Recitare le ceneri

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passaggio di una consegna, da foto a foto, da generazione a generazione, come le foglie che riscrivono ogni primavera, come i figli che apprendono l’essenziale intorno al falò dei padri. Tenuto conto che qualcosa è cambiato, e risulta profondamente alterato, nel dominio incerto del divenire. Non solo i sogni, ma il modo stesso di sognare. Per Moroni il fuoco di ieri ardeva, originariamente, nella Maremma laziale. Veniva per via diretta dai primordi, dalla caverna dove la narrazione era il garante ancestrale del senso del vivere. Voci oltre le nuvole, «nell’avventura di una lingua soffusa, / mai del tutto scritta». Qui ha avuto inizio ogni narrazione, come – nella scoperta successiva – poteva accadere nel Maine, la terra dove «alzando le mani, a volte, gli anziani indicavano un’ombra sulla parete, una direzione, un gesto di un personaggio della storia». Dove il tempo, praticamente, dormiva nella cenere della sua oralità. Sembra così configurarsi una corrispondenza puntualmente bilanciata tra la memoria della Maremma e quella degli abitatori del Nuovo Continente: «due cimiteri si toccano / nel vento scomposto / che li unisce e li separa». Nella sua collocazione originaria la figura paterna diventa un elemento definitivo, nei passi di una asciutta rivisitazione, filtrata da uno sguardo che «cede alla discrezione». Il dialogo col figlio si prolunga invece in un rapporto denudato ma enigmatico, come accade a chi si proietta nel futuro. La reminiscenza leopardiana si fa esplicita, investe il rischio della scelta nel cuore imperscrutabile dell’esistere. Il ritorno inattuale di Moroni a certe tematiche del passato ha il senso di una ri-appropriazione: ripristina timori e tremori nell’accadimento stesso del nascere, come era agli inizi della modernità, e come torna a essere attuale nell’angoscia del presente storico. Perché «per quanto

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