Veronesi
Inserto del giornale on line Verona In
n째1/2013
Veronesi
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La Tradizione e le tradizioni
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Il teatro in Lessinia
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Teatro delle origini e origini del teatro
Aldo Ridolfi
Ludovico Anderloni
Alessandro Norsa
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Design che profuma di antico
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Sapore di pane
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Scarpa larga e goto pien, ciapa la vita come la vien
Marta Bicego
Elisa Zoppei
Aldo Ridolfi
Veronesi Inserto del giornale on line Verona In Direttore editoriale Aldo Ridolfi Redazione: Ludovico Anderloni, Marta Bicego, Alessandro Norsa, Elisa Zoppei Smart Edizioni, Studio Editoriale Giorgio Montolli www.verona-in.it - redazione@verona-in.it La responsabilità di quanto sostenuto negli articoli è dei rispettivi Autori In copertina: foto di Giorgio Montolli. In IV di copertina: pianta di Verbasco e, sullo sfondo, Campofontana e la Valle di Illasi
Editoriale
La Tradizione e le tradizioni
Aldo Ridolfi “Che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”. Non stiamo parlando dell’araba fenìce. Ma della “Tradizione”. Che c’è, esiste, senza dubbio, e affascina le generazioni più datate, quelle che occupano le fasce più in alto della piramide delle età, forse perché vi ritrovano la loro giovinezza. Ma i racconti della Tradizione piacciono anche ai bambini per quel modo di porre le cose e gli eventi un po’ favolistico e un po’ impossibile, dunque bello. E al fascino del “C’era una volta” non sono indifferenti nemmeno i trenta-quarantenni che pensano di ritrovare nella Tradizione le loro radici, i valori di cui sentono parlare, alternative all’apparenza soddisfacenti rispetto a quanto questo mondo impone oggi senza remissione. Allora, ecco un’umanità eterogenea, variegata, talvolta inaspettata scrutare nei vecchi saperi, cercare di far propri gli atteggiamenti di un tempo davanti al denaro, al lavoro, all’amore, al cibo, alla festa, insomma davanti a ogni aspetto del reale. Ecco farsi strada gli entusiasmi verso cerimonie religiose e laiche, ecco godere per la riscoperta di convenzioni sociali semplici e genuine, di comportamenti autentici, di rapporti interpersonali veri. Già, ma quando la prospettiva, come quella di chi scrive, si distende attraverso le stagioni, quando è il campo lungo a fornire criteri di giudizio, ci si accorge che ciò che costituiva “Tradizione”, poniamo nel 1955, non coincide più con ciò che è inteso come Tradizione oggi. E con ciò che sarà percepito come Tradizione domani. Insomma, tornando all’immagine dell’araba fenìce, che ci sia una Tradizione di cui è piacevole, piacevolissimo parlare (e noi lo faremo con entusiasmo) è certo; dove si collochi, quale perimetro occupi, quanto sia cristallizzata o quanto sia in movimento diventa questione
alquanto impegnativa. Quasi che la tradizione, più che un dato da ricordare, un mondo da scoprire e anche da amare, sia piuttosto un itinerario, un percorso, un viaggio. Quasi che non abbia date e confini, ma piuttosto che si srotoli pian piano, che si muova con noi e che noi, mentre la guardiamo muoversi, anche interagiamo con essa in mille modi, alcuni ingenui, altri costruttivi, altri ancora perfino dannosi. Infatti, che esista una cucina tradizionale non c’è dubbio. Fino agli anni Cinquanta si mangiava seguendo ricette relativamente cristallizzate perché aderentissime alle basi materiali costituenti la civiltà contadina. Ce lo ricorda Elisa Zoppei in queste stesse pagine, dipingendo per noi lettori un quadro densissimo di umanità. È piuttosto difficile, oggi, riprodurre quei piatti, non solo sul piano degli ingredienti ma anche su quello del loro significato che inizia a sfuggire dalla memoria personale e collettiva e che viene lentamente sostituito, costituendo così, davvero, una “Tradizione”, seppur nuova e diversa. Ma intanto noi leggiamo il ricordo di Zoppei e il libro di Giuseppe Rama qui recensito e siamo intimamente felici. E, secondo noi, non c’è nemmeno dubbio che nella originale scultura di Michele Simeoni – le cui forme sembrano lontane da ogni approccio tradizionale – sopravviva quel tanto di passato, conservato in ogni scalfittura che il tempo ha lasciato sulle vecchie assi. E bene fa Marta Bicego ad attirare la nostra attenzione sul «tempo che ha lasciato su un’asse striature, corrosioni, tarlature, fori, graffi capace di legare presente e passato in un nodo inesplicabile»: proprio lì si nasconde e resuscita in forme nuove la Tradizione. E dunque, su questa strada, anche le modalità aggregative hanno una loro Tradizione, ci mancherebbe altro! Ci sono state usanze della Tradizione che oggi giudichiamo obblighi nefasti, altre che ci appaiono prigioni. Ma altre ancora,
invece, è opportuno riprenderle e, riprese, hanno dato risultati eccellenti. È quanto ci spiega Ludovico Anderloni parlandoci della “rinascita” del teatro in Lessinia: una pagina in parte già scritta ma in parte ancora da scrivere con penne diverse e numerose, in cui il distinguo tra fruitori e protagonisti sia il più labile possibile. E quello che a me, anziano e impenitente sognatore, par meraviglioso è che, accanto ai teatri di Roveré e Velo possiamo schierare quanto scrive qui Alessandro Norsa: «Se ci siamo spinti così a ritroso nel tempo, lo abbiamo fatto per sottolineare l’alto quoziente di socialità che il teatro ha da sempre posseduto, sin dalle prime manifestazioni dell’umano». Da pelle d’oca! “Che ci sia ognun lo dice, dove sia nessun lo sa”: arrivederci al prossimo numero!
Il teatro in Lessinia
Dopo i recenti lavori di restauro a Roverè e Velo
Grandi lavori.
Dopo il restauro del teatro Vittoria di Bosco Chiesanuova altre due realtà della montagna si preparano a sfruttare le proprie sale
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Ludovico Anderloni Il teatro in Lessinia si rinnova e si arricchisce. È questo il risultato cui sono giunti recenti lavori di risistemazione dei teatri di Velo e Roverè Veronese. In una felice coincidenza di tempi, nonostante le incertezze economiche, le sale parrocchiali dei due paesi hanno visto mutare il loro assetto in risposta alle normative sulla sicurezza e alle esigenze sceniche, e si propongono ora come nuovi spazi di condivisione e di cultura. Il teatro San Niccolò di Roverè, portato a termine in primavera, ha già accolto gli ospiti della serata d’inaugurazione lo scorso
16 giugno, mentre il teatro di Velo da qualche mese è un movimentato cantiere, che dovrebbe concludersi in tempo per l’estate del prossimo anno. Così, dopo il restauro del teatro Vittoria di Bosco Chiesanuova sette anni fa, altre due realtà della montagna si preparano a sfruttare appieno le proprie sale con una veste completamente ammodernata. Ipotesi, progetti, caparbietà, divergenze, finanziamenti pubblici e contributi privati, passione e volontariato: nella vicenda dei due teatri si manifestano i tratti fisionomici delle opere che coinvolgono piccole comunità nel loro insieme e alla comunità sono rivolte. E proprio il senso
Veronesi Capobanda.
A Roverè motore dell’iniziativa è stato senza dubbio don Giovanni Birtele, parroco dal 2001 al 2007 della compartecipazione e del coinvolgimento rappresenta la più alta posta in gioco in queste iniziative. A Roverè si percepisce una strana commistione di incredulità e vivo interesse nel mostrare l’esito delle fatiche: 133 posti a sedere su una platea in pendenza, sormontata da capriate in legno, impianti di riscaldamento e trattamento aria, pannelli fotovoltaici a copertura del consumo elettrico. Se l’edificio, accanto alla chiesa, ha mantenuto pressoché immutato il profilo esterno, i cambiamenti all’interno sono stati notevoli. La sala, originariamente al pianterreno, è stata ricollocata al piano superiore con un’ampia scala d’accesso, naturalmente attrezzata anche per il trasporto di disabili. Una soluzione che può generare difficoltà nell’allestimento degli spettacoli, «ma l’unica possibile», chiarisce l’architetto Antonio Trevisani, progettista dell’opera.
Due momenti dell’inaugurazione del teatro di Roverè (16 giugno)
In effetti, l’intero complesso era stato oggetto di un intervento radicale negli anni precedenti, che aveva recuperato il vecchio teatro in disuso per realizzare il centro parrocchiale e le aule del catechismo: «tuttavia, durante i primi lavori», continua l’architetto «non si era mai abbandonata l’idea che il paese di Roverè potesse riavere il proprio teatro, si era soltanto rimandata a tempi futuri, considerando già allora la possibilità di ricavarlo al piano superiore». E così si è fatto. Motore dell’iniziativa è stato senza dubbio don Giovanni Birtele, parroco a Roverè dal 2001 al 2007 e ora a Fane: «Anche per il teatro è stato lui il “capobanda”», sigla Trevisani «e assieme a lui gran parte del merito va riconosciuta al allora vicario per la Valpantena e la Lessinia don Giovanni Venturini». Fu quest’ultimo, venuto a mancare nel 2011, a seguire il progetto nei due anni in cui, dopo la partenza di don Birtele, la sede parrocchiale è rimasta vacante, e a mediare i rapporti con l’ufficio amministrativo della curia di Verona. A quel tempo, infatti, non sono mancati attriti e discussioni: «In curia si insisteva per una sala polifunzionale, mentre per i parrocchiani era naturale che si costruisse un vero e proprio teatro», spiega Anselmo Aganetti, del comitato che si occupa ora della gestione della sala, «tanto che, a questo scopo, era già stato stanziato un ingente finanziamento regionale. Si sono tenute riunioni, alcune piuttosto accese, a una ha partecipato anche l’economo della curia, e alla fine, per fortuna, abbiamo ricevuto i permessi». Con il nulla osta sono giunti anche altri contributi pubblici: dall’amministrazione
comunale, che partecipa con un finanziamento di 107.000 euro in quindici anni, dalla fondazione Cariverona e dal Gal Baldo-Lessinia, nonché elargizioni private. Nell’ottobre 2009, poco dopo l’arrivo dell’attuale parroco, don Giorgio Boninsegna, i lavori hanno preso il via, destinati a transitare attraverso inciampi, variazioni al progetto iniziale, riprese e sforzi congiunti sino alla conclusione. Ascoltando il resoconto del restauro, nella canonica di Roverè, sembrano riemergere incerti frammenti di una dimensione perduta, la stessa che, in forme diverse, deve aver accompagnato la prima costruzione del teatro negli anni Trenta. Non bisogna lasciarsi confondere, qui come a Velo ci si rende conto che l’intraprendenza individuale non matura in un consenso immediato, e che anzi è necessario attendere i risultati definitivi prima che l’interessamento si faccia davvero collettivo. Eppure, nell’animosità delle speranze di chi più si è speso, si riconoscono desideri e innocenze che possono essere stati gli stessi quasi un secolo fa, quando don Antonio Quarella, il prete che a Roverè visse entrambe le guerre mondiali, coinvolse tutti per costruire il teatro. Inaugurato nel 1933, quello che allora non era molto più di un palcoscenico in un’aula abbastanza ampia, divenne spunto per la nascita di due compagnie filodrammatiche, e luogo di una fruizione culturale compartecipata ancora priva di alternative. «Tutti venivano a teatro, e nel gruppo di noi giovani, quando si preparavano gli spettacoli, nessuno si tirava indietro!». Nella sua bottega di falegname, Stefano Trevisani, classe 1928, reagisce sorpreso alle mie domande su chi si desse da fare per le rappresentazioni. Facile comprendere come le condizioni sociali ed economiche fossero diverse da oggi: Stefano lo spiega con parole dirette, dicendo che all’attività teatrale si aderiva con entusia-
Tutta in salita.
«Si sono tenute runioni, alcune piuttosto accese, e alla fine, per fortuna, abbiamo ricevuto i permessi»
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In questa pagina e nella pagina accanto il teatro di Velo durante i lavori di restauro
Lanterna magica.
Con le pellicole distribuite dalla San Paolo ebbe inizio il periodo dell’appuntamento settimanale in un cinema sempre affollato
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smo, anche perché costituiva semplicemente un’occasione per stare insieme e divertirsi in un contesto in cui non ci si poteva permettere molto altro. Qualcosa di nuovo arrivò alla fine degli anni Quaranta, quando si staccarono i primi biglietti del cinema. Con le pellicole distribuite dalla San Paolo ebbe inizio il periodo dell’appuntamento settimanale in un cinema sempre affollato, fino agli anni Sessanta. In seguito, la demonizzata diffusione dei televisori segnò uno scarto con l’epoca precedente: proiezioni e spettacoli continuarono con sempre minor partecipazione per tutti i Settanta e per qualche anno ancora, poi si fece sporadico e via via nullo l’impiego della sala, ormai inagibile a fronte di nuove norme di sicurezza. Una storia semplice, la stessa che si è ripetuta anche a Velo e che ha segnato la chiusura di tantissimi cinema e teatri parrocchiali in Italia. In apparenza troppo semplice, insufficiente a spiegare. Forse con troppe pretese cerchiamo una ragione più profonda, che possa essere in-
vertita, che al rovescio sia valida anche oggi, e che renda conto della determinazione con cui a Velo e Roverè si ripensa ancora al teatro come mezzo per generare unità e passione in un tessuto sociale più vario e inevitabilmente meno aggregato. La chiesa della Madonna del Popolo a Villafranca di Verona, cemento armato e geometrie contemporanee in un quartiere nuovo, abitato da famiglie giovani. È strano trovarsi qui per capire che cosa possa essere oggi il teatro in Lessinia, ma qui è parroco don Luigi Sartori, che lo è stato a Velo Veronese dal 1986 al 1995. Il caso di Velo è quello di un restauro continuo, di una serie ininterrotta di interventi, della quale l’ammodernamento complessivo ora in atto marca il compimento. Anche a Velo, sul finire degli anni Ottanta, il teatro era utilizzato soltanto di rado, perlopiù per le recite scolastiche. Poi qualcosa si è innescato, dando origine a un’attività vivacissima, che ha fatto della sala sotto gli archi del patronato il proprio centro, riattivan-
Veronesi Il miracolo di Velo.
Il primo grande spettacolo de Le Falìe, la compagnia che con il tempo ha acquisito notorietà ben oltre i confini di Verona, ha visto partecipe davvero tutta la comunità, che nella rappresentazione narrava il proprio passato e riconosceva se stessa
dolo e riadattandolo. Don Luigi allora era arrivato da pochi mesi e ancora non poteva intuire il segno che quegli anni avrebbero lasciato nella vita della comunità. Oggi, lontano dai monti, tradisce ancora un entusiasmo coinvolgente quando gli chiedo di ripensare al clima umano in cui Velo muoveva allora i primi passi per diventare, con i numerosi spettacoli della propria compagnia teatrale, “un paese in scena”. Inaspettatamente, il suo racconto si spinge molto più lontano della Lessinia e traccia una geografia spirituale che conduce sino al cuore dell’Africa. «Tre miei parrocchiani erano in procinto di partire per la missione di Fonjumetaw in Camerun, fondata dal loro compaesano Padre Celso Corbioli». Sarebbe stato il primo di molti viaggi che condussero laggiù numerosi abitanti di Velo. «Tutta la comunità era coinvolta, sembrava che l’altruismo missionario si estendesse a tutti. Tanto che una sera mi trovai in canonica un gruppo di ragazzini che mi chiedevano cosa potessero fare per dare una mano anche loro. Suggerii di mettere in piedi
uno spettacolo per raccogliere delle offerte da inviare: ne nacque un capolavoro di spontaneità e fantasia, capace di smuovere tutti per la freschezza con cui la quotidianità del paese era presa in giro». Nel racconto di don Luigi sembra di poter leggere una sovrapposizione imprevedibile fra l’espansività africana, che si riproponeva sulla scena, e il sentimento che allora scuoteva la gente di Velo, e di cui il teatro era un volto da accostare a molti altri. L’esperienza missionaria proseguiva e anche la voglia dei ragazzi di mettersi in gioco, che diventava più ambiziosa e non si limitava più soltanto a loro. Il primo grande spettacolo de Le Falìe, la compagnia che da allora ha acquisito notorietà ben oltre i confini di Verona, ha visto partecipe davvero tutta la comunità, che nella rappresentazione narrava il proprio passato e riconosceva se stessa. Nel corso degli anni Novanta, parallelamente agli spettacoli, si organizzava anche il recupero della sala, con il rifacimento degli impianti e le prime modifiche al complesso. Oggi sono sul tavolo cospicui finanziamenti da parte della fondazione Cariverona e degli enti locali, e un progetto, curato dall’architetto Ezio Albi, che ridisegnerà la fisionomia della sala congiungendo le attuali platea e galleria in unica struttura di 150 posti. Inoltre saranno riorganizzati i camerini, garantita una resa acustica ottimale, e improntati altri miglioramenti che consentiranno al pubblico di assistere alle future rappresentazioni nelle condizioni più
idonee. Il ruolo peculiare che il teatro mantiene da più di vent’anni nel quadro del paese spinge a cercare nei lavori edilizi il segno di una conferma più che di una rinascita. Tuttavia, non è difficile accorgersi che i tempi non sono più quelli dell’entusiasmo iniziale e di un’adesione priva di eccezioni. La parabola de Le Falìe, dopo tanto successo, si è spinta verso una sempre maggiore professionalità, che ha comportato un restringimento del gruppo e parallelamente un venir meno dell’interesse dei compaesani nei confronti dell’attività teatrale. A confermarlo sono gli stessi membri dell’associazione: ne incontriamo alcuni a pranzo, hanno appena concluso una mattinata di fatica sul cantiere. La tenacia con cui dimostrano di credere nel progetto cede soltanto di fronte alla risposta tiepida della gente. Auspicherebbero un maggiore interessamento, uno sguardo più comprensivo per un’opera che non sarà solo per pochi. «Tantomeno la curia si dimostra collaborativa, sebbene la parrocchia, a lavori conclusi, si ritroverà proprietaria di un edificio completamente rinnovato senza aver speso un
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Leonardo Finetto
centesimo», commentano. Tutt’altro era lo spirito che, nel dopoguerra, richiamò all’opera l’intera comunità, frazioni comprese, per costruire sulla piazza della chiesa il patronato con il grande salone per il teatro. L’intuizione che la condivisione e la creatività avessero innanzitutto bisogno di luoghi per potersi esprimere fu di don Marcellino Orlandi. Sua fu anche la decisione di rendere conto in un breve opuscolo, pubblicato nel luglio del 1948, delle tante energie investite nell’impresa. L’idea di un corpo civico unanime è presto smentita con pragmaticità: «Tra la popolazione i più intelligenti e buoni aderirono subito; la maggior parte ritenne possibile la realizzazione in dieci anni, una minoranza ostacolò», ma, in appendice, il lungo elenco degli offerenti, suddiviso in base alle contrade, marca indelebilmente la frattura fra la società di miseria di allora e la nostra società di oggi.
Il nuovo teatro non rimase vuoto, furono i ragazzi e le ragazze dei gruppi dell’Azione Cattolica a farsi avanti, a mettere in scena i primi copioni, acquistati alla libreria Gheduzzi di Verona. Fra i villeggianti di quel tempo, trascorreva l’estate a Velo una giovane Luciana Ravazzin, recentemente scomparsa, ai primi movimenti di quella che sarebbe stata la sua lunga carriera teatrale. Fu il suo dinamismo ad accentrare l’intraprendenza e ad allestire spettacoli che riempivano la platea. In seguito il ruolo di elemento promotore fu ricoperto da altri, e le commedie e le riviste si avvicendarono davanti a un pubblico sempre numeroso. Anche a Velo arrivò il cinema, prima che tutto irrimediabilmente si spegnesse. Sempre vitale sarebbe rimasta tuttavia la funzione educativa del teatro, in una scuola in cui non c’erano ostacoli amministrativi alla finzione scenica. I bambini preparavano brevi recite in numerose occasioni: per il Natale, la festa degli alberi, la festa della mamma, la fine dell’anno. Ed è questa la traccia che conduce sino agli anni in cui tutto il paese si stringe sul palcoscenico, sino agli anni che don Luigi Sartori ricorda come un periodo di vera unità. Una traccia che vale la pena di seguire. Ne parliamo con Leonardo Finetto nella sua mansarda di studente. L’università a Verona, la vita a Velo, e già tre anni dedicati al teatro nella scuola elementare. Con lui i bambini hanno realizzato un laboratorio anche durante le vacanze dell’estate scorsa, culminato in un allestimento che, con la ripresa delle lezioni, si è meritato un premio in un concorso regionale.
Ispiratrice. Trascorreva l’estate a Velo
la giovane Luciana Ravazzin, recentemente scomparsa,che era ai primi movimenti della sua lunga carriera. Fu il suo dinamismo ad allestire spettacoli che riempivano la platea
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Attore de Le Falìe sin da ragazzino, non ha dubbi che il teatro rinserri un mondo ancora in grado di appassionare e unire: «Nel recitare con i bambini sorprende soprattutto quanto la loro vivacità sia in grado di propagarsi negli adulti. Anche per le tre commedie messe in scena quest’anno dalla scuola di Velo, la collaborazione di insegnanti e genitori si è rivelata ancora una volta straordinaria. La finzione cui i ragazzi danno vita sembra rigenerare la realtà, aprendo uno spazio in cui ognuno è contento di aggiungere il proprio impegno a quello degli altri». Gli chiediamo se il nuovo teatro possa dare concretezza a tale spazio: «Proprio sotto quest’aspetto il progetto si fa più ambizioso; l’edilizia risponde a un bisogno di rinnovamento dello stabile, a noi spetta il compito di individuare gli elementi accomunanti, le proposte in grado di suscitare un consenso privo di divisioni. Sono sicuro che i bambini non vedono l’ora di essere attori nel loro nuovo teatro.» Le parole di Leonardo sono cariche di dedizione. Ne troviamo anche in quelle di Zara Pomari, di Roverè. Nei mesi scorsi i giovani di Roverè si sono resi protagonisti di una felice iniziativa, promossa e cofinanziata dall’amministrazione comunale, che li ha visti alla prova in diversi ambiti artistici. Zara è stata referente del laboratorio di cinema e teatro, al quale si sono affiancati quelli di danza, musica e fotografia. «I gruppi si sono costituiti in base alle richieste di noi ragazzi. Nel mio, in particolare, si pensava a un lavoro sul teatro, ma sin dalle prime riunioni è apparso chiaro che il cinema aveva un mordente più forte, e così ci siamo dedicati alla realizzazione di un cortometraggio, che abbiamo presentato nella serata conclusiva assieme alle altre performance», racconta. La partecipazione ha superato le aspettative, nei numeri e ancor più nella complicità che via via si è instaurata. Come spiegarsi allora la convivenza fra quello che molti percepiscono come un individualismo diffuso e reazioni così entusiaste? «Anche se ci abiti, è facile restare in disparte rispetto al paese se il lavoro o le amicizie sono altrove», risponde Zara «è successo anche a me. D’improvviso però mi sono ritrovata qui, costretta a riadattarmi alle abitudini di una vita lontana dalla città. Terrore. Possibile che l’unico modo di stare con gli amici qui sia di sedere ai tavolini di un bar? Poi ti accorgi, tuttavia, di una sorta di energia nascosta, pronta a esprimersi improvvisa non appena qualcuno lancia l’idea giusta». Ha ragione lei, la disaffezione e l’egoismo spesso sono irriflessi, non si generano da sentimenti distruttivi, ma attecchiscono nel torpore o nei dissidi. In Lessinia ci sono due teatri nuovi e tante speranze.
Teatro delle origini e origni del teatro Le tecniche del corpo, ma anche quelle statiche, si sono via via arricchite per riattualizzare situazioni mitiche secondo un canovaccio di stretta contemporaneità Alessandro Norsa Fenomeni denominati «spettacolo», «teatro», «danza», «dramma», «dramma danzato» o «teatro danzato» si trovano presso tutti i popoli del mondo e risalgono almeno all’età paleolitica. I termini di per sé possono creare confusione, perché il loro significato varia a seconda di chi li usa.1 Da un punto di vista formale le varietà di spettacoli rituali sono innumerevoli ma il rito come tale fa parte dell’ordito e della trama di ogni genere di spettacolo, religioso e secolare. Non esistono temi, azioni o schemi universali dello spettacolo: tutti gli spettacoli hanno una struttura rituale, ma la natura e il significato di tali strutture variano da cultura a cultura, perfino da spettacolo a spettacolo.2 Spettacolo è un termine generico che designa le attività di attori, danzatori, musicisti, dei loro spettatori e uditori. Teatro, danza e musica sono termini equivalenti, che fanno però riferimento a generi specifici di spettacolo. Teatro sottolinea la narrazione, danza il movimento e musica il suono. Dramma è un dialogo narrativo scritto. Danzare, cantare, indossare maschere e costumi; impersonare altri individui, animali o enti soprannaturali (o esserne posseduti); rappresentare storie, raccontare la caccia; presentare avvenimenti del passato, provare e preparare luoghi particolari e tempi per que ste rappresentazioni sono tutte azioni connaturate alla condizione umana e presentano tutti e una struttura di tipo rituale sia nell’accezione sacra che in quella profana.3 Lo spettacolo è stato sempre e dovunque «in rapporto» con la religione ma, anche se nello spettacolo in sé non c’è niente di intrinsecamente favorevole od ostile alla religione, a volte questo rapporto è stato di reciproco sostegno, a volte di ostilità.4 In una sintesi ancor oggi autorevole André Schaeffner5 proponeva agli esperti del fatto teatrale una serie di sinonimi – etnodramma, mitodramma, sociodramma primitivo – per connotare plausibilmente, sul piano scientifico, le forme di preteatro che gli studiosi delle prime società umane avevano ravvisato in documenti di inoppugnabile veridicità. Alcune delle prime società umane, le cosiddette società del Paleolitico, hanno infatti lasciato tracce inoppugnabili, in pitture e incisioni rupestri, di figurazioni ambigue (uomini-cervo, uomini-bisonte), il cui zoomorfismo è da ricondursi, per consenso ormai comune, a mimodrammi o pantomime sacrali. Il loro scopo era quello di conciliare gli individui con alcune potenze sovrannaturali ritenute “difficili”: la messa a morte di un animale, con l’intenzione di evitare che lo spirito della vittima futura si rivolgesse contro il cacciatore, non si esauriva in un semplice rito propiziatorio, ma nell’assunzione di un particolare costume-maschera, nell’au-
torappresentazione di un determinato ruolo attraverso la pittura corporale, l’espressività, gestuale e mimica, la scansione di formule sacrali su un passo ritmato e con l’accompagnamento di un’essenziale partitura musicale.6 Il passaggio dalle società della caccia a quelle a economia agricola non ha attenuato il fenomeno, ne ha semmai dispiegato tutta la potenzialità teatrale. Tracce di questi antichi drammi si trovano ancor oggi in alcuni Carnevali alpini che, essendo parte di un patrimonio culturale popolare locale ed isolato dal progressivo processo di massificazione, conservano ancora l’antica struttura rituale. Un esempio di queste antiche manifestazioni lo troviamo nel Carnevale veronese di Cerna. In questo esempio troviamo i segni di un antico rito propiziatorio inneggiante la luce e la bella stagione propizia ad un ricco raccolto. Se ci siamo spinti così a ritroso nel tempo, lo abbiamo fatto per sottolineare l’alto quoziente di socialità che il teatro ha da sempre posseduto, sin dalle prime manifestazioni dell’umano. Le tecniche del corpo, ma anche quelle estatiche7 si sono via via arricchite per riattualizzare situazioni mitiche secondo un canovaccio di stretta “contemporaneità” ed è così che si è giunti a quella forma di rappresentazione che attualmente si richiama maggiormente al nostro concetto di teatro. Bibliografia e letture consigliate Leiris, Michele: La possession et ses aspects théâtraux chez les Éthiopiens de Gondar, Paris 1958; tr. it.: La possessione e i suoi aspetti teatrali tra gli Etiopi di Gondar, Milano 1988. Lorelle, Yves: L’expression corporelle, du mime sacré au mime de théâtre, Bruxelles 1974. Schaeffner, André: Rituel et pré-théâtre; in: Dumur, Guy (ed.), Histoire des spectacles. Encyclopédie de la Pléiade, Paris 1965, 45. Schechner, Richard: Teatro e ritualità; in: Eliade, Mircea (ed): The Encyclopedia of Religion, New York 1986; tr. it. Eliade, Mircea (ed): Enciclopedia delle religioni, Vol. 2, Milano 1994, 583-593. Toschi, Paolo: Le origini del teatro italiano, Torino 1976.
1. Schechner 1994, 583. 2. Schechner 1994, 593. 3. Schechner 1994, 586. 4. Schechner 1994, 593.
5. Schaeffner 1965, 45. 6. Lorelle 1974. 7. Leiris 1988.
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Design che profuma di antico Tra trucioli e segmenti di tronco l’ironia si mescola alla creatività Marta Bicego Tavole e legni antichi, per lo più datati al Seicento e al Settecento, trasformati in pezzi unici e di design. In poche parole: design che profuma d’antico. Un incontro, quello tra il passato e il contemporaneo, che avviene idealmente tra i fondali marini, filtrato attraverso il linguaggio della scultura. Ed è in fondo al mare che, idealmente, si possono incontrare le opere di Michele Simeoni. Sono pesci, dalle sorprendenti dimensioni e dai profili curiosi. Difficile non notarli ed esserne catturati: per le bocche spalancate, le pinne, le squame a tutto tondo, gli occhi e le forme tondeggianti. Quando non ridotti in grandi lische, a simboleggiare come nei periodi di crisi economica sia rimasto (soprattutto per i poveri) gran poco da mettere sotto i denti. I più attenti ricor-
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Le opere di Michele Simeoni fondono passato e modernità e molte nascono... in fondo al mare
deranno che, da due anni a questa parte, la giornata del 1° di Aprile inizia in Piazza Bra con il saluto di un grande pesciolone collocato, con il benestare dell’amministrazione comunale, sulle gradinate di Palazzo Barbieri. Un esemplare che quest’anno, da ben paffuto simbolo di prosperità, s’è ridotto in lisca gigante, lunga oltre sei metri per tre.
Michele Simeoni e le sue opere
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«Da una parte il Liston, dall’altra il “Liscon”» scherza l’autore riferendosi alla creazione e anticipando un po’ di sé e del suo carattere. Tra trucioli e segmenti di tronco, l’ironia si mescola alla creatività, per dar concretezza a sculture originali e, appunto, sorprendenti nelle forme. Pezzi unici a guardare bene, anche in virtù della materia con la quale vengono realizzati: «Legni antichi, recuperati da palazzi in ristrutturazione: vecchi solai, pavimenti» elenca. Basta metter piede nello studio di Simeoni, in via San Marco, per rendersi conto di quante opportunità si possano celare in legname all’apparenza di scarto: ante di porte, stipiti, assicelle di legno tarlate, elementi di mobilio antico con almeno due secoli di storia alle spalle. Pure chiodi databili al Settecento, pazientemente raddrizzati a colpi di martello, per essere nuovamente usati. Materiali che le imprese non utilizzano, ma si trasformano nelle mani del creativo veronese. Se c’è la manualità, si riescono ad assemblare cose impensabili. «Alle superiori ho studiato da perito agrario e architettura a Venezia. Nella mia vita, però, ho fatto altro, ogni genere di mestiere: dall’elettricista al mediatore immobiliare. Sono pure appassionato di antiquariato» inizia a raccontare. Bisogna essere pratici, insomma: se una cosa non puoi permettertela, non è detto che tu non riesca a costruirtela da solo: «Per questo mi sono sempre dato da fare». Filo conduttore di questa filosofia di vita votata all’intraprendenza e al rimboccarsi le maniche senza tanti problemi, ammette, è sempre stata la scultura: «Proprio mentre ero mediatore, ho avuto la possibilità di recuperare delle macchine utensili da falegnameria: una squadratrice, una sega a nastro, una pialla, una fresa. Le ho portate a casa e qualche anno fa, nel 2008, ho iniziato da autodidatta a lavorare i materiali». Il legno prediletto è di quello semplice, come l’abete oppure il cipresso, perché si tratta di tipologie tenere da intagliare. Sono usati rigorosamente al naturale, senza ricorrere a pennellate
di vernici, impregnanti e veleni. Il trattamento anti-tarlo, per esempio, è fatto al forno a microonde. Alla fine, a parlare, è soltanto lo scorrere dei secoli: il tempo che ha lasciato su un’asse striature, corrosioni, tarlature, fori, graffi. Difetti, forse, per alcuni. Segni che, nelle mani di Michele Simeoni, si traducono in dettagli dall’estro contemporaneo. Unici perché irripetibili: una volta ultimati a definire un’opera, essa potrà essere simile, ma mai identica a un’altra se replicata. E non è un caso se le creazioni artistiche dello scultore scaligero sono finite tra le pagine di una prestigiosa rivista di architettura e, oltre che in collezioni private, nelle sale di alcuni esclusivi negozi di design in Italia e all’estero (a Roma, Trieste, Pisa, Siracusa; da Parigi a Ginevra), nei padiglioni di importanti fiere.
«Il legno è materiale denso di vita» prosegue. L’ideale, assieme alla creta, da trasformare. Per produrre soggetti ispirati alla Natura: siano animali, per esempio cavalli, dalle dimensioni quasi reali. Oppure esemplari del mondo ittiomorfo. Perché proprio i pesci, viene spontaneo chiedere? «Amo il mare e l’acqua, pescare e nuotare nel blu» risponde. «Li avete mai osservati da vicino? Sono bestie molto strane: esseri difficili, non addomesticabili. Sono simbolo di libertà». Il primo pezzo con branchie e pinne Simeoni l’ha creato, in un certo senso, per una scommessa: «“Sei capace di fare un pesce?” mi disse uno dei miei committenti» ricorda. Da una battuta, sono nati dei pesciolini finiti sull’Isola d’Elba. Da piccoli esemplari si è passati ad altri dalle grandi dimensioni, come il Pesce Nicola. In seguito, per cercare la giusta ispirazione, lo scultore è andato a curiosare fino a Bolca, per cercare nella laguna pietrificata alla porte di Verona forme alle quali rifarsi. Ad attirare la sua attenzione sono stati anche i pesci disegnati degli album dell’Ottocento, quando ancora non c’erano le macchine fotografiche a immortalare le varie specie. «Non mi definisco un artista – ci tiene a precisare –, ma una persona che non ha avuto un’esistenza facile». Creare, conclude, «è uno sfogo, un divertimento, una goduria. Parto dal nulla, per arrivare a qualcosa di concreto. Il momento ideale per dare sfogo alla creatività? Poco prima di consegnare un lavoro...».
Materia.Per le sue opere Simeoni non utilizza semplice legno, ma pezzi che profumano d’antico, come vecchi pavimenti, assi tarlate, ante in disuso
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Sapore di pane
La fetta imburrata e zuccherata era un mangiare da siori
Elisa Zoppei Quando ero bambina c’era la guerra, la miseria e la fame, e nelle nostre campagne erano le braccia delle donne a fare andare avanti la baracca. Finito di lavorare nei campi raccoglievano le erbe, i pissacani o brusaoci (tarassaco), li curavano, li lavavano (tante volte mi pareva) li bollivano in acqua e sale, spadellandoli poi con un trito di aglio, un gran di pepe ‘na spera de oio...’na scianta di pancetta. Intanto la polenta si brustolava e il profumo si spandeva per la corte e chiamava per la cena. Per noi bambini polentina calda e latte tiepido un po’ zuccherato, ma non troppo. Per i grandi polenta e... quel che c’era. I ricordi della mia infanzia e oltre sono per la maggior parte legati agli odori della cucina, ai sapori dei cibi assaggiati per la prima volta, a come si preparavano perché volevo imparare, aiutare, fare da sola. Non credo di aver mai più goduto un’estasi sensoriale così intensa come quella volta che mi è arrivato al naso il profumo del pane casereccio
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appena sfornato e la sensazione di delizia che provai nel mangiarne un pezzetto. La donna che me lo offrì si chiamava Rosa, era piccola avvolta in un grembiule più grande di lei. Aveva sei bambini e io giocavo con loro. Una volta alla settimana, il venerdì solitamente, le donne che potevano facevano il pane: impastavano farina bianca con acqua, un po’ di sale, e lievito di birra sciolto in una tazza di
Arte antica.
Menavano l’impasto con le braccia nude e forti “brincandolo” ora con una mano ora con l’altra scaraventandolo sull’asse infarinata...
acqua tiepida e poi onto de gombio. Menavano l’impasto con le braccia nude e forti brincandolo (prendendolo) ora con una mano ora con l’altra, scaraventandolo sull’asse infarinata per un tempo che a me sembrava eterno, fino ad ammansirsi, ad ammorbidirsi e diventare un mezza palla messa a riposare coperta da un canovaccio. Lì rimaneva una buona ora e anche di più a levar (lievitare) e quando era ben gonfio, via di nuovo con le brutte maniere. Poi dalle mani sapienti uscivano tante piccole palle rotonde (rosette) o panetti a banana o trecce o altre forme che venivano messe in un forno a legna, scavato nel muro e mattonato. Per fare le rosette bisognava tracciare sopra una croce prima di infornarle. Il pane bisognava tenerlo da conto. Si metteva in tavola per la festa. Una delle cose più buone assaporate nelle merende nei miei anni infantili è una fetta di pane spalmata di burro e zucchero. Anche il burro si faceva in casa con la panna del latte appena munto messo a riposare per una notte in un capiente catino di ceramica. Al mattino ce n’era uno strato alto un dito: la si raccoglieva con un cucchiaio e la si metteva dentro un piston (apposito fiasco di vetro) che veniva tappato e sbattuto sulle ginocchia per quasi un’ora o forse più. So che alla fine il latte coagulava e lo vedevi trasformarsi in un baloco bianco solido galleggiante nel liquido trasparente. Bisognava buttarlo fuori dal piston agitandolo con forza a collo in giù. Il burro accomodato e lisciato, era anche l’ingrediente base prezioso, insieme al lardo pestato, per fare il desfrito (soffritto con aglio cipolla) e condire minestre, metar su verdure, e più raramente la pastasciutta e lo stufato. Allora un po’ di pane con un velo di burro e una spolvarà de sucaro, era un vero mangiare da siori.
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Scarpa larga e goto pien Seconda edizione in formato “elegante” del libro di Giuseppe Rama che raccoglie i proverbi della tradizione veronese Aldo Ridolfi Scarpa larga e goto pien, ciapa la vita come la vien, di Giuseppe Rama, Vergraf edizioni, esce ora in seconda edizione. Pochi e marginali gli aggiustamenti al testo, completamente rinnovato, invece, l’apparato iconografico che si avvale sia di raccolte private sia degli archivi della nostra Biblioteca Civica. Il libro, editorialmente molto elegante, è una raccolta di proverbi che ripercorrono la tradizione veronese attorno alla coltivazione della vite e alla lavorazione del vino. Giuseppe Rama ordina il materiale raccolto – proveniente da fonti bibliografiche ma anche, e forse in modo particolare, dalla viva voce dei suoi numerosi e fidati informatori – per temi, in modo di fornire una impostazione per certi aspetti “didattica” ma efficace, soprattutto tenendo conto che il nostro attuale contesto culturale fatica non poco a cogliere i significati – un tempo espliciti, oggi nascosti – presenti nei numerosi (oltre 150) proverbi raccolti. Il materiale etnografico costituito dai proverbi viene inoltre via via arricchito con puntuali e affascinanti interpretazioni. Non solo, ma l’Autore integra con storie e aneddoti raccolti dalla vivissima conoscenza del territorio e dalla instancabile conversazione con le persone. In
tal modo veniamo a conoscere uomini e donne capaci di offrire uno spaccato umano apparentemente marginale, in realtà costitutivo di una società che riconosceva al singolo un suo ruolo lontano, lontanissimo dall’uomo-massa che già in quegli anni, in altri ambienti, si stava alacremente preparando.
Saggezza popolare.
Un libro “popolarmente aristocratico” dove il materiale etnografico è arricchito da puntuali e affascinanti interpretazioni
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È il caso, per esempio, della storia di un’ostessa di Centro, frazione del comune di Tregnago, esemplare personaggio per capacità culinarie e per la singolare, ma alla fine generosissima, modalità di accoglienza. Signora che è stata messa in crisi da una «legge odiosa» che imponeva il registratore di cassa! Libro “popolarmente aristocratico”, quello di Rama. Perché raccoglie la viva voce di un popolo che costruisce da se medesimo il proprio destino e perché l’autore trasfonde questa visione del mondo sulle pagine del libro con una chiarezza – stilistica e di contenuto, formale e sostanziale – che non può appartenere che ai migliori conoscitori della nostra realtà veronese. Ma non è tutto qui. C’è qualcosa che va un poco oltre, che scandaglia terreni più delicati e mira a dissotterrare elementi di riflessione che vanno al di là della cura della vite, dei vitigni di un tempo, delle piccole e grandi arguzie che caratterizzavano la società degli osti, dei bevitori e dei vinificatori. Ed è proprio questo qualcosa in più che ci attrae e che ci sembra in linea con quanto questa testata on-line intende non ignorare. È lo stesso Autore a metterci sulla strada buona quando dice che «i proverbi sottintendono quasi sempre una morale frutto di pazienti osservazioni e ripetute verifiche». Cosa risapu-
La regola.
Immagini tratte dal libro Scarpa larga e goto pien, ciapa la vita come la vien
«I proverbi sottintendono quasi sempre una morale fatta di pazienti osservazioni e ripetute verifiche» ta, certo, ma mai ribadita a sufficienza. E non si prenda quale fulcro della frase la parola “morale”, per la quale occorre, come si dice in questi casi, un lungo discorso. Si consideri invece l’espressione «pazienti osservazioni e ripetute verifiche». Questa sì sintetica espressione di un modo di procedere “laico”, attentissimo alla realtà effettuale e ben lontano, tanto per fare un esempio, dalle inaffidabili attuali acrobazie finanziarie che tanti mali stanno arrecando. Che la tradizioni contenga anche forme di saggezza? Secondo Rama sembra di sì e noi lo ringraziamo per avercelo ricordato.
Giuseppe Rama Scarpa larga e goto pien, ciapa la vita come la vien
Detti e proverbi veronesi sul vino con storie di vecchie osterie Vergraf -2013
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