sottotraccia-2 diffusione

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"Quando l'ultimo albero sarĂ abbattuto, l'ultime fiume avvelenato, l'ultimo pesce catturato, soltanto allora ci accorgeremo che i soldi non si possono mangiare." (Antica profezia Cree)

ANNO 2 NUMERO 2 - MARZO 2010

Rivista universitaria della Statale di Milano


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IO UNA MENSA ME LA MERITO

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OCCHIO NON VEDE, CUORE NON DUOLE

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FENOMENOLOGIA DI QUEST’ULTIMA CRISI MONDIALE

Osservatorio sull’università

Osservatorio sul mondo

Rubrica di storia contemporanea

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POSOLOGIA DELL’ABORTO CLANDESTINO: IL CYTOTEC Rubrica de-genere

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CI SALVERA’ LA GREEN ECONOMY? Speciale ecologia

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LA CORAZZATA A2A LA STORIA DI ZINGONIA BIOCARBURANTI: SI MA CON CAUTELA IL MERCATO DELL’ENERGIA LA SFIDA DELLA DECRESCITA COP15: ABBANDONATE OGNI SPERANZA VOI CHE ENTRATE

25 IN DIREZIONE OSTINATA E CONTRARIA Rubrica di arte di strada

26 ESSERE POESIA A MILANO #1 Rubrica poetica

Collettivo Redazionale Marco Onofri Guido Anselmi Francesca Delcarro Ilaria Villa Umberto Bettarini Anna Giulia Ferrario Alberto Di Monte Carlo Bedoni Rem0 Fambri Valentina Sturiale Michele Biella Fabio Galantucci Fabio Vercilli Davide Schmid Marzio Balzarini Martina Mazzeo Cosimo De Monticelli Elio Catania Martino Iniziato Giulio D’Errico Tommaso Pedrazzini Silvia Toti Saverio Romani Alessandro Capelli Andrea Candrian

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Stampa BINE EDITORE SRL C.so porta Vittoria, 43 20122 Milano Stampato con il contributo derivante dai fondi previsti dalla Legge n. 429 del 3 Agosto 1985

Nelle facoltà qualcosa si sta muovendo...

SOTTOTRACCIA

Il progetto di questa rivista è nato dall’iniziativa di un gruppo di studenti delle Facoltà di Scienze Politiche; Scienze MFN; Lettere e Filosofia; Medicina Veterinaria. Alcuni di noi fanno parte di realtà che già da tempo operano nell’ambito universitario promuovendo eventi culturali, iniziative politiche e spazi di inchiesta e informazione. Tessere relazioni e favorire contaminazioni tra studenti di diverse facoltà, che spesso vivono l’università in maniera passiva e isolata, è importante per favorire l’osservazione di una realtà articolata e problematica come quella che viviamo, per stimolare approfondimenti teorici e per imparare a svolgere attività di inchiesta. Sottotraccia presenta sia diverse rubriche di carattere multidisciplinare, sia una parte monografica, lo “speciale”, costituita da un’inchiesta, da alcuni articoli di approfondimento delle problematiche sollevate, e da un editoriale di invito alla riflessione teorica. In questo numero lo speciale affronta il tema delle problematiche ambientali e prende criticamente in considerazione la green economy quale possibile soluzione. Le rubriche che abbiamo ideato trattano le tematiche del lavoro, delle discriminazioni di genere e etniche, della politica internazionale, dell’arte e degli artisti, della storia contemporanea e ovviamente dell’università. C’è inoltre una rubrica poetica. La rivista è caratterizzata da un approccio aperto alla partecipazione, ponendosi come obiettivo l’aggregazione di un numero sempre maggiore di studenti. Per partecipare a questo progetto e per contribuire alle rubriche scrivici a sotto-traccia@inventati.org sottotraccia.tk


Editoriale

La mercificazione dell’acqua: quando l’inalienabile incontra le logiche del mercato di Martina Mazzeo

Ricordate tutti il celeberrimo decreto legge 112 di Tremonti e Gelmini, star d’eccellenza del primo numero di Sottotraccia? Pensavamo di sapere tutto sulla sua identità e invece quest’ultimo ha deciso di stupirci ancora! Ebbene si, perché il tal decreto non conteneva solo indicazioni per la distruzione del mondo dell’istruzione bensì andava anche ad intaccare il sistema della gestione dei servizi pubblici; un decreto, insomma, nocivo su tutti i fronti, anima e corpo per farla breve. Mentre infatti si discuteva della scuola pubblica, il governo Berlusconi approvò in Parlamento l’articolo 23bis del decreto legge 112. Questo articolo prevede che la gestione dei servizi idrici venga sottomessa alle regole dell’economia capitalistica. L’acqua potrebbe non essere più un bene pubblico, ma sarà gestita privatamente da multinazionali internazionali. Quelle stesse multinazionali che attualmente gestiscono le acque minerali. Dopo un paio di mesi dall’approvazione del decreto, quest’ultimo viene convertito nell’altrettanto famigerata legge 133 e l’articolo 23bis viene mantenuto, per poi subire una ulteriore evoluzione rafforzativa verso la fine del 2009. Mercoledì 4 novembre il Senato della Repubblica dà il suo placet definitivo al decreto legge 135/09, dal titolo “Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee”, dove il 23bis assume maggior forza e si trasforma nell’articolo 15. L’opinione pubblica si infervora di fronte ad una legge la cui sostanza è inaccettabile:

l’operato del Ministro Ronchi mira infatti a privatizzare certi servizi fino a quel momento di gestione pubblica come rifiuti, trasporti e, inorridite, l’acqua. Si, avete capito bene… l’acqua, quel diritto inalienabile, innegabile, sacro e sinonimo di vita, diventerà mezzo di profitto per le grandi multinazionali e per tutte quelle spa che vinceranno la gara d’appalto indetta dai comuni e si incaricheranno della distribuzione dell’acqua nelle aree municipali. A primo impatto un qualunque cittadino che legga il titolo della norma sicuramente pensa che la riforma sia inevitabile dato l’obbligo di rispettare le direttive comunitarie, del resto se facciamo parte dell’Unione Europea dobbiamo adeguarci no? Ma navigando un po’ nel web in un uggioso pomeriggio invernale quello stesso cittadino potrebbe accorgersi che il tal titolo non è che un cappello messo in testa alla legge per conferire ad essa una veste facilmente vendibile alla “opinione” ( o meglio, pseudo-opinione) pubblica.

mentale della persona umana; chiede che siano esplicati tutti gli sforzi necessari a garantire l’accesso all’acqua alle popolazioni più povere entro il 2015”. Nonostante l’Europa, nella realtà dei fatti troppo spesso ignorata dall’informazione così come viene ignorata dagli stessi autori del provvedimento, non imponga alcuna privatizzazione dell’acqua; e nonostante le due chiare risoluzioni europee, il nostro paese, in una evidente condizione di anomalia, procede spedito verso la piena privatizzazione del servizio idrico integrato. Non è questa la sede adatta a sviscerare questa ennesima legge-vergogna del “nostro” governo però un elemento crediamo sia degno di nota: nel giro di un anno o al massimo entro il 2012 l’affidamento dei servizi pubblici locali passerà in mano a «imprenditori o società in qualunque forma costituite». Anche con capitale misto dunque, purché «l’attribuzione dei compiti operativi connessi alla gestione del servizio» sia nelle mani del privato che non può «avere una quota inferiore al 40%» della società. Il pubblico può rimanere ma è il privato che decide quanto o come investire. E il privato, si sa, deve fare profitti. E i profitti, si sa anche questo, si fanno abbassando gli investimenti e alzando le tariffe; dati statistici (fonte Utilitatis) dimostrano che gli aumenti più marcati sono stati registrati laddove la gestione è già stata privatizzata. Bene, cos’altro dire… grazie, è meraviglioso!

Ecco cosa di interessante il nostro concittadino curioso potrebbe trovare: • Risoluzione Europea 11 marzo 2004, “Strategia per il mercato interno, priorità 2003-2006”, paragrafo 5: “Essendo l’acqua un bene comune dell’umanità, la gestione delle risorse idriche non deve essere assoggettata alle norme del mercato interno”. • Risoluzione Europea 15 marzo 2006, “Risoluzione del Parlamento europeo sul quarto Forum mondiale dell’acqua”, paragrafo 1: “Dichiara che l’acqua è un bene comune dell’umanità Nel frattempo, finché ce n’è, e come tale l’accesso all’acqua godetevi l’acqua, non sprecatela costituisce un diritto fonda- e… buona indignazione a tutti!

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Osservatorio sull’univeristà

Io una mensa me la merito! di Michelass

“Il popolo non ha pane? Che mangi brioches!”. Sembra questo, come una novella Maria Antonietta, l’atteggiamento del Politecnico di Milano. Il “pane”, in questo caso, è la mensa universitaria di via Golgi in Città Studi; le “brioches” sono invece bar e tavole calde della zona. Nel polo universitario di Città Studi il servizio di ristorazione è svolto da alcune mense divise tra Poli e Statale, tra le quali quella di via Golgi (appaltata alla ditta SeRist) è l’unica di capienza elevata. Tra maggio e settembre 2009 il CdA del Poli decide di riformare il servizio a disposizione dei propri studenti: chiusura della mensa di via Golgi il 31 dicembre e aumento delle convenzioni coi bar della zona (15, per ora), sostenendo che troppo pochi borsisti usufruivano dei buoni pasto e che la maggioranza dell’utenza proveniva dalla Statale. Le convenzioni consistono in buoni pasto (ridotti rispetto a prima) per gli studenti borsisti e “prezzi calmierati” (non si capisce in base a quale meccanismo) per gli altri. Non si fa cenno al resto dell’utenza, studenti e lavoratori. Come se tale decisione non costituisse un problema per tutta Città Studi, privata improvvisamente e unilateralmente di un servizio

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essenziale (ricrearne in zona per arrivare ad un miglioramenuno analogo è pressoché impos- to sul piano economico e della sibile) e che vedrebbe migliaia qualità e ad una gestione condi studenti riversarsi nei pochi divisa e trasparente, in modo locali (già saturi) durante la che la questione del diritto allo pausa pranzo. La decisione studio sia anteposta ai conten(forse legata anche a interessi ziosi tra gli atenei e ai profitti di sugli spazi) inizialmente non vi- un’azienda. ene divulgata né comunicata ai Tra cortei, scioperi, irruzioni nei lavoratori che avrebbero perso il CdA, c’è il tempo di immaginposto; segue uno scaricabarare un uso diverso ile con la Statale sulla man- “L’obiettivo degli spazi: ducata soluzione condivisa. rante l’occupazione Un pasto completo a un è chiaro: dell’edificio del 10 prezzo contenuto e un luo- la mensa dicembre si tiene go di socialità confortevole non deve un’assemblea pubsono parte imprescindi- chiudere, blica su demobile del diritto allo studio bisogna crazia diretta e (dovrebbe ben saperlo il Poli beni comuni, cui salvare il che si vanta di essere una partecipano collet“meritevole eccellenza” tra servizio e i tivi studenteschi, gli atenei italiani. Ma tant’è). posti di il Comitato per Il 17 novembre, al termine lavoro.” l’acqua e No Expo. di un corteo promosso dai Emerge un’idea di lavoratori, si decide di creare gestione dei servizi basata su un comitato di lotta unitario, partecipazione e trasparenza, espressione della collettività anziché relegata nelle alzate di che si riunisce per difendere un mano dei pochi eletti di un Conbene comune. Nasce il comitato siglio d’Amministrazione. “Giù le mani dalla mensa”, fron- Le intenzioni del comitato sono te comune tra l’utenza e i lavo- quelle di continuare la lotta ad ratori, nonché ambito di coor- oltranza; per ora sono stati ottedinamento tra tutte le realtà e i nuti la proroga della chiusura al singoli interessati. L’obiettivo è 31 luglio 2010 e l’impegno forchiaro: la mensa non deve chiu- male della Statale a trovare una dere, bisogna salvare il servizio soluzione. e i posti di lavoro. Si chiede anche che Statale e Politecnico ne Di fronte alla privatizzazione riconoscano il valore sociale, autoritaria di beni e risorse tanto in auge nei palazzi del potere (compreso il CdA di un’università pubblica che decide all’unanimità, studenti compresi), aprire vertenze e conflitti territoriali è un importante mezzo di resistenza e presa di parola dal basso, e, unito ad un adeguato e consapevole lavoro di rete, può essere lo strumento per un’inversione di tendenza globale rispetto a queste politiche, caratterizzate da deficit di democrazia e rispetto per uomo e ambiente.


Occhio non vede, cuore non duole di Remo Fambri La società occidentale si crogiola nella ricchezza e nelle frivolezze mentre milioni di cittadini del mondo vivono la brutalità della guerra sulla loro pelle; i mezzi d’informazione tacciono mentre ventinove conflitti imperversano in tutto il globo e le parole d’ordine restano sempre le stesse: potere e ricchezza. Questa rubrica di politica internazionale vuole aprire le porte all’informazione che “non fa notizia”, scrivere di popoli sfruttati e di guerra (il motore che fa girare il mondo da millenni), di potenti e di rapporti internazionali. É necessario aprire gli occhi,guardare al di là dei confini nazionali ed iniziare veramente a dire no ad un mondo dove l’interesse di pochi distrugge la vita di molti. La maggior parte della popolazione mondiale non ne ha mai sentito parlare ma questa viene ritenuta dagli esperti come il conflitto più crudele dopo la Seconda Guerra Mondiale: la Guerra Mondiale Africana. Essa viene distinta in tre parti: Prima Guerra del Congo (1996-97), Seconda Guerra del Congo (1998-2003) e Guerra del Kivu (2004-2009). Tutto inizia nel 1996 quando l’AFDLC, capeggiata da Laurent-Désiré Kabila, sfida le forze di Mobutu Sese Seko, dittatore dello Zaire: Kabila prende il potere creando la Repubblica Democratica del Congo; inizia la Seconda Guerra: le minoranze dell’est rifiutano il nuovo governo innescando una guerriglia, alcuni Paesi intervengono in aiuto delle minoranze ed altri del governo. Gli schieramenti si compongono in questo modo: da un lato Repubblica Demo-

cratica del Congo, Namibia, Zimbawe, Angola e Ciad affiancati dalle milizie Hutu e Mai Mai e dall’altro lato Uganda, Burundi e Rwanda con l’appoggio dei ribelli Tutzi e dei vari Fronti di Liberazione. Nel 1999 si giunge ad un accordo di pace ma solo nel 2003 Uganda, Burundi e Rwanda decidono di ritirarsi. Ma il fragile equilibrio di pace appena instaurata si spezza dopo poco: nel 2004 i ribelli Tutzi del CNDP comandati da Nkunda ed affian-

cati dall’ LRA (ribelli ugandesi) iniziano una violenta guerriglia nella regione del Kivu che vede impegnato il governo congolese ed il MONUC (missione ONU presente in RDC dal 2000 e ritenuta un v e r o e proprio fallimento) fino alla pace del 23 marzo 2009 ed all’arresto di Nkunda. Oggi gli scontri continuano fra le varie fazioni ribelli; il bilancio delle vittime al 2009 è di circa 5,4 milioni di cui gran parte a causa delle carestie create dal conflitto, 6 milioni sono i profughi congolesi che vivono

Osservatorio sul mondo

ancora in situazioni socioumanitarie terribili, molti stati occidentali sono intervenuti nel conflitto attraverso finanziamenti e vendita di armi mentre i Paesi UE si sono rifiutati di partecipare con un contingente di peace-enforcement europeo proposto inizialmente dal Belgio. Come la maggior parte delle guerre, questo conflitto nasce per cause puramente economiche (il territorio orientale della RDC è ricco di diamanti, oro e Coltan per la produzione di articoli High-Tech), gli Stati occidentali e le multinazionali dell’estrazione hanno un grande interesse economico nella instabilità della RDC: se lo Stato non è unitario e non riesce a controllare il proprio territorio vengono a mancare i presupposti per regole, licenze, dazi doganali e tasse: quindi maggior sfruttamento e meno problemi! Il mondo è governato da una politica internazionale guidata dall’interesse puramente economico: ripudia la violazione dei diritti umani e la violenza mentre lucra sulla vendita di armi, proclama la libertà per tutti i popoli ed allo stesso tempo usa la forza per aggiudicarsi le risorse dei Paesi deboli e poveri; la Guerra del Congo è solo uno degli esempi terrificanti della logica politica ed economica internazionale, altri 28 conflitti sparsi per il globo distruggono e uccidono intere popolazioni. E noi? Noi non ne sappiamo nulla!

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Rubrica di storia contemporanea a cura di Lapsus

Fenomenologia di quest’ultima grande crisi mondiale di Giulio D’Errico, Fabio Vercilli e Martino Iniziato Dalla metà del 2008 si sono susseguite innumerevoli analisi sull’ultimo crack finanziario. Si è parlato di fine del capitalismo, di fine della finanza. Pochi però hanno cercato di volgere lo sguardo indietro a ricercare le cause profonde di quello che è successo dalla crisi dei mutui subprime dell’estate 2007 in poi. Per farlo è necessario focalizzare il discorso su un periodo storico ben preciso: quello che va dall’inizio degli anni 80 fino al 2008. All’interno di questa periodizzazione sono gli anni ’90 a risaltare come momento cruciale per lo sviluppo economico in cui giungono al loro apice diversi fattori che, nati molto prima, solo qui si incrociano l’uno con l’altro e danno vita a sviluppi tutt’altro che aspettati. Il dato storico da cui partire è la fine della guerra fredda. Con la caduta dell’Unione Sovietica del 1991 nulla sembra più ostacolare l’avanzata del “nuovo” vento culturale neoliberista nel mondo. A livello mondiale dal 199293 assistiamo alla più grande crescita economica mai registrata prima; a livello europeo, più silenziosamente, nello stesso periodo viene costituito il Mercato Comune (accordi di Maastricht, 1992), primo passo verso la creazione di un sistema di cambi fissi all’interno del vecchio continente. In Asia il Giappone sta esaurendo la sua spinta propulsiva, ma in compenso si assiste alla strepitosa ascesa economica di Cina e India. Nella prima, lo stop alle riforme impresso dalla crisi del 1989 ha avuto breve durata, e dal 1992 si sono susseguite liberalizzazioni e privatizzazioni, permettendo tassi di crescita del 7-8% annui e imponendo la Cina come prima potenza industriale. Nel sub-

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continente indiano le riforme degli anni ’90 si sono spinte ancora più in là, facendo del paese uno dei principali fornitori di servizi, con tassi di espansione del 5-6% del PIL. Al contrario negli Stati Uniti la situazione non è delle più rosee. Il decennio si apre con la prima guerra del Golfo, il declino industriale e la competizione giapponese si fanno sentire, aumentano la disoccupazione e le diseguaglianze economiche e sociali, numerose saranno le rivolte (la più importante quella di Los Angeles dell’aprile-maggio 1992). È proprio dagli Stati Uniti che, però, si impone un nuovo settore che caratterizzerà l’economia degli anni a venire: la “New Economy”. Solo ora vengono capitalizzati quarant’anni di sviluppo di “data processing” grazie allo sviluppo di Internet su larga scala e la produttività delle nuove tecnologie raggiunge vette mai viste prima. Abbiamo detto fine della guerra fredda. Questo è probabilmente l’evento storico più significativo dalla conclusione della seconda guerra mondiale, spesso trascurato, ma sicuramente gravido di implicazioni, buona parte delle quali ancora poco chiare. Proprio lo studio degli anni ’90 come fase post-bellica ha permesso la nascita di un filone di analisi concentrato sulla comparazione tra anni 90 e anni 20. Diversi lavori hanno apportato un fondamentale contributo per

far luce sui nodi economici di questi due periodi e offrono un buon punto di vista per meglio comprendere l’attuale momento storico. Il primo tratto caratteristico di un periodo post-bellico è quello della riduzione delle spese per la difesa che negli Stati Uniti degli anni 90 calano di un punto percentuale (almeno fino al 2001). Gli anni 20, come i 90, si giovano dell’impatto delle nuove tecnologie (elettricità e chimica in primo luogo), grazie alle quali si ha un sensibile aumento della produttività. Entrambi i periodi si aprono con quella che è stata definita “un’euforia finanziaria”, collegata all’estensione dei flussi di capitale internazionale. È proprio qui che notiamo però la prima differenza. Il ruolo degli attori in gioco si rovescia: con la fine della prima guerra mondia-le gli Stati Uniti scalzano la Gran Bretagna e si impongono a livello globale come primo paese creditore, come paese che fornisce capitali al resto del mondo; negli anni ’90 al contrario gli Stati Uniti sono un paese fortemente debitore, in particolare verso la Cina. Negli anni ’20 gli sviluppi di questi squilibri della bilancia dei pagamenti internazionali (la Germania uscirà dal conflitto come paese maggiormente debitore) saranno tra le cause principali delle “infelici” evoluzioni politiche del ventennio seguente. Le conseguenze del debito


Statunitense (quintuplicato nel frattempo) saranno visibili negli anni a venire. Ultimo parallelo tra i due decenni riguarda l’ineguale distribuzione del reddito, sia tra un paese e l’altro, sia all’interno di ogni nazione. Le disuguaglianze economiche tornano a crescere dopo settant’anni di lenta ma continua erosione. Come si diceva, gli anni ’90 vedono il precipitare contemporaneo di fattori di lungo corso; non si può a tal proposito non parlare della globalizzazione, la categoria passe-partout del decennio, sotto la quale sono stati indicati di volta in volta elementi e valori diversi. In sé, la globalizzazione rappresenta l’integrazione di tre mercati: quello delle merci (commercio internazionale), quello dei capitali (investimenti internazionali) e quello del lavoro (migrazioni). Si può far risalire il processo di globalizzazione alla fine del XIX secolo, ma ora si impone con caratteristiche differenti rispetto al passato. È il livello finanziario a giocare il ruolo di protagonista, le cifre del turnover finanziario giornaliero (il totale degli scambi a livello globale) passano dai 15 milioni di dollari del 1973, al miliardo e 200 milioni del 1995, per intenderci, più del totale del commercio internazionale, del debito e dell’investimento estero globale. Un altro processo che rivela tutte le sue potenzialità solo alla fine degli anni ’80 è l’innovazione finanziaria: cruciale per questo è la creazione del nuovo mercato dei cambi nato con l’abolizione della parità del dollaro rispetto all’oro (1971); da quel momento viene abolito il sistema a cambi fissi imposto dagli accordi di Bretton Woods e inizia il regime della fluttuazione dei cambi. Il nuovo mercato che viene a na-scere è enorme e permette speculazioni di ogni genere. Questo tipo di innovazione

sarebbe impensabile senza lo sviluppo delle tecnologie informatiche e delle teorie, matematiche e finanziarie, per il calcolo del rischio. Il ruolo dell’accademia comincia così a mutare, una trasformazione ambivalente, che vede sempre più economisti e matematici sedere nei cda di banche, assicurazioni e società finanziarie oppure fungere da consulenti ai più svariati governi, accompagnata dalla conseguente riduzione dell’indipendenza e dell’autonomia delle accademie. Questa crescente commistione ha portato all’incapacità di previsione della crisi attuale. Ultimo tassello del nostro discorso, linea guida delle politiche neoliberiste inaugurate da Ronald Reagan e Margareth Tatcher negli anni ’80, è la cosiddetta “deregolamentazione”. Una continua erosione del ruolo dello stato di controllore dei processi economici, ruolo che si era imposto come necessario a seguito della crisi economica del 29 e si era sviluppato fino agli anni 70. Le politiche di deregolamentazione si concentrano su tre ambiti: le telecomunicazioni, il trasporto aereo civile e i mercati finanziari. In quest’ultimo vengono smantellate rapidamente tutte le restrizioni ai flussi di capitali tra paesi, vengono fortemente ridotti, se non del tutto aboliti, i controlli sui tassi di cambio e sui capitali in uscita e in entrata, vengono cambiate le re-

gole che vigono per lo scambio dei titoli, vengono riformate le Borse attraverso l’abolizione del monopolio della compravendita di titoli degli agenti di cambio, e la soppressione della “commissione fissa” su ogni scambio. Una trasformazione necessaria in un’economia pressata dallo sviluppo tecnologico e dall’innovazione finanziaria, ma ancora troppo imbrigliata da controlli nazionali per poter dispiegare completamente i suoi effetti di produttività e crescita economica incontrollata. Alla riforma delle borse segue quella del sistema bancario. Di fondamentale importanza ciò che succede negli Stati Uniti dove, in un lento percorso legislativo, viene abrogato nel 1999 il Glass-Steegall Act, viene meno cioè la distinzione tra banche d’investimento e banche d’affari. Mossa che permetterà la nascita dei più grossi colossi finanziari (Citigroup su tutti). Pur nella limitatezza dello spazio, il puzzle è completo. Gli anni 90 rappresentano il tentativo di realizzazione delle idee neoliberiste: un’economia mondiale guidata dalla finanza che, potenziata dall’ innovazione informatica e finalmente libera da vincoli geografici e controlli politici, avrebbe potuto dispiegarsi in tutta la sua forza “rigeneratrice”. Proprio quella forza che nel 2007 si è scontrata con la bolla immobiliare, e nel 2008 ha provocato il collasso di alcuni dei suoi maggiori araldi.

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Rubrica de-genere

Posologia dell’aborto clandestino: il Cytotec! di Valentina Sturiale

Per abortire clandestinamente oggi non si usano più i ferri da calza ed il prezzemolo ha lasciato il posto ad un metodo molto più efficace, quasi invisibile: si chiama Cytotec ed è un gastroprotettore utile per la terapia delle ulcere gastroduodenali. Può essere acquistato dietro ricetta medica alla modica cifra di 14 euro in farmacia e, se fosse un problema, il mercato nero può facilmente sopperire alla mancanza di prescrizione. Le fasce “deboli”, quelle più soggette all’uso del Cytotec, sono “casualmente” le meno tutelate dalla Legge 194: le straniere e le minorenni, soprattutto all’interno di quei contesti dove l’educazione sessuale scarseggia. Se assunto nelle dosi indicate il farmaco non implica conseguenze diverse da un aborto spontaneo, per questo è difficile quantificarne l’uso. Data la lenta assimilazione si assiste spesso a casi di sovradosaggio che implicano seri effetti

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collaterali, non ultimo, viamente eterosessuale, potente la morte. capo della famiglia. Tutto ciò che non si conforma a questo L’uso del Cytotec è for- modello viene quindi definito temente sconsigliato “deviante”, qualcosa di malato per l’ interruzione di che deve essere estirpato (qualgravidanza: la stessa cuno ha riassunto tale ottusa azienda produttrice posizione utilizzando il termine elenca fra gli effetti “contro natura”). collaterali la morte ma- Dall’altra parte siamo di fronterna e fetale, l’ipersti- te ad una fascia di popolazione molazione uterina, la che viene tagliata completarottura o perforazione mente fuori dai diritti umani. dell’utero, emboli da Sulle spalle dei clandestini si sta fluido amniotico, emor- costruendo un mercato vergoragie severe, ritenzione gnoso, in cui anche i diritti fonplacentare. damentali, come quello alla saL’aumento dell’uso di lute, devono essere acquistati questo farmaco come in soldoni sonanti, un mercato interruttore di gravi- in cui l’unica legge è dettata dal danza, nell’ultimo periodo, non potente. stupisce: i numerosi attacchi alla 194, l’imbarazzante nume- Le continue dichiarazioni ro di medici obiettori e le fan- razziste dei nostri governantozziane trafile burocratiche, ti riempiono le prime pagine, sono già motivazioni più che mentre altre notizie vengono sufficienti, ma se a questi dati accennate appena: una transessi aggiunge il terrore suscita- suale che si toglie la vita la vito dal Pacchetto Sicurezza e la gilia di Natale nel CIE di Corelli; convinzione, fomentata a lungo una prostituta a Bari che muodai media, che i medici possano re di tubercolosi, troppo terrodenuncia- re i migranti clande- rizzata dalla possibile denuncia stini, si ottiene un quadro com- per andare in ospedale, le donne pleto della situazione. che muoiono ogni anno di Cytotec perché a loro è preclusa la Il problema è particolarmente possibilità di abortire in ospeostico e complesso, si tratta in dale. realtà di due settori che non godono oggi di buona salute: il pri- Chi pensa che la 194 sia solo mo è l’autodeterminazione della una legge che difende l’aborto donna, la possibilità di conosce- è fuori strada: essa è nata per re ed avere a disposizione tutti i tutelare la salute e la consamezzi per potere essere padro- pevolezza della donna. na del proprio corpo, il secondo L’efficacia con cui viene applicariguarda i diritti umani delle ta, parimenti, indica il livello di donne straniere. Da una parte attenzione del nostro paese alle una società patriarcale, sempre pari opportunità ed il fatto che più invadente, che vede la ma- ci siano tuttora molte persone ternità come funzione ultima e che non riescono a beneficiarne naturale della donna in quanto implica che c’è ancora molto da angelo del focolare e l’uomo, ov- fare.


SPECIALE GREEN ECONOMY - EDITORIALE

Per rendersi conto del livello della crisi economica ed ecologica non c’è nulla di meglio che osservare il numero di parole spese per glorificare solu- zioni che, nel migliore dei casi, rimangono puramente retoriche e, nel peggiore, fungono da presupposti per un ulteriore aggravamento della situazione. Il fallimento del summit danese di COP 15 (e dei summit precedenti) è sotto gli occhi di tutti, talmente palese che non vale nemmeno la pena di spenderci più di due parole. E allora perché ovunque intorno a noi si moltiplica la retorica del capitalismo verde? Mercato delle emissioni, biocarburanti, addirittura il nucleare “amico dell’ambiente”, fiumi di inchiostro ed ore di conversazione celebrano il capitalismo ecocompatibile, ed ecco allora moltiplicarsi autobus a biodiesel, linee di montaggio a ridotto impatto ambientale, condizionatori “ecosostenibili”,

mele “biosolidali”. La soluzione ad un problema che si ammette essere com- plesso appare semplice, il discorso che la sostiene è tranquillizzante: “comprate prodotti “verdi”, non preoccupatevi del problema, la mano invisibile del mercato curerà anche la febbre del pianeta, del resto non ha avuto successo in passato?” Diseguaglianza, sottosviluppo e povertà sono concetti oramai consegnati al passato. Ironia a parte, può essere utile indagare le ragioni di questa infatuazione bucolica del mercato. Il capitalismo rappresenta un modo di produzione “rivoluzionario”, strutturalmente senza fine, in cui lo scambio denaro-merce produce un surplus di denaro che deve essere necessariamente reinvestito per garantire la tenuta del sistema; il reinvestimento è possibile solo se la “sfera del mercato” si amplia, solo se, in poche parole, il mercato riesce a creare nuovi

bisogni o a soddisfare necessità che precedentemente trovavano risposta in altri ambiti di produzione. Ma questa crescita illimitata, necessaria al funzionamento dell’apparato economico, si scontra in primo luogo con i limiti fisici di un sistema-terra dalle risorse limitate e in via di esaurimento. Ciò crea una fortissima contraddizione tra la sfera ambientale e quella dell’economia. Il sistema-terra, infatti, è governato dalle leggi fisiche di conservazione e trasformazione della materiaenergia. L’uomo, in sostanza, non è in grado di creare né di distruggere, ma può soltanto trasformare la materia e l’energia. Ognuna di queste trasformazioni comporta, però, anche dei costi: al termine di ogni processo, infatti, una certa quota di energia viene dispersa in modo irrecuperabile. Tutto questo, perciò, risulta incompatibile con il

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SPECIALE GREEN ECONOMY - EDITORIALE

concetto stesso di sviluppo illimitato, proprio perché ciò non è in grado di far fronte ai vincoli fisici dati dal contesto ambientale. L’unica soluzione possibile al problema ambientale parrebbe quindi quella di una forte limitazione dei consumi. Questa, però, risulta incompatibile con un sistema economico basato sul reinvestimento del surplus. Proprio per tale motivo, il problema in questione viene totalmente ignorato, continuando a spingere sull’acceleratore della crescita per far sopravvivere l’intero sistema. Qualora non trovi questo “spazio vitale” il capitalismo entra, infatti, in crisi. Per quanto la retorica neoliberista tenti di rivenderci il mito del mercato che bada a se stesso, nella realtà storica lo Stato si è sempre occupato di garantire l’ampliamento della sfera del mercato oppure di inserire dei correttivi per impedirne il collasso. Lo Stato assicura la possibilità del reinvestimento del surplus mediante la costruzione di infrastrutture, programmi di riarmo, favorendo l’espansione urbana e geografica del capitalismo, “esportando la democrazia” e conquistando nuovi territori da annettere al “mondo libero”; qualora tutto questo sia impossibile non rimane altro che intervenire direttamen-

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te per scongiurare il collasso, ad esempio stampando carta mo neta per salvare le banche insolventi. Quando si tratta di sostenere le rendite da capitale tutto diventa possibile, e tutto può venire sacrificato per correggere le disfunzioni di un sistema economico in grado garantire sviluppo economico e benessere diffuso. Quanto c’entra tutto questo con il “capitalismo verde”? Molto, perché se consideriamo che fino ad oggi la priorità del sistema politico internazionale, nelle sue varie articolazioni, è stata quella di garantire la “tenuta” del mercato, allora possiamo vedere al di là della retorica ed iniziare a chiederci quanto questa “riconversione spirituale” del liberoscambismo sia da imputarsi alla crisi ecologica o quanto, più realisticamente, sia da imputarsi alla necessità di creare un nuovo programma infrastrutturale ed una nuova serie di necessità a cui il mercato fornirà equa soddisfazione; in altre parole, la priorità non è il taglio delle emissioni (che in ogni caso continua a non avvenire) ma la garanzia di poter reinvestire il surplus presso nuovi lidi. “Se realmente si tagliano le emissioni, che importanza può avere se qualcuno riesce a ricavarne pro-

fitto?” Potrà sembrare che noi si butti via il bambino con l’acqua sporca, eppure, anche ammettendo che si riesca a tagliare le emissioni, (cosa tutt’altro che scontata visti i risultati di COP 15 ) i problemi permangono e stanno proprio nel profitto. Per chiarire utilizziamo un esempio considerando un singolo prodotto: una saponetta ad “emissioni zero”; detta saponetta ovviamente costerà leggermente di più per coprire le spese di ripiantumazione, ammettiamo anche che i produttori siano sinceri e che l’intera popolazione mondiale, presa da crisi di coscienza, decida di acquistare la saponetta miracolosa (già ora siamo abbondantemente nella fantapolitica) e che tale prodotto miracoloso abbia saturato completamente il mercato azzerando le emissioni connaturate alla propria produzione… e poi? La saturazione del mercato ci riporterebbe al punto di crisi, surplus da investire e necessità di spazi per poterlo fare, il surplus ricavato dal sapone dei miracoli dovrebbe essere reinvestito, potrebbe essere reinvestito in altre attività ad impatto zero certo, ma se dovessero aprirsi nuovi spazi? Spazi che garantiscono un ritorno economico superiore a quello che si può ricavare dalla


SPECIALE GREEN ECONOMY - EDITORIALE

sostenibilità ecologica? Se domani si scoprisse un modello di business che assicura profitti stratosferici riversando mercurio nei fiumi o sparando arsenico nelle nubi, è veramente così realistico pensare che buona parte dei surplus ottenuti commerciando prodotti “amici dell’ambiente” non sarebbe reinvestito in queste attività ? Qui è dove muoiono tutte le buone intenzioni. Il mercato non possiede gli anticorpi necessari contro questo tipo di speculazione, quando ci si riduce a sperare nel “buon cuore” delle multinazionali e dei centri finanziari, o nella capacità di autoregolazione del mercato, le prospettive per un futuro sostenibile non sono alla frutta ma hanno abbondantemente superato l’ammazzacaffè. Perché, invece, non confidare in un secondo New Deal verde, un welfare state climatico? Magari simile a quello tanto glorificato da Obama, una soluzione eccellente per salvare capra e cavoli: le multinazionali guadagnano un po’ meno e lo stato garantisce la buona fede ecologista delle stesse. Eppure anche qui si rischia di peccare di ingenuità. Abbiamo già visto come lo Stato e le politiche di espansione del mercato rappresentino un tassello fondamentale del sistema

e garantiscano lo spazio di manovra basilare per assicurare il reinvestimento del surplus, quindi perché fidarsi? Anche lo stesso paragone con lo welfare state è completamente fuori luogo dato che lo stato sociale rappresentò un tentativo di mediazione fra le istanze capitalistiche e quelle potenzialmente rivoluzionarie del movimento operaio. Anche ammesso e non concesso che la mediazione sia una strada percorribile, quali istanze si dovrebbero mediare oggi? Di quali soggetti? La realtà è che non esiste alcun tavolo di dialogo né, oggettivamente, se ne avverte il bisogno. Alcuni se ne stanno chiusi dentro un palazzo concentrati non sulle emissioni ma su come riuscire a estrarre profitto dalla crisi, altri stanno fuori dal palazzo reclamando giustizia e trovando solo manganelli. Nel migliore dei casi le decisioni che emergono dalle conferenze programmatiche (quando e se emergono) presuppongono una gestione autoritaria della crisi. Presuppongono la cooptazione di parole d’ordine ed associazioni ambientaliste per costruire una nuova verginità ideologica alla solita macchina che consuma risorse e sfrutta il lavoro per produrre profitti la cui redistribuzione riposa ormai sulla sola

filantropia “dei ricchi”. Quanto detto ci spinge a pensare che le varie crisi di cui sentiamo parlare sempre più spesso (ecologica, finanziaria, produttiva, climatica e biologica) siano in realtà da ricondurre alla crisi del modello di produzione contemporaneo. Questa ipotesi indica la natura politica del problema che ci troviamo di fronte. Al di là di quanto sostengono i profeti del neoliberismo, nelle sue versioni di destra e di sinistra, una soluzione efficace non può essere consegnata alla capacità di autoregolazione del mercato, all’intervento statale per correggere alcune disfunzioni o per sostenere i consumi attraverso politiche ridistributive. La soluzione deve essere politica, in quanto il problema è politico. Non si possono produrre soluzioni efficaci che lascino immutato il sistema economico, si può e si deve invece pensare e continuare a pensare alla soluzione del riscaldamento globale e dell’esaurimento delle risorse come ad un qualcosa di profondamente legato al problema della concentrazione di potere e reddito, ed al deficit di partecipazione che questi implicano, nonché di una visione economica noncurante dei vincoli fisici dati dal contesto ambientale.

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTA

di Guido Anselmi

Nulla di meglio di un esempio per comprendere le dinamiche del capitalismo “verde”. Per una qualche contorta forma di esterofilia, ci aspettiamo che gli alfieri del rinnovamento“ecosostenibile” provengano da qualche landa lontana, magari dal Nord Europa o dagli Stati Uniti, ed invece uno degli esempi più interessanti vive proprio accanto a noi, distante non più di pochi passi dalle nostre vite, produce la nostra elettricità, riscalda le nostre case, smaltisce i nostri rifiuti. In poche parole costituisce l’ossatura infrastrutturale del Comune di Milano, i suoi destini finanziari sono legati a filo doppio con la salute del bilancio dell’amministrazione pubblica, il suo controllo rappresenta uno dei punti cardine dell’egemonia politico-finanziaria milanese. Stiamo parlando di A2A, una corazzata il cui giro di affari si aggira intorno ai seimila milioni di euro, proprietaria, fra le altre, del 60% di Edison, del 25% di Metroweb, del 100% di Amsa, operatore accreditato per

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il trading di emissioni, certificati verdi ed infine presenza significativa nel mercato dei termovalorizzatori (sua è infatti la “nuova”gestione del termovalorizzatore di Acerra). Questo gigante multiutility, almeno a parole, ha costruito il suo business attorno alla “sostenibilità”, pubblicando addirittura un bilancio a proposito e fregiandosi del fatto che “A2A ha sempre praticato la Sostenibilità anche verso l’intera comunità dei suoi Clienti, erogando servizi di qualità e producendo energia con tecnologie innovative ed adeguate alle esigenze sociali ed economiche oltre che ambientali.”. Ripercorrere le vicende di A2A può aiutarci a comprendere meglio quelle che sono le dinamiche reali del capitalismo “verde” in salsa lombarda, gli scontri di potere al suo interno ed il peso reale della fin troppo citata “sostenibilità” in confronto al più banale profitto. A seconda del livello di lettura, la storia di A2A è estremamente semplice o mostruosamente intricata. I libri di storia ne registrano la nascita il 1 gennaio 2008 in seguito ad una complessa fusione delle aziende di servizi municipalizzate di Milano e Brescia (AEM ASM AMSA); conseguentemente a questa operazione l’ azienda è stata quotata in borsa. I comuni delle due città d’origine, tuttavia, hanno mantenuto un significativo controllo sia in virtù delle quote azionarie

in loro possesso sia in sede di nomina del management. Quello che i libri di storia spesso omettono , però, è il ruolo delle agevolazioni fiscali concesse dallo Stato sul finire degli anni ‘90 per favorire la quotazione in borsa delle aziende municipalizzate, permettendo l’ingresso di capitale privato all’interno delle stesse. La Commissione Europea, nel giugno 2002, ha considerato questa iniziativa equiparabile ad un aiuto di Stato e perciò ha condannato A2A, fra le altre, alla corresponsione di una multa maximilionaria; il governo, recepita la direttiva, ne ha disposto il pagamento, ma l’azienda, dal canto suo, ha minacciato di azzerare il pagamento dei dividendi per far fronte alla maximulta. E fin qui non sembrerebbe esserci nulla di particolarmente interessante se non fosse che i Comuni di Milano e di Brescia in veste di azionisti di maggioranza avrebbero fatto affidamento sui dividendi 2009 per garantire la tenuta finanziaria corrente e non stiamo parlando di bruscolini ma di una cifra che si aggira attorno ai 166 milioni di euro (dividendo anno 2008). Come se non fosse già abbastanza assurdo che la stabilità finanziaria di amministrazioni pubbliche dipenda dalla performance di aziende private, il Comune di Milano, per aggiungere al danno la beffa, “incoraggiato”dal mancato rimborso del taglio dell’ICI (disavanzo di 30 milioni), starebbe pensando di risolvere il problema trasformando i crediti in titoli vendibili, ovvero, in gergo


SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTA tecnico, cartolarizzando una serie di immobili di proprietà comunale fra cui sedi ANPI e centri sociali (Cox, Ponte della Ghisolfa), riuscendo in questo modo anche nell’intento di liberarsi di “scomode spine nel fianco”. Da questa iniziativa possiamo comprendere una delle caratteristiche centrali del rinnovamento capitalista in analisi: non si evolve nel vuoto politico come vorrebbe il vangelo secondo il mercato, ma la sua genesi deriva da un equilibrio di poteri (e di nomine) strettamente connesso ai giochi delle forze politiche e, nello specifico lombardo, al “sultanato formigoniano”. Per essere brutalmente chiari la situazione è questa: un’azienda privata entra in possesso,grazie ad aiuti di stato, della rete energetica lombarda, di fatto privatizzando l’erogazione di quanto, fino al giorno prima, costituiva un bene pubblico; quando questo stato di cose arriva alla sua logica conclusione, l’unica risposta compatibile con la stabilità finanziaria del sistema risulta essere un ulteriore ciclo di privatizzazioni e di svendita dei beni comuni; una strategia, quest’ultima, che fa decisamente emergere una linea di tendenza che, a guardarla con occhi disincantati, risulta avere più a che fare con il saccheggio che con la “libera impresa”. Tuttavia, per comprendere A2A, il semplice dato finanziario non basta. Come scritto nelle righe precedenti, la sua redditività la rende una preda ambita nei giochi di potere lombardi: le nomine del management, secondo questi tristi maneggi, risultano perciò ostaggio del conflitto/cooperazione fra varie cordate politico-finanziarie. Al momento i centri di potere principali sono due: uno organico al potere ciellino ed

alla Compagnia delle Opere di Brescia, l’altro espressione del sindaco Moratti e della sua legione di consulenti “d’oro”; questi si spartiscono le poltrone più ambite ma in futuro non è da escludersi che componenti minori quali Lega e la holding politica della famiglia La Russa (ora confinati alla periferia del sistema) possano rosicchiare posizioni importanti. Come già nel sistema sanitario lombardo, la Compagnia delle Opere ha il ruolo del leone tant’è che l’uomo chiave di A2A è proprio Graziano Tarantini, avvocato d’ affari, presidente del Consiglio di Sorveglianza, ex presidente della Cdo bresciana e, fra le altre cose, presidente di Akros, nata in seno all’Opus Dei. Un secondo ruolo di assoluto interesse, quello di direttore delle aree Corporate e Mercato, risulta essere occupato da un secondo esponente di CL, Renato Ravanelli. Oltre a questo, la cordata ciellina detiene anche parecchie posizioni di rilievo all’interno delle banche ed è quindi determinante per l’accesso al credito: lo stesso Tarantini è consigliere della Bpm, commissario della fondazione Cariplo ed azionista di Intesa. L’altra metà della società risulta essere in mano ai fedayin del sindaco Moratti: uomini di particolare risalto sono Rosario Bifulco, vicepresidente del Consiglio di Sorveglianza, già direttore di Lottomatica (da cui ha ricevuto un compenso di 32 milioni per 4 anni di

lavoro) e Giuseppe Sala, ex direttore generale del Comune. In quota Lega possiamo annoverare incarichi relativamente prestigiosi fra cui quello di Bruno Caparini padre di Davide, parlamentare lumbard: in ogni caso non è un mistero che i bossiani stiano spingendo per ottenere una fetta più grossa. Questa lottizzazione terminale è uno dei molti paradossi di A2A: si tratta di una compagnia privata a guida politica, un po’ come le vecchie aziende di Stato ma nel tal caso spartirsi la torta è legale. Con un curriculum simile non sorprende che la compagnia viva perennemente in quella zona grigia esistente fra commesse di Stato, appalti e libero mercato. Alcuni esempi permetteranno di rendere più chiaro il tutto. In primo luogo il nucleare perché, nonostante tutta l’enfasi sulla sostenibilità e le energie rinnovabili, costruire centrali è un’attività assai proficua e di fronte al vil denaro anche le scorie radioattive possono diventare “amiche dell’ambiente”. Del resto, non è un segreto per nessuno la guerra serrata che si sta combattendo per chi fra Edison, Enel e A2A si debba aggiudicare la cascata di denaro legata alla riattivazione del nucleare nel belpaese (al

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTA momento sembrerebbe averla spuntata Enel ma i giochi sono tutt’altro che chiusi). D’altronde le opinioni di A2A sull’atomico sono abbastanza chiare: il direttore del Dipartimento Energia Gilardi ha recentemente affermato che il fotovoltaico è remunerativo solo perché sovvenzionato dallo Stato; in poche parole al progressivo ritiro delle sovvenzioni corrisponderà anche il ritiro di A2A dal suddetto mercato. Per quanto riguarda il nucleare i toni cambiano, infatti Zuccoli, presidente del Consiglio di Gestione, da tempo sostiene la necessità del ritorno al nucleare arrivando anche a chiamare in causa il destino produttivo, la volontà della nazione, nonché il libero mercato, indispensabile grimaldello ideologico per contrastare la posizione dominante di Enel/EDF. Curioso poi il fatto che ci si lamenti dei contributi “verdi” per il fotovoltaico ,dato che buona parte del business di A2A risulta essere finanziato dal sistema dei “certificati

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verdi” e non stiamo parlando di eolico o solare ma dei cari vecchi inceneritori di rifiuti. La storia dei certificati verdi è molto interessante e merita di essere raccontata: nel lontano 1992 il Comitato Interministeriale Prezzi dispose il pagamento di sovrapprezzi sul costo dell’energia elettrica da destinare in seguito, con l’altisonante nome di certificato verde, allo sviluppo di fonti energetiche rinnovabili ed “assimilabili”; tra tali fonti fu a poco a poco ammesso di tutto, dagli scarti di raffinazione del petrolio fino all’incenerimento dei rifiuti. Per renderci conto dell’assurdità, consideriamo che nel solo 2005 circa 4000 milioni di denaro pubblico sono stati destinati al finanziamento delle energie “assimilabili” contro i 1700 milioni dedicati allo sviluppo delle fonti realmente rinnovabili; nel 2004 ASM, una delle genitrici di A2A, ha ricevuto 55 milioni come “certificati verdi”, tanti da potersi permettere annuali donazioni milionarie all’Assessorato all’Ecologia del comune di Brescia, ma abbiamo visto come in questo settore di mercato il conflitto di interesse non sia un eccezione quanto piuttosto, la norma. Questo sarebbe già abbastanza, ma la nostra bolletta dell’energia elettrica non è l’unica sorgente di finanziamento per gli inceneritori in quanto anche parte della Tarsu (tassa sullo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) contribuisce al sovvenzionamento degli stessi. Quindi, l’incenerimento non solo si trova ad essere la soluzione più deleteria per lo smaltimento dei rifiuti con il peggiore equilibrio costi benefici, ma dobbiamo anche pagarne le spese di sviluppo; in pratica corrispondiamo il nostro denaro ad un’azienda privata perché ci fornisca un

servizio che però si scopre essere di qualità inferiore ad altre alternative non sovvenzionate e, per completezza, ci sarebbe da ricordare che se in Italia paghiamo tasse per sostenere i termovalorizzatori, nel resto d’Europa sono i termovalorizzatori a pagare le tasse. Un’altra storia interessante per comprendere i fasti del capitalismo verde in salsa morattiana è quella della Zincar, società di proprietà di Comune (51%) ed A2A (27%) con quote minoritarie in mano a Provincia (12%) e Coldremar Italia (12%). Lo scopo dichiarato di questa società avrebbe dovuto essere quello di sviluppare soluzioni per la circolazione automobilistica a zero emissioni di carbonio e dico “avrebbe dovuto” perché allo stato attuale la società risulta fallita: in perdita dal 2007, nell’aprile 2009 è venuto alla luce un buco nel bilancio di circa 18 milioni di euro che ha poi contribuito al fallimento datato maggio 2009. Per quanto celebrati dalla stampa, gli affari di Zincar non sono mai decollati: al suo attivo ricordiamo l’installazione di una stazione di rifornimento per auto ad idrogeno nel quartiere Bicocca che, se non ci fosse il pericolo di trasformare la farsa in tragedia, potremmo definire l’ennesima cattedrale nel deserto. Quale possibilità, infatti, di veder funzionare quel distributore dal momento che non solo nel nostro paese le automobili ad idrogeno sono considerate illegali e quindi prive del permesso di vendita e circolazione ma anche, soprattutto, i prezzi dell’idrogeno non sono nemmeno lontanamente competitivi con quelli di diesel, benzina e gpl?


SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTA La storia tuttavia non finisce qui, infatti i nostri non si limitavano a produrre carburante per auto inesistenti ma percepivano pure finanziamenti dalla Comunità Europea nell’ambito del progetto Urban II con lo scopo di costruire un “centro per la sicurezza” nella periferia milanese di Quarto Oggiaro, ora destinato a rimanere incompleto. Purtroppo nella città delle “consulenze dorate”, dei Moratti, dei Grossi e degli Abelli, il fallimento di Zincar non suscita nemmeno particolare scalpore, rappresentando piuttosto solo l’ultimo elemento di una serie di società in cui il pubblico paga i conti ed il privato miete i guadagni, con la sostenibilità che giustifica consulenze, studi di fattibilità e progetti che nemmeno si pensa di poter portare in essere; l’importante sembra essere spendere soldi, non certo generare profitto, meno che mai sostenibile e forse solo in questo senso l’esperienza di Zincar è miratamente significativa. Nel 2006 il Comune di Milano rileva la società da Aem che fino ad allora ne aveva detenuto la quota di maggioranza, ma nessuno si preoccupa di controllarne i bilanci; proprio da qui nasce il sospetto che il buco sia precedente al 2006 e che il Comune abbia voluto comprare la società per togliere “la patata bollente” alla municipalizzata che, di lì a poco, avrebbe cominciato il cammino per confluire all’interno di A2A. Ricostruire le spese di Zincar rischia di diventare complesso e poco significativo dal punto di vista teorico ma basandoci sulle note spese ritrovate dalla Guardia di Finanza possiamo ricomporre la fibra morale del capitalismo dal volto verde: 2000 euro per coprire una trasferta di Baldanzi e “ospiti” da Milano a Brindisi, 1500 euro

spesi in “biglietti di Natale”, 180.000 euro investiti in una delle tante consulenze della società pubblicitaria AP&B che vanta fra i suoi soci Massimo Bernardo, fratello dell’assessore regionale Maurizio; si finisce poi nel surreale considerando che Zincar erogava contributi a pioggia per iniziative nemmeno remotamente collegabili con la sostenibilità quali la “valorizzazione delle pietre tradizionali del Verbano Cusio Ossola” (circa 20.000 euro). Se, come esplicato nell’editoriale, il “capitalismo verde” rappresenta gli “abiti nuovi” di un vecchio padrone, quella lombarda si configura come una situazione particolarmente drammatica in cui anche il termine “capitalismo” rischia di essere fuori posto dal momento che non esiste alcun ciclo di reinvestimento ma solo una logica di

appropriazione della cosa pubblica che continua imperterrita dal craxismo fino all’attuale equilibrio ciellino- morattiano- leghista in cui il denaro pubblico viene utilizzato non tanto per costruire alternative sostenibili quanto per finanziare ulteriori sperequazioni, in una chiave più feudale che moderna. L’ultima storia è forse la più preoccupante: parla di acqua, di chi quell’acqua la eroga ( e può rifiutarsi di farlo) e di una città che non è nemmeno quello ma soltanto un’ “area”: Zingonia, presso Bergamo.

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTA

di Francesca Delcarro

C’era una volta Renzo Zingone, noto ed influente banchiere romano che un bel giorno, cavalcando un sogno di evidente megalomania, decise di costruire una città che portasse il suo nome: Zingonia. Zingonia nacque proprio così, nel 1964, come progetto di pianificazione urbanistica privata e ridente archetipo di “città moderna”: sorta nello strategico crocevia logistico tra BergamoMilano-Brescia, sarebbe dovuta diventare un efficiente connubio tra “produzione, residenza e socialità”, con nuove strutture residenziali edificate ad hoc, unità produttive nell’estremo sud dell’area ed infrastrutture per lo sport ed il tempo libero collocate come cuscinetto tra le prime due; un enorme complesso, insomma, destinato ad accogliere 50000 abitanti e circa 1000 unità produttive. I notevoli capitali necessari per la costruzione della sopracitata città modello derivavano tutti dalle molteplici attività economiche del suo fondatore: in quanto presidente del Gruppo Zeta, poteva infatti disporre liberamente dei quattrini derivanti dalla Zingone Strutture (ZS), Zingone Iniziative Fondiarie (ZIF) e dalla Banca Generale di Credito, nate e cresciute durante gli anni ’50 e ’60. Il sogno di una città autonoma e razionale, tuttavia, morì nella metà degli anni Settanta, quando il signor Zingone si tolse improvvisamente di scena per continuare le sue attività imprenditoriali in Costa Rica e Guatemala, investendo i massicci capitali del Gruppo Zeta nell’ agribusinnes e nell’allevamento, accaparrandosi succes-

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sivamente il monopolio del riso in Costa Rica e Nicaragua (dove ne acquisì l’impresa demaniale) e creando la Corporaciòn Megasuper, seconda catena di supermercati in Costa Rica. (Una piccola nota di colore: la signora Donatella Pasquali Zingone, vedova di Zingone, moglie in seconde nozze del senatore Lamberto Dini e presidentessa del Gruppo Zeta dal 1981, nel 2007 è stata condannata a Roma a due anni e quattro mesi di reclusione per bancarotta fraudolenta mediante falso in bilancio a conclusione del processo sulla vicenda del Gruppo Zeta). Zingonia è stata lasciata da sola, quindi e nella più completa schizofrenia amministrativa, dal momento che, in assenza di un governo unitario, si è ritrovata ad essere frazione di cinque comuni diversi (Boltiere, Ciserano, Osio Sotto, Verdello e Verdellino), impegnati nel disinteresse più totale piuttosto che nell’assunzione delle responsabilità verso questa zona abbandonata a se stessa. Attualmente, la popolazione totale dell’area di Zingonia è di circa 1778 abitanti, di cui 1328 (il 74,7%) migranti e sono rimasti soltanto la cadente fontana con l’obelisco spaziale ed il fatiscente Grand Hotel a testimonianza di fasti mai realizzati né vissuti. Zingonia non è un paese e nemmeno una città: è semplicemente “un’area”, nemmeno segnata sulle cartine stradali. Ci sono i tre enormi complessi condominiali “Athena”, gialli e cadenti, che dal momento della loro costruzione non hanno MAI subito un intervento di manutenzione: l’intonaco va sbriciolandosi

in strada, cadono le tegole dai tetti e nessuno se ne cura. Gli abitanti di Zingonia vivono in un duplice ghetto: quello dei comuni limitrofi, che vedono quest’”area” come un cancro, pericoloso ed indesiderabile e quello della malavita organizzata la quale, approfittando della generale indifferenza, opera indisturbata nell’ormai solido racket di spaccio e prostituzione. La polizia staziona tronfia e inutile davanti alla fontana: poco più in là, nella “Piazza Affari”, dimorano pusher e magnaccia ma lì spesso e volentieri le questioni si risolvono a pistolettate nelle gambe ed ecco il motivo per cui i nostri tutori dell’ordine se ne tengono ben lontani. Intorno ai condomini Athena, si sollevano al cielo decine di capannoni e non è un segreto per nessuno: lì dentro c’è lavoro per tutti, in nero ovviamente, perché tanto si sa, con il nuovo DdL Sicurezza che sancisce la clandestinità come “reato grave”, il non avere permesso di soggiorno rende automaticamente “invisibili” e perciò i padroni possono permettersi di speculare a cuor contento sopra le schiene dei migranti. Un pezzo di pane


SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTA

guadagnato senza diritti: ecco cosa rende gli appartamenti Athena così appetibili. Le agenzie immobiliari, gli amministratori ed i padroncini che, di regola, dovrebbero regolare gli affitti, sanno rendersi opportunamente invisibili: le strutture non ricevono manutenzione da anni, sono clamorosamente fatiscenti EPPURE gli affitti sono salatissimi e nessuno fa domande né si preoccupa se, nella stessa stanza, dimorano più di dieci persone. Zingonia, nel 2008, è stata anche appannaggio della campagna elettorale leghista: uno sfortunato corteo verde, nato “per ripulire Zingonia prima che infetti i paesi vicini” è stato pacificamente bloccato dagli stessi migranti, irritati, probabilmente, dallo sconcertante utilizzo del loro disagio nell’ottica di un’insensata speculazione politica. Questo fatto, tuttavia, ebbe notevoli ripercussioni mediatiche: su Zingonia si espressero addirittura da Montecitorio e tutto ciò che ottenne questa “indignazione d’alto bordo” furono una serie di tremende retate nei comprensori (più di cento i carabinieri impegnati volta per volta, provenienti dai comandi di Bergamo, Zogno, Treviglio e Milano) che null’altro conclusero se non la reclusione di qualche irregolare (ricordiamoci la Bossi-Fini…) nei Centri di Per-

manenza Temporanea di Milano e Gorizia. Gli spacciatori e i malavitosi, lo dicono gli stessi abitanti, non sono così sprovveduti da abitare in quei palazzi, così fatiscenti e ciclicamente nell’occhio del ciclone mediatico: se ne tengono ben lontani, dribblando opportunamente le periodiche retate. Si era parlato, sapete, dopo tutto questo assurdo clamore, della possibilità, per Zingonia, di entrare in un “Contratto di Quartiere”, stipulato tra la Regione Lombardia, gli assessorati dei comuni limitrofi e fortemente caldeggiato dall’ultraleghista presidente della Provincia bergamasca, Pietro Pirovano. Si parlava di “fondi trovati tra le pieghe del bilancio”, di “necessaria riqualificazione” e “nuove strutture”. Peccato però che il progetto sia stato giudicato in sintesi “troppo complesso”: forse perché, oltre alla demolizione di immobili, prevedeva anche la costruzione di centri d’integrazione, di strutture popolari con affitti calmierati e di accompagnamento all’affitto per quegli inquilini rimasti senza casa in seguito alle riqualificazioni. Per salvare faccia ed apparenza, quindi, la Regione Lombardia ha ben pensato di inserire Zingonia nei progetti FAS (Fondo Aree Sottosviluppate), snellendo gli obiettivi: i comprensori

Athena saranno rasi al suolo, verranno ampliate le aree commerciali e nessun accenno a futuri propositi di edilizia popolare: gli alloggi ad affitto calmierato non saranno edificabili “poiché si assisterebbe ad una perpetuazione del problema”. Ma la vera perpetuazione del problema è un’altra, ben nascosta sotto l’ennesima facciata dei buoni propositi: LA SPECULAZIONE. Vi dice nulla il nome di Grossi, braccio della Compagnia delle Opere nonché costola economica di Comunione e Liberazione? Ecco, parte del futuro cemento che annegherà quest’ ”area”, sarebbe dovuto arrivare proprio dalle sue betoniere, se solo non l’avessero arrestato negli ultimi mesi del 2009 per frode fiscale ed appropriazione indebita. Che strano. Nessun accenno, ovviamente, agli abitanti, racchiusi senza distinzione sotto lo stemma di “problema” e alla meglio ritenuti come branco indifferenziato di spacciatori e criminali. Nessuno si è scandalizzato, infatti, dopo aver letto sui giornali che il giorno 3 dicembre 2009 è stato effettuato il taglio dell’acqua per morosità ai complessi Athena 2 e 3 (l’1 si è salvato grazie ad una fortuita colletta tra i condomini), dove tra l’altro si vive senza riscaldamento da anni. Nessuno si è preoccupato del fatto che, in realtà, molti condomini fossero effettivamente in regola con i pagamenti ed i debiti derivassero dalle morosità pregresse degli inquilini precedenti. Nessuno ha fatto caso alle svariate famiglie appena arrivate, disorientate e confuse e senza acqua nel rubinetto. Nessuno si è interessato ai destini dei bambini residenti, senza acqua calda: due tubi, posizionati all’esterno del complesso in pieno inverno e la tranquillità del dovere compiuto (“non avevano pagato le bollette”), hanno tranquillizzato numerose, troppe coscienze.

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INCHIESTA La reazione degli abitanti, comunque, non si è fatta attendere: un folto gruppo di persone ha occupato la strada statale Francesca, al grido di “Acqua e diritti per tutti!”, bloccando il traffico nell’ora di punta ed obbligando il sindaco del Comune di Ciserano a programmare un incontro tra i rappresentanti dei condomini senz’acqua ed i portavoce della BAS, società che fornisce l’acqua, facente parte del gruppo A2A. Il rimborso complessivo richiesto dalla società è altissimo ed ammonta a 400000 euro. Dopo giorni di estenuanti trattative, si è giunti ad un accordo: ciascun comprensorio dovrà versare subito una quota parte di 2500 euro e poi ciascun condomino si vedrà arrivare a casa, oltre alla bolletta consueta, un bollettino per il versamento della rata per il rientro del debito (circa 125 euro al mese in più per appartamento oltre al normale pagamento per il consumo dell’acqua). Tutta questa trafila, tremendamente burocratica, è comunque an-

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cora dagli esiti incerti: se gli inquilini prossimamente non rispetteranno il “Piano di Rientro”, resteranno un’altra volta all’asciutto, l’attenzione è al massimo livello.

disastroso marciume malamente nascosto dietro l’Articolo 15 del Decreto Ronchi: l’esclusione sociale. Verranno infatti attaccati gli ultimi, i più deboli, i più fragili, coloro che non potranno permetterselo, coloro che verC’era una volta Linda Davis, ranno addirittura colpevolizzati ventitré anni. “C’era una vol- poiché poveri. ta”, perché adesso non c’è più: è morta il 22 dicembre 2009 C’era una volta Renzo Zingone , in uno degli sbriciolati apparta- c’era una volta Linda Davis e c’è, menti del complesso Athena, in- ancora, Zingonia, solcata da tuttossicata dal monossido di car- te quelle cicatrici che ricordano, bonio prodotto dal braciere che irrimediabilmente spesso, ciò utilizzava per scaldarsi in quelle che di peggio caratteristico c’è stanze gelate, senza riscalda- in Italia: speculazione, assenmento per i debiti accumulati za d’integrazione, mancanza di negli anni. pianificazione, sviluppo induA2A, come un macigno duran- striale incontrollato. Sopra te una frana, è inesorabilmente tutto ciò, come una soffocante passata sopra tutto: a Linda, coltre di nebbia, ecco a voi l’Inalle difficili condizioni economi- differenza a far da padrona: il che delle famiglie di Zingonia, sentimento odioso del Cittadialla problematica situazione no Bene che non sa vedere oltre dell’area stessa, a coloro che, al una bolletta non pagata. grido di “ACQUA! ACQUA!”, in- cominciato, cocciuta, a bussare. vocavano i propri diritti seduti in mezzo ad una strada. Ed eccola qui, la vera faccia della priLeggi l’aggiornamento su vatizzazione dell’acqua, il vero sottotraccia.tk


SPECIALE GREEN ECONOMY - APPROFONDIMENTO

Biocarburanti: Sì, ma con cautela di Cosimo De Monticelli

“L’uso di oli vegetali per il carburante dei motori può sembrare insignificante oggi, ma tali oli possono diventare, nel corso del tempo, importanti quanto i derivati dal petrolio e dal carbone dei nostri giorni” - Rudolf Diesel, 1912. Solo ora, dopo 70 anni di dominazione dei combustibili fossili, si ritorna a parlare di biocarburanti, i combustibili gassosi o liquidi ricavati da materiale vegetale, e quindi da fonti rinnovabili, che, al contrario del GPL o del GNC, sono perfettamente compatibili con gli attuali sistemi di utilizzo (dall’autotrazione al riscaldamento) e miscelabili con i normali carburanti ad oggi maggiormente utilizzati. Due sono le principali tipologie: il biodiesel e il bioetanolo. Il primo deriva da oli vegetali, il secondo dalla fermentazione di colture zuccherine. I loro effetti benefici sull’ambiente si misurano in una riduzione dei gas serra dal 40% al 100% per quanto riguarda il bioetanolo rispetto alla benzina; e fino al 70% per quanto riguarda il biodiesel rispetto al diesel. Non contribuirebbero, quindi, all’incremento dell’effetto serra, in quanto rilasciano nell’aria solo la quantità di anidride carbonica utilizzata dalla pianta durante la sua crescita, e diminuirebbero notevolmente l’emissione di monossido di carbonio e di idrocarburi incombusti. La loro produzione, ancora molto bassa (in testa Stati Uniti e Brasile), sale ogni anno anche grazie a politiche di incentivi attuate da molti Paesi. Un importante fattore che potrebbe contribuire al successo di questi combustibili è, infatti, la volontà politica dell’Eu-

ropa e degli USA di rendersi il più possibile indipendenti dal petrolio del Medio Oriente e dal gas naturale russo. Fu questa la ragione che spinse l’allora presidente americano Bush ad attuare una politica di forti incentivi (7 miliardi di dollari l’anno) volta all’incremento della produzione di etanolo da granoturco (136 miliardi di litri nel 2022). Aree sempre più vaste, una volta destinate alla produzione alimentare, sono state quindi destinate alla produzione di mais. Ma è proprio questo il “crimine contro l’umanità” di cui parlò, nel 2007, Jean Ziegler, inviato speciale dell’ONU per il diritto al cibo. Il boom dell’etanolo ha infatti notevolmente contribuito all’impennata dei prezzi agricoli. Per ovviare a queste problematiche iniziano a prendere piede i cosiddetti biocarburanti di seconda generazione, ricavati da materiale lignocellulosico, la parte “no food” della pianta. Il processo di conversione è però

molto complesso e costoso, cosa che potrebbe vanificare i benefici ottenuti. Ma quanto effettivamente questi biocombustibili gioverebbero all’ambiente in termini di riduzione di gas serra, e in particolare di CO2? Una previsione completa dei costi sia economici sia energetici (e quindi anche in termini di emissioni di gas serra) deve infatti prendere in considerazione, oltre all’impatto dell’etanolo al momento dell’utilizzo, anche gli effetti della produzione su larga scala della biomassa: dall’uso massiccio di fertilizzanti alla conversione di nuovi vasti appezzamenti di terra in terreni agricoli. La rimozione di foreste o praterie causerebbe il rilascio, per combustione o decomposizione, del carbonio fissato durante la loro crescita, per di più se l’area convertita aveva alti valori di fissazione del carbonio, le emissioni di CO2 dovute alla conversione dei terreni possono essere notevoli. Altri effetti di un’intensa agricoltura sono un aumento dell’erosione del suolo, il suo impoverimento, l’inquinamento delle acque e un declino della biodiversità. Oggi sta prendendo piede sempre più velocemente una nuova generazione di biocarburanti: quelli derivati da microalghe. Queste potrebbero rappresentare un’interessante alternativa alle specie terrestri, grazie alla produttività notevolmente maggiore e al fatto che non sottrarrebbero terreni e acqua alle normali coltivazioni, evitando quindi una pericolosa competizione con la produzione di cibo per uomini e animali da allevamento.

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INTERVISTA

SOTTOTRACCIA intervista Luca De Angeli, consulente strategico nel mercato dell’energia di Cosimo De Monticelli, Umberto Bettarini e Anna Giulia Ferrario L’Italia, già paese firmatario della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici, ha ratificato il Protocollo di Kyoto con legge 1 giugno 2002, n.120. L’impegno è quello di ridurre le emissioni ad effetto serra del 6,5% rispetto ai valori del 1990, nel periodo 20082012. Le politiche nazionali in materia mirano, però, non tanto a ridurre effettivamente tali emissioni sul territorio nazionale - che sono, al contrario, aumentate del 7,1% nel 2007 rispetto all’anno di riferimento - ma a sfruttare il più possibile i cosiddetti meccanismi flessibili previsti dal Protocollo. Questi meccanismi consentono di comprare crediti di emissione da chi non inquina, o inquina meno, e in particolare dai Paesi in via di sviluppo (tra l’altro non sottoposti a obblighi di riduzione delle

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emissioni).

tradizionali e molto inquinanti centrali a carbone e a petrolio si sono affiancate, infatti, centrali a gas naturale, come il metano, e centrali ad energia rinnovabile (che non necessariamente è “verde”), come l’eolico e il fotovoltaico. Queste ultime sono sempre più importanti dato che viviamo in un mondo dalle risorse non illimitate.

Tale bislacco mercato delle emissioni è in uso non solo tra le varie nazioni, ma anche tra singole aziende, per mezzo dei c.d. certificati verdi. Cosa esattamente essi siano e in che modo viene incentivata la produzione di energia “pulita” nel nostro paese lo chiediamo a Luca De Angeli, consulente strategico nel mercato dell’energia. Quindi, diceva, vi è una differenza tra energia rinnoMa partiamo dal principio: vabile ed energia verde? com’è strutturato il sistema produttivo dell’energia in Certamente: le energie rinnovaItalia? bili sono generate da fonti che per le loro proprietà si rigeneraDunque, tre sono le fasi che lo no o non sono “esauribili” nella compongono: la generazione scala dei tempi umani, mentre di energia elettrica, la sua tra- le energie verdi sono caratterizsmissione attraverso reti ad alta zate da un basso impatto amtensione, e la sua distribuzione, bientale. Non sempre una cosa a bassa intensità, ai singoli con- implica l’altra. sumatori. Il mercato del gas segue una struttura simile. Nel 1999, a seguito di una direttiva europea, il decreQuali sono i principali me- to Bersani ha liberalizzatodi di produzione di ener- to il mercato dell’energia. gia? Cos’è cambiato nella gestione della produzione enerSe fino al secolo scorso l’energia getica? era prodotta unicamente dalla combustione del carbone, oggi Prima del 1999 il mercato il petrolio, a fronte del suo più dell’energia era nazionalizzato. elevato rendimento energetico, Gli attori presenti sul mercato ne ha soppiantato l’uso. Solo erano l’Enel, che deteneva il 90% recentemente, l’esaurirsi delle del mercato, alcuni produttori risorse petrolifere e la sempre indipendenti (tra cui Edison), crescente emergenza ambien- e alcune aziende municipaliztale hanno aperto la strada a zate, come la ASM di Brescia e nuove fonti energetiche. Alle l’AEM di Milano (che adesso si


SPECIALE GREEN ECONOMY - INTERVISTA

sono unite in a2a). Anche la trasmissione e la distribuzione erano affidate al 90% all’Enel. Per liberalizzare un mercato come questo, in cui la rete è una sola, si è dovuto separare la proprietà della rete dai produttori: ognuno può produrre e vendere a chi vuole e la rete diventa un operatore indipendente (pubblico con partecipazione di Enel). Stessa cosa è avvenuta per il gas. Inoltre, dato che centrali nuove non si costruiscono in tempo zero, Enel è stata obbligata a vendere 5 grosse centrali di energia elettrica. Nonostante in un primo periodo siano sorte nuove aziende del settore, oggi vediamo fenomeni di riaggregazione, come il caso di a2a, che di fatto lasciano il mercato nelle mani di pochi soggetti.

lazione dei pannelli fotovoltaici. A beneficiarne, però, non sono state le aziende già operanti nel campo energetico, ma principalmente tante altre piccole e medie imprese non del settore, che in questo modo hanno potuto installare pannelli fotovoltaici per proprio uso. Esistono poi i certificati verdi… Ecco… cosa sono i certificati verdi?

Sono delle forme di incentivazione per la produzione di energia rinnovabile da parte di ogni singola azienda, che funzionano attraverso il rilascio di titoli. Inizialmente riguardavano anche la produzione di energia attraverso le cosiddette “fonti assimilabili” (come il trattamento dei rifiuti). Successivamente Esistono degli incentivi per questa distorsione è stata elimicostruire nuove centrali ad nata. energia rinnovabile sfruttando lo spazio aperto dalle Può spiegare meglio come liberalizzazioni? funziona, di fatto, il meccanismo dei certificati verdi? Sì, il principale è il conto energia, un finanziamento a fondo Dunque, va premesso che, con perduto che può arrivare a co- la liberalizzazione del settore, prire il 50% del costo di instal- per rispondere alle esigenze di

un mercato con più attori, si è creata una borsa dell’energia elettrica: ogni operatore compra o vende quote di energia a seconda della sua curva di domanda. La legislazione vigente prevede, inoltre, che ogni azienda del settore elettrico debba produrre una certa percentuale di energia attraverso fonti rinnovabili. Tutto ciò ha dato vita ad una compravendita di certificati verdi. In pratica, chi produce energia da fonti rinnovabili in eccedenza rispetto alla quota prevista per legge, cioè possiede diversi certificati verdi, può vendere sul mercato una parte di essi ad altre aziende che, invece, sono al di sotto di tale quota. In linea teorica questo sistema incentiva i possessori di certificati verdi a continuare ad investire nel rinnovabile per ottenerne sempre di nuovi da vendere, dall’altro lato chi produce attraverso fonti inquinanti è incoraggiato, per non dover più comprare certificati, a costruire centrali pulite. In realtà, dato che l’intero sistema della green energy si basa su decisioni puramente economi-

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SPECIALE GREEN ECONOMY - INTERVISTA

che, entrano in gioco anche altre ta dalla politica. scelte aziendali nella decisione di investire o meno nel “verde”. Un’ultima domanda. In questa nostra chiacchieraIn questo sistema liberaliz- ta abbiamo parlato esclusizato chi controlla il rispetto vamente di grandi centrali delle normative? elettriche. Non crede che sia possibile concepire un Da una parte l’antitrust attua modello di produzione eletun controllo su eventuali au- trica sempre più decentramenti ingiustificati dei prezzi e to e con centrali che via via garantisce la libera concorren- siano sempre più piccole? za; dall’altra parte l’authority per l’energia elettrica verifica il rispetto delle normative sulla produzione. Essa ha però poteri coercitivi molto bassi. Infatti, oltre a segnalare eventuali violazioni, può unicamente infliggere multe, le quali, oltre ad avere tempi di applicazione molto lunghi, hanno un impatto economico piuttosto lieve sulle aziende per costituire un deterrente davvero efficace.

Sì, io penso che in futuro si debba andare verso questa direzione. Diciamo che le basi per questo progresso ci sono già. Il conto energia, ad esempio, permette la costruzione di piccoli apparecchi fotovoltaici praticamente dimezzandone i costi d’installazione. Per comprendere questo processo possiamo prendere ad esempio quello che è accaduto all’informatica: da una serie di enormi macchinari si è passato con gli anni ad avere strutture a rete con unità periferiche piccolissime collegate ad un server centrale. Nell’energia elettrica, possiamo raggiungere risultati simili se concepiamo il sistema come una grossa rete, in cui piccole unità autoproducono il loro fabbisogno medio di energia e si rivolgono alla rete per recuperare energia durante i loro picchi di consumo. Questo sarebbe decisivo per la diffusione di fonti di energia rinnovabile e aiuterebbe anche a togliere una grossa fetta di potere alle grandissime imprese del settore che operano spesso in regimi di fatto oligopolistici.

Da chi è composta questa authority? In gran parte è composta da personale tecnico, e diciamo che, salvo alcuni personaggi legati al mondo delle grandi aziende del settore, è abbastanza autonoma dal mondo della produzione energetica. L’unico problema è che essa è fortemente influenza-

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Il picco di Hubbert è una stima sul punto massimo di produzione del petrolio elaborata a partire dalle teorie del geofisico M. K. Hubbert. Esaminando la quantità di greggio raffinato negli Stati Uniti nel 1956, l’analisi di Hubbert si è rivelata fondata; ripartendo dai suoi studi, diversi scienziati hanno cercato di stimare il picco di Hubbert mondiale, individuandolo tra il 2006 e il 2020 a seconda degli studi e dei calcoli eseguiti.


SPECIALE GREEN ECONOMY - MOVIMENTI

La sfida della Decrescita di Carlo Bedoni

Uno dei fondamenti dell’economia (anzi, ciò che ne giustifica l’esistenza stessa) è l’ineluttabile e inconfutabile limitatezza delle risorse. Questo è stato uno dei filoni su cui si è sviluppata la storia dell’uomo: per avere più risorse si è combattuto, conquistato, colonizzato. Nell’ultimo secolo, soprattutto grazie alla diffusione dell’industria, il consumo di risorse naturali (e la produzione di rifiuti) è aumentato in maniera esponenziale, tanto da farci iniziare a pensare al rischio del totale esaurimento delle risorse. Già nel 1956 il geofisico Hubbert aveva previsto un picco della produzione del petrolio (vedi box pag.22) ma questo problema fu reso noto a tutti dal Rapporto sui limiti dello sviluppo compilato nel 1972 da una squadra di esperti del Mit guidata da Donatella Meadows e aggiornato nel 1992 e nel 2004. Grazie all’uso di simulazioni informatiche, gli autori del rapporto giungono alla conclusione che se l’attuale tasso di crescita della popolazione, dell’industrializzazione, dell’inquinamento, della produzione di cibo e dello sfruttamento delle risorse continuerà inalterato, i limiti dello sviluppo su questo pianeta saranno raggiunti in un momento imprecisato entro i prossimi cento anni. Gli aggiornamenti successivi hanno confermato le previsioni sull’esaurimento imminente, introducendo anche il concetto di impronta ecologica: un indice statistico usato per misurare quanti pianeti servirebbero per sostenere l’umanità qualora tutti seguissero un dato stile di vita. Un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un europeo 4,5 mentre la media terrestre è di 1,8. Inoltre l’uma-

nità sta usando il 120% della biosfera, incidendo anche sulla rigenerazione delle risorse rinnovabili. Ma oltre al problema ecologico esiste anche un problema sociale: il quinto più ricco della popolazione mondiale detiene l’86 % del Pil contro l’1% del quinto più povero. Appare dunque ovvio che lo sviluppo fine a se stesso che abbiamo conosciuto finora non è né giusto né salutare. Occorre sin da ora cominciare a lavorare ad un modello alternativo prima di dover essere costretti dalle circostanze a farlo in fretta e male. Ma come? Esiste un movimento, il movimento della decrescita, che prova a dare una risposta partendo dalle teorie dell’economista francese Serge Latouche il quale, iniziando dall’osservazione dei popoli africani, propone una “decrescita conviviale” in cui le relazioni sociali acquistino predominanza sulle leggi economiche. Il programma si può sintetizzare in pochi punti: rivalutare, cioè rivedere i valori in cui crediamo e vedere cosa dovrebbe avere più spazio avviando una riforma culturale e sociale che si rispecchi anche in campo economico; rilocalizzare, cioè spostare i consumi e la produzione in area locale (il cosidetto “chilometro

zero”) in modo da evitare i costi ambientali ed economici del trasporto di beni; riduzione, cioè diminuzione dei consumi e della produzione e infine riutilizzare e riciclare in modo da ridurre ulteriormente la produzione e il peso ambientale. Gli interrogativi che la proposta della decrescita si trova ad affrontare sono chiaramente difficili: riusciranno i paesi occidentali a diminuire spontaneamente il proprio tenore di vita? e i paesi in via di sviluppo, che si stanno affacciando ora al consumo di massa, saranno disposti a rinunciare al benessere appena acquisito? Quasi sicuramente le forze di mercato non riusciranno a evitare il collasso da sole, anzi peggioreranno la situazione. Bisogna infatti che esse siano accompagnate da una nuova visione socio-culturale oltre che normativa, una società in cui il mercato sia più mediato e non abbia un peso eccessivo sulla società e sull’ambiente è necessaria per evitare che le disuguaglianze economiche e le emergenze ambientali non si aggravino ulteriormente, anche se questo comporterà sacrifici, probabilmente di lunga durata, per tutti. E’ questa la sfida del futuro.

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SPECIALE GREEN ECONOMY - MOVIMENTI

Cop 15: abbandonate ogni speranza voi che entrate! di A.

Cop15, o, per esteso, quindicesima conferenza delle parti. Tanto per essere chiari: le “parti” sono le nazioni aderenti all’O.N.U. e la conferenza, tenutasi in quel di Copenhagen tra il 9 e il 18 dicembre 2009, si preannunciava come l’appuntamento più atteso di sempre sul tema della lotta ai cambiamenti climatici. Sotto il profilo narrativo sarebbe elegante affermare che Cop15 non ha tradito le aspettative di quanti credevano nella possibilità di una svolta green dell’economia globale: la favola della green economy (malcelata dal paravento della responsabilità sociale d’impresa) l’abbiamo già conosciuta, e a dirla tutta puzza di grande presa per il culo. In tempi di crisi non solo finanziaria ma innanzitutto energetica, alimentare e climatica, chi vive sperando muore...non c’è Hopenhagen che tenga. A distanza di poche settimane il bilancio sul tanto atteso accordo post­Kyoto è unanime e scoraggiante: Copenhagen si è rivelata un fallimento di grande impatto mediatico. La prima sfida della carovana milanese di VersusCop15, raggiungere il suolo nordico bypassando il richiamo dei seducenti voli low­cost, è vinta dopo venti

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ore di pullman attraverso una Germania fredda, ventosa e costellata di pale eoliche. Il mito della Comunità Europea s’infrange ad ogni posto di blocco: in occasione di grandi vertici, e si presume di grandi decisioni, il trattato di Schengen viene sospeso...ed ogni frontiera vale un paio di sospiri, ogni passaggio segna una tappa di avvicinamento al controvertice. Altri attivisti hanno raggiunto la città con pullmini, in aereo o con semplici passaggi in macchina, solo quelli italiani sono oltre quattrocento e in moltissimi sono alloggiati a Ragnildgade, complesso industriale oggi in disuso, nella periferia a nord di Nørrebro.

altri paesi europei erano tutti puntati sulla farsa di un vertice conclusosi settimane prima del suo inizio (si pensi al G2 USA­ Cina), nell’Italia di White Christmas è bastata una statuetta di marmo a distogliere l’attenzione dei media dalla risoluzione delle grandi sfide che ci attendono tutti. In parecchi guardavano alle giornate di dicembre come ad una grande occasione costituente per i movimenti promotori di una critica anti­sistemica, ecologista ed emergente dal basso. Di sicuro, nell’esperienza di chi ha vissuto quei giorni, resta la sensazione di aver contribuito a riscaldare la fredda Copenhagen ed il piacere di aver svelato alle telecamere di tutto il mondo puntate sulla città l’incapacità delle grandi potenze mondiali e l’irresponsabilità delle lobby affaristiche che le manovrano. Se con la giusta vernice si può dipingere di verde uno sporco affare come con una superficie da celare, con il giusto solvente ed una buona raspa se ne può svelare la natura più cruda ed autentica. Ora che tutto è messo a nudo non occorre che mettersi in cerca.

La spinta propulsiva che ha portato alla delegittimazione del forum è un obiettivo rilevante e, in buona misura, raggiunto. La spinta propulsiva dei movimenti intervenuti a Copenhagen, caratterizzata da azioni pink e di disobbedienza civile diffusa così come dall’azione diretta e da atti di blando sabotaggio, s’infrange però nel confronto con una gestione di piazza inquietante ed una cittadinanza danese spesso sopita. Se è vero che c’è del marcio in Danimarca, è anche Articolo completo consultabile su vero che mentre i riflettori degli sottotraccia.tk


In direzione ostinata e contraria

Rubrica di arte di strada

di Marzio Balzarini

Con eccessiva frequenza i media e le autorità attaccano gli artisti di strada utilizzando espressioni come “graffitari” (se va bene), “imbratta-muri”, “vandali”, senza però sapere in realtà di cosa stanno parlando... Questa rubrica si propone di avvicinarvi al complesso mondo dei graffiti e più in generale dell’arte di strada, focalizzando la vostra attenzione su questi esteti oltremodo bistrattati e sulla loro produzione artistica. Nello scorso numero ho scritto un’introduzione molto generale, ora però, prima di entrare nel cuore della produzione artistica , volevo proporvi degli spunti di riflessione. Chi sono i vandali?! Quando parliamo dobbiamo fare molta attenzione ai termini che usiamo e in particolare al loro corretto significato. Appunto per questo vorrei soffermare la nostra attenzione sulla definizione della parola vandalo : “Chi, per ignoranza, inciviltà o puro gusto della violenza, distrugge senza motivo beni appartenenti al patrimonio artistico o culturale”. Il van-

dalo distrugge mentre l’artista crea. Quindi chiunque tacci gli artisti di strada di vandalismo è un ignorante, ma non è tutto perché il vandalo distrugge proprio l’arte, perciò i vandali sono i comuni, i privati, le direzioni di Trenitalia e Lenord che fanno scomparire sistematicamente le opere dei writer. Si potrebbe sollevare come obiezione che la loro non sia arte o che non tutti i graffitari siano artisti, ma su quale scala di valutazione possiamo distinguere l’arte da tutto il resto? Inoltre, come la storia ci insegna, le nuove correnti sono sempre state svalutate, basti pensare all’impressionismo per averne una dimostrazione. Eppure ora i quadri dei vari pittori impressionisti occupano musei e gallerie. Ma la storia è noiosa quindi non studiamola (Mussolini? Un grande statista!). Forse è anche per questo che varie personalità continuano a parlare di degrado urbano riferendosi principalmente a murales e volantini (l’attacchinaggio, ossia la realizzazione di poster e la loro affissione per strada, è un’altra espressione della street art) usando inoltre due pesi e due misure dato che le scritte politiche non provocano degrado e i manifesti politici appiccicati in aree non riservate a loro non vanno incontro a provvedimenti. Perché poi un po’ di colore e non lo smog sui palazzi, la ruggine sulle saracinesche o i muri scrostati debba essere definito degrado urbano non si capisce. I

murales coprono tutto questo, donano vita alla città, non importa se siano belli o brutti, se sia il tentativo di un artista alle prime armi o un capolavoro di Basquiat, perché ci fanno alzare la testa mentre camminiamo seguendo un marciapiede. Insomma... danno un tono all’ambiente! Come ogni forma d’arte scatenano in noi pensieri ed emozioni perciò perché cancellarli? Ciò che degrada davvero una città come Milano è trovare un McDonald’s in galleria, vedere il Duomo circondato da pubblicità che, invece di ravvivare la nostra anima, mandano un messaggio uguale a tutti stereotipandoci sempre più. Ancora una volta i vandali sono le Istituzioni. Forse dovremmo imparare ad apprezzare di più queste forme di arte che possono animare le città, anche perché sempre storia ci insegna che la repressione non funziona e i costi diventano sempre più insostenibili. Trenitalia non fa sconti per gli studenti, offre un servizio pietoso che assicura solo ritardi, sedili sporchi e vagoni freddi ma in compenso provvede il prima possibile a cancellare i dipinti sull’esterno dei vagoni, facendo riapparire alla nostra vista le loro carrozzerie rugginose, fatiscenti e pallide. Io sogno un paese in cui i muri siano di chi li vuole colorare, i treni vengano affidati alle mani di artisti perché li rendano degli sfreccianti serpenti colorati e il rispetto per qualsiasi forma d’arte venga concepito da tutti come la base di una coesistenza pacifica. Rifiutiamo le campagne di odio verso l’arte promosse dalle Istituzioni!

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Rubrica poetica “Do it Yourself”, ovvero come la Poesia possa tranquillamente andare oltre l’endecasillabo

Essere poesia a Milano #1

di Francesca Delcarro “Sono/ molto/ irrequieta/ quando/ mi legano/ allo spazio.” (Alda Merini, “La poesia”) Alda Merini nasce insieme alla primavera del millenovecentotrentuno. Nessun poeta, sapete, ha fede nel Caso, proprio perché all’interno della casualità avviene la sua realizzazione più profonda e allora, forse, si potrebbe andare oltre la sterile stampigliatura in nero sulla carta d’identità dell’Alda, ventuno Marzo, e vedere in questa data una premonizione, un segno o quant’altro di simile possa esistere. Nell’universo mondo ci sono alcune personalità che nel loro essere hanno già implicita la capacità unica di sconvolgere menti e cose: l’Alda era una di queste, indiscutibilmente, forse ancor prima di nascere. Al civico quarantasette della Ripa di Porta Ticinese, la targhetta sul citofono porta il nome di “Merini Carniti”. Si poteva suonare all’ora che si desiderava e allora una voce vetrosa ar-

rivava a tagliare l’interfono con queste semplici parole: “Non volete farmi del male, vero?” e poi il suono metallico e sordo della portineria che si apriva. Dentro, un labirinto di libri e di macchine da scrivere, scatolette di tonno vuote tra le coltri di un letto polveroso utilizzato come tavolo da pranzo. L’Alda è stata definita “la più grande poetessa vivente”, proprio lei che nelle mezzesere d’estate si aggirava per Ticinese trascinandosi dentro stracci penzolanti, con gli orecchini spaiati e gettando intorno lunghe occhiate di ombra verde. La Poesia personificata respirava forte dentro quel corpo appesantito dagli anni e dalla follia, dentro quelle mani da zingara, con le unghie laccate male ed ingiallite dal fumo, dentro quei foglietti stropicciati di blu, senza le “a” perché la macchina da scrivere non funzionava, appun-

ti di poesia viscerale che spesso lasciava dietro di sé senza curarsene. Ed era proprio la Poesia vera, così sincera, meravigliosa e marcia perché umana troppo umana, ad abitare in Ripa al civico quarantasette, quella Poesia naturale e spontanea e incontrollabile come un sospiro, una parola fuori luogo, una figuraccia, un innamoramento. Alda Merini è stata un verso d’Amore, bipolare e contraddittoria e magnifica nel suo contrasto: ora sorridente e primaverile come l’aspettativa per il primo appuntamento e subito dopo dolorosamente contratta nella mancanza dell’abbandono, nell’angoscia di un’assenza “bollente ed insopportabile come le falangi immaginarie di un arto amputato”.

Voltiamo pagina -non troppo bruscamente per cortesia- e torniamo a noi. In questo numero pubblichiamo un’opera di AnTonomasia, “scorbutico ingegnere che non sa parlare ed esprimersi con altri”. Mi ha particolarmente colpita in quanto racconta la nascita immediata di una sensazione poetica: il sole che colpisce di sbieco il vetro di una finestra diventa, per l’autore, “canto di sirene” e subito dopo “poesia” come memoria indelebile di valori volatili.

Lo spunto Soleggia, sul riflesso del finestra, ivi nell’oscurità della perizia trovai ispirazioni sciarpeggianti. Tale genio, IO, lasciati archetipi di insolità, rinunciai a ricordo, ma solo ne apprezzai momento. Persi la musica sirenea di dolce verso e pensiero per unica volta senza mai più riascoltarla. È ancor più prezioso magno, il pregio della mia bianca finestra.

Questa rubrica appartiene a chi ci scrive, perciò inviate le vostre opere a:

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tappetoletterario@libero.it


Cosa si muove nelle facoltà e nelle accademie? SCIENZE POLITICHE

ACCADEMIA DI BRERA

Via Conservatorio 7 Collettivo Fuori Controllo attività: osservatorio sull’università, sindacalismo studentesco, antifascismo, iniziative su questioni di genere, tematiche del lavoro ed ecologia. ritrovo: mercoledì/giovedì alle 10 in cortile blog: fuoricontrollo.tk fuoricontrollo.spo@gmail.com

Via Brera 28 e viale Marche 71 Collettivo Aut Art attività: Sviluppo di progetti che valorizzano l’autonomia della espressività, distaccata dai meccanismi arte-mercato. Autoformazione nell’autoproduzione e sperimentazione in internet. ritrovo: martedì alle 12 in aula 21 sito: autart.net mail: autart@gmail.com

Uninversi attività: osservatorio sulle patologie delle università milanesi ritrovo: ogni giovedì alle 12.30 in atrio alla bacheca sito: uninversi.org mail: uninversi@inventati.org

Laboratorio Progettuale degli Studenti Universitari di Storia (LAPSUS) attività: iniziative di approfondimento di storia contemporanea con l’ausilio delle nuove tecnologie ritrovo: ogni giovedì alle 14.30 in auletta A sito: laboratorio lapsus.it mail: info@laboratoriolapsus.it

MEDIAZIONE CULTURALE

Polo di Sesto S.G. Collettivo No Pasaran attività: antirazzismo, autoformazione. ritrovo: ogni martedì 10.30 in auletta blog: collettivonopasaran.blogspot.com mail: collettivonopasaran@gmail.com

SEDE DI VIA FESTA DEL PERDONO

CITTA STUDI

Veterinaria Con-Testa attività: rappresentanza studentesca, si preoccupa di fornire trasparenza d’informazione tra le parti, in modo tale da permettere a ciascuno studente di essere “parte attiva” nella vita accademica, per avere diritto di giudizio e di opinione sull’utilizzo delle risorse da I Chimici Reagiscono parte della facoltà. attività: rappresentanza studen- S-tralci, periodico autoprodot- ritrovo : ora di pranzo, quasi tutti i tesca, partecipa alle mobilitazioni to di Agraria giorni, ai gazebos della facoltà, via in difesa dell’università ritrovo: tutti i giovedi` alle 15 in Au- Celoria 10 sito e forum: unimichimica.com letta 3, Facoltà di Agraria forum : chimicireagiscono@gmail.com mail: redazionestralci@gmail.com veterinariacontesta.4rumer.com Collettivo di Città Studi attività: sociale - politica -culturale, autoformazione, serate, mobilitazioni ritrovo: ogni martedì ore 17:30 in patio di Architettura blog: cittastudi.noblogs.org mail: retazione@libero.it

Le cellule compagne attività: Festa di Primavera, rappresentanza studentesca, progetto di una Copisteria degli Studenti e bike sharing ad Agraria. blog: lecellulecompagne.splinder. com mail: lecellulecompagne@autistici. org

GayStatale attività: aggregazione e socializzazione della comunità Glbt universitaria, promozione di attività culturali e politiche per sensibilizzare l'ambito universitario ritrovo: settimanale blog: gaystatale.blogspot.com, it.groups.yahoo.com/group/gaystatale

Salvare formazione, ricerca e diritto allo studio! Il 23 gennaio 50 studenti delle facoltà e delle accademie di Milano hanno interrotto il Consiglio di Amministrazione della Statale per denunciare la mala gestione delle università milanesi che si regge su un ormai insostenibile livello di tassazione a carico degli studenti e su continui tagli ai fondi per la ricerca e per il diritto allo studio da parte del governo. Gli studenti hanno chiesto che le tasse per il prossimo anno siano ridotte del 90% per rientrare sotto il tetto del 20% del Fondo di Finanziamento Ordina- rio stabilito dal DpR 306/1997. Hanno inoltre chiesto che vengano raddoppiati gli stanziamenti per il diritto allo studio e per la ricerca rispetto al 2009. E’ partita la campagna “Salvare la formazione, la ricerca e il diritto allo studio”. Tieniti informato sui blog dei collettivi!

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