Monotema n. 5/2017

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SOLUZIONI LAVORO OSSERVATORIO PERMANENTE IN MATERIA DI LAVORO, SINDACATO E PREVIDENZA SOCIALE COORDINATO DA MARIA NOVELLA BETTINI DIRETTO DA FLAVIA DURVAL

CLAUSOLA DI DURATA MINIMA, LIMITI AL RECESSO, COMPENSO E PENALE RISARCITORIA

MONOTEMA N. 5/2017

Clausola di durata minima, limiti al recesso, compenso e penale risarcitoria.

Flavia Durval Il patto di stabilità (o clausola di durata minima) è un negozio giuridico atipico con il quale il prestatore o il datore di lavoro si obbliga (ovvero entrambi si obbligano), per un determinato periodo di tempo, a limitare il potere di recesso unilaterale dal rapporto di lavoro, riconosciuto ad entrambe le parti dall’art. 2118 c.c.

Il lavoratore subordinato, pertanto, “come ha facoltà di disporre liberamente del proprio diritto di recedere dal rapporto di lavoro, così può liberamente concordare una durata minima del rapporto stesso, che comporti, fuori dall'ipotesi di giusta causa di recesso di cui all'art. 2119 c.c. (e dell’ipotesi d’impossibilità sopravvenuta della prestazione ex artt. 1463 e 1464 c.c.), il risarcimento del danno a favore della parte non recedente, conseguente al mancato rispetto del suddetto periodo minimo di durata” (Cass. 9 giugno 2017, n. 14457, in questo sito, con nota di M. N. BETTINI, Clausola di durata minima e trattamento retributivo concordato; Cass.

26 ottobre 2016, n. 21646 e Cass. 25 luglio 2014, n. 17010, in Dir. & Giust., 2014, 58, con nota di M. TONETTI, Dipendente limita il proprio diritto di recesso: si può fare).

La clausola in oggetto può essere pattuita non necessariamente per iscritto (Cass. 12 marzo 2015, n. 4991, in Arg. dir. lav., 2015,1019, con nota di F. RAVELLI, Autonomia individuale e patto di prolungamento del preavviso di dimissioni; Cass. 19 agosto 2009, n. 18376, in Riv. it. dir. lav., 2010, II, 358, con nota di A. DONINI, Clausola di durata minima: la Cassazione conferma il proprio orientamento a favore della disponibilità della facoltà di recesso del lavoratore; C. ZOLI, Clausole di fidelizzazione e rapporto di lavoro, in Riv. it. dir. lav., 2003, I, 449) sia in sede di costituzione del rapporto di lavoro che durante lo svolgimento dello stesso (anche, quindi, durante il periodo di prova) ed è solitamente utilizzata con dipendenti aventi una qualifica elevata, con scopi diversi a seconda degli interessi tutelati. Si pensi al dirigente con elevata professionalità che accetti l’assunzione solo a fronte della garanzia di conservazione del posto di lavoro per un determinato periodo; e, per altro verso, al datore che chieda un’”assicurazione di stabilità” volta a “trattenere” un collaboratore di talento su cui abbia investito in termini patrimoniali e/o formativi.

La stipulazione del patto di stabilità, inoltre, non determina un’alterazione della natura del rapporto di lavoro a cui si riferisce, in quanto lo stesso rimane a tempo indeterminato, ma si comporta, nel corso della durata minima stabilita, come se fosse a tempo determinato (Cass.

12 giugno 2014, n. 13335, in Arg. dir. lav., 2014, 1434, con nota di A. PILATI, La clausola di durata minima garantita; Cass. 15 novembre 1996, n. 10043, in Not. giur. lav., 1997, 87; Cass. 12 aprile 1980, n. 2365, in Riv. giur. lav., 1981, II, 136, con nota di L. ISENBURG, Recenti sviluppi giurisprudenziali in tema di clausole di durata minima).

Ne consegue che le parti, durante il periodo di vigenza del patto, non potranno recedere dal contratto se non per giusta causa, ossia per una causa che “non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” (art. 2119 c.c.).

Esse, inoltre, nell’esercizio della loro autonomia privata, possono articolare il patto di stabilità secondo diverse configurazioni che, pur essendo accomunate dall’identità di oggetto (limitazione temporanea della facoltà di recesso), si distinguono sotto il profilo giuridicoeconomico, in quanto l’obbligazione di non esercitare il diritto di recesso assume una diversa connotazione causale, a seconda che sia prevista “a carico” del solo datore di lavoro o del prestatore, ovvero di entrambi (Cass. 3 febbraio 1996, n. 924, in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 800, con nota di O. BONARDI, Recesso dal contratto di lavoro con clausola di durata minima, e, per 2

l’apponibilità di una clausola di durata minima anche nell’ambito di un rapporto di lavoro autonomo, v. Cass. 4 giugno 2013, n.14016, in Lav. giur., 2013, 1031).

Patto di stabilità nell’interesse del lavoratore A) Il primo tipo di accordo o clausola di stabilità è quello con il quale il datore di lavoro, disponendo della propria facoltà di recesso, s’impegna ad assicurare al prestatore la garanzia della conservazione del posto per una durata minima. Il patto, dunque, è stipulato nell’interesse del solo prestatore di lavoro, nel senso che “pesa” sul datore di lavoro che si obbliga, per un periodo predeterminato, a non licenziare il dipendente.

Come è stato rilevato dalla dottrina e dalla giurisprudenza (M.N. B ETTINI, Trattenere i talenti: clausola di durata minima e dimissioni, in Mass. giur. lav., 2008, 550; ID., Clausola di durata minima nell’interesse del lavoratore e del datore di lavoro, nota a Trib. Velletri 21 febbraio 2017, ivi, 2017, 398; Cass. 14 ottobre 2005, n. 19903, in Riv. it. dir. lav., 2006, II, 617, con nota di M. GARATTONI, La clausola di durata minima e il licenziamento del dirigente apicale; Cass. 9 giugno 1995, n. 6520, in Not. giur. lav., 1995, 757), questo tipo di clausola (di durata minima) appare coerente con il principio, cui è preordinato tradizionalmente il diritto del lavoro, di tutela del prestatore di lavoro quale parte più debole del rapporto contrattuale, in quanto, pur introducendo una limitazione temporale al recesso unilaterale dal rapporto, “non altera la sostanziale natura del contratto di lavoro a tempo indeterminato, traducendosi soltanto in una preventiva rinuncia del datore di lavoro alla facoltà di recesso e quindi in una garanzia per il lavoratore alla conservazione del posto per una durata minima” (Cass. 15 novembre 1996, n. 10043, cit.).

Quanto alle conseguenze derivanti dall’inadempimento del patto di stabilità, il datore di lavoro, qualora receda anticipatamente dal contratto (per motivi diversi dalla giusta causa), sarà tenuto al risarcimento del danno, pari all’ammontare delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito ove la risoluzione del rapporto non fosse intervenuta (Cass. 3 febbraio 1996, n. 924, cit.). In altri termini, egli dovrà garantire al lavoratore regolare preavviso ovvero corrispondergli l'indennità di mancato preavviso, pari alle retribuzioni che gli sarebbero spettate dalla scadenza del periodo di stabilità sino al termine del successivo periodo di preavviso (Cass.14 ottobre 2005, n. 19903, cit.).

Nella quantificazione del danno, potrà tenersi conto del c.d. aliunde perceptum e dell’aliunde percipiendum, ossia degli eventuali compensi che il lavoratore abbia eventualmente percepito trovando altre occupazioni dopo il recesso e di quanto avrebbe potuto guadagnare, utilizzando la diligenza che ordinariamente impiega il lavoratore disoccupato nella ricerca di una nuova occupazione (Cass. 3 febbraio 1996, n. 924, cit.; Trib. Milano 8 novembre 2007, in Lav. giur., 2008, 427; Trib. Venezia 23 ottobre 2003, ibidem, 2004, 692, con nota di E. BARRACO, Libertà di dimissioni e strumenti di fidelizzazione del lavoratore; Trib. Milano 16 marzo 1994, in Riv. it. dir. lav.,1995, II, 53, con nota di G. BURRAGATO, In tema di recesso dal contratto d’opera intellettuale a termine).

Clausola di durata minima nell’interesse di entrambi i contraenti B) Anche la limitazione del recesso prevista a carico di ambedue le parti del rapporto di lavoro è considerata legittima dalla dottrina (C. ZOLI, op. loc. cit.) e dalla giurisprudenza (Cass. 15 novembre 1996, n. 10043, cit.; Trib. Bergamo 14 marzo 1991, in Mass. giur. lav., 1992, 348), sebbene si rilevi che questo patto bidirezionale non comporta una equivalenza di posizione, nel senso che “il sacrificio (…) imposto al datore di lavoro in tale ipotesi pare poca cosa rispetto a quello richiesto al lavoratore: il primo vede limitata soltanto la propria possibilità di recedere per motivi oggettivi dal rapporto di lavoro (licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo e licenziamenti collettivi); mentre il secondo perde… la facoltà di 3

recesso ad nutum” (E. MENEGATTI, La Corte di Cassazione torna a pronunciarsi sulla legittimità delle clausole di durata minima garantita, nota a Cass. 7 settembre 2005, n. 17817, in Arg. dir. lav., 2006, 234).

Patto di permanenza nell’interesse del datore di lavoro C) Allo stesso modo, il datore di lavoro interessato ad avvalersi, per un congruo periodo di tempo, della collaborazione di risorse umane di elevato valore professionale ovvero oggetto di investimenti formativi da parte dell’azienda, può stipulare una specifica clausola di durata minima o patto di permanenza (E. BARRACO, Libertà di dimissioni, loc. cit.; O. BONARDI, Recesso dal contratto di lavoro, loc. cit.; A. VALLEBONA, Preavviso di dimissioni e accordi individuali, in Lav. giur., 2001, 1120; C. ZOLI, op. loc. cit.), al fine di beneficiare, per un periodo di tempo minimo, del bagaglio di conoscenze acquisito dal lavoratore.

Tale patto costituisce, quindi, uno strumento di fidelizzazione con il quale il lavoratore (solitamente di elevata professionalità e/o per il quale sia stato sostenuto un costo, ad es., formativo) s’impegna, di regola a fronte di un corrispettivo, a non dimettersi per un periodo di tempo predeterminato (ad es., 2 anni) oppure acconsente a prolungare il preavviso di dimissioni (ad es., 12 mesi) rispetto alla durata prevista nel contratto collettivo (ad es., 6 mesi).

L’imposizione di vincoli convenzionali che limitano la facoltà di recesso del lavoratore (non per giusta causa) è compatibile con l’art. 2118 c.c. (Cass. 12 marzo 2015, n. 4991, cit.; Cass.

7 settembre 2005, n. 17817, cit.), in base al duplice principio che: a) essi non configurano, in relazione alle clausole pattizie che regolano l’esercizio della facoltà di recesso dal rapporto di lavoro subordinato, una limitazione della libertà contrattuale del lavoratore in violazione della tutela predisposta dall’ordinamento (Cass. 25 luglio 2014, n.

17010, cit ); b) la clausola di durata minima riguarda un diritto potestativo disponibile (Cass. 21 agosto 2003, n. 12301) e, situandosi nell’area di “parità formale” fra le parti, non varca la “soglia di debolezza” del prestatore (M. DELL’OLIO, La stabilità convenzionale, in Arg. dir. lav., 1998, 185).

Stante poi la disponibilità del diritto, resta peraltro esclusa la natura di rinunzia o di transazione dell’accordo consensuale finalizzato ad estendere il temine di preavviso di dimissioni. E, quindi, la clausola non è presidiata dal regime di annullabilità posto dall’art.

2113 c.c. (Trib. Milano 24 maggio 2002, in Lav. giur. 2003, 286) ma da quello di nullità di cui all’art. 1418 c.c.

Inoltre, il prolungamento del periodo di preavviso delle dimissioni è consentito dall’art. 10, co.

1, R.D.L. n. 1825/1924 (c.d. legge sull’impiego privato), il quale prevede la facoltà delle parti di pattuire termini di preavviso in misura più ampia (sia per il licenziamento che) per le dimissioni, disponendo che quando la disdetta sia data dall’impiegato, questi deve osservare gli stessi termini (pattuibili in misura più larga) di preavviso indicati dall’art. 10 (per il licenziamento) e, in difetto, deve pagare un’indennità corrispondente (v. art. 14, co. 1).

Quanto alla durata massima della clausola di durata minima, un indirizzo ritiene che essa, in analogia con il contratto a termine (v. art. 19, D.Lgs. 15 giugno 2015, n. 81) debba avere una estensione temporale massima di 3 anni (C. ZOLI, op. cit., 457 e A. RUSSO, Le clausole di stabilità e di durata minima garantita, in Contratti & contrattaz. coll., 2001, n. 8-9, 65). Mentre, secondo un’altra posizione - che sembra più rispondente alla necessità di garantire il contemperamento degli interessi in gioco, impedendo ogni lesione del diritto alla libertà di lavoro garantito dall’art. 4 Cost. - occorre valutare l’entità, “in termini di durata, del sacrificio imposto al lavoratore e la controprestazione offerta dal datore di lavoro”, con la conseguenza 4

che, “qualora dovesse emergere una sperequazione a danno del lavoratore, ovvero una durata talmente lunga del patto da ritenere di fatto annullato o gravemente limitato il diritto di recesso del lavoratore, la clausola dovrà plausibilmente ritenersi come non apposta” (E. MENEGATTI, op. cit., 235. V. anche Cass. 11 febbraio 1998, n. 1435, in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 539 con nota di F. BANO, Clausola di durata minima e costo dell’addestramento) Non v’è dubbio che, nel caso in cui si preveda l’allungamento del periodo di preavviso di dimissioni, si possono profilare evidenti svantaggi per il dipendente che si dimetta “in anticipo”, ossia durante il periodo di preavviso e non alla sua scadenza. Egli, infatti, risultando inadempiente all’obbligo contrattuale di prestare la propria opera durante tale lasso temporale, sarà tenuto a versare la c.d. indennità di mancato preavviso, la quale, essendo pari alle retribuzioni relative alla frazione di tempo non lavorato, risulta tanto più gravosa quanto più lungo è il segmento temporale di riferimento.

Risulta perciò evidente che il prestatore abbia interesse a fissare un periodo breve di preavviso, corrispondente ad una indennità non eccessivamente onerosa (A. FEDERICI, Vincoli convenzionali alla libertà di recesso del lavoratore e condizioni di ammissibilità delle clausole di durata minima del rapporto di lavoro, nota a Cass. 7 settembre 2005, n. 17817, in Riv. giur. lav., 2006, II, 282), in modo da non rendere troppo “pesante” la risoluzione anticipata del rapporto., in ragione del vincolo di durata gravoso ed incompatibile con il principio di libertà della persona (garantito dagli artt. 2 e 4 Cost.).

Com’è noto, la fissazione del termine di preavviso è demandata dal legislatore (art. 2118 c.c.) alla contrattazione collettiva, le cui norme sono inderogabili in senso peggiorativo da parte del contratto individuale (art. 2077 c.c.). Sicché, da una parte, non appare lecito in quanto affetto da nullità (A. VALLEBONA, Preavviso di dimissioni, loc. cit.), l’accordo individuale volto a porre un onere solo a carico del prestatore mediante il prolungamento del termine di preavviso di dimissioni, ossia concordando, per via individuale, una clausola di durata minima “peggiorativa” (cioè un preavviso di dimissioni più lungo di quello stabilito dal contratto collettivo); mentre, dall’altra, è legittimo il patto individuale che, pur a fronte di un preavviso di dimissioni maggiore di quello previsto dal contratto collettivo, preveda, a favore del dipendente, un apposito compenso aggiuntivo, anche attraverso modalità varie di welfare (eventualmente affiancandolo all’eliminazione totale o parziale della indennità sostitutiva del preavviso) (Cass. 12 marzo 2015, n. 4991, cit. e Cass. 3 novembre 2009, n. 23235, in Foro it.

Rep., 2009, voce Lavoro (rapporto), n. 1419). In tal caso, infatti, la situazione risulta “controbilanciata” in senso favorevole al prestatore. La previsione di un “compenso” adeguato (F. RAVELLI, Autonomia individuale e patto di prolungamento del preavviso di dimissioni; cit., 1026) a carico del datore di lavoro appare dunque necessaria per ristabilire l’iniziale parità di condizione fra i contraenti, riequilibrando la compressione della libertà personale del lavoratore (v. Cass. 9 giugno 2017, n. 14457, cit.).

In questo quadro, se il lavoratore scioglierà successivamente ed unilateralmente il vincolo contrattuale, perderà il compenso previsto a titolo di bilanciamento dell’onere posto a suo carico con la clausola medesima (Cass. 21 agosto 2003, n. 12301, cit.), ovvero restituirà le spese formative anticipate dall’azienda per seguire un corso professionalizzante (Trib.

Venezia 23 ottobre 2003, cit.), o le altre erogazioni meramente economiche in forma di premialità.

Dal canto suo, in conseguenza dell’inadempimento del patto di stabilità da parte del prestatore di lavoro (che rassegni le dimissioni nel periodo di vigenza del patto, per motivi diversi dalla giusta causa), il datore di lavoro potrà agire in giudizio per ottenere il risarcimento del danno (ad es., costi sostenuti per la formazione o il reclutamento), nella 5

misura e con le modalità normalmente previste dal patto stesso (Cass. 11 febbraio 1998, n.

1435, cit.), attraverso la fissazione di una penale.

In particolare, nell’ipotesi di assegnazione di premi non “ripetibili”, come la partecipazione ad un Master, la misura risarcitoria da versare in caso di abbandono del posto di lavoro prima della scadenza del periodo di permanenza garantita dovrebbe essere concordata anticipatamente (quantificando in via preventiva il valore di quanto erogato), in modo da rendere pienamente edotto il lavoratore della somma da versare per “rimborsare” il datore di lavoro e compensarlo del danno subìto (art. 1382 c.c.).

Il versamento di una penale risarcitoria a carico del contraente inadempiente (quale specifica indennità a risarcimento del danno subìto dal datore di lavoro per l’intempestivo recesso del lavoratore) rappresenta una “liquidazione preventiva convenzionale del danno da inadempimento” (Trib. Modena 13 luglio 2007, in Riv. giur. lav., 2008, II, 134), avente la funzione di predeterminare l’ammontare del risarcimento, in caso di dimissioni anticipate (Cass. 7 settembre 2005, n. 17817, cit.), che esonera il datore di lavoro dall’onere della prova del danno subìto. In conformità ai principi di diritto comune, resta poi ferma, in ogni caso, la facoltà del giudice di ridurre, secondo una valutazione equitativa, l’importo della penale che accede al patto di stabilità, qualora sia ritenuta manifestamente eccessiva avuto riguardo all’interesse che il datore di lavoro aveva all’adempimento (art. 1384 c.c.) (Cass. 25 luglio 2014, n. 17010, cit.).

Quanto alla natura dell’indennità (penale risarcitoria), essa ha il carattere di attribuzione straordinaria corrisposta una tantum, priva di sinallagmaticità. La fattispecie rientra, pertanto, nella prescrizione ordinaria decennale ex art. 2946 c.c. Qualora, invece, il datore di lavoro sigli un accordo che attribuisce ai compensi erogati il carattere di “corrispettivo” della prestazione, gli stessi perdono la natura d’indennità per acquisire quella di retribuzione.

Analogamente, per i compensi di natura “inquadramentale”, come una promozione (Trib.

Bologna 26 ottobre 2006) quale emolumento a fronte dell’accordo di durata minima. In tal caso, il lavoratore non può essere chiamato a restituire né la più elevata posizione professionale ormai acquisita ed entrata a far parte del suo patrimonio né la maggiore retribuzione percepita, quale corrispettivo, per lo svolgimento di mansioni superiori. Le somme percepite per la mansione superiore hanno, infatti, pieno carattere retributivo. Perciò, sono “protette” dalla necessaria proporzionalità e sufficienza previste dall’art 36 Cost., nonché dalla irrinunziabilità ed irripetibilità. Esse, inoltre, rientrano nella prescrizione quinquennale di cui all’art. 2948 c.c.

La prospettiva cambia, nel caso in cui l’inadempimento del patto sia imputabile al datore di lavoro, come nell’ipotesi in cui egli iscriva dolosamente il dipendente ad un falso corso di formazione per il quale non sostenga costi o sopporti costi irrisori, al fine di impedire il recesso del lavoratore per il periodo di tempo fissato nella clausola di stabilità. In questa ipotesi, il lavoratore che provi tale dolosità potrà chiedere il risarcimento dei danni subìti eventualmente pari alla penale dovuta per le dimissioni anticipate.

Tale circostanza è stata invocata, ma non adeguatamente provata, dal lavoratore in una recente sentenza (Trib. Velletri 21 febbraio 2017, cit.), secondo cui, nell’ipotesi di recesso anticipato del dipendente (rispetto a quanto pattuito nel patto di stabilità), i costi del corso di formazione sostenuti dalla società vanno addebitati a quest’ultimo, senza che rilevi l’utilità o meno del percorso formativo svolto dal medesimo. Ciò, in quanto “la scelta della formazione da impartire ai propri dipendenti è rimessa in via esclusiva, ex art. 41 Cost., all’autonomia organizzativo-gestionale dell’imprenditore, non sindacabile né dal lavoratore né in sede giudiziaria”.

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BIBLIOGRAFIA: F. BANO, Clausola di durata minima e costo dell’addestramento (nota a Cass. 11 febbraio 1998, n. 1435), in Riv. it. dir. lav., 1998, II, 539 E. BARRACO, Libertà di dimissioni e strumenti di fidelizzazione del lavoratore: la clausola di durata minima garantita (nota a Trib. Venezia 23 ottobre 2003), in Lav. giur., 2004, 694 M.N. BETTINI, Clausola di durata minima nell’interesse del lavoratore e del datore di lavoro (nota a Trib. Velletri 21 febbraio 2017), in Mass. giur. lav., 2017, 398 M.N. BETTINI, Trattenere i talenti: clausola di durata minima e dimissioni, in Mass. giur. lav., 2008, 550 M. BIAGI, Istituzioni di diritto del lavoro, Giuffré, Milano, 2003 O. BONARDI, Recesso dal contratto di lavoro con clausola di durata minima (nota a Cass. 3 febbraio 1996, n. 924), in Riv. it. dir. lav., 1997, II, 800 G. BURRAGATO, In tema di recesso dal contratto d’opera intellettuale a termine (nota a Trib.

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