Livia Profeti su Althusser

il caso

Il filosofo Louis Althusser e la compagna Hélène Rytmann-Legotien

Legemonia culturale

DELLA PAZZIA

Pubblicate in Francia le Lettres à Hélène che Althusser, filosofo tra i più influenti del XX secolo, scrisse alla compagna tra il 1947 e il 1980, anno in cui la uccise strangolandola. Il volume, edito da Grasset, a cura di Olivier Corpet con una prefazione di BernardHenri Lévy, rivela la malattia mentale che lo aveva sempre afflitto di LIVIA PROFETI 58 uleft 23, 10 GIUGNO 2011

A

lthusser fu un fondamentale artefice di quella French theory che a partire dagli anni Sessanta ha dominato gran parte della cultura mondiale. Dal 1948 al 1980 è stato, come ricorda l’allievo Bernard-Henri Lévy nella prefazione, uno dei grandi “Caimani” dell’École Normale di Parigi: «Il maitre à penser di molte generazioni di Normaliens e, attraverso loro, di intellettuali di tutto il mondo». Eppure, il 16 novembre 1980, alle 9 di mattina, strangolò nel letto la donna cui era legato da decenni, senza apparente motivo. Dichiarato infermo di mente, nei dieci anni che sopravvisse non spiegò mai quell’assassinio, salvo alcune confuse dichiarazioni contenute nell’autobiografia pubblicata postuma nel ’92 (L’avvenire dura a lungo) in base

alle quali sono fioccate interpretazioni insensate quanto lo stesso gesto, come quella dell’«omicidio altruista». Ispirate al presunto “desiderio di morte” cardine di quella cultura, sono pervicacemente riproposte ancora oggi, ad esempio da Elisabeth Roudinesco, che su Le Monde del 26 maggio dichiara che «uccidere colei che amava e che aveva tanto desiderio di morire», fu per Althusser «la maniera di liberare quel desiderio».

In verità tutto questo amore nelle Lettres non si vede, mentre emerge piuttosto la realtà di un rapporto a dir poco problematico e difficilmente comprensibile, anche perché il volume non contiene le lettere di lei. Quando i due si conoscono nel 1946, il loro passato è diversissimo: Hélène Rytmann-Legotien, maggiore

di otto anni, ebrea e comunista, proviene dalla militanza attiva nelle file della Resistenza francese, Luis Althusser da quella nei movimenti cattolici conservatori. Dopo due anni aderisce lui al Partito comunista, che invece nel frattempo aveva ripudiato lei per cause mai accertate. Inizialmente impegnato nel tentativo di riabilitarla, si arrese poi alla misteriosa condanna e rimase nel partito per il resto della vita. Ma ciò che le lettere rivelano è lo sfondo costante del loro rapporto, cioè la malattia mentale gravissima che affliggeva il filosofo, forse legata a una circostanza già evidenziata in passato, che viene ripresa da Lévy nella premessa: Althusser era sempre vissuto con l’idea di esser nato “per sostituire” lo zio caduto in guerra, di cui la madre era promessa sposa. La donna accettò allora la proposta del fratello di lui, e nel 1918 nacque Althusser, cui venne dato il nome del morto, Luis. Un nome che da piccolo gli faceva «orrore» e che nell’autobiografia è presente come un fantasma: il «Luis morto che è sempre stato dietro di me», «dietro le mie spalle». Nell’incontro con Hélène la malattia si manifesta subito, quando Althusser, ancora vergine a quasi trent’anni, ha con lei il suo primo rapporto sessuale, cui seguì una crisi da richiedere il ricovero in clinica psichiatrica. Le Lettres la mostrano in tutta la sua cruda realtà: caos mentale, ricoveri, fasi catatoniche alternate a stati mania-

Una lettera a Hélène

cali, elettroshock, dosi massicce di psicofarmaci. E psicanalisi: insieme a richiami allo stesso Freud, nel volume ricorre spesso la figura di René Diatkine, allievo di Lacan poi entrato nelle file del freudismo ortodosso, psicanalista di entrambi.

Althusser, enigmaticamente, dirà poi: «Se ho strangolato Hèlène è stato per non uccidere il mio analista».

In Althusser quindi il rapporto con la donna

che ucciderà si confonde e si sovrappone tanto con il comunismo quanto con la psicanalisi, che si ritrovano entrambi in quel movimento strutturalista con cui tentò di superare il materialismo marxista, attraverso una lettura di Freud mediata da Lacan, a cui egli nel 1964 aprì la strada all’École e presso l’intellettualità comunista. Ma anche attraverso Spinoza, da Althusser considerato il primo pensatore della causalità strutturale.

Nonché attraverso Heidegger, la cui Lettera sull’umanismo, come egli dichiarerà, «non fu priva di influenza» sulle sue tesi (Heidegger en France). Influenza forse già giovanile, legata al maestro cui rimarrà sempre vicino Jean Guitton, filosofo cattolico sostenitore del maresciallo Pétain e della Repubblica di Vichy, heideggeriano della prima ora. E nel tentativo di coniugare marxismo, inconscio freudiano e antiumanesimo radicale, l’essere umano scompare: Althusser scriverà nel 1973 che la storia «è un processo senza soggetto» (Réponse a John Lewis).

Una caduta fatale, che devierà in senso astratto-spiritualista la possibilità del materialismo marxista di aprirsi alla realtà umana, e con ciò densa di effetti sulla mentalità a venire. In un’intervista del 2006 un altro ex allievo, Étienne Balibar, aveva ricordato «l’avventurismo» del suo maestro, «che è poi lo stesso che ha caratterizzato tutta questa epoca. Althusser lo esprimeva in una formula, indice certo di delirio poiché la si attribuisce a Napoleone: “Avanziamo e poi si vede!” (…) Questo facevamo collettivamente». Fatuità difficilmente separabile dallo stato mentale personale, rievocata anche da Lévy nella prefazione, è però divenuta tipica anche di quella stessa cultura, i cui esponenti

sembrano a tutt’oggi incapaci di rendersi conto del peso di quanto affermano. Come Balibar stesso, che non trova nulla da ridire sul fatto che quella formula althusseriana, diventata prassi di una generazione intellettuale influente, sia «indice certo di delirio». Oppure come Lévy, il quale scrive che «se» Althusser «ha arricchito il suo secolo di nuovi concetti», lo ha ugualmente «accresciuto di questa nuova figura del filosofo folle e, a partire da lui, anche assassino». Frase ambigua per più motivi, in ogni caso lascia stupefatti per l’assenza di un giudizio su questa “nuova figura” , come se fosse accettabile.

Ma d’altro canto quell’ambiente culturale, alfiere Michel Foucault altro allievo di Althusser, ha trasformato la malattia mentale in “virtù” filosofica e da lì, gradualmente, in virtù tout court.

Assunte come fossero Verità, quelle tesi hanno attraversato la cultura come lame affilate nel burro, senza che si riflettesse su ciò verso cui la pubblicazione di queste Lettres spinge invece a riflettere: se Lévy ne parla in termini di «genealogia della demenza» del loro autore, in verità il punto da indagare è un altro, ben più complesso, ovvero la genealogia della demenza delle teorizzazioni fatue di tutta quella cultura sulla malattia mentale stessa. Nel 1973 Foucault pubblicò un saggio su Pierre Rivière, un ragazzo che nel 1830 aveva sterminato la propria famiglia, in cui ne esaltava la figura, innalzata a un ruolo “storico” perché quell’omicida, scrivendo le proprie “memorie”, aveva fatto «opera» della «follia». Il saggio diventerà un cult. Poi, dopo il 1980 Althusser, scrivendo anch’egli nell’autobiografia le proprie “memorie” dell’omicidio compiuto, riconoscerà in Rivière il suo predecessore. Rimbalzo tra “teorizzazioni” assurde e pazzie personali manifeste, se la loro direzione o reciprocità rimane da indagare, l’unica cosa certa è che tutto ciò, amplificato dai media, è diventato nel tempo un luogo comune.

Con quali conseguenze sulla società?

All’alba di un risveglio civile e politico, questa è una delle domande importanti che una nuova cultura ha il dovere intellettualmente onesto di porsi.

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