L'ultimo silenzio

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Francesca Menegon

L’ULTIMO SILENZIO Romanzo



Francesca Menegon

L’ultimo silenzio Romanzo

Società

Editrice Fiorentina


© 2021 Società Editrice Fiorentina via Aretina, 298 - 50136 Firenze tel. 055 5532924 info@sefeditrice.it www.sefeditrice.it facebook account www.facebook.com/sefeditrice twitter account @sefeditrice instagram account @sef_editrice isbn 978-88-6032-609-6 Proprietà letteraria riservata Riproduzione, in qualsiasi forma, intera o parziale, vietata Copertina a cura di Studio Grafico Norfini (Firenze) Questo romanzo è un’opera di fantasia. Riferimenti a persone, luoghi e circostanze sono puramente casuali


A mia madre



L’ultimo silenzio



uno

Johann Strauss II, Bluette, polka-française, op. 271

«Con una creatura in pancia si è più forti!». Stringendolo con forza a sé, Adele avrebbe evitato a Giacomo un soprassalto. Avesse potuto, se lo sarebbe infilato nel ventre, il suo piccolo; in apnea per tutta la vita se necessario, pur di non restituirlo al mondo. Non se l’era immaginato neppure lontanamente, Adele Guareschi, come va il mondo, sennò avrebbe atteso altri nove mesi, e poi ancora nove. E al cordone ombelicale un bel lucchetto. «Chissenefrega!». Sì, sarebbe ingrossata come una balena. E tutti intorno a dirle: «Prego, si sieda. Desidera qualcosa? Sarà stanca. Non si affatichi». Un’unica entità voleva ritornare: lei e il suo bambino. Così non glielo avrebbero più portato via. Uno scoppio fragoroso s’insinuò tra i vetri mal siliconati e lampi multicolore illuminarono senza riguardo il patetico perimetro di via Assab, dove solo l’abbraccio riusciva oramai a generare calore. A mezzanotte i fuochi rischiaravano il buio di Genova attraverso le persiane. Adele rimirava la creatura, un fardello nel mondo dei sogni, rannicchiato e pago come un bebè dopo la poppata. Lo sfiorava e lo baciava, inumidendogli il pigiama con le poche lacrime rimaste. Strizzata come una spugna. Di chiudere gli occhi neanche a parlarne, ne avrebbe avuto di tempo, poi, per sognare di morire o per sopravvivere. Ostaggio degli incubi. Mesi. Inframmezzati da poche ore di libertà. Come i carcerati. 9


Carmencita s’era fatta lunga e sottile come un ratto e correva all’impazzata su e giù per la sala. L’arredamento senza fronzoli quasi ridotto all’osso le consentiva di schizzare indenne dal sofà alla credenza al cucinino. Il cuore avrebbe potuto spaccarsi da un momento all’altro: quattro mesi son pochi e quelle mitragliate non facevano parte del suo vissuto. Ma nei giorni scarabocchiati in calendario Adele non la voleva sul letto, e a nulla valevano i miagolii insistenti della gattina, ignara della parola allergia. Dalla tromba delle scale un effluvio di cipolla e prezzemolo si diffondeva sgradevole. La giovane coppia del piano di sotto aveva cucinato per gli amici, e si percepiva in lontananza un brusio festaiolo: musiche sudamericane, risate e tappi come proiettili alla ricerca del corpo fortunato. Anche Adele aveva amato cucinare per la sua famiglia ma solo per Giacomo era ancora disposta ad affrontare i fornelli: penne al pomodoro, hamburger e budino alla vaniglia, un ultimo dell’anno all’insegna della nostalgia. Come gli altri trecentosessantaquattro giorni. Solo il battito del cuoricino sulla sua pelle pulsava vita, in quanto al resto funzioni vitali a zero. Dieci giorni. Tre. E poi di nuovo l’esilio e quell’ansia da distacco, che non concede tregua. «BUM! BUBUM! BUUM BUUM! BUUM BUUM BUUMM!! BUUMBUUMMBUUMM!BUUMMMBUMBUBU MMBUMM!!». Allergia o no, Carmencita le arrivò tra le ginocchia ma Adele era troppo invischiata nella sua storia familiare per apprezzare quei botti – fortunatamente gli ultimi – e il contatto peloso. Un sussulto di Giacomo. Mani pronte a tappargli le orecchie. «Povero piccolo che scalci nel sonno. Chi vorresti ammazzare?». 10


Adele sussurrava una ninna nanna, parole inventate lì per lì, che alla luce del sole non avrebbe mai avuto il coraggio di recitare a suo figlio. «Forse me, che t’ho ficcato in questa situazione. Ne avresti diritto, ma sei troppo innocente per incriminarmi a occhi aperti. Solo nel tormento del buio vai alla ricerca del colpevole. Non avere fretta di crescere, piccino mio, che giri l’angolo, e già non ci sarò più. Come potrai capire e accettare i torti subiti? Non relegarti come me in un vicolo cieco, te ne prego! Tu che hai occhi, guarda, vivi, scegli, lotta. Continua a scalciare, vedrai che il mondo lo colpisci, e magari andrà come vuoi tu. Come voglio anch’io». «L’apparenza! Come sempre, la chiave del successo! Quasi quasi mi convinco che sono nobile anch’io, e se ci torno tre sere di seguito, mi faccio un castello con la servitù». Anche a Montecarlo erano in corso i festeggiamenti per l’arrivo del nuovo anno. «Quoi, mon chéri?». Francesco Urbini era già pentito dell’invito di Sissy Serrano: San Silvestro al Luigi XV gli era parsa un’idea elettrizzante, solo perché lei gliel’aveva proposto a cosce aperte. Il sì prolungato di qualche sera prima era stato fraintendimento e adesione inevitabile, ma a mezzanotte meno un quarto – il calice ripetutamente alzato con quella signorina d’alto bordo di cui tutta Montecarlo conosceva le doti – un rigurgito risalì sgradevole alla lingua. L’uomo se lo rigirò tra i denti per annacquarlo di saliva. Obiettivamente non poteva imputarlo alla cattiva qualità dei crostacei, del foie gras al Sauternes, o di paglia e fieno mare e monti. Non nel migliore ristorante del Principato. «Ma che ci troveranno mai i francesi in cibi così volgari e puzzolenti?». L’uomo scosse impercettibilmente il capo: jet-set e creature appariscenti insistevano a fregarlo. E l’età a non soccorrerlo. 11


«Senti, dottore, la smetti di spogliare con gli occhi la micetta al tavolo tra i vecchioni?» il corpo proteso con discrezione. «Lascia stare, Fran, non è roba per te, quella, mon chéri». Sissy Serrano non era per nulla gelosa, nel suo metro e sessanta non ne sarebbe stata all’altezza, ma possedere informazioni su prossimo e passato era il suo hobby preferito. Le malelingue sostenevano che vivesse di quello. Dall’inizio del cenone François aveva finto di sentirsi a suo agio tra ovvi candelabri d’argento ed esagerate composizioni floreali; reputava eccellente ogni portata più per chiudere in fretta i dialoghi, che per il gusto di trovarci gusto. Gli arrivava qualche occhiata dai tavoli più lontani, dalle signore che facendosi scudo coi mariti acciaccati allungavano sguardi e binocoli. Mogli giovani, talvolta poco più che adolescenti. Avvolte in corpetti leopardati o zebrati, trafori pizzi e rettili. Esibite come fiere allo zoo. Essere protagonista delle loro fantasie per una volta lo infastidiva. E pure Sissy contribuiva a innervosirlo: gli tormentava il polsino della camicia e giocava con il Rolex fino a pizzicare i peli prigionieri del cinturino, lisciava il gilet e si preoccupava della rosa all’occhiello. Il dottor Francesco Urbini, fisso sul ricamo della tovaglia, seguitava a essere gentile limitandosi a trafiggere con un pesante coltello d’argento l’interlocutrice, un’innocente briciola di baguette. «Giuro che è l’ultima volta. Neanche se me la spedisce per posta, ci torno più a casa sua!». Metà, ancora metà, la metà della metà della metà. Con garbo e precisione. Fino alla polvere. Poi di nuovo con un altro frammento di pane. Come una scimitarra contro l’aria e il nulla. Contro le sue debolezze. Camerieri impomatati percorrevano la sala in fila indiana: come formichine seguivano il percorso in file ordinate fino a destinazione. 12


Un attimo di raccoglimento, dopodiché procedevano sincronizzati all’inchino e alla levata delle coupole rigorosamente d’argento. Movimenti armoniosi, aroma delle pietanze e la superba mise en place strappavano agli ospiti degli «Oooh!» corali; con voce strozzata, naturalmente, poiché banditi dal galateo. «Cosa mi fai, se ti racconto la storia della bella addormentata nel bosco?». Sissy s’era fatta roca, mentre con il piede tastava il terreno. Nonostante la tovaglia di seta lunga fino al pavimento ne occultasse le peripezie, la donna non poteva sfilare l’ultimo regalino di un amico – i sandali nuovi Dior – con il solo aiuto dei talloni. «Cosa te ne pare, chéri? Sulla tua pelle il tacco di metallo sembrerà oro zecchino. Come uno stiletto. Quindici centimetri». Le parole si erano già aperte un varco nel cervello del dottor Francesco Urbini che lentamente si assestava sulla sedia. «Questa è l’ultima volta», labbra sottili e nervose avevano convogliato qualche particella d’aria in una promessa fasulla. Era abile – Francesco Urbini – a mascherare gesti e intenzioni, talmente abile da averne fatto un mestiere. Nascondere i suoi vizi e portare in superficie quelli degli altri. Le palpebre gli si sollevarono impercettibili in una tensione quasi dolorosa. Dalle chiare fessure – occhi da killer li aveva soprannominati Sissy Serrano la prima volta – l’uomo radiografava cenni e figure. «Il tuo tacco a stiletto lascerà il segno sui miei pantaloni? Vedi di non farmi sfigurare, quando ci alziamo». Arreso all’evidenza – la virtù sarà buona nella vecchiaia – il dottore si apprestava a rilassarsi e a fantasticare. Quando, lungo la traiettoria della sua finta espressione pensosa, la fissità cerulea della micetta lo paralizzò. Fran chéri trattenne il respiro abbagliato. Si ritrovò a pugni stretti, le unghie avvinghiate ai palmi a metà tra il piacere e lo spavento di cadere nel vuoto. Consa13


pevole di non riuscire ad afferrare la parete liscia. Le anche ebbero un leggero sussulto, il sistema parasimpatico registrava sensazioni mai provate in precedenza. Predatore o preda? Pericolo. E quando come un periscopio ritirò occhi e desideri, non ebbe più il coraggio di volgere il capo d’intorno. «…figlia di un noto broker genovese. Sai cosa vuol dire broker da noi, doc? Uno che assicura carichi di petrolio, navi, arabi, modelle, insomma per lui ogni cosa è merce. Vive a Genova, invece la figlia – la micetta, quella che ti stai mangiando al posto del foie gras – sta qui. Le ha allestito un appartamento da favola e uno, sullo stesso pianerottolo, l’ha tenuto per sé. A dire la verità il “poveretto” ha comprato un’intera palazzina finita all’asta e passata più volte per finte mani, a pochi metri dalla spiaggia del Larvotto. La vedo sovente, Rebecca, e potrebbe anche salutarmi. Ma è una sfigata che non dà confidenza. Pensa che ha la piscina sul tetto, ah ah!, e ha paura dell’acqua!». Il dottor Urbini allungò a Sissy Serrano un’occhiata di circostanza, il giudizio pendeva troppo a sfavore. Con lei non era abituato a confidenze extra-lenzuola. Rebecca? Non ne conosceva. E quello al suo fianco, con nove teste che gli annuivano a tempo, aveva l’aria di un boss. «Rebecca: la pupa del boss?» s’interrogavano le labbra sottili, mentre la compagna snocciolava informazioni a mo’ di servizi segreti. «Raccontano un mucchio di storie su Rebecca, sulla madre e sul loro passato. Cioè, a dire il vero, pare che il vecchio abbia comprato un sacco di gente per costruire una nuova vita alla figlia, zittendo un tot di pettegolezzi. Si sa che quando uno è ricco sfondato, gli invidiosi si fanno in quattro per malignare. Comunque la madre è morta mettendola al mondo, e si dice che Rebecca conservi in camera un vaso preziosissimo – tipo Lalique o qualcosa del genere – con le sue ceneri. Mah, io non conosco nessuno che l’abbia visto». 14


Con fare professionale il dottor Urbini arretrò il capo soddisfatto, quelle informazioni erano pane per i suoi denti. L’iride roteava birichina, catturata da forme e colori di quel tavolo. Sguardo azzurro sperduto e disarmante. Una mulatta, con la coda alta a fontana e un collare di perle grosse come nocciole, sorrideva ossequiosa al boss. Capelli biondo miele, lucidi come lo shantung. Un arabo con un gessato blu stile Al Capone gesticolava e si prodigava in mille salamelecchi. Con la fata turchina. Francesco Urbini – i sensi proiettati su quel tavolo con circospezione – portò la forchetta alle labbra. Quando si rese conto di aver addentato aria, volse gli occhi alla parete specchiata, giusto in tempo per scorgersi color gambero, come quello fortunato, scampato al maldestro attacco della posata. Stava già per sbiancare e scusarsi, che Sissy lo anticipò. «Non farti venire strane idee, Fran. Anche se tu fossi il miglior psichiatra del mondo, quella da te non ci verrebbe. E il vecchio ti ammazza, se fai del male alla sua bambina». Francesco le restituì un’occhiataccia – quante volte le ho ripetuto che non sono uno psichiatra! – trattenendo a fatica un mare di ostilità. Tutto perché all’ultimo momento la festa con le amiche di Genova era saltata, e il cavaliere di Sissy Serrano – quello che pagava la cena, per intendersi – si trovava all’ospedale con una colica renale. Comunque non ci voleva una laurea per cogliere i suoi desideri – pensò il dottor Urbini – e Sissy era veramente un’impunita: glieli piazzava tra i denti, mentre lui si sforzava di negarli e ricacciarli nelle viscere. Gli ficcava pure il piede tra le cosce – niente da dire, una professionista – cosicché non gli restava che farsi trattare come un’ala di pollo. Ma sì, la perdono anche stavolta, che se non ci fosse lei a farmi sentire uomo, e comunque non è colpa sua se l’erba del vicino. La smorfia colorò guance e pensieri. Un gioco. Il loro gioco. Bastava individuare una coppia interessante, e tra una portata e l’altra Sissy Serrano raccontava, inventava, fantasticava, sfiorava. 15


E Francesco Urbini – ostaggio – ascoltava, sognava, deglutiva, godeva. Marta Bruzzone stava sotto le lenzuola con Biagio Antonacci. Fingendo di dormire. Degli auguri della madre, che probabilmente si sentiva in colpa, non voleva saperne. Un paio di volte si era aperta la porta della camera, attorno alle dieci, e poi di nuovo quasi dopo mezzora. Non un respiro nell’oscurità totale, le coperte immobili. La musica solo dentro le sue orecchie. Fino all’ultimo la ragazza aveva sperato che la madre cambiasse idea: le sue migliori amiche stavano festeggiando il capodanno in un rustico sopra Recco a pochi chilometri da lei. Con un tassì poteva ancora farcela. Altro che panettone! Se le vedeva beate e felici, agghindate e truccate, paillettes e glitter sulle palpebre, lacche colorate ai capelli, sigarette e martini bianco. Lei aveva scelto il viola e dato fondo ai risparmi per trascorrere quella notte da adulte. In cinque, il suo club. Accomunate dal sogno di diventare qualcuno alla televisione e di trovare un fidanzato famoso e ricco, di quelli che ti regalano scarpe e borsette firmate. Era stata proprio lei, Marta, a suggerire di escludere dai festeggiamenti i maschi della classe, bamboccetti brufolosi e squattrinati che mai le avrebbero potute accontentare. E le altre avevano accettato, riconoscendo nella ragazza più attraente la decisione più saggia. E quindi non se lo meritava di trascorrere a quel modo l’ultimo dell’anno: sufficiente a scuola e pure di aiuto alla madre nel suo lavoro di pulizie. «Possibile che non riesca a capire che cosa vuol dire essere giovani?». E più Marta cresceva, più la madre la teneva in casa. Convinta che fosse ancora una bambina. «Ti faccio vedere io a maggio». 16


Così Marta non si sarebbe unita alle compagne nel rito di apertura del novantanove, l’anno della loro maggiore età. Proprio lei, cui quel traguardo toccava per prima. Che vergogna dover confessare il divieto alle quattro compagne; e che invidia guardarle partire, accompagnate dal signor Costa, il padre di Tamara. Che nulla aveva potuto davanti al secco “No”! «Beata lei, quello sì che è un padre giusto, altro che il mio». Che se n’era andato. Che le aveva mollate quattro a zero. Ovvio – pensava Marta Bruzzone – con una donna come sua madre, che oltre agli auguri ufficiali non si sprecava mai con un complimento o un gesto affettuoso nei suoi confronti. Grassa e ignorante, mai andata più in là del suo naso, cioè del condominio in cui abitavano e del quale la donna era custode. «Donna, dove?», al brontolio fece seguito il movimento delle spalle, «ti farò vedere». Solitamente cortese e pacata, quella sera Marta era arrabbiatissima. Fu attorno alla mezzanotte che finalmente cominciò ad arrendersi. E dalla minaccia al sorriso non ci fu che un batter di ciglia. Perché no? In fondo poteva spendere la notte di capodanno a fantasticare, anche senza bisogno di alcol e fumo, sull’uomo dei suoi sogni. Un sogno in carne e ossa. Il segreto più segreto, quello che neppure Tamara e le altre del club conoscevano. «Chissà cos’ha fatto ’sto Silvestro, per diventare santo?». Il sorriso impresso sull’ovale sbarbato con minuzia del dottor Francesco Urbini cominciava ad affaticargli la mascella. Anche sui volti di altri commensali andava comparendo la stanchezza. «Hmm, chéri, hai visto che conchiglie? Dì la verità, che grandi così te le sei solo sognate». 17


Sissy Serrano era arrivata con la lingua a pochi millimetri dall’orecchio del suo chéri: «Guardale bene, cosa ti ricordano?». «Comunque gli sia andata, non si sarà divertito granché, ci scommetto. Altro che santo! E riderà da pazzi, a vedere quanto si spende per festeggiarlo. L’argento in bocca cambierà mica il gusto, no?». Sissy aveva ordinato ancora ostriche, che ci stavano sempre bene anche prima dei dolci. L’ideale, secondo lei, per prepararsi alla mezzanotte. «Tanto ce le offre il mio povero tigrottone malato. Hmm!». Allargate le labbra per convogliare il liquido salato senza perderne una goccia, non aveva resistito al mugugno di piacere. Francesco la osservò pensieroso e vide sparire l’animale come un treno inghiottito da una galleria. «Hmm, hmm, che meraviglia. Ma, che fai? Non ti ci avventi? Mais, mon trésor! Non vorrai infilzarla con la forchetta!». «Puzzano». «Figurati!». Sissy alzò le spalle e continuò imperterrita: «Lo sai perché i camerieri portano la fusciacca rossa, sotto la giacca bianca?». Come un automa, il dottor Urbini fissò l’angelo che versava Chablis nel suo calice, notando che una fascia rossa lo strizzava a dovere sotto la giacca bianca. Si girò verso Sissy mentre la bocca della donna nuovamente si dilatava. Lo spazio all’interno era così ampio e buio che l’uomo s’immaginò per un istante a rincorrere la rana della fiaba. E il pensiero divenne doloroso, perché quella storiellina era divertente solo se raccontata da sua madre. «Mais perché sono i colori di Montecarlo. Blanc et rouge. Devo proprio insegnarti tutto, petite puce!». La donna accompagnò le ultime parole con uno schiocco della lingua che svegliò Francesco Urbini dallo stato di trance. Annusando con poca convinzione la salsina di accompagnamento, petite puce fece scivolare una mano sotto la tovaglia di 18


seta e con risolutezza posò a terra il piede quindici centimetri affilato di Sissy Serrano. «Dato che t’interessa quel tavolo, avrai notato chi siede in faccia a Rebecca Della Casa». Lo psichiatra – come si ostinava a chiamarlo la donna – avrebbe voluto rispondere che ovviamente non poteva vederla dalla sua posizione ma, dalla scollatura fino ai lombi, forse si trattava di una figura femminile. L’ironia gli strappò un sorrisetto, giusto per riappacificarsi con la maitresse cui aveva bruscamente interrotto il gioco. «No, Sissy, non ho notato. Non la vedo in viso, sai?». «Ma è la giovane principessa, sciocchino, l’amica del cuore di Rebecca. Un po’ maschia, ma sempre principessa, e che vestito! Ah, che fortuna nascere nobili, io al massimo potrei fare la principessa sul pisello!». In quel frangente la battuta non sortì alcun effetto, e comunque avrebbe potuto trattarsi della Madonna in persona, a Francesco Urbini ormai interessava solo Rebecca. Peccato che la figura femminile identificata come principessa gliela nascondesse. E mentre l’uomo studiava il modo per sbirciare più da vicino la sua nuova dea, quella – forse telepatica – si allungò verso il boss rendendosi improvvisamente visibile. Le mani della ragazza brillavano in un riverbero magnetico, le dita avvolte in una stella cometa luccicante – a ogni gesto una scia luminosa – e per Francesco fu come aprire il forziere dei pirati. Come il metallo aggancia senza scampo la calamita, così, catturato dal magico alone, il dottore fece la fine del polo. Mosse aggraziate e un viso acqua e sapone, un abito sobrio di colore neutro: la giovane non si dava arie. Unico dettaglio civettuolo, quei lunghi guanti impreziositi da cristalli Swarovski. O forse diamanti? Sissy si massaggiava le dita rigirando gli anelli. Si concentrò sul suo smalto vinaccia fresco di poche ore. Il bimbo al suo fianco s’era perduto in una fiaba, di un genere a lei poco noto. Avventura? Una sfida, forse. Avrebbe pagato una cifra per carpirgli i pensieri. Bellezza denaro 19


potere: chissà quale maleficio l’aveva imprigionato, altro che avventura! Poteva solo aspettare che il suo Fran scendesse dall’ottovolante dei sogni. Ignara del prezzo di quella sfida. «Ma sì, in fondo a che serve la mamma?». Quasi sempre sola, Adele Guareschi era abituata a parlarsi addosso per confondere ore e giorni di dolore. Il tempo – malandrino, nel suo scorrere apparentemente neutro – penetra nel corpo e nel cervello del piccolo e ne fa un grande. Qualche anno, e un ennesimo adulto, malato d’inguaribile insoddisfazione. Per fortuna che c’è Flavio a prendersi cura di Giacomo e a preoccuparsi dell’ex moglie depressa. Per merito suo, nella buca delle lettere di Adele Guareschi l’ennesima raccomandazione: «… si consiglia una terapia di sostegno…». Uno strizzacervelli. Un altro? Li aveva già provati tutti: psicanalista, psicologo, psichiatra, tutti uguali. Tutti contro di lei. Era trascorso quasi un anno dalla terapia di gruppo. E per scoprire cosa? Che hai offeso il valore del matrimonio? Che hai turbato la psiche di Giacomo, tuttora ignaro della verità? Che hai sconvolto il maritino innamorato? Come una pera cotta sei caduta nella sua trappola scoprendo all’improvviso che ci si fa scudo dei figli per procacciarsi pareggiamenti d’orgoglio. Bella novità! Finché toccavano agli altri, questo genere di vicende le consideravi dicerie, prese di posizione, leggende metropolitane. Pareggiamenti... tu comunque non sarai mai più pari. E non ti penti. Cioè sì, sei mortificata della fatale ingenui­ tà, ma ormai è tardi. I giochi son fatti, e ne sei fuori. Nel tuo vicolo cieco. Poche auto in Corso Italia, qualche faccia pesta e pance doloranti di digestioni tardive. Adele stretta alla manina di 20


Giacomo. E un altro anno iniziato con la focaccia al Garden, in una Genova che ce la mette tutta a non smentirsi, a contenere le emozioni. Un’idea di sonnolenta primavera, skate, pattini, castelli di sabbia, e quando il mare se li inghiotte beffardo, Giacomo è di nuovo a Bergamo, con un padre che fa anche da mamma. Carmencita sul letto, il telefono che squilla troppo o troppo poco. E quelli del piano di sotto preoccupati e nervosi, alle prese con l’ennesima rata del mutuo. Dieci calici alzati e l’augurio del nuovo anno: il rito si era consumato in gesti misurati al tavolo di Rebecca Della Casa. Solo a quel punto il dottor Francesco Urbini – seccato – si era riappropriato del suo, di presente: anche lui e Sissy Serrano al Luigi XV. E senza convinzione aspirò dal suo bicchiere. «Quello accanto è il padre, il boss: il commendatore Angelo Della Casa. La mulatta è la sua segretaria, la fedelissima. Di quelle disposte a morire per il capo. Strano, mi sembra ingrassata. Vicino a lei c’è il marito; gli altri saranno clienti. Con mogli, forse». Sissy Serrano aveva snocciolato il gossip e alzato le spalle, a lei importava la sostanza. «Il vecchio ha inventato per la figlia le pierre per la sua società nel Principato. Ha a che fare con arabi, messicani, russi, e Rebecca è incaricata di organizzare cene e cocktail. Sai che fatica passare da Chanel a comprarsi un abitino, da Saint Laurent scarpe e borsetta e poi di corsa dal parrucchiere per una piega. Che stress! Anche una Sissy Serrano di mia conoscenza si divertirebbe, ma lei deve sudarseli, i suoi capriccetti!». Creeek! Nell’offrire il braccio alla moglie, un anziano in giacca blu con bottoni dorati aveva inavvertitamente grattato la sedia sul pavimento. La sua signora gli si avvicinava appoggiando il peso incerto su un bastone con l’impugnatura a 21


forma di papera. Gli sorrideva, divertita, come all’ultimo Ballo della Rosa. Indossava lo stesso tailleur color carta da zucchero. Complice il bicchiere d’occasione, fissava con occhi lucidi i capelli bianchissimi dell’uomo con cui aveva condiviso quasi cinquant’anni di matrimonio. Le loro facce abbronzate con prudenza pulsavano di vita, rallentata dai normali fastidi dell’età. Nei pochi metri di tragitto verso la toilette lo sguardo della coppia cadde sul tavolo di Sissy Serrano e Francesco Urbini. Imbarazzato, lo psichiatra si stava concentrando su un’altra briciola. «La prostata». «Quoi, chéri?». «Ma sì, la prostata. Quei due... Comunque meglio qui che al geriatrico del Galliera. Basta poterselo permettere, no?». Vergognoso per l’attenzione della coppia, il dottor Urbini squadrò Sissy Serrano come se la vedesse per la prima volta: lei e la specie di abito che indossava. Qualcosa di simile a un giubbotto dell’Anas, con due catarifrangenti proprio sulle bocce mezze scoperte. Dove anche lui si era avventato più volte con piacere. Lo sguardo dei due anziani, distinti e dignitosi mano nella mano, l’aveva ferito. E il flash si proiettò inevitabile. Su un capitolo doloroso della sua vita. Fino alla separazione dei suoi la famiglia di Francesco Urbini era vissuta non nel lusso sfrenato, ma in un discreto agio, in una villetta di Chiavari. La madre igienista dentale, il padre piccolo imprenditore nei trasporti. Genitori normali. Un bambino normale. Senza infamia e senza lode. Poi, di punto in bianco, tutto era cambiato. Niente ricordi dei primi anni, cancellati. L’una per la passione dietro a un povero diavolo, l’altro che – senza la passione – povero diavolo lo era diventato. 22


E dopo ce n’erano stati altri, tutti più importanti di lui. L’unico figlio. L’unico. Da allora – se ne sarebbe accorto solo molto più avanti – per Francesco Urbini il bisogno di comprare e possedere. Una malattia. Proprio come buona parte delle pazienti del suo studio. Era diventato psicanalista. Le miserie degli altri ad anestetizzare le sue. Pagare le relazioni gli garantiva in qualche modo il controllo. E gli avrebbe evitato il sentimento. Le donne. Il motore del mondo. Il vero sesso forte. Un pensiero insopportabile. Per un attimo, fuggevole quanto un infido souvenir dell’infanzia, il dottor Francesco Urbini si vergognò di esistere. Sissy si accorse che qualcosa non stava andando per il verso giusto – a dire il vero, la sua chiromante le aveva anticipato che non sarebbe stata una serata entusiasmante – e se avesse dovuto dare un titolo a quel capodanno, sei mesi più tardi l’avrebbe chiamato “presentimento”. «Grazie, maresciallo, grazie davvero». Silvio Costa riappese il ricevitore, benedicendo il cielo che esistessero ancora brave persone e che la spiacevole faccenda si fosse risolta senza conseguenze. Forse avrebbe accompagnato la famiglia alla messa del pomeriggio e quel primo dell’anno sarebbe servito a tutti di lezione. Ritornò nella camera dove sua moglie Sara teneva compagnia alla loro primogenita, Tamara, reduce da una sbornia colossale. C’era mancato poco alla lavanda gastrica. E pure a un incendio. Fortunatamente Alfonso e Barbara avrebbero dormito almeno fino all’una, sfiniti dalla tombola di mezzanotte, e magari si sarebbero evitati la sorella maggiore in quelle condizioni. Beati loro, che a sei e sette anni si accontentavano del cioccolatino per la quaterna e delle figurine per la cinquina. 23


Svegliato alle tre di notte dalla telefonata del maresciallo Pietro Gonzales – «responsabile della stazione dei carabinieri di Albaro», gli aveva detto presentandosi – Silvio Costa era corso a recuperare la figlia. A un quarto d’ora di strada. In un primo momento, ancora mezzo addormentato, aveva temuto qualcosa di terribile: un incidente, una violenza, un ferimento. Invece, per fortuna, niente di grave. Solo una bravata. E Tamara si era liberata della quantità di alcolici ingurgitati nella loro baita, risparmiando alla madre quella scena avvilente. Le quattro ragazze avevano fatto alzare con la musica a palla gli abitanti del piccolo borgo della collina genovese, una manciata di casupole tra cui l’abitazione del maresciallo, quel Gonzales, che, rilevate le identità e preoccupato per la salute delle minorenni, aveva provveduto a contattarne i genitori. Appurato che le macchie di sangue sul fazzoletto di Tamara erano dovute a un piccolo taglio già medicato, e che il fumo proveniente dalla cucina si propagava a causa di una pentola bruciata, il carabiniere non aveva ritenuto necessario procedere diversamente. A dire il vero Gonzales aveva confessato al signor Costa che era stata Rachele, sua moglie, a intercedere. Cosicché si era trattato di una telefonata amichevole effettuata da casa, non dal piantone di turno in centrale; una gentilezza, in fondo, che aveva attenuato lo spavento iniziale. Silvio Costa si domandò come avrebbe gestito l’ansia, una volta che la loro figlia avesse insistito per la patente. E pensare che fino a qualche mese prima Tamara era una ragazzina senza pensieri, studiosa e sportiva. «Cosa dici, gli mando una cassetta di vino?». La moglie non nascose una punta di risentimento: era stato lui a insistere per quella ventata di libertà, ché i figli bisogna metterli alla prova e non tenerli a guinzaglio. Che la loro ragazza era sveglia e che sapeva badare a se stessa. Già. Altro che cassetta di vino, quel Gonzales aveva chiuso occhi, naso e 24


bocca. E probabilmente non aveva neppure fatto il pistolotto a Silvio. Proprio un bello spettacolo di femminilità, Tamara, per non parlare degli spinelli che avranno fumato le sciagurate. «Semmai dei fiori per la signora. Comunque non credo che sia il caso, ha fatto il suo lavoro con umanità. Punto. Anzi, proviamo a non parlarne più e speriamo che le serva a qualcosa». La cameretta piena zeppa di balocchi – «Hai visto, che Gesù bambino generoso?» –, gli ultimi compiti prima della scuola. A duecento chilometri da Adele Guareschi, Flavio Cavalieri scuciva informazioni al figlio Giacomo. Fieno in cascina. L’avrebbe pagata, la svergognata, scoperta a gemere come un agnellino «Non basta. Non basta!», e avrebbe sputato sangue per il resto dei suoi giorni. Ma perché i conti non tornavano? Nonostante fosse incontrastato gestore della situazione, Flavio Cavalieri non si riteneva ancora soddisfatto. E più riversava rancore e odio sull’exmoglie, maggiore gli sembrava l’infelicità cui era destinato. La distanza li separava provvidenziale. Lo stato d’animo adirato, umiliato, sconfitto esigeva la mancanza di testimoni. Flavio aveva improvvisato una famiglia – Flavio-Flavia Giacomo – e si era organizzato con una scandita programmazione settimanale per tenere occupato il figlio dalla sveglia al sonno, tra scuola, chitarra, tennis, pallone e catechismo. Entrambi avrebbero fatto a meno di quella donna. Giacomo non dava a vedere: mammina aveva combinato qualcosa di grave, se di tutta la scuola era l’unico con una madre viva sepolta in un altro mondo. Senza di lei, dietro l’angolo era già un altro mondo. Ma non avrebbe mai contrastato il padre, abbattutosi sulla moglie come una furia. Se la rammentava troppo bene Giacomo la partenza frettolosa, e si sforzava di dimenticare. Il ricordo, però, continuava a vincere e annullava l’impegno. Ma come in una partita di ping-pong, lui insisteva e non 25


si dava per vinto, in attesa della prossima giornata con la madre. Flavio Cavalieri era un bel ragazzo, viso angelico e sguardo misurato. Un professionista. Da giovane aveva anche recitato a teatro e per lui ridere, piangere, cadere affranto al suolo, risorgere, arringare era un gioco da ragazzi. Flavio Cavalieri era ancora un ragazzo. Con Giacomo sorrideva. Con il giudice arringava. Con Adele singhiozzava. Con gli amici cadeva affranto al suolo, per poi risorgere. Lentamente, con giudizio. Giacomo aveva la possibilità di imparare molto.

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Indice

9 Uno

27 Due 46 Tre 65 Quattro 88 Cinque 111 Sei 128 Sette 151 Otto 171 Nove 196 Dieci 216 Undici 239 Dodici


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