Monotema n 12:2017

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LA DISCIPLINA DELL’INVALIDITÀ E DELL’INABILITÀ DA RISCHIO COMUNE: I REQUISITI CONTRIBUTIVI

MONOTEMA N. 12/2017

LA DISCIPLINA DELL’INVALIDITÀ E DELL’INABILITÀ DA RISCHIO COMUNE: I REQUISITI CONTRIBUTIVI di Gennaro Ilias Vigliotti *

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1. La c.d. “capacità di guadagno”.

Il nostro ordinamento giuridico offre una protezione speciale per quei lavoratori che, per circostanze provenienti da rischi comuni o da rischi connessi all’attività professionale svolta, si ritrovino in una condizione di ridotta capacità lavorativa. Si tratta, in particolare, dei casi in cui lo stato morboso, sia fisico che psichico, inibisce la piena idoneità del prestatore di lavoro a svolgere compiutamente le mansioni contrattualmente previste. Peraltro, non è necessario, ai fini dell’applicazione delle tutele programmate dalla legge, che tale forma di inibizione incida in maniera totale e definitiva sulla capacità di lavoro della persona, essendo sufficiente che la condizione registrata sia temporanea ed in grado di ridurre solo parzialmente la suddetta idoneità professionale. E’ possibile, inoltre, che l’evento morboso alteri o precluda la possibilità del lavoratore di svolgere proficuamente le mansioni originariamente assegnategli nell’ambito dell’organizzazione datoriale, ma che la sua condizione di salute gli consenta comunque di svolgerne regolarmente altre eventualmente disponibili.

Il concetto giuridico di invalidità pensionabile è rilevantemente cambiato nel corso del tempo. Secondo l’impianto normativo originario, fondato sul r.d.l. n. 636/1939, era da considerarsi invalido, ai fini del riconoscimento della c.d. «pensione di invalidità», «l’assicurato la cui capacità di guadagno, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente, a causa di infermità o difetto fisico o mentale, a meno di un terzo del suo guadagno normale» (art. 10, r.d.l. n. 636/1939).

L’accertamento in concreto dell’invalidità pensionabile, secondo il sistema all’epoca vigente, presupponeva, non solo la valutazione medico-legale delle attitudini psico-fisiche del soggetto protetto, ma anche la valutazione dell’influenza esercitata dal contesto socioeconomico, nel quale l’interessato al trattamento era concretamente destinato ad operare; e la riduzione della capacità di guadagno cui si riferiva la norma in questione andava in ogni caso ponderata con riferimento non già al guadagno normale, ma in riferimento alle occupazioni che specificamente corrispondevano alla preparazione professionale e all’esperienza dell’interessato, ossia alla c.d. «capacità attitudinale».

In tale quadro, la prosecuzione di fatto, nonostante la condizione di infermità, dell’attività abituale o di altra comunque rientrante nelle attitudini del soggetto interessato, non era di per sé significativa della conservazione della «capacità di guadagno». Il guadagno escludeva la riduzione di tale capacità solo quando la prosecuzione dell’attività non comportava uno sfruttamento anormale delle residue energie lavorative – c.d. «usura abnorme» - oppure il reddito ricavato non dipendeva da benevolenza del datore di lavoro. Il guadagno, quindi, doveva essere espressione di una vera e propria capacità effettiva di lavoro da parte del soggetto interessato.

D’altra parte, pur in assenza di limitazioni organiche della capacità lavorativa, poteva essere individuata un’invalidità pensionabile quando il pregiudizio al normale proseguimento dell’attività lavorativa dipendeva da giustificate ragioni di rilevante turbamento psichico, quale, ad esempio, il caso dell’acquisita consapevolezza di essere affetto da malattia incurabile, seppur silente ed asintomatica (la c.d. «invalidità etica»).

Il riacquisto della capacità di guadagno, dipendente da ristabilimento della situazione di salute o dall’occupazione in attività confacente – comportava l’estinzione, con effetto ex nunc, 2

del diritto alla pensione, tramite l’istituto della revoca. A tale regole faceva eccezione il caso del pensionato non vedente che, reperita un’occupazione confacente, avesse riacquistato la piena capacità di guadagno: tale categoria di soggetti, infatti, conservava il trattamento ex lege (art. 68, L. n. 53/1969).

La revoca, infine, era disposta anche nel caso di accertamento dell’insussistenza dei requisiti di accesso al trattamento ab origine: sul punto, le regole normative avrebbero dovuto far propendere per l’istituto dell’annullamento, con decorrenza ex tunc, ma la prassi consolidata dell’INPS ha di fatto visto prevalere quello della revoca.

2. La riforma del 1984 e la c.d. “capacità di lavoro”.

Con la L. n. 222 del 1984, il legislatore ha deciso di rimodellare il sistema previdenziale di tutela dell’invalidità pensionabile allo scopo di risolvere, o quantomeno di attutire gli effetti negativi di un impianto normativo che aveva dimostrato rilevanti scompensi applicativi.

L’assetto dispositivo risultante da tale riforma, salvo alcuni aggiornamenti sia normativi che connessi alla prassi applicativa INPS, è essenzialmente rimasta intatta fino ad oggi.

Innanzitutto, si è proceduto ad affiancare al concetto di invalidità quello alternativo di inabilità, con la parallela diversificazione delle prestazioni collegate, sia per entità che per regime. L’invalido, infatti, è ora considerato il lavoratore «la cui capacità di lavoro, in occupazioni confacenti alle sue attitudini, sia ridotta in modo permanente a causa di difetto fisico o mentale a meno di un terzo» (art. 1, L. n. 222/1984); l’inabile, invece, è colui «il quale, a causa di infermità o di difetto fisico o mentale, si trovi nell’assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa» (art. 2). La differenza è chiara, e consiste nella permanenza o meno, nel soggetto interessato alla tutela, di una residua ed effettiva idoneità psico-fisica al lavoro.

L’innovazione più rilevante, però, è certamente quella della sostituzione della «capacità di guadagno» con la «capacità di lavoro», come criterio di riferimento per la definizione del concetto stesso di invalidità pensionabile. Come segnalato nella relazione ministeriale che ha accompagnato il testo legislativo poi approvato «quello che era il disegno originario del legislatore – individuare, dopo il giudizio dello stato psico-fisico del lavoratore, le possibilità, nonostante la perdita di capacità di lavoro, di una occupazione remunerativa – ha, infatti, subito una inversione logica e si è via via data preminenza alle concrete possibilità occupazionali con sempre più ridotta connessione con lo stato psico-fisico del lavoratore».

La conseguenza di tale cambio di approccio è stata dunque l’abolizione del concetto di invalidità pensionabile presente da tempo nel nostro ordinamento e l’abbandono definitivo di valutazioni attinenti il guadagno e la redditività del proprio lavoro, necessariamente condizionati da fattori volubili e territorialmente diversificati, come quelli socio-economici. Va comunque osservato che l’aggancio alla situazione soggettiva specifica, nel modello della L. n. 222/1984, è stato in qualche modo salvato e garantito per il fatto che la richiesta di riduzione della capacità di lavoro non è generica, ma riferita alle «occupazioni confacenti alle attitudini» dell’interessato, secondo il modello che in giurisprudenza è stato definito della c.d. «capacità attitudinale», come tale diverso da quello generico utilizzato per l’invalidità civile, destinata anche ai non lavoratori.

3. I requisiti contributivi.

Rispetto alla previgente disciplina, la L. n. 222/1984 ha introdotto un più rigoroso requisito di attualità contributiva per ottenere l’invalidità pensionabile (3 anni di contribuzione nel quinquennio precedente la domanda, anziché 1, come precedentemente stabilito), fermo 3

restando, invece, il requisito assicurativo minimo di 5 anni, ai fini del quale valgono solo i contributi accreditati nel fondo al quale l’assicurato è iscritto al momento della presentazione della domanda.

I suddetti requisiti hanno un’evidente funzione «selettiva», in conformità, peraltro, con la natura assicurativa e meritocratica della tutela: proteggere soltanto chi si è reso «meritevole» della protezione, attraverso un adeguato periodo di contribuzione al sistema previdenziale.

I requisiti di assicurazione e contribuzione – che, in via di principio, devono sussistere all’atto della domanda – possono validamente perfezionarsi anche in corso di istruttoria o di contenzioso amministrativo, con conseguente differimento della decorrenza della prestazione alla data di tale perfezionamento. Tale possibilità, già consentita solo nelle gestioni dei lavoratori autonomi, è stata poi riconosciuta di validità generale, essendo stata opportunamente valutata irrazionale ed ingiustificata l’esclusione di altre tipologie di lavoratori.

La permanenza dello stato di invalidità o inabilità è oggetto di un rigoroso procedimento di accertamento (art. 9, L. n. 222/1984) che l’Ente previdenziale può promuovere in qualsiasi momento e al quale l’assicurato ha l’onere di assoggettarsi, pena la sospensione del pagamento delle prestazioni per tutto il periodo in cui, senza giustificato motivo, tale accertamento (o revisione) venga impedito.

Come misura di reazione a pratiche indiscriminate ed abnormi di reiterazione delle istanze di invalidità o inabilità, l’art. 11 della L. n. 222/1984 ha previsto che non possa essere proposta una nuova domanda di accesso al medesimo trattamento, fino a quando non sia esaurito l’iter (amministrativo o giudiziario) della precedente.

Inoltre, nell’ambito di politiche di deflazionamento del contenzioso, la legge n. 111 del 2011 ha introdotto, per le controversie aventi ad oggetto forme di tutela dell’invalidità, un procedimento obbligatorio di accertamento tecnico preventivo delle condizioni medico-legali dell’istante, la cui attivazione è condizione di procedibilità dell’azione giudiziaria, stabilendo altresì che le relative sentenze siano inappellabili.

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