è tormentata dalla depressione che la porterà a tentare il suicidio per ben due volte e al ricovero nell’ospedale psichiatrico McLean Hospital. Uscita, Sylvia vince una borsa di studio per l’Università di Cambridge, dove conosce il poeta Ted Hughes, l’amore della sua vita, che sposa nel 1956 e dal quale avrà due figli. Sylvia scrive, scrive sempre. Non si ferma. La sua opera (autobiografica) più conosciuta, pubblicata nel 1963 sotto lo pseudonimo di Victoria Lucas, è senza dubbio The Bell Jar – La Campana di vetro, in cui, attraverso gli occhi della protagonista Esther Greenwood, Sylvia racconta parte della sua vita e l’esperienza dell’ospedale psichiatrico. Considerato un roman à clef, ossia un romanzo

Anche tra le fiamme violente si può piantare il Loto d’oro. Epitaffio sulla tomba di Sylvia Plath

a chiave, che descrive la vita reale dietro la finzione, non è, in realtà, conoscendo le vicissitudini della Plath, difficile capire quanto ci sia dentro di se stessa. La vicenda si svolge nel 1953 a New York ed è narrata in prima persona da Esther Greenwood, giovane studentessa non ancora ventenne, che si trova a fare praticantato in una famosa rivista di moda. Esther è una provinciale che si ritrova catapultata in un mondo scintillante e glamour, che prevede e impone una sorta di rito iniziatico, costruito su una serie di comportamenti e convenzioni sociali, per essere accettate dal gruppo.


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una lucida, costante, visione del baratro oltre lo slancio al perfezionismo, come acqua stagnante mossa da fuochi violenti e ispirati. I posteri hanno creato un’immagine romantica attorno alla figura della Plath, in realtà negli scritti di Sylvia c’è una fredda indagine analitica, quasi psicoanalitica. Un urlo, una passione resa ancora più vivida dalla coscienza di un destino ineluttabile. Un fuoco che brucia nell’istante in cui è creato, senza speranza alcuna nel domani. Leggendo “La Campana di vetro” si prova un sentimento di asfissia, un’essenza tragica, una totale sfiducia nel futuro. Le poesie di Sylvia sono cupe, sensuali, quasi macabre. Così è, così sarà. Nessuna via d’uscita, nessuna scelta. Un lungo tunnel buio alla fine del quale non s’intravede la luce, ma solo l’abisso. La grande prova d’amore di Sylvia è stata aver lasciato ai posteri ciò che è stata, così, forse, inconsapevolmente. Una falena che ha agognato la luce, e che del suo desiderio di luce si è bruciata.

Letteratura

Ne è un esempio Doreen, altro personaggio del libro, compagna di stanza di Esther, che in fondo lei disprezza, ma che vuole emulare nel suo percorso di accettazione sociale, per essere come gli altri. Le convenzioni sociali rappresentano il grande ostacolo da superare per Esther/Sylvia e la propria incapacità all’adattamento la porterà a un profondo disagio esistenziale. Simbolica la scena in cui Esther si libera dei suoi costosi vestiti gettandoli, uno a uno, dal balcone del proprio appartamento. La consapevolezza dei propri limiti, dell’essere diversa e del non poter mai diventare, nonostante gli sforzi, come gli altri. Condizione esistenziale che porterà Esther/Sylvia al crollo nervoso e al ricovero, esperienza in cui scoprirà che il “diverso” è la quotidianità, fino a una lenta risalita verso la luce dell’accettazione. Cosa che non avverrà nella vita di Sylvia, suicida ad appena trent’anni, nella sua casa londinese, dopo aver preparato la colazione per i suoi due figli. Scrive nei suoi famosi Diari: “Distinguendomi. Queste ragazze sono tutte uguali […] Mi sento come Lazzaro: ha un tale fascino, questa storia. Ero morta e sono resuscitata, e mi aggrappo persino al valore puramente sensoriale dell’essere una suicida, dell’esserci andata così vicino, dell’uscire dalla tomba con le cicatrici e il segno deturpante sulla guancia […]” E ancora: “Il vento ha spinto sul mare una luna giallo intenso: una luna bulbosa, che germoglia nel cielo indaco sporco e sparge occhieggianti petali luminosi sulla nera acqua fremente.” In tutte le opere della Plath, siano esse poesie o romanzi, il male di vivere rappresenta una costante. Una lotta senza requie di Sylvia contro se stessa, dell’essere contro l’apparire. C’è, in lei,


, a r t s 84 e d a a d n o c e s a L o n i tt a m l a o n e poi dritto fi di ANDREA CATTANEO

I

lettori sono grandi viaggiatori, non è un’opinione è un fatto. Molti lettori sono provetti Marco Polo, sono stati (magari solo con la fantasia) in posti incredibili e lontanissimi, e tutto questo grazie ai libri. Chi pensa che tra il mondo reale e quello dei libri ci sia una netta separazione si sbaglia di grosso: molte cose passano da un mondo all’altro e spesso esistono in entrambi. Per chi voglia approfondire l’argomento, in ambito accademico esiste una disciplina specifica, la Geografia immaginaria, che si occupa di tracciare questi itinerari a metà strada tra realtà e finzione. Per chi invece ha fretta di partire, eccovi qualche suggerimento di viaggio (e anche qualche consiglio di lettura).

«I sentieri si costruiscono viaggiando», diceva Franz Kafka di Praga, impiegato alle Assicurazioni Generali in piazza di San Venceslao. Non risulta che Kafka fosse un gran viaggiatore nel senso tradizionale del termine, a parte qualche piccolo spostamento per lavoro (e per amore), non si è mai allontanato troppo da Praga. Quello che sappiamo per certo di Kafka è che, con i suoi libri, ha tracciato sentieri in territori sconosciuti della fantasia umana. Tra le tante descritte dall'autore, c’è una pista (raccontata ne Il Castello) tutta da esplorare che parte dalla romantica Praga e porta dritto a un villaggio della campagna boema che sorge ai piedi di un enigmatico Castello. Rimanendo nell’Est Europa, c’è un altro itinerario fantastico (in tutti i sensi) che vi consiglio di fare ed è quello descritto nel Dracula di Bram Stoker. Si parte da Monaco di Baviera rigorosamente in treno e, se possibile, con convogli lenti perché per questo viaggio è meglio non avere fretta. Le tappe sono: Vienna, Budapest, Klausenburgh in Romania e, per finire, Bistritz in Transilvania. Il signor Stoker sostiene che, nei pressi di Bistritz, ci sia un ricco compratore interessato a un’unità


immobiliare a Londra nota come “Carfax”. Certo, viaggiare in compagnia di un avvocatucolo alle prese con un matrimonio soffocante non è il massimo della vita, forse non incontrerete vampiri (il che può essere un bene o un male, dipende dai punti di vista...), però al vostro arrivo vi attende la parte più misteriosa dell’Unione Europea. Da Bistritz l’itinerario di ritorno descritto in Dracula ci riporta a Londra e nella capitale inglese non si può non fare una capatina in una graziosa strada frequentatissima da turisti e curiosi: Baker Street. Il signor Holmes ha, al numero 221B, il suo studio sia nella dimensione parallela, immaginata da Arthur Conan Doyle e ferma per sempre al XIX secolo, che nella nostra. A chi non vede altro che la realtà tocca (al civico 234 spacciato per 221B) una ricostruzione un po’ kitsch dello studio dove Holmes e Watson discutevano i loro misteriosi casi, per tutti gli altri c’è un universo da scoprire sopra e sotto Baker Street (date un’occhiata alla stazione della metropolitana).

Anche Parigi è una meta imperdibile per chi ama la letteratura, la città è stata raccontata così tante volte che è impossibile distinguere le innumerevoli Parigi sovrapposte una sopra l’altra. Succede una cosa strana in città agli amanti della buona letteratura (se ne è accorto anche Woody Allen), il rischio di perdersi è altissimo. Le tracce di Hemingway, anche lui a suo tempo viaggiatore appena arrivato in città, portano alla fantastica libreria Shakespeare and Company sulla Rive gauche. L’edificio è retto su montagne di libri accatastati ovunque. Qui s’incontravano Ezra Pound, Francis Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, George Antheil, Man Ray, James Joyce e un numero imprecisato di aspiranti scrittori che non ce l’hanno fatta. Insomma, lo dico per gli amanti del genere, questa è di sicuro una libreria infestata di fantasmi. A Oriente ci attendono guide molto importanti. La Russia dei miliardari e delle follie di oggi è molto diversa da quella raccontata da Dostoevskij nei suoi capolavori. A San Pietroburgo, e per la precisione al numero 18 della Grazhdanskaja, c’è un monito per chiunque pensi di poter ingannare la propria coscienza. A quell’indirizzo abitava il giovane squattrinato Raskol'nikov, autore

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Londra è piena di “tracce letterarie” da seguire ben note ai bibliofili più incalliti. Al turista qualsiasi la stazione di King’s Cross sembrerà solo una delle tante stazioni ferroviarie britanniche con muri in mattoni a vista, non è così per chi è stato almeno una volta a Hogwarts in Scozia, e sa che l’espresso per la Scuola di Magia e Stregoneria parte dal binario 9 e ¾.


86 impunito di un duplice delitto perfetto. O meglio, impunito finché lui stesso non ha deciso di vuotare il sacco per amore di una prostituta. A Mosca, nei pressi del Cremlino dove passò il corteo funebre di Berlioz, le tracce dell’esistenza del Maestro sono ancora ben visibili nonostante la censura sovietica ce l’abbia messa tutta per cancellare il manoscritto di Il Maestro e Margherita. Chi ha letto Bulgakov sa di cosa sto parlando, agli altri lasciamo i percorsi turistici (forse) un po’ meno affascinanti. Procedendo verso est si arriva in Giappone, quell’arcipelago popolato da gente tenace ed enigmatica che produce sogni e fantasie dalla notte dei tempi. Qui possiamo affidarci a due ciceroni d’eccezione. Chi meglio del signor Murakami può guidarci attraverso il dedalo di strade di una città, Tokyo, a metà strada tra sogno e realtà, presente, passato e futuro. Nel suo ultimo romanzo 1Q84 racconta soprattutto il mistero principale che avvolge le isole giapponesi: le persone. Comprenderle non è semplice, ci tenta anche la nostra seconda guida Goffredo Parise che, ne L’eleganza è frigidai, traccia un itinerario antropologico valido ancora oggi e, oggi come ai suoi tempi, insufficiente per svelare il mistero giapponese. Penultima tappa di questo excursus è la costa Atlantica dell’America del Nord. Providence, nel


niente, compreso uno strano mostro marino con tentacoli assai noto ai lettori di Il richiamo di Cthulhu. L’ultimo spunto di “viaggio letterario” è anche l’ultima frontiera dell’esplorazione: lo Spazio profondo. Si può visitare dopo un severo addestramento militare ai comandi di Robert Heinlein (Starship Troopers), oppure bighellonando in autostop seguendo i consigli della Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams (e non dimenticate il vostro asciugamano a casa).

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Letteratura

Rhode Island, forse non potrà vantare lo spettacolo del Golden Gate o lo skyline di Manhattan, ma è ricca di storie e attira come una calamita tutti gli “adoratori” di H. P. Lovecraft. Qualcuno lo considera uno scrittore di genere dallo scarso talento, qualcun altro (molti milioni di persone a dire il vero) lo considera la guida più autorevole a quelli che lui stesso avrebbe definito “gli abissi dell’animo umano”. Al numero 7 di Thomas Street sorge la casa del Fleur-de-Lys con il famoso bassorilievo che potrebbe rappresentare tutto e


LA DITTATURA “CONSIGLIATO DA FOX CRIME”

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delle FASCETTE “LINGUA PERFETTA. EFFICACIA STILISTICA TOTALE. UN VERO CAPOLAVORO”

di ANDREA BRESSON

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el caso di Cosa sai della notte di Grazia Verasani (Feltrinelli, pp. 224 euro 13,00) si tratta di una fascetta di co-marketing. Nel caso di La donna dei fiori di carta di Donato Carrisi (Longanesi, pp. 170, euro 11,60) di una fascetta sbagliata. Nel caso di La colpa di Lorenza Ghinelli (Newton Compton Editori, pp.241, euro 9,90) di una fascetta di troppe pretese. Infine, nel caso di L’ultimo giorno di Glenn Cooper (Nord, pp. 452 euro 18,60) della fascetta più azzeccata che mi sia capitato di leggere finora. Personalmente, odio le fascette sui libri. Le odio perché sono puro marketing, in ogni caso. Spudorato o occulto. A modo loro, vorrebbero dire al lettore “Ehi, comprami”, in realtà, ciò che dicono è solo un “Eccomi qua, anche io sono fascettato, esattamente come gli altri libri”. E dunque, perché dovrei comprarti? Dov’è il tuo valore aggiunto, caro libro? Che Fox Crime consigli il libro della Verasani a me, lettore medio in cerca di un buon noir, poco importa. Anzi, forse potrei essere tentato dal lasciarlo lì dov’è, perché io lettore medio scanso le operazioni commerciali.

Che la fascetta di Carrisi mi dia una definizione dell’autore, quando Carrisi è al suo terzo romanzo, è tradotto all’estero, ha vinto il Premio Bancarella, è uno sceneggiatore, ha venduto migliaia di copie, è una firma di importanti quotidiani e settimanali italiani e, non ultimo, va pure in televisione, beh, offende quasi il lettore, oltre che l’autore. Vuoi che la casalinga di Voghera, con tutto il rispetto, non abbia sentito parlare almeno una volta di lui? Di contro, se Longanesi fa il modesto, non si può dir la stessa cosa di Newton Compton, che firma una fascetta decisamente pretenziosa. E non migliora la prima di copertina: “Torna l’autrice de Il divoratore. Il caso letterario del 2011”. Addirittura un caso letterario, la Ghinelli. Ma come, Carrisi vince il Bancarella, è conosciuto all’estero, viene invitato in tv a parlare di crimini efferati e ciononostante viene definito “un autore”, e tu, Ghinelli, al tuo secondo libro, vieni fascettata così? La fascetta di Cooper è quella cui tutti dovrebbero aspirare, perché questo libro è davvero “sorprendente”. Da un autore di archeo thriller non ti aspetti un’idea così originale, così nuova, così diversa. Leggere per credere.


LA DONNA DEI FIORI DI CARTA

LA COLPA La colpa di Lorenza Ghinelli (Newton Compton, pp.241, euro 9,90) per quel che mi riguarda è un “n.c.”: non classificato. E questo perché non è carino che io scriva che è un brutto libro. Qualcuno qualche tempo fa, ha scritto che la Ghinelli risente molto, troppo dell’influenza della Scuola Holden di Torino. Ecco. Leggere il suo periodare arzigogolato e ridondante è sfiancante. A ciò si aggiunge una “lingua perfetta” – per dirla con la fascetta del Sig. Newton Compton che vende i libri a 9,90 cartonati che si scollano non appena li apri – densa di parole come culo, coglioni, vaffanculo buttati lì del tutto gratuitamente. Anche in Mia sorella è una foca monaca di Christian Frascella (Fazi, pp. 290 euro 17,50) ci sono le parolacce, ma sono finalizzate alla caratterizzazione del personaggio.

Carrisi lo definisce noir. Non mi trova d’accordo. La donna dei fiori di carta (Longanesi, pp. 170, euro 11,60) è un racconto. Una storia. Un romanzo breve. Qualcosa che, son sincero, non mi prendeva. Arrancavo nella lettura, tentando di capire dove volesse arrivare e domandandomi perché mai un fortunato autore di thriller si fosse cimentato in una noiosissima storia come quella. Si salva, forse, verso la fine, quando il lettore ritrova il piglio deciso e il page-turning dei due libri precedenti. Il rush finale, insomma. Ma, ripeto: forse. Il titolo evoca un Marsilio, così come Il tribunale delle anime (Longanesi) dello stesso Carrisi evocava Il libro delle anime (Nord) di Glenn Cooper. Un po’ di fantasia Qui no. Qui lo abbiamo capito tutti che Martino ha subito una violenza sessuale da piccolo, ma non è con le parolacce o facendogli rompere una mano sulla portiera di un’auto, che me lo rendi violento. Lo abbiamo capito tutti – perché è largamente descritto – che zio Tullio ha gusti sessuali discutibili e deplorevoli, ma poi? Nulla. Dopo pagine intere, zio Tullio parte per Bratislava. E ciao zio Tullio. Lo abbiamo capito tutti che Estefan viaggia con la mente, magari dopo aver fumato erba, ma poi? Non si sa. Io non l’ho ancora capito. Il personaggio più curioso, però, è Greta, la bambina “prigioniera di casa del nonno”, come recita una bandella poco veritiera. Il nonno muore e Greta ricompare solo alla fine del libro… a che pro, anche qui, non l’ho ancora capito.

89 “UN AUTORE DA 350.000 COPIE” non guasterebbe (specialmente dallo stesso gruppo editoriale). Il tono utilizzato dai personaggi è, talvolta, troppo colloquiale per collocarsi ai primi del ‘900 o in pieno conflitto mondiale. La storia, sebbene Carrisi stesso avverta il lettore che si tratta di una storia vera (cosa che solitamente aumenta la curiosità del lettore), è terribilmente poco appealing. Se a scriverla non fosse stata la sapiente penna di Carrisi, dubito che qualcuno l’avrebbe mai pubblicata. Arrivi alla fine e ti chiedi: “E allora?” Lo consiglio solo a chi ha voglia di spendere 11,60 euro per leggere un Carrisi cimentato in qualcosa di diverso e di nuovo. Ma di terribilmente noioso. 9,90 euro per un libro che si è scollato appena aperto, dalla carta troppo rigida, l’impaginazione brutta, il rientro prima riga troppo esiguo. Poco pagare, poco avere. Non lo consiglio.

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“IL NUOVO, SORPRENDENTE ROMANZO DI UN AUTORE DA 1.500.000 COPIE VENDUTE IN ITALIA”


L'ULTIMO GIORNO L’ultimo giorno (Nord, pp. 452 euro 18,60), quarto libro di Glenn Cooper è davvero “fascettatamente” sorprendente. Nord, dunque, ha pienamente ragione. Da un autore di archeo thriller non ti aspetti un’idea così originale, così nuova, così diversa. Non mi stupisce, perché nonostante gli alti e bassi che ogni autore che si rispetti ha, Cooper ha dimostrato versatilità scrivendo un romanzo equilibrato, dal costante incalzare e talmente d’effetto da insinuarti il dubbio che non stia, forse, dicendo la veri-

tà. Voglio dire, e se ciò che stiamo vivendo adesso non fosse davvero causato dalla “bliss”? Per nulla scontato l’epilogo. Leggermente semplicistico e frettoloso il modo in cui evolve la vicenda alla fine, ma per il resto un libro da leggere assolutamente. Per lo stile, per il fatto che tutti i libri di Cooper sono “stand alone”, e perché sono 452 pagine ben scritte e ad un prezzo onesto. Sì, perché non sarà a 9,90 euro, ma ti fa intravedere il lavoro di una bella squadra dietro un grande autore. Bravi.

COSA SAI DELLA NOTTE Cosa sai della notte di Grazia Verasani (Feltrinelli, pp. 224 euro 13,00) è un libro insolito, per essere un noir. Insolito perché è scritto egregiamente – si evince chiaramente il feeling dell’autrice con il teatro – e perché non segue i canoni standard. E lo vedi appena incontri Giorgia Cantini, che ti parla in prima persona: un personaggio a tutto tondo, ironica, scanzonata, vera. Te ne innamori subito. Non conoscevo i libri della Verasani e, per questioni organizzative, ho letto questo in bozze, ma appena esce corro a comprare sia questo che i due precedenti: perché chi ama il noir non può non averla in scaffale. E 13,00 euro è un prezzo onesto per un libro di qualità come questo.

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di MARCO PIVA-DITTRICH E ROBERTO GERILLI

intervista a Victor Ghischler

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peechless: Sei un autore sia di romanzi che di fumetti. Che differenza c’è tra lo scrivere fumetti e lo scrivere un romanzo (o un racconto) tuo? Victor Gischler: La cosa bella dei romanzi è che ho un sacco di spazio e posso trattare un argomento con tutti i dettagli che voglio. Se voglio che un capitolo sia lungo dieci pagine o venti, posso farlo. Scrivere un episodio di una serie a fumetti, invece, è una cosa molto controllata. Come dice Yoda: CONTROLLO, CONTROLLO, CONTROLLO. La sceneggiatura per un episodio di una storia a fumetti normale è lunga ventidue pagine: non una di più, non una di meno. Quindi è necessario che abbia la disciplina per raccontare la mia storia in quelle pagine. S: Parlando ancora di fumetti: quanto trovi che sia una limitazione scrivere storie per dei personaggi creati da altri autori, personaggi che magari sono già ben definiti? VG: Certo, ci sono delle limitazioni. Bisogna rispettare il personaggio. I lettori hanno delle

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i sono gli autori che coccolano i loro personaggi, li viziano e li fanno uscire indenni da ogni tipo di situazione. Poi ci sono quelli che amano… ucciderli. Uno di questi ultimi è Victor Gischler, autore americano che ci ha concesso l’onore di questa intervista esclusiva. Gischler è uno scrittore della Louisiana, nel sud degli Stati Uniti, ed è noto per essere un autore di romanzi noir e d’azione, nonché sceneggiatore di fumetti Marvel. Come scrittore è stato finalista al Edgar Award con il suo romanzo Gun Monkeys (edito in Italia da Meridiano Zero con il titolo La gabbia delle scimmie) e successivamente all’Anthony Awards con Shotgun Opera (Sinfonia di Piombo, Edizioni BD). Per la Marvel ha invece sceneggiato diversi episodi di The Punisher, Deadpool e soprattutto della serie X-Men. Nell’intervista che segue, Gischler ci parla della sua esperienza nei fumetti e delle differenze riscontrate tra scrivere una sceneggiatura o un romanzo di narrativa. Oltre a questo ci racconta il rapporto con i suoi editori, l’amore che prova verso il nostro paese e anche quanto si diverta a uccidere i suoi personaggi. Perché Gischler è un autore di talento ma, soprattutto, è un autore originale, che si discosta dai temi politicamente corretti per creare trame coinvolgenti intessute, spesso, attorno a personaggi che preferiscono far parlare le loro pistole. Care lettrici e lettori di Speechless, ecco a voi Victor Gischler.


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aspettative ben precise. Ma può anche essere una cosa positiva. Se stai scrivendo, per esempio, una storia di Wolverine hai il vantaggio che c’è un sacco di gente che adora Wolverine. Non devi convincere i lettori a “provare” il personaggio, a dargli una possibilità. S: Tra tutte le storie a fumetti firmate da altri autori, quali ti sarebbe piaciuto scrivere? VG: La serie di albi di DareDevil firmata da Frank Miller. È un fumetto noir e allo stesso tempo resta una storia di supereroi. Una storia fantastica, e i disegni sono bellissimi. S: Se dovessi creare un supereroe basato su te stesso, che supereroe sarebbe? VG: Oh mamma. Sarebbe il fumetto meno venduto della storia! Probabilmente Beer Man, l’Uomo Birra, che in una maniera o nell’altra ha il potere di risolvere crimini bevendo grandi quantità di birra. S: Quanto ti piace uccidere i tuoi personaggi? VG: Tantissimo. Non perché mi stiano antipatici, ma per via della tensione narrativa. Ricavo un piacere perverso dal costruire un personaggio, far sì che i lettori gli (o le) vogliano bene e poi portarlo (o portarla) via. Non che succeda

in tutti i miei romanzi. Ma accade abbastanza spesso, tanto per essere sicuri che i miei lettori sappiano che non si possono rilassare. Nei miei romanzi nessuno è al sicuro. S: In Italia non abbiamo ancora letto il tuo romanzo “Vampire a Go-Go”: che cosa ci stiamo perdendo? VG: Il fantasma di Edward Kelly, l’alchimista imbroglione. È uno dei miei personaggi preferiti. Cerca di fare la cosa giusta ma fin troppo spesso è vittima delle sue debolezze. Ama troppo il vino e le donne. S: Nel prossimo numero di Speechless pubblicheremo il tuo racconto Gli imbranati dell’Apocalisse (Duffers of the Apocalypse), per il quale ti ringraziamo calorosamente. Potresti dirci due parole introduttive al riguardo? VG: La storia parla di un villaggio per anziani che si ritrova nella traiettoria di un incendio. Alcuni dei personaggi reagiscono come ci si aspetterebbe; il protagonista, no. S: Per finanziare il sequel di “Black City: C’era una volta la fine del mondo” (“Go-Go Girls of the Apocalypse”), che è atteso per il 2013, hai deciso di ricorrere al crowd funding tramite Kickstarter. Perché hai scelto questa strada piuttosto che cercare di piazzarlo con la tua casa editrice? E com’è andata? VG: Nell’ambiente si sa che un editore non pubblicherà mai un sequel se non ha i diritti per il primo libro, e quelli che mi hanno pubblicato “Black City: C’era una volta la fine del mondo” qui negli Stati Uniti sono stati estremamente miopi. L’alternativa era questa: pubblicare il sequel da solo con l’aiuto di Kickstarter o non pubblicarlo per niente. Sono molto felice di dirvi che il crown funding è andato molto bene. Ma alla fine sono convinto che sia meglio avere un buon rapporto con una casa editrice che ha a cuore il tuo lavoro. Un ottimo esempio di questo tipo di rapporto è quello che ho con Revolver, la mia casa editrice italiana. S: In che maniera ti sembra che il mercato letterario italiano si differenzi dal resto del mondo? VG: Non sono un esperto, ma ho l’impressione che in Italia i quotidiani siano ancora disposti


INFO

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Per chi volesse approfondire la conoscenza di Victor Gischler consigliamo Sinfonia di Piombo, romanzo pubblicato da Revolver (Edizioni BD) nel febbraio di quest’anno. Il protagonista è Dan, un ragazzo di New York che vede quello che non dovrebbe e diventa preda di alcuni killer prezzolati. A proteggerlo ci sarà suo zio Mike, un uomo che sarebbe meglio non disturbare. Il libro dell’autore americano è una storia tra il noir e il pulp che non indulge in inutili sentimentalismi e si lascia andare in una danza energica al suono delle pallottole. Tante pallottole. Perché i personaggi del romanzo sono armati e cattivi, gente di cui aver paura, ma al contempo sono anche simpatici e divertenti, gente che bisognerebbe conoscere. Un gran numero di personaggi, caratterizzati in maniera magistrale, costituiscono il fulcro di una struttura narrativa complessa e coinvolgente. Un intreccio che avvolge ma non disorienta, grazie soprattutto allo stile semplice e scorrevole di Gischler, che riesce a gestire l’intreccio con apparente facilità. Un romanzo breve (duecento settantasette pagine) che lascia senza fiato.

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a prestare un po’ di attenzione agli autori. Negli Stati Uniti per trovare un po’ di spazio bisogna essere dei pezzi grossi, come J.K. Rowling o Lee Child. Mi sembra che il mercato italiano prenda gli autori più sul serio. S: Sei stato in Italia diverse volte. Che cos’è che ti piace del nostro paese, e cosa non ti piace? VG: Non mi piace il viaggio per arrivarci. Odio essere incastrato in un sedile di aereo, sono minuscoli. Ma una volta arrivato mi sento quasi a casa. È come se andassi a trovare dei vecchi amici. L’Italia è un paese fantastico e la gente è meravigliosa e calorosissima. S: Hai qualche storiella divertente da raccontarci riguardo alle tue esperienze in Italia? VG: Beh, ho passato qualche giorno girando per l’Italia con il mio editore, il mio traduttore e un altro autore. Io e l’altro autore eravamo incastrati nel sedile posteriore dell’auto, che dividevamo con un paio di scatoloni pieni dei nostri libri. Quando qualcuno menziona la bella vita degli scrittori, racconto quella storia. Ma sai una cosa? Mi sono divertito. Siamo ottimi amici e ci siamo fatti un sacco di risate guidando di città in città per incontrare i lettori. Non avrei fatto cambio con un tour di lusso in una limousine.


RACCONTO

Traduzione di MARINA ALBAMONTE

Sir Arthur Conan Doyle

Un’ora movimentata (One Crowded Hour)

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rano le ventitré e trenta di una domenica sera sul finire dell’estate. Un veicolo a motore viaggiava lentamente sulla strada tra Eastbourne e Tunbridge, non lungi da Cross in Hand. Era un tratto di strada isolato, lambito su entrambi i lati da un parco. Una Rolls Royce lunga e sottile filava indisturbata, con un lieve ronzio del motore. Le frange ondeggianti delle piante e i ciuffi di erica scorrevano velocemente come in una macchina da presa dorata attraverso i due vividi cerchi proiettati dai fanali anteriori, lasciando dietro di sé e tutt’intorno il buio più buio. Una chiazza rosso rubino illuminava la strada con il suo bagliore ma la targa dell’autovettura non era visibile nell’alone fioco del fanale posteriore. L’autovettura aveva la capote aperta, era un modello turistico ma, persino nella luce cupa di quella notte senza luna, un osservatore non avrebbe potuto non notare la curiosa vaghezza della sua silhouette. Quando scivolò attraverso l’ampio fascio di luce proveniente dalla porta aperta di un cottage, attraversandolo, il motivo divenne ben visibile. La carrozzeria era bardata con una tela d’Olanda marrone non fissata e sistemata in una strana foggia. Finanche il lungo cofano nero era fasciato da un tessuto che recava dei disegni fitti. L’uomo solitario che guidava questa stravagante autovettura era grande e grosso. Sedeva rannicchiato sul volante, la falda del cappello di foggia tirolese fin sopra gli occhi. La punta infuocata di una sigaretta accesa si consumava sotto l’ombra prodotta dallo stesso. Il bavero, bordato di un tessuto scuro tipo loden simile a lana grossa, gli copriva le orecchie. Il collo pareva fuoriuscisse dalle spalle arrotondate e, mentre l’autovettura filava silenziosa sulla lunga strada in discesa, il cambio in folle e il motore che girava libero, costui sembrava scrutare il buio innanzi a sé, in cerca di un qualche oggetto avidamente atteso. Lo strombazzare di un clacson in lontananza si alzò debole da un punto a sud. In una notte come quella, in un luogo come quello, l’intero traffico

scorreva da sud a nord, quando il flusso dei turisti del fine settimana veniva respinto dalle stazioni termali e balneari verso Londra: dal piacere al dovere. L’uomo sedeva dritto e ascoltava con attenzione. Sì, eccolo ancora, di certo proveniva da sud. Lo sguardo sulla strada, strizzava gli occhi nell’oscurità. Poi, d’improvviso, gettò la sigaretta e fece un respiro profondo. Sulla strada, in lontananza, due minuscoli punti gialli avevano completato una curva. Scomparvero in un declivio, tornarono a comparire poi scomparvero ancora. L’uomo inerte nell’autovettura ricoperta fu d’improvviso risvegliato a nuova vita. Estrasse dalla tasca una maschera di tessuto scuro che si fissò saldamente sul volto, sistemandola con cura in modo da poter vedere senza difficoltà. Scoprì per un istante la lampada ad acetilene e diede una rapida occhiata a ciò che aveva preparato, poi ripose la lampada sul sedile di fianco accanto ad una pistola Mauser. Quindi, calzandosi il cappello sulla testa ancora più di prima, rilasciò la frizione e fece scivolare verso il basso la leva del cambio. La lunga autovettura nera tossì, diede un brivido poi scattò in avanti; il potente motore esplose in un dolce sospiro lungo il pendio. L’autista si abbassò e spense i fanali elettrici. Soltanto una falciata indistinta di grigio tagliava la brughiera buia indicandogli il percorso. Da più avanti proveniva un confuso sbuffare, un rantolo, un fragore metallico mentre l’autovettura in arrivo scollinava. Tossiva e scoppiettava tenendo una marcia bassa, potente; il motore pulsava come un cuore affaticato. Le luci gialle abbaglianti si eclissarono per un’ultima volta dietro a un tornante. Quando riapparvero, le due autovetture si trovarono a poco meno di 30 metri l’una dall’altra. Quella scura schizzò sulla strada mettendosi di traverso, sbarrò il passaggio dell’altra mentre la lampada ad acetilene veniva agitata in aria in segno di avvertimento. Uno stridore di freni e il nuovo e rumoroso arrivato fu indotto a fermarsi. «Ma dico io», urlò una voce sconsolata, «in fede mia, vi rendete conto che avremmo potuto avere un incidente? Perché diamine non avete i fanali accesi?

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IllustrazioneŠ Max Rambaldi


Non vi ho veduto sino a quando mi sono quasi schiantato sulla vostra vettura!» La lampada ad acetilene tenuta in alto rivelò un giovanotto decisamente in collera, occhi azzurri, baffi biondi, florido; stava seduto da solo al volante di un’antiquata Wolseley 12 cavalli. Improvvisamente, l’aspetto afflitto sul suo volto avvampato si tramutò in sconcerto totale. L’autista dell’auto scura si era catapultato dal sedile e una pistola nera a canna lunga dall’aspetto minaccioso era puntata contro la faccia del viaggiatore. Dietro la pistola, un ovale di tessuto nero con degli occhi micidiali che sbirciavano attraverso due fessure. «Mani in alto!» disse una voce spedita e severa. «Mani in alto! O per quanto è vero Dio…» Il giovanotto era normalmente un uomo coraggioso, ma le sue braccia scattarono comunque verso l’alto. «Scendete!» disse l’assalitore in tono brusco. Il giovanotto avanzò seguito dalla lampada e dalla pistola. Fece per abbassare le braccia, ma una parola aspra gliele fece contrarre nuovamente verso l’alto. «Ma, vi rendete conto? Tutto questo è alquanto demodé, nevvero?» disse il viaggiatore. «È uno scherzo, immagino. Ma cosa...» «L’orologio», replicò l’uomo con la pistola Mauser. «Non direte sul serio!» «L’orologio, ho detto!» «Ebbene, prendetelo, se proprio dovete. È solo placcato, comunque. Siete in ritardo di due secoli, o a qualche migliaio di chilometri di longitudine di distanza. La foresta o l’America sarebbero il vostro ambiente. Non vi intonate ad una tipica strada del Sussex.» «Il portafogli», disse l’uomo. C’era qualcosa di molto convincente nella sua voce e nel suo modo di fare. Il portafogli fu consegnato. «Anelli?» «Non ne indosso». «Fermo lì. Non muovetevi!» Il bandito passò davanti alla sua vittima e spalancò il cofano della Wolseley. Vi infilò a fondo la mano con un paio di pinze di acciaio. Si udì il colpo secco di un cavo elettrico che veniva tranciato. «Ma che diavolo! Non metterete mica la mia auto fuori uso!», si lamentò il viaggiatore. Si voltò, ma con la rapidità di un lampo si ritrovò la pistola puntata di nuovo alla testa. Eppure, persino in quell’istante, mentre il rapinatore si allontanava rapidamente dal circuito elettrico interrotto,

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qualcosa aveva attratto l’attenzione del giovanotto che sobbalzò, rimanendo senza fiato. Schiuse la bocca come a voler emetter suono. Poi, però, si sforzò di trattenersi. «Dentro», disse il bandito. Il passeggero rimontò al suo posto. «Come vi chiamate?» «Ronald Barker. E voi?» L’uomo mascherato ignorò la sua impertinenza. «Dove abitate?» gli chiese. «I biglietti da visita sono nel mio portafogli. Prendetene uno.» Il bandito balzò quindi sulla sua autovettura, il cui motore aveva fatto da dolce sottofondo con sibili e sussurri durante tutta la conversazione. Tolse rumorosamente il freno a mano e si avventò sul cambio. Girò il volante al massimo e superò la Wolseley senza vita. Un minuto più tardi filava a velocità sostenuta con le luci dei fari che accendevano bagliori sulla strada, circa 800 metri più a sud mentre il signor Ronald Barker, con uno dei fanali laterali in mano, rovistava come un forsennato fra le cianfrusaglie della cassetta degli attrezzi alla ricerca di un pezzo di cavo per ripristinare il circuito elettrico consentendogli, così, di rimettersi sulla strada di casa. Quando fu a distanza di sicurezza dalla sua vittima l’avventuriero si rilassò, prese il bottino dalla tasca, ripose l’orologio, aprì il portafogli e contò il denaro. Sette scellini costituivano il magro bottino. Il triste risultato dei sui sforzi sembrava divertirlo piuttosto che irritarlo, tanto che ridacchiò mentre stringeva le due mezze corone e il fiorino nello chiarore della lampada ad acetilene. Poi il suo atteggiamento cambiò repentinamente. Si rificcò il portafogli in tasca, rilasciò il freno e ingranò la marcia con lo stesso intenso atteggiamento con il quale aveva cominciato la sua avventura: stavano sopraggiungendo sulla strada le luci di un’altra autovettura. In quell’occasione, i metodi del bandito furono meno furtivi. L’esperienza gli aveva chiaramente infuso fiducia. Con i fari accesi corse incontro ai nuovi arrivati e, fermatosi nel bel mezzo della strada, intimò loro di bloccarsi. Dal punto di vista dei viaggiatori sorpresi il risultato fu sufficientemente d’effetto. Nel bagliore dei fari scorsero due dischi abbaglianti da entrambi i lati del lungo muso nero di una potente autovettura, a bordo della quale vi era il volto mascherato e la figura minacciosa del suo autista solitario. Nel cerchio di luce dorata dei fari del filibustiere, si trovava, invece, un’elegante Humber


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Flossie! Per amor del cielo sii gentile con lui!» piagnucolò Hilda. «Orbene, siamo del Gaiety Theatre di Londra, se proprio ci tenete a saperlo», disse la giovane. «Avrete forse sentito parlare della signorina Flossie Thornton e della signorina Hilda Mannering. Recitiamo al Royal di Eastbourne da una settimana e ci siamo prese una domenica libera tutta per noi. Adesso lo sapete!» «Devo chiedervi i borsellini e i gioielli.» Gridolini striduli di rimostranza si levarono altissimi dalle due donne ma esse si resero conto, proprio come il signor Ronald Barker, che quell’uomo dai modi di fare discreti risultava convincente. Nello spazio di qualche minuto gli avevano consegnato i borsellini e un mucchietto di anelli, braccialetti, spille e catenine scintillanti che ora erano sistemate sul sedile davanti. Alla luce della lampada i diamanti scintillavano come puntini elettrici. L’uomo afferrò l’involto sfavillante e lo soppesò nel palmo della mano. «Vi è niente a cui tenete particolarmente?» chiese alle signore; ma la signorina Flossie non era in vena di concessioni. «Vi volete spacciare per un bandito gentiluomo alla Claude Duval» replicò lei. «Prendere o lasciare. Non desideriamo che ci vengano restituite le briciole dei nostri averi.» «Tranne la collana di Billy!» esclamò Hilda, e fece per afferrare un breve filo di perle. Il rapinatore fece un inchino e lo mollò. «Nient’altro?» La coraggiosa Flossie scoppiò in un pianto improvviso, seguita da Hilda. Sorprendente fu l’effetto sul rapinatore, che fece scivolare sul grembo a lui più vicino l’intero involto di gioielli. «Ecco, ecco, teneteveli pure!» disse. «Comunque è ciarpame. Ha valore per voi ma non per me.» In un istante le lacrime si tramutarono in sorrisi. «Prenda pure le borse. Questa avventura vale dieci volte il loro valore. Curioso modo davvero di guadagnarsi da vivere ai nostri giorni! Non temete di essere catturato? È così meraviglioso, sembra una scena di una commedia.” «Potrebbe essere una tragedia», replicò il rapinatore. «Oh, spero di no, spero proprio di no,» dissero ad alta voce le due donne di spettacolo. Ma il rapinatore non era nello stato d’animo adatto per proseguire la conversazione. Lontano, in fondo alla strada, erano apparsi dei puntini luminosi.

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cabriolet da venti cavalli con il suo chauffeur mingherlino che, sbigottito, sbatteva le palpebre sotto la visiera del cappello. Da dietro il parabrezza, i cappelli con veletta e i volti meravigliati di due donne giovani e carine si sporgevano una da un lato e l’altra dall’altro. Un sottile crescendo di squittii annunciava l’intensa emozione di una di loro. L’altra era più fredda e dotata di un certo spirito critico. «Non tradirti, Hilda» le sussurrò. «Taci e non essere sciocca. È uno scherzo di Bertie o di uno dei ragazzi». «No, no! È tutto vero, Flossie. È un rapinatore, sicurissimo. O mio Dio, che facciamo?» «Che storia!» esclamò l’altra. «Oh, che storia magnifica! È troppo tardi per l’edizione del mattino, ma apparirà di certo su quella della sera.» «Ma a quale costo?» si lagnò l’altra. «Oh, Flossie, Flossie, credo di stare per svenire! Che ne pensi se gridassimo? Sarebbe meglio? È orripilante con quella maschera sul volto. Oh, per carità! Sta ammazzando il povero Alf!» Il modo di fare del bandito mostrava un non so che di inquietante. Precipitatosi fuori dall’abitacolo della sua vettura aveva sollevato lo chauffeur dal posto di guida prendendolo per la collottola. Questi, alla vista della Mauser, aveva interrotto tutte le sue proteste e il piccoletto, sotto minaccia, aveva aperto il cofano ed estratto le candele dell’accensione. Assicurandosi in siffatta maniera che la preda fosse immobilizzata, l’uomo mascherato avanzò, la lampada ad acetilene in mano, portandosi sul fianco dell’auto. Aveva abbandonato la durezza burbera con la quale aveva trattato il signor Ronald Barker; la sua voce e il modo di fare erano garbati, sebbene decisi. Sollevò persino il cappello, a mo’ di saluto. «Desolato per il disturbo, signore» disse con una voce molto più stridula rispetto alla precedente chiacchierata. «Posso chiedervi chi siate?» La signorina Hilda era incapace di un qualsiasi discorso coerente, ma la signorina Flossie si mostrò più decisa. «Bell’affare», disse. «Amerei sapere con quale diritto ci fermiate su di una pubblica strada.» «Ho poco tempo,» rispose il rapinatore con voce ferma. «Devo chiedervi di rispondere alla mia domanda». «Diglielo,


Nuovo lavoro si appressava e lui non doveva far confusione fra i vari colpi. Mise in moto l’auto, sollevò il cappello e svignò verso il nuovo arrivato mentre la signorina Flossie e la signorina Hilda facevano capolino dall’autovettura lì abbandonata, ancora col cuore in gola per l’avventura vissuta, a guardare il bagliore rosso dei fari posteriori finché non si dissolse nell’oscurità. Stavolta, tutto faceva presagire un bottino prezioso. Dietro i quattro grandi fari incastonati in un ampio telaio di ottone scintillante, la magnifica Daimler da sessanta cavalli stava scollinando con il suo russare lento, profondo e regolare che rivelava la sua enorme potenza latente. Come un galeone spagnolo col suo prezioso carico, la poppa alta, la Daimler continuò la sua corsa fino a quando la nave che si aggirava furtivamente in cerca della sua preda, che ora le si parava dinnanzi, ne spazzò via la prora obbligandola a fermarsi di colpo. Un volto arrabbiato, rosso, chiazzato e cattivo si sporse fuori dal finestrino aperto della limousine. Il rapinatore notò quella fronte alta e liscia, le guance pendule e rozze e quei due occhietti furbi che lampeggiavano fra le grinze di grasso. «Spostatevi, signore! Via di qui, all’istante!» risuonò una voce stridula. «Prendilo sotto, Hearn! Esci e smuovilo dal posto di guida. Questo è ubriaco, ubriaco!» Fino a quel punto il modo di fare del moderno bandito avrebbe potuto essere considerato garbato. Adesso era diventato selvaggio in un istante. L’autista, un tizio corpulento e capace, incitato alle sue spalle da quella voce rauca, balzò fuori dal veicolo e afferrò per il collo il rapinatore che avanzava. Quest’ultimo gli sferrò un colpo con il calcio della pistola e l’uomo, con un mugugno, cadde riverso sul selciato. Scavalcando il suo corpo prostrato l’avventuriero aprì la portiera e afferrò selvaggiamente per un orecchio il corpulento occupante che sbraitava mentre veniva trascinato sulla strada. Poi, con aria calma, gli mollò a mano ben tesa un paio di schiaffi in faccia. I colpi risuonarono come pistolettate nel silenzio della notte. Il grasso viaggiatore impallidì in maniera spettrale e cadde, quasi privo di sensi, contro la fiancata della limousine. Il rapinatore lo strattonò per il soprabito aprendolo e gli strappò la grossa catena d’oro dell’orologio con tutto quanto vi era agganciato e la grande spilla con diamante che scintillava sulla cravatta di seta nera. Gli sfilò quattro anelli, tutti chiaramente di un certo valore, e infine estrasse dalla tasca interna un voluminoso portafogli. Si trasferì il tutto nel

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soprabito nero aggiungendovi i gemelli di perle e persino il bottoncino d’oro del colletto. Rassicuratosi che non vi fosse null’altro da arraffare, il rapinatore indirizzò la luce della lampada ad acetilene sullo chauffeur prostrato e si accertò che non fosse morto, ma semplicemente stordito. Poi rivolse nuovamente l’attenzione al suo padrone procedendo deliberatamente a spogliarlo degli abiti che gli sfilò con un’energia feroce, il che fece sì che la sua vittima cominciasse a piagnucolare e a contorcersi nell’imminente attesa della propria morte. Le intenzioni del suo aguzzino non erano ben chiare e, sebbene scaturissero da sue frustrazioni, avevano prodotto i frutti desiderati. Un suono lo costrinse a voltare il capo: a non molta distanza, ecco le luci di un’autovettura che proveniva velocemente da nord. L’auto doveva aver già superato il disastro che il pirata aveva lasciato dietro di sé. Stava seguendo volutamente le sue tracce, probabilmente piena zeppa di poliziotti locali. Non c’era tempo da perdere. L’avventuriero schizzò via dalla sua vittima infangata, balzò al posto di guida e, piede sull’acceleratore, partì velocemente lungo la strada. Laggiù, da qualche parte, c’era uno stretto viottolo laterale nel quale il fuggitivo si infilò, spingendo sull’acceleratore, portandosi a buoni otto chilometri di distanza da qualunque inseguitore prima di arrischiare a fermarsi. Poi, in un angolo tranquillo, quantificò il bottino della serata, la misera ruberia al signor Ronald Barker, i borsellini piuttosto gonfi delle attrici che, nell’insieme, contenevano quattro sterline e, infine, i magnifici gioielli e il portafogli pieno zeppo di banconote del plutocrate sulla Daimler. Cinque banconote da cinquanta sterline, quattro da dieci, quindici sovrane e numerosi documenti di valore costituivano una refurtiva decisamente nobile. Era chiaramente più che sufficiente per una notte di lavoro. L’avventuriero ripose in tasca l’intero maltolto e, accesa una sigaretta, si avviò sulla strada di casa con l’aria di chi non ha altre preoccupazioni per la testa. Fu il lunedì mattina successivo a quella serata movimentata che Sir Henry Hailworthy di Walcot Old Place, terminato che ebbe di fare colazione in maniera rilassata, si recò nel suo studio con l’intenzione di scrivere alcune missive prima di avviarsi a prender posto nel tribunale della contea. Sir Henry era Deputy-Lieutenant, Vice Rappresentante di Sua Maestà il Re, nella sua contea, baronetto di sangue blu da generazioni, magistrato con dieci anni di servizio; ed era soprattutto famoso come allevatore di un gran numero di ottimi cavalli e per essere il cavallerizzo più appassionato di tutta la contea di


«Cosa?» «Voi.» Sir Henry sorrise. «Sedetevi, caro amico mio. Qualunque rimostranza abbiate da farmi sono tutto orecchi.» Barker si accomodò. Sembrava stesse concentrandosi per fargli una lavata di capo e quando si sentì pronto esplose, come una pallottola. «Perché mi avete derubato la notte scorsa?» Il magistrato era un uomo dai nervi d’acciaio e non rivelò né sorpresa né rancore. Il volto calmo e imperturbabile, non mosse un muscolo. «Perché mai affermate che vi ho derubato la scorsa notte?» «Un uomo grande e grosso su un’autovettura mi ha fermato sulla strada per Mayfield. Mi ha puntato una pistola alla testa e sottratto portafogli e orologio. Sir Henry, quell’uomo eravate voi.» Il magistrato sorrise. «Sono l’unico grande e grosso in questo distretto? L’unico a possedere un’autovettura?» «Credete davvero che non sia in grado di riconoscere una Rolls Royce se ne vedo una, proprio io che passo metà della mia vita alla guida di un’auto e l’altra metà ad aggiustarla? Chi possiede una Rolls Royce nei dintorni oltre voi?» «Mio caro Barker, non credete che sia più probabile che un bandito moderno come quello da voi descritto operi al di fuori del proprio distretto? Avete idea quante centinaia di Rolls Royce ci possano essere nel sud dell’Inghilterra?» «No, Sir Henry, proprio no. Persino la vostra voce, sebbene la abbiate resa più profonda, mi suonava alquanto familiare. Accidenti! Perché lo avete fatto? Non riesco proprio a spiegarmelo. Che mi abbiate derubato, proprio io, uno dei vostri amici più stretti, io che ho sempre sgobbato per voi quando vi siete candidato nel distretto; e tutto questo per un orologio Brummagen e qualche scellino: è semplicemente da non crederci.» «Semplicemente da non crederci» ripeté il magistrato e sorrise. «E poi le attrici, quelle povere anime di Dio, che devono guadagnarsi tutto quanto possiedono. Vi ho seguito, sapete? Avete giocato sporco, mai visto niente del genere. Se si fosse trattato di uno strozzino sarebbe stato diverso. Se qualcuno decide di commettere un furto, con quelli la caccia è aperta. Ma prima il vostro amico e poi quelle ragazze,

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Weald. Alto, robusto, un volto dai tratti marcati, ben sbarbato, le folte sopracciglia nere e la mascella squadrata e decisa: uno come lui era meglio farselo amico. Sebbene sulla cinquantina non sembrava che la giovinezza lo avesse abbandonato, a parte il fatto che la Natura, in un momento di follia, gli aveva piantato tra i capelli una piccola penna bianca, proprio dietro l’orecchio destro, facendo apparire per contrasto il resto dei suoi ricci neri e fitti ancora più scuri. Quella mattina sembrava meditabondo poiché, accesa la pipa, sedeva dietro la sua scrivania con un foglio bianco dinnanzi, perso in qualche sogno ad occhi aperti. Ma i suoi pensieri furono ricondotti d’improvviso al presente. Dai cespugli di alloro lungo la curva del viale d’accesso proveniva un lento suono metallico che crebbe fino ad essere distinguibile come lo sferragliare monotono di un’auto d’epoca. Quindi da dietro l’angolo sbucò una Wolseley vecchio stile guidata da un giovanotto con un volto dall’incarnato roseo e i baffi biondi, alla cui vista Sir Henry scattò in piedi per poi rimettersi subito a sedere. Si rialzò solo quando, un minuto più tardi, il lacchè annunciò l’arrivo del signor Ronald Barker. Era una visita di primo mattino ma Barker era un amico intimo di Sir Henry. Erano entrambi eccellenti tiratori, cavallerizzi e giocatori di biliardo e pertanto avevano molto in comune; il più giovane (e più povero) aveva l’abitudine di trascorrere a Walcot Old Place almeno un paio di serate a settimana. Pertanto Sir Henry gli si fece incontro cordialmente, tendendogli la mano per accoglierlo. «Siete mattiniero stamani», disse. «Cosa c’è che non va? Se vi state recando da Lewes possiamo andarci insieme con l’autovettura.» Ma l’atteggiamento del giovanotto era strano e scortese. Non si curò della mano che gli veniva tesa e non si mosse mentre si tirava i lunghi baffi, fissando preoccupato il magistrato della contea con sguardo interrogativo. «Qual è dunque il problema?» chiese quest’ultimo. Ma il giovanotto non proferì parola. Era evidente, aveva i nervi a fior di pelle e trovava estremamente difficile aprire il discorso. Il suo ospite diventava impaziente. «Non sembrate essere in voi stamani. Che diamine! Qual è il problema? C’è qualcosa che vi disturba?» «Sì» rispose Ronald Barker con veemenza.


ribadisco, non lo avrei mai creduto.» «Perché crederci, allora?» «Perché è così.» «Ebbene, sembra che vi siate convinto di ciò. Eppure non mi sembra che abbiate molte prove da portare davanti a chicchessia.» «Potrei giurare che foste voi, in un tribunale. E quando avete tranciato i fili elettrici della mia autovettura, una licenza diabolica! Quello é stato il colmo. Ho veduto quella vostra ciocca bianca spuntare dalla maschera.» Per la prima volta, agli occhi di un acuto osservatore non sarebbe sfuggita la traccia di una timida emozione sul volto del baronetto. «Sembra che abbiate un’immaginazione piuttosto fervida», disse. Il suo visitatore avvampò dalla rabbia. «Guardate qui, Hailworthy», replicò mentre apriva la mano mostrandogli uno sbrindellato triangolino di tessuto nero. «Lo vedete? Era per terra vicino all’autovettura delle ragazze. Deve essersi strappato quando siete uscito dall’abitacolo. Ora ordinate che venga portato quel vostro pesante soprabito da guida nero, e se non suonate il campanello lo farò io stesso e ordinerò che venga portato all’istante. È mia intenzione andare fino in fondo, e attento a voi a non fare mosse false.” La risposta del baronetto fu sorprendente. Si alzò, superò la sedia sulla quale sedeva Barker e, indirizzandosi verso la porta, diede alcune mandate e ripose la chiave in tasca. «Avete intenzione di andare fino in fondo», replicò. «Bene, vi terrò qui dentro finché non ci sarete riuscito. E ora, Barker, faremo un bel discorsetto da uomo a uomo, e se finirà in tragedia dipenderà solo da voi.» Mentre parlava aveva aperto per metà un cassetto dello scrittoio. Il suo visitatore aggrottò le sopracciglia irritato. «Minacciarmi non vi renderà le cose più semplici, Hailworthy. Intendo fare il mio dovere e non mi lascerò certo ingannare da voi.» «Non ho intenzione alcuna di ingannarvi. Quando parlo di tragedia non parlo di voi. Quello che intendevo è che a questa storia non è dato di prendere certe strade. Non ho amici né parenti ma c’è l’onore della famiglia da salvare, e certe cose sono inammissibili. » «È tardi per parlare in siffatta maniera.» «Forse sì, ma non è troppo tardi. Ed ora ascoltatemi, perché ne ho tante da dire. Innanzitutto, avete ragione: sono stato io a rapinarvi sulla strada per

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Mayfield la notte scorsa.» «Ma perché diamine…» «D’accordo. Ve lo racconterò a modo mio. Prima di tutto, desidererei che deste uno sguardo a questi.» Aprì un cassetto chiuso a chiave e ne estrasse due pacchetti. «Avrebbero dovuto essere spediti da Londra in serata. Questo è indirizzato a voi e posso consegnarvelo all’istante. Contiene il vostro orologio e il portafogli. Ecco, vedete, se escludiamo il cavo elettrico che ho tranciato non avreste avuto alcun svantaggio da questa avventura.

Quest’altro pacchetto è indirizzato alle ragazze del Gaiety Theatre, contiene i loro beni. Spero di avervi convinto che avevo deciso comunque di porre rimedio in toto, prima che voi veniste ad accusarmi.» «E con ciò?» chiese Barker. «E con ciò adesso ci occupiamo di Sir George Wilde che è, come voi forse non sapete, socio anziano di Wilde e Guggendorff, i fondatori della tristemente nota Ludgate Bank. Quanto al suo chauffeur, è


un discorso a parte. Potete credermi sul mio onore: per lo chauffer avevo in mente altro. Ma è del suo padrone che desidero parlare. Sapete che io stesso non sono ricco: credo che questo sia risaputo in tutta la contea. Quando Black Tulip perse il Derby per me fu un brutto colpo, ma sono successe anche altre cose. Avevo un lascito di circa mille sterline. Questa maledetta banca dava il sette per cento sui depositi. Conoscevo Wilde. Lo incontrai. Gli chiesi se fosse un investimento sicuro. Mi disse di sì. Versai il mio denaro in banca, e nel giro di quarant o tt o

è

ore

a n d a t o tutto in fumo. Davanti all’amministratore fallimentare venne fuori che Wilde sapeva già da tre mesi che nulla avrebbe potuto salvarlo! E tuttavia aveva preso tutta la mia mercanzia a bordo della sua nave che stava affondando. A lui è andata bene, al diavolo! Aveva risorse a sufficienza, lui! Io, per contro, avevo perduto tutto il mio danaro e la legge non poteva essermi d’aiuto in alcun modo. Ebbene, era evidente che mi aveva rapinato proprio come un rapinatore comune fa con le sue vittime.

Lo incontrai e mi rise in faccia. Mi disse di limitarmi ai titoli consolidati, e che la lezione non mi era poi costata chissaché. E fu così che giurai a me stesso che, in una maniera o nell’altra, avrei pareggiato i conti con lui. Conoscevo le sue abitudini poiché era diventato affar mio conoscerle. Sapevo che ogni domenica sera faceva ritorno da Eastbourne. E sapevo pure che aveva con sé, nel portafogli, una bella sommetta. Ebbene, adesso quello è diventato il mio portafogli. Volete dirmi che non sono moralmente giustificato in ciò che ho fatto? Per Giove, avrei lasciato quel demonio nudo come un verme, proprio come ha fatto lui con molte vedove e orfani, se solo ne avessi avuto il tempo!» «Comprendo. Ma io cosa c’entro? E le ragazze?» «Barker, un po’ di buon senso. Ritenete che io potessi prendere a rapinare questo mio personale nemico senza essere scoperto? Impossibile. Dovevo far finta di essere solo un comune rapinatore capitatogli innanzi per caso. Fu così che mi scatenai sulla strada e colsi al volo l’occasione. Il diavolo ci mise lo zampino perché il primo che incontrai foste proprio voi. Stupido io a non riconoscere quel vostro vecchio macinino che si arrampicava sulla collina. Quando vi vidi riuscii a malapena a parlare tanto non riuscivo a trattenere le risate. Ma dovevo arrivare fino in fondo alla faccenda. Stessa cosa dicasi per le attrici. Temo di essermi fatto scoprire perché non potevo prendere i loro fronzoli, e pur tuttavia dovevo portare avanti la mia commedia. Poi, è arrivato il mio uomo. Con lui non bluffai. Ero uscito per spellarlo e così fu. Allora, Barker, che ne pensate ora di questa storia? La notte scorsa ero lì a puntarvi una pistola alla testa e perbacco, che ci crediate o no, stamani siete voi a puntarmela!» Il giovane si levò lentamente e, indirizzandogli un sorriso a trentadue denti, prese la mano del magistrato e gliela strinse forte. «Non fatelo più. È troppo rischioso» disse. «Quel porco riporterebbe una pesante vittoria se vi scoprissero.» «Siete un brav’uomo, Barker» replicò il magistrato. «Non lo farò più. Chi era quel tale che parlava di ”un’ora movimentata nella nostra fantastica vita”? Perbacco! È così affascinante. Me la sono proprio spassata. Alla faccia della caccia alla volpe! No, non mi ci proverò ancora, temo di prendere il vizio.» Il telefono che era sul tavolo squillò all’improvviso e il baronetto si portò la cornetta all’orecchio. Mentre ascoltava sorrise al suo amico dall’altro lato. «Sono piuttosto in ritardo stamani», gli disse. «Sono atteso nel mio ufficio, devo giudicare qualche furtarello.»

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POSTFAZIONE di MARCO PIVA-DITTRICH

Doyle, infatti, era impegnato in varie campagne contro l’ingiustizia arrivando perfino a convincere i tribunali a riaprire due processi che erano stati chiusi con condanne (in entrambi i casi all’ergastolo) che riteneva ingiuste. Queste sue azioni hanno contribuito alla creazione della corte d’appello britannica. Alla luce di questo, è estremamente probabile che Doyle abbia fantasticato riguardo ai modi possibili di “farla pagare” a un banchiere disonesto come quello che appare nel racconto. Non sappiamo se avesse in mente un individuo preciso o piuttosto lo stereotipo del banchiere imbroglione, ma di sicuro Doyle si sentiva in dovere di dare una lezione a qualcuno. Lo vediamo dal fatto che il “Robin Hood” della situazione è un Deputy Lieutenant, il vice rappresentante della corona nella contea del Sussex (lo deduciamo dal fatto che l’avventura si svolge “vicino a Cross in Hand”, che è appunto in Sussex), “da una decina di anni”. Dal 1902 (ovvero una decina di anni prima della pubblicazione di questo racconto) fino alla morte avvenuta nel 1930, Doyle è Deputy Lieutenant nel vicino Surrey. Insomma, si ha la netta impressione che Sir Henry Hailworthy non sia altri che Doyle stesso (anche se non ci risulta che Doyle sia incorso in problemi di natura economica simili a quelli del personaggio), che non può punire i disonesti direttamente quindi crea una storia nella quale uno di loro ha quello che si merita.

Sir Arthur Conan Doyle

“One Crowded Hour” (“Un’ora movimentata”) è stato pubblicato per la prima volta nell’agosto del 1911 dal prestigioso The Strand Magazine, che ha pubblicato la maggior parte dei racconti di Doyle, e poi nella collezione Danger! and Other Stories del 1918. Il titolo alternativo della storia, “A Pirate of the Land” (“Un pirata di terraferma”), è più suggestivo del suo contentuto ma forse si confà meno allo stile dell’autore, che preferisce titoli vaghi che rivelano il meno possibile. Naturalmente Arthur Conan Doyle è noto a tutti come l’autore delle avventure di Sherlock Holmes, ma “Un’ora movimentata” ha poco o niente a che fare con il popolarissimo investigatore. Non sappiamo di preciso quando Doyle abbia scritto questo racconto, ma è stato pubblicato diversi anni dopo il “ritorno” di Holmes, la cui morte l’autore aveva narrato nel 1893 nella speranza di liberarsi da quel personaggio così ingombrante ma che la pressione dei lettori e probabilmente dello Strand lo avevano costretto a “resuscitare” nel 1902. Il protagonista della storia sembra essere una versione moderna (o quanto meno moderna per l’epoca) di Robin Hood o Dick Turpin. Sulla sua Rolls Royce, tende agguati ai pochi automobilisti lungo la strada. L’idea di vederlo rapinare due auto di persone innocenti, prima di commettere il colpo cui veramente tiene, non è di certo una novità e ci starebbe in una storia classica di detective, ma è interessante vederla dal punto di vista di chi commette il delitto, con una giustificazione morale precisa con la quale anche l’autore sembra d’accordo.

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l'altra realtà di Neil Gaiman di GIULIA MARENGO 104

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ei primi anni Ottanta a Neil Gaiman venne offerto un lavoro come giornalista da Penthouse. Che lui prontamente rifiutò, nonostante il suo editore avesse appena dichiarato bancarotta. Cosa sarebbe successo se l'allora romanziere in erba avesse accettato il posto in redazione? I lettori di Penthouse avrebbero forse avuto la fortuna di leggere articoli insolitamente immaginifici a contorno delle consuete foto provocanti, ma la letteratura moderna avrebbe di certo perso uno dei suoi figli più creativi. Il nome di Gaiman porta subito alla mente i titoli dei suoi romanzi più celebri: la favola delicata di Stardust, l’incantata avventura di Richard nella Londra-di-sotto in Nessundove, la cosmogonia potente e moderna di American Gods. O, in alternativa, evoca l’universo complesso e multicolore di Sandman. Eppure Neil Gaiman è anche un illusionista, un mago che gioca con fumo e specchi per inanellare una serie di racconti dal retrogusto incantato e incantevole. Un artigiano che con perizia e cura infinita dà vita a creazioni fragili ed evanescenti, eppure

così tenaci da restare aggrappate per sempre nella fantasia del lettore. Che Gaiman sia un bravo scrittore è fuori discussione. Ma c’è una differenza fra scrivere romanzi e dedicarsi a racconti brevi, e non è affatto scontato che un autore sia in grado di gestire entrambi con la medesima abilità. Questo autore non solo ci riesce, ma lo fa in grande stile. Esordisce con Angel Visitations nel 1993, ma sono Smoke and Mirrors (1998) e Fragile Things (2006) le due raccolte di racconti nelle quali il talento di

questo creatore di portenti emerge con prepotenza. Le raccolte sono, ahimè!, quasi del tutto inedite in Italia. Solo alcuni racconti sono stati pubblicati da Mondadori nella raccolta Il cimitero senza lapidi e altre storie nere. Ed è un vero peccato, perché garantiscono una lettura assai piacevole, e un alto livello di intrattenimento. Questi racconti sono come le ciliegie, quelle lucide, mature e seducenti: uno tira l’altro. Gaiman arpeggia le parole con levità, passando dal fantasy all’horror alla detective-story, accarezzando il noir, il weird e il semplicemente inconsueto. Ma molto spesso l’aspetto fantastico scivola in secondo piano ed è quasi impercettibile. Fra le sue pagine il reale e l’immaginario si mescolano in modo così sottile che molto presto risulta impossibile distinguere dove finisca l’uno e inizi l’altro. Ed è proprio questo il suo intento: confondere e affascinare, in un gioco di ombre e di sospiri, pervaso da una vena discreta ma persistente di arguta ironia. Le raccolte sono rese ancora più preziose da un dono inusuale: ciascun racconto è preceduto da un commento


perché l’autore non si limita ai racconti, ma impreziosisce le raccolte di versi, che spaziano dalla satira al lirismo, dall’irrazionale all’inaspettato. Alcuni di essi mordono in poche righe, altri ammaliano con precisa, accurata musicalità. Smoke and Mirrors si apre narrando al lettore come in passato fumo e specchi fossero gli artefici prediletti dai prestidigitatori, che li usavano per ammaliare e con-

specie Come una o di vampir nte me particolar il testardo, si rifiuta racconto e di morire, vere – sembra a

fondere l’occhio dello spettatore – solo illusioni, o un modo astuto per nascondere la vera magia? Per Gaiman le storie sono come specchi, mezzi tramite i quali possiamo scoprire realtà che altrimenti non potremmo vedere. Aspetti diversi della quotidianità, dove l’insolito è sempre in agguato, anche dove

nze a t s o c ir nelle c – una li attua ione ideale s dimen nostra per la zione. a gener an m i a G Neil

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dell’autore, che illumina il lettore sulle circostanze che hanno dato vita a quella particolare storia. Alcuni pezzi sono stati scritti su commissione, o su semplice richiesta; qualcuno è un regalo, per il compleanno delle figlie o di un amico; e qualcuno nasce da quella zona oscura fra il sonno e la veglia che è il regno delle suggestioni. I commenti sono di volta in volta curiosi, sarcastici, talora esilaranti. Ci permettono di gettare uno sguardo sulla vita dell’uomo che sta dietro le storie, e di capire i meccanismi inconsci che danno vita al mondo dell’immaginario. Nello stile che è proprio di Gaiman, alcuni fra i commenti mutano forma sotto lo sguardo del lettore e si trasformano in racconti dentro i racconti, fornendo un’infinita fonte di intrattenimento. Si riesce quasi a cogliere, fra le righe, l’autore che ci strizza l’occhio. E poi ci sono i poemi. Sì,


meno lo si attende. La raccolta contiene trentaquattro racconti, legati insieme forse soltanto dall’intento ambizioso di irretire e affascinare. Si apre con Chivalry, un’ironica vignetta in cui un’educatissima vedova si imbatte nel Santo Graal in un negozio di oggetti di seconda mano e lo acquista per il semplice fatto che starebbe benissimo sulla mensola del suo caminetto, accanto alle ceneri del marito defunto. Non pare granché sorpresa quando Sir Galaad viene a bussare alla sua porta, domandando, con cavalleresca cortesia, che gli venga consegnato il calice. La donna rifiuta ma gli offre un tè, il primo di innumerevoli – perché Galaad ha una missione e non accetta certo un no come risposta. È una favola delicata, in cui la realtà della provincia si mescola con il mito, ed è una delle storie che Gaiman predilige nelle sue letture pubbliche. La raccolta contiene anche un racconto, molto lungo, che accarezza uno dei temi preferiti da Gaiman, quello degli angeli. Lungi da lui gli orpelli stucchevoli, in Murder Mysteries ci narra l’inchiesta di un angelo caduto, che indaga su un omicidio – il primo omicidio della storia. E ci lascia sulle labbra una delle domande più complesse di tutti i tempi: esiste davvero il libero arbitrio? Molte sono poi le citazioni letterarie, così tante e molteplici che alle volte scovarle diventa una vera e propria caccia al tesoro. Si passa dai tributi a Poe (The Price) a quelli – numerosi – a

Lovecraft, amatissimo da Gaiman. Ombre di Chtulhu palpitano in diversi racconti, da Shoggoth’s Old Peculiar a Only the end of the world again. Ci sono quelli evidenti (One life, furnished with early Moorcock) e quelli sottili, e le rivisitazioni di grandi classici: dopo aver letto Snow, glass, apples non riuscirete mai più a pensare a Biancaneve allo stesso modo, è una promessa. La magia continua con Fragile things, la seconda

106 There are so many fragile things after all. People break so easily and so do dreams & hearts Neil Gaiman raccolta. Il titolo si riferisce sia ai racconti in essa contenuti, che alla natura della narrazione in sé. Secondo Gaiman le storie, così come tutte le cose più fragili – il cuore umano, il guscio di un uovo, e i sogni stessi – appaiono delicate, ma sono invece insospettabilmente tenaci. Una storia è composta di semplici lettere, segni di interpunzione, vocali o consonanti. Ma alcune storie

ci accompagnano da centinaia, forse migliaia di anni, e resteranno con noi per sempre. Fragile Things si apre con una brillante parodia del miglior Conan Doyle, mescolato a un pizzico di Lovecraft: A study in green coniuga con sapiente perizia la razionalità del primo e il senso dell’orrore del secondo, e conclude con un finale a sorpresa. Gaiman infrange le regole e lascia al lettore il compito di giudicare se l’elemento fantastico esista o sia una mera suggestione, l’illusione di qualcosa di reale che scoppia al primo sguardo come una bolla di sapone. Inanella idee semplici e straordinariamente felici in cui ribalta la quotidianità (Forbidden Brides of the Faceless Slaves in the Secret house of Dread Desire) a vignette irresistibili dal retrogusto fantascientifico (How to talk to girls at parties); ricama in modo irriverente su personaggi altrui, senza timore di disturbare autori del calibro di C. S. Lewis (The problem of Susan); e giunge infine all’autocitazione, con racconti che espandono e alimentano gli universi da lui stesso creati – in particolare quello di American Gods (Keepsakes and treasures e The monarch of Glen). Smoke and mirrors e Fragile things rapiscono il lettore, lo incantano con miti e portenti e lo trascinano con sé in un mondo ammaliante che rende credibile l’incredibile. E dimostrano che la nostra rassicurante realtà è forse appena un po’ più bizzarra, magica e inquietante di quanto siamo soliti credere.


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: o t n e v l e d Lo' cormedconaiugare fantasia, letteratura e successo S

ono tempi grami per il fantastico. La scarsezza di idee sembra essere tale che il fantasyspazzatura, nato dalla clonazione di pochi modelli di successo, sembra essere imperante. Per di più, da un punto di vista squisitamente italiano, la presenza di tali cloni, mutuati in particolare dai bestseller anglosassoni, sembra essere dominante. Come uscirne? Per la narrativa fantastica nostrana una soluzione potrebbe essere quella di assumere uno sguardo meno anglo-centrico e al tempo stesso più europeo. Ad esempio, studiando autori come il polacco Stanislaw Lem (1921 – 2006), creatore del capolavoro Solaris, o il tedesco Andreas Eschbach. Artisti che non hanno pedissequamente seguito i loro colleghi britannici e americani. A questi esempi virtuosi dobbiamo ora aggiungere il bel romanzo del 2004 La Horde du Contrevent (L'orda del vento), nato dalla penna del francese Alain Damasio (pseudonimo di Alain Raymond). L'orda del vento, vincitore nel 2006 del prestigioso Grand prix de l'Imaginaire, è giunto in Italia grazie alla Editrice Nord nel 2009 e ha recentemente beneficiato di un'edizione tascabile a cura della TEA. Damasio, nato a Lione nel '69, ha offerto ai suoi lettori un libro complesso, a tratti di difficile comprensione. Questo a causa dei tentativi di sperimentalismo letterario presenti, che ricordano quelli di certi scrittori americani di sci-fi degli anni '60 / '70, in particolare ad Harlan Ellison e a Samuel R. Delany. Possiamo però garantirvi che qualsiasi fatica sarà ricompensata.

di CLAUDIO CORDELLA

L'orda del vento è un romanzo poderoso, una narrazione corale nella quale si intrecciano non solo una pluralità di voci narranti, ognuna con il suo personale punto di vista riguardo agli avvenimenti di cui è spettatrice o direttamente partecipe, ma anche di significati. Volendo indicare brevemente le maggiori qualità di questo meraviglioso concentrato di fantasia, avventura, psicologia, filosofia, idee mistico-religiose e speculazione scientifica potremmo dire che L'orda del vento è sia polisemico (concentrando in sé tutta una pluralità di significati diversi) che polifonico, assumendo la struttura di un'avvolgente sinfonia che lascia stupefatti. In un mondo senza nome, dominato dal vento che è la forza della natura dominante in questa realtà, da generazioni si tenta senza successo una missione disperata: inviare un gruppo di uomini e donne sino alla Extrême-Amont (Estrema Vetta). L'impresa, a metà strada tra un pellegrinaggio che dev'essere compiuto in base a determinate regole e una missione di esplorazione, è portata avanti di generazione in generazione da un gruppo chiamato Orda. Ora la 34ª Orda, capitanata dal tenace Golgoth, un uomo corpulento pieno di rabbia e cinismo, si avvicina alle fasi finali di un viaggio che per lui, come per molti suoi compagni, è iniziato sin dall'infanzia dopo un duro addestramento. Damasio ha concretamente dato vita a un romanzo-mondo, una creazione letteraria capace di contenere all'interno delle sue pagine un intero universo, seguendo in questo l'esempio di Dune di Frank Herbert, della Middle-Earth (Terra di Mezzo) tolkeniana e dei romanzi della Ursula K. Le Guin. Mostrando di possedere un'immaginazione ugualmente vasta e potente, affatto intimidita da


descrivere i venti, si alterna nella narrazione come se si trattasse di attori impegnati nella recitazione di un dramma particolarmente intenso. Oppure come se si trattasse delle voci di un coro. Ogni membro dell'Orda è associato a un simbolo, ad esempio Sov, il quale scoprirà un segreto inimmaginabile e la cui vita sarà segnata fino alla fine dall'amore per la bella Oroshi, è indicato come “)”, con una parentesi. La Nord incluse un segnalibro all'interno de L'orda del vento, quest'ultimo riportava gli abbinamenti simbolo/nome/ruolo svolto all'interno dell'Orda dei diversi personaggi. Un'utile guida per non perdersi tra i venti dell'universo di Damasio. Una realtà alternativa che ha beneficiato, nella sola edizione francese, di una colonna sonora, composta da Bruno Raymond-Damasio, il fratello del romanziere, che si accompagnasse alla lettura di quest'epica avventura. Adesso sta persino per arrivare una coproduzione animata franco-nipponica, un film d'animazione in computer graphic e in 3D stereofonico, per la regia del franco-olandese Jan Kounen e per la sceneggiatura di Magalie Helle. La pellicola attualmente in lavorazione è indicata con il titolo anglofono di Windwalkers: Chronicles of the 34th Horde. Un successo non da poco e ben meritato, raggiunto da chi ha saputo esplorare nuove frontiere, servendosi della solida tradizione della letteratura di genere pur non rimanendone schiavo. Preferendo battere sentieri mai percorsi prima invece che spacciare l'ennesima copia priva della benché minima originalità per capolavoro.

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costoro, mettendosi apertamente in gara con i maestri del passato e rivaleggiando con loro, questo talentuoso scrittore non solo crea una geografia peculiare, sottoposta a particolari condizioni atmosferiche e climatiche, ma arriva persino a dare delle nuove leggi fisiche alla realtà da lui descritta. Usi e costumi delle diverse popolazioni, nomadi o sedentarie che sia, sono sempre descritti con gran accuratezza. Avendo a che fare con una terra in cui è il vento l'elemento principe, sfruttato come fonte di energia ma al tempo stesso causa di immense catastrofi, Damasio giunge a inventare un peculiare sistema di annotazione della forza del vento, fatto di punti e di virgole, che assomiglia al pentagramma di uno spartito. La natura polifonica del romanzo è accentuata dalla sua struttura narrativa. Ciascun personaggio, come lo scriba Sov Strochnis, che è in grado di usare i simboli di cui sopra abbiamo detto per


RACCONTO

IllustrazioneŠ Max Rambaldi


Figlia del Crepuscolo Piccardia, Francia, inverno 1917

N

on li sentirono arrivare. La cortina di fumo li vomitò fuori all'improvviso, un centinaio di yarde davanti a loro, come creature sbucate da un mondo capovolto, molto diverso da quello che avevano conosciuto da bambini. Niente Cappellaio Matto, rospi parlanti, o pirati, ma velocità, zanne e furore. Un attacco silenzioso e disperato attraverso la Terra di Nessuno devastata dagli incendi e dalle esplosioni. Un attacco all'arma bianca: mazze, asce, lame. Dalla ridotta si aprì un fuoco di fila, dapprincipio incerto, poi sempre più martellante. Grida bestiali si alzarono al cielo incolore, accompagnate dalla percussione delle mitragliatrici. Non erano uomini. Non più, se mai lo erano stati. I proiettili li ribaltavano all'indietro, uno sull'altro, riempiendo di cadaveri il terreno. Un tenentino di primo pelo si sgolava al telefono: il nemico non doveva essere lì, il nemico si stava ritirando, faceva terra bruciata dietro di sé. Un dardo gli trapassò il collo e gli strozzò fiato e parole. Alcuni riuscirono a passare e a tuffarsi dentro la trincea, solo per essere infilzati dalle baionette. Sangue nero e budella schizzarono sul kaki delle uniformi e sugli elmetti. Uno si precipitò dentro brandendo un'accetta e mozzò di netto il braccio a un ragazzo del 11°

Lancashire, prima di essere abbattuto da un colpo di pistola in mezzo agli occhi. Non era stato il sergente a sparare. Quello gracchiava ancora ordini incomprensibili nel frastuono della fucileria, poche decine di yarde più in là, ma avrebbe potuto essere un miglio. La pistola, e la sua gemella, erano salde nelle mani di un uomo alto, che indossava un pastrano militare senza gradi né mostrine. Non portava nemmeno l'elmetto. Si avvicinò al cadavere e ne contemplò per un istante il ghigno mostruoso. Un secondo soldato anonimo e senza i segni del reggimento gli guardava le spalle, abbattendo a fucilate i nemici che riuscivano ad affacciarsi sull'orlo della ridotta. Entrambi si muovevano con una calma irreale in mezzo all'attacco. Due nemici riuscirono a saltare oltre la linea del fuoco, ma vennero centrati dai colpi di pistola prima che toccassero terra. L'uomo salì la scaletta e contemplò la carneficina antistante, l'orda di orchi falcidiata. Il secondo, al suo fianco, abbassò il fucile e prese anche lui a scrutare la nebbia. Quando si udì il rombo, tutti pensarono al grande cannone, dall'altra parte, di cui si favoleggiava da mesi e che a detta di alcuni il Kaiser avrebbe fatto costruire per combattere la guerra da casa. I soldati si rannicchiarono con le mani sugli elmetti, in attesa del boato. Tutti tranne i due soldati anonimi, che rimasero fermi al loro posto.

Il rombo si ripeté, ma questa volta ricordava piuttosto un ruggito. Più che di un grosso felino, lo si sarebbe detto di un drago. Un bagliore rossastro balenò attraverso la nube di fumo. Le due pistole vennero spianate. Il secondo soldato raggiunse una mitragliatrice Vickers e ci si piazzò dietro, pronto ad azionarla. Gli altri attendevano ancora la pioggia di schegge e terriccio. Per diversi secondi l'unico rumore che si percepì fu il battere dei denti di qualcuno là sotto. Davanti a loro, la Terra di Nessuno era una distesa brumosa di fango, crateri, legni scheletriti. Un caos funereo e senza vita. Il terzo ruggito annunciò l'epifania del demone. Due braci rosse sulla mole nera di zanne, artigli, coda. Spianò le grandi ali da pipistrello, ma non spiccò il volo. Lo raggiunsero prima i proiettili della mitragliatrice, che crivellarono le ali riducendole a brandelli. Questo lo rallentò soltanto. E aumentò la sua rabbia, che si fece limpida, rossa, tonante. L'uomo in cima alla scaletta avanzò tra i cadaveri e fece fuoco con entrambe le pistole, a ripetizione, finché i caricatori non scattarono a vuoto. Allora estrasse dalla cintura un coltello ricurvo e attese. «Non passerai», disse. «Ritorna nell'ombra!» Il demone digrignò i denti e fu come se lame d'acciaio sfregassero una sull'altra.

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di Wu Ming 4


«Vattene o verrai ucciso!» Il demone si avventò su di lui, ruggendogli in faccia il suo odio. Gli artigli scattarono in avanti, seguiti dall'enorme mole, ma l'uomo fu più veloce, si ficcò sotto la pancia del mostro e lo pugnalò alla gamba, aprendogli una larga ferita sulla coscia. Poi

e soprattutto la medaglia che pendeva dal nastro rosso. Il sergente annaspò, prima di riuscire a fare il saluto. Di sicuro non aveva mai visto una Victoria Cross da così vicino. «Signore.» «Sergente, mandi a prelevare dieci taniche di benzina nelle

Oxford, 21 Dicembre 1918

La donna scostò la tendina e osservò ancora oltre il vetro. La luce giallastra del lampione all'angolo spioveva sul selciato, attraversata da una rada cascata di fiocchi di neve che scendevano lenti, irreali, come coriandoli di carta. A quell'ora nessuno più si attardava fuori. Gli ultimi impiegati del museo erano andati a casa da un Wu Ming 4 fa parte del collettivo di narratori Wu Ming, fondato a pezzo e le famiglie dei Bologna nel 2000 dai quattro autori del romanzo Q (Einaudi 1999, Beaumont Buildings firmato con lo pseudonimo “Luther Blissett”) insieme a un quinto avevano figli troppo piccoli o lutti troppo elemento. Wu Ming ha al suo attivo romanzi collettivi, romanzi solirecenti per avere vosti, racconti di viaggio, reportages, saggi sulla letteratura. Wu Ming glia di uscire. Per que4 è anche autore solista del romanzo Stella del Mattino (Einaudi sto, la figura ferma all'incrocio, poco oltre 2008), incentrato sulla figura di Lawrence d'Arabia e in cui compala zona illuminata del iono come personaggi J.R.R. Tolkien, Robert Graves e C.S. Lewis. marciapiede, la fece Il sito del collettivo è www.wumingfoundation.com trasalire. L'avevano trovata. Non avrebbe nemretrovie e le faccia portare qui. meno saputo dire perché li si voltò e lo colpì ancora con un Organizzi due squadre e si aspensava al plurale, dato che ne fendente al fianco. L'essere lansicuri che le carcasse dei neaveva visto soltanto uno, prociò un grido che era ghiaccio e mici vengano bruciate.» Tenne babilmente lo stesso, e in una fuoco insieme. I soldati in fondo gli occhi piantati sul grugno del sola occasione. Il fatto è che alla trincea dovettero tapparsi sottoposto. «Nessuna esclusa. lui aveva parlato al plurale. E in le orecchie per non impazzire. La riterrò personalmente requel "noi", lapidario come una L'uomo puntò il coltello verso sponsabile.» sentenza, includeva anche lei. il demone ferito. «Signorsì, signore», fu la riForse era questa la cosa che «Da qui non passerai. Torna sposta trafelata. suonava più terribile. al tuo mondo.» Il sergente scattò per eseIl primo Natale senza guerIl mostro ruggì ancora. Poi guire l'ordine. ra. Famiglie mutilate, ferite da arretrò di un passo, due, laL'uomo percepì la presenza rimarginare. Dove non aveva sciandosi dietro una scia nera del compare al proprio fianco. potuto il conflitto era arrivata di sangue. L'uomo attese che «Dobbiamo andarcene», disla febbre spagnola. Loro invece il fumo ingoiasse la creatura. se quello. ce l'avevano fatta, alla fine ne Solo allora ripose il coltello sotLui annuì, lo sguardo perso erano usciti indenni. E ora tutto to il pastrano e ridiscese la scaoltre la curva del camminaveniva di nuovo messo a repenletta, in mezzo ai soldati che si mento. taglio. rialzavano storditi. «E scoprire chi è stato.» Osservò ancora la sagoma Cercò il sergente e lo trovò ferma al margine del cono di Si fecero largo tra i soldati, barcollante che tentava di fare luce. Alto, le mani nelle tasche ricevendone il saluto scompol'appello e rimettere ordine tra del cappotto militare. Proprio sto, e sparirono rapidi com'erale file. Aprì il cappotto in modo come lo ricordava. Guardava no arrivati. che potesse vedere le mostrine

Wu Ming 4

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va parlato una consapevolezza antica, qualcosa che lei aveva covato fin da bambina e l'aveva accompagnata attraverso gli anni. Quelli difficili della solitudine, in cui la felicità più grande era suonare il pianoforte, e quelli più recenti, altrettanto complessi, ma pieni e intensi: il fidanzamento, il matrimonio. «Il mio primo nome è Edith. Chi siete?» «Un conoscente di tuo padre.» «Io non l'ho mai conosciuto invece. È lui che vi manda?» «No. Sono qui per dirti quello che lui non ti ha detto. Qualcosa che sospetti fin da quando eri piccola.» In quel momento il presentimento aveva mutato consistenza, era diventato un cuneo nel cervello. Aveva sentito il sangue gelarsi, resistendo a fatica alla tentazione di voltarsi e ripercorrere la strada fino al cottage. Gli stessi brividi di adesso. Ora che Ronald era guarito e John era nato al mondo. Ricordava lo sguardo, l'ultimo, di quell'uomo, sul ponte, prima che lei gli dicesse di non farsi mai più rivedere. Si era posato sul suo ventre, come se sapesse che da poche settimane era incinta. Qualche giorno dopo, Ronald era stato richiamato in servizio e trasferito al nord. Lei e sua cugina Jennie avevano lasciato il cottage, Great Haywood, la contea, per seguirlo. Adesso lui era tornato a minacciare tutto ciò che lei amava. E questa volta non poteva andarsene. Trasse un paio di profondi respiri per farsi coraggio. In casa dormivano tutti. Anche il

piccolo, che aveva smesso da poco di svegliarsi nel cuore della notte per esigere il latte. Per la verità non era sicura che il marito fosse già nel sonno profondo. Quando si era alzata dal letto, mossa da un impulso, un senso di timore che premeva dallo stomaco, l'aveva sentito rigirarsi e borbottare qualcosa a proposito del piccolo John, con la voce impastata di stanchezza. Di sua cugina poteva invece stare certa: crollava appena toccato il materasso e non sognava nemmeno. Pensò alla pistola, chiusa nel cassetto della scrivania. Sapeva perfettamente dove Ronald teneva la chiave, eppure era certa che il rumore di uno sparo avrebbe disintegrato in un istante ogni loro sforzo per riapprodare alla vita. C'era un paio di soprascarpe di gomma che Ronald usava per andare al lavoro nelle giornate di neve. Le infilò. Erano troppo grandi per i suoi piedi minuti, ma non voleva salire di nuovo per prendere le scarpe. Infilò il cappotto e rialzò il bavero. Quindi rimase in attesa, l'orecchio puntato verso le scale. Nessun rumore. Se Ronald si fosse accorto della sua assenza a quel punto l'avrebbe già chiamata o sarebbe sceso a cercarla. Tornò a guardare fuori dalla finestra. La figura era scomparsa. Il cuore prese a batterle forte, proprio come quel giorno di primavera sull'Essex Bridge, il ponte fatto costruire per la regina Elisabetta dal suo amante. Lo scenario era assai meno romantico adesso, notte fonda, gelo. Niente dolce gorgogliare del fiume, ma il silenzio cupo, ovattato dalla neve.

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verso la casa, come potesse scorgerla dietro la tendina. La neve si impigliava tra i capelli, ma lui sembrava non farci caso. Si chiese se ce ne fosse un altro e s'accorse che l'istinto le diceva di sì, doveva essere da qualche parte, lì intorno. Si ritrasse dalla finestra. La prima volta che lo aveva incontrato era stato molto lontano da lì, sull'Essex Bridge, a Great Haywood. Era l'inizio di primavera del 1917, la guerra era ancora in pieno corso. Una pioggerella rada e sottile scendeva sul fiume. Si era fermata a metà del ponte. Lo sapeva perché a ogni pilone corrispondeva uno slargo sul camminamento, una doppia sporgenza su entrambi i lati, da cui era possibile contemplare il fluire placido del Trent, e lei aveva preso l'abitudine di contarli, quando andava a fare la passeggiata mattutina, prima di tornare al cottage a prendersi cura dell'uomo che amava. Non poteva averne la certezza allora, ma vedendo adesso quella figura ritta accanto al lampione sentiva che il presentimento trovava conferma. Quel giorno era rimasta per un po' a fronteggiare a distanza l'uomo, fermo sull'altra sponda, percependone la forza latente. Ma aveva avvertito anche qualcosa dentro di sé, un'energia che fino a quel momento era stata soltanto un sospetto. Aveva proseguito, controllando con la coda dell'occhio che lui rimanesse indietro. Non l'aveva seguita. La mattina dopo era tornata lì e l'aveva trovato in attesa. Gli era andata incontro senza esitare, percependo la minaccia anche senza sapere nulla di lui. «Ben trovata, Mary.» Attraverso quella voce ave-


Soltanto in quel momento si rese conto di credere alle parole che aveva ascoltato sul ponte. Non c'era un motivo razionale, ma quell'uomo aveva ragione: lei sapeva che era vero. «Sarebbe toccato a tuo padre dirtelo. Ma lui si è perduto. Capita ad alcuni di noi. I più deboli. Tu hai sempre saputo di essere diversa, non continuare a mentire a te stessa. Qualcosa ti ha spinto. È la tua natura, Mary. Sapevi cosa dovevi fare. Lo hai saputo fin dal primo momento che hai incontrato Ronald.» Aveva davvero temuto di essere una minaccia per l'uomo che amava? Era giunta a sperare che la dimenticasse? «Molti di noi faticano ad accettare ciò che sono. Come tuo padre, anche tu hai provato a sottrarti. È comprensibile, ami quell'uomo. Hai pensato di poter sposare George Field, per proteggere Ronald da te stessa. Non pensavi che sarebbe venuto a cercarti, dopo quei tre lunghi anni di lontananza. Eppure non ci hai pensato due volte a rompere il fidanzamento.» «Come fate a sapere queste cose?» «Ti osserviamo da molto tempo, Mary.» Ritornò al presente. Nessuna alternativa. Doveva affrontarli. Aprì la porta di casa cercando di non fare alcun rumore e si ritrovò davanti all'uscio. Erano a pochi passi da lei. Proprio oltre il cancello. Due ombre. «Ben ritrovata, Mary.» La voce. Avrebbe dato qualunque cosa per non ascoltarla di nuovo. «Ho la mia vita, una famiglia», mormorò lei. «Non ho mai

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voluto nient'altro. Lasciatemi in pace.» L'uomo si spostò quanto bastava perché il riverbero gli illuminasse il volto. Lo stesso volto pallido e trascurato. «Quale pace, Mary? L'umanità ha appena concluso la guerra più sanguinosa della storia e questa pace non produrrà che altre guerre. Non senti quanto suonano vuote le tue parole? Loro non sanno, vivono nell'inconsapevolezza. Ma tu sì.» Edith ricordò ancora una volta il ponte, contò gli archi di pietra, uno dopo l'altro. E le parole di quell'uomo che le raccontava la storia di suo padre, quella che non avrebbe mai riferito a nessuno, perché nessuno le avrebbe mai creduto. L'uomo aveva puntato il mento verso la sponda alle spalle di lei. «Ha iniziato a scrivere qualcosa, non è vero?» Lei non aveva risposto. L'onniscienza di quell'uomo l'annichiliva. Quell'informazione non era mai uscita dalle mura del Gipsy Green cottage. Nessun altro che lei aveva letto quei racconti. «Lui non sospetta nemmeno ciò che può fare, capisci? Ha aperto un varco. Un varco tra il nostro mondo e il Mondo Secondario. È così che lo chiamiamo. Siamo dovuti intervenire. Abbiamo dovuto uccidere e respingere gli esseri che erano passati da questa parte.» Quel giorno si era allontanata, lasciandosi alle spalle tutto quanto. Poi era ripreso il loro miserabile vagabondare senza casa. Prima nello Yorkshire. Poi ancora seguendo Ronald dentro e fuori i sanatori, una ricaduta

dopo l'altra. Hull, Cheltenham, dove lei aveva partorito. Quindi Roos, un'oasi di quiete, e infine il sud, Penckridge. Quando la guerra era finita ed era arrivato il congedo, anche la salute di Ronald si era stabilizzata. «A Great Haywood non hai voluto ascoltarmi», disse l'uomo. «Hai preferito scappare. Non ti sei più fermata fino a oggi. Edith ritrovò le parole. «Non è stata una mia scelta. La salute di mio marito...» Le parve che l'uomo scuotesse appena la testa. «Davvero, Mary? Non sei stata tu a tenerlo lontano dalle trincee? Tu l'hai protetto. La febbre che tornava a salire ogni volta che avrebbe dovuto ripartire per il fronte… Proprio come hai salvato vostro figlio. Quel giorno di un anno fa, in ospedale. Ronald lontano, Jennie in lacrime, e il piccolo che non voleva saperne di uscire. Tutto quel sangue…» Come poteva sapere? Doveva essersi informato all'ospedale di Cheltenham. Ancora le faceva male riportare il ricordo alla memoria. Del parto si perde cognizione, il dolore si dimentica. Chiacchiere di ostetriche e levatrici. Lei non aveva affatto dimenticato. «Andate al diavolo!» «Il diavolo non c'entra, Mary. Noi siamo angeli. Siamo i buoni. Abbiamo una missione. Ed è anche la tua. Lo sai da anni. Non dirmi che quel giorno, in ospedale, quando sei tornata indietro dalla morte e hai salvato te stessa e il tuo bambino non te ne sei resa conto. È il tuo potere, Mary. Un grande potere. Pochi di noi saprebbero esserne all'altezza.»


Edith rabbrividì. Noi. Glielo aveva chiesto, quasi due anni prima, sull'Essex Bridge, sotto la pioggia fine che le pungeva la faccia e le diceva che non stava sognando. «Noi?» «I figli del crepuscolo. I guardiani. Qualcuno nei tempi antichi ci chiamava i Grigori. Quello che facciamo è chiudere le porte tra i due mondi. Ogni volta che è possibile, eliminiamo coloro che possono aprirle, tagliamo la pianta alla radice. Altrimenti l'equilibrio verrà distrutto e sarà il caos.» Edith si guardò attorno. La strada era deserta. La nevicata cancellava i rumori. La città avrebbe potuto essere vuota di persone e cose. Proprio come quel giorno sul Trent. Sapevano scegliere i momenti adatti, o magari avevano perfino il potere di produrli, di tenere lontani gli occhi indiscreti, di imprimere il sonno più pensante alle persone. Vide l'uomo estrarre la mano dalla tasca e srotolare un involto. Un baluginio argenteo rivelò il coltello, leggermente ricurvo in punta. «Non potete farlo», mormorò lei. La voce dell'uomo non mutò tono, rimase calma e avvolgente. «Sei così egoista da mettere a repentaglio il mondo intero? È questo che vuoi, Mary? La distruzione del tuo mondo? Vuoi lasciarglielo fare?» Edith non rispose, il cuore aveva accelerato ancora. Davanti a lui appariva piccolissima. L'uomo sospirò e per un attimo fu più umano di quanto

non fosse mai apparso. Ma era un'umanità malata, di chi è assuefatto alla morte. Non diversa da quella di molti che in quegli anni terribili avevano tenuto il conto dei caduti, giorno dopo giorno, fino a perdere la cognizione del tempo e del dolore. «Non possiamo rischiare che lui apra un altro varco, lo capisci?» disse l'uomo con rassegnazione. In quel momento l'altro si avvicinò e parlò per la prima volta. «Lascialo a me», disse. Ricevette l'arma e la impugnò con sicurezza. Si mosse lateralmente per raggiungere la porta di casa. Edith arretrò per fronteggiare la minaccia. L'uomo era almeno il doppio di lei. Fece per spostarla di peso. Prima ancora di scattare, Edith si vide farlo. Come se la mente precedesse il corpo, come se sapesse esattamente cosa fare. Mezzo passo di lato e una spinta con entrambe le mani: l'uomo si sbilanciò e scivolò per terra. Edith lo vide rialzarsi e lesse l'impazienza e il disappunto nel suo sguardo. Quello di un assassino, pensò. Perché questo era. E voleva uccidere Ronald. Proprio adesso che la guerra era finita, adesso che la vita cominciava. No, tu non lo farai, pensò. Edith schivò l'affondo del coltello, bloccando il braccio dell'avversario e colpì a mano aperta, dritta al viso. Non lo aveva mai fatto prima, ma sentì l'energia sprigionarsi tutta insieme, la rabbia diventare forza. Lui venne sbalzato indietro e finì lungo disteso per terra, tenendosi le mani sul naso. Il sangue macchiò la neve. Edith vide il bagliore sul

tappeto candido ai propri piedi e si chinò a raccogliere il coltello. Sentì sulla pelle gli intarsi dell'impugnatura. Un oggetto antico e micidiale. Dava i brividi. Il primo uomo aiutò l'altro a rialzarsi. Gli disse qualcosa in un sussurro che Edith non colse, quindi si girò verso di lei. «Mi dispiace. Ho sperato fino all'ultimo di non doverlo fare.» Aprì le falde del vecchio cappotto militare e lo lasciò cadere alle proprie spalle. Edith appoggiò la schiena al legno della porta, le mani lungo i fianchi. L'uomo avanzò. «Dammi il coltello, Mary.» Si fece ancora più vicino e allungò una mano per prendere l'arma. Ancora una volta Edith vide i movimenti compiersi prima di avere il tempo di realizzarli. Uno scatto. Un solo colpo. Un rantolo. L'uomo arretrò, portandosi le mani allo stomaco. La seconda coltellata lo prese al petto, poco sotto il cuore. Il compare si lanciò su di lei, ma Edith gli spianò in faccia la lama, gocciolando sangue sulla neve, sconvolta dalla propria stessa efficacia. «Indietro!» Ascoltò la propria voce come fosse il sibilo di un serpente. Sentì il ferito richiamare il compare. «Lascia… Lascia perdere.» Sputò sangue, si premette le ferite, e con difficoltà si rimise in piedi. Il dolore gli storpiava la faccia, ma non sembrava affatto moribondo. «Non è così facile ammazzarci»,

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Fissò ancora la faccia slavata dell'uno e quella macchiata di sangue dell'altro, capendo che l'avrebbero fatto, l'avrebbero controllata per il resto della vita. Era disposta ad accettarlo, almeno quanto era certa che se si fossero ripresentati al suo cospetto li avrebbe uccisi. Il pensiero la spaventò terribilmente, ma si impedì di darlo a vedere. Infine si allontanarono, superarono la luce del lampione e sparirono nel buio della strada. Soltanto allora le ginocchia cedettero e lei dovette aggrapparsi alla maniglia della porta. Non poteva crollare proprio adesso. Ci sarebbe stato tempo per pensare a ciò che aveva fatto. O forse no, forse sarebbe stato meglio dimenticare, cancellare tutto come un brutto sogno. Nevicava più forte adesso, sentiva i fiocchi sulle guance. Calpestò e rimestò la neve macchiata, fino a ridurla a una poltiglia rosata, grottescamente irreale. Entro mattino un manto di neve fresca avrebbe ricoperto tutto. Infine si ritrovò dentro casa, investita da un'ondata di calore che le imporporò la faccia. Solo allora si accorse di avere ancora il coltello in mano, sporco di sangue. Andò in cucina e lo lavò sotto il rubinetto. Sembrava una reliquia dell'Ashmolean: argento cesellato, con incisioni sull'impugnatura e sulla lama. Orientale. Antico. Si chiese cosa farne, senza trovare una risposta. Nasconderlo era pericoloso, se l'avessero scovato… Gettarlo via lo era altrettanto, perché un ritrovamento avrebbe destato sospetti. Poteva buttarlo nel Tamigi, stando attenta a non farsi scorgere. O forse anche no.

Oxford, 3 gennaio 1919 «Buon compleanno, Ronald.» Il pacchetto venne aperto con cura, senza rompere la carta e preservando il nastro. «Santo cielo, cos'è?» «Non lo vedi? Un tagliacarte. » Sulla faccia di Ronald lo stupore era sincero. Lo tenne sui palmi aperti, osservandone la linea arcuata e i disegni. «È bellissimo. Dove l'hai trovato?» Edith sorrise maliziosa. «Segreto.» «Ma è d'argento?» Ronald saggiò la punta con il pollice. «Accidenti, è acuminato…» «Così potrai difenderti dai goblin. E risparmiare le buste.» Ronald rise e le diede un bacio. «Grazie. È un gran bel pungiglione. Ne farò buon uso.» Fece il gesto di infilarlo in cintura. Jennie entrò in soggiorno tenendo per mano il piccolo, ancora instabile sulle gambe. Edith lo prese in braccio e gli canticchiò un motivetto natalizio, approfittandone per avvicinarsi alla finestra. Le strade erano sgombre dalla neve, che adesso si scioglieva in mucchi sempre più bassi a ridosso dei marciapiedi. Il cielo era terso, di un colore turchino intenso. Per un istante le parve di scorgere una tendina sollevata nella casa di fronte, subito richiusa. Una coincidenza, senz'altro. Nessun uomo col cappotto militare era fermo all'angolo della strada. Nessuna presenza anomala nella sua vita. Andava tutto bene.

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disse con un ghigno di sofferenza. Edith non abbassò il coltello, glielo tenne puntato addosso come fosse una pistola. «No, infatti.» L'uomo raccolse il cappotto e il compare lo aiutò a rimetterselo. Tossì e sputò ancora un grumo di sangue. Edith dovette sforzarsi per non dare di stomaco. Pregò che il trambusto non avesse svegliato nessuno, ma qualcosa le diceva che il suo potere li avrebbe preservati anche da questo. «Non puoi farcela», biascicò l'uomo. «Non dovrai controllare soltanto lui. C'è tuo figlio. I vostri figli…» D'un tratto era tutto fin troppo chiaro. «Farò in modo che si dedichino ad altro», disse lei. «Ronald no, non posso impedirgli di scrivere. Ma farò quello che devo fare: buona guardia. Non è quello che vuoi? Se è vero che ho il potere che dici, allora lo userò. » Il ferito tossì. Riprese fiato. Drizzò la schiena per fronteggiarla ancora. «Mi stai chiedendo di assumere un grande rischio. «Ti sto concedendo di vivere», disse Edith. «Altrimenti moriremo entrambi adesso. Perché io non ti lascerò mai passare.» L'uomo si appoggiò al compare. Erano di nuovo sulla soglia del cancello. Ancora un passo e sarebbero stati fuori. Per sempre, pensò Edith. «Ti controlleremo, Mary. Se il varco verrà riaperto ne sarai responsabile.» Sì, era tutto chiaro. Poteva farlo. «Non succederà.»


Angeli (sempre più) pericolosi: di GIOVANNI ARDUINO

Francesca Lia Block quattro chiacchiere con

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F

rancesca Lia Block è nata e vive a Los Angeles. Conosciuta soprattutto per il personaggio di Weetzie Bat è stata tra le autrici (se non l’autrice) che ha “sdoganato” il genere young adult di matrice fantastica presso un pubblico più vasto, trattando a fine anni Ottanta temi come omosessualità, famiglie allargate e AIDS. Definita dal New York Times “la maestra postmoderna del realismo magico per adolescenti, e non solo”, è pubblicata in molti paesi del mondo. In Italia è nota soprattutto per Angeli pericolosi (che comprende tutte le avventure di Weetzie Bat), Echo e Pretty Dead. Il suo sito internet è: www.francescaliablock.com ed il suo blog: www.loveinthetimeofglobalwarming.blogspot.it

Speechless: A quale genere appartengono i tuoi romanzi? Francesca Lia Block: Realismo magico poetico, se proprio devo sceglierne uno, per mutuare in parte un termine coniato da Alan Rifkin, un giornalista del Los Angeles Times. Oppure li chiamerei favole punk post-moderne. Anche se non è così evidente, c'è un forte spirito punk in gran parte di quello che scrivo. Da teenager seguivo da vicino la scena di Los Angeles e gruppi come gli X, gli Adolescents, i Circle Jerks, i Cramps, le prime Go-Go's, ancora cicciotelle e con l'aria cattiva. Non mi perdevo un loro concerto. S: Come definiresti Los Angeles, la protagonista di così tanti tuoi lavori? FLB: Un paese delle meraviglie seducente come una mela avvelenata. S: Weetzie Bat esiste davvero?

FLB: Weetzie è il mio alter ego. L'ho basata su di me. Da ragazza me ne andavo a zonzo sulla Pontiac decapottabile del 1955 di proprietà di un amico, avevo i capelli ossigenati, indossavo vecchi, lunghi abiti da festa di fine anno e stivaloni da motociclista. Altra gente che conoscevo ha contribuito a ispirare lo stile di vita di Weetzie e il suo aspetto. S: È vero che non hai mai considerato le avventure di Weetzie raccolte in Angeli pericolosi esclusivamente per ragazzi? FLB: Non mentre le scrivevo. Avevo vent'anni, come gran parte dei miei personaggi, e pensavo di riferirmi a lettori di quell'età. E poi allora non esistevano molti romanzi per teenager che parlassero di sesso (anche omosessuale), droga e rock & roll, a differenza di adesso. S: E in Pink Smog, uscito negli USA lo scorso gennaio, racconti di Weetzie a tredici anni...


dere umano un mostro, piuttosto che raccontare di un essere umano reso quasi mostruoso dall'ossessione... questo ultimamente è già stato fatto da molte serie di successo... S: In passato hai ribadito che la saga di Stephenie Meyer rischia di lanciare un messaggio sbagliato al pubblico femminile, soprattutto giovane. FLB: Fa sembrare che sia buono e giusto diventare schiave del proprio fidanzato. Invischiarsi in un legame fatto soprattutto di violenza. Sacrificarsi sempre e comunque. Evitare di fare sesso prima del matrimonio. E che sia necessario rinunciare alla propria vita in cambio di quella del nascituro (una scelta che io ho rischiato di dovere fare per ben due volte, ma di cui non mi è mai andato di parlare nei miei romanzi per la paura di essere fraintesa). S: Prima si chiacchierava di musica. I tuoi lavori spesso sembrano una poesia o una canzone. FLB: La poesia è il mio primo amore. Mi viene naturale, spontanea, forse perché ne ho letta tantissima da ragazzina. Poi per i romanzi uso anche una sinossi, oggi più che spesso che in passato, ma finisco sempre per stravolgerla. Riguardo alla musica, oltre al punk degli esordi, dunque, Iggy Pop, David Bowie, i Cure, i Joy Division. Cantanti magiche come PJ Harvey, Patti Smith, Tori Amos, Sia, Sinead O'Connor. E poi Silversun Pickups, Arcade Fire, Tony Ocean, Metric... potrei proseguire all'infinito. E tutti mi ispirano o mi hanno ispirato in qualche modo.

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FLB: Era da tempo che volevo farlo. Spiegare chi era prima di diventare la reginetta punk/glam dei libri successivi. Sembrava interessare anche al mio pubblico e così ho deciso di provarci. S: Non credi che ormai la narrativa young adult sia un settore troppo affollato? FLB: Certo. Però io scrivo quello che scrivo. Quando ho cominciato The Elementals, che negli Stati Uniti uscirà il prossimo ottobre ed è una specie di mystery vagamente erotico e soprannaturale, non mi sono posta problemi di un possibile destinatario. Verrà venduto come libro per adulti, e molto probabilmente è la decisione giusta. E comunque ogni anno anche nella marea di young adult spiccano romanzi eccezionali, come in ogni altra categoria. Pochi, forse sempre meno, ma ci sono. S: A parte Angeli pericolosi, una volta hai detto che Echo è il tuo romanzo più autobiografico. FLB: Sì, è vero. Forse non è il mio preferito (al momento questo posto è occupato da The Elementals), ma è comunque quello che sento più vicino. Ho scritto gran parte delle storie che lo compongono mentre ero al college, durante un periodo difficile e doloroso. S: Pretty Dead è la tua versione degli ormai onnipresenti “romanzi di vampiri”. All'interno di questo genere hai qualche preferenza? FLB: In realtà ho letto quasi solo Anne Rice, che non mi dispiace affatto. Più che altro mi interessava esplorare l'idea di come l'amore possa ren-


Libba Bray

La stella nera di New York Una ragazza, Evie, con il dono della psicometria (la chiaroveggenza nel passato) spedita dall'Ohio nella New York degli anni Venti, in pieno proibizionismo (e a Evie piace bere e fare festa fino a notte fonda, anche se ha solo diciassette anni). Uno zio che dirige un bizzarro museo delle scienze occulte. Un intrico di trame e sottotrame e perfino un serial killer non così prevedibile o scontato. Libba Bray, forse una delle autrici young adult più generose e strabordanti degli ultimi anni, fonde l'ottimo sapore di feuilleton d'altri tempi della trilogia vittoriana di Gemma Doyle con il ritmo frenetico e i particolari gradevolmente “weird” della road novel Going Bovine, ancora inedita in Italia ma già annunciata da Fazi. Il risultato può scombussolare e confondere, e in alcuni punti il plot sembra traballare sotto il peso di personaggi secondari e divagazioni in parte evitabili, ma il risultato è comunque degno di nota: un bel giro in ottovolante, un romanzo ricco e ben documentato senza il rischio di essere didascalico, e un'eroina-non-così-eroica che (caso ormai più unico che raro) ci piacerà vedere tornare nelle parti successive di questa tetralogia.

(The Diviners)

Prezzo: 17,50 Pagg. 480 Lain/Fazi Ottobre 2012

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FLB: Ah, non lo so! Aiutami tu, che sei l'esperto. S: Post-punk? FLB: Sì... art rock post-punk? Qualcosa del genere. Magari con un ritmo techno e testi molto poetici. S: Oltre alla musica, sembri essere influenzata anche dalla mitologia classica. FLB: Mia madre, come favola della buonanotte, mi raccontava l'Odissea (di cui sto provando a scrivere una versione con protagonista femminile, ambientata in una Los Angeles post-apocalittica). E sono una grandissima fan di autori come Angela Carter, Kelly Link e Chris Adrian, che di fatto creano miti moderni. S: Tanti tuoi romanzi sono stati tolti dagli

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121 S: Allora, se Angeli pericolosi è punk, Echo è...

scaffali di librerie e biblioteche perché considerati osceni o dannosi... FLB: Lo so. Odio la censura. E comunque c'è sempre gente disposta a osteggiarti, come quando ho aderito al movimento Occupy. Il lettore deve decidere da solo; se è molto giovane, magari con l'aiuto di un genitore o di un insegnante. Non sta a me creare un'opera “sicura” sotto tutti i punti di vista. E poi spesso i ragazzini sanno che cosa è adatto a loro (lo dico in base alla mia esperienza di madre, non di autrice). S: …e nonostante la presunta pericolosità dei tuoi lavori molti lettori (anche italiani) dicono di trarne grande forza e coraggio. FLB: Ne rimango sempre sorpresa. I loro commenti, le loro opinioni mi danno la spinta per continuare. A loro devo tutto o quasi. E scrivere mi ha salvato la vita, letteralmente. Non posso che sperare che succeda anche ad altri. S: Un paio di consigli? Per chi volesse seguire la tua strada, intendo. FLB: Più o meno i soliti. Leggere come pazzi, scrivere il più possibile, magari trovarsi un mentore o un gruppo di scrittura, ma soprattutto (anche se può sembrare banale) esprimere sempre quello che si sente dentro, senza barare. S: A proposito di banalità: carta o byte? FLB: Carta quando leggo, byte quando scrivo. S: Come in una favola, se tu avessi una bacchetta magica... FLB: Per citare una preghiera tibetana, “che la fame, la sofferenza, le malattie e le guerre possano scomparire, e che possano crescere la pietà e la saggezza di ogni essere vivente”. S: Niente di più? FLB: Beh, con tanto amore e tanti baci da Shangri L.A., naturalmente.


BATTLE ROYALE TRA SADISMO E SPIRITO DI SOPRAVVIVENZA

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attle Royale è un best seller mondiale del 1999 firmato da Koushun Takami, giornalista laureato in estetica all'università di Osaka. Ad amplificarne il successo, che a distanza di tredici anni fa ancora sentire i suoi echi, è subentrata del 2000 la trasposizione cinematografica a cura di Kinji Fukasaku, censurata in diversi paesi tra cui la Germania e gli Stati Uniti. La violenza della pellicola riflette infatti l’atrocità del romanzo, ambientato in un distopico universo parallelo totalitarista, nella “Repubblica della Grande Asia dell’Est”. Qui, per motivi che sono chiariti soltanto alla fine del libro, una classe di quindicenni viene annualmente scelta per prendere parte al “Programma”: dentro un’arena naturale – spesso un’isola –, spiati e forzati da collari esplosivi, dotati di armi e senza alcun preavviso, vengono messi gli uni contro gli altri e costretti ad uccidersi a vicenda. Il meccanismo del gioco è letale: spinti sull’orlo della follia i ragazzini diventano ciechi di odio e di sospetto, sopraffatti da uno spirito di sopravvivenza che ne annullerà quasi in tutti i casi l’umanità. Fanno eccezione alcuni personaggi, metaforica speranza di un microcosmo impazzito e devastato, sconvolto in pochi momenti dall’assurda macchina governativa: dal cestista Shinji Mimura detto “il terzo uomo” a Hiroki Sugimura, esperto nelle arti marziali, fino ai due veri protagonisti, Shuya Nanahara, onesto, leale e fiducioso, e Noriko Nagakawa, timida e generosa. Nessuno dei quarantadue studenti coinvolti viene però trascurato da Takami nell’analitica ricostruzione della propria psicologia e personalità. Frammenti di vita si susseguono e talvolta sovrappongono negli ultimi istanti, lasciando uno scorcio significativamente vivido dei loro sentimenti, dei ricordi e delle azioni – vili, coraggiose, piene di odio o di amore – per cui non esiste altra conclusione che la morte.

di FEDERICA URSO


la formazione di Shuya e Noriko, assassini loro malgrado (“Hai ucciso senza esitazione, Shuya” gli dirà alla fine l’amico Shogo) ma ancora integri e consapevoli di un nuovo sentimento. Impossibile non parlare, inoltre, della deriva pulp del romanzo: scene splatter, sangue, membra e resti umani accuratamente descritti,

nonostante possano disturbare i più sensibili, finiscono con l’assuefarli. Il sistema del gioco fuoriesce così dalle pagine coinvolgendo, con la sua crudeltà, le percezioni dei lettori, spingendoli prima a conoscere le toccanti storie dei protagonisti

Le persone buone sono così. Ma anche tra loro ci sono quelle che possono diventare cattive. Altre invece finiscono per restare buone tutta la vita. Tu sei una di queste. e poi ad assistere inermi alla loro – disgustosamente violenta – morte. Scene, queste, descritte senza abbellimenti alcuni, misere e fredde grazie soprattutto a un linguaggio povero ed elementare. Difetto maggiore di Battle Royale è, infatti, lo stile, che se da una parte si addice alla crudezza della narrazione, dall’altra risulta insoddisfacente, troppo essenziale e poco curato. Da non prendere in considerazione se si sta cercando una lettura piacevole, Battle Royale è un romanzo intenso, dotato di diversi livelli di lettura – non ultimi quelli connessi al sistema totalitario – e fortemente disperato, anche quando la speranza, tra le ultime pagine, vorrebbe ridare colore ad una vicenda disumana e sfortunatamente indimenticabile.

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Ancor più degna di nota è la brutalità cruenta ed estrema che sfoggiano con naturalezza i quindicenni, talvolta motivati da un passato drammatico o addirittura da deficit emozionali e cerebrali. Se l’autore riesce a catturare efficacemente molti di questi aspetti, talvolta, al contrario, diventa artefice di cliché e luoghi comuni: il più palese, oltre al caso di Noriko – la tipica ragazzina buona e ingenua protagonista di manga e anime – è forse quello di Mitsuko Souma, efferata assassina, bellissima, seducente, astuta ingannatrice, dedita alla prostituzione per soldi e noia, ladruncola e vittima di stupro all’età di nove anni. La facilità con cui decide di partecipare attivamente al gioco è dovuta alla lotta per la vita che è stata tenuta a intraprendere molto tempo prima, e che condurrà fino all’ultimo con coerenza, spietatezza e con una dose di razionale sadismo. Questo non salva però il personaggio da una caratterizzazione un po’ stereotipata, seppur l’approfondimento psicologico sia il punto di forza di Battle Royale. Come la degenerazione dei personaggi a uno stato primitivo e puramente istintuale, che ha giustamente fatto pensare al capolavoro del Premio Nobel Golding “Il signore dello mosche”, causa l’autodistruzione prima psicologica e poi fisica, così il percorso inverso maturerà la coscienza e

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#3

Il mondo oltre lo specchio RUBRICA di MIRIAM MASTROVITO

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l castello di Rosaspina, la casetta di marzapane, la scarpetta di cristallo, l’arcolaio magico sono luoghi e oggetti fatati che sicuramente tutti voi conoscete. Quel che forse ignorate è che esiste un posto, al di fuori delle favole udite da bambini, in cui è possibile ritrovarli. È proprio lì che ci condurrà la terza tappa del nostro viaggio. Per giungere a destinazione dovremo fare incursione nello studio privato del signor Reckless ma non abbiate timore, il buon John non se ne accorgerà perché è via da tanto tempo e in casa, al momento, non c’è nessuno. In ogni caso, eviteremo di frugare tra le sue cose e non toccheremo niente se non la superficie di uno specchio che campeggia tra le librerie. A un primo sguardo può sembrare uno specchio comune ma poggiando una mano sul vetro bruno la stanza intorno a noi sparirà. Ci ritroveremo in cima a una vecchia torre. Nessuna feritoia, solo una botola sul pavimento. Basterà sollevarla per scorgere una scala mezza bruciata che si inabissa nell’oscurità e se avremo coraggio a

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sufficienza per percorrerla ci ritroveremo a Schwanstein. Per molti aspetti è un’imitazione un po’ retrò delle nostre città: carrozze con ruote di legno si muovono sull’acciottolato sconnesso, un ufficio telegrafico si staglia di fronte alla stazione di posta, mentre donne in abiti lunghi ornati di pizzi e uomini con il cappello a cilindro si aggirano per le strade. Soffermandoci sui cartelli tuttavia, potremo notare messaggi bizzarri che mettono in guardia contro i geni delle acque e i corvi d’oro e, volgendo gli occhi al cielo, potremo ammirare ben due lune: una d’argento, l’altra simile a una moneta di rame arrugginita. È solo un piccolo assaggio delle stranezze che caratterizzano il Mondo oltre lo specchio in cui tanto le favole quanto gli incubi più tetri si animano di nuova vita. Qui è scomparso John Reckless e ripetutamente suo figlio Jacob è venuto a cercarlo, divenendo nel frattempo un abilissimo cacciatore di tesori. Un capello

di Raperonzolo, il Randello Castigamatti, la Palla d’Oro, sono solo alcuni degli oggetti magici che ha collezionato nel corso delle sue ricerche. Durante l’ultimo viaggio però qualcosa è andato storto. Suo fratello Will lo ha seguito e il suo approccio con la nuova realtà non è stato dei più fortunati. Le terre oltre lo specchio, infatti, non celano solo inestimabili tesori ma anche mostri orribili e grandi pericoli. Nel regno è in corso una guerra scatenata dalla Fata


seguendo oltre raggiungeremo il castello di Rosaspina, ahimè tuttora addormentato e completamente in rovina, giacché, contrariamente a quanto riferito nella favola, il principe non è mai arrivato a svegliare la bella principessa. E ancora, potremo visitare Terpevas, la città dei nani. Inoltrandoci nei vicoli angusti e tra casette a dimensione di bimbo, scopriremo che l’ultima moda in vigore tra i suoi abitanti è quella di radersi la barba mentre il vecchio lavoro in miniera, caro ai sette amici di Biancaneve, è stato soppiantato da una florida attività commerciale. Ma le sorprese non finiscono qui. Man mano che andremo avanti, tra fughe, sortilegi e in-

soliti incontri, scopriremo di essere finiti in un universo in cui i tasselli delle fiabe più note si sono scomposti e rimescolati dando vita a una favola nuova e non meno emozionante. Ad aver tracciato per noi questo fantastico percorso è la penna magica di Cornelia Funke. Potrete scovare molte zone ancora inesplorate tra le pagine del suo Reckless o, se siete particolarmente temerari, provare a tastare qualche altro specchio. Con un pizzico di fortuna potreste finire sulle tracce della Clessidra che può fermare il tempo o imbattervi nel vecchio John. In tal caso, non trascurate di avvertire Jacob perché lui li sta ancora cercando.

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Oscura che, a capo di un esercito di Goyl – spaventosi uomini pietra – combatte per il dominio assoluto. Ferito da queste mostruose creature, Will ha cominciato a trasformarsi in un uomo di Giada. Adesso Jacob è in viaggio alla disperata ricerca di un rimedio che possa restituirgli l’umanità. Seguendo le sue tracce, potremo esplorare in lungo e in largo questo paese di orrori e meraviglie vivendo un’indimenticabile avventura. Dalla Foresta Nera popolata di mordicorteccia, fungaioli e uomini corvo – creature letali a dispetto dei nomi graziosi – potremo giungere alla casetta di marzapane che ci sedurrà con quel che resta delle sue leccornie, sebbene assaggiarle non sia affatto una buona idea. Pro-


RACCONTO di MARCO GUADALUPI

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ancava un mese al matrimonio. Sarebbe diventata la signora Tunnen, ventiduenne moglie del venticinquenne Alister Tunnen, giovanotto vicepresidente di una nota multinazionale di sigarette elettroniche. Amavo Gwenda, e presto non l’avrei più rivista. Mi sono ritrovato a vagabondare nei suoi sogni. Letteralmente nei suoi sogni. È una cosa che ho voluto e che si è avverata. All’inizio mi ha fatto paura. Cercavo un modo per starle vicino, amarla (proteggerla?), sentirmi a contatto con lei in ogni momento. Da bambino ero un maestro nel trovare scuse per andare a casa degli Stuart e ammirare Gwenda nel salotto di casa sua. «Salve, signora Stuart. Posso spalarle il vialetto dalla neve?» La signora Stuart aveva capito, o semplicemen-

te era così gentile da non dirmi mai di no. Spalavo la neve, e Gwenda era a pochi metri da me, dietro la vetrata del salotto, seduta al tavolo a leggere favole ai fratelli più piccoli. Non alzava mai la testa dai libri; non mi dispiaceva, perché potevo osservarla indisturbato. Mia nonna – che riposi in pace – aveva capito tutto. «Perché non ti fai avanti, sciocchino? Sarei rimasta da sola per tutta la vita se non avessi trovato il coraggio di parlare con tuo nonno». Ascoltavo sempre i consigli della nonna, ma non ho mai trovato il coraggio di confidarmi a Gwenda. Era come se tutto quello mi bastasse, come se le consapevolezza di doverla osservare sempre e comunque da lontano era una cosa naturale, gratificante e indolore. Volevo starle vicino a modo mio.

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127 Illustrazione © Dan Panosian

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I suoi sogni erano la mia casa. Lì potevo anche guardarla negli occhi senza provare imbarazzo. Accadde una sera, al matrimonio mancava una settimana. Tornavo a casa in auto da una cena con amici. Organizzavamo un circolo letterario – roba noiosa, ma non potevo rifiutarmi visto che ero stato eletto presidente. Prima di andare a dormire mi fermai in caffetteria, da Charlotte. «Il solito» ordinai, e dopo pochi minuti la cara Charlotte, signorina con tante speranze ma cameriera da troppi anni, posò sul tavolo il mio caffè con tre biscotti al cioccolato. Dopo il primo morso una voce mi colse alle spalle, improvvisa, ma dolce e sognante. «Posso sedermi?» Il biscotto che avevo in mano cadde nella bevanda bollente. Mi voltai appena. La proprietaria di quella voce indossava un elegante abito blu notte, decisamente fuori luogo in una caffetteria, a quell’ora per giunta. «Tu… tu saresti?», balbettai. Aveva gli occhi verdi, i capelli rasati tipo marines e un vistoso piercing al naso. Prese posto al tavolo. «Sono chi stai cercando», rispose parlando ancora con dolcezza. Abbassai lo sguardo, colto dal mio proverbiale imbarazzo. «Non capisco. Non cerco nessuno, ero qui solo per un caffè…» «Sei qui perché pensi a Gwenda», disse la donna misteriosa. «Sei qui perché questo posto te la ricorda. Era seduta qui dove sono io adesso, no? Quel giorno di tre anni fa. Il vostro unico appuntamento.» Avevo portato la tazza alla bocca. La riappoggiai sul tavolo lentamente, tremando peggio di un bambino quando viene sgridato. «Tu… come… COSA?»


«Vuoi restare vicino a Gwenda, ma non sai come fare. E, fammi indovinare”», aggiunse portando un indice sulle labbra carnose, «ti struggi perché tra due settimane lascerà il paese per andare in città!» Mi alzai dal tavolo a testa bassa, abbandonando caffè e biscotti. Cercai Charlotte per pagare il conto ma non c’era. Il locale era vuoto. Allora mi voltai: era sparita anche la donna misteriosa. In quel momento decisi che in quella caffetteria non avrei più messo piede! Istintivamente gridai il nome della cameriera. Nessuna risposta. Urlai anche fuori dal locale. Nulla. Ero immobile sul marciapiede quando iniziarono a cadere alcune gocce di pioggia. Ben presto venne giù un acquazzone. Iniziai a correre e fradicio raggiunsi l’auto. No, la donna non comparve sul sedile posteriore, né al mio fianco. Così mi tranquillizzai, o almeno ci provai. La pioggia cessò poco prima che arrivassi al portone di casa. Parcheggiai la macchina in garage, e fu lì che lei ricomparve. Non indossava più l’abito elegante. Portava una minigonna di pelle nera, delle autoreggenti smagliate e una tshirt di un gruppo rock che non conoscevo. Era scalza. «Perché sei scappato?» chiese risentita. «Vai via, lasciami in pace!», urlai. Uscii dal garage per entrare in casa e lasciarmi la donna misteriosa alle spalle, invece mi voltai. «Come fai a conoscere Gwenda? Chi sei? Io… non ti stavo cercando.» «Invece sì», insistette. Fece un gesto, come per annusare l’aria. Chiuse gli occhi. «Io sono tutte le volte che non sei riuscito a dire a Gwenda che l’amavi. Sono i rimorsi, le tue lacrime per lei. Sono le cattive compagnie che hai frequentato per cercare di dimenticarla. Non mi riconosci?» fece cincischiando con i piercing al naso. Riaprì gli occhi. «Affronta le tue paure. Affrontami.» Non erano più parole dolci. «Io… non mi interessa» risposi soltanto, aprendo e chiudendo la bocca senza dire altro. «Voglio solo che Gwenda sia felice…» «Bla, bla, bla. Ma ti senti? L’hai lasciata in balia di quello spacciatore di sigarette elettroniche. Secondo te con Alister Tunnen sarà felice? Quel tipo le ha rubato la vita, i genitori hanno combinato tutto e il matrimonio si farà ma a lei è stata rubata la vita.» Osservai i suoi occhi verdi, profondi. «Come vor-

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resti aiutarmi?» «Beh, facendo fuori lo spacciatore di sigarette, ovvio.» Alister Tunnen era nel suo ufficio. Vestiva come un qualsiasi vicepresidente di multinazionali. L’angolo del fazzoletto cremisi sbucava dal taschino della giacca, i capelli impomatati e la mascella spalancata. Fu la sua segretaria a ritrovarlo, il taglio alla gola ancora caldo. Ero il colpevole, ma quando Alister Tunnen se ne andò per sempre mi trovavo nel mio letto. Mi risvegliai dall’incubo in un bagno di sudore. «Ce l’hai fatta», esclamò la donna misteriosa in piedi accanto il mio letto. Aveva cambiato abbigliamento per l’ennesima volta. La giacca da uomo che indossava le arrivava quasi alle ginocchia, per il resto doveva essere completamente nuda. Strizzai gli occhi per metterla meglio a fuoco. «Fatto cosa? Dormivo.» «Oh, be’, era una deduzione. Non sono mie le mani sporche di sangue.» Mi guardai le mani. Provai un dolore acuto appena dietro le orbite. La vista si offuscò. «Sta’ buono», disse la donna cercando di placare le mie urla e i miei spasmi. «Era quello che volevi. Era quello che dovevi fare. Ora va’ a prenderti Gwenda.»

Il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Tunnen incontrai Gwenda in ospedale all’ingresso della camera mortuaria. Ero andato per portare le mie condoglianze. Mi sentivo da schifo, ma feci uno sforzo. In qualche modo riuscii a dirle che mi dispiaceva, l’abbracciai, ma aveva lo sguardo fisso nel vuoto e dubitai mi avesse riconosciuto. Mi fece male, quell’abbraccio freddo, ma non era colpa sua. Dopo l’ospedale mi rintanai in casa per riflettere. Ero stato io a uccidere Alister. Che diavoleria! Lo sentivo dentro, nell’anima, non potevo sbagliarmi. Ero proprio stato io, mentre la polizia aveva aperto un fascicolo contro ignoti. «Com’è accaduto?», chiesi. La donna misteriosa comparve dietro di me come al solito. Sentii il fruscio dei suoi passi. Vestiva con un altro abito elegante, rosso fuoco. Mi passò una mano sul collo. «Dimmi, cosa hai sognato l’altra notte?» Cercai di ricostruire i pensieri. «Io... non so.


MARCO GUADALUPI

Ricordo solo una brutta sensazione. Avevo caldo, poi dolore e… mi sono risvegliato. Pensavo a Gwenda quando…» «Quando lo hai fatto. Bene». Ridacchiò. «Ora hai capito?» «Ho ucciso Alister Tunnen attraverso i miei incubi?» «Sei proprio un ragazzo intelligente!» Rise ancora, abbracciandomi per complimentarsi con me. Non sentii il suo tocco, soltanto uno spostamento d’aria dietro il collo sudato. Entravo nella mente di Gwenda di notte, come un ladro. Era bastato l’assassinio di Tunnen ad aprirmi la strada. Non era difficile. Si perde ogni contatto con la realtà, dai sensi, ai pensieri. Lo descriverei come un viaggio in un tunnel freddo, un tunnel trasparente in mezzo a un mare opaco di immagini e suoni senza controllo. Quello erano i sogni. Così ebbi la conferma che Gwenda non aveva mai provato nulla per Tunnen, anche se era affranta per la sua morte. Quando il matrimonio saltò ufficialmente riuscii a penetrare nei sogni della mia amata anche di giorno, da sveglio. Era più complicato e più freddo, ma

con la pratica avevo imparato a schermare i miei pensieri, così da nascondermi nell’ombra della sua psiche ed evitare di rimanere esposto alla sua coscienza sopita dal sonno. In camera mia, steso sul letto, vedevo Gwenda riorganizzare la sua vita, parlare con i genitori del suo futuro, comunque lontano dal nostro paesino. «Posso parlarle?» fu la domanda che feci alla signora misteriosa una notte fredda di dicembre. Osservavo le luminarie di Natale dal mio letto. La finestra era aperta sulla via addobbata per le festività. «In sogno? Se te la senti», fece lei indifferente, stringendosi nelle spalle. Non aveva alcun vestito addosso. «Per caso vuoi chiederle di sposarla?» «No», risposi cupo. «Vorrei chiederle se è felice.» La donna misteriosa sbuffò. «Conosci già la risposta. Non fare domande inutili.» Me la ritrovai a pochi centimetri dal mio viso. Gli occhi verdi erano tunnel freddi… Le mie incursioni nei sogni di Gwenda erano sempre più frequenti. Sognava di leggere favole ai suoi fratelli per sempre; sperava che l’omicidio del suo promesso marito non fosse mai accaduto.

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Appassionato da sempre del fantastico in tutte le sue forme, Marco Guadalupi collabora dal 2006 con la testata Fantasy Magazine, di cui è attivo redattore. Per Lunatica, fiera del Fantasy, si occupa del reparto scrittura e comunicazione. Ha pubblicato numerosi articoli e recensioni, racconti, interviste e approfondimenti su riviste online e cartacee. Si interessa di disegno, musica, cinema e videogame. Collabora come blogger e social media manager con Fanucci Editore e frequenta la Lupiae Comix, scuola del fumetto di Lecce. A giugno 2012 ha esordito con il racconto Demon’s Rock nell’antologia Stirpe Infernale. A ottobre è uscito per Plesio Editore DRC – Dark Rock Chronicles, il suo primo romanzo.



«Non vuoi proprio lasciarla andare, eh?» «Sono un assassino.» «Lo so», fece la donna misteriosa. «Ma perché ti preoccupi? Non lo saprà nessuno. Sei riuscito a trattenere Gwenda ancora per un po’. Bravo. Ma la morte del suo amato padre quanto la tratterrà ancora? Devi sbrigarti se vuoi dirle che l’ami.» «Non dirò un bel niente.» La donna non rispose, ma l’eco delle sue ultime parole rimase a tormentarmi per tutta la notte. Non dormii. Gwenda era lontana. Trascorsi un’intera giornata in casa, tralasciando ogni impegno, compreso il circolo letterario. Ero solo. Probabilmente da qualche parte c’era anche la signora misteriosa, ma non si manifestò. Tagliuzzavo foto di Gwenda e le appendevo sulle pareti della mia stanza. Il giorno successivo continuai il lavoro, tappezzando di foto ritagliate prima il corridoio, poi la cucina e infine il piccolo salotto. Taglia e incolla, taglia e incolla… Il terzo giorno lo passai nella vasca da bagno. La pelle bianca e deformata dall’acqua era nascosta da nuvole di sapone. La schiuma era il mio bozzolo, sotto la quale mi masturbai per ore pensando a Gwenda… Gwenda. Non riesco a dormire. Dove sei? … Salve, signora Stuart. Posso spalarle il vialetto dalla neve? “…E così, Peter Pan e i bimbi sperduti attaccarono Capitan Uncino…”

«Perché non ti fai avanti, sciocchino?» Io… Non ti stavo cercando… «Invece sì…» «… e vissero per sempre felici e contenti.» «Non mi riconosci? Sono i rimorsi, le tue lacrime per lei.» Basta… «Ma ti senti? L’hai lasciata in balia di quello spacciatore di sigarette elettroniche. Secondo te con Alister Tunnen sarà felice?» BASTA! Sputai acqua, sapone e sangue. Raggomitolato nella vasca, fuori dal bozzolo di schiuma, ridevo eccitato, anche quando vidi Alister Tunnen e il signor Stuart osservarmi con occhi sbarrati uno accanto all’altro. Ero sveglio. Tunnen cercò di dire qualcosa, ma il sangue scuro continuava a fluire dalla ferita al collo. Seppi di essermi riaddormentato perché mi trovavo di nuovo in Gwenda. Muovevo passi incerti nella sua mente. Non c’erano più immagini né ricordi: il tunnel freddo – la mia casa – era scuro e vuoto. Volevo svegliarmi. Aprii gli occhi e c’era lei. «La stai uccidendo.» La voce della donna misteriosa mi fece paura. «Non… non voglio uccidere Gwenda!» «Allora lasciala in pace. Basta incursioni», esclamò. La donna era avvolta in un lenzuolo di seta. Al posto della testa rasata una chioma gonfia di riccioli. «La stai inondando di incubi. Così la ucciderai.» Ero ancora nella vasca, stremato e sporco di sangue. I tagli che mi ero inferto con le lamette da barba andavano da una parte all’altra dell’addome. «Che devo fare?», chiesi. «Amarla.» «La amo.» «Amarla come una persona normale, stupido. Sempre che tu sappia il significato di normale. Devi dirglielo, faccia a faccia, come fanno tutti.» Disgustata, si tolse di dosso il lenzuolo. Aveva la pelle bianca come la mia, ma senza tagli e senza

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Poi arrivò il giorno della partenza. Gwenda era pronta per dire addio al paesino, un infausto giorno di primavera. Era una giornata ventosa, con qualche strascico di pioggia. Poco prima di prendere il taxi per raggiungere la stazione, Gwenda e la madre furono raggiunte da un poliziotto sulla porta di casa. Tra il sonno e la veglia, nella mia stanza, la vidi scoppiare in lacrime e gettarsi tra le braccia della madre, mentre il poliziotto mandava via il taxi. Uccisi il signor Stuart sul posto di lavoro, dal mio letto, nei miei incubi, come avevo fatto con Tunnen. Un’altra gola tagliata. La polizia iniziò a battere la pista del serial killer.


grinze. Era perfetta. «Guarda come ti sei ridotto. E guarda cosa hai fatto alla casa! Volevo solo aiutarti.» Chiuse gli occhi. Una lacrima sfuggì alle sue lunghe ciglia, scivolandole sulla guancia. «Aiutarmi? È colpa tua. Tutto questo è colpa tua!» Risi e piansi, sollevandomi dalla vasca, devastato da dolori e bruciori atroci. Il bagno era completamente sporco di rosso. La signora misteriosa scomparve e non la rividi mai più. Mi trascinai a letto lungo il corridoio. Strisciavo nel buio, nudo e ancora eccitato. Crollai sul materasso dopo vari tentativi di rimettermi in piedi. Tentai invano di restare sveglio, di reprimere la voglia di entrare in Gwenda. Ma il sonno mi afferrò, e mi lasciai trasportare senza opporre resistenza, sollevato. Ciao, Gwenda. Sei tu? Ciao. Sì. Scusa per l’intrusione. Ormai ci sono abituata. Vuoi dire che…? Sì, lo so che mi spii. Scusami. Non importa. Prometto che d’ora in poi ti lascerò in pace. Dovrei ringraziarti? Non lo so. … Perché sei qui? Non ho il coraggio… Per fare cosa? Lo sai. O puoi immaginarlo. Lo so. Ma immagino solo te che ti masturbi pensando a me.

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Illustrazione© Claudia Cocci


Letteratura Non lo farò più. Ti chiedo ancora scusa. Non è questo il punto. Dimmelo, avanti. Io… non… non riesco. Vivremo insieme? Tutto finirà? Vivere con l’assassino di mio padre? Sei un folle! Avanti, dimmelo. Ti amo, Gwenda. Non ti rivedrò mai più. Mai più. Mi perdoni? …Ti perdono. Addio. Cercavo un modo per starle vicino, amarla (proteggerla?), sentirmi a contatto con lei in ogni momento. Non sogno più.

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La Principessa Sposa di VALENTINA COLUCC

ELLI

Questo, ecco, proprio questo era ciò che lui aveva sognato tanto spesso e che aveva sempre desiderato da quando era caduto in preda alla sua passione: una storia che non dovesse mai avere fine. Il libro di tutti i libri. Doveva avere quel libro, a ogni costo! Michael Ende La storia infinita

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quando la storia è davvero infinita

P

robabilmente a Bastian, il giovane protagonista de La Storia Infinita di Ende, La principessa sposa avrebbe fatto davvero gola, al punto che avrebbe finito col rubarne una copia per leggersela al sicuro e in solitudine nella soffitta della scuola. Perché si dà il caso che questo “libretto” di così difficile classificazione racconti davvero una storia che potrebbe non avere mai fine. E non solo perché non ha un vero e proprio finale, lasciato volutamente aperto all’immaginazione del lettore; ma perché, grazie a un’ingegnosa e divertente finzione biografica, l’autore crea una sorta di gioco di scatole cinesi per cui la storia principale viene letta da un meta-narratore, che la arricchisce con i suoi interventi creandone una ancora più preziosa e ampia, che a sua volta viene letta da chi ha in mano il libro. E quest’ultimo lettore, proprio come sto facendo io ora, probabilmente racconterà a un altro lettore/ ascoltatore di aver letto questo libro in cui un personaggio rileggeva una storia, e così via. William Goldman ha la penna magica,

come sceneggiatore (Tutti gli uomini del Presidente, Butch Cassidy, Il maratoneta, solo per citarne alcuni) e come scrittore, ma con La principessa sposa, divenuto anch’esso poi sceneggiatura per la versione cinematografica, ha dato vita a un libro talmente ricco e sfaccettato da sfuggire a qualsiasi definizione. Impersonando se stesso, Goldman inventa di dover ridurre il libro che gli lesse suo padre da bambino, cambiando il corso della sua vita: “La principessa sposa. Una storia classica di Vero Amore e Grande Avventura” di un certo S. Morgenstern. A spingerlo è la scoperta che il padre in realtà gliene aveva offerto una sua personale versione romantica e avvincente, rivedendo, accorciando e abbellendo il libro di Morgenstern, a quanto pare invece interessato – e prolissamente – a elaborare una satira tagliente sulla storia del suo paese, Florin, e sul declino della monarchia. In questo modo, Goldman dà vita a un libro che in realtà sembra contenere più di una storia, una dentro l’altra. Forse, uno dei modi per raccontarle tutte potrebbe essere scoprire ogni gradino della sua scala speciale, che consente in realtà di fermarsi al piano che si preferisce, ignorando bellamente gli altri, ma che, se percorsa sino in cima, mostrerà tutta la ricchezza, la capacità


Secondo livello: la fiaba-nonfiaba. Ci si potrebbe accontentare del puro divertimento e delle emozioni regalate dalla “semplice” fiaba di Morgenstern. Ma sarebbe davvero un peccato decidere di non cogliere l’ironia di certi passaggi che la trasformano in una spassosa e brillante parodia dei romanzi d’avventura e fantastici. Varrebbe la pena accorgersi, per riderne grassamente, di quanto Buttercup, se pur impareggiabile in bellezza, sia piuttosto rozza e decisamente poco sveglia; come cogliere le mille battute

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Primo livello: la fiaba in sé. È ciò che rimane dell’originario lavoro di Morgenstern; “le parti belle”, come dice Goldman. E quel che rimane è molto, moltissimo. Perché in questa fiaba c’è tutto: “Scherma. Lotta. Tortura. Veleno. Vero amore. Odio. Vendetta. Giganti. Cacciatori. Uomini malvagi. Uomini buoni. Belle dame. Serpenti. Ragni. Bestie di ogni natura e tipo. Dolore. Morte. Uomini coraggiosi. Uomini codardi. Uomini più forti. Inseguimenti. Fughe. Menzogne. Passione. Miracoli.” E poi ci sono luoghi incredibili, come lo Zoo della Morte, il Dirupo della Follia, la Palude di Fuoco, la Baia dell’Anguilla Gigante. E, soprattutto, ci sono personaggi indimenticabili: Buttercup, la sposa (“La donna che ne era emersa era un tantino più magra, molto più saggia, enormemente più triste. Aveva diciotto anni. Era la donna più bella di tutto il secolo. Non sembrava importarle”), il suo grande amore Westley, il garzone (“Ai tuoi ordini” probabilmente sarà ricordata da chiunque abbia letto il libro di Morgenstern come una tra le frasi più

rincorrono in una fiaba avvincente, romantica, emozionante.

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comunicativa, l’intrinseca portata innovativa del lavoro di Goldman.

romantiche della letteratura), Inigo Montoya, lo spadaccino (“Hola. Mi nombre es Inigo Montoya. Tu hai ucciso mio padre, preparati a morire!”), Fezzik, il gigante innamorato delle rime (“Tegola, tegola, tornare alla partenza è la regola”), Vizzini, l’infido siciliano gobbo (“Inconcepibile!”), e ancora l’albino del sussurro, Max dei Miracoli e sua moglie (“Il vero amore è la cosa migliore del mondo, dopo le pasticche per la tosse. Lo sanno tutti.”), i perfidi Principe Humperdinck con la sua mania per la caccia e il Conte Rugen con la sua particolare deformità. Amore e avventura si


The Vampire Diaries

ITALIA

primo sito italiano

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sarcastiche sparse in tutto il testo, che compaiono quando meno ce lo si aspetterebbe; per non parlare delle situazioni farsesche, delle esilaranti classifiche sulla donna più bella del mondo o sul bacio più intenso, o ancora delle spiazzanti precisazioni sul “veniva prima” e “veniva dopo”. Terzo livello: la meta-narrazione. Questa è indubbiamente la parte più originale e coinvolgente; grazie alla prefazione e ai continui interventi di Goldman, che precisano quanto abbia tagliato in un capitolo e perché e che ricordano come aveva vissuto quei passaggi da bambino, mentre suo padre plasmava la storia appositamente per lui, si ha l’impressione di vivere la lettura con il William capace e professionale del presente e con il Billy ingenuo e meravigliato del passato, in una piacevole e informale condivisione.

E con loro si scopre anche, mano a mano che si evidenziano i cambiamenti apportati alla storia dal padre, la figura romantica e attenta di questo personaggio, che assume contorni bellissimi velati di nostalgia. Quarto livello: la morale della fiaba. Questo è il passo successivo dell’ironia approntata alla fiaba, i suoi senso e scopo più profondi: nella realtà – e anche in questa fiaba che ce lo insegna – la vita non è giusta. Non sempre i buoni vincono, non sempre l’amore ha un senso (il perfetto Westley e la sciocchina Buttercup sono davvero male assortiti), non sempre chi ha valore ha successo, non sempre chi ha bisogno di affetto è accolto dagli altri. I personaggi di Morgenstern, al di là della caratterizzazione fiabesca in primis e caricaturale poi, hanno un’umanità che

commuove (soprattutto Fezzik e Inigo, che in più punti sembrano richiamare i personaggi de Il Mago di Oz, che desiderano ciò che già hanno e non credono di possedere) e coinvolge (difficile non parteggiare per l’amore tra Westley e Buttercup), e le loro sconfitte pesano sul lettore e insegnano ad accettare che “la vita non è giusta”. Non come una demoralizzante rassegnazione, ma come una sorta di liberazione ricevuta dall’accettazione dell’imperfezione! Quinto livello: inno alla lettura. Tutto il libro di Goldman, che ha inizio dall’amore per un libro, è una sentita dichiarazione d’amore alla lettura. E Goldman ha proprio confezionato un’opera capace di raggiungere e piacere a tutti, che sembra gridare: “Leggetemi! E poi leggete, leggete, leggete”. Come biasimare Bastian, dunque?

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Tomoko TOMOKO NAGAO Giapponese, vive a Milano. Dipinge.

CONFRONTO ALLO SPECCHIO Le opere di Tomoko sono un'allegoria dell’epoca della globalizzazione, raccontata con i suoi simboli e i suoi prodotti, in stile "superflat" (Christian Gancitano)

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Francesca FRANCESCA SCOTTI Italiana, vive a Kyoto. Scrive.

SPECIALE

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DOPPIA

arte

I

l suo è un mondo coloratissimo, fluttuante, eccessivo ma non ridondante. Tomoko tiene a bada la grande onda, lasciandole travolgere solo ciò che desidera. Mischia i dipinti storici europei e la società capitalistica, riflette i contrasti del suo oriente portandoli nel quotidiano. Le pagine di Francesca risplendono di un perfetto nitore, una prosa pulita e sorvegliata. I suoi racconti sono attraversati da una serie di temi tra loro speculari: la musica e il suo complemento, il genio; l’arte culinaria e la sua ombra, il digiuno; il Giappone come luogo ideale, terra di epifanie. Le storie che racconta posseggono un tratto comune, ovvero una disarmante intensità, una straordinaria forza emotiva. Francesca e Tomoko si sono incontrate con un racconto che cercava un’immagine o viceversa. Da allora non hanno più smesso di cercarsi. E di farsi domande.


TOMOKO A FRANCESCA Tomoko: Ti piace il dipinto “Giuditta e Oloferne” di Caravaggio? Nel mio dipinto "Giuditta che decapita Oloferne", che mano usa per tagliargli la testa? Francesca: Sì, mi piace. Mi piacciono l'eleganza e la ferocia che racchiude. Questo binomio lo ricerco anche nei racconti che leggo e nelle storie che scrivo. Giuditta corrucciata nella bellezza, Oloferne contratto in uno spasmo, già morto nel corpo ma non nello sguardo. Se mi dici "mano" la prima che vedo è quella di Oloferne avvinghiata al letto. Poi c'è quella della spada e quella con cui gli tiene il capo. Secondo me, nel tuo dipinto lei lo decolla con l'eroismo, con la mano della rivalsa. T: Perché ti piace hokusai? L'acqua è viva F: Di Hokusai mi piacciono i manga nei quali convivono esseri umani, oggetti, creature fantastiche, personaggi storici, animali e piante. Non ti sembra di sentire il lottatore di sumo che canticchia mentre fa il bucato? o i servi che si lamentano mentre spingono il carretto? Ora

che vivo a Kyoto, ogni tanto mi ritrovo davanti a scene che sembrano quelle viste nei suoi lavori. Mi piace la sensazione di corporeità che ottiene con pochi tratti, la naturalezza che dissimula uno studio approfondito. Mi piace il suo modo di raccontare storie per immagini, guardare il tempo scorrere nei gesti dei suoi personaggi. T: Lo sai che in giappone definiamo "blu" alcune cose verdi? Cosa ne pensi? Blu è verde? Verde è blu? F: Mi viene in mente una frase di Melville, sui confini labili. "Who in the rainbow can draw the line where the violet tint ends and the orange tint begins? Distinctly we see the difference of the colors, but where exactly does the one first blendingly enter into the other? So with sanity and insanity.” Quando scrivo mi piace raccontare storie che stiano proprio su quella linea sottile. Che indugino un po' nel verde e un po' nel blu, fino a dimenticare qual è uno qual è l'altro e cosa significhi "sano" e "insano". Blu e verde siedono vicini nell'arcobaleno e i nostri occhi possono mescolarli.

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arte Mi dà un piacevole spaesamento sentirli utilizzare in alternativa in Giappone. Ma del resto, da quando vivo qui, se mi chiedo qual è il contrario di bianco non rispondo più nero, ma rosso. T: Attraverso cosa senti il "futuro" ? Una volta, ho sentito il futuro in una foglia di albero. ma mi sono spaventata. Perché sono troppe.

F: La parola "futuro", da sempre, mi riporta a pensieri fantascientifici. Se cerco di avvicinare questo termine alla mia vita allora il futuro lo immagino nelle storie che ancora non conosco. Se dovessi trovare un'immagine sarebbero i libri che ancora non ho letto, le montagne di pagine che rappresentano il passato per qualcuno e il futuro per qualcun altro.

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FRANCESCA A TOMOKO Francesca: Se tu mi chiedi se mi piace Caravaggio, io ti chiedo se ti piace Hokusai! Tomoko: Quanto amo il tuo modo di chiedere! Caravaggio e Hokusai non sembrano delle verdure? Se lo fossero, ne farei un succo. Hokusai è un genio nel dipingere l’acqua. La sua acqua sembra un animale o una ceratura dotata di anima. C’è dell’animismo nel suo stile. Qualche giorno fa sono andata alla mostra “Tesori dell’arte giapponese” a Nagoya – sono qui per un mese, per visitare la mia famiglia, fare shopping da ragazze e fuggire dalla società europea e dal-

la mia realtà - ho visto un rotolo interessante, “Heiji Monogatari emaki – Sanjoudonoyouchi”. La rappresentazione del fuoco mi ha affascinata. Molte culture divinizzano il fuoco, e questo mi ricorda l’acqua di Hokusai. La sua acqua è un mostro che ci può divorare. E così è anche il fuoco della battaglia. Sono stata per tre giorni a Goza Shirahama, vicino all’Ise Jungu, il grande santuario dedicato alla dea del sole Amaterasu-ōmikami e al dio dell’agricoltura e dell’industria, Toyouke no ōmikami. È come un’enorme e perfetta installazione, ti fa vede-

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re un mondo mai incontrato. Quando ero sul mare, le onde erano molto grosse a causa di un tifone. Ho visto l’onda di Hokusai! E anche gli spiriti della natura. La natura è splendida… grazie per la mia vita. F: La nostra prima collaborazione era relativa a un racconto erotico al quale tu hai affiancato un'immagine. Quando l'arte è erotica per te? T: Il mio disegno per il tuo racconto non è propriamente erotico per me. Era importante la ragazza senza vestiti e il sex toy. Ero interes-

sata alla relazione fra un corpo nudo e un oggetto contemporaneo. Non sono un’artista che esprime erotismo. Non credo di essere molto brava nell’arte erotica. Sono andata al mare in Giappone. Non ho visto donne in costume, indossano vestiti sulla spiaggia, perché non amano che la loro pelle si veda in pubblico. Se una donna ha il costume, gli uomini la guardano, perché le altre sono vestite. Non sapevo che le donne si comportassero così in Giappone, 7 anni fa, non era così. Cosa succede in Giappone? Cosa pensi, se una donna indossa i vestiti in spiaggia e mentre nuota gli uomini la guardano? Sono confusa, cosa è erotico?

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T: Quando racconto un personaggio femminile mi interessa guardarla nella società in cui vive. Perché, in qualche modo, la donna è simbolo e vittima della società. Spesso uso la principessa spagnola Infanta Margarita Teresa in “Las meninas” di Velazquez. Lei è stata principessa quando la Spagna era il paese più potente del mondo. È il mio super idolo di donna del periodo. Ora mi interessa Lady Gaga. È così carina, non è vero? Ed è un idolo contemporano: musica, danza, fashion, sesso, technology… mischia tutto. Anche le AKB48 sono carine. Sono vittime della società? O vincenti? F: Nei tuoi lavori vedo tanto cibo. Ti piace di più cucinarlo o rappresentarlo? T: Mi interessa più il packaging del cibo di massa che il contenuto. E preferisco disegnare più che cucinare o mangiare. Comunque, sai, anche il cibo tradizionale giapponese ha profonde relazioni con l’animismo. Mi piace il cibo che abbia storia e cultura alle spalle. Posso scoprire significati importanti del cibo mangiandolo. Ma il packaging che uso per la mia arte cancella tutto il significato dell’alimentazione. La gente sceglie il cibo di massa e questo mi interessa dal punto di vista sociale. Che sia uno dei progressi dell’umanità? Se gli umani non avessero più bisogno di cibo non sarebbero più animali. È figo?

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F: Di quale donna vorresti raccontare, con la tua arte, la storia?


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L’universo illustrato di

Victoria Frances di ELENA BIGONI

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n occasione dell’uscita italiana dell’edizione integrale di Favole, edita da Rizzoli Lizard, abbiamo avuto l’occasione di intervistare l’autrice Victoria Frances. La giovane illustratrice spagnola ha conquistato il grande pubblico di lettori in età giovanissima, pubblicando un’opera illustrata intitolata Favole, Lacrime di pietra, primo volume di una trilogia. Quest'opera ha rappresentato, nel panorama delle graphic novel, una sorta di spartiacque tra l’immagine del vampiro del passato e il vampiro moderno. Victoria Frances ha saputo innestare nelle classiche caratteristiche dei vampiri quel giusto mix di gotico e dark romantico che ha affascinato le nuove generazione di lettori. Atmosfere cupe sottolineano storie d’amore ricche di pathos dove eroine disperate narrano le loro inquietudini. La trilogia di “Favole” è entrata con prepotenza nell'immaginario dei lettori di tutto il mondo, tanto che le immagini e le figure femminili raccolte nell’opera sono diventate il simbolo della nuova letteratura gotica, nella quale confluiscono il fascino e l’oscurità di personaggi tormentati e ricchi di carisma. La Frances, però, non si è fermata e ha prodotto altre due serie di grande pregio El corazon di Arlene e Misty circus dove ha dimostrato di sapere gestire e giocare con storie e stili molto diversi tra loro senza mai dimenticare quella vena cupa che contraddistingue il suo lavoro. In attesa di poter leggere in Italia i suoi nuovi lavori, buone “favole” a tutti.


INTERVISTA

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Speechless: Ciao Victoria, benvenuta su Speechless. I nostri lettori sono sempre molto curiosi, ti andrebbe di parlarci un po’ di te? Cosa ti piace fare quando non lavori sui tuoi progetti? Victoria Frances: Lieta di ospitarvi. In verità mi considero una persona molto normale e, al di là dei miei progetti come illustratrice, di solito nel mio tempo libero mi dedico alla lettura, in particolare leggo romanzi ambientati nel passato, mi piace anche andare al cinema, ascoltare musica… vale a dire faccio quello che una qualsiasi persona normale fa di solito nel proprio tempo libero. S: Parliamo subito della tua opera prima “Favole” pubblicata la prima volta nel 2005 in Spagna, una trilogia illustrata che ha conquistato in brevissimo tempo lettori e lettrici di tutto il mondo. Da poco è stata pubblicata la versione integrale in un unico volume con illustrazioni e testi inediti. Come mai questa scelta di riprendere in mano l’intera opera? VF: Il primo volume di “Favole” è stato pubblicato in Spagna nel 2004 e onestamente sono rimasta molto sorpresa dall’impatto che ha avuto il mio primo artbook. Non mi aspettavo di ottenere un successo così rapido e credo che non fossi nemmeno pronta a tutto questo. Ma poco a poco ho fatto mio il campo artistico che mi si apriva davanti e mi sono dedicata completamente al mondo dell’illustrazione, continuando col secondo e il terzo volume. Ho raggruppato la trilogia in un unico volume per darle un aspetto più elegante, qualcosa di più simile a un “libro


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d’artista” con un’impostazione grafica più accurata e con materiale esclusivo. S: Come è stato rimetterti al lavoro su “Favole”? Quali sono stati (se ne hai trovati) i limiti della tua prima opera rispetto a questa nuova revisione? In che modo ti senti cambiata rispetto ad allora? VF: Il primo libro contiene lavori e testi realizzati in un’età molto precoce, quasi 18 anni, quando non avevo nemmeno una tecnica completamente raffinata. Col passare del tempo e realizzando nuovi lavori anche il tuo stile migliora e le tue inquietudini cambiano, ma mantieni sempre quello spirito particolare o quel tuo mondo proprio che definisce la tua personalità artistica. S: “Favole” non è solo il titolo dell’opera ma è anche il nome della protagonista, il filo conduttore dell’intera narrazione. Come è nato questo personaggio e a chi o cosa ti sei ispirata? VF: Il nome “Favole” si riferisce ai racconti popolari a cui mi sono ispirata sin da bambina, come ad esempio le storie reali dei fratelli Grimm, Hans Christian Andersen o Charles Perrault tra gli altri… È il nome che ho dato al mio personaggio ispirandomi a me stessa, alle mie esperienze e sentimenti. S: “Favole” è un'opera dove il lirismo dei testi si unisce a illustrazioni piene di pathos, tormento e gotiche atmosfere; le figure femminili rimangono impresse nel lettore. Come sono nate le loro storie? VF: Il filo conduttore dell’opera è il cammino di uno spirito errante verso la propria salvezza.

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Tutta la mia opera si basa su questo principio o concetto: la ricerca della luce nell’oscurità. Le storie presenti in “Favole” si riferiscono alle ombre che incontriamo durante la nostra esistenza, dalle quali impariamo sempre qualcosa e che alla fine ci rivelano la luce che speravamo di trovare. S: Il vampiro Ezequiel è, assieme alla protagonista Favole, il punto focale dell’intera storia, qual è stata la tua fonte d’ispirazione? E cosa volevi raccontare at-

traverso la loro storia? VF: Il vampiro Ezequiel rappresenta la redenzione amorosa desiderata da Favole, è il concetto più romantico di tutta la storia. È il suo amante folle, la sua speranza di vita e di morte. Ezequiel ha in sé questa dualità. S: La tua opera è apparsa in un periodo in cui non era ancora esplosa la moda nata dal fenomeno Twilight. Cosa pensi di questa nuova immagine del vampiro dalle tinte meno dark e tormentate?


VF: Beh, si tratta di un altro punto di vista. Io personalmente non ho visto questa saga, nemmeno per curiosità… quindi non posso neanche esprimere la mia opinione su di essa, forse perché l’estetica non mi ispira del tutto e nemmeno è il tipo di vampiro che io immagino. Diciamo che sono molto più vicina alle Cronache dei vampiri di Anne Rice, ai racconti gotici di tutti i tempi che possiamo trovare in Bram Stoker, Le Fanu,

Mary Shelley, Edgar Allan Poe, Bécquer, Oscar Wilde… piuttosto sono un’amante del vampiro classico o del “mostro gotico” che non perde la sua propria decadenza, la sua oscurità e il suo tormento, così come la sua intensa attrazione e la bellezza dei suoi sentimenti. S: La grande potenza espressiva della tua opera nasce dal perfetto connubio tra illustrazioni e testi, durante la prima stesura di

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“Favole” sono nate prime le illustrazioni o i testi? In che modo è nato l’intero progetto? VF: Prima di realizzare il primo volume di “Favole” avevo già a disposizione molte illustrazioni realizzate durante la mia adolescenza. Poi, considerando l’idea di raggruppare tutto il materiale in un unico volume, ho deciso di dar loro un senso, ordinare i personaggi e creare la storia che li collegasse. Ad ogni modo realizzo sempre prima le illustrazioni partendo da un’idea generale o da un filo conduttore presente nella mia mente e infine, quando ho tutte le illustrazioni di un libro, costruisco i testi. S: Quando disegni quali sono le tecniche che prediligi? VF: Fondamentalmente adopero una tecnica mista a una base di acquarelli, pastelli, matite colorate e acrilici, ma non ho una tecnica fissa con cui realizzo tutte le illustrazioni. Normalmente procedo sempre allo stesso modo, ma ci sono immagini che necessitano di altri materiali. La sperimentazione continua è qualcosa che apporta ricchezza al proprio lavoro. S: Da quali artisti trai ispirazione? VF: Da un’infinità… amo soprattutto l’opera del grande Brian Froud, ma lungo tutto l’arco della mia vita mi hanno ispirato moltissimi artisti, tra i quali vorrei segnalare John William Waterhouse, J. Everett Millais, Arthur Rackham, Edmund Dulac, Alphonse Mucha, Toulouse-Lautrec, Mark Ryden… etc. S: Nell’immaginario comune odierno (specialmente sul web) le illustrazioni di “Favole” sono diventate la


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rappresentazione per antonomasia di figure femminili gotico/dark; quali sono stati gli elementi, secondo te, che hanno decretato il successo di queste tue rappresentazioni? VF: Penso che abbia a che fare con la ricerca dello stereotipo classico del vampiro. Personalmente scavo nello spirito romantico del vampiro, nei suoi desideri, passioni e tormenti. E sembra che nelle mie illustrazioni il mio pubblico capti proprio quello che voglio rappresentare. In misura diversa tutti ci siamo identificati con questo tipo di sentimenti. Per natura l’uomo è attratto dal concetto dell’amore eterno, della perdita, della solitudine, della vita e della morte… S: Dopo la pubblicazione della prima trilogia di “Favole”, hai lavorato su altri progetti molto diversi tra loro per stile e scelte narrative, mi riferisco a “El corazón de Arlene” e “Misty Circus”. Come sono nati questi progetti? VF: Sinceramente sono nate dalla mia esigenza di creare qualcosa di nuovo. Credo che ogni artista abbia bisogno di sperimentare e di dare libero sfogo a tutte le visioni artistiche

che più lo affascinano. Per questo ho deciso di non adottare un unico stile e di provare altri registri. Tutto questo arricchisce la tua opera e ti fa anche conoscere da un altro tipo di pubblico e ciò diventa molto gratificante. In ogni caso, benché essi sembrino diversi per forma e soggetto, non lo sono nella sostanza. Tutta la mia opera ha un’essenza comune e parte da alcune premesse molto concrete. Questo è qualcosa che non perderò mai. S: Quali sono i tuoi progetti futuri? VF: Proprio adesso sto per pubblicare un nuovo libro che s’intitolerà “El lamento del océano” la cui protagonista principale sarà una sirena. Inoltre sto realizzando il terzo volume della collezione “Misty Circus” che avrà come titolo “El vampiro de las nieves”. Poi ho un altro progetto molto interessante che per adesso non posso svelare… S: Chiediamo sempre agli artisti che intervistiamo una citazione o una frase personale che condensi la propria idea di Arte. Vuole dirci la sua? VF: La mia sarà sempre un piccolo frammento estratto dal leggendario romanzo di Dracula di Bram Stoker: “Persino nell’oscurità si vedeva la luce, come quella che c’è sempre sulla neve; e sembrava che le raffiche di neve e i veli di nebbia adottassero la forma di donne con lunghi vestiti fluttuanti…” Traduzione dallo spagnolo di Adriana Beatriz Carriero


arte

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È un film? È un fumetto?

No, è un Cinecomic! di ROBERTO GERILLI

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mmaginate una serata di gala a cui partecipano tutti i generi cinematografici. C'è Lord CinemaImpegnato, che cammina impettito nel suo smoking da cerimonia, c'è Miss Commedia-Romantica che fa gli occhi dolci al muscoloso Mr. Action Movie, c'è quella cassandra di Film-Catastrofico, secondo cui la fine del mondo è sempre imminente e, in giro da qualche parte, c'è anche il signor B. Movie, un tipo volgarotto e un po' coatto che fa ridere tutti ma che nessuno ammette mai d'aver visto. Poi all'improvviso le note degli AC/DC, un gran frastuono ed ecco che nella sala irrompe… lui. Muscoli ipertrofici, divisa attillata e sorriso sardonico: il Cinecomic.

È l’eroe del 2012 (The Avengers, The Amazing Spiderman, Batman – Il Cavaliere Oscuro: Il Ritorno), ma soprattutto è il salvatore del carrozzone dorato targato Hollywood. Già, perché guardando la programmazione cinematografica sembra di assistere alla caduta di Fantàsia narrata da Micheal Ende ne La storia infinita. Il Nulla imperversa sul mondo del cinema, divora, distrugge. Dopo il suo passaggio non rimangono che pellicole insipide e sale deserte. Gli sceneggiatori sanno scrivere solo reboot o remake, i produttori pensano al franchise e agli incassi, il 3D viene usato per truffare il pubblico con promesse di spettacolarità mai realmente rispettate, il prezzo dei biglietti continua a salire.

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volo emozionanti e una regia coinvolgente firmata da Richard Donner (poi regista di altri film cult come I Goonies e la serie Arma Letale), Superman inaugurò, di fatto, il primo franchise fumettistico della storia del cinema, ma, soprattutto, inventò un genere longevo e remunerativo. La via tracciata dal film di Donner non risultò, tuttavia, subito chiara e in tutto l’arco degli anni ’80 si segnalarono numerosi flop cinematografici legati ad adattamenti di fumetti. Colpa di produzioni pressapochiste ma soprattutto colpa di budget limitati e progetti mal curati. Una serie di insuccessi fortunatamente interrotta nel 1989 da un nuovo colossal targato dal dinamico duo DC

157 elicottero sopra l’oceano e uno squalo di gommapiuma ti scambia per un'esca). Un film assurdamente trash che ben rappresenta l’idea che il cinema aveva dei supereroi: nulla più che saltimbanchi in maschera adatti a strappare qualche risata. Un esordio infausto che riuscì a essere dimenticato (almeno in parte) solo grazie all’intervento di un altro eroe di casa DC Comics: Superman. Nel 1974 la Warner Bros comprò i diritti della trasposizione e iniziò una produzione colossale che definì, di fatto, la “ricetta” dei futuri cinecomic: budget elevato, ampio utilizzo degli effetti speciali, tante scene d’azione, colonne sonore indimenticabili e un pizzico di umorismo. Il risultato fu un blockbuster leggendario che, all’epoca, divenne il maggior successo di casa Warner, piazzandosi al sesto posto nella classifica dei maggior incassi. Con il soggetto scritto da Mario Puzo (autore del romanzo Il Padrino), la presenza di Marlon Brando, scene di

Comics-Warner Bros: Batman di Tim Burton. Sfruttando la propensione dark del regista americano, produttori e sceneggiatori decisero di portare sul grande schermo una versione cupa e gotica di Gotham City, distante anni luce da quella carnevalesca del precedente adattamento. La “ricetta” cinecomic venne rispettata e, grazie soprattutto alla straordinaria interpretazione di Jake Nicholson nei panni del Joker, il film divenne un must che fece sognare un’intera generazione di ragazzini. Al film di Burton seguirono, purtroppo, altri tre film della stessa serie e un'altra lunga sequenza di flop che si trascinò fino alla fine degli anni ’90. Di questi film, che sarebbe bene dimenticare, si salvano Il Corvo (1994) divenuto celebre per la sfortunata morte durante le riprese del protagonista, Brandon Lee, e Blade (1998) che segna la discesa in campo dei Marvel Studios. L’entrata in scena della divisione cinematografica

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Un panorama apocalittico che ha bisogno di un eroe, qualcuno capace di richiamare gli spettatori, di guidarli fino alle sale, di esaltarli. “Un eroe. Non l'eroe che meritavamo ma quello di cui avevamo bisogno.” Il Cinecomic. La sua storia sul grande schermo inizia in modo tutt’altro che dignitoso. Il primo lungometraggio tratto da un fumetto è, infatti, Batman – The Movie, datato 1966. Direttamente dalla famosa serie televisiva arrivarono al cinema Adam West con pancia e tutina attillata, Robin (Burt Ward) tanto ingenuo da sfociare nell’idiozia e una serie infinita di bat-accessori che includevano il bat-spray repellente per squali (molto utile se sei appeso a un


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della famosa casa editrice è un evento fondamentale nella storia dei cinecomic. La prima conseguenza fu l’inizio di una vera e propria invasione dei supereroi Marvel, rimasti fino ad allora relegati a occasionali produzioni low-budget (ricordate solo dagli appassionati maniacali). Nel giro di otto anni (dal 2000 al 2007) vennero prodotte ben quindici pellicole tratte dai fumetti Marvel tra cui si distinguono ottimi film, come la serie degli X-Men di Bryan Singer e quella di Spiderman di Sam Raimi, ma anche colossali insuccessi come Daredevil, Hulk e Ghost Rider. In questa valanga di adattamenti il vero punto di svolta fu però il reboot di una saga dedicata a un personaggio DC Comics: Batman. Dopo il disastroso Batman & Robin di Joel Schumacher, ultimo capitolo della saga degli anni ’90, l’uomo pipistrello era diventato una sorta di paria, ma visto l’imbarazzante risultato di Catwoman, la Warner Bros aveva bisogno di un film che gli permettesse di fronteggiare il successo dei cinecomic rivali. Nacque così il progetto di Batman Begins affidato a un giovane e promettente regista, Christopher Nolan. Partendo dal soggetto di David Goyer, Nolan scrisse una sceneggiatura che si staccava nettamente sia dai precedenti film dell’uomo pipistrello che dai recenti prodotti di casa Marvel. Il regista inglese scrisse una trama dai toni cupi in cui il personaggio di Bruce Wayne/Batman era finalmente il protagonista. L’ambientazione fu privata di ogni aspetto surreale o fumettistico, e Gotham City divenne una metropoli moderna e realistica. L'abbandono dei tratti pop in favore di una visione molto più verosimile fu una delle caratteristiche principali del nuovo corso. Niente più bat-accessori ma attrezzatura militare tecnologicamente avanzata, niente più bat-mobile ma un mezzo militare corrazzato, niente più siparietti comici ma dialoghi ben costruiti che affrontano in maniera approfondita il tema della battaglia tra bene e male. Se Batman – The Movie aveva rischiato di rovinare per sempre il genere cinecomic, Batman Begins fu capace di ridargli dignità, iniziando una trilogia che ha cambiato la percezione degli spettatori e dei critici verso gli adattamenti fumettistici. I Marvel Studios accusarono il colpo ma risposero mettendo in piedi un progetto a lunga scadenza senza precedenti. Nel corso degli anni ’80 e ’90 la casa editrice americana aveva venduto i diritti dei propri personaggi a numerosi studi cinematografici. A partire dal 2004, però, i Marvel Studios iniziarono a raccogliere le varie opzioni di sfruttamento rendendo così possibile la creazione


Un confronto tanto inevitabile quanto sciocco e privo di senso. Le qualità dei due registi sono molto diverse tra loro e così non può che essere anche per i loro lavori. Molto più interessante è sottolineare quello che entrambi rappresentano per il genere “tratto da un fumetto”. Nolan e Whedon hanno il merito di aver obbligato gli spettatori e i critici a rivedere la loro posizione riguardo ai cinecomic. Il primo ha dimostrato che a partire da un fumetto si può realizzare una saga seria, complessa, drammaticamente attuale e commovente. Il secondo ha provato che anche essendo popolari, commerciali e un po’ carnevaleschi si può realizzare una pellicola che rimarrà nella storia del cinema. Insieme hanno dato dignità e credibilità all’unico genere che non soffre la crisi che sta colpendo tutto il mondo dietro al grande schermo. A sentire queste parole Lord Cinema-Impegnato si alza da tavola stizzito e urla: “ORA BASTA! Voi siete inferiori a me! Sono un dio, creatura ottusa! Non subirò angherie da parte…” A questo punto il Cinecomic lo afferra saldamente, lo sbatte una manciata di volte sul pavimento e poi lo lascia lì, in fin di vita. “Un dio gracile”, mormora andandosene sorridendo.

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di un universo cinematografico Marvel in cui ambientare tutti i futuri cinecomic basati sui propri supereroi. Questo, oltre a permettere divertenti riferimenti incrociati tra i film, ha consentito la realizzazione della cosiddetta Fase 1, culminata con The Avengers. Prendendo spunto dalla struttura tipica degli albi a fumetti, dove le storie dei singoli personaggi convergono annualmente in una serie de I Vendicatori, nel 2008 i Marvel Studios inaugurarono un progetto cinematografico complesso e rischioso. Cinque film, interconnessi tra loro tramite easter egg e scene post-titoli di coda, per lanciare una pellicola corale divenuta evento anche prima dell’uscita ufficiale: The Avengers. A differenza della trilogia su Batman creata da Nolan, il film di Joss Whedon non cerca di allontanarsi dal tono fumettistico dei suoi personaggi, ma anzi lo sviluppa e lo esalta. Il regista ha attinto alle tradizioni della Marvel e a quelle degli actionmovie hollywoodiani, creando un perfetto mix di azione, spacconeria e divertimento. Il risultato è stato una pellicola che ha esaltato il pubblico e sbancato i botteghini. L’uscita a distanza di pochi mesi di Batman: Il Cavaliere Oscuro – Il Ritorno e di The Avengers ha catalizzato l’attenzione del pubblico rinvigorendo la storica rivalità tra Marvel e DC Comics. Meglio la trilogia dell’uomo pipistrello o il film sui Vendicatori? Meglio Nolan o Whedon?


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di ROBERTO GERILLI

QUANDO IL VERO GIORNALISMO TORNA A FAR NOTIZIA

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’estate della tv americana è stata sconvolta da una nuova serie tv: The Newsroom. Ambientata nella redazione giornalistica di ACN, una fittizia televisione americana, la serie segue le vicende di un gruppo di giovani redattori stanchi dei dati d’ascolto e desiderosi di tornare a fare del vero giornalismo. Il volto di questa missione è quello di Will McAvoy , interpretato da Jeff Daniels (Speed, Scemo & Più Scemo, Debito di Sangue), anchorman del notiziario serale,

inizialmente noto per la sua riluttanza a prendere qualsiasi tipo di posizione. Dopo un’esplosione emotiva in diretta tv (strepitoso il monologo dell’episodio pilota), la sua carriera sembra a un passo dalla fine quando il direttore della rete ingaggia un nuovo produttore esecutivo: Mackenzie McHale. La donna, interpretata da Emily Mortimer (Quell’idiota di nostro fratello, Hugo Cabret), è una giornalista idealista nonché ex fidanzata di McAvoy. Superando i dissapori iniziali,


THE NEWSROOM

Oltre questo, però, The Newsroom è anche un serial di grande qualità che, attraverso le storie dei personaggi, appassiona e coinvolge lo spettatore. Tralasciando il lato civico, infatti, la trama della serie è impreziosita dal rapporto

conflittuale tra McAvoy e la McHale, innamorati e pur sentimentalmente molto lontani, e dal triangolo amoroso tra i membri della redazione Jim, Maggie e Don. Un intreccio narrativo perfettamente equilibrato tra intrattenimento e riflessione che viene supportato dalle eccezionali interpretazioni del cast che, oltre a Daniels e alla Mortimer, comprende il veterano Sam Waterston (candidato all'Oscar come miglior attore protagonista per Urla del silenzio e celebre per il ruolo del Vice procuratore Jack McCoy in Law & Order), Alison Pill (Scott Pilgrim vs. the World, Midnight in Paris, To Rome with Love), Dev Patel (The Millionaire, L'ultimo dominatore dell'aria, Marigold Hotel), Olivia Munn (Ma come fa a far tutto?, Magic Mike) e Jane Fonda, nel ruolo ricorrente di Leona Lansing, l'amministratrice delegata di Atlantis World Media, la società madre di ACN.

The Newsroom è una serie prodotta dalla HBO, emittente televisiva via cavo degli Stati Uniti che negli ultimi anni è diventata sinonimo di grande qualità. Dopo i recenti successi di Boardwalk Empire – L'impero del crimine e de Il Trono di Spade, il network americano ha conquistato ancora una volta i telespettatori americani con una serie il cui successo era tutt’altro che scontato. La prima stagione di The Newsroom è composta da dieci episodi di circa sessanta minuti che sono stati trasmessi dal 24 giugno al 26 agosto. Dopo solo due puntate la serie si è guadagnata la riconferma per una seconda stagione la cui premiere è prevista per giugno 2013. Non si hanno ancora notizie riguardo alla possibile prima tv italiana.

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la donna riesce a coinvolgere l’anchorman nella sua missione di purificazione e grazie all’aiuto di valenti giovani redattori inaugura un nuovo tipo di notiziario improntato sul giornalismo e non sullo scalpore. The Newsroom segna il ritorno sul piccolo schermo di Aaron Sorkin, talentuoso sceneggiatore americano divenuto un punto di riferimento per i suoi dialoghi serrati e brillanti. Dopo un esordio leggendario con lo script di Codice D’Onore, Sorkin è divenuto celebre come creatore del serial West Wing – Tutti gli uomini del Presidente (andato in onda dal 1999 al 2006) e come autore dei recenti successi cinematografici The Social Network (per cui ha vito l’Oscar per la sceneggiatura non originale) e The Money Ball. In The Newsroom l’autore americano dà libero sfogo al suo talento, creando una serie che fa divertire e riflettere. Grazie ai dialoghi straordinari e a dei ai personaggi estremamente realistici, Sorkin si è inventato una serie in cui il giornalismo è il vero protagonista. The Newsroom è, infatti, una critica feroce verso quei programmi sensazionalistici che troppo spesso vengono scambiati per notiziari (piaga che affligge anche i palinsesti italiani), ma soprattutto è un invito a non accontentarsi del simil-giornalismo che viene spacciato sul piccolo schermo. Prendendo spunto dagli avvenimenti reali accaduti tra il 2010 e il 2011, la serie mostra la differenza tra quello che dei professionisti avrebbero dovuto annunciare e quello che è invece stato annunciato nei network reali, in un continuo e affascinante parallelo tra finzione e realtà.

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i o r e i t n a i d a i t s a n i d a n u i d a i r o l g storia e Quando decidiamo

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a stagione autunnale televisiva è nuovamente cominciata, ricca di soprese e di liete conferme. Sons of Anarchy rappresenta una di queste. Se in Italia ancora non si hanno notizie certe sulla messa in onda della quarta stagione, tutti i fan – compresi quelli italiani – si stanno godendo le puntate americane della quinta serie, in onda dall’11 settembre, che hanno già avuto entusiastiche recensioni dalla critica. Sons of Anarchy, comunemente chiamato SoA, è una serie tv della Fx che stagione dopo stagione ha conquistato pubblico e critica. SoA si basa su due pilastri fondamentali: onore e famiglia, ma siamo ben lontani dalle famigliole felici che affrontano i piccoli e assillanti problemi quotidiani; il concetto stesso di famiglia e di problema in questa serie vengono sovvertiti, prendono forme diverse e ben più articolate. Ambientato nella cittadina da Charming (California), Sons of Anarchy, attraverso la storia e le vicissitudini di Jackson Jax Teller (Charlie Hunnam), narra le vicende di un club di motociclisti, i SamCrow. Jax, figlio del defunto John Teller, fondatore del club, è stato cresciuto dalla madre Gemma Teller (Katey Sagal) e dal patrigno Clay Marrow

di ELENA BIGONI

(Ron Perlman), attuale presidente del club. La sua vita sono i Samcrow: non ha mai messo in discussione la scelta del club di dedicarsi alla gestione di un traffico illegale di armi e all’uso dell’ intimidazione, della violenza e corruzione per mantenere il controllo sulla cittadina di Charming e le altre bande rivali. Ma la nascita prematura del figlio e il ritrovamento di un manoscritto con le riflessioni e le speranze del padre spingono Jackson a domandarsi se la direzione scelta da Clay sia la più saggia e giusta per il club. A complicare la vita e i turbamenti di Jax, l’arrivo in città della dottoressa Tara Knowles (Maggie Siff) sua ex-fiamma. Nato da un’idea di Kurt Sutter (The shields), Sons of Anarchy, grazie a un cast tecnico (i consulenti e la presenza di veri Hell’s angels) e artistico di altissimo livello, rappresenta una serie affascinante che trova il suo punto di forza nello sviluppo narrativo in grado di tenere incollato lo spettatore sin dalle prime puntate; in quattro stagioni SoA non ha mai avuto un reale calo come spesso accade ad altre serie tv di successo. Le varie stagioni sono sempre molto articolate, ma ogni singolo elemento è talmente

di vendicare le persone che amiamo, la giustizia personale si scontra con quella sociale e quella divina. Diventiamo giudici, facciamo le veci della giuria e ci improvvisiamo Dio. Da questa scelta deriva una responsabilità spaventosa. Alcuni di noi soccombono sotto il peso di quella responsabilità, altri invece ne abusano. John Thomas Teller

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Illustrazione© Dan Panosian

di vista etico e morale. Parole come onore, rispetto, giusto o sbagliato assumono declinazioni diverse rispetto al vivere comune, la legge non è quella istituita dalle autorità ma quella del club. La violenza e l’intimidazione diventano il mezzo per mantenere l’ordine e la Legge un ostacolo con cui fare i conti. Nell'universo di SoA

non esistono vittime, ma solo personaggi che compiono delle scelte, talvolta estreme, talvolta opinabili, altre volte condivisibili forse. Nemmeno le protagoniste femminili sono esenti dal meccanismo causa/effetto che anima il serial: spesso sono elementi chiave, l’ombra dietro al trono che mantiene le redini della storia. Sebbene i personaggi, e le avversità alle quali vanno incontro, possano talvolta risultare eccessivamente caricati ed esasperati, è impossibile non apprezzare la qualità della storia e della sceneggiatura che fidelizzano lo spettatore portandolo a vivere una realtà priva di filtri e veli, così diversa da quella alla quale è abituato – fatta eccezione, forse, per le notizie di cronaca nera.

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bilanciato da non lasciare mai lo spettatore deluso o perplesso. Il realismo delle vicende, complici anche le scelte registiche, musicali e fotografiche molto pulite e prive di qualunque apparente artificio tecnico, diventa la colonna portante del serial. Sons of Anarchy cavalca sicuramente l’onda di relativismo: gli eroi senza macchia non esistono più, si mostra il tormento, le difficoltà e le scelte dei protagonisti. La vita dei personaggi non è più bianca o nera ma una combinazione di entrambe. In Sons of Anarchy questo elemento diventa ancora più potente e intrigante. I suoi personaggi non potrebbero mai essere etichettati come buoni, non sono buoni e non si comportano come tali eppure lo spettatore entra in empatia con il loro modo di vivere e non può fare a meno di parteggiare per loro, sebbene le loro scelte, il modo di agire risulti spesso difficile da accettare dal punto


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IL FASCINO DELL'ECCESSO

ovvero perché amiamo di BARBARA DI MAIO

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ampiri, vampiri e ancora vampiri. Se c’è un tema che ha segnato – e segna tuttora – gli anni Duemila, quello del nonmorto è, sicuramente, il più resistente e caratterizzante. Tra cinema, letteratura e televisione, i vampiri hanno invaso le nostre vite, rinverdendo un mito che ha sempre mescolato orrore a romanticismo (Dracula docet). In questo grande calderone rientra anche True Blood. La serie televisiva di Alan Ball è stata la più attesa nella stagione 2008 e quella di punta per il lancio della nuova programmazione HBO. Racconta le avventure di Sookie Stackhouse (l’attrice Anna Paquin, premio Oscar nel 1993 per Lezioni di piano) che vive nella cittadina di Bon Temps in Louisiana. In questo contesto, i vampiri vivono tra gli umani, reclamano diritti civili, lottano per la loro emancipazione, si nutrono della bevanda “Tru Blood” – un sangue artificiale – e Soo-

kie si innamora di Bill Compton (Stephen Moyer), vampiro reduce della Guerra di Secessione prima, e di Eric (Alexander Skarsgård) poi. La storia poi si evolve con amori e tradimenti, magia e morte, fantasmi e streghe, licantropi e spiriti tribali, e ogni possibile variazione sul tema. La produzione di True Blood avviene in un momento particolare di HBO. Terminata nel 2007 I Sopranos, il network deve trovare la forza di superare la fine di quello che fino a quel momento aveva rappresentato il suo prodotto di punta per qualità stilistica e scrittura. La scelta è azzardata e ponderata allo stesso tempo. Infatti, da un lato si ricorre al genio creativo di Alan Ball che ha dato vita all’altro prodotto di eccellenza del network, Six Feet Under; dall’altro, si sceglie un tema rischioso come il fantasy a tema vampiresco che negli ultimi anni, a torto o a ragione, è stato associato al teen drama, da Buffy the


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appieno le tante sfumature della serie: immagini di afose paludi accanto ad animali in decomposizione; scene di battesimi poco ortodossi si avvicendano a interni fumosi di locali scarsamente illuminati dove si balla e si beve a ritmo di Bad Things di Jace Everett, voce che bene incarna lo spirito del profondo sud. Questa saturazione delle atmosfere, oltre a essere una scelta dovuta alla location, è anche una precisa volontà di Ball che ha più volte dichiarato di volersi allontanare dallo stile algido di tanti prodotti simili. Sempre in questa ottica l’autore abbandona anche tutto l’immaginario gotico che solitamente accompagna i vampiri: musica operistica, vestiti retrò, architettura del dodicesimo secolo. I vampiri della serie sono in tutto e per tutto assimilati agli umani, nei gusti e nelle abitudini. Eppure, nella serie i vampiri sono sempre evidenziati come tali. Non vi è mutamento di forma, in pipistrelli o altro. Non ci sono vampiri che tentano di nascondersi tra gli umani. La serie mescola continuamente amore e morte, eros e thanatos e, neanche tanto velatamente, anche una forte componente trash; contestualmente, emerge con forza tutta l’ironia di Ball, quasi che stesse giocando (provocando?) con lo spettatore. Vi è qui un eccesso della visione, una necessaria convergenza di mitologia, tradizione popolare e sub-cultura vampiresca. Tutto si fonde per mettere in scena una visione neo-barocca, ma la dialettica utilizzata dall’autore con il pubblico è fondata su un patto fiduciario nel quale quest’ultimo deve credere nel mondo creato da Ball sapendo che esso utilizzerà un linguaggio iperbolico e volutamente eccessivo. La forma narrativa rifugge dai tanti escamotage postmodernisti in atto nella tv contemporanea: non vi è esplosione narrativa, non ci sono tracce di citazionismo

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Vampire Slayer alla saga letteraria, e ora cinematografica, di Twilight. Lo spunto iniziale di True Blood deriva dai libri della scrittrice Charlaine Harris, The Southern Vampire Mysteries, e Ball mantiene quasi tutti gli elementi presenti nella saga: Sookie è una cameriera che può leggere nella mente degli altri, eccetto che in quella di Bill, motivo questo che la avvicina al bel vampiro tenebroso; l’atmosfera è, appunto, quella del sud degli Stati Uniti, location “calda” e avvolgente. Il cast è ricco e vario. È presente una forte componente omosessuale e il sesso in generale è uno dei temi principali della storia. Ball comunque inserisce il suo tocco personale andando ad ampliare la potenzialità dei personaggi secondari espandendoli nell’universo narrativo della protagonista. Una costruzione corale assicura la possibilità di sviluppare più storie anche in maniera autonoma, garantendo linfa vitale potenzialmente infinta. A una prima lettura, la cifra stilistica della serie è il forte uso della metafora: l’integrazione dei vampiri tra gli umani viene rappresentata come quella di ogni minoranza etnica: essi si battono nelle aule dei tribunali, nei luoghi deputati allo scontro politico e, più di tutto, nei media, per ottenere il giusto riconoscimento. Il sangue dei vampiri, il cosiddetto V, è una potente droga afrodisiaca e costruisce una strada a doppio senso sulla fenomenologia del nutrimento dei vampiri: se, infatti, i vampiri debbono succhiare il sangue degli umani per vivere – e la bevanda Tru Blood è solo un povero sostituto non del tutto soddisfacente –, gli umani scoprono il vantaggio di bere sangue di vampiri, che agisce come un allucinogeno e amplifica la potenza sessuale. La scelta della fotografia sfrutta pienamente le atmosfere del profondo sud con toni caldi e avvolgenti. La sigla di apertura mostra già


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come pratica fine a sé stessa, non troviamo una continua metareferenzialità a prodotti precedenti, pur se True Blood non nasce ovviamente dal nulla. Non c’è neanche un utilizzo di effetti speciali digitali in misura rilevante: l’uccisione di un vampiro si risolve con una esplosione splatter di sangue e viscere, facendo ricorso a tecniche “artigianali”. Ed è qui la forza di True Blood, questa voglia di non prendersi mai troppo sul serio, di cambiare


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continuamente le carte in tavola, di rovesciare stereotipi e luoghi comuni del genere, come fa con i tre protagonisti che si trovano invischiati nel più classico dei triangoli amorosi che, però, vive di continui scambi di ruolo. Così, i buoni non sono mai così buoni e i cattivi ci riservano sorprese. True Blood viene spesso indicato come un “guilty pleasure”, cioè un prodotto lontano dai classici canoni artistici e culturali ma che, comunque, ci piace, ci avvince, ci affascina e fa sognare. Ma non dobbiamo farci ingannare dall’apparenza così camp della serie poiché già solo la firma di Ball e il marchio HBO assicurano al prodotto una consistenza che pochi possono vantare. E se è vero che spesso la serie è schizofrenica nei suoi continui cambi di rotta e nelle storyline multiple che possono magari creare confusione, siamo di fronte a un (divertente) affresco umano (sì, umano), che veicola sotto la sua apparente semplicità tanti dilemmi esistenziali. Non a caso, proprio il precedente lavoro di Ball, Six Feet Under, faceva della vicinanza con la morte un mezzo per esplorare i vivi, così come i vampiri diventa specchio della razza umana. Così si vuole di più da una serie di mezza estate?


SIX FEET UNDER e la sepoltura della morte sei piedi sottoterra 168

di ELISA EMILIANI

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ix Feet Under è una serie tv della HBO girata da Alan Ball. Pur essendo pensata per un pubblico di massa si dimostra essere un testo in controtendenza in quanto tratta degli argomenti che oggi sembrano essere diventati tabù, come la morte e il cordoglio. Il titolo si riferisce alla profondità a cui vengono sepolti i cadaveri così come, secondo l’interpretazione di Shoshana e Teman1, all’attitudine moderna nei confronti del trapasso, per cui la società seppellisce la morte “sei piedi sottoterra”. Le vicende narrate ruotano attorno alla famiglia Fisher, che gestisce una Funeral Home nell’assolata California. La storia prende avvio alla morte di Nathaniel Fisher, padre di David (che con lui gestiva l’attività di famiglia), di Nate (che da tempo vive altrove) e di Claire (un’adolescente ribelle). La famiglia, riunita per il giorno di Natale, si trova ad affrontare il lutto avviando una serie di trame che coinvolgono anche Ruth (la vedova) e Brenda (la ragazza di Nate), oltre a una serie di personaggi minori. Oltre le peculiari reazioni dei personaggi, che propongono da molte differenti angolazioni una serie di spunti di riflessione, sono caratteristiche della serie una sceneggiatura e una regia che privilegiano agli aspetti tipici del dramma o della commedia familiare quelli di un indefinito amalgama di generi la cui risultante è un’atmosfera surreale, che sfumata di humor nero sconfina nel grottesco.

“Tipi vitali” e “Tipi mortuari” sono due categorie che si applicano perfettamente ai personaggi di Six Feet Under (nonché agli esseri umani in generale). Nell’articolo Coming Out of the Coffin, Shoshana e Teman propongono la tesi secondo cui la rappresentazione simbolica di vita e morte occupa una posizione centrale nella logica dei personaggi, che interpretano le loro stesse realtà in termini di vita e morte. I protagonisti, infatti, percepiscono se stessi e gli altri in termini di life-types e death-types. Il lavoro identitario dei personaggi consiste allora nel tentativo di associarsi a persone e luoghi che ritengono appartenere alla categoria del “vitale” e distanziarsi invece da ciò che considerano “mortuario”. I personaggi di Six Feet Under sembrano essere costruiti per rappresentare i due opposti tipi identitari, il life-self e il death-self. In particolare, Nate e Claire rappresentano il life-self e sono liberi e passionali; non seguono i dettami della società quanto piuttosto un loro proprio percorso basato sulla curiosità, lo spirito d’avventura e l’apertura alla sperimentazione. Non temono di vivere e divertirsi, esprimere le emozioni


renti ma sempre indirizzata all’utilità di chi è in lutto. Six Feet Under propone una morale dettata dalla compassione (da intendere come un patire-con) e dalla consapevolezza, in ultima analisi, che la morte più che ogni altra cosa riguarda tutti. La suddivisione dei personaggi in Life types e Death types non deve essere troppo rigida. La tesi fondante dell’articolo di Shoshana e Teman si può riassumere così: non esiste una relazione dicotomica tra i tipi identitari, quanto piuttosto un movimento costante tra l’uno e l’altro. La società americana propone un percorso unilaterale di crescita personale (dalla distruzione al rinnovamento, dalla repressione alla libertà, dal death-self al life-self) e i personaggi tentano proprio una trasformazione unilaterale verso il raggiungimento o il mantenimento del life-self, andando però incontro a un fallimento che porta in primo piano un concetto sovversivo delle promesse della società moderna: non c’è un percorso unilaterale e l’identità non è sinonimo di stabilità. Se il solo modo di vivere un’esistenza significativa fosse quello di abbracciare il life-self, allora bisognerebbe aspettarsi che David si trasformasse in una persona estroversa dopo aver dichiarato la propria omosessualità, e che Ruth divenisse una persona felice e comunicativa. Anche per questo motivo Six Feet Under propone un messaggio forte che va in controten-

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apertamente, sperimentare l’intimità e dire ciò che pensano. Ruth e David invece rappresentano il death-self e sono personaggi freddi, sessualmente repressi e ansiosi. Si avvicinano al “tipo-Vittoriano” in termini di standard morali, per cui valorizzano il sacrificio e la modestia, la devozione e talvolta l’ipocrisia2. Non sono mai completamente a proprio agio ma ansiosi e spaventati, soffocati e nascosti. Questi personaggi giocano secondo le regole svolgendo i loro ruoli sociali di moglie laboriosa e figlio obbediente. Frequentano regolarmente la chiesa, utilizzano un linguaggio decoroso e vestono uno stile conservatore e castigato. Entrambi si rendono conto che il loro atteggiamento è dettato dall’inibizione e capiscono che la chiesa è un luogo soffocante che li vede come peccatori (adultera lei e omosessuale lui), ma non smettono di frequentarla. Sacrificano costantemente i propri sogni per il bene della famiglia. Al di là delle loro differenze, però, alla base dei comportamenti di tutti i personaggi c'è una morale disinteressata, sviluppata in forme diffe-

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denza nell'economia della produzione culturale attuale. Shoshana e Teman sostengono che un concetto centrale della sociologia della morte sia la sepoltura della morte stessa, in quanto la morte mina la logica della modernità che celebra il controllo, il progresso e la guarigione. Se la società indica come unica via di crescita un percorso lineare, Six Feet Under mostra invece come sia perfettamente naturale l'oscillazione tra le due categorie di vita e morte. Affrontando in modo estremamente esplicito il dolore del lutto, un tema che nella società è diventato un tabù tanto da essere “sepolto”, Six Feet Under ci dice che tutti dobbiamo morire. I personaggi adattano il proprio agire in funzione di questa consapevolezza. In questo modo Six Feet Under si caratterizza da un lato come memento mori,


note

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1 in Coming Out of the Coffin: Life-Self and Death-Self in Six Feet Under (Symbolic Interaction Vol. 29, Issue 4, pp. 557–558) 2 E. Illouz, Oprah Winfrey and the Glamour of Misery: An Essay on Popular Culture (Columbia University Press, NewYork, 2003)

cinema & serie tv

dall'altro ci mostra come i suoi personaggi si rapportano alla morte. L’essere umano per natura cerca di scoprire il come. Nei confronti dell’azione quotidiana, di quella razionale e di quella morale ha bisogno di sapere come fare. Gli individui della società odierna non sanno più fare le condoglianze perché nessuno insegna loro come. Non sanno più come piangere su una tomba perché probabilmente non l’hanno mai visto fare. Non sanno come sbarazzarsi di quella sensazione che ci sia qualcosa di non fatto, non compiuto. Six Feet Under fa un tentativo per mostrarci come, discostandosi così dalla tendenza generale a rimanere in silenzio di fronte alla morte, ponendosi in controtendenza rispetto alla società delle comunicazioni che tende a “seppellire” la morte come fatto reale.


172 di CARLO LANNA

caccia alla spia

Q

uando si tratta di consigliare una serie tv, l’impresa a volte è davvero ardua. Non tutti hanno i miei stessi gusti, e quindi lo spassionato consiglio, potrebbe risultare vano. Se si tratta però di presentare una serie come Homeland, tutti dovrebbero guardarla con un occhio diverso, e dare una chance a questo gioiello della serialità americana. Lo show è ancora giovane, ha alle spalle solo un anno di programmazione e appena 12 episodi, eppure dopo aver visto il pilot non si può far altro che divorare in men che non dica il resto degli episodi. Grazie ad una vicenda intrigante e sul filo del rasoio, Homeland si candida per essere la serie tv che tutti gli “addicted di telefilm” dovrebbero vedere. Trasmessa dal settembre del 2011 sulla rete Showtime, Homeland è arrivata qui in Italia sulle frequenze di Sky. Anche se la serie è ispirata a

un format brasiliano dal titolo Hatufim, i produttori sono riusciti a distanziarsi nettamente dal prodotto originale, dando vita ad una vicenda molto attuale condita con doppi giochi, rovesci di fortuna e una buona dose di pathos. Tutto ha inizio quando il marine Nicholas Brody, scomparso per 8 anni dal suolo americano, viene ritrovato vivo e vegeto in una prigione in Iraq. Ritornato in patria come un eroe di guerra, l’agente speciale Carrie Mathison comincia ad avere qualche sospetto nei confronti del marine. Lei, infatti, è l’unica a pensare che Nick Brody possa essere una minaccia per gli Stati Uniti. Cercando di trovare una prova plausibile per incastrare il marine, Carrie mette sotto sorveglianza l’abitazione di Brody contro la volontà del suo mentore Saul Berenson. A quanto pare, però, l’ex prigioniero non ha nulla da nascondere e


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Però non solo la vicenda e le atmosfere degne di uno spy-drama con tinte old fashion hanno reso così interessante questa nuova serie tv. I personaggi sono il piatto forte. Se non fosse stato per la loro caratterizzazione così inusuale, forse Homeland non avrebbe avuto tanto successo. Prima fra tutti c’è Carrie. L’attrice Claire Danes dà un volto molto particolare alla protagonista indiscussa della vicenda. Energica, impulsiva e a tratti quasi logorroica, Carrie è un personaggio inconsueto per una serie tv. I suoi modi di fare così ossessivi e assillanti la trasformano da eroina in un personaggio anticonvenzionale e decisamente poco ammaliatore. Nicholas Brody che ha il volto del brillante Damien Lewis già visto in tv nella serie Life, qui è il classico cattivo per antonomasia. Bello e affascinante, con quei modi di fare così seducenti, diventa un villan atipico. Benché sedotto dal lato oscuro della forza, Brody si tiene ben stretti i suoi ideali, e tutto questo lo portano ad essere titubante verso lo scopo finale del suo ritorno. Punto fermo è anche la carismatica Jessica, moglie di Brody. Morena Baccarin dopo i fasti di V, dà un volto impacciato e sensuale alla classica casalinga disperata d’America. Per finire non può essere omesso Saul Berenson; l’attore Mandy Patinkin dopo aver lasciato il cast di Criminal Minds, dà un volto tormentato al mentore di Carrie. Cosa potrei aggiungere in conclusione? Nient’altro che: Buona visione.

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sembrerebbe un cittadino modello e un soldato fedele alla sua nazione. Carrie continua a essere divorata dal sospetto, fino a quando dopo un torbido gioco fatto di sesso, bugie e videotape scoprirà una sconcertante verità... Una vicenda quindi che arriva al cuore del pubblico fin da subito. Grazie alla miscela ben congeniata di spy-drama e romance, Homeland porta ad un livello superiore la serialità d’oltre oceano. Intensa, politicamente scorretta e appassionante, Homeland trasporta lo spettatore in un mondo fatto di inganni e torbide cospirazioni, con uno sguardo rivolto alla società odierna. Il punto di forza della serie tv, infatti, risiede proprio in questa ultima caratteristica. Prendendo spunto dai fatti di “cronaca terroristica”, i produttori hanno dato vita a una vicenda più vicina alla realtà che alla finzione. Ogni personaggio segnato da quanto accaduto quel fatidico 11 settembre, mette anima e corpo in questa indagine, pur di evitare che l’intero paese finisca nel panico. Tutto questo trasparisce dai modi di fare di Carrie e del poliedrico Saul. Quello che i due personaggi non sanno è che il ritorno di Brody al mondo civilizzato non è dovuto per uno scopo malvagio, anzi tutti gli avvenimenti sono legati ad un sentimento di pura e semplice vendetta. Dopo l’episodio 9, infatti, anche se cala un po’ la tensione pian piano riusciamo a ricongiungere i tasselli dell’intricato puzzle, mentre dentro di noi serpeggia il dubbio: Nick Brody è veramente il nemico della situazione?


La fine di un'epoca, la morte degli ideali:

Parade's End U

n matrimonio in crisi, una giovane suffragetta, un’antica magione nel cuore dell’Inghilterra, il massacro della Prima Guerra mondiale, la fine dell’era edoardiana e delle illusioni legate al positivismo. Sono questi i punti salienti del nuovo drama della BBC, Parade’s end. Tratto dal romanzo in quattro parti di Ford Madox Ford, Parade’s end è la serie più importante della season autunnale inglese, un’opera raffinata che emoziona e coinvolge lo spettatore. Girata tra la Gran Bretagna, la Francia e il Belgio, la serie vede come protagonisti Benedict Cumberbatch nella parte di Christopher, Rebecca Hall nel difficile ruolo di Sylvia e Adelaide Clemens in quello di Valentine. Tutto il cast, in cui compaiono anche Rupert Everett e Miranda Richardson, è di altissimo livello. L’adattamento per il piccolo schermo è firmato da Sir Tom Stoppard e alla regia vi è Suzanne White. La serie è stata designata dalla critica quale antagonista di Downton Abbey, altro esempio di ottima televisione made in Britain e, a buon diritto, può ambire a scalzarla dal trono di serie storica più apprezzata da critica e pubblico. Parade's end ha una potenza visiva ed emotiva straordinaria: è sontuosa, passionale, talvolta malinconica e struggente, e insieme ironica. Riesce a trasmettere attraverso una regia sapiente l’emozione dei grandi cambiamenti sociali e personali affrontati dai protagonisti. Come di consueto, i drama della BBC sono caratterizzati dalla cura per i dettagli e fedeltà storica; nel caso di Parade’s end, l’apporto economico della HBO ha garantito la realizzazione di un prodotto di altissimo livello anche per gli aspetti tecnici. Tutto, dalla fotografia e le luci, dalle location

di STEFANIA AUCI

(più di cento) ai costumi, è stato curato nei dettagli: così come l’Inghilterra edoardiana è descritta nello splendore e nei fasti del crepuscolo, la rappresentazione delle trincee ricostruite in Belgio dà la misura concreta dell’orrore della Prima Guerra mondiale. La prospettiva offerta allo spettatore è disincantata, priva di sentimentalismi o di giudizi morali, proprio come accade nell’opera dell’autore inglese. La sottile critica sociale, il cinismo, l’ironia che impregnano lo stile di Madox Ford sono stati valorizzati da una sceneggiatura che risolve in maniera brillante i frequenti cambi di scenario presenti nel romanzo e che delinea in maniera efficace la dolorosa evoluzione psicologica dei personaggi che vedono crollare certezze, sicurezza economica e valori ritenuti immutabili. L’adattamento di Stoppard è stato magistrale: la fedeltà all’opera di Ford rasenta l’intransigenza. I dialoghi taglienti, lo sviluppo dei character e le soluzioni escogitate per gestire la difficile scansione temporale data da Madox Ford all’opera rendono questo sceneggiato un autentico gioiello.

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175 cinema & serie tv


IL LIBRO

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Parade’s end descrive un mondo alla fine dell’esistenza tramite la vicenda di un uomo e della perdita delle sue illusioni. Attraverso lunghe digressioni, il lettore ricostruisce la vicenda come un puzzle, fino alla morte violenta dell’Inghilterra edoardiana per mano della Grande Guerra. La psicologia dei personaggi è raffinata e dolorosamente realistica: il protagonista, Christopher Titjens, si definisce l’ultimo dei Tories. Funzionario del Governo intriso di Britishness e saldi principi, è sposato con Sylvia, una donna turbolenta che lo tradisce in continuazione. D’altro canto, Sylvia non sopporta la sua affidabilità, che rasenta la noia. Ultimo vertice del triangolo è la suffragetta Valentine. Con lei Christopher istaura un legame basato su una forte affinità psicologica che l’uomo teme e insieme anela. Ma la Prima Guerra mondiale è alle porte e disintegra gli equilibri tra i personaggi. L’uomo si arruola per difendere l’Inghilterra, ma viene ferito gravemente. Al ritorno in patria, scopre che ciò in cui credeva è stato spazzato via; perde la magione di famiglia e il lavoro, è separato da Valentine. Caratterizzato da uno stile forbito, intriso di uno humour sottile, il romanzo di Ford – mai tradotto in Italia – è un’opera particolare e affascinante che ricorda i lunghi flussi di pensiero di Joyce e la complessità di Henry James. La narrazione non segue un percorso lineare e la lettura richiede concentrazione, ma è uno sforzo che viene ripagato.

Parad


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de's End cinema & serie tv


178 Quando decidi di dar vita a un’idea devi veramente ripulire l’anima per poter sentire profondamente qualcosa dentro, come fosse tuo e poterlo esprimere.

di ALEXIA BIANCHINI

Tim

Burton,

macabro e malinconico menestrello

T

imoty William Barton nasce a Burbank il 25 Agosto del 1958. Figlio di un impiegato e di una commessa, si appassiona a cartoni animati e film horror già da bambino. Spesso rimane chiuso fra le mura domestiche, dimostrando fin da subito la sua poca predisposizione alla socializzazione. Il primo approccio al mondo dell’arte avviene grazie alla passione per il disegno, con

cui vince un concorso indetto nella sua città da una ditta di smaltimento rifiuti. La capacità e l’estro di questo personaggio d’eccezione viene esaltata attraverso scenari inimmaginabili, dove personaggi astrusi, fuori dagli schemi, rapiscono l’attenzione, scatenando emozioni contrastanti. Non puoi mai sapere se il mostro sarà vittima o carnefice.


“Grazie al cinema posso esplorare rapporti complessi di cui mi sarebbe difficile parlare con chiunque. Il cinema è catartico. La sua forza sta nell’analizzare i sogni offrendo a ciascun spettatore aspetti inusuali, in cui riconoscersi. Mi piace l’assurdità del cinema.”

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Burton esprime il concetto semplice che il cinema può essere vissuto come una sorta di terapia, una specie di sostegno di gruppo in cui poter dare libero sfogo alle molte personalità che sussistono in un unico individuo. “In un certo senso per me raccontare una storia è sempre una sorta di viaggio spirituale, dove però rimani te stesso, cresci, impari qualcosa, passi al livello successivo. È questo quello che conta per me, e lo applico al cinema e nella vita personale.” In queste parole dimostra il suo rispetto per l’anima e la sua capacità di rinascere, evolvere, ampliando i sensi, raggiungendo ogni spirito inquieto. Non è solo un regista dietro la macchina da presa,

Burton vive di emozioni e in ogni sua creazione lascia il segno. L’inizio di una carriera strepitosa. Già negli anni del liceo inizia a girare cortometraggi con la sua Super8, vincendo una borsa di studio per frequentare il corso di animazione alla California Institute of the Arts. Firma con la Disney alla sola età di 21 anni, alcuni cortometraggi. È il disegnatore di Red e Toby nemici amici nel 1981 e della pellicola Tron nel 1982. Nello stesso anno è il regista di Luau e della versione televisiva di Hansel and Gretel. Nel 1985 conclude la sua esperienza alla Disney, coronando la possibilità di lavorare a progetti personali,

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La velocità con cui si viene catapultati nell’immaginario è vincolata a un senso della morale e del riscatto capaci di lasciarti frastornato e sazio allo stesso tempo. Le atmosfere dark, legate a quel meraviglioso senso del romanticismo, rendono cupe e mistiche le storie di questo grande artista, in grado di spingere sull’acceleratore della follia del male, quando l’intento è di sottolineare la malvagità dell’umanità. Veste i panni di paladino del mondo fantastico e delle diversità, gioca con astuzia per mandare un messaggio intrinseco a chi viene rapito dai suoi lavori. Le favole e le poesie, da cui spesso prende spunto, sono fonte d’ispirazione, ma si avverte, per chi conosce il genere, che le atmosfere gotiche derivano dalla sua passione per Edgar Allan Poe. Il suo estro non si esprime solo dietro la macchina da ripresa, come produttore o nel disegno. Compone ballate e liriche al rintocco del suo stile inimitabile che poi illustra con il suo tratto. Durante il completamento di Beetlejuice, sposa la pittrice Lena Gieseke. La successiva storia d’amore dura ben dieci anni, con Lisa Marie. Ora il suo legame è con la bravissima attrice Helena Bonham Carter, conosciuta al mondo intero come Bellatrix Lestrange nel film di Harry Potter.


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più consoni al suo modo di vedere il cinema. Mette in pratica la stop-motion (chiamata anche ripresa a passo uno) proprio sui famosi sei minuti in bianco e nero sul suo mito d’infanzia, Vincent, la storia di un bambino che sogna di essere Vincent Price. Frankenweenie (letteralmente l’unione della parola Frankenstein con weenie, che vuol dire sfigato) è un film corto prodotto dalla Disney, di cui a breve vedremo un nuovo adattamento in stop motion e 3D, a cui Burton ci tiene particolarmente, avendolo arricchito con dinamiche sociali dell’universo infantile. Nel 1985 il film Pee-Wee’s Big Adventure ottiene un enorme successo facendo di-

ventare Burton popolare. È nel 1988 che dimostra quanto la sua vena artistica sia fuori dall’ordinario e in grado di evolvere in una produzione che non avrà eguali. Nasce Beetlejuice, spiritello porcello, ghost-story interpretata da un cast d’eccezione, dove l’horror si miscela alla satira, dando vita a un film grottesco sorprendente. Nel 1989 esce Batman, ulteriore primato d’incassi. Burton riesce a trasporre sul grande schermo il celebre fumetto, facendo accorrere milioni di fan nelle sale. Nello stesso anno fonda la “Tim Burton Production”. Da Edward mani di forbice, dove inizia la sua collaborazione con l’attore Johnny Depp, ai


sequel di Batman, è sempre un successo, alternando produzioni in stop-motion come Nightmare Before Christmas e la Sposa Cadavere. Film irriverenti quali Mars Attacks!, parodia senza eguali sulle invasioni aliene, riempiono le sale. Johnny Depp, considerato il suo feticcio per eccellenza, interpreta diversi ruoli, da Ed Wood al film oscuro Il mistero di Sleepy Hollow. Lo rivediamo nei panni del cioccolataio in La fabbrica di cioccolato, come cappellaio matto in Alice in Wonderland e nel ruolo del terribile barbiere in Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street. Nel 2001 dirige il remake de Il pianeta delle scimmie. Film stroncato dalla critica, non piacque agli appassionati della prima versione sebbene il finale sia più fedele al romanzo. Nel 2003 esce Big Fish – Le

storie di una vita incredibile, tratto dal romanzo di Daniel Fallace, una favola magica intrisa del suo stile unico, dove il protagonista vive in bilico fra realtà e fantasia. Nel 2007 Tim Burton si aggiudica il Leone d’Oro alla carriera alla Mostra del cinema di Venezia. Instancabile, oltre all’arrivo di Frankenweenie, con cui porterà lo stile classico a un nuovo livello, ha da poco riscosso successo con il film Dark Shadows, un ritorno al gotico sorprendente, con attori capaci che hanno dato spessore a una storia macabra a tratti grottesca. Instancabile Menestrello. Irriverente, sorprendente, plasma le sue visioni rendendole squisite per ogni palato, difficile non lasciarsi travolgere dalle emozioni.

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Miyazaki cantastorie

per i piccoli, sensei per i grandi di VALENTINA COLUCCELLI

D

opo l’Orso d’Oro e l’Oscar per Sen to Chihiro no Kamikakushi (La città incantata, 2001), la nomination all’Oscar per Hauru no ugoku shiro (Il castello errante di Howl, 2004) e il Leone d’Oro alla carriera nel 2005, il mondo occidentale ha spalancato gli occhi meravigliati sull’incredibile – per quantità, ma soprattutto per qualità – produzione di Hayao Miyazaki, poliedrico cineasta

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nipponico (regista, sceneggiatore, animatore e produttore) e insieme mangaka. Come cercatori che hanno appena scoperto una pepita d’oro di dimensioni impensate prima, questi nuovi estimatori hanno esplorato e setacciato l’intera vena aurifera miyazakiana, speranzosi di scovare altrettanti tesori, e trovando quelli stessi che gli amanti dell’animazione giapponese già


pluralità sfoggia storie delicate apparentemente per i più piccoli (come Il mio vicino Totoro e Ponyo sulla scogliera), altre impegnative destinate a un pubblico adulto (Nausicaä della Valle del Vento, Mononoke Hime, Porco Rosso, Laputa. Castello nel cielo) e altre che potremmo definire di emancipazione (La città incantata, Kiki’s delivery service, Il castello errante di Howl); realtà steampunk, post-apocalittiche, distopiche, fiabesche, storiche, alternative, quotidiane; paesaggi naturali rappresentati nella loro maestosità e ambienti antropizzati descritti nei dettagli, umani come alienanti; una schiera di personaggi indelebili, credibili, assolutamente tridimensionali; una sfilata di creature fantastiche originali, nate dall’immaginazione dell’autore, o rielaborate dalla tradizione shintoista o favolistica giapponese, o di natura meccanica e robotica: i kami della foresta e dei fiumi, i Totoro, i Makkuro-kurosuke, lo Shishigami, il Nekobasu, i Kodama, i robotguardiani di Laputa e decine di altri. La lucida visione del mondo e dell’uomo di Miyazaki e la sua capacità di darle forma attraverso le sue opere sono tali da renderlo un ottimo “rilettore”, profondo, acuto,

autonomo, quando si tratta di riprodurre – nel suo caso, reinventare e reimprontare – storie scritte da altri. Chiunque legga The incredibile tide di Alexander Key, Howl’s moving castle di Diana Wynne Jones o Kiri no Muko no Fushigina Machi di Sachiko Kashiwaba – che hanno ispirato rispettivamente Conan, il ragazzo del futuro, Il castello errante di Howl e La città incantata – può rilevare come, nonostante si tratti di validissimi e originali libri, abbiano acquisito nella

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conoscevano (e veneravano) da anni, custodendone gelosamente le copie in lingua originale (solo in rari casi fortunati accessoriate da sottotitoli in inglese). Eppure, quanti tra i neofiti avevano già fatto esperienza del talento di Miyazaki senza saperlo, cresciuti facendo merenda davanti a capolavori meisaku (serie anime ispirate alla letteratura per ragazzi occidentale) di cui lui ha curato progetto e animazione, come Alps no shōjo Heidi (da Heidi di Johanna L. Spyri), Akage no Anne (Anna dai capelli rossi, dal romanzo di Lucy Maud Montgomery), Haha o Tazunete Sanzenri (Marco, dal racconto Dagli Appennini alle Ande in Cuore di De Amicis), o quello che già nel 1978 contiene la summa in nuce di tutti gli argomenti cari al regista e del suo stile, Mirai shonen Conan (Conan, il ragazzo del futuro, tratto da The incredibile tide di Alexander Key), che ha regia, sceneggiatura e storyboard firmate da lui. La filmografia miyazakiana è immensa e quindi difficilmente esplorabile in un semplice articolo; è sufficiente dare una sbirciata alla lunga lista delle opere prodotte dallo Studio Ghibli, da lui fondato e diretto col compagno di sempre Isao Takahata, per scoprire che in ognuna (o quasi) ha avuto un ruolo determinante. Anche limitando l’indagine ai soli lungometraggi di cui è stato regista, ci si trova davanti a ben dieci piccoli inestimabili gioielli, talmente ricchi, stratificati, diversi tra loro eppure simili nello stile, nella poetica, nei contenuti più profondi, da meritare ciascuno un libro di approfondimento a sé. Questa straordinaria


loro forma animata solidità, poesia, magia, profondità. Ma ancor più, il regista esprime la sua incisiva e penetrante poetica e la sua cifra spirituale (intesa in senso strettamente laico) nelle opere originali nate interamente dalla sua creatività; in particolare, nel post-apocalittico e quasi mistico Kaze no tani no Naushika (Nausicaa della Valle del Vento), nell’intenso e dal carattere

fortemente ecologista Tenkū no Shiro Laputa (Laputa. Castello nel cielo) e, infine e soprattutto, in quello che forse può considerarsi il manifesto della concezione miyazakiana – forse perché realizzato con la convinzione sarebbe stato l’ultimo dal regista – e l’apice della sua creazione: Mononoke Hime (La principessa Mononoke). Prendendo come modello di riferimento questo

meraviglioso e complesso film, è possibile tracciare le tappe di uno dei percorsi diegetici maggiormente frequentati dal regista, riscontrabile – anche se in forme e peso differenti – in tutte le sue opere. Il tema portante di Mononoke Hime è il baratro che l’uomo con la sua ambizione e il suo desiderio di emancipazione ha

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venerazione o rispetto, ma solo un vago ed egoistico timore. Particolare interessante è che solo gli esemplari più antichi, sia degli Inugami (dei cane) sia degli Inoshishigami (dei cinghiale), hanno la capacità di parlare la lingua degli umani e grosse dimensioni (per contenere grandi spiriti): lo strappo tra Natura e Umanità è tale che sono andate perdute le possibilità di comunicazione e sono stati demitizzati gli agenti del Sacro; come dice Okkotonushi, il signore dei cinghiali, essi diventano “sempre più piccoli e stupidi”. Eppure, in quest’ottica che appare dichiaratamente ecologistica, Miyazaki non demonizza

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completamente l’atteggiamento dell’uomo: gli uomini della Città di Ferro, così come la loro padrona Lady Eboshi, sono parzialmente giustificati e più volte il regista pone l’accento sull’animo caritatevole di uno, generoso di un altro, collaborativo e volenteroso di tutti. Questo perché la visione etica miyazakiana rifugge ogni tipo di manicheismo: ogni scelta ha alle spalle una sua motivazione, che non è totalmente giusta o totalmente sbagliata, così come ogni personaggio buono non è privo di difetti e debolezze e ogni personaggio cattivo non lo è tout court (cioè ha le sue ragioni, spesso valide) e soprattutto non è destinato a

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creato tra se stesso e la Natura, allontanandosi così dalla dimensione sacrale della sua essenza e dalla condizione armoniosa della sua esistenza sulla Terra e declassando la Natura da divinità (si rammenti che la religione tradizionale del Giappone, lo Shinto, è una raffinata forma di animismo panteistico) a fonte di risorse da sfruttare. Ambientata nell’epoca Muromachi (1336-1573), la storia racconta i primi strappi che questo cammino verso l’autonomia e la laicizzazione ha provocato: gli uomini, rappresentati dalla Città del Ferro Tarabata, sono in guerra con i kami della foresta, verso i quali non provano più


I LUNGOMETRAGGI 1979 – Rupan Sansei. Kariosutoro no Shiro (Lupin III. Il castello di Cagliostro) 1984 – Kaze no Tani no Naushika (Nausicaa della Valle del Vento) 1986 – Tenkū no Shiro Laputa (Laputa. Castello nel cielo) 1988 – Tonari no Totoro (Il mio vicino Totoro) 1989 – Majo no Takkyubin(Kiki consegne a domicilio) 1992 – Kurenai no Buta (Porco rosso) 1997 – Mononoke Hime (Principessa Mononoke) 2001 – Sen to Chihiro no Kamikakushi (La città incantata) 2004 – Hauru no Ugoku Shiro (Il castello errante di Howl) 2008 – Gake no Ue no Ponyo (Ponyo sulla scogliera)

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comunicazione, dalla mediazione e dalla comprensione. Non a caso sono proprio la protagonista San e Ashitaka (nelle opere di Miyazaki le protagoniste sono tutte femminili, mentre i loro compagni sono relegati al ruolo di deuteragonisti), che per motivi differenti appartengono a entrambi i mondi – quello dei kami e quello umano – eppure a nessuno dei due, a compiere la missione di mediazione, a guardare i contendenti e gli eventi “con occhi non velati dall’odio”, e ad assistere alla reciproca distruzione delle parti, così come alla loro rinascita. Infatti, dopo la distruzione della Città di Ferro, Lady Eboshi promette ai suoi uomini superstiti che insieme ricostruiranno un buon villaggio; e nondimeno l’ultima parola spetta alla Natura, che sul terreno devastato, dove un tempo lussureggiava la foresta dello Shishigami, inizia subito a riconquistare i suoi spazi con nuovi germogli e mantenere viva, a dispetto dell’uomo,

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la sua sacralità: compare infatti inaspettato un piccolo kodama (i minuti spiriti degli alberi). La guerra, dunque, non è stata vinta e non è stata persa. E non potrà che riprendere a breve. Rispetto per la Natura, Sacralità della Vita, antimilitarismo, comprensione della diversità, importanza della comunicazione, un’etica delle ragioni che non cristallizza azioni e cuori in rigide categorie. Tutto questo – e si tratta comunque solo di una selezione parziale e assolutamente ridotta dei temi, dei contenuti e degli intenti dell’opera miyazakiana – espresso in capolavori dell’animazione, che accostano a questa complessa profondità un’affascinante qualità estetica e tecnica e una fruibilità universale, grazie sia alla forma animata, sia alla narrazione sapientemente pedagogica del regista. Converrà allora concludere affermando che Miyazaki, con la grandezza delle sue opere, ha saputo abbattere i muri di genere (quelli che confinavano l’animazione in una sorta di serie B della cinematografia), di cultura (quelli che rendevano i prodotti orientali pregiudizievolmente di difficile godibilità per gli occidentali), e di target (quelli che limitavano l’animazione ai bambini); tutti quelli, insomma, che avevano impedito per anni che i suoi lavori arrivassero dignitosamente in Occidente e che lui venisse riconosciuto per il regista che è: uno dei migliori da che il cinema ha mosso i primi passi.

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esserlo per sempre. Non c’è, dunque, alcuna vittoria auspicabile del Bene sul Male, nessun dualismo superabile, ma piuttosto una continua e viva dialettica la cui unica soluzione è rappresentata dalla


Il mondo di e l'animazione che arriva da ovest di PIA FERRARA

V

i diamo un piccolo indizio: la serie animata di cui stiamo per parlare contiene un alto tasso di arti marziali, è diretta principalmente ai ragazzi ma non proviene dal Giappone. Avete capito bene: perché Avatar – L’ultimo dominatore dell’aria è una serie animata statunitense andata in onda su Nickelodeon (in Italia su Rai Gulp) e progettata da due giovani di nome Bryan Konietzko e Michael Dante DiMartino. Cresciuti a pane e immaginazione, Bryan e Michael hanno costruito un mondo modellato sull’immaginario collettivo orientaleggiante, il mondo di Avatar, nel quale alcuni individui si differenziano dagli altri per la facoltà di dominare uno dei quattro elementi. La geografia politica si suddivide di conseguenza in: le Tribù dell’Acqua (una del Nord e una del Sud), il Paese della Terra e la Nazione del Fuoco, a seconda della tipologia di dominazione prevalente. Un tempo, prima che iniziasse la storia narrata in Avatar – L’ultimo dominatore dell’aria, esistevano i Monasteri dei Nomadi dell’Aria, ma furono tutti distrutti dal sovrano della Nazione del Fuoco che approfittò del passaggio di una cometa per incrementare a dismisura i poteri dei fire bender e conquistare il Paese della Terra. La distruzione dei Nomadi dell’Aria faceva parte di un piano ben preciso. Tra di essi c’era un ragazzino di nome Aang, l’Avatar: un dominatore in grado di controllare tutti e quattro gli elementi; da questo potere derivava il compito di mantenere in armonia il

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mondo di Avatar. Aang aveva solamente dodici anni quando il sovrano della Nazione del Fuoco riuscì ad attuare il suo disegno di conquista totale e non fu in grado di fermarlo: il ragazzino, infatti, era fuggito dal monastero in cui viveva proprio alcuni giorni prima che esso venisse distrutto, sopraffatto dalle responsabilità che il ruolo di Avatar comportava. Questo non è che l’antefatto di Avatar – L’ultimo dominatore dell’aria: sono trascorsi già cento anni quando Aang, che aveva dormito per un secolo in un blocco di ghiaccio congelato, viene risvegliato insieme al suo cane volante Appa da Katara e Sokka, due fratelli che fanno parte della Tribù dell’Acqua del Sud. I tre ragazzini diventeranno inseparabili e sarà proprio Katara, l’unica dominatrice della tribù, a insegnare a Aang il dominio dell’acqua.

L’apprendistato di Aang si preannuncia lungo, perché il giovane Avatar è in grado di dominare solamente l’aria. Ben presto Katara e Sokka decidono di aiutare Aang a diventare un perfetto Avatar e di partire con lui in groppa ad Appa per un viaggio che li porterà, attraverso il Paese della Terra, nel cuore pulsante della Nazione del Fuoco, dove li attendono numerosi pericoli. Sulle tracce dell’Avatar, durante tutto il viaggio, c’è la nave del principe in esilio della Nazione del Fuoco, Zuko, in compagnia dello zio Hiro. Zuko, con il volto parzialmente sfigurato da un’ustione, è un dominatore del fuoco e deve catturare l’Avatar per riscattarsi agli occhi del padre, il terribile Ozai, e della sorella, la feroce Azula. Un altro personaggio molto importante è una ragazzina cieca, la più abile dominatrice della terra del Paese omonimo: Toph Beifong,

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che sarà maestra di Aang per l’earth bending. La serie di Avatar si sviluppa in tre stagioni, o più precisamente in tre “libri”, il primo intitolato “Acqua”, il secondo “Terra” e il terzo “Fuoco”, per un totale di più di sessanta episodi. Il progresso di Aang non è soltanto fisico – ogni dominazione è ispirata a una differente arte marziale, il Tai Chi per l’acqua, lo stile Hung Gar per la terra, lo stile Shaolin per il fuoco e lo stile Ba Gua Zhang per l’aria – ma anche spirituale: Aang deve accettare il suo ruolo e imparare a

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dominare lo stato dell’Avatar, in cui scatena una terribile forza distruttiva senza alcun controllo. Se Aang è un personaggio un po’ naif, a volte insicuro, l’Avatar seguente, Korra, è di tutt’altra stoffa. Korra è la protagonista di The Legend of Korra, una serie animata ambientata nel mondo di Avatar settanta anni dopo la fine delle avventure narrate nel corso della Legend of Aang. Korra è la nuova Avatar, e fa parte della Tribù dell’Acqua del Sud. Esiste, infatti, un ciclo di reincarnazioni dell’Avatar in cui all’Aria


segue l’Acqua, poi c’è la Terra e per finire il Fuoco. Korra è una sedicenne decisa e impaziente di affrontare i doveri che il ruolo di Avatar comporta. Quando si apre la serie, è già in grado di dominare acqua, fuoco e terra. Solo l’aria le crea qualche problema, e proprio per questo motivo seguirà a Republic City, risorta capitale della vecchia Nazione del Fuoco, un maestro dominatore dell’aria di nome Tenzin, che cercherà di insegnarle a dominare l’aria ma soprattutto a comprendere che a volte nella vita è necessaria un po’ di pazienza, qualità che mal si sposa con il carattere impulsivo di Korra. A Republic City conoscerà alcuni amici ma dovrà misurarsi con tante insidie da parte dei non dominatori, che iniziano a sentirsi oppressi dalla forza dei dominatori. Korra incontra in particolare una coppia di fratelli di nome Mako e Bolin, il primo dominatore del fuoco e il secondo dominatore della terra, ed entrerà a far parte del loro team di Pro-Bender, dominatori professionisti: nel Pro-Bending, infatti, due squadre di dominatori composte da tre elementi (fuoco, acqua e terra) si scontrano in un’arena. Al trio si aggiunge presto la bella Asami Sato, un’amica e allo stesso tempo rivale in amore di Korra. A un’animazione dalla qualità eccezionale si unisce una storia curata nei minimi dettagli, con un’ambientazione originale e dei personaggi freschi e ben delineati. Avatar ammalia e commuove, fa ridere tanto e racconta un processo di crescita continuo, che trova l’equilibrio proprio nel suo essere non finito. Consigliato a tutti, non solo ai più giovani.

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