Le leggende della Val Masino in fiaba

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Le leggende della in fiaba Val Masino

Laura Volpi
Chiara Marchetti

Editore: Comune di Val Masino

Autore: Laura Volpi

Illustrazioni: Chiara Marchetti

Contributo testi: Nicolò Taeggi con la nonna Carolina Scetti

Giulio Songini, Osvaldo Songini, Anna Venzi

Progetto grafico e impaginazione: Mottarella Studio Grafico www.mottarella.com

Altre fonti: libro “La Val Masino e la sua gente” di Mario Songini

Pubblicato maggio 2025

Le leggende della in fiaba Val Masino

Il Gigiat e la burla al conte morbegnese

La Màta Selvàdega

La mucca raffinata e la fonte

La leggenda dei Corni Bruciati

La povera e il poverèt

Il Gigiat guardiano delle montagne

Caterina e il settimo gradino

La zoca do luf

I due fratellini e i Mat Salvadec

In occasione della 16a Rassegna

Mandamentale dei Costumi Tradizionali, presentiamo questa piccola raccolta di leggende della Val Masino, tramandate da generazioni e rivisitate in forma di fiaba.

Un libretto che racchiude frammenti preziosi dell’identità culturale della valle, in un intreccio tra fantasia e tradizione. Una raccolta per i bambini di ieri, di oggi e di domani, affinchè possano ritrovare, tra queste leggende, una parte delle loro radici.

Comune di Val Masino

Il Gigiat e la burla al conte morbegnese

Sinarra di un conte di Morbegno tanto ricco e orgoglioso da credere che nulla potesse sfuggirgli. Si vantava infatti di possedere una vasta collezione con tutto ciò che la Valtellina potesse offrire.

Un giorno, mentre si pavoneggiava parlando dei suoi tesori in una locanda, due poveri contadini della vicina Val Masino, più precisamente di San Martino, lo ascoltarono attentamente.

Ad un certo punto uno di loro esclamò:

«Signore, nella sua collezione manca qualcosa di unico, qualcosa che nessun altro possiede.»

Il conte incuriosito rispose: «Cosa potrebbe mai mancare nella mia collezione? Possiedo ogni cosa di valore che questa terra possa offrire!»

«In Val Masino,» continuò il contadino, «c’è un animale straordinario, misterioso, che abbiamo avvistato sulle montagne. È il Gigiat, una creatura enorme che mescola le caratteristiche della capra e quelle dello stambecco, e che non ha eguali.»

Il conte, affascinato dall’idea di aggiungere un’altra meraviglia alla sua collezione, rispose: «Se questo animale esiste davvero, sarà mio!

Vi darò una generosa ricompensa in denaro se riuscirete a portarmelo.»

I contadini accettarono l’offerta chiedendo però di ricevere la ricompensa in anticipo.

Non avevano infatti alcuna intenzione di catturare il Gigiat! Si fecero dare il denaro e scomparvero dalla città.

Il povero conte non vide mai il Gigiat e questo inganno portò i Morbegnesi a diffidare degli abitanti della Val Masino.

Ma nel 1956, un gruppo di audaci cittadini della frazione di San Martino decise di fare qualcosa di speciale per togliersi quella brutta etichetta. Volevano dimostrare che gli abitanti della Val Masino non erano affatto ingannatori, e per farlo, decisero di portare il Gigiat al Carnevale di Morbegno!

Presero un asino, lo ricoprirono con del pelo folto, lo legarono a delle catene e lo fecero avanzare con passo lento e dignitoso al carnevale, guidato da un cacciatore con un fucile di legno e un aiutante che accudiva l’animale.

La gente rideva e applaudiva, riconoscendo l’ingegno degli abitanti della Val Masino.

Fu così che il Gigiat divenne una figura impressa nella memoria di tutti e ancora oggi la sua storia viene tramandata dagli abitanti della valle.

La Màta Selvàdega

Aipiedi delle montagne, lungo il fiume Masino, viveva una donna misteriosa. Era conosciuta come la Màta Selvàdega. La sua casa non era una casa come le altre, ma un rifugio nascosto sotto un enorme masso dentro il fiume, dal quale usciva solo all’imbrunire.

Donna solitaria, non amava di certo la compagnia e la gente era terrorizzata solo a sentirla nominare. Ogni volta che i bambini della valle uscivano a giocare, i genitori li avvertivano: «Fate attenzione, quando il sole tramonta tornate a casa, perché la Màta Selvàdega cammina lungo il fiume e non c’è scampo per chi la incontra.» E così, tutti i bambini rientravano a casa prima del buio, spaventati dalla terribile figura che viveva nel fiume.

Si narrava infatti che la Màta Selvàdega si divertisse a catturare i bambini che trovava lungo le vie del paese e li cucinasse in un enorme pentolone nel retro del suo rifugio. Nessuno, però, aveva mai visto con i propri occhi la donna ed era difficile sapere quanto fosse vero ciò che si diceva su di lei. Ma una cosa era certa: tutti, giovani e anziani, temevano la sua malvagità.

Tutti, tranne uno.

Un giovanotto abile e coraggioso del paese, che non aveva paura di nulla, decise un bel giorno di sfidare la Màta Selvàdega. Così, una sera, mentre il sole tramontava

dietro le montagne, il ragazzo si caricò sulle spalle una brenta di vino e si incamminò verso il rifugio della Màta.

Camminò lungo il letto del fiume, accompagnato solo dal gorgoglio dell’acqua mentre le ombre della sera avvolgevano il sentiero. Così giunse al rifugio della donna.

La Màta Selvàdega lo vide arrivare e con voce profonda e minacciosa gli urlò: «Vattene, giovane imprudente! Non dovresti essere qui dopo il calar del sole!»

Il ragazzo decise di non ascoltare le parole della donna, prese coraggio e si avvicinò al suo rifugio dicendo: «Ti offro un calice di vino, Màta Selvàdega. Se sei davvero così temibile, forse questo piccolo gesto ti farà cambiare idea.»

La donna, vedendo il ragazzo così audace, si scagliò verso di lui con un balzo incredibile, ma non mirò a colpirlo. In realtà, il suo obiettivo era la brenta di vino che il giovane portava con sé! La Màta si infilò nella brenta e cominciò a bere avidamente il vino senza più preoccuparsi del perché quel giovane fosse arrivato fino al suo rifugio.

Il ragazzo, ancora tremante per il balzo della donna, capì che era il momento di agire.

Senza pensarci due volte, sollevò un piede e con un forte calcio colpì la brenta.

La brenta, con la Màta Selvadega dentro, rotolò nel fiume Masino.

La corrente del fiume fu impietosa e inghiottì la donna e la brenta in un istante.

La Màta Selvàdega scomparve nel vortice delle acque e con lei sparì anche la paura che da tanto tempo affliggeva il paese.

La mucca raffinata e la fonte

aLscoperta della fonte termale dei Bagni di Masino si perde nella notte

dei tempi, tra le montagne verdi e silenziose della valle e si narra sia dovuta ad una mucca raffinata.

Un pastore conduceva ogni giorno la mandria di mucche dell’alpeggio dei Bagni ad abbeverarsi presso il limpido torrente della valle. Un giorno però notò che mentre tutte le altre mucche bevevano l’acqua fresca del torrente, una di loro non beveva ma si allontanava, attraversando il corso d’acqua e spariva nel bosco. La mucca tornava dopo un po’, senza mai toccare un goccio d’acqua e si riaggregava alla mandria.

Il pastore incuriosito da quel comportamento iniziò ad osservarla di nascosto.

Per giorni vide sempre la stessa scena: la mucca ripeteva l’attraversata del torrente e spariva in mezzo ai faggi; poi ricompariva e tornava insieme alle altre mucche, sempre senza abbeverarsi al torrente.

Un pomeriggio, per far luce su questo mistero, incoraggiato anche dagli altri pastori a cui aveva raccontato il fatto, decise di seguire la mucca mettendosi in cammino dietro di lei. La mucca lo condusse attraverso il bosco, che finiva a ridosso della parete rocciosa della montagna. Lì l’animale si fermò e iniziò a bere avidamente dell’acqua che sgorgava dalla roccia. Il pastore si chinò, toccò l’acqua e con grande meraviglia scoprì che si trattava di una fonte di acqua calda.

L’uomo, ancora incredulo, andò a raccontare agli altri pastori l’accaduto.

I pastori inizialmente risero e lo presero in giro ma poi, incuriositi, si recarono con lui nel luogo dove la mucca si abbeverava e scoprirono che aveva ragione: era veramente una fonte di acqua calda!

E la mucca? Lei continuò a bere da quella fonte e con dei benefici sotto gli occhi di tutti: faceva più latte delle compagne e aveva un pelo liscio e lucente!

La leggenda dei Corni Bruciati

Questa è una storia scolpita nelle pietre rosse e frastagliate delle rocce che formano le montagne di Preda Rossa, dove una volta vi erano splendidi alpeggi verdi.

Era una giornata d’estate come tante, con le mucche che pascolavano sui dossi erbosi. Due fratelli si trovavano in alpeggio con le loro mandrie per la stagione estiva. Arrivò il pomeriggio e si misero a mungere. Terminata la mungitura erano stanchi e rientrarono nella loro baita per riposare un po’.

Fu allora che sentirono bussare alla porta. Il fratello più giovane si alzò e andò ad aprire. Si trovò davanti un vecchio che aveva l’aspetto di un mendicante. Con voce tremante e stanca il vecchio li supplicò dicendo: «Avete qualcosa da mangiare?». Il fratello più giovane, mosso dalla compassione, lo fece entrare, prese un po’ della sua polenta e del suo formaggio e glieli diede. Il fratello maggiore invece, con fare spavaldo e arrogante, si rivolse seccato al mendicante urlando: «Vecchio, abbiamo lavorato tutto il giorno noi due! Non vedi come siamo affaticati? Vattene! Se proprio vuoi qualcosa, qui fuori dalla baita troverai la scodella del cane pastore». Il vecchio non disse una parola e uscì. Il fratello più giovane dispiaciuto lo raggiunse e gli disse: «Non farci caso. Accomodati sulla panca qui fuori e mangia».

Il vecchio lo ringraziò, si sedette e mangiò con gusto. Quando ebbe finito si alzò e fece per allontanarsi. Il giovane pastore allora lo raggiunse e gli disse: «Dove vai? Fra un paio d’ore sarà buio. Se vuoi nella baita c’è un pagliericcio. Potrai dormire lì questa notte». Allora il vecchio si fermò, lo guardò fisso negli occhi e gli disse: «Ascoltami! Vattene subito da questo posto. Incamminati ora, senza esitare! Prendi il sentiero che sale verso l’alpeggio di Scermendone. Quando sentirai alle tue spalle la terra in subbuglio e dei rumori assordanti, mi raccomando, non ti voltare mai a guardare o sarai perduto!».

Il giovane pastore rimase senza parole. Poi si voltò per chiedere al vecchio cosa stesse per capitare ma non lo vide più. In quel momento uscì dalla baita il fratello maggiore che lo chiamò dicendo: Dai, vieni dentro a riposare!». Ma il fratello più giovane gli disse: «Quel vecchio mi ha raccomandato di lasciare subito la baita e di salire senza esitare verso Scermendone, perché sta per succedere qualcosa di sconvolgente!».

«Vieni con me» – gli disse implorandolo – «ho la sensazione che ci sia qualcosa di vero nelle parole di quell’uomo. Il fratello maggiore però non volle ascoltarlo. Allora il giovane uscì e si incamminò da solo.

Era quasi arrivato al torrente della Val Terzana quando un vento improvviso cambiò il cielo rendendolo più cupo e sinistro. Il vento era accompagnato da un rumore sordo che solo l’acqua del torrente gli impediva di distinguere nettamente. Quello che il giovane pastore percepiva era un fragore della natura in crescendo, un subbuglio che veniva dal cuore della terra. Poi il fuoco! Si sentivano i rami dei pini bruciare e ardere all’impazzata.

Finché arrivò in un punto del sentiero dal quale si sarebbe potuta vedere dall’alto la Piana di Predarossa, le baite, i pascoli….ma si ricordò delle parole sibilline del vecchio: «….non ti voltare mai a guardare o sarai perduto!» Cercò allora di resistere all’impulso di voltarsi ma alla fine si voltò.

Fu in quel momento che due lapilli sibilanti e infuocati entrarono nei suoi occhi. Che dolore! Non riusciva a vedere più nulla di nulla. Cominciò a gridare, ad implorare aiuto. Ma chi poteva sentirlo? Sofferente ricominciò allora a camminare, andando avanti un po’ a memoria. Aveva percorso spesso quel sentiero, lo conosceva bene, ma camminarci senza poter vedere sembrava un’impresa impossibile.

Ad ogni modo proseguì, mentre gli affiorava nel cuore un profondo pentimento per non aver dato retta fino in fondo alle parole del misterioso mendicante. Nonostante le difficoltà raggiunse Scermendone.

Si sdraiò esausto sull’erba. Fu in quel momento che sentì una voce sussurrargli nelle orecchie:

«Scendi al baitone di Scermendone e, una volta lì, non entrare ma colpisci con i piedi una roccia che fiancheggia il sentiero. Uscirà dell’acqua. Bagnati gli occhi e tornerai a vedere!»

Subito dopo la voce svanì, esattamente come quel vecchio di qualche ora prima. Decise allora di ascoltare il consiglio ricevuto. Era quasi cieco, ma conosceva bene anche quella

strada e a tentoni ci arrivò. Di fianco al baitone, cercando con le mani, trovò la roccia che gli era stata descritta. La colpì con i piedi e si chinò, infilando una mano alla base della roccia, dove scaturiva dell’acqua.

Ritirò la mano tutta bagnata e la passò su entrambi gli occhi. Lo fece con fede, convinto che sarebbe accaduto qualcosa, perché la voce che aveva sentito sembrava proprio la voce del Signore. Fu precisamente in quel momento che riacquistò la vista.

Tornato in paese si impegnò per far costruire proprio in mezzo all’alpeggio di Scermendone una piccola chiesetta. La chiesetta di San Quirico.

Si narra che da allora le montagne che circondano a est la piana di Preda Rossa vennero chiamate i ‘Corni Bruciati’.

La povera e il poverèt

C’era una volta, alle porte della Val Masino, il piccolo borgo di Sant’Antonio, che aveva anche una sua chiesetta, a ridosso del fiume.

In quel borgo viveva una povera donna, che aveva perso il marito, con i figli ancora in tenera età.

Insieme al marito se n’era andato anche l’unico lavoro che dava pane alla famiglia. Giorno dopo giorno, la donna cercava di sfamare i suoi figli con le ultime scorte rimaste.

Ma le scorte finirono e con esse anche le forze. I bambini si accoccolavano attorno al focolare, sempre più deboli, e la madre li stringeva forte, senza sapere più a chi rivolgersi. Finché, una mattina, qualcuno bussò alla porta.

La donna si alzò a fatica e aprì. Davanti a lei c’era un mendicante, vestito di stracci, che con voce gentile le chiese un po’ di cibo e riparo.

«Non ho nulla da offrire», disse la donna con dolore «ma puoi entrare e scaldarti con noi.»

Il mendicante entrò e rimase colpito dalla miseria in cui viveva la famiglia. Si avvicinò al focolare quasi spento e domandò alla madre: «Hai un po’ di legna?» .

«Sì, quella non ci manca», rispose la donna.

«Allora fai bollire dell’acqua in un pentolone e quando sarà pronta, aggiungi dei sassi.»

La donna lo guardò sorpresa. «Dei sassi?» chiese con esitazione.

«Sì», affermò il pover’uomo.

La donna obbedì. Uscì, raccolse alcune pietre grosse e quando l’acqua cominciò a bollire, le mise nel pentolone.

Dopo qualche ora la donna prese un mestolo e lo infilò nel pentolone per cercare i sassi...

ma al posto dei sassi trovò delle grosse patate fumanti!

La donna non poteva credere ai suoi occhi! Quasi svenuta per la forte emozione, si girò per ringraziare il mendicante, ma lui non c’era più. Era sparito senza far rumore, come se non fosse mai esistito.

Allora la donna si rivolse ai figli con gli occhi pieni di gioia, esclamando:

«È Sant’Antonio… è lui che ha fatto il miracolo!»

Il Gigiat Guardiano delle Montagne

C’era una volta, tra le alte montagne della Val Masino, una creatura misteriosa chiamata Gigiat.

Era un animale enorme, ricoperto di un lungo pelo folto, con grandi corna sulla testa e zampe veloci come il vento.

Si diceva che potesse saltare da una montagna all’altra in pochi balzi e che fosse il guardiano della valle e di tutti gli animali che vi abitavano.

Un giorno, un alpinista di nome Giacomo decise di salire fino alla cima del Pizzo Badile, una montagna altissima. A un certo punto, però, scivolò su un pendio ghiacciato e iniziò a cadere. Cercò di aggrapparsi ad una roccia, ma le sue mani erano fredde e scivolose. «Aiuto!» gridò, ma lassù nessuno poteva sentirlo.

Proprio quando stava per perdere ogni speranza, apparve sopra di lui il Gigiat.

Con un balzo, l’animale raggiunse Giacomo e si abbassò per aiutarlo. L’alpinista si aggrappò al suo folto pelo. In un attimo il Gigiat lo sollevò e lo portò in salvo.

Poi scomparve nella nebbia prima che l’alpinista potesse ringraziarlo.

Da quel giorno, Giacomo, pieno di gratitudine nei confronti dell’animale, raccontò a tutti di come il Gigiat lo avesse salvato. Gli abitanti della valle, ancora oggi, narrano che il Gigiat è buono e protettivo nei confronti di chi ama e rispetta la montagna; al contrario diventa feroce con chi non ha cura della natura e delle sue creature.

Caterina e il settimo gradino

C’era una volta, nel paese di Cataeggio, una donna umile e coraggiosa di nome Caterina. Rimasta vedova e madre di tre figli, non viveva di certo una vita facile. Ecco cosa le accadde.

In quel tempo la settimana era di sette giorni. Certo, direte voi, proprio come oggi! Ma allora per Caterina non c’erano né sabati, né domeniche. Doveva lavorare duramente ogni giorno per sfamare i propri figli. Così Caterina dopo il lavoro dei campi, dopo aver dato da mangiare agli animali e preparato la cena, lavato, pulito, sistemato la legna e un’altra infinità di incombenze, metteva a letto i figli in una stanza al piano di sopra. Una volta addormentati, Caterina non andava a riposarsi ma scendeva nella sua piccola cucina a filare la lana, per preparare gli indumenti per la sua famiglia. Col camino acceso, alla luce delle candele, Caterina filava la lana pure la domenica, fino a notte fonda, a volte fino all’alba. Capitava però che un grande senso di colpa le si posasse sul cuore, ricordando le parole del Signor Parroco, che raccomandava di partecipare alla Santa Messa della domenica e il rispetto del riposo festivo.

Raccomandazioni che lei non riusciva ad osservare, non perché non volesse ma per necessità.

Una sera, proprio di domenica, sentì bussare alla sua porta. «Avanti» – disse – «la porta è aperta». Si presentò un forestiero che non aveva mai visto prima. Indossava un mantello attorno alle spalle e un cappello color della cenere che copriva quasi tutti i capelli della sua testa, tranne qualche ricciolo nero. «Mi scusi se la disturbo a quest’ora’ – disse quell’uomo – «Siete voi Caterina? Mi hanno detto di venire a prenderla per portarla ad una festa. Si prepari, la stanno aspettando….la festa è già iniziata e manca solo lei».

«Ma…..non saprei» – disse Caterina – «vi siete sbagliato, caro signore, io non ho ricevuto alcun invito ad una festa..»

Rispose l’uomo: «Vi assicuro signora che l’informazione che ho è precisa! Si prepari! La aspetterò qui fuori».

Caterina era confusa e spaventata, al punto che le cadde dalle mani il fuso con cui stava lavorando e finì per terra. Si chinò per raccoglierlo. Fu in quel preciso istante che notò i piedi di quello sconosciuto. Non riusciva a credere ai suoi occhi. Non erano piedi

umani. Erano due enormi zampe di gallina. Sì, due zampe di gallina! Niente calze, niente scarpe. Solo due zampe di gallina ben piantate per terra che tenevano in piedi quello stranissimo individuo. «Per tutti i Santi del Paradiso» – pensò tra sé la povera Caterina –«ma cosa mi sta succedendo?».

Caterina era agitatissima. Quell’uomo dalle zampe di gallina emanava lo stesso odore della legna che ardeva nel camino. E a dire il vero, da quando era comparso sull’uscio di casa, le era sembrato che la fiamma del camino si fosse ravvivata da sola, come quando le si soffia sopra per farla bruciare con maggiore intensità e vigore. Aveva paura per i suoi figli che, ignari, già dormivano al piano superiore. Allora disse allo sconosciuto: «Signore, vado a prepararmi». «Bene» – disse quello compiaciuto – «la aspetto qui, allora». E Caterina salì di sopra dove dormivano i suoi tre figli, chiudendo a chiave la porta dietro di sé.

Svegliò di fretta i piccoli e si fece aiutare da loro a spostare un piccolo armadio contro la porta. Era abbastanza pesante e avrebbe impedito a chiunque di entrare nella stanza.

Poi fece la stessa cosa con i letti. Infine prese per mano i suoi figli chiedendo loro di rimanere in silenzio e spiegando che c’era al piano di sotto un individuo che non aveva mai visto. E che forse non era un uomo. Secondo lei era il diavolo in persona! Caterina si sedette con i suoi figli per terra aspettando e sperando che quel forestiero, stanco di aspettarla inutilmente, se ne andasse via. Ma così non fu.

«Caterina!» – urlò – «sono qui sul primo gradino….» Caterina sobbalzò dallo spavento e poco dopo quella voce riprese, più minacciosa di prima. «Caterina! Sono qui sul secondo gradino…» «Dio mio, ma cosa avrò mai fatto di male per meritarmi questo castigo?» – pensò allora Caterina. «Caterina! Sono qui sul terzo gradino….»

E così continuò fino quando urlò: «Caterina! Sono qui sul settimo gradino….»

Quella parola ‘settimo’ le illuminò la mente. Il settimo giorno! La domenica! Lei non

stava rispettando il riposo della domenica. Per questo il diavolo era venuto a prenderla per portarla all’Inferno, altro che ad una festa! La presa di coscienza del suo peccato

l’aveva fatta tornare in sé. A Caterina tornò la voce e gridò a squarciagola: «Vattene, Satana! Lo so che sei tu! Nel nome del Signore, fuori da casa mia!»

Calò il silenzio su tutta la casa. Lo sconosciuto, se n’era finalmente andato. Caterina lo aveva sentito scendere i gradini, uno per uno, così come li aveva saliti. E poi più nulla.

Quella notte, pregando, aspettò le prime luci dell’alba. Poi liberò la porta della stanza dai mobili, la aprì e riprese la sua vita.

Da allora Caterina rispettò scrupolosamente il riposo domenicale fino alla fine dei suoi giorni.

La zoca do luf

Una volta il piccolo borgo di Cataeggio ero formato da poche case, tra cui la Chiesa. In una delle modeste abitazioni viveva un giovane pastore che ogni anno intraprendeva una lunga camminata verso la valle di Predarossa per radunare il suo gregge disperso.

Il paese era circondato da una foresta e la gente mormorava che nella boscaglia, tra gli alberi, si aggirasse un lupo. Ma il giovane pastore non voleva credere a questa storia.

Una mattina si alzò all’alba, si mise la giacca e si preparò per andare a recuperare il gregge.

Mentre attraversava il bosco sentì improvvisamente un ululato. Il pastore tremante si guardò attorno e si arrampicò frettolosamente su un pino per mettersi in salvo.

Da lì, guardò in basso e vide il lupo che si aggirava sotto il suo albero e che cominciava a strappare la corteccia con i suoi denti affilati, cercando di raggiungere il pastore.

L’uomo non sapeva cosa fare ma ad un certo punto gli venne un’idea. Si tolse la giacca, la cintura e i pantaloni e li riempì velocemente con rami di pino. Così facendo, creò un pupazzo che lanciò sotto l’albero, in pasto al lupo.

Il lupo, affamato e cieco di rabbia, non si accorse del trucco. Con un balzo, si scagliò sul pupazzo e lo afferrò con i suoi denti. Pensando di aver finalmente catturato l’uomo, lo prese e lo portò con sé, mentre il pastore, approfittando del momento, scappò a tutta velocità verso casa. Quando il lupo si accorse dell’inganno, ormai era troppo tardi. Il pastore era già lontano, in salvo. In quel luogo chiamato ancora oggi “Zoca do luf” si dice che il lupo si apposti ogni giorno sotto il pino sperando di catturare il pastore.

I due fratellini e i Mat Salvadec

C’erano una volta, in un piccolo villaggio della Val Masino, circondato da prati verdi e boschi incantati, due fratellini: Pietro e Anita. Pietro era un bambino curioso e coraggioso, mentre Anita, più piccola di lui, era dolce e un po’ timorosa. La loro mamma diceva sempre: «Non allontanatevi troppo da casa, perché nel bosco vivono i Mat Salvadec, uomini cattivi che rapiscono i bambini!»

Ma un giorno, mentre giocavano nei prati, Pietro e Anita sentirono un suono delicato di campanelli, simile a quello dei capretti che correvano nei pascoli. «Forse un piccolo capretto si è smarrito!» esclamò Pietro.

I due bambini seguirono quel suono, senza accorgersi di essersi addentrati nel bosco. D’un tratto, il suono cessò. Quando si voltarono per tornare indietro, improvvisamente, dalle ombre spuntarono uomini trasandati con vestiti sporchi e capelli arruffati. Erano i Mat Salvadec. «Ecco due nuovi piccoli lavoratori!» dissero ridendo, afferrando i bambini e portandoli nel loro nascondiglio, un grande masso cavo chiamato “camer”.

Anita iniziò a piangere, ma Pietro, stringendole la mano, sussurrò: «Non preoccuparti, troveremo un modo per scappare!» I Mat Salvadec li rinchiusero in una buca scura e umida e se ne andarono nel bosco a tagliare legna. Pietro non perse tempo: con le mani scavò nella terra fino a creare un piccolo passaggio sotto il cancello di legno.

«Anita, striscia fuori, veloce!» disse. La sorellina, seppur spaventata, lo seguì.

I due fratellini corsero più veloce che poterono, finché non giunsero a un prato dove un contadino stava ammucchiando il fieno. «Per favore, aiutateci! I Mat Salvadec ci stanno inseguendo!» implorò Pietro. Il contadino li nascose velocemente sotto due mucchi di fieno. Poco dopo, i Mat Salvadec arrivarono trafelati dove si trovava il contadino e gli chiesero: «Hai visto due bambini?». Il contadino scosse la testa.

I Mat Salvadec, dubbiosi, iniziarono a cercare sotto i mucchi di fieno. Ma il contadino li fermò: «Cercate pure sotto tutti i mucchi di fieno, ma non toccate quei due mucchi!

Lì dormono il mio Cagnolin e il mio Marendin, due cani molto feroci. Se li svegliate, vi sbraneranno!»

I Mat Salvadec si spaventarono e, senza più insistere, corsero via verso il villaggio. Quando furono lontani, il contadino aiutò i bambini a uscire dai loro nascondigli e disse loro:

«Ora tornate subito dalla vostra mamma e non disubbidite più!»

Da quel giorno, i due fanciulli impararono ad ascoltare le raccomandazioni della mamma. Così vissero felici e al sicuro nel loro villaggio, tra le montagne della valle.

Le leggende della in fiaba Val Masino

Piccola raccolta di leggende della Val Masino, tramandate da generazioni e rivisitate in forma di fiaba.

Un viaggio incantato tra boschi, rocce e antichi borghi della valle, accompagnati da personaggi e fatti misteriosi.

Storie illustrate, in cui la fantasia si intreccia con la tradizione, la cultura contadina e la devozione religiosa.

Buona lettura!

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