Non sembiava imagine che tace

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Introduzione

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ossa nell’aldilà, in cui osserva e giudica la propria vita e il suo tempo. Coerentemente all’importanza che viene così ad avere l’esperienza delle “cose viste”, il poeta mostra in più punti una conoscenza consapevole delle arti figurative e della nuova rappresentazione della realtà che le stava contraddistinguendo. Per questi motivi, abbiamo seguito Dante di fronte all’arte del suo tempo con lo scopo di capirne meglio il significato. Il luogo della Commedia dove Dante dichiara il valore che ha per lui l’arte che s’ispira alla realtà sono i canti x e xii del Purgatorio. Qui il poeta descrive una serie di rilievi scolpiti dalla mano di Dio stesso e la loro caratteristica principale è proprio quella del realismo a cui ambiscono gli scultori del suo tempo, come si può vedere negli esempi di Giovanni Pisano e Arnolfo di Cambio. «Non sembiava imagine che tace», «visibile parlare» e «morti li morti / i vivi parean vivi» sono le espressioni più significative utilizzate in merito dall’autore. Tuttavia, l’intento di quelle immagini non si riduce alla riproduzione esatta della realtà. Esse sono state poste lì da Dio per la conversione dei penitenti, per la liberazione dal peccato di superbia. Rispondono quindi allo scopo didattico che le immagini hanno avuto fin dalle origini della cultura cristiana. Il realismo contribuisce a questa finalità, in quanto permette di «“vedere” i fatti rappresentati come se fossero presenti» (L. Battaglia Ricci, 2004) e, rivolgendosi al piano dell’esperienza personale, favorisce pertanto l’immedesimazione con gli eventi raffigurati e l’insegnamento da loro trasmesso. Qualcosa di simile aveva voluto fare nella celebrazione del Presepe di Greccio san Francesco d’Assisi, una personalità fondamentale per l’attenzione al reale di Dante o di Giotto. Decenni dopo l’episodio, Giotto dipinge il Presepio di Greccio ad Assisi ambientandolo in una chiesa contemporanea. Con questa prima presa di coscienza della pro-

fondità di significato che sta dietro il fenomeno dell’arte della realtà al tempo di Dante, si può apprezzare in maniera più consapevole l’ampiezza di sguardo degli artisti sul reale, la volontà di comprenderne tutti gli aspetti, dalla crudezza più cupa del male alla dolcezza luminosa dei colori che allietano gli occhi di chi guardi il mondo che lo circonda. Un punto nodale per non travisare l’arte di questo tempo risiede nella concezione che la cultura medievale aveva della realtà visibile come segno dell’invisibile, del significato trascendente. Il realismo di Dante e di Giotto s’inserisce pienamente all’interno di quest’orizzonte. L’attenzione alla realtà fisica è un modo per comprendere il segno nella sua concretezza, per «condurci attraverso ciò che è puramente fenomenico e consentirci di gettare lo sguardo nel cuore di Dio» (J. Ratzinger, 2010). La nostra indagine si è spinta infine a un livello ultimo, quello del Paradiso, il luogo dove la realtà come segno è oltrepassata per rivelare il significato dell’opera di Dio in tutta la sua evidenza. Tale dimensione è resa attraverso il dominio della luce, l’elemento sensibile più vicino al divino. Racconta anche il Vangelo di Matteo che Cristo «fu trasfigurato e il suo volto splendeva come il sole, e le sue vesti divennero bianche come la luce» (Mt 17,2). Ci siamo allora chiesti se l’interesse per la rappresentazione della realtà fisica potesse giungere fino alla luce divina. Due esempi consentono di dare una risposta affermativa: Dante racconta di aver avuto accesso al Paradiso in carne e ossa e aver potuto godere un’esperienza sensoriale sempre più acuta della luce di Dio; Giotto, nella Cappella degli Scrovegni a Padova, utilizza la finestra posta al di sopra del Cristo giudice sulla parete di facciata come fonte luminosa principale per dare concretezza chiaroscurale alle figure dipinte: la luce di Cristo che entra nella


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