Fantasmi #3

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Sbirciò attraverso le palpebre socchiuse. La luce lattiginosa in cui era immersa la stanza le arrivò come una coltellata al cervello. Ricordò tutto. D’improvviso, si rese conto di giacere su un pavimento di metallo, di essere chiusa in una sorta di cella e di indossare ancora il pigiama. Era lì da quanto tempo… due giorni? Una notte? Un paio d’ore? Ma sopratutto… dov’era? Non avrebbe saputo dirlo. Era stata narcotizzata. Adesso si trovava in una stanza con le pareti di metallo, immersa in una totale assenza di suoni. La luce soffusa proveniva da una piastra sul soffitto: una luce fredda, bianca, che si rifletteva sulle piastre di acciaio opache di cui erano rivestite le pareti, e che non faceva alcuna ombra. “C’è nessuno?”, chiamò timidamente. “Mi sentite?” Silenzio. “Che volete da me? Chi siete?” Silenzio. Pesante, insostenibile. “Io… vi prego, chi siete? Che volete?” Il nodo alla gola divenne duro, una pietra difficile da inghiottire. Poteva essere… per quello? Diosanto, dove si era andata a cacciare? Chi era quella gente? Perché? Harriet si rintanò in posizione fetale, con la testa nascosta tra le braccia e il corpo raccolto contro la parete. Un conato di vomito dovuto al narcotico l’assalì a tradimento, mescolandosi alla paura e al panico. Si tirò sui gomiti e vomitò a terra, vergognandosi come una bambina; poi, tremando di freddo, strisciò nell’angolo opposto, rannicchiandosi con le gambe contro il petto.


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