Incubi Decompressivi

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Stefano Di Cagno

Incubi decompressivi

CAPITAINEMO


A Cristiano Ielasi, l’Etrusco

In girum imus nocte et consumimur igni

Copertina: realizzazione grafica Massimo Callamare, frame Alessandro Bellini. Fotigrafie Archivio CNM, si ringraziano Alessandro Scuotto, Stefano Luzzi, Fabio Perozzi.

Seconda Edizione Copyright 2013 Š Edizioni Capitain Nemo di Stefano Di Cagno http://www.captainnemopress.net/ XXXXXXXXXXXXXXXX ISBN 978 88 908646 2 9

copia open source ebook autorizzata dall'Autore http://www.captainnemoedizioni.eu


Prefazione Quando è uscito il mio primo libro, alcuni lettori si sono chiesti se gli episodi in esso raccontati erano reali o romanzati. Come si sente spesso dire in tv, la realtà supera la fiction e in “Morire quassotto sarebbe darvi una soddisfazione”, non c’è una virgola che non sia successa. Questo libro è viceversa un fritto misto, diciamo così. Nel 2000, partecipai all’operazione di recupero di un peschereccio della flotta delle “tonnare volanti” della costiera sud di Napoli. Durante le immersioni, un po’ per natura caratteriale, un po’ per lo stato psicofisico in cui mi trovavo, in fase desaturatoria mi capitava di fantasticare morbosamente. Li chiamavo i miei “incubi decompressivi”. Scrissi così il primo di questi racconti “gotici” intorno al 2001, pubblicandolo su uno dei miei siti Internet l’anno successivo e, a più riprese, cominciai a lavorare sugli altri. “Schiacciato” è diventato il secondo capitolo di questo libro, la cui trama e struttura hanno mutato più volte forma da allora. Dopo “Morire quassotto sarebbe darvi una soddisfazione”, e soprattutto successivamente alle lettere ed e-mail ricevute, questa raccolta è stata riordinata e definita nella sua attuale organizzazione. Ci ho messo del tempo e ci hanno lavorato altri, per cui spero sia meglio del libro precedente, scritto e pubblicato in un mese di delirio. Questa seconda edizione è sostanzialmente identica alla prima, salvo alcuni aggiornamenti nella prefazione e i ringraziamenti finali, più un deciso lavoro di correzione dei tanti refusi ed errori di cui era costellata la prima. I racconti sono la cronaca della vicenda reale, che segue cronologicamente lo svolgimento dell’operazione di recupero. Ciascuno di essi, a un certo punto, “vira” nel fantastico e si conclude con un finale di stile horror, tratto dalle mie succitate elucubrazioni appeso sotto la barca appoggio, mentre aspettavo che il corpo si denaturasse dai gas accumulati lavorando sul relitto. Alcuni degli “incubi” sono chiaramente prodotti dalla mia passione per la letteratura di genere e Autori come Lovercraft, Poe, King, sono citati con epigrafi tratte dalle loro Opere, per onorarne la grandezza oltre che per gli spunti tematici. Altri, forse i più angoscianti (almeno per me), hanno forti radici in episodi avvenuti o appena sfiorati, incidenti e pericoli che noi avventurieri degli abissi abbiamo conosciuto in prima persona. La mia Editor della prima edizione espresse al riguardo una sua opinione: con la consueta gentile condiscendenza e la passione smodata che provava all’epoca per il sottoscritto, mi suggerì che il termine “pionieri” stesse meglio

che “avventurieri”. Sinceramente l’aggettivo che volevo usare era ed è invece proprio quest’ultimo, per una ragione precisa. Nel lontano 1989, una delle persone del cui giudizio ho tenuto più conto nell’intero arco della mia esistenza, sostenne che non ero degno di ritenermi un antagonista politico (rivoluzionario, terrorista, quello che vi pare), ma che, ahimé, ero appunto, un avventuriero. Ne fui molto colpito, in primis perché nel mio intimo sapevo che aveva ragione. E ritengo che l’appellativo, l’approccio e il modus vivendi e operandi conseguenti, valgano nella medesima maniera per la mia attività di subacqueo professionista (e per quella dei miei sodali, compari, soci e compagni). Molte volte il fiato della Nera Signora ci ha alitato sul collo. La subacquea è rischiosa, tanto più se è estrema, pionieristica o, torno ancora lì, avventuriera ed avventata. La nostra era di sicuro di questo genere. Per tante ragioni che forse non è qui che possiamo esaminare con scientifico cipiglio, la Morte ce la siamo tenuta sempre vicina. Qualcuno di noi, l’ha preso con anticipo: dei tre protagonisti di questo volumetto, purtroppo manca all’appello Cristiano, l’Etrusco. Tre racconti finivano con la sua morte, prima che succedesse davvero; a seguito della tragedia, decisi di modificarli perché nel libro a lui non succedesse mai. La finzione era stata per l’ennesima volta annichilita dalla realtà e il Fato aveva calato l’asso di picche, così, almeno in questo volume, volevo tenerlo sempre in vita, con quell’immortalità che solo i libri concedono. In seguito, rivedendone nel 2006 la prima stesura in una cella d’isolamento del carcere di Bari (la seconda edizione la curo nel 2009 sempre nello stesso ameno posto, forse per uno scherzo del destino), trovai e rilessi un pezzo della sua intervista successiva al recupero, rilasciata al fotoreporter Roberto Rinaldi. Cristiano aveva sbeffeggiato l’Incappucciata, facendo facili cose che non lo sono affatto e che, detto per inciso, hanno causato la sua resa all’ultima partita di scacchi. Così, dato che uno di questi miei finali romanzati rispecchiava la sua fine reale nelle acque di Capri, l’ho ripreso nell’edizione definitiva, che potete leggere qui. La morte di Cristiano segnò come uno spartiacque tutta la nostra vicenda e, anche se nulla è mai stato detto e scritto su questo, marchiò e chiuse in qualche modo un’epoca. Fu un colpo sordo, che fatico ancora a credere possibile. Me la comunicò un amico comune, mentre ero seduto a poppa di un peschereccio, diciotto miglia al largo della costa pugliese. Tornavo da un’immersione a centotrenta metri di profondità, per un lavoro di recupero di un’altra motobarca da pesca e, come mi accadeva sempre in quei giorni, avevo rischiato la vita. Le lacrime per la scomparsa dell’ischitano erano mischiate a quelle per il dolore dell’embolia gassosa che avevo contratto risalendo malamente.

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“Incubi Decompressivi” è dedicato a Cristiano, morto come a ciascuno di noi non è capitato solo per un caso fortuito, in una di quella decina scarsa di occasioni da cui esci solo per culo e che affronti ogni volta sapendo che stai cercando di dare scacco con le stesse chances di Antonius Block. C’è una forte analogia in quel che il Cavaliere de Il Settimo Sigillo mormora spiegando la ragione della sua sfida impossibile: “voglio compiere l’ultima azione che abbia un senso”, dice. E solo “un senso” siamo andati cercando anche noi, sottacqua, per tanto tempo. Un senso che personalmente non ho trovato. Mi auguro che questo volume descriva Cristiano per quello che era, un ragazzo ombroso, di grande prestanza fisica e d’intelligenza e talento mai ostentati; debole con i forti e alle volte a caccia di compensazione e rivalsa con i deboli. Si portava dietro fardelli pesanti, specie per un ragazzone dall’aggressività repressa come era lui. Claudia Serpieri ed io avevamo un foglio di via obbligatorio da Ischia che non ci permise di partecipare al funerale. Chi ci andò dei nostri comuni amici, poté descriverci al ritorno sul Continente la grande partecipazione popolare e l’imponente tributo del porto in cui aveva lavorato, con tutte le navi, le barche e i traghetti che suonavano le sirene per l’ultimo saluto. Se credessi in un Aldilà dalle cui nuvolette affacciarsi per vedere che cosa lasciamo dabbasso, so che Cristiano avrebbe gradito (ma avrebbe mostrato il culo per timidezza). Riconciliandosi, forse, con un paese e una popolazione che l’aveva ferito ed emarginato a lungo, ingiustamente, dopo che adolescente era sopravvissuto alla morte di una sua amica, che portava in giro col motorino, in un incidente fatale. Mi manca, l’Uomo. Penso che delle molte cose che la subacquea professionistica ci ha strappato, più che la sua esistenza sia stato il raffreddamento, l’avvelenamento della nostra amicizia a rammaricarmi. La morte ci prenderà tutti, ma sono i rapporti che abbiamo intessuto e difeso in vita a fare la differenza. Trovo anche assurdo che sia morto prima lui e non io, ma fa parte, credo, della pazzia che chiamiamo “vita”. Per chi volesse leggere gli unici due servizi usciti sul recupero, entrambi a firma di Rinaldi e con le sue foto: “Un uomo solo per la Stella del Mare”, No Limits n. 87, agosto 2000; “Due sub per un recupero”, Il Subacqueo n. 329, ottobre 2000. I titoli sembrano un po’ schizofrenici, eravamo in tre, ridotti dall’autore a due e a uno solo a seconda dell’occasione. Ma per quanto riguarda me, avevo minacciato Rinaldi di non citarmi e questi ci riuscì quantomeno per il titolo su No Limits, ormai quasi in stampa al momento della mia presa di posizione. Sul perché lì eliminarono anche Cristiano non ne ho idea, credo sia

casuale. Sempre l’amico che mi comunicò la sua scomparsa, Andrea Cortesi (conosciuto come “Mc Cortez” nell’ambiente tekkie), è riuscito a far pubblicare a Clive Custler una citazione di Cristiano in un suo romanzo, ma per paura di cause legali intentate da ex mogli ed eredi, l’eroico (sic) americano ne ha storpiato il nome. Come delinquente professionista non ho di questi grattacapi e quindi a Cesare quel ch’è di Cesare: qui Cristiano è Cristiano. In qualche maniera, il recupero della Stella del Mare è stato l’ultimo momento di fratellanza e avventura “puro” per noi tre. Subito dopo, come già detto, qualcosa si spezzò e non è mai più stato lo stesso, anche se siamo rimasti amici e abbiamo ancora lavorato insieme. Uno di noi è morto, un altro (io) è tornato più volte in galera, e il terzo, lo “sbirro”, è stato sottoposto a spiacevoli pressioni e ha subito strascichi legali e problemi finanziari con i parenti di Cristiano, che gli attribuiscono responsabilità nelle cause dell’incidente mortale di questi, a parer mio solo perché nella catena dei subappaltatori del lavoro a cui si occupavano, è il pesce più piccolo e quelli più grossi non riescono ad addentarli. Tristezze del cane-mangia-cane. Non credo che ci sia altro che pura casualità in questa catena di eventi luttuosi e spiacevoli, nessuna “maledizione del mozzo” della Stella del Mare, per intenderci. Eppure, come scrivo qui, sono uno che non è superstizioso, ma che si gratta e fa le corna toccando ferro. “Incubi Decompressivi”, del resto, non fa eccezione alla regola: doveva uscire nel giugno 2005, quando una serie di eventi negativi, a catena, ne hanno ritardato di oltre dieci mesi la pubblicazione; posso affermare senza tema di smentita, che il 90% del lavoro l’ho fatto da carcerato. Destino? Karma? Caso? Come ogni libro, ciascuno di voi, alla fine, trarrà le sue conclusioni. Buona lettura.

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Stefano Di Cagno Bari, mazo 2006 - maggio 2013


I. L’impermeabile Ascolta ciò che ti dice Abduk Alhazred: gli Antichi Dei han posto i Maledetti in sonno. E chi manipola i sigilli e i dormienti ridesta, è maledetto anch’egli. Necronomicon, H.P. Lovercraft

Il sedimento in sospensione aveva lasciato un sottile strato grigio, che ad ogni lieve movimento crollava lento nell’acqua come la neve di una valanga. L’impermeabile giallo sembrava di un arancio smorto solo quando la luce lo colpiva col suo raggio. Altrimenti stava lì, grigiastro, nel blu cupo del mare, a oltre ottanta metri. La prima volta che l’aveva visto, Ale aveva avuto un’anticipazione di cosa si prova in caso di un arresto cardiaco. Non ci si aspetta di trovare un impermeabile attaccato alla gruccia, con tanto di cappellone a coda lunga, tutto bello appeso ai gradini di una scaletta. Quantomeno non sul relitto di un peschereccio di trenta metri affondato in una tempesta. Scendeva tranquillo nella sua seconda immersione sulla nave, dopo aver assicurato una cima di discesa all’albero del radar. Aveva dato un’occhiata veloce alla plancia e poi si era diretto pinneggiando con movimenti lenti e potenti verso la poppa, perdendo ulteriore quota. La lampada subacquea quel giorno era necessaria. Il vento di scirocco che soffiava con forza un fastidioso mix di sabbia e umidità, aveva reso torbida l’acqua fino alla profondità di quaranta metri. Si era formato un tappo che chiudeva ogni spiraglio alla luce e, sotto i cinquanta, anche se l’acqua fangosa lasciava posto a un mare cristallino, regnava il buio. Scese parallelo alle scale, navigando tra i due corrimano, e puntò il fascio luminoso verso il verricello a centro barca. Senza muovere le pinne, si tirò verso destra, aggrappato al metallo della scala. Grazie alla forza di inerzia, fluttuò come un astronauta sospeso nel vuoto siderale sopra il rocchetto gigante, con i suoi quattrocento metri buoni di cavo d’acciaio.

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Alge, incrostanti e calcaree, policheti, copepodi… …Schifezze, pensò. …i ceti più bassi della gerarchia alimentare marina. Il cono di luce fendeva l’acqua nera, illuminando i microrganismi bianchicci che risplendevano come fiocchi di neve. Gli facevano ribrezzo, marooon’. Continuò il suo lento giro, simile a un faro che, ruotando nel nero pece della notte, indica la terraferma ai naviganti. Giunse così a rischiarare la struttura del castello di prua. Con la luce da 100W, illuminò prima la grande gru verso poppa, quindi la gru più piccola sul lato di sinistra, fino al battello di sei metri male assicurato. Pendeva di traverso al peschereccio, per buona metà fuori bordo. Fu allora che lo vide per la prima volta. Mentre volgeva il cono luminoso verso la scala sopra cui era sceso, il bagliore della lampada riflessa sull’oggetto lo colse di sorpresa. In un attimo inquadrò l’intera figura ed ebbe un sussulto che quasi gli fece perdere il morso sul boccaglio del secondo stadio. Tre ore dopo, mentre al timone riconduceva la barca in porto, cercò di ridere di quell’immagine ora fissata nella mente, e che là sotto, per un attimo lungo un’eternità, aveva interrotto il battito del cuore. Era certo, assolutamente certo, che in quel momento tra cappello e impermeabile non ci fosse stato uno spazio scuro di acqua, ma un teschio nero, in ombra sotto il copricapo, con due orbite vuote, ancor più scure, anzi nere anch’esse, ma più nere. Nere come dev’essere solo il colore dell’inferno.

«Senti, tra una settimana ci vediamo - dissi -, mi racconti meglio e decidiamo.» «Va buo’ - rispose -, ciao.» Il tono della voce era infastidito e chiuse la comunicazione senza darmi il tempo di replicare e salutarlo. Comportamento strano, inquietante. Sembrava quasi… …No, non lui, non è possibile… … avere paura.

«Ohi Ste’, n’stong’ mich’e pazziand’, sto dicendo seriamente. Chella lota luccaaava…» D’all’altro lato della linea telefonica, scuotevo il capo e ridevo. Alessandro era quanto di più vicino potesse essere un napoletano allo stereotipo di un tedesco, tutta teutonica precisione e razionalità. Ma in quel momento sclerava un po’, lasciando galoppare a briglia sciolta il lato superstizioso e immaginifico dei partenopei. O almeno così mi sembrava. «Insomma hai visto il fantasma del mozzo», dissi ridacchiando. «Ehh, chiss’riiide! Tu si strunz’, l’agg’ vist’ cu ‘sti uocchie.» C’era qualcosa, un cero non so che del tono della voce, che mi provocò un brivido incontrollato lungo la spina dorsale. Ero stanco, la malattia da decompressione contratta durante un record della mia donna, a cui facevo assistenza, mi prostrava da un paio di mesi.

Ero sceso un’ora prima dal pullman a Piazza Garibaldi, pieno centro del capoluogo campano. Come avrei fatto molte altre volte nei mesi successivi, avevo parcheggiato la macchina nei pressi della stazione di Bari. Le linee private e pubbliche avevano una biglietteria e un terminal – se così si può definire uno slargo e un’area contrassegnata e destinata alla sosta delle auto – lungo l’Estramurale, l’arteria cittadina che scorre parallela ai binari. Il mio mezzo partiva alle sette, proprio all’altezza di una delle scalinate d’accesso ai sottopassaggi pedonali della ferrovia. Prendere il bus aveva alcuni vantaggi. Mi consentiva un altro paio d’ore di sonno e, una volta a Napoli, non mi dovevo preoccupare di parcheggi e furti. Inoltre niente ansia da posto di blocco per la guida senza patente. Non era una preoccupazione da poco. Un paio di anni prima, ero stato fermato da una pattuglia di Carabinieri proprio in compagnia di Alessandro. Sta-

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Il Comandante e i due fratelli lo aspettavano davanti al cantiere. Quando arrivammo col suo Nissan Patron grigio, scesero dalla berlina blu notte piuttosto vecchiotta e ci vennero incontro. Ci scambiammo frettolose strette di mano e presentazioni. Lasciando le auto fuori dal complesso, ci avviammo parlottando verso il molo privato. Oltre il cancello, sulla sinistra, si apriva un enorme capannone. Gli operai all’interno erano al lavoro tra lamiere e catenarie. Saldatrici e cannelli riempivano l’aria di sibili, fumo e scintille. Poco oltre, a destra, vidi uno spiazzo in discesa verso l’acqua sporca del porto, completamente occupato da navi rugginose. Alcune erano ammonticchiate le une sulle altre. Un pezzo di scafo di un mercantile, di oltre quaranta metri, era sormontato da una parte di prua che, a sua volta, ospitava sul ponte quello che sembrava un rimorchiatore di una quindicina di metri. Davanti a noi una gru, e sotto ad essa una collinetta di cavi d’acciaio spessi anche dieci centimetri, nuovi di pacca. Sopra i cavi, mani in tasca e sorriso enigmatico, si ergeva la figura statuaria di Cristiano.


vamo percorrendo l’Aurelia tra Grosseto e l’Argentario. Lui era stanco e mi aveva chiesto di sostituirlo alla guida. Ci conoscevamo da poco e mi scocciava dire all’amico poliziotto che non avevo il permesso per portare l’auto, revocatomi per le nuove norme del codice della strada sugli ex carcerati. L’istinto e un fastidioso accapponarsi della pelle del collo, mi dicevano che per quella notte avevo tirato la corda a sufficienza. Il tratto tra Talamone e l’Argentario era una zona di controlli costanti. Due di notte, un’auto ogni cinque minuti: me la stavo andando a cercare. Decisi che ci saremmo fermati alla prima stazione di servizio e avrei chiesto il cambio alla guida. Pochi chilometri dopo, al termine di una lunga salita e una curva a destra, apparve un’area di sosta non illuminata. Ed ovviamente un furgone dei Carabinieri. Due di loro spuntavano lungo la carreggiata. La paletta si sollevò con il suo reticolo fosforescente, reso brillante dai nostri fari. Accostai. «Buonasera, patente e libretto per favore.» Al mio «Ho dimenticato la patente a casa» si fuse il «Sono un collega» di Alessandro. Il carabiniere non aveva la faccia di uno a cui importasse molto. Mi chiese un documento e si allontanò con quello e il libretto del Patrol verso la stazione mobile. Alesando sbuffò, scese dal fuoristrada e si avviò verso il furgone. Sorrisi tra me e me anticipando mentalmente quello che sarebbe successo, guardando la scena dallo specchietto retrovisore. Per un po’ rimase davanti al portello posteriore del Ducato, volto accigliato e aria infastidita. Aveva ancora l’illusione del potere taumaturgico del suo scudo di latta mentre quelli facevano i soliti, noiosi controlli di routine al terminale. Io osservavo, e aspettavo l’inevitabile. Era affascinante. Mi sentivo come uno scienziato che guarda al microscopio la sua coltura sull’agar. Poco dopo l’attesa finì. Dall’interno qualcuno doveva aver detto qualcosa e Alessandro mutò espressione. Guardò un attimo verso la sua vettura dove era seduto l’essere, poi riprese a parlare con quelli all’interno. Credo provassero una certa soddisfazione nell’infierire su quel collega poliziotto, ora che aveva perso tutto lo smalto e l’arroganza iniziali. Adesso era solo un ragazzo di ventitré anni, stanco e preoccupato, nel cuore di una notte umida e sempre più fredda. Tornò da solo. Venne dal lato di guida e aprì la portiera senza una parola. Mi spostai sul sedile del passeggero e attesi. Dopo una decina di minuti di guida silenziosa la domanda. «Stè, ma tu sì presciudicato?» «Un pochetto – risposi – un pochetto...»

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Comunque restammo amici e ora ero lì. La stazione di Napoli spalanca le proprie fauci sulla piazza, rivelando ogni giorno una marea di gente tra le auto, gli autobus e la folla di extracomunitari che vendono, comprano, si arrangiano. Quando chiude, la notte, la folla pittoresca si modifica appena nella sua composizione, ma resta compatta più o meno fino all’alba, pronta a ricominciare il ciclo. Il mio pullman sbarcò il proprio contenuto al centro del parcheggio e ciascuno di noi andò per la propria strada. Presi l’autobus per il porto e, dopo un viaggio relativamente agevole sulle corsie preferenziali occupate da taxi, veicoli istituzionali e napoletani frettolosi, arrivai sotto il Castello Angioino. Alessandro mi aspettava al bar Pic Nic, davanti al molo Beverello. Aveva la tuta e il cinturone del reparto navale della PS, da cui era appena scappato via, facendosi un po’ di cazzi suoi, come d’abitudine. Ci abbracciammo con calore. «Dicagnetto, mena che siamo in ritardo...» «Come buona norma, amico mio, come buona norma.» Salimmo sul fuoristrada e percorremmo l’ampio piazzale davanti alla banchina delle navi da crociera. I colombi si spostavano appena, affaccendati nel pattugliare ogni centimetro di asfalto per garantirsi un altro po’ di cibo. Passammo sotto i silos grigi e a fianco di una delle banchine industriali. Ale mi indicò una grande nave mercantile con imponenti gru svettanti dal ponte. Sulla fiancata, a grandi lettere, il nome della società armatrice. «Lavoriamo con quella», disse con il suo tipico tono orgoglioso. Avevo imparato a prendere con le pinze quel genere di affermazioni. «Ciao Cristià!», salutai. Saltò giù dal cumulo di cavi e mi strinse nel suo solito abbraccio stritolaossa. «Come sta Claudia?», chiese. «Bene. Sono io che mi mantengo in piedi con lo sputo. Tutta colpa tua che non sei venuto sull’Iseo.» «Eh, non ci stavano soldi, lo sai.» «Che è ‘sta roba?» «Uhm, non ho capito bene, siamo arrivati mo’ pure noi. E Ale tace». Alle spalle di Cristiano si materializzò un tizio anche più alto di lui, oltre il metro e novanta. Appena meno muscoloso, aveva i capelli corti e brizzolati e la

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barba. Indossava una tuta da lavoro grigia, consunta, con la scritta “Impresub” in un giallino ormai sbiadito dal tempo. «Ciao Stefano, Fabrizio, piacere», disse tendendo la mano secca e dalla stretta vigorosa. «Ah, ciao.» Lo conoscevo di nome e sapevo che in quel periodo lui e la donna erano spesso a Ischia, da Cristiano. Domiziana era una delle subacquee che avrebbero dovuto fare assistenza al tentativo di record di Claudia, sei mesi prima. Come mio solito, ero riuscito a litigare con un paio di istruttori subacquei della concorrenza, e uno di loro mi aveva denunciato alla Polizia. Così, quattro giorni prima dell’arrivo di un team composto da oltre trenta persone, di cui la metà inglesi e finlandesi, il Questore di Napoli aveva disposto l’espulsione con foglio di via di tre anni dall’isola, per me e la mia compagna. Non c’era stato nulla da fare per evitarlo. Visti i miei precedenti penali ci avevano praticamente impacchettati e spediti indietro sul continente, distruggendo e vanificando in un lampo un anno di lavoro, sacrifici e investimenti. «Come sta Domiziana?» «Bene, grazie. Anche tu qui per il recupero?» «Così pare...» Restammo un po’ in silenzio, tutt’e tre assorti nel guardare la matassa d’acciaio. Eravamo piuttosto perplessi. Non riuscivo nemmeno a capire come si potessero districare tra loro. Ciascun cavo era più spesso del mio polso e aveva l’aria di pesare in modo spropositato. «Allora gente, – disse Alessandro avvicinandosi a passi veloci – questi sono i cavi con cui dobbiamo imbracare la Stella del Mare e tirarla su.» Semplice come bere un bicchier d’acqua, tre paia d’occhi lo testimoniavano. Il suono di una sirena ci attraversò il cranio. Alzammo la testa. Appeso a una scaletta sulla gru, il manovratore ci faceva cenno di spostarci dalla traiettoria dell’enorme gancio che stava avvicinando. «Venite, togliamoci da qua!» Ale ci guidò lungo la banchina. Riconobbi il suo motopesca disarmato e riadattato a barca appoggio per subacquei, con panche lungo le murate e un tendone che copriva il ponte dal centro alla poppa. Ne era molto orgoglioso, sostenendo fosse stato costruito nei Cantieri Aprea, conosciuti per i gozzi extralusso che i maestri d’ascia fabbricano ancora come una volta, a mano, insieme ai fabbri e carpentieri sorrentini. «Con che barca dovremmo lavorare?», chiesi, conoscendo già la risposta. Giusto per fare un po’ di ironia spiccia. «La mia, no?! E i pescatori ci danno un’altra barca di assistenza, un pon-

tone e la nave gru. Quella che abbiamo visto venendo qui.» «Ci dici qualcosa di più sul recupero?», chiese Fabrizio. Sembrava che parlasse anche a nome di Cristiano. Non mi sorprendeva. Il nostro amico aveva la tendenza a fare da spalla a qualcuno. Era successo con altri, prima. Anche con me. Alessandro non rispose con il consueto garbo. Probabilmente lo infastidiva la tuta. La Impresub era la più importante azienda di lavori subacquei del nostro paese dopo la Saipem del Gruppo ENI. Per quanto ne sapevamo, Fabrizio aveva fatto qualche comparsata per loro, e non avremmo gradito un atteggiamento da “esperto” in mezzo a dilettanti. «E’ semplice… – disse Alessandro, spostando a suo favore le alleanze – Dobbiamo infilare quei cavi sotto la tonnara, attaccarli a un bilancino e tirarla su. Un lavoretto di una settimana, più o meno.» Tre teste andarono dall’ammasso di acciaio alla sua barca, più o meno all’unisono e per almeno un paio di volte, come spettatori ad un match di tennis. Scusa Alessandro – continuò Fabrizio – a che profondità sta il relitto?» «Uhm, sugli ottantacinque, circa.» «Quanto pesano i cavi?», chiesi io. «Sono due coppie di brache da venticinque metri. Ciascuna pesa quasi duecentocinquanta chili.» «E vanno sulla tua barca?», domandò Cristiano. «No, credo sul pontone.» «Che sta qui?» Lo scetticismo di Fabrizio era ormai spudorato. Ale non diede l’impressione di raccogliere. Si limitò ad indicare un oggetto rettangolare, nero di grasso e sudiciume, ormeggiato alla ben’e meglio più in là. Al centro, tra vecchie cime, bidoni d’olio e schifezze irriconoscibili, c’era una sorta di gretta con un’apparenza di verricello. «Si, è quello.» Fabrizio, che non conosceva ancora bene Alessandro, guardava il “pontone” con occhi sgranati. «Chiudi la bocca – mormorai tra me e me – o ci entra un gabbiano.» Cristiano aveva cominciato a massaggiarsi il mento. Alle volte lo prendevano per uno a cui difettasse materia grigia quando faceva così. Era, in realtà, una delle persone più brillanti che avessi mai conosciuto. Seguiva solo i suoi percorsi mentali zen, bastava adattarcisi. «Non ha un motore e un timone», commentò grattandosi la nuca. Guardava una macchia sulla Tshirt come sorpreso che si trovasse lì, anche se, in mezzo a un’altra ventina di patacche unte e multicolori, era piuttosto anonima.

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«No, non non ce l’ha. Lo trainiamo e lo ancoriamo sopra il relitto.» Il tono del caposcuadra si era impennato di un’ottava. «A ottanta metri, in mezzo al mare, senza motore…», Fabrizio non si dava per vinto. «Ok, ok, break, dissi io. » Avevo bisogno di soldi. Tutti avevamo bisogno di soldi, e qui si stava disputando del sesso degli angeli. E prima ancora di aver abbozzato l’argomento “retribuzione”.

Sopra, un divano letto, una libreria e un tavolino. La libreria serviva per i manuali dei corsi subacquei, le cassette VHF e qualche libro del settore. Il divano per scopare. «Come andiamo a femmine?». «Uhè, Dicagnetto, andiamo sempre alla grande!». «Programma?». «Scarichiamo la vostra roba, mangiamo e vi porto in albergo. Domani usciamo presto».

«Ma chiss’ che cazz’ va truvann’?» Il Nissan saltò sopra un cordolo e piombò sui binari che tagliavano le due strade parallele al muro di cinta del porto. Guidava come un poliziotto napoletano appena ventenne, che considera la strada di sua proprietà. Ed in effetti questo era e questo pensava. «Ti dispiacerebbe rallentare? Mi viene da vomitare». Cristiano ci seguiva con la Jeep di Fabrizio, ma ad un’andatura che li costringeva a rimanere indietro. Comunque lui tornava ad Ischia con l’aliscafo. «Piuttosto, non lo dovevamo fare in tre il lavoro?» «Eh, Cristiano se l’è portato… Levati! Stu strunz’!» Dribblò un Tir strombazzando. «E quanto ci dai?» «Cinquecento a tuffo, te l’ho detto.» «Si, me l’hai detto. Ma quanti tuffi, per quanto tempo… E chi paga albergo, vitto, spese di viaggio...» «Oooh, Stè, ma sì sempre così venaaaale!» Guardai oltre il finestrino del passeggero. Napoli cominciava ad illuminarsi. Uscimmo dal varco del molo Beverello e il fuoristrada zigzagò tra la carreggiata intasata di auto e la corsia preferenziale dei tram. Eravamo in affollata compagnia. Fabrizio teneva dietro, ma il sedile del passeggero ora era vuoto. Cristiano doveva essere saltato giù in corsa, al Beverello. «Alessandro, per favore. Non cominciamo, dammi un po’ di cifre». «Ci saranno almeno dieci tuffi a testa, uno o due al giorno per una settimana o poco più.» «Spese?» «Poi vediamo. Io non ci guadagno nulla, è un favore.» Era sempre un favore. E non ci guadagnava mai nulla. Arrivammo al suo ufficio/sede/scuola. Un locale commerciale che si era soppalcato da solo. Porta vetrata all’ingresso, scrivania sulla destra, bombole ed equipaggiamento su ogni lato.

«A che ora arriva?» «Tra dieci minuti.» Non avevo molta voglia di scendere in acqua. Secondo Alessandro, da giorni continuava un’onda lunga di ponente. Masticava con entusiasmo un croissant. Per conto mio era meglio il toast prosciutto e formaggio che aveva conquistato anche Fabrizio. Secco, faceva da galletta antiacido, una mezza furbata alla lupo di mare contro il previsto malessere. Il romano (dei Castelli) sorseggiò il suo succo di arancia. Non avevamo parlato a lungo. Alla fine, dopo un “pizza e birra” frettoloso, eravamo sprofondati nel sonno, in un albergo fatiscente tra la stazione e il porto. «Allora, andiamo? Ci ormeggiamo con la cima che ho già messo e voi scendete. Io e Cristiano abbiamo già parlato. Le coppie di brache devono passare a poppa, tra il timone e l’elica. Da lì non si spostano. Per bloccare quelle di prua, dobbiamo aprire le griglie che proteggono l’elica di manovra, e cercare di infilarle lì. L’ingegnere dice che ci passano». Come no, alla grande, pensai. «Ecco Cristiano», comunicò Fabrizio, riconoscendo la testa rasata dell’ischitano, che svettava ciondolando in mezzo ai pendolari. Lo scafo bianco e blu dell’idrogetto era approdato proprio vicino al bar, e il nostro amico ci raggiunse in poche falcate. «Vuoi qualcosa Cristià?», domandò Alessandro. «No, ho portato i panini.» Salimmo a bordo e i due fuoristrada raggiunsero in pochi minuti il cantiere. Trasferimmo le nostre attrezzature personali sulla barca, dove Alessandro aveva già portato le bombole cariche per l’immersione. «Molla gli ormeggi!», ordinò. «Libera...» «Libera...»

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Da poppa a prua diedero l’ok, e l’imbarcazione si mosse rapidamente nelle limacciose acque del porto. «Non mi hai detto più niente del tuo nuovo amico fantasma...», scherzai con il timoniere. «Nun si pazzian’, poi ti racconto», rispose Ale corrucciato. Dopo una decina di minuti di navigazione, Cristiano puntò il dito verso l’orizzonte. «Cinque a dritta, Alex.» Alessandro mosse appena il piccolo timone di legno e ottone. Lo comandava con una manovella orizzontale e non con le classiche impugnature della raggiera. Il legno era lucido e scuro per l’usura e il sudore delle mani dei marinai succedutisi al comando. A circa mezzo miglio, illuminata dal sole, la massa di galleggianti gialli della rete. Duecentocinquanta metri di altezza per alcuni chilometri di lunghezza. Finita fuori bordo e accatastata sul fondo di ottantacinque metri, segnalava perfettamente, meglio di qualsiasi altro artifizio, la presenza del peschereccio affondato. Si vedeva da lontano, rendendo superflui GPS e scandagli. Era una fortuna che nessuno avesse provveduto a recuperarla dopo il naufragio. Distava sul fondo meno di cento metri dal grande peschereccio destinato alla pesca dei tonni. Il cordone ombelicale che la legava allo scafo era un cavo d’acciaio da sei millimetri. Che facesse Libeccio o Tramontana, Scirocco o Ponente, la grande rete non si schiodava da lì. Nonostante ciò, nessuno di noi la guardava tranquillo. L’isolotto di PVC sovrastava la massa di maglie nere, che così al largo e con quella profondità, Alessandro diceva si intravedesse sempre, anche da sotto. Scura, cupa, funesta. Perfino nelle giornate in cui l’acqua era color caffelatte. Lontana, ma incombente nel campo visivo dell’immaginazione. Un’ombra, solo un’ombra nell’ombra. Metteva i brividi. E poi aveva già ucciso.

La rete dormiva, ammucchiata alla bell’e meglio a poppa, mentre lo scafo d’acciaio di centotrenta tonnellate rollava e beccheggiava, arrancando verso l’ampio ingresso tra i moli. Ormai mancava poco. I pescatori non erano nemmeno tanto preoccupati. Pensavano di essere arrivati, di aver perso solo una giornata di lavoro. A poppa, il mozzo cercava di mettere al riparo galleggianti di polistirolo, cimette, qualche secchio. L’onda anomala era giunta improvvisa. Silenziosa. Grigia nel grigio e spumeggiante nella spuma. In pochi secondi aveva coperto la poppa, schiacciato sotto il suo peso la nave ormai perduta. Nella cabina di comando e nei locali sottostanti, l’equipaggio aveva visto entrare l’acqua. Urlando all’unisono, era saltato fuori bordo prima di rischiare di affondare con la nave, lasciando tutto come stava e come, poi, i sommozzatori avrebbero ritrovato, intatto. Appena in tempo. Ma il mare aveva chiesto un tributo, un sacrificio. Una vita. Quando motoscafi e vedette della Polizia e della Capitaneria, rischiando anche loro, erano accorsi a trarre in salvo la dozzina di uomini terrorizzati e gelati, ne mancava uno all’appello. L’avevano tirato via dalla rete il giorno dopo. Affogato. Avviluppato nel nylon come i tonni cui dava la caccia. Gonfio e scuro per l’inizio della decomposizione, le maglie incuneate nella pelle tesa dai gas putrescenti.

La Stella del Mare tornava, anzi, scappava verso l’imboccatura del porto partenopeo, quella mattina. C’era il mare in burrasca, il cielo nero, la città, seppur vicina, era nascosta sotto i rovesci. Poche imbarcazioni cercavano ancora di guadagnare riparo, mentre aliscafi e traghetti facevano l’ultima corsa, pieni di turisti vomitanti sotto gli occhi dei pendolari, divertiti e assonnati.

Lasciarono l’isolotto di galleggianti sulla sinistra. L’imbarcazione puntò la prua su un parabordo cilindrico bianco, con le estremità di plastica rigida blu. Cristiano e Fabrizio, usando il mezzo marinaio, lo tirarono a bordo. Recuperarono la cima a cui era assicurato e che sarebbe servita ad ormeggiarsi sopra il relitto. «Muoviamoci, danno una perturbazione in arrivo», annunciò Alessandro uscendo dalla plancia. «Sai che novità...», borbottai. «Controlla un po’ quel gav, mi sembra che perda», suggerì il caposquadra a Cristiano. «Te credo! L’ha messo insieme con i rottami di altri quattro...» Gli accrocchi di Cristiano erano famosi. E anche le sue performance preimmersione. Contrastavano clamorosamente con i silenzi e il volto dalla maschera seriosa. Su uno dei due tubi corrugati, che immettono e scaricano l’aria contenuta

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nelle sacche del giubbetto equilibratore, aveva attaccato un coltello da cucina seghettato. «A Fabrì, il compare qui, ha fatto una modifica tattica», dissi indicandolo. Tutti sorrisero malignamente. Cristiano aveva ancora la mano destra fasciata. Poche settimane prima, mentre faceva un corso ad una ragazza del nord, si era squarciato il palmo. Portava per abitudine un tribombola. Un mostro di quarantacinque chili di peso, tra bottiglie e schienalino d’acciaio. Differentemente da noi, che variavamo il carico delle bombole a seconda del tipo di immersione, alleggerendoci quando possibile. La sua forza erculea lo rendeva indifferente al problema. Non a caso avevamo coniato per lui il soprannome “o animale”, che non gradiva, a differenza di quello di “etrusco”, che viceversa stimolava la vanità narcisa. «Come cazzo hai fatto, dico io. E’ pure un cesso!» Non mi degnò di uno sguardo. Posizionò meglio l’imbrago e impugnò il corrugato. Faceva sempre così e non pareva aver tratto beneficio dalla lezione. Lo usava per tirarsi addosso il carico e aggiustarselo. Solo che quel giorno, esagerando il gesto atletico per farsi bello davanti all’allieva, la mano gli era scivolata. Il coltello, fissato al corrugato da una semplice strisciolina elastica ricavata da una camera d’aria di bicicletta, gli aveva aperto il palmo. «Fai vedere ‘sta meraviglia...», infierii. Mentre mi avvicinavo, si sollevò, grugnendo sotto il peso. La barca ondeggiava e sbatteva, ma l’uomo sembrava danzare sulle gambe, accompagnando il movimento. «E certo. Un bel fodero di nastro adesivo americano… Facciamo passi da gigante!», esclamai con enfasi mollandolo lì. Alessandro, con perfidia, raccolse la palla al balzo. «E’ vero che hai fatto il di più e ti sei buttato in acqua sanguinando come un maiale?» Cristiano, ignorando i nostri lazzi, raccolse un martello da mezzo chilo e una chiave inglese. Li buttò dentro un retino da pesca, dove giacevano un cacciavite gigante e una sega ad arco, e caracollò verso poppa. Fabrizio era già pronto e osservava silenzioso. Non sembrava particolarmente entusiasta. Intanto io cominciavo a sentire lo stomaco in gola. Il mal di mare lo soffrivo da sempre, per qualche problema legato all’organo dell’equilibrio. Una volta tornato a terra, il malessere continuava anche per alcuni giorni. E lo stesso succedeva in volo, sui piccoli aerei da cui saltavo col paracadute. O sul sedile posteriore di un’auto, sui tornanti di montagna. Ci convivevo. Riuscivo

più o meno a fare tutto, soprattutto se preso dall’azione. In acqua, nei momenti peggiori, non facevo che vomitare e bestemmiare. Finché non raggiungevo i trenta metri. Gli effetti narcotici a quella quota mi facevano stare da dio. «Dai, dai, muoviamoci va’», dissi più che altro rivolto a me stesso. Se avessi cincischiato un altro po’, mi avrebbero dovuto buttare fuori bordo di peso. Ero fin troppo debilitato. Il mare sbatteva contro lo scafo, spruzzandoci grosse gocce salate contro il vetro delle maschere. Preferivo la barca di Cristiano, una gloriosa Krith Nelson di 12,5m., che tirava i suoi buoni 22 nodi e da cui si poteva saltare lateralmente. Meno spazio da percorrere in acqua fino alla cima di prua, con quelle condizioni. Arrivai sotto di essa cercando di afferrare il robusto cavo arancione ed evitare la chiglia verso cui onde e corrente mi volevano far schiantare. «‘Fanculo, ma chi me lo fa fare!», mugugnai nell’erogatore. Guardavo Cristiano e Fabrizio, più sotto, che scomparivano nella nebbia grigia provocata dalla sospensione. «Vai Dicagnetto, vai!», mi urlava affacciato al pulpito di prua Alessandro. Il boccaglio del secondo stadio, unito al sapore dell’acqua salata, mi fece salire un conato acido. Per un attimo immaginai il fastidio se avessi avuto un erogatore Poseidon! I boccagli di quest’azienda svedese sono sovradimensionati. Ideati per l’utilizzo in acque gelide, impediscono che l’erogatore scivoli dalle labbra quando diventano insensibili per il freddo. Una boccuccia gentile come la mia, veniva violata come in uno stupro, e la nausea amplificata. Scaricai l’aria dal gav e cominciai la discesa. Su uno dei due corrugati, come Cristiano aveva il coltello, avevo attaccato una piccola torcia elettrica. Prima di scendere in acqua, ne avvitavo la testa fino a che i contatti toccavano la batteria accendendo la lampadina. A quel punto la spegnevo con un quarto di giro indietro. Arrivato a una mezza dozzina di metri, la pressione della colonna d’acqua spingeva sul vetro e ne provocava l’accensione. Automaticamente. In questo modo non dovevo fare nulla e risparmiavo la carica quando non era necessaria. Che chiavica, pensai. Dopo pochi metri, la sporcizia diventava un tappo, e la normale luminosità del mare scompariva in una coltre marrone. Se avessi sorvolato la zona, avrei visto la macchia provocata dalle recenti piogge. Terra, apporti dei fiumi e delle fogne, invadevano l’intero Golfo. Gli altri due erano scomparsi. Rapidi ed invisibili… Cominciai a canticchiare tra me l’inno dei sommergi-

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«Non avete luci?», chiese il Piccolo. Insieme a Francesco e Daniele guardavano scettici la nostra configurazione. «Naaa, tanto si vede fino a dove scendiamo. Facciamo solo un giro esplorativo», risposi con sufficienza. Claudia era già in acqua. «Dio che fredda. E’ peggio del Garda», disse. «Brrr, davvero», confermai entrando. «Occhio che si scivola». Qualcuno dei bergamaschi avvertì Er Pomata, uno dei ragazzi del team che ci accompagnava nella trasferta al nord, per il tentativo di record del mondo di Claudia. Sbattuti via in malo modo da Ischia, non ci eravamo dati per vinti e provavamo al lago. A onor del vero, anche al nord avevamo rischiato la debacle. Dopo un mese di allenamenti nel grande lago diviso tra tre regioni, avevamo ripiegato sulla piccola enclave bresciana. Le autorità trentine, dopo un mese di tentennamenti, avevano di fatto boicottato la realizzazione dell’evento con

una serie di pastoie burocratiche per le autorizzazioni e l’appoggio logistico navale. Uno dei nostri sponsor, che aveva ereditato dal papà l’azienda di imbot-tigliamento dei gas compressi a Bergamo, ci ospitava a quel punto “in casa”. La logistica era folkloristica, ma efficace. Le cose, dall’oggi al domani, avevano cominciato a macinare per il verso giusto. «Ahò, te movi?!» Claudia era impaziente: Er Pomata doveva farci assistenza in questa prima discesa esplorativa dell’Iseo. «Pinneggiate per un centinaio di metri se volete scendere in verticale fino a ottanta, cento di profondità», ci indicò Piccolo. Un buon metro e novanta per cento chili, il nome gli calzava a pennello. «Senza luce...», mormorò perplesso Davide. Claudia mi guardò esasperata. «Quanto la fanno lunga...» «Dai, lo sai che quando ti abitui a scendere con le luci sempre accese, non ti accorgi che puoi vedere anche senza.» Sul Garda, riuscivamo a leggere il display del computer da polso, fino a cento, centodieci metri. Ora dovevamo fare solo una sprofondata rapida di ambientamento. «Ma Pomata?» Il ragazzo era in affanno. Non aveva grande esperienza, quella era la prima immersione in un “lagaccio”. Comprensibilmente, il suo ritardo ci innervosiva perché i “nordici” ci stavano ancora prendendo le misure. Già era imbarazzante il suo arrivo con una berlina BMW dall’assetto ribassato, di un ancor più vistoso giallo canarino… Era il classico figlio di costruttore, anzi palazzinaro romano. Varie proprietà nei quartieri bene, pizzeria storica a Piazza Navona e ristorante osteria all’inizio della Flaminia, méta dei calciatori delle squadre capitoline. «Ok, ok, ‘sti ca’, andiamo», dissi guardando verso riva e poi lei. «Ready, stand, gooo!», urlò gasata Claudia, usando il gergo dei lanci paracadutistici. Sprofondammo. Wow – pensai – si va. Eravamo pesantissimi. Con cinque bombole da diciotto addosso e in quell’acqua priva di sale. Ghiacciata. Più fredda del Garda di almeno due o tre gradi. E significava stare appena quattro gradi sopra lo zero. I gas compressi che respiravamo raggiungevano la bellezza di – 30° C. «Oh merda», farfugliai. Qualcosa non andava.

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bilisti, assunto a leit motiv personale di ogni immersione. Era uno dei tormentoni classici con cui rompevo le scatole ad amici, colleghi e allievi. L’altro era: Signor Giudice, chi avrebbe mai potuto immaginare una simile tragedia, in una giornata così bella, col sole che splendeva, il mare piatto, una leggera brezzolina… Quello, a Cesare quel che è di Cesare, era rubato al repertorio di Cristiano. Famigerato per i briefing preimmersione con i frequentatori del proprio diving. Con faccia seria e attendibile, sparava immense cazzate, che di solito provocavano sconcerto, sgomento e a volte vero e proprio terrore. La risata esorcizzante, quando capivano, era meglio di qualsiasi banalità da imbonitore del circo subacqueo. Signor Giudice era un must. Lo avevo eletto a viatico dell’ottanta per cento delle mie sommozzate con sconosciuti e allievi, che cominciavano a grattarsi gli ammennicoli e toccar ferro non appena iniziavo la litania. Buio, pensai, mentre a quaranta metri il tappo melmoso veniva interrotto dal termoclino. L’acqua, più fredda e meno densa di sale, era pulita, nera come la pece. Appena striata dai filamenti di organismi unicellulari e uova che la luce artificiale catturava ondeggiando qua e la’, sotto di me, rinviando bagliori argentei. Era raro, rarissimo, che portassi una luce in mare di giorno. Ma qualche mese prima, sul Lago d’Iseo, avevo cambiato abitudine.


Abbassai gli occhi verso il computer, ma dovetti spiaccicarmi il display sul vetro della maschera per leggere la profondità. Venticinque, e già non si vedeva nulla, dentro un liquido verdognolo poco rassicurante. Feci appena in tempo a proiettarmi in avanti per acciuffare Claudia, che già stava scomparendo alla vista. Su, su, risalita! urlai mentalmente, sperando scorgesse il mio segnale a pollice su. Poi la persi, inghiottita da un nero pece che aveva sostituito senza soluzione di continuità il coloraccio erbaceo. Lasciai la presa per comandare l’insufflatore e caricare il gav. Ci mise un bel po’. Sentivo il fischio dell’aria che entrava nella sacca, ma continuavo a scendere. Mi sembrò passasse un’eternità prima che rispondesse alla spinta di galleggiamento. Tornato a galla, cercai con ansia le bolle di Claudia. Erano poco lontane, per fortuna, e in breve venne su. «Buietta, eh?», dissi sorridendo, lo stomaco in subbuglio e un ghigno guascone fasullo sul volto. Mi preparai agli sguardi di compatimento degli indigeni… Più giù, dei lampi brevi e casuali indicavano la posizione della prua. Alessandro ci aveva spiegato che il peschereccio era in assetto di navigazione, appena sbandato a dritta. La corrente spingeva la sua barca verso il porto e questa tirava con sé la cima di ormeggio. Dovevo essere a venti, trenta metri dal fondo. Appena fuori dalla verticale del relitto, sull’ipotenusa di un triangolo ideale. Fabrizio e Cristiano erano sicuramente già affaccendati sulla griglia, cercando di svitarne i dadi di serraggio per rimuoverla. Probabilmente, uno aggrediva l’acciaio e l’altro illuminava. Sarei dovuto scendere sul lato opposto per lo stesso lavoro. Ma non avevo fretta. Cinquecentomila lire a tuffo non erano un granché. Non c’era ragione di accellerare i tempi e chiudere in poche immersioni. E poi volevo dare un’occhiata. Dovevo necessariamente avvicinarmi molto, visto il buio. Cazzo, è una notturna… Quando la mia lampadina illuminò la torre del radar, mi staccai dalla cima. Alcuni grossi parabordi tondi pendevano flosci sulla battagliola di prua. Dovevano essere gonfi in superficie, ma le nove atmosfere di pressione li avevano accartocciati e apparivano rugosi come la pelle incartapecorita di un ultracentenario. Una lieve patina di fango si era già posata sulla plastica, ingrigendoli.

Fluttuai verso poppa. La barca era lunga quasi trenta metri e c’era da pinneggiare un po’. Sul fondo la corrente era inversa e faticai a raggiungere l’ampia poppa. Ritorno col vento in culo, mi rallegrai mentalmente. Meglio così. Le regole di sicurezza non sempre potevano essere seguite con scrupolosità, in particolar modo durante lavori così impegnativi e rischiosi di per se stessi. Su dieci ogni tanto almeno una si mette giusta, pensai. In realtà non avevo ragione di spingermi a poppa in quel momento, sembravo indulgere al lusso di una esplorazione turistica, ma quando superai la gru e la struttura centrale che dava accesso ai motori, mi resi conto che c’era un’altra motivazione, più subdola e morbosa, ad avermi spinto fin là. Volevo vedere dov’era seduto il mozzo pochi istanti prima di morire, quell’angolo in cui si era forse rifugiato, ultima ruota del carro gerarchico a bordo, per fumare una sigaretta in pace, osservare la costa grigia tra gli spruzzi e la fitta pioggia, e dove la furia del mare l’aveva catturato e trascinato con sé inerme e disperato. Spesso, mi capitava di immaginarmi senza aria, forse intrappolato, o impigliato, sotto una massa di liquido impietoso. Il più delle volte erano pensieri generati nell’abisso, a livello inconscio, che poi si facevano strada per farsi concreti nelle soste di desaturazione. Quelli che chiamavo i miei incubi decompressivi. Appoggiai le ginocchia sul ponte, affacciandomi verso l’oscurità, all’estremità posteriore dell’imbarcazione. Mi sembrava di vederlo, quel ragazzo, dibattersi tra le maglie nere come succedeva ai tonni a cui dava la caccia. L’acqua fredda che gli entrava nei polmoni, i gesti frenetici, inconsulti, con cui tentava di liberarsi, restando invece sempre più prigioniero. Immaginavo l’agonia, il terrore, la consapevolezza della morte, le mani che artigliavano il volto nel parossismo delle convulsioni finali. Una goccia fredda scivolò tra il collarino della muta e la nuca. Strisciando come una lumaca bavosa, prima di essere assorbita dal tessuto di pile all’altezza delle scapole. Era come l’alito del fantasma di quel mozzo. Mi scossi e pinneggiai alzandomi dal piancito metallico, facendomi prendere dal flusso dell’acqua e raggiungendo gli altri. Ancora sovrappensiero, spinsi il pulsante dell’erogatore di rispetto assicurato da un laccetto elastico all’altezza del mento. Il gas uscì con flusso costante. La bombola era aperta e potevo sostituire quello da cui stavo respirando per consumare, con regolare alternanza, le bombole posteriori separate tra loro, secondo una tecnica che veniva definita speleo, in quanto mutuata dagli specialisti della speleologia subacquea.

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Vidi il verricello centrale, illuminato per un attimo dalla torcia che ballava sullo scafo, assecondando il movimento del corrugato nella corrente. Da lì, in un attimo, sarei stato all’altezza della scaletta posteriore del castello di prua. Sta là… Il pensiero fu censurato, ma dovetti farmi forza per guardare. Cancellai il senso del ridicolo misto a superstizioso timore. E se si muove?… Presi i manometri e controllai la pressione delle bombole con improvvisa puntigliosità. Un secondo ancora e avrei raggiunto i due al lavoro. Scesi un paio di metri. La sagoma del peschereccio si stagliava come un miraggio, guardando dal basso verso l’alto. Forse la immaginavo, più che vederla. Come mi avesse sentito, Cristiano si sollevò dal fondo, dirigendosi verso la prua affilata. La doppiò e scomparve dietro lo scafo, lungo la murata sinistra, con un’ultima traccia della sua presenza fattasi d’un tratto nebbia, nel lampo del cono di luce proiettato dalla sua torcia sul fondo. Mi avvicinai al romano. Stava svitando i dadi allentati dal compagno. Lo affiancai e gli chiesi quanto mancava, battendo l’indice sul mio computer e su un manometro. Diede un’occhiata ai suoi e poi mi fece cenno che restava un altro minuto, poi andava via. Feci l’ok e mi spostai verso l’alto. Sorvolai lungo il ponte ridiscendendo verso Cristiano. Martellava ciascun dado esagonale e poi lo aggrediva con la chiave. Non mi andava di fare niente. Ero angosciato da un brutto presentimento. Quand’ero un terrorista clandestino, inseguito da mandati di cattura internazionali e ramingo per l’Europa, cercavo di seguire con scrupolo una delle regole base per la sopravvivenza: ascolta il tuo inconscio. La mente razionale, della veglia, tende a volerci rassicurare, a darci speranze e illusioni che allevino il peso di una realtà opprimente e disperante. I sogni, le premonizioni, sono interrogazioni della mente onirica che contrasta la frode inconscia delle aspettative opposte ai risultati. Senza scomodare Freud o i paradigmi khuniani, le percezioni simbolizzate sono elaborazioni degli input a un livello ‘’alto’’, svincolato dalle pastoie della razionalizzazione e dell’umore consapevole. Da decenni avevo imparato ad ascoltarmi, anche se troppo spesso decidevo purtroppo di ignorarmi, creando una frattura fatale e suicida tra gli avvertimenti e le elaborazioni oniriche e le automenzogne del mondo sveglio. Del resto, la degenerazione dei miracles du sommeil, citando Baudelaire, comincia già al risveglio, quando ciò che era chiaro come la luce del sole nell’esperienza onirica, si fa vago e sfuggente, fino a scomparire o essere reinterpretato e riscritto altrimenti.

Cercai di non perdermi in pericolose quanto inopportune divagazioni, focalizzando lo sguardo sulla sagoma di Cristiano. Gli tirai un lembo del sacco gonfiabile e, puntandomi contro la torcia, feci segno che era tempo di sgombrare. Come al solito, era preso da quella furia di concludere il suo lavoro che odiavo con tutto me stesso. «Tu, se non la fai finita di stronzeggiare così, ci crepi!», gli avevo detto più di una volta. Non era stata una vera profezia nemmeno quella. E’ così, e non c’è scampo: se consumi tutti i gas che hai a disposizione su quei fondali, muori. Non ci vuole un mago, né una divinazione aristotelica… Mi alzai di nuovo quattro metri più su. Il primo ad andare fu Fabrizio. Cristiano attese di sentire gli erogatori farsi duri, più per infantile principio che per necessità, quindi si sollevò a sua volta. Non appena lo vidi puntellarsi, iniziai a salire verso la cima, mantenendo una distanza tale da consentirmi di prestargli soccorso nel caso avesse avuto bisogno. Stronzo, mormorai serrando forte i denti sulla plastica del boccaglio, quando lo vidi passare alla bombola piccola. C’era Nitrox là dentro. E non era ancora la quota per passare a quella miscela. Mise il turbo e mi sorpassò per raggiungere una profondità non pericolosa. Scossi la testa, ma non mi vide. Facevo anch’io cose simili ma è brutto quando assisti all’incoscienza altrui e comprendi la tua impotenza. Arrivato a quindici metri, ripresi a sentire il freddo e l’insensibilità epiteliale della gamba sinistra. Quella colpita dalla MDD contratta sull’Iseo. A nove, cominciai a vomitare nell’erogatore per il mal di mare provocato dall’onda lunga.

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«Non ce l’ho fatta. Una è tolta, ma quella di dritta no», disse Cristiano, mentre gli passava una pinna appeso alla pedana di poppa. «Uhh, niente niente?», chiese Ale con aria delusa. «Ho svitato tre bulloni e allentato uno. Mancano gli altri». Assicurandosi che pinne, maschera e cintura dei pesi fossero a bordo, Cristiano puntò i piedi sulla scaletta e cominciò a salire. Sollevò tutto l’armamentario senza sforzo apparente. «Eh, com’è vero. Mai fare fatica dopo l’immersione», buttai lì in maniera poco intellegibile tra un conato e l’altro. «Mai! Può fare malissimo!», rincarò Fabrizio, cercando di tenersi con entrambe le mani alla cima preparata da Ale proprio a quello scopo. Cercai di


guardarlo in volto apprezzando la battuta che condivideva con noi un mai sopito disprezzo per le regole della subacquea, ma stavo troppo male e mi sfuggì solo un gemito di dolore. Onde e corrente sembravano aumentare senza tregua. Le collinette d’acqua che alzavano e abbassavano prua e poppa con costante alternanza iniziavano a frantumarsi in esplosioni di spuma bianca. «E che ti mangi, il brodo con la forchetta!», urlai per tigna, accompagnando la frase con qualche parolaccia inframmezzata a singulti e conati. Una fase standard, quella, che proseguiva, di solito, con insulti a tutto il Pantheon pagano, bestemmie contro il dio cristiano. Lo sfogo, infine, sfociava in un miserevole rantolo, steso a pelle di leopardo sul ponte, rotolando con le bombole. Peggioravo e cominciavo a delirare. Quando fu il mio turno di salire a bordo, vidi che Cristiano stava aiutando Alessandro a sistemarsi le bombole addosso. «Dove cazzo vai?!», mi riuscì dire. Il sapore del vomito in bocca era oltre il disgustoso di almeno trecento punti percentuale. «Devo togliere la griglia. Domani sarà brutto…» «Si. Perché oggi… è… una passeggiata di salute!» Mi ignorò, «… e dobbiamo passare la cima dentro il tubo dell’elica di prua, all’alba. Non abbiamo una seconda immersione.» «Tu sei tutto scemo. Non puoi andare da solo», cercai di controbattere. «Ale, Stefano ha ragione, ce ne dobbiamo andare.» Fabrizio provò a darmi manforte. Cristiano stava zitto e, con implacabile metodicità, controllava che tutto fosse a posto. Non c’era niente da fare. Del resto sapevo che la mia contestazione era dovuta solo al fatto che volevo un lembo di terra solida, da baciare come il Papa. Mi buttai su una panca. «Dio, maledetto giudeo di merda. Ferma questo fottutissimo circo!», bestemmiai rotolando giù e cercando di guadagnare il punto più basso e centrale della barca. Un’onda spazzò la prua, e l’acqua invase il ponte dai lati della cabina. Una delle mie scarpe navigò placida e indifferente fino alla mia faccia. Insieme a un calzino fradicio e puzzolente. I colori delle strisce del logo invasero il mio cervello prostrato e lo violentarono esplodendo in lampi psichedelici. Non avevo la forza di protestare e gli altri mi passavano sopra con indifferenza. Il tuffo di Alessandro fu solo un temporaneo conforto. Prima si muoveva, tanto prima schiodavamo da lì. «Controlli tu?», chiese a Fabrizio l’animale ischitano. Era entrato nel mio

Buio. L’avevano detto gli altri ed era così. Le condizioni del mare erano ormai costanti da settimane e, in tutte le precedenti immersioni, aveva trovato onda in superficie, strato caffelatte in mezzo, oscurità sotto i quaranta. Niente di nuovo pertanto. Fu faticoso raggiungere i cinque, sei metri. La corrente spingeva e la cima su cui erano ormeggiati veniva strattonata. La barca, ferma sul posto, cavalcava onde alte fino a due metri e mezzo. Lasciava scivolare il cavo tra le dita della mano sinistra, con la destra si aggiustava l’attrezzatura e sgonfiava gradualmente il gav. Arrivato a una decina di metri, il moto ondoso si sentiva meno. Gli venne in mente come spiegava questo effetto ai suoi allievi. “Figuratevi un rullo che ruota su un asse, diceva sempre, quella è la sezione di un’onda. Sembra che si muova. In realtà quell’acqua gira sul posto e spinge il rullo successivo, che ruota a sua volta. E così via. Fino a terra.” Era abbastanza semplice da capire. Soprattutto se si aiutava con il disegno sulla lavagna. “La stessa sequenza di rotazioni, proseguiva, va dalla superficie verso il fondo. E questi rulli, mano a mano, diventano sempre più piccoli”. In quel momento, lui stava proprio dove erano tanto minuscoli da essere appena percepibili. Pensò a me, che da quei rulli venivo devastato, e gli scappò un sorriso perfido e divertito. Dalla posizione ad angelo, assunse quella verticale. Le pinne verso il basso. Controllò i manometri e accese il potente faro. Fece una piroetta e picchiò come un caccia lanciato all’attacco e, testa in basso, pinne verso la superficie, si lasciò attirare dalla gravità verso il relitto. L’aria immessa nella muta stagna migrò verso i piedi e, non contrastando più la pressione dell’acqua all’altezza della coscia, lasciò entrare un rivolo freddo da un microscopico buco nel tessuto trilaminato. U’ anim’e dì, che freddo, pensò maledicendosi per l’ennesima volta. Non trovava mai il tempo di metterci una pezza, nel senso letterale del termine, su quel forellino. Dopo poco, la luce brillò sulla struttura bianca del castello di prua. Il blu dello scafo era ancora confuso nel colore dell’acqua, ma apparve in pochi istanti.

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campo visivo e stava scartando con ostentazione la carta argentata da un mostruoso panino, farcito di prosciutto e mozzarella, olezzante grasso e lievito. Serrai le palpebre e vomitai bile.


Il nome della tonnara si stagliava dietro l’ancora, a fianco di una stella in rilevo. Scese oltre la murata di dritta. L’accesso al bow thruster era aperto. La griglia circolare giaceva semiaffondata nel fango, appoggiata allo scafo poco sotto il tunnel. «Bene!», si disse. Nuotò verso l’estremità del peschereccio. L’inclinazione e la netta svasatura del profilo della barca facevano incombere il metallo sul suo capo, come fosse sotto la volta di una grotta. Mise la mano sulla lama della prua e si aiutò a passare dal lato opposto con la forza delle braccia. Ecco l’altra griglia. Cristiano aveva lasciato sul posto martello e chiave inglese. Li aveva fissati da una parte usando un laccetto e del nastro adesivo da elettricista, dall’altra con un moschettone fissato alla rete metallica. Impugnò il martello e diede qualche colpo sui dadi. Una leggerissima nube di fango grigio si sollevò dal metallo, quasi con pigrizia, fluttuando nell’acqua scura. Il rimbombo nella stiva si trasmise tutt’intorno, come un’eco. Ottuso e ottundente, senza una direzione precisa. Alessandro fu percosso nell’animo dal suono prodotto, come se avesse colpito un essere che reagiva urlando dolore e rabbia e non una struttura senza vita. Lasciò andare il martello. Ancora assicurato alla griglia, questo disegnò un arco cadendo con implacabile noncuranza contro lo scafo. L’urto produsse un nuovo, indesiderato rimbombo. Brividi incontrollati gli percorsero il corpo. Violentandosi nell’intimo, si costrinse a raccogliere la chiave e a cominciare a svitare i fermi ancora in sede. Sentiva ogni nervo scoperto, come il rame di un filo elettrico privato della guaina isolante. La pelle bruciava al contatto con il pile del sottomuta, ma, nello stesso tempo, la sentiva fredda, come in preda a un febbre violenta. Era zuppo. Non sapeva se per le infiltrazioni o per il sudore. Sulla retina gli si era stampata la trama della griglia su cui stava lavorando, ma, piano piano, si frappose una nuova immagine. Ma che cazzo sta succedendo… si domandò. Scocciato con se stesso e con questa fantasia morbosa. Un pizzico di lucidità lo portò a chiedersi se stava respirando una miscela sbagliata, eccessivamente narcotica. O se avesse, involontariamente, ridotto la ventilazione, provocando così un accumulo di anidride carbonica tale da ridurre la capacità di controllo. Percepì una presenza alle sue spalle.

Stronzate, si costrinse a pensare. Cercò di stringere le dita attorno al metallo dell’attrezzo. Ma non riusciva a farlo. Avevano perso forza. Le sentiva come appendici spugnose. Molli e deformi. La chiave gli scivolò e finì anch’essa addosso allo scafo. Il colpo sembrò produrre un urlo acuto e prolungato. Non proveniva dall’impatto tra metalli… Era dentro la sua testa, nella sua mente, sulla sua bocca. Sentì un tocco delicato e fermo sulla spalla. Un ordine silenzioso… …Voltati. Si impose di non farlo. Sapeva, ne era certo, che girando le spalle allo scafo, nel profondo blu di quel mare senza fine che avvolgeva ovunque la terraferma, avrebbe visto un cappello a coda lunga e un impermeabile gialli. E, tra loro, una pozza nera senza fondo, perforata da due orbite accese dalle fiamme dell’inferno. Non voleva, non poteva, non doveva! Qualcosa lo forzò a ruotare sul suo asse come una marionetta priva di arbitrio. L’urlo si aprì una via, spazzandogli dalla bocca l’erogatore. Uscì un fiotto di bolle bianche. Sembravano non avere fine…

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II. Schiacciato Matto non sono e certamente non sto sognando, ma domani morirò e voglio liberarmi l’anima. Il gatto nero, E.A. Poe

L’Etrusco, ritratto in una foto di repertorio della rivista Capitain Nemo, durante l’esplorazione della risorgenza di Castelcivita, nel periodo a cavallo del recupero della Stella del Mare. 32

La Stella del Mare giaceva sul fondo fangoso da quasi due mesi ormai, a cinque miglia di navigazione dall’imboccatura del porto di Napoli. Il sole primaverile cominciava a scaldare già alle sette di mattina, mentre fiancheggiavamo le affusolate, grigie navi della Guardia di Finanza, come schierate per la rassegna al nostro quotidiano passaggio. Cristiano aveva steso un asciugamano dall’aspetto poco rassicurante sulla panca di destra, bagnata come il resto del tredici metri di Alessandro, dall’umidità notturna. Vi si era steso sopra, appoggiando la testa rasata alla sacca mezza vuota di attrezzature subacquee, riprendendo a masticare con metodo il toast acquistato poco prima. Lo sguardo corrucciato dimostrava la concentrazione con cui divorava l’ultimo numero di Dylan Dog. Lettura interrotta solo sbarcando dall’aliscafo, il mezzo con cui, un’ora e mezza prima, aveva lasciato Ischia. Ciondolavo tra la camera iperbarica piazzata a metà barca e la cabina di comando, dove Alessandro, al timone, armeggiava con lo stereo in cerca di una stazione che trasmettesse del rock commestibile. Cristiano non riusciva a nascondere un mezzo sorriso ironico, ogni volta che buttava l’occhio al cerotto di scopolamina in evidenza dietro il mio orecchio destro. «Ma cosa c’avrai da ridere», borbottai mentre gli passavo davanti strascicando i piedi sulle assi della coperta. «Ridi su ‘sta mazza!» Mi sbottonai platealmente la patta dei pantaloni militari, sdruciti e bisunti, e raggiunsi la piattaforma di assi di legno a poppa, cominciando a pisciare con soddisfazione fuoribordo. «Cazzo no, falla finita! – urlò Alessandro affacciandosi dalla tuga – Meeeh, non in porto, lo sai che se ti vedono mi schiattano i coglioni...» Feci spallucce, finii di annaffiare l’acqua color schifo, rimisi dentro l’uc-

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cello e ridacchiando alla volta dei miei due compari ritornai verso prua. Da lì, come sempre, guardavo preoccupato l’orizzonte, oltre la linea liquida che congiungeva i due fari alle estremità dei moli dell’imboccatura. Strizzavo gli occhi per correggere la miopia, tipo talpa di un cartoon, valutando critico la sottile striscia in movimento delle onde. Come l’aria che si muove appena sopra l’asfalto in una calda giornata d’estate, quella massa tremolante non prometteva nulla di buono. «Uhm, c’e’ mare pure oggi, che palle...», sospirai. Cristiano alzò lo sguardo dal fumetto, fece una smorfia beffarda e tornò a immergersi nella lettura. «Dai, prepariamo ‘sta roba, guaglio’», sbraitò Alessandro. Indossava già il sottomuta della Mobby’s, ormai ridotto ai minimi termini dal punto di vista dell’isolamento termico, macchiato di sale e di sudore, ma sempre al top nella categoria dal punto di vista del design, più una tuta da pilota da caccia che informe “orsetto”. Si sbracciò un po’ tenendo il timone con la sinistra, un piede sulla murata e l’altro dentro la cabina. Sempre arzillo, anfetaminico come se avesse dormito chissà quante ore, e non gli pesasse per niente l’aver fatto le due di notte dando la caccia alle universitarie nei pub tra via Mezzocannone e il bar Gambrinus, su e giù per vicoletti dei Quartieri Spagnoli. «Lo odio quando fa così – dissi – ha rimorchiato tutta la notte mentre io mi stavo a sorbire le scoregge di quel coglione all’Ostello.» Cambiavo albergo praticamente ogni due giorni, passando dall’Ostello della Gioventù alle porcilaie intorno a Piazza Garibaldi. Arrivavo da Bari dove abitavo, uscivamo due giorni, il mare ci rifiutava e dovevo ripartire fino al nuovo, timido accenno di miglioramento. A Capri avevano chiuso un cantiere subacqueo per un mese, ma noi provavamo e riprovavamo, salpando e combattendo tra le onde ogni settimana e io facevo l’elastico tra i due capoluoghi. Da quattro ci eravamo ridotti a tre, tornando al nucleo originario. Fabrizio ci aveva visto lungo, non era un lavoro che poteva concludersi in una settimana. Dopo la prima immersione, se n’era tornato a casa, rinunciando, non senza una lunga e spiacevole discussione con Ale. Il gozzo riadattato a nave recuperi, iniziava intanto a prendere le onde lunghe fuori l’imboccatura, virando verso destra, per fiancheggiare il Castello dell’Ovo e raggiungere il punto di immersione. Cristiano si alzò, e dopo aver detto con tono fraterno «Stenditi, ci penso io», prese ad armeggiare con l’attrezzatura accatastata nel piccolo cesso puzzolente. Mentre la barca sbatacchiava tra le morbide colline di due metri di altezza,

iniziò ad appendere le mute stagne in neoprene, posizionare gli erogatori sulle bombole decompressive, a mettere computer, pinne, maschere, guanti e cappucci vicino ai bibombola 15+15 di ciascuno di noi. Cercavo di dare una mano, ma mi sentivo già lo stomaco sottosopra. «Ho messo il cerotto troppo tardi oggi...», dissi, rivolto a nessuno in particolare. Cri mi squadrò da capo a piedi. «Seeh, non parliamo poi di quel che ti sei scofanato prima...», commentò. «Oh, c’avevo fame, poi senti chi parla, me lo sono mangiato io mezzo chilo di panino da muratore!», cercai di controbattere, ma poco convinto. Il problema era che al bar Pic Nic m’ero sparato sul serio cappuccini e pasticciotti alla crema in dosi massicce, quanto di peggio possibile per un piede poco marino come il mio. L’ischitano sorrise ineffabile, certo di avermi in pugno. «Lo sai tra quanto ti risale su quella colazioncina latte & lievito?» «Lo so, lo so, ma che ci posso fare? Non è una colazione vera senza...» «Pasticciotti o sfogliatelle?» «Pasticciotto… pasticciotti, due… caldi… boooooni...» «Ti piacciono di più, neh? Com’è, le sfogliatele le sssschifi?», chiese pronunciando la esse come per “sci”, strascicandola alla napoletana maniera. «Naaa, so’ buoooone – imitai il loro modo di parlare – Non lo so… è che… boh, non trovi che fanno troppe briciole?… So’ secche… che ti guardi, è ‘o veeeer’. La pasta sfoglia si fa a merda, si spacca tutta, si sbriciola e… oh, so’ secche e a me le cose secche non mi piacciono!». «Perché, il pasticciotto secco è buono?». «Non dico quello, è che la sfogliatella morbida è più rara, la devi mangiare sempre col bavaglino se no vai in giro tutto impaccherato… – lo guardai per vedere se aveva colto la critica alle sue T-shirt non esattamente impeccabili – E poi basta, a me mi piacciono i pasticciotti e non mi scassate il cazzo!». L’Abyss cavalcò la prima onda mandandola a scivolare sotto la chiglia e quel patetico tentativo di distrarmi naufragò con il bolo nauseabondo che dallo stomaco prese l’ascensore rapido verso la gola. Un velo di sudore freddo mi coprì la pelle e la stanchezza si fece piombo nelle gambe. In bocca dilagò un sapore metallico e la saliva si fece acida e copiosa. Crollai seduto, chiudendo gli occhi, pregando un dio crudele in cui non credevo che mi facesse scendere subito di lì. Ero proprio messo bene. La sovradistensione polmonare e la malattia da decompressione spinale dell’Iseo rendevano il solito mal di mare una tortura cinese.

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Normalmente, uno nella mia situazione non si sarebbe più reimmerso per un anno. Forse per sempre. Me ne fregavo, piuttosto incuriosito dal costante miglioramento che ogni immersione profonda mi provocava, infastidito dalla stanchezza e dalla prostrazione fisica che in superficie mi faceva lavorare meno dei miei amici. Dicevo “Aspettativa di vita?! meno zero. Sono ventisette anni che dovrei morire ogni giorno e non schiatto mai. Mi annoia ‘sto fatto…”, ma la nausea e il malessere potevano essere rimossi per sempre appendendo le pinne al chiodo. «Dai, muoviamoci, avanti!» Il latrato rabbioso di Alessandro mi scosse dai pensieri, ma il movimento del corpo provocò un ennesimo, prostrante conato di vomito. Cristiano stava già con le gambe puntellate sulla tolda, come un albero saldo su due tronchi, quasi che dai mocassini da vela spuntassero radici. Spostava il peso da una colonna di muscoli all’altra, il mezzo marinaio in mano, segnalando al timoniere la distanza dalla cima di ormeggio. In superficie, era fissata ad un parabordo a pera bianco, di mezzo metro di diametro. Abilmente, con l’abituale manifestazione di forza, agganciò la cima al rampino, tirandola a bordo mentre la punta della barca saliva e scendeva come sulle montagne russe. «Ma porco dio, ‘sta bagnarola mi farà impazzire. Ma deve per forza mettersi al traverso ogni volta!?», brontolai la consueta lamentela. «Muoviamoci, all’una c’ho da fare!», rispose di rimando Alessandro. Anche lui tanto per essere originale. Aveva sempre da fare. Spense i motori, una volta certo che Cristiano avesse tirato a bordo almeno tre metri di cima e parabordo, e schizzò a dare una mano. Con puntigliosità, si occupò personalmente di fermare il grosso cavo alla bitta. «Non ti fidi? – disse Cristiano, più per provocarlo che per altro – Ho anch’io una barca...». Non ricevette risposta, né del resto l’aspettava. Mentre il natante si muoveva e sbatacchiava sulle onde, incominciammo a vestirci. «Ale, tira un po’», disse Cristiano porgendo all’amico il dito indice della mano destra. Risi, intanto che vomitavo la colazione e assicuravo una delle mie decompressive a poppa. Alessandro, rassegnato per quei soliti rituali, ma perversamente divertito, prese il dito dell’amico e tirò. «Ahhh!», mugugnò Cristiano mollando un sonoro peto. «Sfaccimme… chiudi iam’!», rimandò Alessandro, infilando la testa nel

colletto di lattice della muta stagna e voltandosi per farsi chiudere la cerniera posteriore. «Mado’, quanto puzza!», proseguì Cristiano, sniffando con enfasi dentro la muta dell’amico. «Te credo – dissi ormai bianco come un cencio – , ci piscia dentro.» Alessandro cercò di fare la sua faccia peggiore, mentre rispondeva: «Non sono Cristiano!» Però la stagna puzzava davvero. Aveva un buco da qualche parte, ma nessuno di noi si curava di cercarlo. E da ogni immersione usciva con le gambe completamente bagnate. I pedalini di ordinanza di cotone blu, zuppi all’inverosimile e nei quali restavano come impilate le gambe secche quando svestiva l’equipaggiamento, provocavano, immancabili, salaci battute. La nostra roba, ammonticchiata alla meno peggio nel bagnetto della barca, marciva ogni notte di più e gli effluvi nauseabondi di concerto. «Dai, dai, vi chiudo casa – disse Cristiano impugnando la mia chiusura lampo – Maronn’ Ste’, e mettici un po’ di paraffina! E’ dura come ‘na cosa.» Sarebbe sceso dopo di noi e ora faceva assistenza a bordo. Spostò il peso da una gamba all’altra, mentre un’onda entrava da prua a poppa, portando pericolosamente verso l’imboccatura le mie scarpe da ginnastica bianche e rosse, come sempre abbandonate a se stesse. Già erano fradice, ora rischiavano pure di finire in mare! Le osservai rassegnato. Ale staccò le rubinetterie del pesante bibombola dai lacci elastici che lo assicuravano al parapetto, e mi aiutò ad alzarmi. Non ce la facevo più. Sempre vomitando succhi gastrici e parolacce, mi spostai a poppa, infilai le pinne e issai una dopo l’altra le due bombole decompressive, agganciando i moschettoni agli anelli a D sugli spallacci del gav, attaccati a loro volta con cimette sfilacciate al collo delle bottiglie metalliche. Cristiano mi posò la mano sulla spalla e intuii che voleva dirmi qualcosa. Sollevai la testa con uno sforzo terribile, sentendo i tendini del collo tirare tutto il mio apparato gastrico verso l’alto. Mi puntò con gli occhi e poi li abbassò sull’altra mano, chiusa a pugno. Lentamente aprì le dita e sul palmo solcato di linee sporche di grasso e tagli più o meno cicatrizzati, risaltavano alcune pillole bianche, di vario formato. «Naaa, tu si scem’ – mi riuscii appena di farfugliare – e come lo butto giù ‘sto schifo?». Aveva sempre con se un mix di antinfiammatori e anticoagulanti, nimesulide e acido acetilsalicidico (Aulin e Aspirina per capirci), a cui ogni tanto aggiungeva vitamina E e qualche altro prodotto. Farmaci e vitamine che venivano normalmente utilizzati in medicina iperbarica, e che lui si divertiva a propinare come misture segrete e di chissà quale efficacia, spesso diluendosele

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in acqua in un beverone che chiamava Decorade (scimmiottando il nome della bevanda Gatorade unita alla radice di ‘’decompressione’’). Di solito era divertente osservare gli scemi e gli allocchi pendere dalle sue labbra e considerare seriamente quella roba – e le nostre stralunate teorie – come fossero oro colato, ma in quell’istante preciso, in quell’esatta congiuntura spaziotemporale, il mio stomaco rifiutava anche solo di prendere in considerazione la possibilità di esistere. Se ne fregava altamente di contribuire a una efficiente desaturazione, quantunque supportata dalla chimica, desiderando un’unica cosa: la terra ferma, solida, inamovibile. «Ficcatele al culo», aggiunsi con gentilezza. In pochi secondi, come se avessi il diavolo alle costole, saltai in acqua, tra il ribollire di erogatori in continua e la maschera pericolosamente in bilico sul cappuccio di neoprene. Presi subito a pinneggiare controcorrente verso prua, ancora più nauseato dal sapore dell’acqua marina in gola. Alessandro, intanto, tutto preciso e perfetto nella sua configurazione, si buttava con calma a seguire. «Oddio, oddio chi cazzo me lo fa fare… Cristià si nu rott’n’culo...». Imprecavo, mentre Cristiano rideva sputandomi addosso dal lato di dritta. Alcuni anni prima, in uno di questi ameni giochini, l’ischitano mi aveva strappato la maschera a una ventina di metri, su una secca tra la sua isola e Procida. L’avevo inseguito mezzo accecato, riuscendo a strappargli i calzoncini (eravamo senza muta) e lui per tutta risposta aveva provato a centrarmi in faccia defecando uno stronzo, con alcuni nostri allievi e futuri aspiranti teamers che non sapevano se trovarci divertenti e stranamente folcloristici, o se scappare a casuccia, dalla mamma. Non è che avessimo una particolare propensione per la volgarità e la scatologia, sia chiaro. Disertavamo con la puzza al naso i film del duo Boldi–De Sica a Natale e, a terra, potevamo rivendicare un comportamento e un’educazione da gentlemen. Per qualche singolare ragione, in mare e sottacqua, nella pratica subacquea diciamo, era diverso. Sospettavo avesse a che vedere con l’esorcizzazione del rischio e una reazione banalizzante, o quantomeno farsesca, all’eccessiva serietà con cui si prendevano in genere i nostri colleghi e i praticanti domenicali. Categorie che etichettavamo come losers, perdenti. Sotto la prua, le decompressive di rispetto calavano pericolosamente sopra la testa e minacciavano di sfondarmela. Venivano praticamente lanciate giù dal compagno rimasto a bordo, che sapevo si divertiva come un matto. Afferrai la cima arancione e senza sgonfiare né la muta né il gav iniziai a tirarmi giù. Difficilmente procedevamo come si vede fare dai subacquei alla televisione. Ognuno a modo nostro, eravamo tre anarchici dell’immersione. Affrontavamo l’acqua con rispetto, ma anche con arroganza e sfidando le regole base, o

riscrivendole a modo nostro. La maggior parte di coloro che ci frequentavano non capiva quel modo di fare. Tantomeno, ad onor del vero, a noi interessava spiegarglielo. Era troppo complicato e alla fin fine del tutto inutile, cercare di rendere partecipi del nostro mix esplosivo di vite borderline, esperienze particolari, continui problemi con soldi, legge, regole contestate, le persone che ci cercavano per noia, frustrazione, desiderio di imparare cazzate subacquee di cui non erano semplicemente all’altezza. Venivi circondato da questi poveracci a cui avresti onestamente dovuto confessare che era meglio si mettessero a giocare a dama davanti al caminetto, e non ci riuscivi, avendo bisogno di lavorare, almeno un po’ (ne cacciavamo fin troppi, in effetti). E alcuni ti stavano anche simpatici, erano brave persone, che cercavi di accompagnare in acqua e a cui volevi insegnare qualcosa nonostante i loro limiti. Credo che molta della nostra disperazione maniaco-depressiva originasse anche da questi rapporti insani. Sapevamo che si doveva solo e soltanto rifiutare al 99% degli allievi di fargli i corsi profondistici, ma che così si chiudeva bottega, ed era un dato di fatto contraddittorio con cui non convivevamo bene, dando i numeri spesso e volentieri. Sia Ale che io e Cristiano, avevamo verso inetti e presuntuosi frustrati le nostre idiosincrasie, che come un corso d’acqua addomesticato tra gli argini, finivano per essere convogliate in rituali e pantomime, sceneggiate che dopo un po’ di tempo recitavamo anche da soli. Essendo uno dei più scemi, quando stavo male ma non abbastanza perché il mal di mare mi azzittisse – spesso però anche in quelle condizioni, solo con voce meno credibile – prima di saltare in acqua, solevo urlare: «Nettuno, ti sfido! Vaffanculoooo!». Quel giorno non mi riuscì… A sei metri, dove le onde non avevano più grande effetto, mi fermai per guardare se Alessandro seguiva. Poi continuai a tirarmi verso il fondo. Scendevamo veloci, compensando senza usare quasi mai le mani. Mi entrava acqua nella maschera che avevo indossato alla bene e meglio. Volevo solo raggiungere la quota dei trenta metri, dove la narcosi avrebbe messo a posto il mio stomaco. Frenavo la discesa, sempre più rapida per la pressione crescente dell’acqua, con le pinne messe come se stessi in piedi su un pavimento solido. Ormai non tiravo più. Mi mantenevo attaccato alla cima, quasi perpendicolare, con l’incavo del gomito. Assestando la maschera, facendo i primi controlli dei manometri e cambiando gli erogatori, passai senza guardare il profondimetro dalla miscela di viaggio e deco Nitrox a quella di fondo. Veniva chiamata heliair, perché composta da elio miscelato con aria. Ero così rapido nella discesa, con i miei quaranta chili di attrezzatura e mezza dozzina di zavorra, che sarei arrivato sul fondo in un minuto scarso.

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Transitai come una scheggia dalla profondità limite della miscela binaria e realizzai nei meandri più lontani della mente che, forse, avrei respirato quella ottimale solo parecchio più a fondo. Ma non me ne fregava nulla di espormi a una percentuale di ossigeno non adatta a quelle quote, ero troppo rapido nel cambio per avere problemi. «‘Fanculo!», dissi nel boccaglio, ma suonò come “uahnuhò”. Era indirizzato alla volta di Alessandro, che mi sorpassava pinneggiando vigorosamente, a testa in giù, agitando una mano in segno di saluto derisorio. Allora, vediamo un po’ se ‘sta roba funziona, pensai passando da un secondo stadio all’altro dei due erogatori del bibombola. Respirai in entrambi, controllando che i manometri non cambiassero la pressione. Rubinetti aperti. Ero l’unico a non controllarmi le bombole in superficie. In quel primo periodo portavo le rubinetterie rovesciate, come i pompieri, e riuscivo ad aprire e chiudere il flusso dei gas come se nulla fosse, senza dover fare contorsionismi, e spesso fallire, come gli altri. Tutti e tre, poi, avevamo da tempo imparato a respirare nella sacca del gav, come se fosse un respiratore a circuito chiuso. Prima che l’ossigeno si esaurisse e l’anidride carbonica ci avvelenasse, eravamo in grado di sistemare un problema. Potevamo risalire respirando direttamente dal rubinetto di una bombola, senza erogatore, se fosse stato necessario. Laggiù eravamo a casa. Anche se si muore pure lì, e anche se alcune delle nostre furbe pensate in realtà erano inutili, soluzioni sì, ma a problemi in cui non avremmo proprio dovuto ficcarci.

ficati sul fondo stavano finendo. Lo ignorai staccandomi dalla cima guida. Raggiunsi lo scafo con un paio di pinneggiate in diagonale, attratto dalla forza di gravità e dalla pressione della colonna d’acqua combinati. Mi diressi verso la piattaforma di comando della gru principale, godendomi per qualche momento la sensazione di assenza di peso. Sistemavo lì le mie bombole decompressive. Ognuno aveva un sistema diverso. Cristiano preferiva lasciare l’ossigeno sotto la barca e si portava la bombola Nitrox sulla schiena, con un mostruoso tribombola. Alessandro mollava le deco a trenta metri, legate alla cima che assicurava al peschereccio la sua barca. Per conto mio, preferivo portare tutto sulla Stella del Mare e parcheggiare le deco là sopra. Da un po’ di tempo anche nel nostro paese era in corso una furiosa diatriba sul tipo di sistemazione standardizzata da dare agli equipaggiamenti che indossavamo, ma noi eravamo immuni alle tendenze modaiole, spesso solo per partito preso.

«Uhhh!Uh!Uhuuuuh!», Alessandro chiamava, accompagnando il farfugliamento ad ampi gesti. La Stella del Mare giaceva inclinata di dieci gradi scarsi a dritta. Il tetto della plancia esterna stava sui settantotto metri, ma alcune reti più piccole venivano su più in alto e, quando la visibilità era decente, si intravedevano prima dello scafo. Il napoletano era già sul ponte, tra il castello di prua e le gru sul passo d’uomo alla sala motori. Inginocchiato, aveva cominciato a trafficare con la cima, assicurata alla murata di poppa al termine dell’immersione di una settimana prima. Dovevamo liberarla, attaccarla a un pallone di sollevamento e mandarla in superficie, filandola sotto lo scafo. Frenetico, mi chiamava perché gli dessi una mano a tirare, guardando il computer che cominciava il countdown. I diciotto minuti di permanenza piani-

«‘Sti DIR hanno rotto!», aveva sentenziato Cristiano solo qualche giorno prima. Ale ed io dimostrammo l’interesse per l’argomento con una serie di grugniti, alzando gli occhi dalle zuppe di pesce fumanti che stavamo aggredendo. Infilai un dito intinto di succulento sugo di pummarola in bocca, feci schioccare la lingua e chiesi: «Hai notizie di Mikael, a proposito?», riferendomi a un ragazzo scandinavo conosciuto l’estate precedente. «No, è un po’ che non lo sento». «Sarebbe? – chiese Ale riempiendoci i bicchieri di un vinello bianco frizzante – Assaggia Cristia’...». Non mi offesi, tanto di enologia non ci capivo una mazza. Cristiano si asciugò le labbra lasciando macchie di sugo grandi come tazzine da the e, umettandosele con la lingua, vi avvicinò il bicchiere. «Un tizio danese...» «Buono. Sannio?» «… che lavora in un centro di ricerca...» «No. Quasi, Colli di Salerno!», rispose Ale e restò con la bottiglia in mano sollevando il suo bicchiere con la sinistra, in un muto brindisi. Così invitati, svuotammo i calici in un sorso e lui, tutto contento, li riempì con quel che rimaneva. Posò la bottiglia e richiamò l’attenzione dell’oste suonandola con la forchetta. «…nucleare sul Lago Maggiore. E’ venuto da lui – proseguii indicando

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Cristiano e facendo finta di ignorare che stavano cercando di mettermi in mezzo – con un GAV della Halcyon e un po’ di altra roba DIR, e abbiamo fatto qualche test. Sai il numero di Captain Nemo con la comparativa sui jacket? Quello in foto con me sul relitto del Miseno era ‘sto tizio». «Ah si, più o meno c’ho presente». Visto che la Volpe faceva il di più, rivolsi l’attenzione al Gatto, che intanto s’era rituffato tra scampi e mazzancolle. «Ho sentito che Mario Arena sta cominciando a sfruculiare con loro, e Mikael potrebbe perdere l’esclusiva commerciale». «Non ce l’ha mai avuta comunque», sentenziò l’isolano. «Sono materiali buoni secondo voi?», chiese Ale. Lo guardai appoggiandomi allo schienale e mi presi un attimo di tempo per rispondere. «Diciamo che non sono male. Ma sempre con le solite considerazioni. Mettono il marchio USA, ma li fanno fare in Europa, tra Italia e Germania, dai soliti terzisti. Il ricarico di prezzo è esorbitante e alla fine il target è quello degli scemi esterofili e psicolabili». «Penso anch’io – diede manforte Cristiano – Costa tutto troppo, e poi quella pretesa di equipaggiare tutti non con della roba standard, ma solo con le marche che sono di loro proprietà o al massimo di loro sponsor, fa girare le palle.». «Già – continuai – anche se il “sistema” di per se non è affatto stupido», concessi in una botta di magnaminità. «E’ per gli stupidi», sottolineò sghignazzando Ale. «Ok, si, è vero. E’ fatto da ottimi subacquei, paraculi commercialmente, per subacquei da operetta. Ma funziona anche a livello alto, se ti piace lavorare in squadra alla yankee maniera». «Non tutti, non tutti – disse Cristiano ammonendoci con l’indice – Hai presente quel film sui cacciatori di Tornado? Ci sono i ricercatori zingari, pezzenti e hippie come noi, e quelli straricchi, tutti zelanti, uniformati e zerbinati sotto il boss. Vince la banda arraffazzona!». Restammo a guardarlo un po’, tutto soddisfatto per quel raffronto azzec-cato, carico di esperienza americana dall’alto dei suoi cinque o sei mesi pas-sati a girovagare negli USA dopo una delusione d’amore. Scolò il bicchiere di vino con gli occhi socchiusi, le sopracciglia lunghe e folte come quelle delle ragazze su quel volto da bambinone ritardato, con un’espressione beata e orgogliosa. Scoppiamo a ridere come scemi e demmo fondo alla nuova bottiglia. In meno di dieci secondi raggiunsi la piattaforma, staccando, mentre mi avvicinavo, i moschettoni che assicuravano al gav le due bombole. Le lanciai sul piancito metallico, senza fermare la discesa, e mi volsi verso

il compagno per raggiungerlo. Alessandro continuava a mugugnare nel boccaglio, mentre cercava di tirare la cima puntando i piedi contro il parapetto del peschereccio. Mi avvicinai fluttuando, buttai una rapida occhiata fuori bordo e mi rivolsi all’altro. Toccai la sua spalla per attirarne l’attenzione e scossi il dito indice della destra in segno di diniego. Si arrestò per guardarlo, poi usò la cima per tirarsi verso la murata e sporgersi. Dopo un attimo si catapultò fuori bordo. Lo seguii sapendo già cosa avremmo trovato. Sul fondo morbido, appena sotto lo scafo, giaceva l’estremità del cavo arancione. Non era venuto via per fortuna e nostra previdenza. La sbarra di ferro che avevamo legato a quello scopo alla sua metà, si era incastrata in un grosso copertone di camion usato come parabordo, a sua volta bloccato tra scafo e fondo. Ma bisognava nuovamente passarla tra timone ed elica, infilandosi sotto lo scafo, strisciando tra chiglia e fango. Ci guardammo con sguardi misti di rabbia e delusione. Alessandro guardò verso l’alto. Compresi subito: Cristiano, in quel momento, teneva in tensione l’altro capo della cima, e noi avevamo invece bisogno fosse lasca, per provare a infilarla sotto lo scafo. Emisi qualche verso incomprensibile, scuotendo Alessandro e indicandogli l’unica soluzione, puntando l’indice sul computer dell’amico, sul suo petto e verso la superficie. Esperienza, acume, intuito e freddezza fecero elaborare la stessa conclusione al cervello del mio amico in una frazione di secondo. Eravamo giù da meno di tre minuti, poteva quindi risalire, saltare i pochi minuti di tappa deco che aveva accumulato, uscire in superficie e avvertire Cristiano, per poi ridiscendere ad assistermi, ricomprimendo le bolle di gas che avrebbero cominciato ad espandersi altrimenti nell’organismo, intrappolate, danneggiandolo. Tutto senza che io, restando giù, superassi i tempi massimi previsti e l’autonomia dei gas. Annuì col capo una sola volta, e schizzò verso l’alto. Lo guardai per accertarmi che fosse sulla cima di risalita, dopodiché mi preparai al mio compito. Risalii verso la parte alta della murata, e assicurai la cima arancione a una delle fessure per lo scolo dell’acqua dal ponte. In questo modo potevo tornare giù e tagliare l’estremità incastrata nella gomma. Lo feci in meno di un minuto, controllando il computer e il manometro. Sapevo che, nonostante le capacità e l’esperienza, stavo respirando con un consumo maggiore del normale. Succedeva automaticamente in casi di stress e, anche se abituato, ora ero solo, a ottantasei metri di profondità, con un compito gravoso. La cima, spessa quattro centimetri, era del tipo galleggiante. Per questo dovevamo sempre assicurarla allo scafo, e per questo se filarla verso l’alto era

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più comodo, tirarla giù da solo diventava molto faticoso. Mi portai sul ponte, dove la pressione era inferiore e, quindi, consumavo e saturavo un po’ di meno. Controllai il tempo. Erano passati sei minuti da quando avevo cominciato la discesa e due da quando Alessandro era risalito. Avrebbe volato fino a metà della quota, per poi rallentare la risalita a venti metri al minuto fino ai quindici, e poi farsi quest’ultimi in un minuto. Ce ne volevamo almeno altri due, forse tre. Mi guardai intorno. Portavamo sempre coltelli da cucina, normalissimi coltelli da cinquemila lire la confezione da sei. Attaccati un po’ ovunque. Sulla muta, sul gav, sulle bombole. Erano ottimi, migliori dei pretenziosi coltelli da sub, e costavano niente al confronto. Ne perdevamo tanti e li lasciavamo sparsi in giro a iosa. Ogni tanto li trovavamo sulla struttura d’acciaio, limitandoci a posizionarli vicino a dove lavoravamo e potevano sempre servire. Ne individuai due, uno col manico rosso e uno bianco, e li raccolsi. Guardai il computer e sobbalzai. Erano passati dieci minuti! Per quanto respirassimo una miscela a bassissima percentuale narcotica, a quella quota bastava distrarsi, perdersi nei propri pensieri un attimo, e il tempo scorreva in un lampo senza che ce ne accorgessimo. Mentre lavoravamo, o se avevamo un’emergenza, l’addestramento ci portava a controllare sistematicamente tempi, profondità e scorte di gas ogni pochi secondi, senza interrompere ciò che stavamo facendo. Ma avevo notato che, quanto minore era il rischio o ci si abituava al posto, tanto più ci si rilassava, aprendo così le porte all’errore fatale. Iniziai a tirare la cima, che venne giù facilmente. Avevo ancora sette minuti. Ogni tanto guardavo verso l’alto, senza scorgere il mio compagno. Quando ritenni di averne portato giù almeno quindici metri, la legai alla murata, liberando con un colpo di coltello la parte assicuratavi in precedenza. Nuotai fuori bordo, acchiappando l’estremità fluttuante, e con forti colpi di gambe mi diressi verso la poppa. Ora dovevo entrare nella fossa che si era formata sotto la chiglia, all’altezza del timone e dell’elica. Lì dovevo infilare la cima tra queste ultime, passare dall’altro lato a riprenderla, per poi tirarla fino a che avessi recuperato tutto il possibile e risalire lungo la fiancata di sinistra. Avrei poi assicurato il capo di polipropilene al peschereccio, dove l’avrebbero preso Alessandro o Cristiano, per proseguire il lavoro. Pensando a loro alzai di nuovo lo sguardo verso la cima di discesa. Ale non si vedeva. Mi domandai un attimo che fine avesse fatto, ma poi tornai a occuparmi del lavoro. Ogni secondo era prezioso. Controllai tempi e gas, poi mi infilai tra scafo e fango. Sapevo che in pochi

secondi il sedimento si sarebbe alzato coprendomi la visuale, ma non era un problema, potevo far tutto a occhi chiusi. Il fango era soffice, quasi vellutato. Presi con la mano una delle pale dell’elica, prima di vederla scomparire in una nuvola grigia, e mi tirai ancora più sotto. Le bombole cozzarono rumorosamente contro lo scafo metallico, ma con la configurazione rovesciata, gli erogatori e la rubinetteria erano liberi e protetti appena sopra il fondoschiena. Il cavo tirava verso l’alto, passai l’estremità intorno all’albero dell’elica e la usai per fare forza e filarlo. Quando sentii che non veniva più giù, mi preparai a passare rapidamente dal lato opposto del timone, prendere la cima e lasciarmi tirare su dall’effetto combinato dei gas espansi nella muta e nella sacca del jacket. In quel momento percepii una vibrazione. Avvolto nella grigia, quasi nera nuvola di fango, schiacciato tra scafo e mota, ebbi una subitanea sensazione di deprivazione sensoriale, una vertigine accompagnata da un sapore metallico in bocca che mi atterrì. Pensai a un errore nella composizione dei gas, a un avvelenamento per ritenzione di anidride carbonica. Immediatamente cercai di tirarmi con la mano sinistra lungo il timone, per uscire da là sotto. Sapevo che non potevo farmi prendere dal panico, che ora avevo pochi gas e poco tempo a disposizione. Un errore avrebbe potuto uccidermi. Le bombole raschiarono la vernice antivegetativa riducendo in poltiglia i balanidi attaccati alla lamiera. Non mi spostai che di pochi centimetri. Freneticamente provai a infossarmi nel fango per ridurre l’attrito con lo scafo e a spingermi indietro, senza successo. Riuscii a passare la mano destra sotto il petto, raggiungendo la valvola di alimentazione della muta stagna e premetti il pulsante. Il gas entrò velocemente. Cercai di alzare i piedi verso l’alto. Volevo sfruttare l’effetto di sollevamento della parte inferiore della muta, posta più su per aiutarmi a sgusciare fuori da lì. Per un secondo sentii che succedeva qualcosa, ma una seconda, più forte vibrazione, mosse tutto intorno a me. Fui una cosa sola con il sedimento. Come se la spinta avesse aperto una porta nel mio cervello, capii che quelle vibrazioni erano scosse telluriche. Il Vesuvio o comunque l’area sismica del Golfo, si erano risvegliati. La Stella del Mare si era assestata ancor più dentro l’abbraccio del fondo. Mi aveva schiacciato in una bara a sandwich, tra due fette di metallo e melma.

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Rimasi fermo, in attesa, preda di sconforto e rassegnazione, con una grande voglia di mollarla lì. Ero stanco e sentivo di potermi addormentare in quell’abbraccio tra lenzuola di fango e acciaio. Avevo vissuto a sufficienza? Ero riuscito a godermi ogni istante favorevole a raffronto dei tanti momenti bui? A tutti capita prima o poi di andare a dormire augurandosi un risveglio ben oltre il mattino dopo. Congelatemi come un merluzzo (un tonno…) stecchito e tiratemi fuori quando la bufera è passata e andata a ‘fanculo! Dai, a chi non è mai successo di voler sfuggire a un evento improcrastinabile quanto spacca marroni!? Non è poi questo gran male. Certo, a me succedeva un po’ troppo spesso di desiderare un teletrasporto al futuro, magari non di giorni o settimane ma anche anni dopo… E questo non è bene. Sentivo il peso della tonnara e, in attesa di morire, mi flashavano in testa momenti infernali in cui non avevo mollato. Vent’anni prima, per esempio. Appena maggiorenne, catturato a Parigi dopo un anno di latitanza, mi chiusero in un megacomplesso carcerario alle porte della capitale, in un paesino chiamato Fleury Merogis, se significa qualcosa e importa a qualcuno. Dopo qualche mese in attesa che mi estradassero col mazzafiondone, come si diceva a quei tempi, fu catturata anche mia moglie, incinta di nostra figlia, che venne assegnata al carcere cittadino di Fresnes. Volevamo vederci, anche perché lei poteva ottenere, e l’ottenne un anno dopo, l’asilo politico, e forse era l’ultima occasione di riabbracciarci. E’ lunga da spiegare ma io fui l’ultimo sfigato estradato dai transalpini, che chiusero i rubinetti per tutta l’era presidenziale di Mitterrand, insediatosi in quei mesi. Cominciai lo sciopero della fame per ottenere un colloquio che ci rifiutavano. Dopo una ventina di giorni fui condannato dalla Commissione Disciplinare a una settimana di mitard, il braccio di isolamento punitivo, per aver insultato una guardia. Stava all’ultimo piano di uno degli edifici a forma di Y del carcere. Mi ci portarono in pulmino, ammanettato mani e piedi come un salame. Arrivato davanti alla porta blindata della cella, m’intimarono di spogliarmi e indossare l’uniforme di tela grezza e grigia dei detenuti con condanne definitive, perdendo con la punizione il ‘’privilegio’’ di utilizzare gli abiti borghesi, come tutti i prigionieri in attesa di giudizio. Andava di moda opporre un rifiuto, tra i politici irriducibili, e in quei mesi in Irlanda del Nord morivano come mosche i militanti dell’IRA che facevano lo sciopero della fame, vestendosi con le sole coperte dell’amministrazione penitenziaria, per spregio delle uniformi. Stavo lì e, lo devo ammettere, mi sentivo piuttosto uno sfigato, con quell’impulso fastidioso di mettere le mani a coppa davanti al pene, non per pudore ma perché i gioielli di famiglia si sentivano così vulnerabili con quei cerberi abbaianti in

una lingua ancora semisconosciuta, calzanti pesanti anfibi rinforzati. Ero debole, ridicolmente smagrito, un ragazzino ventenne con un fascio di accuse impressionanti che urlava “occhio, non fatevi fregare dall’aspetto, è pericoloso”. Non mi menarono, scrollarono solo le spalle e fui gentilmente spintonato dentro uno di quei cubi di cemento grezzo, due metri e mezzo per due metri e mezzo (contai i passi…). Niente finestra, solo un lucernaio opaco quattro metri più su. Lungo la parete opposta all’ingresso, il letto era un blocco dello stesso cemento che mi circondava ovunque, con un fetente materasso di gommapiuma, grigioverde in origine, ora di indefinite sfumature cenere, tutto lercio e costellato di peli pubici e buchi di sigarette. Presi la decisione che sarei andato in letargo per tutti e sette i giorni che mi aspettavano. Invece ogni giorno entravano sempre presto, ad un’ora che non potevo determinare senza orologio com’ero, basandomi più o meno solo sullo scorrere del tempo tra l’alba e il tramonto. Mi perquisivano (un tizio passava le dita tra i capelli tagliati a zero, mi guardava in bocca e sotto la lingua e mi diceva di alzare i piedi per scrutarmi le piante…) e poi mi cambiavano di cella. La scelta di restare nudo fu vincente, in tema di magre consolazioni, perché intuii che quella routine prevedeva che ogni volta il detenuto si spogliasse e rivestisse, e gl’avevo tolto la soddisfazione di sette umiliazioni distinte per sette giorni di fila. In uno di quei trasferimenti di cuccia, trovai una fetta di pan d’epices. Faceva parte del vitto e casualità voleva che fosse uno dei miei cibi preferiti là dentro, insieme alle carote alla julienne. Una delicatesse…. Me la rigirai tra le mani a lungo. Era un trucco? Come poteva essere sfuggita loro? Avevo una fame del diavolo e le domande erano frenetiche e isteriche come la pulsione a infilarmela in bocca e buonanotte ai suonatori. Ci avevano sputato e/o pisciato sopra? Era stata solo dimenticata, ignorata? Buttata lì nella fretta di abbandonare quel luogo miserabile dall’inquilino precedente, senza che l’addetto alle pulizie (se c’era…) fosse passato ramazzandola via? Forse era solo sporca di polvere, magari di qualche cacchetta di mosca o scarafaggio… Che sarà mai, tutte proteine… … pensai cominciando a spezzettarla e a infilarmi in bocca quelle deliziose particelle che si scioglievano sulla lingua facendomi salivare come un cane San Bernardo sbavoso. Il sapore del miele, i frammenti di canditi e frutta secca, quell’accenno di retrogusto amarognolo della segale… dio che delizia. Scoppiai in lacrime. Com’ero ridotto, mi facevo pena da solo. Scrollai la testa per liberarmi di quel ricordo. Quante ne avevo passate di storie così prima e dopo? Oh, tante. Me le ero andate a cercare tutte, una ad

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una, non era quello il punto. Ciò che mi faceva spesso dubitare della mia sanità mentale era non venire sopraffatto dall’incredibile bellezza della vita. Dopo tutto quello che avevo passato, tutto quello che avevo vissuto, tutto ciò che avevo negato per sempre ad altri, come potevo essere così insensibile? Così sciupone? Cosa c’era di sbagliato in quelli come me? Non mi sentivo molto lontano dal trovare la risposta. Da tempo andavo formando l’idea che dipendesse nell’eccessiva consapevolezza della nostra transitorietà. Se ci si riflette davvero, il pensiero che siamo solo di passaggio, che in modo inevitabile e del tutto casuale dobbiamo morire entro un numero imprecisato ma comunque esiguo di anni, deve per forza incidere in maniera pazzesca sulla nostra psiche. Come ci si può rassegnare a una simile ingiustizia senza diventare pazzi di paura e di rabbia? Ignoranza, rimozione, ridicole speranze ultraterrene, sono l’appiglio dei più. Per alcuni, viceversa, un rapporto quotidiano con la morte diventa la droga che annebbia e stravolge. Mi ero buttato in situazioni folli, come quella in cui stavo ora, e ne ero venuto sempre fuori. Cercando la morte la negavo, sconfiggendola mi illudevo di conquistare l’immortalità, il Super Io sbarellava e prendeva a calci in culo tutto e tutti. Cominciai piano a scavare sotto di me, a cercare di aprire un varco per le braccia. La sinistra era bloccata, l’avevo stesa per fare presa sul timone e ora non aveva gioco. Con la destra riuscii ad arrivare alla fibbia dello spalaccio destro e poi a quella della cintura, aprendoli. Dovevo scavare, liberarmi. Potevo abbandonare le bombole incastrate, usando la frusta dell’erogatore, lunga quasi due metri, per assicurarmi di respirare finché fossi uscito da quella trappola. Avrei provato poi a tirarmi appresso il bibo, oppure a raggiungere in apnea le bombole decompressive e respirare da quelle, schizzando verso la superficie lungo la cima, fino a una quota non pericolosa. Potevo farcela, mi dissi, dovevo solo restare calmo. Mentre aprivo nel fango un buco sempre più ampio, sentii il secondo stadio farsi duro in bocca. I gas stavano finendo. Continuai a scavare trattenendo il respiro, facendo delle brevi apnee che mi consentissero di ridurre il consumo di gas senza andare in affanno, rovinando quel misero risparmio con successive boccate a pieni polmoni. Riuscii a far scivolare appena sulla destra il bibombola e a conquistare un po’ di spazio. Liberai il braccio sinistro. Nello stesso istante sentii un velo nero scendermi sugli occhi. Non lo vedevo, lo sentivo, come una saracinesca che

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scende stridendo. Un singulto per la fame d’aria mi scosse il petto. Tenni duro, arrivando con la mano destra all’estremità del corrugato opposto, che comandava l’ingresso e il deflusso dei gas nella sacca di galleggiamento. Con un gesto frenetico sputai l’erogatore e lo sostituii con il boccaglio del tubo flessibile, premendo il pulsantino di comando. Mi costrinsi a soffiare i pochi gas ancora nei polmoni dentro la camera di lattice, per non sprecarli, e poi inspirai. Quella miscela di gas viziato dall’anidride carbonica entrò dentro il mio corpo come una benedizione. Il giubbotto ad assetto variabile era gonfiato con un bombolino aggiuntivo, da un litro e mezzo, contenente semplice aria. A quella quota era narcotica. Fresca, priva di elio, mi ottenebrò leggermente la mente sconvolta dal terrore, con l’effetto di desensibilizzarla. Continuai a respirare dentro la sacca, immettendo ancora aria dal bombolino, mentre scavavo senza più convinzione e in modo scoordinato ma, senza accorgermene, sempre più sconvolto. Ce la potevo fare, sì, ce la potevo fare, con il braccio libero avevo raggiunto le fibbie sul petto e alla cintura e stavo liberando il corpo da quell’attrezzatura divenuta una trappola mortale. Avevo aperto un varco anche nel fango e cominciai a spingere, a tirare, a muovermi freneticamente per schizzare fuori da quella tomba. La terza scossa arrivò subitanea, staccandomi di bocca la plastica e riempendomela insieme ai polmoni di acqua mista a melma. Il corpo si contrasse. Sussultò sotto gli spasmi mentre annegavo. Non vidi colare a picco la barca di Alessandro, travolta dalla gigantesca ondata provocata dal maremoto. Si spezzò urtando la struttura d’acciaio della Stella del Mare e seppellì per l’eternità i miei resti nel fondo fangoso.

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III. La rete Qui devono essere, pensò. Proprio qui. Tutti quelli rimasti. Nei loro letti a dormire, nei loro letti a sognare mondi di zucchero (o di fogne). IT, S. King

Il suono del clacson, acuto e snervante, rieccheggiava all’infinito. La luce arancione del lampeggiante sbatteva all’unisono sul muro della stanza d’albergo, tagliata a strisce dalle fessure della persiana. Dovevano essere circa le tre e mezza, l’ora in cui i camion della nettezza urbana percorrevano in lungo e in largo piazza Garibaldi e le vie circostanti. I netturbini raccoglievano quantità spaventose di immondizia ma, da lì a poche ore, uscendo per prendere l’autobus che mi avrebbe portato al porto, avrei trovato il solito schifo. Mi alzai dal letto per bere un sorso dalla bottiglia di minerale, appoggiata sul tavolino di fianco alla tv. Dalla finestra semiaperta entravano le voci di due mignotte africane. Discutevano nel loro inglese esotico, appoggiate alla saracinesca della pasticceria dove di solito facevo colazione. Sbirciai fuori. Una era cicciona, ma l’altra sembrava avere un bel corpo. Il culo almeno era da dieci e lode. Alto e marmoreo. Il camion vuotò il cassonetto nelle sue fauci posteriori e, dopo averlo appoggiato facendo stridere le lamiere, sgasò spostandosi altrove. Le ombre ripresero il controllo della cameretta, appena insidiate dalla cornice di neon rosa shocking dell’insegna luminosa di uno store di cianfrusaglie elettroniche. Pisciai nel bagnetto fetido. Tutta la stanza mi ricordava una delle tante celle di quando ero detenuto. La puzza di stantio e di scoregge ammuffite era la stessa. Le sole differenze stavano nel mobilio dozzinale da falso arredamento borghese “tardo campano” e, questa più sostanziale, nel fatto che potevo aprire la porta e uscire liberamente. Oddio, neanche tanto. Il portiere notturno sbarrava con un cancello a scorrimento la porta d’ingresso. Il fine non consisteva tanto nell’impedire l’accesso

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ai malintenzionati, quanto ad ostacolare gli inquilini che avessero avuto la brillante pensata di abbandonare l’ameno domicilio senza pagare. Tornai a sedere sul materasso. Non riuscivo a dormire granché con il bailamme notturno e avevo bisogno di un adeguato numero di ore di riposo. Purtroppo, vista la paga, queste topaie erano il massimo che mi potevo permettere. “Hotel Bridge”, così si chiamava e, dopo diverse prove, era risultato il meno peggio. Una sera, arrivando decisamente troppo tardi e non trovando disponibile una singola, ero finito a qualche isolato di distanza. Qui il posto c’era. L’albergo era aperto, tutte le camere avevano le porte spalancate. Entrai in una e accesi la luce. Peli pubici costellavano lenzuola giallastre. Un rumore di passi e risolini mi spinse a sbirciare dalla porta. «Ciao tesoro», cinguettò un trans corpulento passando con un cliente dall’aria poco entusiasta. Alleluia… Nelle ultime settimane arrivavo il lunedì e tornavo a Bari prima del weekend. I lavori subacquei hanno, quasi sempre, orari e giorni da impieghi normali. Difficilmente si effettuano il sabato e la domenica o durante le festività. Cosa invece frequente per l’attività di diving e corsi, frequentati da persone che durante la settimana lavorano e si dedicano a questo sport nei fine settimana. Il mare faceva schifo, il committente aveva fretta e noi uscivamo all’alba per evitare il peggioramento meteo, che cominciava verso mezzogiorno. Per il resto, era un lavoro da feriali. Alessandro mi aspettava al solito bar del porto. «Hai la faccia stanca», dissi. «Ieri sera sono uscito con una e poi ho fatto la notte in servizio». «Cristiano viene?» Non lo vedevo e l’aliscafo da cui sarebbe dovuto sbarcare era già al molo, con i boccaporti chiusi e a motore spento. Due marinai fumavano, seduti su un cumulo di cima accatastata sul ponte. «Oggi siamo soli. Ha chiamato ieri sera per avvertire che deve mettere giù un corpo morto a Forio.» Guardai verso l’imboccatura, l’orizzonte si muoveva. «Bisogna fare carburante, approfittiamo», concluse. Caricava il gasolio, a prezzo agevolato, in un uno dei porticcioli della costa sud del capoluogo. Sarebbe stata una giornata rilassante. Solo di navigazione da e per Napoli ci volevano quasi cinque ore. Partendo dal cantiere, bordeg-

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giammo la Performer, che da alcuni giorni era ormeggiata al molo opposto per lavori di manutenzione. La guardavo con venerazione. Era la nave survey per eccellenza. Pochi anni prima, la Impresub l’aveva utilizzata per recuperare il relitto di una vedetta albanese, utilizzata dagli “scafisti” per traghettare un centinaio di immigrati clandestini. Una corvetta della nostra Marina aveva cercato di intercettarla con mare forza otto e l’operazione si concluse con una collisione. L’imbarcazione albanese era affondata con una sessantina di persone imprigionate dentro. Il caso scaturitone aveva implicato lo stesso governo, imputato di una politica eccessivamente dura e militaristica nei confronti di quei poveracci che cercavano fortuna da noi. Conoscevo il magistrato che aveva messo sotto accusa Marina e Comandante della nave militare. Da giovane era un dirigente della FGCI, la gioventù comunista. Rampollo di un’aristocratica famiglia pugliese con alti dirigenti del PCI e vignaioli. Un paio di volte, con il mio gruppetto di picchiatori neofascisti, avevamo rischiato di scontrarci fisicamente davanti ad alcuni licei. La Performer si era posizionata su un fondale di oltre ottocento metri, mantenendo il punto con precisione millimetrica, grazie al sistema integrato satellitare e alle quattro paia di eliche laterali. I suoi cento e passa metri di lunghezza stavano immobili sul relitto, mentre veniva calata una sorta di “cornice”, costruita dai tecnici dell’azienda trentina per chiudere al proprio interno la vedetta. Nei cilindri posizionati lateralmente, l’aria compressa aveva sollevato il carico di morti, venendo aggiunta o ridotta a seconda delle esigenze dal personale addetto al recupero, nella sala controllo delle operazioni. Un ascensore per l’ultimo viaggio. Un pool di medici forensi, capeggiato da un’altra mia conoscenza barese, si era occupato del terribile lavoro di identificazione delle loro identità. «Hai visto la bionda?», chiese Alessandro. La nave ci scorreva a fianco, mentre uscivamo dal bacino a basso regime. Sul primo ponte, dove la verniciatura rosso fuoco dello scafo passava al bianco della struttura superiore, sedeva una ragazza. Capelli dorati raccolti da un elastico, l’abbronzatura risaltava evidente sulle cosce tornite che uscivano dai calzoncini corti.

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«Ti farei un pigiamino di saliva...», mugolai arrapato. Leggeva pigramente un libro, le lunghe gambe sul parapetto, appoggiata alla spalliera di una delle panchine poste sul corridoio laterale. «Bionda, pista per l’elicottero, minisommergibile, camera iperbarica...», elencava Alessandro. «Posizionamento geostazionario, ROV, ferma come un monolite con mare grosso...», aggiungevo io. Sospirammo all’unisono tornando a guardare verso il mare aperto, la barca che già dondolava tutta su una mezza fila di ondine, provocate dal passaggio di un mercantile che, entrando, ci aveva incrociato. Venne fuori una bella giornata, il mare sarebbe calato anche al largo in poco tempo, se perdurava l’assenza di vento. Navigammo in direzione di Punta Campanella, l’estremo sud del Golfo. Sul Vesuvio galleggiava una nuvoletta isolata, come uno sbuffo di panna. «Cristiano era strano in questi giorni, eh?!», chiese Alessandro. Armeggiava con lo stereo e le carte poggiate sulla consolle degli strumenti di bordo, incapace di stare fermo e fare solo una cosa per volta. Mi ero seduto sulla panca dietro il timone, addossata alla parete della piccola cabina, e godevo della tranquilla traversata. «Un po’ di problemi con la moglie immagino. Quando ci sono figli di mezzo è sempre un casino.» «Eh, però doveva venire, oggi pomeriggio possiamo uscire, dovrebbe scadere ancora e si può lavorare. Non mi piace quando fa così». La lamentela poteva andare avanti a lungo. Alessandro non era in grado di capire, o quantomeno accettare, che i soldi che ci dava non erano un granché. Il lavoro si stava dilatando nel tempo e ci impegnava, non tanto nell’effettiva esecuzione, quanto nell’andare avanti e indietro da Napoli. Perdevamo giorni e giorni nell’attesa di condizioni di mare buono, uscendo magari alle sei del mattino, ma dovendo rientrare subito. Capitava ancora più spesso che si restasse in porto a guardare l’altezza delle onde all’orizzonte. «Beh, non puoi biasimarlo, ha altri lavori da portare avanti, tocca guadagnare. Comunque quando c’è, si fa un mazzo tanto.» «Si, si, chi dice niente», rispose poco convinto. «Certo che è un tipo buffo. Ti ho raccontato quando l’abbiamo conosciuto con Claudia?» «No. Passami un attimo il cacciavite...» «Tieni. Era venuto da noi al diving subito dopo il corso da istruttore. Si

presenta per fare tutta la trafila dei corsi allievo e istruttore tecnico a Civitavecchia e quindi alloggiava lì. Ovviamente il Sun Bay costava troppo e l’avevamo parcheggiato in una pensione vicina piuttosto casereccia». «Quella verso la città? Pure a me m’avete ficcato là. E’ quella senza cesso in camera, no?» «Si, è vero. Mè, una delle prime sere lo invitiamo a cena nel ristorante dell’albergo, quello del diving. Sai quello tutto fichetto… Lui, comunque, si era presentato come sempre, con quelle magliette impataccate...» «Chella lota, è sempre zozzo», commentò Alessandro. Al contrario dell’isolano, lui era invece molto attento a vestire con gusto e tutto perfettino. Odiava la sporcizia. «Eh eh, davvero, Però non puzza, come dice Marco.» Era stata una delle prime considerazioni del proprietario dell’agenzia didattica con cui tutti e tre, ormai, lavoravamo da anni come istruttori. «Insomma, stiamo seduti a tavola ed erano partiti un bel po’ di bicchieri. Ad un certo punto, senza cambiare quell’espressione da sfinge, prende un braccio di Claudia e tira fuori una delle sue teorie su come si fa capitolare una donna sessualmente.» «E Claudia?» «Rideva, beh, lo sai com’è. Comunque, parte con ‘sta storia sul sfiorare la pelle e interpretare la reazione, vede che Claudia non si tira indietro, io rido, e lui esce con lo sbisciolamento del Capitone.» «’o che?!?» «Lo sbisciolamento del Capitone! Secondo Cristiano, se stai con una donna qualsiasi, chiunque eh?!, una qualsiasi, basta che non ci sia gente che la mette in imbarazzo, tu gli tiri fuori il cazzo e glielo metti in mano, e quella subito lo prende in bocca», continuai ridendo al ricordo. «Ma che puttanate dici?! Naaa...» «Ti giuro. Disse così. Convinto eh, assolutamente convinto. Anzi, ci disse che lui l’aveva fatto.» «Ma tu pensa che cazzaro.» «Mah, secondo me l’ha fatto davvero con qualcuna, Cristiano è strano». «Si, questo si. E conosce pure gente strana.» Alessandro, come ciascuno di noi tre, si dava molto da fare con le avventure sessuali, ma il suo genere erano più le studentesse sofisticate, da discoteca, e le zoccolone veraci e voraci, senza tante fisime. Con le prime si pavoneggiava in giro, con le altre faceva sesso spiccio. Cristiano aveva meno storie, soprattutto negli ultimi anni di sofferto e conflittuale riavvicinamento alla moglie. Ma il suo territorio di caccia era particolare, venato da una forte

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componente psicologica, su cui aveva influito quello che consideravamo il suo vero “grande amore”. «Dici tipo la psicologa?», chiesi intendendo proprio la ragazza napoletana. A differenza della moglie, una popolana figlia di un sottufficiale dei Carabinieri dell’isola, aveva uno spessore culturale e intellettuale che lo arricchiva e completava. Si era da poco laureata in psicologia e praticava Reiky e meditazione trascendentale. «Si. Beh, quella è strana sul serio. Cioè… – sapeva di star esponendo pregiudizi che non riusciva ad evitare, ma che lo imbarazzavano – alla fine, secondo me era più adatta a lui, no?!» «Uhm, mi ha raccontato di com’era quando vivevano insieme sulla barca, sai, tipo sesso sfrenato e trasandatezza da figli-dei-fiori...».. «Ne ha parlato anche con me, te l’immagini la zuzzimme? Già Cristiano è ‘nu zuzzuse, se poi stavano in due a fare flic-floc senza lavarsi...».. «Che poeta che sei… dai, si amavano… pensa a Ielasi partito di testa dopo che l’ha lasciato, che se ne va negli States e vive on the road…eh eh...» «Marooo, e poi torna e si ritrova papà… Uaneme, che film! Ma la tizia non ti ha raccontato niente quella volta?» Qualche tempo prima Cristiano me l’aveva fatta incontrare. Volevamo verificare insieme la validità di alcune teorie provenienti dagli USA sul rallentamento della respirazione, sfruttando tecniche di rilassamento che provocassero il processo brachicardico simile a quello dei cetacei. Conoscevo un po’ i metodi, avevo qualche nozione di biofeedback, un sistema basato sull’utilizzo di termometri, cardiografi e altri strumenti di monitoraggio dell’organismo, per indurre dei cambiamenti fisiologici. Praticando subacquea estrema, non ero sicuro che potesse funzionare, dato che le risposte operative nella gestione delle emergenze richiedevano uno stato di attività e vigilanza altissimo. Nell’apnea estrema quei sistemi funzionavano, o almeno così sostenevano i guru apneisti, che però sono dei noti pallisti, se mi si passa la rima. Dato che una bella ragazza resta una bella ragazza, avevo comunque accettato la proposta di Cristiano. «Oh, sei vivo? T’ho chiesto perché non te la sei scopata?». «Ah, scusa, non t’avevo sentito, ero sovrappensiero… Non me la sono scopata perché non ci stava trippa per gatti. Non si è mai sbottonata, in tutti i sensi. Quella volta che stavamo da te e che mi è venuto duro mentre mi faceva quel cazzo di Reyky, era lontana mille miglia. Ha capito benissimo che m’ero arrapato ma è rimasta rigida». «Eh, glielo dovevi sbattere in faccia!». «Non sono Cristiano! Non mi piacciono i no, se non sono sicuro lascio perdere, lo sai.»

«Stronzate, stavate sul divano, tutto buio, ti aveva detto di metterti vestiti comodi e larghi… dai, quella se lo prendeva, t’u dich’io!» «Alessà, quella è una che ci crede, che lo fa seriamente, mica ‘na cap’ e merd’ comm’a noi...» «Stavo io ‘e zumpav’en copp’!» «Eh, e chedd’ t’e chiavav’a pacchera in faccia, scimunito...». «Ma quale pacchera, la pucchiacchera!», ironizzò sull’assonanza tra ceffone e fica. Scoppiammo a ridere di gusto, immaginando la scena.

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«Insomma, nel pomeriggio usciamo?», chiesi dopo un po’. «Se va così penso di si. I pescatori mi stanno addosso, il Comandante mi spacca i coglioni tutti i giorni». La tonnara era di proprietà di una cooperativa. Quando era affondata mancava di adeguata copertura assicurativa ed era la fonte di reddito di una ventina di famiglie, alcune imparentate tra loro. Non avrebbero mai potuto recuperare il relitto con i costi delle aziende che lavoravano in saturazione. Si era così creata una situazione alternativa. Ruotava sui sistemi di immersione proposti da Alessandro, e sulla sinergia con un Comandante di lungo corso, dipendente dell’Autorità Portuale. Il buffo e per noi simpaticissimo Comandante Pignalosa, era stato incaricato dal Magistrato competente (entrato in ballo per l’inchiesta sulla morte del mozzo) di supervisionare le operazioni. «Che vogliono?», chiesi, con l’intenzione di continuare il sondaggio camuffato, che portavo avanti da giorni, per capire quanto guadagnasse il mio datore di lavoro diretto. «Eh, ‘sti scassacazzo hanno preso i soldi di un finanziamento per rinnovare le apparecchiature elettroniche di bordo. Con quelli ci vogliono pagare noi, tutto il recupero, i lavori di riadattamento, tutto». «E bé?». «Eeh, hanno fretta, serve tempo e quest’anno hanno perso la pescata grossa, perciò stanno in frega. Non possono perderla anche l’anno prossimo». «Va bò, ma c’è tempo. Scusa, non è da giugno a luglio? C’hanno quanto… almeno tredici mesi da mò». «Gliel’ho detto, ma che ci devo fare?!». Capivo che lo mettessero sotto pressione, anche se era gente di mare, chi lavora sulla superficie dell’acqua non capisce quello che comporta lavorare sotto. I pescatori escono quasi con ogni condizione di tempo, i sommozzatori hanno bisogno di mare calmo. Noi eravamo già sopra le righe. Stavamo provando a concludere qualcosa da settimane, quando i colleghi di un’azienda


grossa che aveva un appalto a Capri, si erano fermati e ruotavano i pollici. Noi lavoravamo a ottantacinque metri e a tre miglia dalla costa, quelli di Capri a meno della metà e in pratica all’imboccatura del porto. «Quindi, che si fa? Viene la vongolara?», chiesi. Come “barca appoggio” quelli della Cooperativa avevano arruolato l’equipaggio di un piccolo peschereccio adibito alla pesca dei mitili, ora senza lavoro perché la Guardia Costiera aveva sospeso loro le autorizzazioni per qualche infrazione. Era un’altra delle soluzioni low cost che ci faceva operare con gente inesperta e facilona. «No, non credo». «Quindi siamo soli, io e te?». Capitava anche questo. «Faccio venire Carlo, se può. E poi pensavo di andare a dare un’occhiata alla rete». Non commentai, stavamo arrivando in porto e di li a poco avrei dovuto occuparmi dell’ormeggio. Uscii dalla cabina e cominciai a mettere a posto parabordi e cime. Sapevo che Alessandro meditava di guadagnare qualcosa di più, occupandosi della rete come lavoro a sé. Anche il recupero della scialuppa di salvataggio, nelle sue intenzioni, doveva essere scollegato da quello principale. Ci aveva detto di tacere la sua presenza a bordo. Voleva finire di staccarla dalla gru, lasciandola a fianco del peschereccio, per poi farsi pagare per la “ricerca e recupero” ad hoc. Alla fine era probabile che rimanessero solo chiacchiere, sfoghi nervosi; ma davano l’idea di un clima difficile. Imbarcammo il pieno e tornammo a Napoli senza parlare. Mi misi al timone mentre lui ne approfittava per schiacciare un pisolino. Arrivati, decise di portarmi a pranzo da ‘o zozzus, lo zozzone. In ogni città di mare ce n’è uno, spesso nel porto o appena fuori i cancelli. E’ l’osteria, la locanda, il bugigattolo dove si mangia bene e paga poco, con porzioni abbondanti e nessun piatto gigante con l’opera d’arte tutta sola soletta al centro. Nessuna stella o cappello da chef sulle guide, anzi, nemmeno sono citati nelle guide, ma ogni Cicerone che vi scarrozza nel proprio territorio va fiero di farvene conoscere l’esistenza. Il nostro era la trattoria Ugon di Don Antonio. «Uè ispettò», lo salutò il vecchio proprietario, strofinando le mani nodose come la corteccia di un ulivo millenario sul non più candido grembiule. Non smentiva il nostro soprannome, anche se Cristiano preferiva chiamarlo ‘’topo di fogna’’, in uno dei suoi slanci di malanimo che sorprendevano chi non lo conoscesse bene. «Ispettò?!», sussurrai con un sorriso maligno. Alessandro non era nem-

meno graduato. Fece spallucce. L’uso di uniforme, pistola, distintivo, picco-le regalie e impicci innocui, costituivano il sottobosco su cui galleggiava la sua seconda attività. Senza il lavoro da poliziotto sommozzatore, non avrebbe mai potuto permettersi la fiorente impresa subacquea che stava costruendo. E senza quella, il misero stipendio da sbirro non avrebbe consentito il tenore di vita che sfoggiava, con barche, motociclette, auto, e spese continue per i molti hobbies e vizietti. Lavorava come un mulo, ed era molto capace, ma come parecchi di noi. Lui, come alcuni Carabinieri, Vigili del Fuoco, e altri rappresentanti delle forze di Polizia e Soccorso Navale, riusciva a mettere a frutto il lavoro statale, per essere invincibili, in una concorrenza alla fin fine illegale e scorretta sul mercato subacqueo. Era una cosa che a me e a Cristiano dava un certo fastidio, anche perché per noi c’erano soltanto le briciole, e ci chiamava a lavorare solo quando si rischiava la pelle. D’altro canto tutto il settore soffriva dell’assenza di norme e leggi. Non solo non ve ne erano di serie e moderne, al passo con i tempi, ma addirittura mancavano del tutto, lasciando ad una autoregolamentazione della filiera il compito di tutelare operatori e fruitori, col caos e le schifezze che avevamo ogni giorno sotto gli occhi. Gli stessi tentativi di rinnovamento e legislazione, osteggiati da tutti, erano solo una scusa di alcuni lobbisti per inciuciare accordi sottobanco e farsi norme ritagliate su interessi personalistici e/o di parte. «Allora, che vuoi fare?», chiesi una volta seduti a tavola. «Mangiare». Sorrise, tutto contento per la battuta. «Voglio fare un’ispezione alla rete, vediamo se la tiriamo su», proseguì facendo la faccia seria. «Che ci mangiamo?», domandò il ragazzo che serviva. Un camion articolato passò a un metro dalla finestra sotto cui eravamo seduti, facendola vibrare. Alessandro attese che il rumore fosse finito. Lo “zozzone” era un bugigattolo. Originariamente tutto cucinino e bancone, vendeva panini e qualche piatto caldo, stile fast food alla napoletana. Stava all’estremità di un palazzetto portuale, che divideva la strada verso un varco doganale in due sensi unici di marcia. Con il tempo si era allargato, più o meno abusivamen-te. Su un lato, dove il marciapiede era più largo, avevano installato tre pareti in vetro e alluminio, coperte da un tetto. Quattro o cinque tavolini ospitavano gli avventori, come noi in quel momento. La carne alla brace veniva cucinata fuori, su un barbecue da campeggio piazzato in una angusta stradina tra chiosco e palazzo vero e proprio. Non avrebbe mai superato un controllo HACCP. «Che ci dai?», replicò finalmente Alessandro. «Spaghetti con le vongole, pacchere col ragù, frittura mista, totani alla griglia, involtini al sugo...». cominciò ad elencare il cameriere, probabilmente

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figlio della coppia di gestori. «Tu che vuoi?» Mi rivolsi al cameriere: «Salto il primo, fammi una frittura… che c’hai di contorno?» «Friarielli saltati, verdura mista, patate...», elencò. «Friarelli, una birra e acqua gassata, grazie.» «Per me spaghetti. So’ buon’e vongole? si? mè, spaghetti, frittura e patte – disse Ale – , una birra anche per me.» Spostò qualcosa sotto la felpa H&H grigioverde. Immaginai fosse la pistola che portava sempre senza fondina, sul davanti. In effetti dava fastidio sedendosi, e anch’io l’avrei passata quantomeno dietro, tra cintura e fondoschiena, esattamente come stava facendo lui. «Non porti mai il borsello...», buttai lì, tanto per. «No, è da sbirro cafonazzo» disse atteggiandosi alla Dirty Harry. Si versò un bicchiere d’acqua, poi mi indicò con il collo della bottiglia per un sottinteso vuoi? «Grazie.» Girò il mio bicchiere e lo riempì. Aveva qualche domanda incastrata sulla punta della lingua. Alla fine si decise. «E tu, come la portavi?» Feci una smorfia. Portai il bicchiere alla bocca e, dopo averlo vuotato, mi asciugai le labbra con il tovagliolo. «Dipendeva dal calibro, dal modello e dall’utilizzo», risposi guardandolo negli occhi, sempre sorridendo. «Cioè?» Chissà da quanto tempo quegli interrogativi erano rimasti sospesi tra noi. Sapevo che dopo l’incidente del posto di blocco dei Carabinieri, aveva cercato informazioni sul terminale della Polizia. Una volta un agente, durante un normale controllo, mi aveva informato che uscivano “quattro fogli” di reati. Un po’ di roba era fasulla, o quantomeno non erano mai riusciti a provarla, ma la maggior parte si tradusse in condanne, per le quali avevo pagato il mio debito, come si sente dire dai criminali televisivi. «Boh, pistole come le vostre si portavano nei borselli. Ci serviva poter passare per guardie. E poi sono comodi, soprattutto d’estate, con i vestiti leggeri. Le trentotto e .357 da due pollici, andavano alle caviglia o nelle tasche dei giacconi, specialmente il modello con il cane interno, che non si impiglia sparando da dentro la tasca. Dipendeva, te l’ho detto.» Abbassò lo sguardo sul piatto che gli avevano messo davanti. Chissà cosa poteva frullargli in testa. Non credevo di essere l’unico pregiudicato che fre-

quentasse, non in una città come Napoli. Forse quello che aveva commesso i reati più gravi, questo si. Decisi di cambiare argomento. Ad aiutarmi ci fu lo squillo del cellulare. Parlò un po’ in dialetto, poi chiuse con rabbia. «Carlo non viene.» «Allora, tuffo sulla rete?» «Si – rispose subito, mentre accompagnava una forchettata con la scarpetta di pane casereccio –, vediamo se la tiriamo via, così mi faccio dare un po’ di soldi. Stu strunz’!», terminò. Ce l’aveva con Carlo. «Pensi che sia impigliata? Sta sempre ferma lì.» Quell’ammasso di plastica mortale mi faceva una certa impressione. A parte speculare sulla fine del mozzo che ci era caduto dentro, immaginavo ci fosse ormai un bel po’ di pesce putrescente tra le maglie. E qualcuno vivo, che sbatteva la coda come il marinaio aveva sbattuto i piedi prima di crepare. «E’ tutta ammucchiata sul fondo, figurati. Ci sono ottanta metri di profondità e quella è da oltre duecento. E poi c’è il cavo di traino. Quello pesa e la tiene bloccata.» Passò alla birra. Un baffo bianco di spuma gli rimase tra il labbro e le narici. Si asciugò e proseguì. «Non mi va di ormeggiarmi sopra. Mettiamo la barca sulla tonnara e ci facciamo una nuotata da sotto.» «Sono un centinaio di metri, compà… E così ce li facciamo tutti sul fondo. Se ci portiamo le deco è un’ammazzata, e se le molliamo sulla barca siamo a rischio.» Non mi piaceva nessuna delle due soluzioni, e difficilmente avrei saputo scegliere tra la prospettiva di una faticaccia, pinneggiando a ottanta metri e più con sessanta chili addosso, oppure il rischio di dover risalire in emergenza senza i gas necessari alle tappe di desaturazione. «L’alternativa è rischiare che la mia barca ci finisca dentro con eliche e tutto.» «E se scende uno solo di noi e l’altro sta su a manovrare?» Era la soluzione ottimale. Ciascuno di noi lavorava il più delle volte da solo, era autosufficiente, almeno quando non dovuti a rischi inutili per pigrizia, eccesso di confidenza o entrambe le cose. Mi sembrava poco convinto, ed era singolare. Sapevo che teneva alla barca in maniera maniacale, che non voleva rogne con un incidente a qualcuno di noi o lui stesso. Arrivò il mio secondo. Zozzone o no, si mangiava davvero bene. La frittura mista era spettacolare. Molti la giudicavano una sorta di fregatura, pre-

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ferendo crostacei e anelli di calamari alla preponderanza di pesce. Spesso lo è, almeno per il costo rispetto al prezzo al cliente. Lì si mangiava quella superlativa, con poco pesce azzurro e molte prelibatezze. Piccoli scorfani, triglie, tutto dal sapore eccellente. E poi il pesce raccoglie meno olio, almeno a parer mio. L’attaccai con gusto. «Tu non hai la patente nautica, e a me di andarci da solo non mi va». Olalà, pensai. Una vera confessione… Tenni la bocca chiusa. O meglio, continuai ad aprirla e chiuderla solo per mangiare. «Mi fa venire la pelle d’oca – si decise a continuare – , a te no?» Oh si, a me si… «No – mentii – perché dovrebbe?» Ogni tanto si va a punto e sprecarlo è male. Sapevo che mi stava scrutando, per cui feci l’indifferente, proseguendo indefesso il lavoro di mascella. «Hai sentito i masochisti?», chiese decidendo di cambiare argomento. Uno a zero e porta a casa. Quell’improvviso cambio di rotta nella conversazione era vittoria assoluta, totale, capitolazione compresa. Mai infierire quando l’avversario ti serve. Lo insegnavano alla grande gli antichi romani, ospitando nel loro Pantheon gli dei del nemico. Non lo avevano fatto con quello cristiano, e la conclusione sta sotto gli occhi di tutti. Potevo far finta di non aver notato l’ammissione. Del resto eravamo tutti inquieti, per forme varie di superstizione e paure. Risposi seguendo la nuova direzione presa dalla conversazione. «Mi avevano mandato una mail un paio di settimane fa, per un incontro.» «Uhm, bene, poi gli telefoniamo.» Era contento, glielo leggevo in faccia, e non soltanto per la prospettiva di una delle nostre avventure di sesso sfrenato. Su questa storia della rete ci dovevo tornare, bisogna sempre dar retta all’istinto. E’ la voce dell’inconscio, diceva qualche psicologo. E’ quello che vi salva dalla carcerazione e dalla morte, sottolineavano i Bignamini dedicati alla guerriglia rivoluzionaria e clandestina.

«Tranquillo.» La procedura consisteva nel controllare quanto gas miscelato restava nelle bombole subacquee. A quel punto calcolavamo quanto elio ci voleva per portarle alla pressione di massima carica, mantenendo la stessa percentuale di ogni gas tra miscela residua e nuova. Ogni bombolone di gas puro aveva una pellicola adesiva sull’ogiva su cui segnavamo con un pennarello la pressione finale dopo i travasi. Cominciavamo vuotando la bombola che conteneva meno gas, a volte anche di poco superiore alle bombole subacquee, portandole in equilibrio; quindi passavamo al successivo contenitore, che aveva una pressione maggiore. Finita la fase di travaso, bisognava portare il bibombola al negozio accanto, per rabboccare con aria il tutto. «Che coglioni, comprati un maledetto compressore, no?», borbottai preparandomi a dribblare la varia umanità che percorreva i marciapiedi di via Arenaccia. «Non ho i soldi.» «Ma non dire cazzate, stai pieno come un uovo, vivi a casa dei tuoi, prendi lo stipendio da sbirro, l’indennità da sommozzatore, fai i corsi e i lavori subacquei...», elencai con astio. L’onestà non paga e affondavo nei debiti, guadagnando poco e di rado. «Dai, dai, è tardi.» «Tu spendi solo per le zoccole!», continuai senza darmi per vinto. Si alzò e prese il carrellino con cui trasportavamo i bibo al compressore. Ne caricò uno e uscì senza una parola.

Dopo pranzo andammo al centro subacqueo a caricare le bombole. Non avevamo ancora “scoperto” i miscelatori e tutta l’operazione era piuttosto lenta e noiosa. Invece di pompare l’elio direttamente nel flusso dell’aria del compressore, svuotavamo per travaso una bombola dietro l’altra. «Mi raccomando, spremile», si raccomandò Alessandro, sedendosi alla scrivania a spulciare carte.

Uscendo dal porto all’alba, lasciavamo il Castel dell’Ovo a dritta, e lo vedevamo illuminato appena dal sole che stava sorgendo. L’imponente maniero sull’isolotto di San Salvatore deve il suo nome a una leggenda legata a Virgilio. Le cronache medioevali, narrano che il poeta pose un uovo all’interno di una piccola gabbia e la fece murare in una nicchia segreta delle sue fondamenta. Quindi avvisò la popolazione che alla rottura dell’uovo, la città sarebbe crollata. Per il momento non era successo, e noi la sera ci sorseggiavamo long drinks e cocktails spaparanzati su sedie e divanetti, nei caratteristici e accoglienti locali sotto i bastioni. Quel pomeriggio le alte mura erano colorate di rosso dall’astro che scendeva verso ponente. Ogni tanto, una lente di cannocchiale o di macchina fotografica di qualche turista, lanciava un lampo bianco intercettando la luce del tramonto. «Facciamo notte...», dissi, guardando con ostentazione l’orizzonte.

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Alessandro, al timone, non raccolse la provocazione. Il mare era ormai quasi piatto, unica nota positiva. Mi voltai a poppa e andai a raccogliere dal ponte la mia muta stagna, scivolata dalla camera iperbarica portatile su cui l’avevo messa ad asciugare. Il cilindro di appena due metri per ottanta centimetri di diametro, aveva una funzione quasi del tutto truffaldina. L’avevo acquistata poche settimane prima di andare a Napoli per l’ingaggio e, con molta probabilità, aveva avuto grosso peso sulla decisione di Alessandro di farmi partecipare all’impresa. «Hai preso la camera?», mi aveva chiesto in uno dei primi incontri. Gironzolavamo per i corridoi tra gli stand alla Fiera annuale della subacquea, a Bologna. «Si, ma non è pronta. Devo comprare tutto. E’ solo un cilindro di ferro, che non si chiude nemmeno se non pressurizzi dall’interno». «In che senso?». La domanda sembrava puramente retorica. Ale osservava con maggior attenzione un gav esposto allo stand di un importatore, piuttosto che ascoltare me. Volevo essere chiaro. Lo conoscevo bene e un giorno mi avrebbe rinfacciato qualsiasi manchevolezza, allo scopo di ritrattare su retribuzioni già definite e concordate. Non era cattiveria, solo abitudine levantina di mercanteggiare e rinegoziare di continuo. «Nel senso che il portellone non ha serratura. Per chiuderlo bisogna tenerlo in battuta da dentro o da fuori e poi metterlo in pressione». «Non ha doppia camera?» «Macché! Dai, è una bara. L’ho pagata cinque milioni, mica cinquanta. Non ha precamera, non è omologata, gli manca tutta la strumentazione e le rubinetterie. E’ solo un involucro.» «Va buò, a me serve subito, giusto per spacciarmi possessore di una camera ed essere in regola.» «Ale, tu non sei in regola manco per niente!» «Oh, i’ agg’ a fa’ ‘sta fatica. La legge impone la camera iperbarica per i lavori portuali e non parla di quelli in alto mare. Io mi metto a posto e c’ho pure la camera se serve.» «Non t’incazzare. Sono stronzate, lo sai. La normativa è vecchia di cinquant’anni e fa cacare. Comunque, se vogliono, ti fanno un culo così, ma diciamo che non vogliono, no?» «Infatti...» Alla fine me l’ero portata a Napoli. Con un furgone a noleggio carico all’inverosimile, mi presentai al cantiere, e trasbordammo il pacchetto di attrezzature che Alessandro non aveva ancora. Costituivano la mia “dote” per quel

matrimonio professionale. La camera, un compressore portatile, un bel po’ di bombole e altra paccottiglia che ora navigava con noi. Quello che mi avrebbe pagato per il lavoro era molto, molto inferiore non solo all’acquisto di quel materiale, ma addirittura al suo noleggio. Del resto, con i costi di un recupero ad opera d’arte, il peschereccio sarebbe rimasto sul fondo del mare, e i pescatori a spasso. Ogni anno, un buon numero di barche della flotta del Mediterraneo affondavano e lì rimanevano a marcire, mentre i loro equipaggi rinfoltivano la sempre più nutrita schiera di disoccupati. «Stè, preparati», mi richiamò all’ordine. Diedi una rapida occhiata fuori bordo. C’eravamo, sì, ecco la massa gialla dei galleggianti che fluttuava pigra a meno di duecento metri. Andai a prua impugnando la gaffa. Alessandro si lasciò sulla sinistra il nostro obiettivo e manovrò per avvicinare la boa che dovevo recuperare. In realtà era una grossa latta di plastica. Parabordi e boe venivano sottratti dalle barche di passaggio. Era già successo. Costituivano un’attrazione irresistibile. Del resto anche noi contribuivamo, appena possibile, a quella catena di sottrazioni. Questo ladrocinio bello e buono, si accavallava alla vendetta casuale, alle ritorsioni mirate e al vandalismo puro. Per quella stessa ragione, optavamo per l’uso di cime galleggianti. Avevano il difetto di essere rognose da portare e maneggiare sott’acqua, ma avevamo la certezza che non sarebbero affondate se qualche coglione si portava via la boa, facendoci perdere una o più giornate di lavoro per recuperarle. «Piano, cinque gradi a dritta, così… stop! Presa!» Il motore andò al minimo e Ale diede un colpo d’elica all’indietro, per azzerare l’abbrivio prima di mettere in folle. Lasciò il timone e mi raggiunse. «Oh, non c’è quasi più corrente, cerchiamo di salpare più cima che possiamo, così che ci mettiamo dritti dritti sopra», disse. Sapevo che voleva ridurre la “strada” da fare, soprattutto a ritroso, riemergendo. Alcune volte la cima veniva su poco, perché onde, vento e corrente, e anche tutti insieme, spingevano la barca oltre le nostre forze. Il conseguente percorso diagonale ci faceva arrivare tardi sul relitto e allungava i tempi di risalita, diminuendo i tempi di lavoro e aumentando quelli di decompressione. «Certo che una camera funzionante...», borbottai tra me e me. Il pensiero andava sempre lì. «Sarebbe bello, ma costoso… Dai muoviamoci che fa buio.» Tornammo a poppa per vestirci. Non mi ero ripreso dalle conseguenze della MDD, ma andava meglio. Avrei potuto accrescere i benefici della costante ricompressione che esercitavo sulle

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bolle ancora presenti, aumentando i tempi di sosta e respirando ossigeno puro. Purtroppo il mio carattere irritabile, veniva esasperato da uno degli effetti collaterali del gas assunto in pressione. Il freddo, il mal di mare provocato dal movimento ondoso tra i nove metri e la superficie, l’attesa di un’ora o più prima dell’uscita attaccato a una corda e appeso in mare costituivano un deterrente superiore quando l’ossigeno cominciava a solleticare i nervi. Alcuni subacquei costretti a lunghissime permanenze decompressive, usavano farmaci rilassanti, gli stessi che si utilizzano per i pazienti sottoposti a terapia intensiva, a cui viene somministrato costantemente ossigeno puro. A me non andava di impasticcarmi, avevo già provato, e l’effetto sortito era peggiore della cura. La mia fantasia morbosa in deco, spiccava il volo verso la paranoia. In pochi minuti fummo pronti e ci tuffammo. «Allora, scendiamo, seguiamo il cavo del verricello fino alla rete, la controlliamo e risaliamo da lì. Sia che siamo in coppia che si esca da soli, uno attacca l’attrezzatura ai galleggianti e nuota fino alla barca per prenderla. Ok?», riepilogò una volta giunti a prua. Misi l’erogatore in bocca, diedi l’ok e cominciai la discesa. Dopo pochi metri, l’inclinazione dei raggi solari, che in acqua vengono rifratti di 45°, aumentò rapidamente l’oscurità. Il mare si stava ripulendo, il “tappo” melmoso era quasi del tutto dissolto, ma a trenta metri fu notte. Alessandro accese il suo faro alle mie spalle. La luce a fascio penetrò il buio rendendolo, per contrasto, ancora più scuro. Faceva freddo. Fummo rapidi. Sotto il pelo dell’acqua, la spavalderia si dissolve come un soluto nel solvente. Prima arrivavamo alla rete, prima saremmo usciti da lì. Sani e salvi, per cortesia. La mia lucetta era ridicola in confronto alla sua, ma funzionale. Fu ovviamente lui ad intercettare il profilo dell’imbarcazione e vidi che il fascio si allontanava dalla cima di discesa. Negli ultimi trenta metri ci aveva costantemente fiancheggiato, come il binario gemello di un tratto di ferrovia. Stava sfruttando il bersaglio visivo per scendere in diagonale, direttamente sul verricello, più arretrato rispetto al castello di prua su cui era assicurata l’estremità della cima. Feci lo stesso. Era un po’ come volare a paracadute chiuso, durante un lancio. La velocità del tutto diversa, ma anche le distanze all’impatto: i tempi di raggiungimento dei limiti e pericoli mortali non differivano in nulla. Oh, vai calmo, bello…, pensai. Alessandro pesava quasi quindici chili di meno e portava anche un po’ meno zavorra perché con un volume corporeo minore la spinta di galleggia-

mento è ridotta. Il tutto si esprimeva, ahimè, in maggior rapidità nella navigazione subacquea. La sua propulsione era più efficiente della mia, anche per una minore attività respiratoria. Tradotto in soldoni, consumava meno gas ed era più veloce. Mise tra di noi oltre dieci metri. Oltrepassai il parapetto della murata sinistra, la seguii verso il fondo e raggiunsi il cavo. L’unica traccia della presenza di Alessandro erano rari bagliori nella pece. Si gira, ma mica mi aspetta, rimuginai facendo seguire un rimorchio di imprecazioni. Il cordone ombelicale di fili di acciaio intrecciati si perdeva nel fango. Il peso e il sedimento morbido affondavano il cavo, ma restava una traccia, un solco sottile che riuscivo a seguire come Pollicino. Alessandro era stato costretto ad appiccicarsi al fondale come me, e la pinneggiata aveva sollevato una nuvola di sospensione. Se il solco a tratti spariva, quella striscia simile alla scia di un jet in cielo mi permetteva di stargli dietro. Come sempre, guardando verso l’alto, l’aumento di visibilità permetteva di vedere quantomeno ombre tra le ombre. Il colore dell’acqua era più chiaro, sollevando lo sguardo. Ero riuscito a delineare tutto il profilo della Stella del Mare, guardandomi dietro. Pochi metri ancora e sarebbe scomparsa alle mie spalle, come se non fosse mai stata lì. Così vidi anche la rete, alzando la testa per caso, poco dopo. Ora che nel nulla c’era una presenza, potevo notare che non doveva ancora essersi fatto buio, in superficie. Del resto era ovvio, stavamo giù da pochi minuti e ci eravamo immersi quando il sole era ancora abbastanza lontano dall’orizzonte. Di molto più nera dell’ambiente circostante, ormai la identificavo bene. Si alzava con una sua orripilante maestosità dal fango, dove in buona parte giaceva formando un mucchio scuro, solido, proteso verso l’alto senza soluzione di continuità. Sembrava ondeggiare piano. Aguzzai gli occhi. Non mi riuscì di controllare uno spasmo dei muscoli, nell’accorgermi che mi ero raffigurato una scena non diversa da quella che avevo di fronte. Un grosso pesce si dibatteva a tratti nella sua morsa. Ce ne dovevano essere altri. Molti altri… Provai ad avvicinarmi lento, con cautela e nervi tesi. Non vedevo Ale. Eccolo… Più in là, una quindicina di metri circa, la sua luce. La ruotò in circolo più volte, segnale che indicava che tutto andava bene. Poi la puntò sul suo petto

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e mi fece cenno di avvicinarmi. Stava qualche metro sopra la mia quota, in galleggiamento sulla massa che vedevo alzarsi dal fango. Senza fretta, pensai. Guardavo dappertutto, sentendomi oppresso da un presentimento. E dalla consistenza di quel maledetto nylon. Alessandro mi appariva tra le maglie di uno dei tanti muri che si protendevano verso la superficie. Come ha fatto a stare lì? Intuivo che la rete, in qualche modo, avesse una disposizione circolare, spiralata. Sui pescherecci sembrano ammassi informi, caotici. In realtà vengono salpate con un ordine preciso, tale da consentire il successivo ammaramento senza problemi. Cercai di riportare a galla la fotografia mnemonica di come erano sistemati i galleggianti. Venni abbagliato da un lampo. Avevo quasi raggiunto Alessandro che mi illuminava la strada. In effetti doveva essersi spinto all’interno, zigzagando tra i lembi. Ma sei tutto scemo…? Non mi sembrava possibile. Troppo sconsiderato, non era il suo genere. Come a volerlo dimostrare, la rete più vicina si muoveva trasversalmente a me, andando a chiudere ancor di più l’accesso al mio compagno. Iniziai a roteare la mia luce in maniera frenetica, per attirare la sua attenzione. «Oh, cazzo. Esci da lì», sbottai nell’erogatore. Le bolle dei gas espirati, a quella profondità, erano schiacciate in minuscole sfere. Non riuscivano a coprire il vetro della maschera, né a fare rumore. Filavano via sottili e silenziose, come il perlage di una coppa di champagne. Alessandro sembrò aver afferrato. Undici su dieci, ci era già arrivato da sé. E da molto… Forse non riusciva a farlo da solo… I suoi movimenti diventavano sempre più frenetici. A scatti. Sembrava un lottatore che fa le finte di corpo laterali, per sfuggire a una presa che ritiene prematura. Sali!, pensai. Forse lo gridai, non lo so.

simili a quelle delle baleniere, ma sempre più di frequente utilizzando aeroplani, un barchino ci si mette sopra e pastura. Il tonno si cattura all’inizio dell’estate, quando è in fase riproduttiva e sale verso la superficie per seguire i banchi delle sue prede. E’ in piena frenesia alimentare, per cui questi enormi ammassi, che contano migliaia di individui, schiumano a pelo d’acqua e intorno alle vittime. E’ il modo migliore per individuarli. Un pezo di mare ribollente, visibile a miglia di distanza. Quando la scialuppa è circondata dal banco, la tonnara che guatava a distanza, per non spaventarli con i suoi potenti motori, scatta in avanti e fa un cerchio, come l’attacco dei pellerossa ad una carovana. Viene mollata la rete, il cui capo è subito raccolto, compiuto il periplo di 360° tutt’attorno al banco. A quel punto comincia una fase delicatissima. I tonni sono in grado di proiettarsi verso il muro di maglia più fina e aprirsi un varco. Oppure di sprofondare centinaio di metri più giù e passare sotto, beffando i cacciatori.

Quando si pesca il tonno vivo, si usa la stessa grande rete utilizzata nella pesca tradizionale. Per contenere i costi e le dimensioni, solo l’ultima parte è molto spessa. Quella che serve a circondare il banco è sottile, al punto che i tonni la potrebbero bucare. Avvistata la massa dei pesci, a volte da torrette

Sali Alessandro, sali per Dio! Sapevo che si poteva fare. I pescatori si calavano nella “camera della morte”, la parte terminale della rete: un sacco che raccoglie il pesce che, per quantità, peso e forza di disperazione, supera milioni di volte il sostegno del corpo umano. Non solo. I tonni, pescati vivi, venivano trasferiti dalla rete da pesca ad una gabbia itinerante che, trainata da rimorchiatori, li portava fino all’allevamento. Gli ultimi esemplari erano costretti dai sommozzatori ad uscire dalla “camera della morte” e ad entrare nella gabbia. Come cowboy, li guidavano al varco tra le due reti comunicanti. I sub riuscivano ad arrampicarsi sulla rete, non avevano alcun timore, solo rispetto e cautela professionale. Mi avevano raccontato che alcuni, più temerari, si infilavano tra i lembi che chiudevano il tonno intrappolato. A volte erano essi stessi a farlo, per ostruire la via e spingere gli ultimi verso la gabbia di trasporto, come investimento economico, per salvare il capitale. Ammesso che il piccolo cuore sottodimensionato, non gli scoppiasse prima in petto per la paura. Alessandro non doveva trattenersi oltre sul fondo. Doveva salire, aprirsi la strada allontanando con calma quei tendaggi mortali e cercare salvezza. Tentare la via a ritroso lo avrebbe fatto saturare eccessivamente e consumare troppo gas. E io non posso aiutarti… Forse ci aveva pensato anche lui. Fece uno scatto verso l’alto. Dietro di lui

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un pezzo di rete. Scoccata come un dardo dal fondo. Intuii che l’aveva preso ad un cinghiolo della pinna. Restò come folgorato nell’azione. Un fotogramma congelato in stopaction. Trattenni il respiro e il mio cuore rimbombò nel petto, all’improvviso silenzio. Alessandro fece la cosa giusta. Invece di agitarsi, con calma si piegò appena e portò il ginocchio a sé, arrivando con la mano alla pinna bloccata. Dopo aver armeggiato un po’, riprese la posizione verticale. La rete scendeva libera… …lui è libero… …tornando verso il fondo. Cazzo, sobbalzai. Ero a contatto con le maglie. Come quando, carcerato, mi affacciavo al mondo esterno, tagliato a quadretti dalla trama di sbarre. Con un colpo di reni mi feci indietro, senza considerare che avrei potuto impigliare un pezzo di equipaggiamento nella rete così prossima. Che culo, oddio, che culo… Non successe, tirai un sospiro di sollievo e mi ingiunsi maggior cautela. Un movimento poco distante catturò la mia attenzione. Ale saliva, piano, muovendo le mani. Il movimento al rallentatore permetteva di capire che la stava spingendo perché la coltre di maglie si ispessiva. …Lo sta inghiottendo… Ora usava le braccia con una tecnica da arrampicata. Forse si tirava su, sfruttando il galleggiamento delle boccette di plastica in superficie che tenevano tesa la rete. La luce, lasciata ciondolare da uno spallaccio a cui era assicurata, proiettava un fascio circolare verso il basso. Guardai affascinato il mio amico e non colsi che un guizzo. Sembrava fosse affondato verso la massa che l’aveva impigliato… E’ scattata a prenderlo, quella maledetta… …oppure, tirando, la rete era scesa, ammucchiandosi sotto di lui e finendo tra le sue pinne. Ale, Ale, cazzo, Dio, cazzo…, farfugliavo. Di botto mi venne in mente che non avevo controllato da chissà quanto tempo la pressione delle bombole. Lo feci al volo… Oddio… Ottanta bar. Drammatico. Spostai l’erogatore di bocca, passando alla seconda bombola. In quel momento la rete si chiuse su Alessandro. Forse un pezzo era in qualche modo bloccato in un grumo più in alto. …Lo sta mangiando!

Tirando, aveva smosso l’intoppo e quella gli era caduta addosso. Ale scomparve in un blob da cui usciva una colonna di bolle. Tutti gli erogatori dovevano essere in continua. Stava perdendo tutti i gas. Ero paralizzato. Mi scossi, estraendo un tagliasagole cercai di aprirmi un varco nella rete che mi sbarrava la strada. La lama di rasoio si fece strada nel nylon, dall’alto verso il basso, come un coltello caldo nel burro. Il lembo di destra, nel varco prodotto, ebbe un guizzo verso di me e s’impigliò nella rubinetteria della decompressiva. Cominciai a cercare di districarmi, ma fui inchiodato da una vista sconvolgente. Una mano, bianca come una palla di neve gettata nel catrame, si protendeva verso l’alto, spalancata in un appello disperato quanto vano. Oddio, oddio Alessandro… Sentivo un urlo. Un grido lancinante, prolungato all’infinito, proveniente da ogni dove. Restai lì ad assistere all’agonia. La mano vibrò, si chiuse a pugno, restando immobile. Poi si spalancò nuovamente con uno scatto. Infine si quietò, perdendo tensione. Il flusso di bolle cessò quasi nello stesso momento. Si ridusse ad un paio di fili sottilissimi, che forse erano solo il prodotto della mia immaginazione. Le mani lavorarono sulla rubinetteria a mia insaputa. Fui libero per il rifiuto del mio corpo ad arrendersi. Prese il controllo delle operazioni facendomi girare e pinneggiare lontano da quella visione abominevole. Se l’è mangiato… La mia mente restò invece a lungo lì. O almeno così mi parve. In realtà dovevano essere passati pochi secondi. I miei occhi focalizzarono il solco del cavo. Dovevo essermi allontanato una decina di metri. Sulle rétine si era stampato il reticolo delle maglie della rete. Mi era già successo in passato. Una forte emozione combinata all’effetto biochimico dei gas sul cervello. Ma sta uscendo… Sembrava sollevarsi dalla melma. Prendeva gradualmente corpo, si muoveva e lasciava una scia di minuscoli granelli che veniva attirati verso il fondo dalla forza di gravità. Sto delirando… Che cosa respiro? Guardai le due bombole appese sotto il petto. Contenevano gas narcotici a quella quota. Forse avevo scambiato inavvertitamente erogatore. Decisi di controllare e feci scorrere la mano lungo il tubo dell’erogatore, dalla bocca all’estremità opposta. No, finiva dietro. Al posto giusto. Cercai di togliermi dal pericolo riempiendo i polmoni con un respiro profondo, come un sommergibile che si prepara all’emersione svuotando i cassoni dalla zavorra.

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Alzai la testa verso di lei, con odio. Bastarda… Era lì. Immobile davanti a me. Sentivo che era anche… …Sotto… …sotto di me. E di lato. E dietro. Sei anche sopra, vero puttana?! Ricordai la mano di Alessandro. La sua agonia. Il tentativo disperato e urlante di scappare verso la salvezza, o la speranza di poterci riuscire. Le mani volarono ai moschettoni bassi delle decompressive, che le assicuravano agli anelli a D della cintura. Mi era sembrato che quel gesto fulmineo, da pistolero che estrae le 45, l’avesse sorpresa. Troia, hai avuto paura eh?! pensai sorridendo. Nel suo movimento all’indietro, avevo colto i lineamenti di un volto. Prima sconcertati, ora rabbiosi. «Vaffanculo!», le dissi staccando il moschettone superiore della bombola Nitrox. La lanciai in avanti, verso quel mostro. …‘Fanculo! Volò per un attimo dritta, come un siluro, il secondo stadio in apertura che lasciava dietro a sé un turbinio di bolle, come l’elica di un siluro sparato contro il nemico. Affondò di botto. …‘Fanculooo! La stessa operazione con la bombola deco di ossigeno. Non fu così veloce, affondò e basta. La rete sembrò aver capito cosa mi proponevo di fare e si proiettò in avanti, frustrata. Aveva una bocca. Ed era… …affamata! Staccai al volo gli spallacci e aprii la fibbia della cintura, quasi strappando la clip del sottocavallo. Liberato dal mio peso, il gruppo si sollevò appena per effetto dei gas contenuti nella sacca. Scivolai da sotto e mollai la presa sul boccaglio. «‘Fanculo, ‘fanculo, troia bastarda!», urlai spalancando la bocca e permettendo all’acqua salata di riempirmi i polmoni. Le mie risate si spensero mentre la sentivo gridare di rabbia impotente. Le sue maglie erano ancora troppo lontane e persi conoscenza prima che potesse ghermirmi, rubandole il piacere di assaporare un’altra morte lenta tra le sue spire.

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IV. Pesci pilota (Naucrates ductor, L.) Fuori era completamente buio: né la luna né le stelle attenuavano la profondità della notte. Libro di sangue IV, C. Barker

A sinistra: Cristiano. A destra: Er Pomata sulla sua barca, con alle spalle il diving dell’ischitano. In basso: la nave gru Tide ormaggiata vicino al pontone e alla vongolara citati nel racconto

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Non sapere mai in anticipo quando Alessandro avrebbe chiamato, mi costringeva a cambiare spesso albergo (topaia sarebbe più corretto). Con lo stesso spirito nomade, passavo da un ristorante a una tavola calda, da Mc Donald’s a qualche pizzeria. Ale mi offriva spesso il pranzo. Un panino a bordo se eravamo in mare, un pasto caldo dallo “zozzone” se il mare ci cacciava a terra. Cristiano pranzava con noi solo se non aveva fretta di rientrare, o se l’aliscafo per Ischia era già partito. Ma le cene si fecero presto un appuntamento solitario. Immaginavo che avesse da fare, una vita quotidiana da realizzare, eppure avevo anche imparato a conoscere un diverso aspetto della faccenda. Alessandro si sentiva in dovere (e io condividevo) di offrire il vitto, considerando quanto ci pagava. Ma spesso accampava impegni per evitare la spesa. Riflettevo sulla questione, mentre gustavo delle scaloppine al vino in un ristorante sulla grande piazza della stazione. I subacquei “ricreativi” hanno una visione romantica dei lavoratori che operano sotto la superficie del mare. Per loro, quest’attività è il massimo dell’aspirazione. Un gioco più che un mestiere. Personalmente mi sentivo un operaio e basta. Tra l’altro molto vicino alla categoria di coloro che lavorano semiclandestinamente, in nero, in quella terra di nessuno tra legalità e illegalità che ospita immigrati, emarginati e disgraziati di varia provenienza. Non ero abituato ad una vita facile. A trentanove anni avevo trascorso più della metà della vita adulta (considerando il suo inizio, quando andai via di casa a sedici anni) nei carceri di massima sicurezza. Un anno se n’era andato in una latitanza rocambolesca e

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alla “sperindio” per mezza Europa. Da quando ero uscito di galera, tutti i soldi che riuscivo a recuperare sparivano in investimenti di lavoro fallimentari. No, non si poteva dire che la vita comoda fosse il mio forte. Eppure cominciavo a essere stanco di dover contare i soldi in tasca. Iniziavo a dipendere troppo dalla generosità altrui per una cena. Che diamine, avevo fatto rapine anche da miliardi di lire, rischiato pelle e libertà, perdendo a lungo e malamente quest’ultima. Per non dipendere da nessuno. Per non mordere il fango. Ora stavo lì, a calcolare quanto potevo permettermi per un pasto gustoso che riequilibrasse una dieta di panini e hotdog. Mi sono rotto il cazzo, pensai squadrando il menù. Soffermandomi più sulla colonna dei prezzi che dei piatti. Vidi un po’ di teste voltarsi a guardare qualcosa oltre le pareti di vetro che proteggevano i tavoli sul marciapiede. Gli altri avventori erano per lo più turisti. Le masse di vù-cumprà, umanità folcloristica e fruitori delle linee ferroviarie a basso costo, si affollavano in altri locali. Gli stessi che anch’io frequentavo piuttosto assiduamente. Scostai la verzura di una delle piante messa ad abbellire l’inabbellibile mix di plexiglass e alluminio, e diedi un’occhiata a mia volta. Due poliziotti di una volante, montata con le gomme anteriori sul marciapiede pochi metri più in là, seguivano una tizia corpulenta che sbraitava. Ero particolarmente sensibile a rumori strani e lampeggianti blu, ma la piazza antistante la stazione centrale elargiva continuamente una cacofonia di urla e sirene. Le luci intermittenti delle volanti e delle gazzelle, uno spettacolo twenty-four hours, mandavano subito in overdose. «Cosa vuoi?! Lasciatemi in pace bastardi!», urlava la tizia. O meglio, il tizio. Arrivato a pochi metri dal ristorante, divenne evidente essere un trans, di quelli brutti. A Napoli c’è una tradizione centenaria dei cosiddetti “femminielli” che ancor prima della chirurgia estetica e delle trasformazioni ormonali indotte da farmaci, sono donne con l’uccello piuttosto che uomini travestiti. E ce ne sono di bellissime. Purtroppo per lui, o lei, quell’essere che stava inscenando uno spettacolino fuori programma per i turisti, da raccontare con gusto oppure riprovazione, non era stato/a baciato/a dalla dea della bellezza. Optai per un decisivo “lui” quando, esasperato dalla vicinanza dei due giovanotti in divisa, lasciò il falsetto per una sequela di improperi e minacce in tono baritonale. Lunghi capelli biondo cenere, con una ricrescita scura che ne evidenzia-va

l’incuria e la sporcizia, era vestito come tante delle battone fuori servizio che si vedevano circolare là attorno. Maglioncino dozzinale terra di Siena, pantacollant sdruciti, calzettoni e, un vezzo, zoccoli svedesi. Chissà se Fanon l’avrebbe annoverato tra i suoi “dannati”. La scena cominciava ad affascinarmi. Potevo anticiparne svolgimento ed epilogo. Non per questo riuscivo a ritenerla scontata. Non appena aveva cambiato tono, i due poliziotti si erano fatti più cauti ma comunque minacciosi. Le mani erano andate alle fondine, e mi accorsi che indossavano guanti di plastica, da chirurgo. Proprio alcuni giorni prima avevo rivisto un film anni settanta, con Walter Matthau. Interpretava un ispettore, duro ma sentimentale, impegnato in un’indagine su un massacro a colpi di mitra a carico dei passeggeri di un autobus. Lui e i suoi colleghi ficcavano le dita nei fori sanguinolenti provocati dai proiettili e, in una scena mitica, un anatomopatologo toccava il piede nudo di un cadavere per evidenziare i fori di siringa da eroinomane. Non solo niente occhiali antinfortunistici, camici e mascherine, ma nemmeno l’ombra di un guanto. L’HIV era ancora lontano e lo sbirro macho non provava nemmeno schifo per piedacci puzzolenti... il mondo cambia. Quello che invece non era cambiato affatto dalla notte dei tempi, ce l’avevo sotto gli occhi. Chissà qual’era la ragione che spingeva i poliziotti ad avercela col tizio. Non lo sapevo e mi importava poco. Ciò che trovavo irresistibile era l’evoluzione degli avvenimenti in corso. Accennò a una parvenza di fuga. Fu solo uno scatto in avanti patetico, che indusse a sgommare l’Alfa biancazzurra, andando a bloccargli la via più su. Eppure poteva provarci, e poteva addirittura riuscirci. Difficilmente le guardie sono motivate ad andarsi a impelagarsi in qualche rogna. Vita reale e cinematografia sono molto diverse. I più tra le guardie cercano un basso profilo e si esaltano solo quando si sentono molto, ma molto sicuri di avere la meglio senza danni. La realtà della nostra esistenza quotidiana, però, è che anche dall’altro lato della barricata, il più delle volte, si parte già sconfitti. Il povero diavolo senza identità che urlava là fuori era già ammanettato prima ancora che i poliziotti gli fossero addosso. Glielo leggevo in faccia. Era marchiato a fuoco nelle carni, che si muovevano pesanti, afflitte nel profondo dal peso dell’ineluttabile. E quella postura mi parlava. Raccontava di come possiamo venire spezzati, abbattuti, masticati e sputati via con sprezzo. Quante volte ero sgusciato tra le mani della polizia. Le rivivevo tutte, mentre inciampava, prima nel suo cervello e solo dopo dentro ai suoi zoccoli. Le

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volte in cui ero andato, volato lontano dalle loro grinfie anche quando sembrava ormai impossibile, e le volte in cui lo spirito si era fatto fiacco, come un palloncino che si sgonfia e avvizzisce. Proprio come quel disgraziato, ora a terra, piagnucolante, preso, incatenato e trascinato via. Ci inventiamo che è la morale ad avere il sopravvento, che sono la redenzione e il pentimento. A me, quella sera, mentre tornavo al mio giaciglio, pareva più plausibile che siano invece la stanchezza, la spossatezza, l’intima consapevolezza della nostra sconfitta, a decretare la parola fine. «Sono quelli?» Una barca caracollava tra le onde, puntando verso di noi. «Penso di si, mi sembra che abbiano il piatto», mi rispose Cristiano. Restammo un po’ in silenzio. Il sole fece capolino da dietro una nuvola e la lastra d’acciaio che serviva a raccogliere e separare le vongole, rifletté la luce. «Ale, arrivano – dissi al timoniere che stava parlando al cellulare –, è proprio una bagnarola.» «…si, si, li ho visti Capita’. Come accostano cominciamo...» «Con chi parla?», domandò l’ischitano. «Con il baldo Capitan Fracassa», risposi. Cristiano si limitò ad annuire e spostò la sua attenzione all’erogatore che perdeva. Prese una chiave esagonale poggiata sul vetro di ispezione della camera iperbarica. «E’ un O-ring», spiegò mentre smontava una parte del riduttore di pressione. Intanto l’altra barca si era avvicinata e messa di traverso, così che potevamo parlarci urlando e vedere i rispettivi equipaggi. Due uomini di una certa età, sui cinquanta, ma quasi sicuramente più giovani. Quel mestiere fa invecchiare precocemente. Il terzo era un ragazzino, forse appena maggiorenne. Mancava il cane, una componente fondamentale a bordo dei pescherecci meridionali. Tradizione scaramantica voleva che fosse la vittima predestinata dei naufragi. Il mare reclamava una vittima, e gli umani pensavano che servirgliela a scapito del “miglior amico dell’uomo”, fosse un sacrificio pagano accettabile. Dagli amici ci salvi Iddio…, stavo pensando. Del resto, la tonnara che avevamo sotto i piedi, un po’ di legno e quaranta passi d’acqua più in là, era affondata perdendo un membro dell’equipaggio. E il cane non c’era… «Quelli ci affogano più che aiutarci».

Ignoravo quando li avesse osservati per dare una valutazione simile, dato che non aveva alzato gli occhi dal suo lavoro. Comunque sottoscrivevo appieno il parere di Cristiano. «Ti ho sentito, lota. Iam’ mappine, che facciamo tardi.» Ale si era affacciato dalla cabina e aveva esortato l’azione con un fastidioso battimano da negriero. Riprese a starnazzare verso il suo corrispondente, spiegandogli in dialetto stretto che dovevano attendere che ci fossimo assicurati al cavo d’ormeggio. Solo dopo avrebbero potuto accostare di poppa e legarsi in coda a noi. «Scommettiamo che sbattono?», mi propose Cristiano, con un sorriso da Gioconda. «Scordatelo, lo vedo pure io che stanno a favore e quello scemo ha tolto motore.» La distanza tra fiancate era ormai ridotta a cinque metri, e onde e vento spingevano il loro barcone verso di noi. Due minuti e avremmo colliso. «Avverto?», chiesi malignamente. Cristiano restò un po’ in silenzio. Certo che sentire Alessandro bestemmiare per i danni alla sua coccolata barchetta, e per giunta a causa di un errore suo e dei suoi accoliti, valeva un bel po’. “O animale” si decise. Posò chiave e primo stadio e mosse verso la timoneria. Entrò senza dire nulla al nostro boss, peraltro con mezzo busto ficcato nel gavone interno, impegnato a tirar fuori attrezzi vari. Diede un colpo alla leva del gas e la barca si proiettò in avanti. Alessandro perse l’equilibrio smoccolando parolacce, ma la soddisfazione era di scarso ripiego rispetto a una bella botta. Con rapidità, Cristiano ruotò a manovella il timone verso l’altro peschereccio. Afferrai saldamente una cima del parabordo più vicino, e mi tenni alla cabina con l’altra mano. Attesi che la manovra si sviluppasse sapendo dove voleva arrivare. Un’onda sollevò l’altra barca spingendola verso di noi, poi le passò sotto e fu il nostro turno. La sua spinta, combinata all’effetto di elica e timonata, fece ruotare la poppa mentre la nostra prua doppiava quella dell’altra. «Oooooooh...», ululò Alessandro, rimessosi in piedi con un balzo e la bocca a culo d’anatra. Guardava preoccupato, aspettandosi una collisione ancora possibile. La vongolara sfilava verso la nostra fiancata, con la prua a pochi centimetri da essa. Il loro comandante s’era mosso e, secondo me, fu solo per un caso che ingranò la retromarcia allontanandosi, invece di speronarci alla grande.

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«E’ meglio la barca mia, con due eliche si governa senza timone», disse serafico Cristiano. Ora puntava sulla boa e non sembrava intenzionato a mollare il comando. «Vaffanculo, potevate avvertire. Stronzi», fu la risposta dell’altro. Si diede una sistemata alla giacchetta spiegazzata e uscì verso prua, andando ad afferrare il mezzo marinaio. «Come procediamo?», chiesi aiutando. Finalmente il mare ci dava tregua. Bisognava approfittare e concludere il più possibile. «Facciamo come s’è detto ieri. Scendi giù prima tu e mandi su la cima a prua. Se ci riesci fai lo stesso anche a poppa. Altrimenti ci penso io». «Io resto per ultimo, allora?», si informò Cristiano raggiungendoci. Si era tolto la felpa sdrucita e, seduto sulla battagliola, rivolgeva il volto al sole, con gli occhi socchiusi e un’aria da gattone soddisfatto. In effetti cominciava a scaldare sul serio, e un po’ di calore ci voleva proprio. Tra poche settimane avremmo rimpianto il freddo, come sempre accade quando le condizioni si fanno estreme. Ma quella fase di interregno tra stagioni, in cui si può godere di un clima mite e piacevole, era davvero una manosanta per l’umore e lo stress, messi a dura prova dall’ambiente lavorativo. «Si Cristià, tu scendi dopo. Vediamo se riusciamo a passare almeno il primo cavo.» Mi preparai in fretta. Alessandro si portò a poppa e diede le prime disposizioni a quelli della vongolara. «Allora – disse indicandomi –, mo’ scende lui. Manderà su la prima cima con un pallone di sollevamento, così abbiamo i due capi. Poi facciamo lo stesso a poppa. Quando abbiamo finito, voi attaccate una testa del cavo d’acciaio alla cima in acqua, e l’altra a quella che avete a bordo.» «Ci dobbiamo staccare o stiamo qua?», chiese il capitano. «No, no. Avit’ a move, dovete stare più in là. Con il motore vi tenete più larghi e calate di prua.» «Eh, ma il verricello, o’ tenim’ a ‘rete, com’ a’m a fa’?». «U’aneme, e che ci vuole?! Voi fate passare la cima d’a’rete ‘n coppa, dal verricello alle bitte di prua, scorrendo sul ponte laterale. Uno sta ‘nanze, uno timona e uno dietro. E’ semplice.» Continuarono a discutere di quella “semplice” operazione anche quando mi tuffai. Li sentivo strepitare ancora, mentre mi preparavo a prua. Cristiano mi fece l’occhiolino. Salutai portandomi la mano alla fronte e sgonfiai il gav. L’acqua era ancora striata e punteggiata da organismi bianchicci, minuscoli, solitari o aggregati

in lunghe colonne di cellule. Il tappo caffè & latte si era disciolto, passando da un marroncino sbiadito al verde palude. La luce filtrava e ormai, arrivati al termoclino, invece del solito nero, il mare mutava in un rassicurante blu cupo. Non c’era più bisogno della luce artificiale. La Stella del Mare mi apparve ai sessanta metri. Mancando la corrente lasciai la presa dalla cima, pinneggiando in diagonale per scendere direttamente sul lato anteriore sinistro. Nelle immersioni precedenti, le due griglie erano state tolte e portate in superficie. Giacevano nel cantiere, già ripulite. Una sorta di anticipazione bene augurante del recupero di tutta la nave. Canticchiai nell’erogatore. Si vedeva tutto molto bene, per cui decisi di non rallentare la velocità immettendo nel gav del gas che poteva servirmi. Sapevo che Ale voleva proporci un secondo tuffo senza tornare a terra, per finire quel giorno una fase delle operazioni. Non mi andava di smontare il bibo per sostituirlo con uno carico e quindi, se riuscivo a risparmiare gas, mi sarebbe bastato quello. Diedi un colpo di pinne per superare la prua e mi voltai verso la fiancata usando le braccia per frenare. Passai al volo oltre la battagliola, alla quale, aggrappandomi, feci fare la parte del cavo di frenata di un jet che atterra su una portaerei. Il movimento portò gambe e pinne a cambiare posizione, così andarono dall’alto verso il basso. Mollai la presa in un secondo e poggiai la punta delle pinne nel fango. Tutto il corpo seguì, e mi ritrovai in ginocchio davanti al foro del tunnel dell’elica di prua. Non feci caso alla nuvola di fango che si sollevò, oscurando la visuale. Avevo già in mano la cima. Provenendo dalla superficie, entrava nel tunnel dal lato opposto ed era assicurata a un tondino di ferro che le impediva di tornare indietro e di sfilarsi. Cristiano aveva messo il pallone tra una delle bombole e un paio di elastici ricavati tagliando a strisce sottili camere d’aria di auto. Lo estrassi dispiegandolo. Il pallone, a dispetto del nome, era in realtà a forma di paracadute, molto resistente. Attaccai alla cima il moschettone che si trovava all’estremità inferiore delle corde, quindi cominciai a gonfiarlo con l’erogatore di una bombola che portavo proprio per questo scopo assicurata al petto. Prese forma, cominciando a tirare verso l’alto. Non volevo sprecare gas, così lo aiutai tirando la cima. Puntellai le ginocchia contro lo scafo e diedi qualche strattone. Dopo poco l’aria contenuta nell’involucro cominciò ad espandersi e la diminuzione di pressione fece prendere spinta e velocità. La cima scorreva da sola e mi limitai a controllare che non si bloccasse tra le pale

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dell’elica, dentro il tunnel. Improvvisamente si arrestò. A quel punto, qualcuno lo stava tirando a bordo, infatti la cima continuava a scorrere. Non rimasi a controllare oltre. Mi attendeva la stessa operazione a poppa. Raggiunsi il punto nuotando lungo il peschereccio e completai il lavoro in pochi minuti. Guardai manometri e computer risalendo. Erano passati quattordici minuti e avevo consumato circa duemilaseicento litri, su oltre seimila a disposizione. Dopo una ventina di metri, mi spostai in diagonale sulla cima che saliva centralmente dalla torre radar. Avendo completato tutto con successo, immaginavo Alessandro in superficie. Impartiva, frenetico e in un misto italonapoletano, i suoi ordini. Avrebbe atteso di vedere la mia figura appesa all’altezza delle bombole decompressive, posizionate a dodici metri, dopo di che le due barche si sarebbero mosse sulla mia testa. E così avvenne. Sentii il rimbombo dei motori quando stavo sui quindici metri e poco dopo vidi la chiglia della vongolara che tagliava l’onda e provocava turbinii di spuma e bolle, mentre si spostava. Ale li stava di certo facendo impazzire con richieste di ogni genere. Mentre ciondolavo in attesa di far passare l’oretta che ci voleva per desaturare, mi guardai in giro. Scorsi le sagome dei piccoli carangidi neri dalle strisce bianche laterali, chiamati pesce pilota o, secondo la classificazione linneana, Naucrates ductor. Cacacazzi, pensai.

sedio dai loro predatori. Vedevamo tonnetti e grosse ricciole, e sembravano affamati. Dato che a bordo c’erano una lenza e un paio di ami arrugginiti, ne calai uno con una pallina di mollica e restai incantato a guardare i pesci avventarsi e abboccare. Mi venne in mente quando, piccolo, pescavo i persici sul molo di pietre glaciali, tonde e levigate, ai bordi del lago svedese dove viveva mio nonno materno. Anche lì, afferravano l’esca davanti ai miei occhi. Dalla mollica dei nostri panini, passai ai pezzi di pesce appena pescato e, pur usando la mazza di una scopa come artigianale canna da lancio, fu quasi impossibile raggiungere le prede più allettanti. I piccoletti le anticipavano fulminei e si avventavano su ogni lancio. Così tornammo a casa con un secchio traboccante di pilota e qualche leccia, ma una sola ricciola. Tutti carangidi in ogni caso, e quindi tutti buoni a tavola.

Non appena una barca o un sub si mettono fermi su una cima in mezzo al mare, alcune varietà di pesci si avvicinano in successione. E’ un fenomeno singolare. I pescatori sostengono che cercano l’ombra, e qualcuno mi ha raccontato che negli Stati Uniti si utilizza una tecnica detta “a vela”, che consiste nel lasciare sotto il pelo dell’acqua una sorta di aquilone, o vela appunto, ancorato. I pescatori sportivi attendono un giorno o due, poi si posizionano con le loro barche su questi aggeggi di richiamo e calano gli ami. In effetti potrebbe funzionare. Durante i lavori di un altro recupero, ci era capitato di lasciare a sei, otto metri di profondità ottomila metri cubi di palloni di sollevamento gonfi e attaccati ai cavi di trazione sul relitto. Tornati dopo un paio di giorni, avevamo scoperto con divertimento che intorno a quel francobollo d’ombra in mare aperto, si era formato un assembramento incredibile a dirsi. Appena sotto i palloni e tutt’intorno, c’erano i pilota e le Lichia glauca, la leccia, loro parente. Fatto ancora più curioso, questi pesci erano cinti d’as-

Fui distratto da questi ricordi da un picchiettare sull’estremità delle pinne. Per nulla intimoriti, anche in questa occasione i pesci pilota si erano avvicinati. Avevo notato nelle precedenti immersioni, come attaccavano famelici tutto ciò che di noi stava più fermo. Le pinne sembravano essere attraenti, ma mi ero accorto che ogni tanto mozzicavano anche le mute. Un po’ scocciato… Pensa se mi sbranano tutto ,‘sti stronzi, tipo piraňha! …mossi le gambe per allontanarli. Era come scacciare zanzare a caccia di buon sangue caldo, in una notte estiva, carica di umidità e tepore. Ebbi un soprassalto. Qualcosa… …di grosso… …mi aveva toccato il dorso della mano attaccata alla cima, mentre ero distratto a guardare verso il basso. Alzai la testa di scatto. Cristiano mi fece “ciao ciao” e andò giù. Sto bastardo… pensai col cuore che batteva a mille per lo spavento. Così alla fine Ale aveva deciso di restare a bordo, al comando delle operazioni. Sgasate rombanti confermarono la mia ipotesi. Le due barche cominciarono ad allontanarsi l’una dall’altra. Vidi che la cima che prima scendeva quasi in due parallele, ora prendeva l’aspetto di una “V”. Ero troppo lontano per distinguere la sua trama in movimento, il suo intreccio di cavetti di polipropilene arancione, ma dovevano aver cominciato anche a tirare a bordo un capo, perché alcuni minuti dopo vidi entrare in acqua la testa di uno dei cavi d’acciaio. La tensione si spezzò per un momento, a causa del peso dei primi metri di

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metallo buttati in mare. La parte che veniva recuperata restò dritta, l’altra subì una scossa, un ondeggiamento che per un attimo l’affondò. Nel cerchio di spuma prodotto dal tutto e appena sotto, apparve l’asola, ricavata in testa piegando il cavo su una redancia e piombando in una morsa solidale le due parti. Alessandro stava usando di sicuro il verricello dell’ancora. Il recupero, infatti, risultava troppo rapido e semplice per supporre che avesse fatto tutto con le sue sole forze. Mi accorsi, però, che la cima, dal lato della sua barca, si allontanava dalla verticale. Compresi che doveva averla bloccata su una bitta e che si stava allontanando, tirandosela appresso. Volevo aiutarlo, ma guardando il computer, vidi che avevo ancora venti minuti buoni di decompressione. Per accellerare, nonostante la profondità di nove metri, presi l’ossigeno puro e scesi una tappa più giu. Non era ortodosso, né privo di rischi, ma assumere quel gas a una pressione maggiore permetteva di metterne in circolo una grossa quantità e, di conseguenza, consentire ai gas inerti di essere espulsi prima. Alcune teorie dei soliti guru della domenica, sostenevano non servisse a nulla. Pretendevano anzi peggiorasse le cose infiammando gli alveoli polmonari e riducendo lo scambio gassoso. Non essendo un medico, facevo due semplici considerazioni: negli ospedali ricomprimono la gente fino a quasi tre atmosfere facendogli respirare ossigeno puro; con il mio team avevamo ottenuto buoni e costanti risultati, trattando così mdd contratte durante le immersioni. Come dicono gli yankee, funziona ciò che funziona e sapevo benissimo che la verità stava nel mezzo: l’ossigeno puro infiamma si i polmoni, ma dopo ore e ore di esposizione, come solo i grottaroli che avevano fatto notare il problema s’erano accorti a proprie spese. Gli italiani che ne blateravano, sciacquavano appena la loro attrezzatura per qualche minuto in acqua salata la domenica, se faceva bel tempo, ed erano, le loro, solo chiacchiere da bar dello sport. Ad ogni buon conto, per quel che concerneva me in quel momento, solo facendo così potevo riemergere prima del tempo indicato. Il lungo cavo di acciaio finì di entrare in acqua e, seguito da una cima bianca che lo tratteneva, scese e scomparve rapidamente. Cristiano, in quel momento, doveva essere in ginocchio sul punto dove, un’ora prima, stavo io. Avrebbe controllato che tutto procedesse bene e, in caso di intoppi, provveduto ad aiutare la testa della braca di sollevamento ad entrare nel tunnel. Avevo notato i grossi guanti di protezione che indossava per la bisogna. A circa metà dei venti e passa metri del cavo, era stata assicurata la solita

sbarra di metallo che gli avrebbe impedito di sfilarsi da una parte all’altra dello scafo, bloccandolo. Per maggiore precauzione, erano stati calcolati settanta metri di cima in discesa, segnalati da un fiocco. Appena toccava l’acqua, l’equipaggio avrebbe smesso di filare il tutto. Passata una mezza dozzina di minuti, la cima galleggiante dal lato di Alessandro perse tensione e si riavvicinò. Stava tornando indietro con la barca. Anche l’altra cima bianca si afflosciò, affondando fino al punto in cui la boa a cui era assicurata glielo consentì. Le due barche si portarono sopra di me, ormeggiandosi in fila su quel cavo. Stavo risalendo quando vidi, in basso, tra colonne di bollicine che lo precedevano, il colore rossastro della muta stagna di Cristiano. Occhi stralunati che riconobbi come miei, mi osservavano in una delle bolle semisferiche, l’immagine distorta come in uno specchio deformante al Luna Park. Grande come una medusa, simile nella forma, perdeva dietro di se una collana di bollicine perlacee, che creavano l’illusione dei sottili tentacoli diafani dell’animale. Fu un attimo, ma mi parve di vedere in quello strano specchio, appena dietro le spalle, un nutrito banco di pilota.

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«Tutto ok?», chiesi poggiando la cintura dei pesi sul piancito di assi della pedana a poppa. «Perfetto. E guarda il mare, un olio!». Ale sprizzava entusiasmo e soddisfazione. Lo capivo e ne ero partecipe. Se Cristiano confermava, la prima delle quattro brache sarebbe stata a posto. Mi aiutò a tirar su maschera, pinne e pesi. Staccai il gruppo dalla schiena e lo attaccai alla cima che andava dalla nostra poppa alla vongolara. Penzolava sciaguattando su e giù. Non c’era un alito di vento, e corrente e onde erano assenti. Uno dei pescatori, il ragazzino, sedeva con le gambe fuori dalla prua, ciondoloni, impugnando con indolenza il mezzo marinaio. «Di vedetta?», chiesi sorridendogli. Annuì addentando un panino gigante. Un pezzetto di mortadella e qualche briciola di mollica caddero in acqua. Con la coda dell’occhio colsi un lampo bianco e un’ombra scura lacerare l’acqua cristallina. Quando focalizzai lo sguardo, cerchietti ondulanti si allargavano piano lì dove avrebbe dovuto galleggiare il cibo caduto. Sollevai lo sguardo verso il ragazzo. Le orbite bianche


erano tonde e sporgenti come uova sode e facevano il paio con le guanciotte gonfie per il boccone che aveva smesso di masticare. Sorrideva affascinato e puntava il dito verso l’abisso. Lasciai il gav a mollo e mi issai a bordo, mentre lo stomaco borbottava. Non potevano essere oltre le dieci, ma stavamo in piedi dalle cinque ed ero affamato. Come i pesci… Ale mi lasciò per mettersi al telefono… Rapporto al Comandante… …e io ne approfittai per buttami su una panca e tirare fiato. Stanco… ma chi me lo fa fare?!… Boccheggiai un po’, mentre l’acqua mi evaporava dal viso e il sale si seccava tirandomi la cute. Dopo un po’ tornò e mi aprì la cerniera della muta stagna, che passava lungo la schiena da scapola a scapola. Preferivo l’altra, con apertura diagonale sul petto, che aprivo e chiudevo da solo. Ma era fradicia. Dovevo trovare i buchi da cui si allagava, pensai guardandola con astio. Ondeggiava lievemente, appesa al tettuccio parasole ad asciugare, indifferente a cotanta pigrizia. Ale si allontanò di nuovo, entrò in timoneria e uscì con una busta di plastica tra le mani. Si sedette di fronte a me e rimestò là dentro. Ne estrasse due involucri di carta argentata. Uno lo poggiò sulle sue ginocchia e l’altro me lo tirò facendolo seguire da una bottiglia di Coca Cola formato famiglia. Mangiammo i panini farciti di omelette ai funghi con voracità, e poi facemmo la gara di rutti passandoci la bibita. «Merdacchioni, se non mi avete lasciato niente, vi affogo», borbottò qualche minuto dopo Cristiano, affacciandosi a poppa. Lavorammo l’intero pomeriggio. Le due cime che salivano da poppa della Stella del Mare si erano avvicinate, toccate e, piano piano, intrecciate tra loro. Fu necessario svolgerle e provvedere a riallontanarle. Il primo a scendere a quel punto, per darci ancora un po’ di tempo di desaturazione, doveva essere Alessandro. Tutto andò alla perfezione e quando riemerse, verso le due e mezza, i primi due cavi di acciaio erano al loro posto a poppa e a prua. Guardandolo prendere fiato a poppa, diedi di gomito a Cristiano. «Hai notato che c’ha una muta nuova?» «Umpf!». Grugnì senza distrarsi dalla lettura di “Le vie dei canti” di Chatwin. «L’ho letto, carino. Dai, è nuova, e di neoprene...» «Ha cacciato quattrini?», si decise a sputar fuori, ma senza alzare gli occhi

dalle pagine del libro. «Stronzi, vi sto sentendo», disse Ale. Riaprì gli occhi e volse la testa verso di noi. «T’è cascato un timpano compa’, raccoglilo!» «Se voi due teste di cazzo urlate io sento...» «Come no? Beh, dimmi un po’, ‘sta novità? Cristiano qua non sta nella pelle per l’emozione, vuole sapere...». L’altro lo dimostrò inumidendosi l’indice dall’unghia nera per il sangue raggrumatosi sotto e voltando pagina. «Ooooh! E che vu’ sape’?» «Non so se hai copiato noi due o t’hanno regalato quella roba immonda». La muta stagna che indossava era notoriamente una porcheria, ma l’azienda veniva rappresentata dal negoziante con cui Alessandro collaborava e per cui faceva il testimonial, ricevendo spesso roba gratuitamente. A caval donato…. «Meglio di quell’altra schifezza di trilaminato...», sentenziò l’intellettuale, ostentando un falsissimo disinteresse per la conversazione, che invece seguiva attento come sempre. «Comunque avete notato che ci siamo lasciati l’ultima volta tutt’e tre con roba in trilaminato e gomma e ora vestiamo tutt’e tre neoprene precompresso?», dissi. «Eh, siamo precursori – fece Ale alzandosi e ridacchiando –, tra un anno ce l’avranno tutti dopo aver criticato a destra e a manca che le portiamo noi, e naturale come il sole, noi non ci prendiamo ‘na lira.» «Ma senti da che pulpito… glieli faccio fare io gli articoli fotografici di pubblicità aggratis, a quelle merde!» Mi guardò alzando le mani, mostrando i palmi in segno di resa: «Iam’ ‘o fràte, mettiamoci a fatiga’, ok?!» Nelle quattro ore successive preparammo le cime e tornammo giù. Prima io e poi Cristiano. Se il mare teneva ancora per qualche giorno, la mattina dopo avremmo dormito fino a tardi, ricaricato i gas nel pomeriggio e, l’indomani sul presto, passato di nuovo le cime dentro il tunnel e dietro al timone. Intanto una l’avevo portata io a prua assicurandola ad una galloccia. L’altra Cristiano, a poppa. Eravamo stanchissimi. Il sole era tramontato e si stava facendo buio. Le cime galleggianti, anche se zavorrate, richiedevano uno sforzo fisico notevole per spostarle e gestirle a ottanta metri. Oltre a tutto il codazzo di cavo che seguiva. Iniziavo ad avere freddo e la fame riprendeva a far protestare lo stomaco. «Mi mangerei un bue.», disse Cristiano come se mi avesse letto nel pensiero.

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«Oh, Crì, digli di schiodare, dai!», lo esortai ridacchiando tra me e me per come a volte sembravamo dei personaggi di fumetti: Cristiano in quel momento mi faceva venire in mente Obelix che agogna un intero cinghiale per sé… Alessandro saltava da poppa a prua. Anfetaminico, parlava con i pescatori, telefonava, metteva in ordine e perdeva tempo. «Daiii...», mi lamentai. «Scusa, di a loro di sistemare le cime e le boe e noi andiamo», suggerì Cristiano. Anche Alessandro doveva essere stanco. Con nostra sorpresa accettò il consiglio. Diede alcuni suggerimenti e si mosse per accendere il motore. Accompagnai Cristiano a prora e disormeggiammo. In acqua galleggiavano le due enormi matasse di oltre novanta metri ciascuna. Parti che andavano passate sotto il relitto risalendo dall’altra fiancata. «Pensa se prendono l’elica...», mormorò Cristiano, guardando con preoccupazione la vongolara. Le manovre erano confuse, a scatti, avanti e dietro, e i tre urlavano sguaiati. Dovevano essere cotti e di malumore. Quattordici ore ininterrotte di mare… Toccai i gioielli di famiglia in automatico e feci corna con ostentazione. «Per carità… io non torno indietro!», dissi. Navigavamo da un quarto d’ora. Napoli scintillava. Da Mergellina, che costeggiavamo in quel momento, un’ininterrotta scia di luci rosse e gialle, con pochi bagliori di azzurrino, scorrevano verso Castel dell’Ovo. Gradivo in modo particolare quando il serpente colorato frenava, con quell’esplosione infuocata che si rifletteva nell’acqua infiammandola, mentre la colonna fremeva dalla testa alla coda. «Aperitivo?», chiesi ad Ale, sostando sulla porta della timoneria. Andavamo a volte nei locali sul lungomare e sotto il Castello. Lui adorava quei posti. Pieni di giovani à la page e di tenere pollastrelle da corteggiare. Personalmente quelle gliele lasciavo tutte. Per fartela dare, dovevi trascinarla alla lunga. Con tutto il dispiegamento di serate in discoteca, puttanate sui rapporti d’amore e monogamia cui nessuna delle parti credeva… e altre menate insopportabili. Ale era attrezzatissimo per quel genere di rapporti, e le continue chiamate e SMS al cellulare testimoniavano un’intensa attività di prese per i fondelli con le ragazze di turno. Squillò il suo Motorola: Appunto, pensai. «Si… Cosa?… si… no… no… si… Va bo’… si, si, va bo’… Arrivia-mo.»,

disse atono. «Scommetti?», mi sussurrò all’orecchio Cristiano, apparso silenzioso come un’ombra alle mie spalle. Mi poggiò la mano sulla spalla. «Si sono impigliati su una cima. E’ entrata nell’elica…», confermò Ale, girando a tutta manovella il timone e dando motore. La mano di Cristiano diventò una morsa serratasi sulla mia clavicola e chiesi senza volerlo davvero «Quando?» «Poco dopo che ci siamo mossi. Hanno provato da soli ma… niente. E’ dentro l’albero dell’elica e si è tesa. Se la tagliano gli resta dentro comunque. Ci vuole una bombola.» «Sublime». Ogni tanto mi piaceva rubare la battuta dell’Ispettore Callaghan, o almeno la traduzione del suo doppiatore italiano. Navigammo in silenzio. L’acqua sciabordava lungo le fiancate e le gocce a prua catturavano e rimandavano, amplificate, le luci della città e del Golfo, per poi ricadere nella pozza di mercurio scuro. «Ma che palle», mi lamentai. L’ischitano si era disteso e coperto con un asciugamano. Aveva anche fatto un cuscino sprimacciando la sua giacca a vento e s’era coperto gli occhi con la visiera di un berretto Adidas. Chissà chi doveva farsi il bagnetto fuori programma. La luce bianca sopra la cabina era ben visibile, per cui, rassegnato, cercai un coltello da cucina a seghetto e controllai quanta aria restava nella bombola da piscina. Era quella senza gav, con uno schienalino in PVC rigido, due bretelle e la cintura. La usavamo per i lavoretti sotto la barca e le emergenze a bassa profondità o per comunicazioni con quelli in deco. Mi sfilai le scarpe e meditai se indossare la muta. Era umidiccia e fredda. Il sottomuta, a quell’ora e con quell’umidità, oltre al sudore stantio e l’acqua di mare di cui era impregnato, mi attirava come un calcio nelle palle. Tolsi la felpa e la T-shirt, rimanendo in costume. Non mi venne la pelle d’oca. Si può fare, pensai. «Oh, sveglia. Qualcuno a prua!» urlò Alessandro. Ci andai io e, passando lungo la cabina, lo sguardo cadde sulla massa di galleggianti della rete che stavamo superando. Non c’era la luna, ma il mare era così calmo che la luce delle stelle vi si rifletteva e l’ombra scura risultava in rilievo. Alessandro aveva rinunciato a recuperarla. «Ho sognato che mi catturava e mi uccideva. E ammazzava pure te – aveva detto motivando il ripensamento – La tiriamo via alla fine», era stata la

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conclusione. S’è preso paura seria, mi era venuto da pensare, visto che a quel punto, con la Stella fuori dall’acqua, i pescatori l’avrebbero recuperata senza pagarlo per quell’extra, tagliando in superficie il cavo d’acciaio che la collegava al relitto. Certe premonizioni, chiamiamole così, come sia sia è meglio prenderle alla lettera. «Buona sera», mi salutò uno dall’equipaggio della vongolara. Non afferrai una qualche traccia di ironia e ricambiai cercando di essere cortese. «Occhio!», urlai lanciandogli la cima. Quando le due barche furono affiancate mi diressi a poppa. «Mappina, me’, alzati», disse Alessandro scuotendo il nostro amico, ancora disteso con aria vaga. Cristiano si era tolto il berretto dagli occhi, ma li strizzava e si strofinava la radice del naso. Passò a una esplorazione dello stato della Tromba di Eustachio e, con fare soddisfatto, si guardò la palletta di cerume raccolto con l’unghia. Misi in spalla la bombola e raccolsi pinne e coltello. Prima di scendere sulla piattaforma di poppa, infilai l’arnese nella cintura della zavorra e raccolsi la maschera dalla panca, sputando sul vetro e strofinando con l’indice la saliva. Indossai le pinne e mi tuffai, sprofondando qualche metro sotto. Le bollicine risplendevano nel liquido ardesia. Ale puntava un faro verso la poppa della vongolara, ma riuscivo a distinguere bene anche senza quella luce artificiale il profilo della matassa di cima, il timone e la chiglia. Nuotai allagandomi la maschera ed espirandoci dentro dal naso, per ripulirla dalla saliva e svuotarla. L’acqua era fredda, ma sopportabile. Con la mano destra protessi la testa dalla chiglia, aiutandomi poi con l’altra per passarci sotto in posizione eretta, senza nuotare. La cima fu subito a portata e la usai per raggiungere l’elica. Palpandone la superficie, notai che era avvoltolata in molti giri sull’ottone dietro le pale e, purtroppo, attorno all’albero d’acciaio, nello spazio tra scafo ed elica. Sotto i polpastrelli, palline di plastica confermavano la peggiore delle ipotesi. «Ahi!», esclamai mentre prendevo il coltello per segare il polipropilene, saldatosi in un’unica massa per il calore dell’attrito con l’asse dell’elica. Qualcosa mi aveva pizzicato alla coscia destra. Ci mancavano le meduse, pensai dandomi del solito idiota pigro, per non essermi coperto. Portai pazienza poggiando la lama dentellata sulla plastica e cominciando a intaccarla con il movimento avanti e indietro. Ma che cazz’…

Un altro pizzico. Due. Tre… Quattro… Ohoh, che coglioni… Dovevano essere tutt’intorno. Era il caso di uscire… Ma ho quasi finito, non mi va di uscire, vestirmi, rientrare, ahia… Il coltello si mosse freneticamente, ondeggiando per la spinta che imprimevo con forza sulla cima fusa. Poi fu un irrompere del dolore in tutto il corpo. Mille, un milione di spilloni che si conficcavano in ogni poro violandolo, squarciandolo. Quella sensazione era paragonabile all’effetto di una pera di morfina che avevo sperimentato una sera in discoteca trentanni prima, ma infinitamente più intensa e la sofferenza incomparabile, anche perché cresceva e lievitava invece di spegnersi nell’ottundimento tossico. Quando infine il cavo fu tagliato e liberò la presa sulla vongolara, la trazione di entrambe le barche collegate dalle cime provocò un brusco strattone, costringendo i pescatori e i miei due amici ad aggrapparsi alle murate e gli uni agli altri, cercando di non cadere. Ci fu un’altra scossa, più piccola, un ondeggiamento trasmesso da una barca all’altra e poi più niente. La poppa si allontanò di poco più di un metro dal cerchio di bolle che salivano dal basso, fuoriuscendo dalla mia bocca, formando anelli concentrici come il rewind del lancio di una pietra nell’acqua immota. Alessandro si piegò sulle ginocchia e guardò senza comprendere. Vedeva il mio corpo, una sagoma biancastra e indistinta confusa tra le bolle, verdognola e fluorescente come un organismo alieno. C’era come una nuvola in movimento che lo attraversava, a tratti coprendolo del tutto. Sembrava quasi… …uno sciame di api… …qualcosa di concreto, di vivo. Il quadro diventava di attimo in attimo più inquietante, e quella che sembrava uscire da una massa nera a lampi bianchi, che aveva ricoperto il subacqueo seminudo, poteva mai essere… …una mano! D’istinto allungò la propria in acqua, verso la cosa, per afferrarla. Ed ecco: una seconda nuvola, questa densa e uniforme, si materializzava da quel grumo sprofondante. Un pizzico alle dita lo sorprese e gli fece ritirare il braccio di scatto. Cristiano aveva puntato la luce verso l’acqua. Osservò con orrore quella lieve colorazione rosata sgocciolante dal suo arto. La luce continuò a muoversi, illuminando il mare che non ribolliva più.

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Non si vedeva più nulla. Solo una macchia che sembrava sangue, sulla superficie. Appena sotto, entrando e uscendo dalla chiazza rossa, nuotava pigro un pesciolino nero a strie bianche. La bocca aperta, a scoprire i minuscoli denti aguzzi…

V. Per un pugno di dollari Die by my hand I creep across the land Killing first– born man Creeping Death, Metallica

La schiena e un piede dolorante addossati alla facciata di un palazzo di pietra color senape, leggevo gli annunci, tenendo un po’ nascosta la pagina del Mattino ai passanti. A.A.A. Splendida mora ventiduenne, completa, ambiente raffinato, solo distinti. tel. xxxxxx. Una pioggerellina leggera cadeva incessante dalla notte. Alessandro aveva chiamato alle cinque meno un quarto per disdire. Avrebbe approfittato per sistemare alcune pratiche e farsi un turno al Servizio Navale. Se migliorava, saremmo usciti nel pomeriggio. In caso contrario appuntamento davanti al Mc Donald’s e via in sede a caricare gas e fare un po’ di manutenzione. A.A.A. Quarta misura, bionda statuaria, solo oggi, ingresso autonomo, via xxxxxx, tel. yyyyyy. Le punte di metallo di un ombrello rischiarono di cecarmi un occhio. La signora grassa trascinava due marmocchi urlanti e aveva le braccia cariche di sporte di plastica grigia a strisce longitudinali bordeaux. Non mi filò di pezza e proseguì a passo di marcia chissà per dove. Ritornai alle mie letture scuotendo la testa. A.A.A. Brasiliana, diciannovenne, mulatta, appena arrivata, quinta, piedini, anche educazione, via xxxxxx, tel. yyyyyy. Sul ”diciannovenne” avevo qualche dubbio, ma presi in considerazione “piedini” e “anche educazione”. Disponibile al feticismo e al sadomaso, poteva riservare qualche sorpresa. Andare a puttane si rivelava di solito un’impresa frustrante. Il piacere era per lo più nella fase dell’anticipazione fantastica. Cercare tra le inserzioni, godersi il momento di aspettativa, il leggero frison nello sfiorare la folla per strada, ignara della tua diversità di obiettivo e destinazione. Sotto i palazzi, davanti ai portoni, il momento magico nel premere il pulsante del citofono, sempre senza nome, con quel numero o sigla dall’apparenza

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anonima, che sembrava splendere accecante come un faro colorato tra il grigiume e lo squallore circostanti. Appoggiando il dito sul tasto, l’impressione immediata ed eccitante di trasformarsi in un uomo sandwich, con tanto di scritte al neon colorate urlanti: “Ehi, quest’uomo va a puttane!!!” Ogni tanto non rispondevano, e le immaginavi all’opera. Potevi passeggiare con aria svagata in attesa di veder uscire quello prima di te, sempre così riconoscibile. Uno sguardo sospetto a destra e uno a sinistra, la testa incassata tra le spalle. Il portone si chiudeva dietro di loro con un tonfo sordo e, stando attenti, li si vedeva sobbalzare, svuotati nei lombi e tesi come corde. Quante puttane ho pagato. E quanti uomini ho visto arrivare, uscire, precedermi o succedermi. Garibaldi. Splendida, esotica bellezza sudamericana, sesta misura, atti-va passiva, grosso giocattolo, lunghi preliminari, via xxxxxx, tel. yyyyyy. Un trans. Appena uscito di galera, nel ’93, non c’erano molte inserzioni, nemmeno nella capitale, dove scontavo gli ultimi anni di semilibertà, lavorando (per modo di dire…) a due passi dal Ministero degli Interni. L’Esquilino era ancora il quartiere della Suburra, con una veneranda tradizione nell’ospitare peripatetiche, che risaliva all’antica Roma. In meno di cinque anni, la proporzione tra donne dotate di “giocattolo” e passere standard, era passata da uno a dieci a quattro volte tanto. Trovavo buffo ascoltare i pareri della gente sulla prostituzione. Non c’è alcun dubbio sul fatto che sia un mestiere di merda. Bastava andarci, a mignotte, per rendersene conto. Scocciate, incazzate con il mondo; spesso, per non dire quasi sempre, sciatte e distanti anni luce dall’immagine del sesso trasgressivo e appagante. La dicevano lunga su una clientela il più delle volte orripilante, sporca e puzzolente. Desideravano con tutto il cuore solo che fosse quanto più arrapata e afflitta da eiaculatio precox possibile e, deo gratias, minidotata. Un coniglio con il bastone del comando da puffo era appena accettabile rispetto al top del “cliente ideale”: quello così eccitato o problematico da pagare e restare lì, con il pezzo di bollito moscio e raggrinzito in mano, senza saperne che fare. Due sbuffi e l’aria corrucciata che non ammetteva repliche e seconda chance, portavano i malcapitati alla porta. Se mogli e fidanzate avessero davvero idea di quanti, tra coloro che negano spudoratamente – e, magari, inveiscono pure… – contro la Babilonia, le strade di Sodoma e Gomorra, frequentano clandestinamente i vari tipi di mignotte… Non solo. Se avessero anche occasione di vedere quanto poco ciò sia appagante nel senso classico del termine, (ovvero per il soddisfacimento dell’atto vero e proprio), dovrebbero fare i conti con una consapevolezza forse

insopportabile della tristezza dei propri talami. Meditando allegro su queste profonde analisi psicoantropologiche, avevo ripiegato il quotidiano e me ne andavo rasente i muri verso la mia meta. Conoscevo un po’ di nomi delle vie circostanti la piazza della stazione centrale, e se c’era solo il numero del telefono fisso, potevo stabilire se la zona era quella. La brasiliana fetishsm sembrava promettente. Dopo un po’ (un bel po’) di esperienze pessime, mi ero fatto una certa esperienza. Più prestazioni brillanti venivano pubblicizzate, più era possibile beccare una che cercasse nella routine e nello schifo una puntata vincente. L’orario era buono, in apertura. La sera o già nel pomeriggio, dopo dieci, venti clienti, erano stanche, schifate, fisicamente doloranti. Mi era capitato di vederle cercare di trattenere l’uccello tra le cosce, per non farsi penetrare. Non il massimo della vita, se il tuo obiettivo è una sana scopata senza pensieri. Il palazzo era un casermone poco distante. Si accedeva nel cortile interno dal portone d’epoca fascista, per poi entrare nell’androne delle varie scalinate. Uhm… Scala C, quinto piano… Citofono n.12, ripassai guardandomi attorno. Stentate palmette, qualche chicas giallastra e dall’aria malmessa, si facevano largo tra cartacce e immondizia varia nelle quattro aiole. Il jingle di “Mission Impossible” scaturì improvviso dalla tasca del mio gilet trapuntato Levi’s grigioverde. «Si? Ah, ciao Claudia. Dimmi… no, sono in giro, stamattina niente, usciamo forse nel pomeriggio…tu? Le bambine? …ah… si… no… ok. Ma che fai, vieni? Si, si, va bene. Allora ne parliamo stasera, baci». Strano come il gatto sia sempre sveglio, quando il topo è distratto dal profumo e dalla vista del formaggio. In realtà, la mia donna non aveva poi tanto da dire sulla frequentazione delle peripatetiche. Praticavamo insieme varie divagazioni sul tema, coppia aperta, scambismo, cosiddette “perversioni”. Più che altro mi scocciava ammettere di buttare soldi del bilancio familiare così, con quello che alla fin fine era poco più di una performance del gratuito uno contro cinque. Certo, mi giustificavo comparando le mie spese alle sue in pacchetti di sigarette, ma era un’autoassoluzione solitaria. E poi, la gran parte del gusto stava proprio nel celare al mondo quell’hobby privato. Spensi il cellulare e mi feci la rampa sentendo la curiosità e l’eccitazione farsi strada, un sorta di nodo alle visceri che si trasformava in lama infuocata penetrante il basso ventre. Mi stava già diventando duro e fremetti nell’attesa che aprisse la porta,

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dopo aver suonato il campanello. Aprì una ragazza pienotta sui venticinque, carina. Era seminuda, abbigliata in una brutta e lisa sottoveste rosso scuro, di pizzo traforato e trasparente che non nascondeva alla vista nulla del corpo sodo di mulatta. Sorrise e mi invitò ad entrare. «Sono ottanta per bocca e fica», disse accattivante nella contrattazione, con un musicale accento portoghese. Non era cara, con una media di cento, e soprattutto evitava l’aria da funerale della gran parte delle colleghe. Visto l’orario e le condizioni dell’appartamento, decisi che c’era una gran possibilità di sbancare se avessi puntato tutto sull’essere il primo della giornata. Di solito affittavano camere ammobiliate da vecchie passeggiatrici in pensione. Mi era capitato di scoparmene qualcuna, specialmente albanesi e slave, mentre la megera cucinava la pasta o il minestrone dietro una tenda. I locali erano brutti, fatiscenti, arredati nei modi più astrusi e diversi, dal mobilio ottocentesco al lamellare e formica delle rivendite all’ingrosso. Alle volte, i tentativi di farne dei veri e propri boudoirs, sfociavano nel patetico. Lontani mille miglia da quelli della Pompadour, non arrivavano nemmeno a quelli delle bambinacce di von Bayros, per citare Arbassino. Il mio gusto per le situazioni paradossali trovava quelle occasioni strepitose. La sudamericana mi guidò in camera da letto. Su un comò spiccava un frustino e un paio di manette. Si buttò sul letto e mi disse «Vieni» con una risata squillante. Posai i soldi vicino al pacchetto di fazzoletti, lasciato al piede di un abat-jour coperto da un velo rosso, sul comodino a fianco della testata. Iniziai a togliermi le scarpe. Odiavo l’immagine dell’uomo nudo, in camicia o canotta e pedalini ai piedi. Forse in quei casi era poco igienico, ma preferivo curarmi due funghi, che sentirmi così squallido. Apprezzò: «Uhm, un ragazzo che si leva le calze prima dei pantaloni...». Mi voltai a guardarla, le mani ancora sulla cintura. «Ti fai leccare?», chiesi di impulso. C’erano regole abbastanza precise, alla fin fine. Le puttane di colore, troppo povere e per lo più clandestine e sfruttate, che battevano per strada, rifiutavano qualsiasi proposta o pratica che potesse portare, anche per caso, a un forma di piacere. Rigide, vendevano il corpo come un pezzo di carne morta. Le novizie, giovanissime e ancora non desensibilizzate e abbruttite, potevano scoppiare a piangere se le tentazioni e i recettori nervosi le tradivano, facendo provare un accenno di piacere fisico del tutto involontario. Ti veniva voglia di accarez-

zargli la testa e metterti in fila con i preti impegnati nel tentativo di salvarle da quel mercato di carne. Le slave e le bianche in genere, sia per strada che in una casa chiusa, volevano solo i soldi e fare presto. Masticavano una gomma guardando altrove, erano ostili e fredde. Ma a qualcuna, alle volte, piaceva e si toglieva uno sfizio. Restò un attimo a osservarmi, la testa appoggiata a un cuscino. Poi si decise e, alzatasi, mi prese per mano portandomi, senza una parola, verso il bagno. Aprì la patta dei jeans e slacciò la cintura, tirandomi fuori il pene dai boxer e scappellandolo. Con l’altra mano, mentre me lo teneva e stringeva piano, aprì l’acqua e si accertò della temperatura. Dopo avermelo lavato con un sapone liquido poggiato sul lavabo, me lo asciugò e mi abbassò un altro po’ i pantaloni, chinandosi per prenderlo in bocca. Era calda e umida e fui pronto in un secondo. Si staccò e si mise a gambe larghe sul bidè lavandosi a sua volta. Aveva l’espressione di un grosso micione che si sta per pappare il canarino. Tornammo sul letto e fummo subito avvinghiati in un frenetico sessantanove. Rendendomi conto che si era eccitata davvero, e che spingeva il Monte di Venere per cercare di venire, fui colto da un attimo di panico. La situazione mi faceva eccitare troppo e rischiavo di avere un orgasmo prima di lei. Pensa che idiota se sborro con questa. E’ una occasione più unica che rara e le faccio passare la fantasia per sempre. Ero indeciso se cotanto altruismo fosse a fin di bene per la categoria dei puttanieri o una chance per il sottoscritto di trovare un’ottima chiattella in quella città. Non capitava mai di tornare dalla stessa, cambiare di continuo era parte integrante del gioco, ma lì si poteva ipotizzare un’eccezione. Spostai il corpo togliendole di bocca l’arnese a rischio e mi dedicai a lei con attenzione. Quando prese a due mani la testa, spingendola e guidandomi lingua e pressione, ringraziai la mia preveggenza. Sarei esploso se nel frattempo avesse continuato a lavorarmi. Venne lei, invece, e a lungo. Era dolce e succulenta. Ricordai quanto prendevamo per i fondelli un ragazzo romano nella sezione di massima sicurezza della Casa Circondariale di Novara, all’inizio dell’82. Affacciati per ore alle sbarre dei cancelli delle celle singole, passavamo il tempo tra un po’ di tv, sessioni di ginnastica e lunghe letture, raccontandoci storie di fuori. Erano i primi anni, l’inizio dei quindici natali, pasque e capodanni che avrei passato dietro le sbarre, e ciascuno portava dalla libertà ricordi e aneddoti che, più in là, ripetuti alla nausea, avrebbero perso freschezza e vigore per ingiallire stantii e coperti di polvere, come fotografie diventate testimonianze dolorose, rappresentanti ormai solo l’evidenza di un passato bruciato e di un

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presente perduto. Lo breccolavamo, bigotti, facendo sporgere bocche e mani ancora giovani dalle cancellate, perché ammetteva di godere nel leccare la fica delle puttane. Ora, anzi da un bel po’, con tanti capelli diventati bianchi là dentro, lo capivo. Appagata, la puttana brasilera mi tirò su e si mise in bocca il preservativo ancora arrotolato. Con pochi colpi di labbra, lingua e vari risucchi, me lo infilò, andando poi su e giù lungo l’asta. Forse stava pensando a una seconda, perché quando le venni dentro, dopo pochi colpi di reni, mi guardò con aria di riprovazione. Le sfilai l’uccello dalla fica color ebano e ricambiai con un’espressione di piacere che dovette sembrarle buffa. «Torni, tesoro?», chiese ridendo. «Oh, contaci, contaci di sicuro!!». Non tornai più, per tutto il periodo di recupero della Stella del Mare. La beccai per caso, un paio di anni dopo, in un altro appartamento, durante un viaggio a Napoli. Ci ricordammo entrambi l’uno dell’altra, e facemmo un bis altrettanto inaspettato e soddisfacente. Arrivai, come al solito, sul peschereccio, assicurando la bombola di emergenza della miscela di fondo alla struttura della gru, che a centro nave serviva a tirare a bordo i tonni, pesanti anche fino a cinquecento chili. Diedi un’occhiata a Cristiano, che stava facendo qualcosa sulla murata di sinistra, e pinneggiai verso poppa. Scesi posandomi sul ponte e poi lo scavalcai tirandomi oltre il parapetto, iniziando a seguire il cavo che, posatosi sul fondo fangoso, era in parte affondato. Il pallone da mille chili di spinta era già stato assicurato nell’immersione precedente e galleggiava, reso positivo da un po’ di aria. Avevo un’altra bombola, da quindici litri, appesa davanti. Mi misi sotto il pallone e cominciai a gonfiarlo aprendo il rubinetto. In poco tempo, i tremila litri di aria contenuti nella bottiglia di ferro si riversarono nell’involucro di plastica, sollevando il tutto. Mi appesi sotto il pallone e mi lasciai portare fino a quasi sessanta metri. I cavi erano stati precedentemente assicurati allo scafo, di modo che una quantità eccessiva di aria non mandasse a monte il lavoro sparandoli verso la superficie. Quello su cui lavoravo si mise in tensione, restando sulla perpendicolare della nave. Sotto di me vedevo Cristiano armeggiare sempre sulla murata sinistra. Salii sopra il pallone, dove si trovava la valvola, iniziando a espellere un

po’ d’aria. Mentre cominciavo a spingerlo in basso, verso il centro del peschereccio, la mia posizione cambiò. Ora stavo con le pinne verso la superficie e la testa in basso. Diedi un respirata… e stavo per affogare. Acqua. Respiravo acqua? Nei polmoni mi doveva essere entrato un secchio intero di liquido. Gli occhi mi si appannarono e cominciai a tossire. Provai a dare con cautela un’altra respirata, ma niente. Era proprio fottutissima acqua. Non riuscivo a capacitarmi di cosa fosse successo e stavo decidendo che fare in frazioni di secondo, perché non respiravo, ero in apnea con conati di vomito e tosse convulsa. Le bombole sulle spalle erano separate tra loro. Sperando fosse un problema dell’erogatore, passai a quello dell’altra, con il medesimo risultato, ancora acqua. Tra le lacrime, vedevo la Stella del Mare come un’ombra blu scuro nell’indaco. In questi casi la gente va in panico e parte verso la superficie. Da sessanta metri, in apnea, si muore cercando una salvezza impossibile da raggiungere. Per noi, lì, era diverso. Lavoravamo a casa nostra. Scesi verso il basso trattenendo il respiro. Sputacchiavo, tossivo e borbottavo furioso. Istintivamente mi diressi verso Cristiano, scendendo sul ponte. Messomi in ginocchio, gli feci il cenno convenzionale di esaurimento dell’aria, con un altro che lo invitava a raggiungermi. Stava oltre il bordo esterno, vedevo la testa e parte del busto, le braccia all’interno della murata, concentrato su qualche nodo. Sollevò appena lo sguardo, mi fissò mezzo secondo e abbassò la testa, scuotendola in segno di rifiuto. Come sarebbe a dire… In superficie, più tardi, negò di essersi messo a ridere. Ma lo fece strizzando gli occhi e le labbra, con quella faccia di bronzo che assumeva quando prendeva in giro qualcuno e cercava di non far trapelare il riso che lo scuoteva dentro. Non stetti a pensarci su, lì ci morivo. Tra andare verso di lui e strappargli a cazzotti un erogatore utile oppure pinneggiare di fretta e furia verso la bombola di sicurezza, scelsi per quest’ultima. Non per niente, ma in quel momento mi stava decisamente più simpatica. Arrivai alla gru e cercai di aprire il rubinetto. Incominciavo a perdere forza e lucidità e, ostinato pezzo di metallo, non girava. Finalmente fece il suo dovere. Staccai la 10 litri dalla struttura metallica e me ne tornai in superficie. Vicino alla nostra barca, quando riemersi, c’era una motovedetta della Polizia che era venuta a trovarci. Conoscevamo bene tutti, soprattutto un sommozzatore. Guardavano con interesse il nostro armamentario.

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Intanto stavamo cercando di capire cos’era successo. Gli erogatori erano a posto, e adesso, respirandoci, davano gas come se nulla fosse accaduto. Non mi ero nemmeno tolto la muta, guardavo con sospetto la mia attrezzatura, divenuta improvvisamente ostile. Alessandro scese sulla piattaforma di poppa per spostare, all’interno della barca, il bibombola. «Uaneme, e che r é. Che c’hai quaddentro, il piombo?» Ci guardammo. Spostammo lo sguardo sulle bombole. Ci guardammo di nuovo. Saltò oltre lo specchio di poppa e si diresse alla cabina di comando, da dove uscì poco dopo con un martello dalla testa di gomma. Con gesti rapidi e sicuri, svitò il primo stadio della rubinetteria di una delle bottiglie, e apri il flusso del gas alla massima potenza. Il rubinetto si congelò rapidamente, emettendo un rumore assordante. I gas compressi, se lasciati disperdere nell’ambiente liberamente, producono il raffreddamento dei condotti attraverso cui passano. Il vapore acqueo sul metallo si trasformò in brina. Normalmente, all’interno, questa formazione di ghiaccio ostruisce il piccolo foro da cui passa il gas, ma in quel caso ce n’era ancora poco, per cui terminò prima che si formasse la gelida occlusione. Con un paio di colpi sulla manopola, il rubinetto ruotò su se stesso, la resistenza diminuì e fu possibile svitarlo dal collo del recipiente. La barca della Polizia era ormai a soli due o tre metri da noi, e ondeggiava dolcemente a poppa. Tre paia d’occhi osservavano curiosi e interessati le manovre. Girammo il bibo verso l’acqua, rovesciandolo. Dall’apertura uscirono almeno otto litri di acqua marrone mista a schiuma giallastra. Qualcuno emise un ohhhhhh, dall’altra imbarcazione. «Oh, ma che sfaccimme è?». Prima che io potessi reagire alla domanda che gli era stata rivolta, Alessandro rispose guardandomi dritto negli occhi, con un sorriso che glieli faceva brillare perfidamente. «Idrox! Ma si proprie ‘gnorant’ oh, e che cazzo di sommozzatore… E’ una miscela speciiiiaaale, per alta profondità!». Per giorni e giorni, avevo ricaricato le mie bombole su un “fondo” di acqua, entrata probabilmente durante qualche immersione in cui avevo completamente esaurito il gas sul fondo. Avevamo assemblato i bibombola con rubinetterie doppie, utilizzate solitamente in immersioni ricreative, per mettere su un’unica bottiglia due primi stadi ed evitare di usare l’octopus. Evidentemente il rubinetto si era aperto sfregando su una cima e urtando una delle bombole appese qua e là in deco.

Stanchi e assonnati, a quelle quote eravamo indifferenti a colpi e rumori. O forse era stato un colpo casuale, dato con le pinne da uno dei miei compagni. Fatto sta che era entrata acqua e io non me ne ero accorto.

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«Dobbiamo cambiare sistema, potevo ammazzarmi come un coglione.» Guardavamo le bombole senza rubinetteria, appoggiate a terra al centro del locale di Ale. «Come abbiamo fatto a non accorgercene?», chiese toccandosi il mento. «Boh?! E’ che sono così stanco in superficie… Non riesco a capire ma è l’unica spiegazione, non ho mai sentito la differenza. Quanti chili in più potevano essere? Cinque, sei?» «Di più. Erano almeno cinque litri in ogni bombola. Però ti aiutiamo, io e Cristiano. Come cazzo abbiamo fatto noi?» «E’ che in fondo siamo stanchi tutti Ale, dobbiamo cominciare a stare attenti. Sul serio. – guardai con sospetto le bombole di stoccaggio addossate alla parete – Ma cosa avrò respirato?» «Naaa, sempre lo stesso. Abbiamo caricato per percentuali sulla pressione residua. La miscela era la stessa, cambiava solo la quantità reale.» «Quindi esaurivo la carica più in fretta del solito e non ce ne siamo accorti. Troppa disattenzione, così ci scappa il morto.» Sbuffò. «E cosa dobbiamo fare? Carichiamo di corsa la sera e a volte io lo faccio di notte. Il mare è quasi sempre ‘na chiavica, se non approfittiamo delle occasioni buone, quando finiamo?» Aveva ragione, ma era quello il modo in cui succedeva un incidente. Concatenazioni che portavano al morto, prima o poi. «Mi stanno facendo un sacco di pressioni. Ieri stavo per spaccare la faccia a uno dei fratelli», continuò irato. «Ok, ok, cerchiamo di aprire gli occhi. Andiamo a mangiare e a nanna, dai.». «Non vuoi venire a Mergellina? Ti faccio conoscere un paio di amiche...», propose con gli occhi scintillanti. Ah, il sesso, come faremmo senza? Era un interrogativo che mi ponevo da sempre, si può dire. Niente affatto una questione di mero accoppiamento. Avevo passato la mia


vita, dai ventuno ai trentatré anni, in carcere, senza dedicarmi a consolazioni omosessuali. A un certo punto, verso l’86, una nuova “deriva” del fenomeno di disgregazione dei movimenti antagonisti, aveva inventato il fenomeno della dissociazione politica rivendicata con la pratica, o comunque la teorizzazione, dell’omosessualità. In realtà episodio storicamente effimero e marginale, limitato nel tempo e anche nello spazio alla sola sezione G8 del carcere di Rebibbia, che faceva seguito ad altre e più blasonate forme di resa dichiarata. La più seguita e fattiva dal punto di vista dell’ottimizzazione del risultato restava, senza alcun dubbio, sposare una rilettura del proprio operato e di quello della lotta armata, funzionale all’impianto accusatorio e alla ricostruzione politica dei Pubblici Ministeri, da cui si dipendeva. Seguiva come buona alternativa la cosiddetta “Via di Damasco” o “Illuminazione della Madonna”. La conversione religiosa filocristiana era infatti un ottimo viatico, anche per appoggi futuri, in quello che veniva chiamato “processo di reinserimento”. Eppure dichiararsi checche, per un po’, sembrò ad alcuni scoppiati un buon sistema per aspirare a condizioni di detenzione migliori e prospettive accelerate di uscita dal tunnel. A parte ciò, il mondo carcerario era molto diverso da quel che si vedeva nei filmacci americani di genere. Genericamente si poteva affermare, senza tema di smentite, che mancava una sia pur minima pulsione al palliativo della “carne di porco”. C’era da fare i conti con un fortissimo controllo sociale. I malavitosi, sempre attivi nel cane-mangia-cane, cercavano categorie “inferiori” su cui sfogare l’aggressività e il desiderio di vendicarsi delle prepotenze del sistema carcerario. Picchiare una guardia durante le frequenti divergenze era pratica rara e tutto sommato suicida, ma massacrare un pedofilo o un frocio veniva quasi tollerato dallo stesso Sistema. Non come sembra dai film americani ma insomma, ci si andava vicini. Poteva addirittura restare impunito, per cui i rappresentanti della categoria gay venivano separati dal mucchio di default, o lo richiedevano espressamente se qualcuno del guardiame si distraeva dai compiti di vigilanza e prevenzione. Eppure il sesso scorreva a fiotti tra le sbarre, come i bilioni di spermatozoi raccolti dal sistema fognario tra i cartocci buttati nei cessi e l’acqua delle docce e delle lavanderie interne, che ripulivano le lenzuola ogni settimana. Ci eravamo scambiati riviste pornografiche su cui sognare smanettando a gogò, e avevamo fantasticato sul “dopo” almeno per otto delle ventiquattrore di ogni santo giorno.

«Ok, vengo, vengo. Ma si scopa o perdiamo solo tempo?» «Ah, mappina, si fotte, si chiava, si fa drum drum! Devo incontrare una che mi piace, ma all’una viene quella che ti ho detto, l’assatanata...», disse. «All’una… daiiii, ma io non ce la faccio ad alzarmi alle cinque, poi! Oh, a me mi lasci sulla barca, su, dormo lì!», mi lagnai. «Poi vediamo, me’, usciamo», rispose raccattando le chiavi dell’auto poggiate sul tavolino. Andammo a mangiare una pizza, poi scendemmo a Mergellina. Ale parcheggiò davanti a un bar fighetto, su via Chiaia, di fronte alla Villa Comunale. Ci sedemmo al tavolino libero più vicino. Una candelina da cimitero galleggiava accesa in un bicchiere d’acqua. «Dovremmo mettere in funzione la bara», dissi per associazione di idee. «Uhm, si, forse». Guardava il flusso di auto ininterrotto, cercando qualcuno. «Ma lo sai che Franco s’è fatto femmina?», sbottò. A proposito di frocerie… «O’vere?». Ogni tanto mi usciva una frase in dialetto locale. Ho sempre succhiato le inflessioni dei posti in cui vivo, cannibalizzando pronunce e modi di dire. Il napoletano, in realtà, lo odiavo. Mi ricordava i camorristi con cui ero stato in contatto dietro le sbarre. Brutta razza. A proposito di razzismo tra dannati… «Eh, cazzimme, di tu mo’. Si è fatto le punture per il seno e veste da donna». «Bleeeeeeh!», feci con una smorfia. «Siiii, bruuuuuutto! Non puoi capire...» «Alessaà...», chiamò un tipo da una Mazda decappottabile, parcheggiata in doppia fila. Alessandro si alzò, andandoci a parlare, poi mi fece cenno di schiodare da lì. Risalimmo in auto. «Beh?» «La ragazza sta in un locale sopra il Castello Angioino», rispose guardando indietro per fare retromarcia. Mi diede un buffo sulla nuca con la mano appoggiata al mio sedile e mi rassicurò. «Si scopa, tranquillo!», sghignazzò mentre sgommava al semaforo di piaz-

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Accoppiarsi non era fondamentale, immaginare si. Almeno finché non si poteva altrimenti.


za della Repubblica per invertire la marcia e immettersi su via Caracciolo. «Sarà… Guarda che ti hanno luccato brutto… », lo avvertii, accennando col mento alla pattuglia di Carabinieri di guardia a qualche “obiettivo sensibile”. «Allora, la usiamo ‘sta cazzo di camera iperbarica?», insistetti. «Proviamo, ma non ho i soldi per comprare gli strumenti». Infilò uno dietro l’altro i semafori in serie positiva, dribblando tra le altre auto che strombazzavano istericamente, e parcheggiò senza soluzione di continuità in un buco tra una Mercedes e un SUV in tripla fila sul lato mare di via Partenope. «Eh, facciamo come abbiamo detto, proviamo se funziona.» «Ok, domani vediamo.» E fu chiaro che l’argomento si chiudeva lì per quella sera. «Che ne pensi?» Cristiano osservava con scetticismo il cilindro bianco. «L’hai mai provata?», chiese. «No, mai. Comprata e portata direttamente qui.» «Secondo me, in origine era una bombola di gas da riscaldamento – intervenne Alessandro –, si vede che la saldatura delle semisfere alle estremità è diversa da tutte le altre.» «Uhm, si, penso anch’io.» Cristiano passò l’indice sulla superficie irregolare della fusione tra la calotta anteriore e una piastra circolare, che fungeva da cornice al buco di ingresso. «Guarda, la traccia delle due saldature è completamente diversa. Sono state fatte in maniera differente.» «Penso che abbiano comprato i bomboloni – dissi a mia volta –, poi hanno bucato qua sopra, per inserire il pezzo di tubo flangiato su cui è stato montato il vetro di ispezione. Buco anteriore per il boccaporto, un po’ di fori per i passaggi dei gas, e via.» «Il passavivande è un po’ più sofisticato, ma appena appena», proseguì Alessandro indicando lo sportellino pressurizzabile sul fianco destro. «Insomma, adesso dobbiamo decidere come utilizzarla senza tante storie», conclusi. Restammo a guardarla con occhio critico. La barca dondolò sull’onda provocata dall’ingresso di uno “Squalo” della Polizia. Alessandro non si fidava a lasciarla ormeggiata nel cantiere, con tutte le attrezzature costose che ormai si erano accumulate a bordo. L’aveva spostata dentro al piccolo bacino, proprio sotto alle mura del Castello Angioino, al termine dell’ormeggio dei traghetti per le isole. L’ex peschereccio bianco e

blu, stonava con la sua goffa presenza tra le agili silhouettes dei pattugliatori della Guardia di Finanza, le vedette della Guardia Costiera e gli scafi veloci, gli “Squali” appunto, della PS. Il versante opposto del porticciolo circolare era arsenale della Marina, che ci teneva in quel momento un piccolo rimorchiatore e ospitava il Servizio Navale dei Carabinieri. «Ok, abbiamo chiuso i fori inutilizzati. Non abbiamo modo di leggere la pressione internamente, ma da fuori si». Cristiano sembrava riepilogare la situazione ad alta voce, più per se stesso che a comune beneficio. «I due rubinetti ci permettono di svuotare la camera sia da dentro che dall’esterno. Ora abbiamo cinque problemi. Primo, come la carichiamo. Secondo, con che gas. Terzo, come la si chiude. Quarto, cosa ci respiriamo e, per ultimo, come la usiamo.» «Beh, secondo me i problemi sono di più – dissi – , ma li riduciamo stabilendo, e qui parto dal tuo ultimo, che non si usa con uno incosciente. O almeno, in caso di emergenza della serie la-usiamo-o-qualcuno-crepa, uno di noi deve entrare con quello malato.» «Seeee, e come ci entra? Non c’è quasi spazio per una persona!», replicò Alessandro ridacchiando. «Non c’è altro modo, ma lo vediamo dopo. Stabilito che entra uno solo, per fare deco e non terapia, se la comanda tutta lui», proseguii senza farmi smontare. «Giusto. Allora – propose Cristiano –, uno entra e chiude il portello, ok? Lo tiene in battuta con i piedi, spingendolo sull’O-ring finché la pressione interna sale e tiene chiuso da se.» «E cosa carica? Non abbiamo tubi e connettori per utilizzare quei fori rimasti», disse Ale. «Si porta una bombola dentro. Una da dieci basta e avanza. ‘Sta cosa conterrà mille litri, diciamo. Un dieci litri a duecentoventi ne ha duemiladuecento. Possiamo aumentare di due atmosfere, e scordiamoci di portarla a venti metri, per cui ce n’è in abbondanza anche per i lavaggi.» «Vero, a noi bastano meno di mille litri per andare a nove metri e respirarci ossigeno puro, tranquilli – confermai –. Quindi si entra, si spinge il portello con i piedi e si pressurizza con la bombola. Tenete presente che poi, sia il corpo che tutto quello che portiamo dentro fanno volume, quindi consumiamo meno gas. A proposito, che usiamo? Una sola bombola di ossigeno per respirare e pressurizzare, o aria e ossigeno?» «Non facciamo casini. Troppi rischi, ed è già una stronzata clamorosa. Pressurizziamo con l’aria e respiriamo con ossigeno», propose Ale. «Sono d’accordo. Respiriamo ossigeno dall’erogatore ed evitiamo qualsiasi

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«Entro pure io, dai! Tu sei piccoletto e io magro, ci stiamo!!!». Non potevo impedire al caposquadra e ideatore di quella brillante trovata di fare da cavia, ma per nulla al mondo sarei rimasto a fare lo spettatore. Alessandro rideva ed era troppo eccitato per mettersi a discutere. E poi un po’ di compagnia avrebbe aumentato il lato goliardico dell’esperimento “bara”. Cristiano ci aiutò ad infilarci dentro con spintoni e incitamenti. Dopo una serie di prove e vari contorsionismi, riuscimmo a prendere posto. Mi ero steso per lungo e premevo con i piedi sulla piastra circolare che, ruotando su un unico cardine, faceva da portellone. Alessandro era riuscito a mettersi seduto in una posizione appena meno accentuata di quella yoga, detta “del loto”. Teneva la testa reclinata, appoggiando la nuca sul soffitto convesso. Non appena chiusi, emise una sonora pernacchia dal retrotreno. «Daiiii, ma che schifo, senti che puzza», protestai. «Chiudi, chiudi», gridò ridendo, mentre apriva la bombola dell’aria, impedendomi di mollare la spinta e spalancare il portello per cercare un po’ di sollievo. Il sibilo dell’aria fu amplificato da una sorta di eco all’interno del loculo. «Si vaaaaa», sbraitò tutto felice. «Fammi vedere», dissi, mentre da fuori Cristiano bussava sul metallo e chiedeva «Come butta?», osservando dalla piccola finestra circolare in alto. «Ahi!». Le nostre teste cozzarono nel tentativo di guardare allo stesso momento il computer subacqueo, posato sul fondo di un secchio riempito per un terzo d’acqua. «Funziona, siamo già a tre metri», urlò Alessandro, rivolgendosi al nostro assistente. «Ok, proviamo a respirare l’ossigeno». Mi voltai appena, per quanto possibile, e raccolsi i due erogatori della bombola che giaceva alle sue spalle, sul fondo del cilindro. Ruotai la manopola e cominciammo a respirare.

«Oddo vedri», disse il mio amico, guardando sempre dentro al secchio. Incominciò a ruotare quella della bombola d’aria e dopo poco, dicendo «Uoue», interruppe completamente il flusso. Eravamo alla quota equivalente per pressione a nove metri, e respiravamo ossigeno puro. Dopo un po’, Cristiano tornò a bussare. «Oh, fate il lavaggio!», suggerì. Alessandro provò a girare la leva del rubinetto, applicato internamente a uno degli otto fori su cui erano stati saldati altrettanti tubi filettati, sporgenti due centimetri dentro e fuori la camera. «Uou uà! – disse, togliendosi poi di bocca il respiratore – Non va! E’ duro, che c’ha? Funzionava prima», gridò indispettito per farsi sentire da Cristiano. «E’ la valvola a sfera, la pressione fa attrito spingendo, e non gira», suggerii levandomi dalle labbra il secondo stadio. Ale fece maggiore pressione e di botto la leva si inclinò verso il basso, aprendo la via all’aria verso l’esterno. «Uò uò uò, calma bella», fece richiudendo. Il secondo tentativo fu più dolce e seguito subito da un bilanciamento con la bombola dell’aria. «Prova a vedere se trovi un equilibrio. Pensa che bello fare questi salti di quota se stai curando una MDD...», bofonchiai garrulo. Ale guardava nel secchio e manipolava i due rubinetti. Andammo avanti così per un po’, ma Cristiano voleva provare e alla fine decidemmo di uscire. «Cazzo!», sbottò Ale quando il portello si aprì di botto. «Eh, ci avevo pensato, ma mi sono scordato di dirtelo. Quando c’è ancora un metro o due dalla superficie, il portello non tiene. Bisogna ricordarsene e fare pressione. Prima ho fatto forza per un po’ anche mentre tenevi aperta la bombola dell’aria. Comunque niente di che, no?!», dissi. Uscendo ci accorgemmo che s’era creato un capannello di poliziotti e finanzieri. Quasi tutti indossavano la tuta da lavoro. Dovevano essere motoristi, per lo più, sempre interessati e curiosi degli aspetti “tecnici”. Cristiano si infilò nella “bara” per il suo giro, portandosi appresso un numero di Alan Ford. Ci sedemmo sulla panca di dritta, aspettando. Dato che avevo fame, tirai fuori da un pacchetto una pita con kebab, cipolle e felafel. «Vuoi un morso?», offrii. «Roba da marocchini», sentenziò guardando la camera sovrappensiero, scuotendo appena il capo. «Quindi? E mo’? La usiamo?», chiesi. «Non lo so. Dovremmo fare il salto da almeno nove metri e fiondarci dentro. Stiamo lavorando con una sola persona in assistenza fuori, a volte manco quella. Se succede qualcosa, è peggio che continuare a stare appesi sotto per

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rischio per l’accumulo di anidride carbonica che espiriamo. Ogni tanto facciamo i lavaggi per evitare l’accumulo di ossigeno, aprendo la bombola d’aria e un rubinetto verso l’esterno nello stesso momento». Cristiano cominciava ad apparire più convinto mentre parlava, e si muoveva su e giù nervosamente. Immaginai che si stesse facendo prendere dalla frenesia di provarla. «E questo ci porta a come fare per sapere qual è la pressione standoci dentro!», dissi con una punta di sadismo nel frenare gli entusiasmi. «Io lo so», rispose Alessandro con un sorriso smagliante.


la deco, non trovi?». Alessandro che non aveva un’opinione assoluta su qualcosa… Non credevo alle mie orecchie. «Boh – risposi – , in effetti possiamo continuare bene con i diciotto minuti di fondo e con meno di un’ora di deco finale. Teniamocela come riserva, che dici… Sentiamo Crì, ma per me va bene così». «Ok, dai. Allora io vado un attimo in Questura, devo chiedere un po’ di ferie. Voglio approfittare di questa alta pressione e mi prendo un periodo di vacanza». «Si, perché lavori assai...». «Guarda che a me mi chiamano a tutte le ore se c’è un problema, e io ci vado sempre», rispose indispettito. «Peace, fratello», lo presi in giro facendo il segno della pace. Dopo un po’ da che Alessandro se n’era andato, il sibilo dal cilindro anticipò l’imminente uscita di Cristiano. «Divertito?». «Oh, una Pasqua. Comunque funziona sul serio», mi rispose strisciando fuori. «Tutto quello che facciamo funziona, compa’. Non è ortodosso, ma funziona.» «Uhm… Ho letto sulla Tek List che hai spacciato questo recupero per un’operazione altamente professionale e tecnica.» Il forum internet era uno dei miei passatempi preferiti, cogliendo ogni occasione per polemizzare, litigare e ridermela alle spalle dei numerosi imbecilli che ci scrivevano e, in maggior percentuale, leggevano. «Ai cazzari, cazzate. Lo sai che mi diverto.» «Già. Questo recupero è una barzelletta.» «Quanto siamo critici, ti rode il culo oggi? Sai benissimo che in mare ci si arrangia, e poi è un buon lavoro. Ci mancano un po’ di supporti logistici, ma per una operazione al risparmio, cosa pretendi?» «Niente. E’ un cantiere come quelli a terra senza protezioni antinfortunistiche.» «Appunto. L’unica nota veramente negativa è che se risparmiamo sulla nostra pelle, almeno potrebbero pagarci di più.» «Gliel’ho detto...» Guardai il mio amico, improvvisamente interessato alla piega presa dalla conversazione. «Ah si? E che ha risposto?», chiesi. «Che non se ne parla. Dice che non ci rientra nelle spese.»

«Te pareva… vabbò, prepariamo la roba, se no ci spacca i coglioni quando torna», dissi cominciando a trafficare con la mia attrezzatura.

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«Molliamo gli ormeggi, dai!», incitava Alessandro un’ora dopo. Saltò a bordo dopo aver posato lungo il molo l’asse di legno che usavamo come passerella per salire, tirando a sé l’imbarcazione. L’ormeggio di prua in tensione, riportò la Abyss verso il gavitello non appena mollò la presa, ma il mio amico fu lesto a balzare sulla pedana e a mantenere l’equilibrio nonostante lo scossone, per poi raggiungere rapidamente la tuga e prendere il timone. I motori tossirono una nuvola nera dai tubi di scarico e cominciarono a borbottare sotto coperta. Ale tornò sul ponte e aprì l’accesso sui due diesel da trecento cavalli l’uno. Si calò nel vano e controllò un po’ di tubature, apparentemente a caso. Ne uscì dopo qualche minuto borbottando tra se. «Devo cambiare le guarnizioni… – mormorò passandomi vicino – Mollate, è tardi.» Disfeci i nodi alle cime di poppa e le lanciai una dopo l’altra sull’asfalto. Agitai la mano per segnalare a Cristiano di buttare in acqua quella di prua. Il barcone si mosse, prima dritto, per superare uno scafo della Finanza e uno della Capitaneria che lo circondavano, poi passando la boa gialla. Ale diede motore all’indietro, girando il timone e sfruttando l’abbrivio, per ruotare su un baricentro ideale la barca. Le manovre nel piccolo bacino erano sempre misurate, ma c’era spazio sufficiente. I piloti avevano quel gusto esacerbato per la competizione estetica nel portar fuori da lì le barche loro affidate, ma glielo perdonavo. Cristiano venne a sedersi vicino a me, mentre passavamo lo stretto ingresso e accedevamo al porto principale. Ale rallentò un attimo. Un traghetto della Caremar mollava gli ormeggi diretto a Ischia e, come al solito, lo lasciò passare. Avevamo diritto di precedenza, ma non era il caso di sottilizzare con chi guidava quei colossi. Erano capaci di passarti sopra senza pensarci due volte. «Insomma, ieri?» «Te l’ha già detto? Che serva». Guardai il nostro compagno, che aspettava che ci rimettessimo in marcia attaccato al cellulare. «Dice che vi siete portati una da lui.» «Eh, dice bene. Mi sono rotto i coglioni mentre faceva lo scemo con due sciacquette in un discopub, però ne valeva la pena. Poi è arrivata ‘sta troietta e siamo andati a scoparcela in sede.» «Carina?» Alessandro era noto per un nocciolo duro di smandrappate da letto, non


proprio eccelse dal punto di vista della bellezza. «Ti dirò, questa non era male. E poi zoccola. A un certo punto, mentre facevamo una pecorina e glielo succhiava ad Ale, sento che mette la mano sotto e mi sposta verso il culo.» «Dai!?!» Cristiano interessato: raro. «Giuro. Niente male, proprio una bella scopata.» Continuammo a chiacchierare del più e del meno per un po’. «Ti ha detto dei soldi?», mi chiese all’improvviso. «Che soldi?». «Quelli nella giacca e negli armadietti.» Lo guardai. «C’è la riserva?» Strizzando gli occhi per la concentrazione, mi chinai verso di lui con attenzione. «Si.» Sapevamo che gli equipaggi dei pescherecci si portavano sempre un gruzzoletto appresso. In particolare quelli delle imbarcazioni che stavano fuori per giorni. Servivano alle spese ordinarie e, nei casi in cui potevano verificarsi imprevisti, come soste causate dal maltempo o avarie in porti lontani da casa; di solito era abbastanza cospicuo. Tutte le barche che andavano a buttare le reti in acque di altri paesi, clandestine e a rischio sequestro, avevano una ulteriore “cassa” per le multe e la corruzione, anche molto ricca. Si parlava di milioni, a volte decine di milioni. «Quanto?», chiesi. «Ha detto che uno aveva tre milioni in una giacca. Che altri soldi stanno negli armadietti e un altro paio di milioni nei cassetti del Capitano». «Ah, e che vuol fare?» «Arrotondiamo», rispose. Ci pensai. «Per noi due o vuole spartire? – chiesi, ma, senza lasciarlo rispondere, proseguii – Non me lo dire. Dividiamo in tre!» Rise e si alzò scuotendo la testa. Mi alzai anch’io e andai a prua. Appoggiai la spalla allo stipite della porta. Dietro il profilo del volto di Ale, concentrato sulla rotta, sfilava un piccolo sommergibile nero a propulsione convenzionale. La bandiera a stelle e strisce era spropositata per le dimensioni della nave da guerra, e lo rendeva ridicolo. Una nave da crociera dallo scafo bianco striato di ruggine, era ormeggiata alla sua sinistra. Il nome in caratteri cirillici spiccava in rilievo a prua. Da quelle lettere bizzarre, sembrava ruscellare un liquido marrone, virato al rossiccio

sui bordi, ma erano macchie secche. «E’ sempre sotto sequestro?», chiesi riferendomi alla nave, su cui viveva l’equipaggio, senza paga da tempo, e la cui presenza era segnalata da un pittoresco pavese di panni messi ad asciugare. «Si», rispose laconico. Andai al sodo. «Crì mi ha detto dei soldi.» Sparò lo sguardo furbo verso di me. Notai la tensione improvvisa del bicipite, che usciva da un gilet con il logo dell’agenzia didattica per cui faceva il trainer. Lo beneficiai di un sorriso altrettanto aggressivo. «Ok, oggi proviamo a cercare di prenderli», disse dopo un attimo, tornando a guardare verso l’imboccatura. «Dove stanno?» «Sotto, una parte. Si entra dal ponte, dopo i boccaporti delle ghiacciaie, a fianco dell’impermeabile. C’è una giacca appesa a un gancio dietro la porta. Dopo il quadrato si entra nella cabina dell’equipaggio a prua. Negli armadietti c’è altra roba. E poi su, in quella del Comandante», concluse. «Ci perdiamo un’intera immersione, lo sai sì?» «Sono almeno cinque milioni, lo sai sì?!», mi fece il verso. «Era una battuta… basta che non ci detrai il tuffo, altrimenti non ne vale la pena», misi le mani avanti. «Non ci avevo pensato...», rispose con una smorfia. «Ecco, bravo, continua a non pensarci.» «Come la mettiamo con i pescatori al recupero?», chiese Cristiano spuntato alle mie spalle. «Portiamo via la roba in cui stanno. Aprite porte, cassetti e armadietti e buttate tutto fuori bordo.» «Uno sbirro ladrone, eh eh», lo presi in giro tornandomene a poppa, prima che potesse replicare. Per quanto mi riguardava, non mi facevo nessuno scrupolo. Erano soldi persi se restavano sul fondo del mare. Erano spiccioli rispetto a quel che al momento stavano perdendo quegli uomini e le loro famiglie. Ed erano un’inezia quelli che guadagnavamo rischiando la pelle io e Cristiano. Un tempo l’avremmo definita un’equa ridistribuzione del reddito. Feci spallucce, non avevo una “morale” da tanto tempo e stavo solo speculando su argomentazioni che comunque mi lasciavano indifferente. Mi sedetti guardando il mare. Provai a raffigurarmi l’immersione, come facevo quando c’era un rischio da correre calcolato. Direzioni, tempi, gesti, tutto prese corpo nel mio cervello. Una risatina amara sgorgò dalle labbra, provenendo dallo stomaco come un riflusso esofageo. Era una tecnica mentale

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appresa e usata per compiere attentati e rapine. Certe abilità tornavano utili in modi inaspettati… La “legge” del mare stabiliva che quello che si trovava sotto era tuo, più o meno. Non sapevo se avremmo commesso un reato, e non mi importava. Ma trovavo il trait d’union tra passato e presente, quantomeno ironico. Fu una discesa lenta. Succedeva di poter stabilire da certi comportamenti lo stato d’animo del subacqueo. Persone abituate come noi a sprofondare di gran carriera, non rallentavano mai a caso. Un campanello d’allarme suonò nel mio inconscio. Osservai Cristiano. Si muoveva goffamente, la sacca del gav era parzialmente gonfia e contrastava la pressione, che di solito avrebbe sfruttato appieno. Le frequenti espirazioni, testimoniate dai continui sbuffi di bolle, la dicevano lunga su uno stato d’animo inquieto e ansioso. Per conto mio, non mi sentivo da meno. L’attrezzatura era scomoda, mi entravano rivoli d’acqua dalla maschera e compensavo male. Se m’avessero preso a calci nelle palle, sarei stato meglio. Alessandro aveva insistito per scendere tutt’e tre. Il mare calmo e buone previsioni meteo non obbligavano a tenere qualcuno in barca. Non il massimo per la sicurezza e per di più illegale, ma nessuno sarebbe venuto a farci le pulci. Controllore e controllato erano un’unica figura. Ad ogni modo s’era arrampicato fino all’antenna radio e vi aveva dispiegato una bandiera segna sub rossa con la diagonale bianca. Sembrava il solo a suo agio. Sceso per ultimo, ci superò agile e veloce. Con la mano sinistra che scorreva lungo la cima, toccai inavvertitamente quella di Cristiano, che a quel punto mi era a fianco dall’altro lato. Voltammo la testa uno verso l’altro e ci fissammo negli occhi. Lo vidi alzare le sopracciglia e fare una smorfia sofferente. Quando fummo a contatto visivo con il ponte della Stella del Mare, di Ale non c’era traccia. Nessuno dei due s’era staccato come d’abitudine dalla cima e ci poggiammo quasi nello stesso momento sul tetto della plancia, tra antenne radio e ripetitore radar. Cristiano respirava con affanno, e vederlo così mi fece aumentare l’inquietudine. Lo toccai e sobbalzò senza motivo, facendo fare un salto anche a me. A gesti domandai se stesse bene. Mosse la mano stesa come un caccia che batte le ali a destra e a manca. Non significava affatto gioia o saluto, come nel gergo gestuale dei piloti militari, ma soltanto il classico “così così” che usiamo anche comunicando a terra. Guardai verso l’alto e puntai l’indice al suo petto, indicando poi con il pugno chiuso e il pollice in alto, la superficie. Scosse la testa,

in segno di diniego. Non voleva affatto risalire. Feci “ok” e, dopo aver sforbiciato rapidamente su e giù indice e medio, simulando il movimento della pinneggiata, toccai l’indice destro con il sinistro e indicai con enfasi il ponte sottostante. Va bene, pinneggiamo insieme giù di lì. Annuì con il capo e ci muovemmo. Nessuna traccia di Alessandro. Passammo sulle ghiacciaie. I boccaporti si trovavano tra la sala motori e l’ingresso al castello di prua. Le stive in cui venivano ammassati i tonni, mentre la macchina del ghiaccio ne ricopriva i corpi per congelarli, erano rimaste aperte. «L’acqua le ha riempite in un attimo, e credo sia affondata così velocemente anche per quello», ci aveva raccontato uno dei sopravvissuti. Tutti e tre avevamo confessato una morbosa attrazione per quelle fosse di metallo. Mi ero accorto più volte, lavorando sul ponte o passandoci sopra con gli altri, che avevamo la medesima tendenza a tenerle d’occhio. In un’occasione, Alessandro si era fermato, mettendosi in ginocchio ed esplorandone l’interno con la lampada, sotto i miei occhi. Mi ero affiancato, appoggiando senza volerlo una mano sul portellone. Si era mosso, rischiando di chiudersi con violenza e farci male. In superficie ci dicevamo che bisognava chiuderli, erano instabili, ma poi non se ne faceva nulla. Quell’indulgere a inutili perdite di tempo prezioso era comunque singolare, anche perché ci succedeva solo lì. La pinna di Cristiano mi colpì al volto, rischiando di strapparmi la maschera. Non mi ero accorto di essere rimasto indietro, né che fosse davanti a me. Diedi un colpo di braccia e gambe, spostandomi alla sua sinistra. Avevamo di fronte la porta d’ingresso alla sala comune, usata per riposare, distrarsi giocando a carte o guardando la tv, e per i pasti. Sulla sinistra, un’ampia finestra, e sotto ad essa una panchina a longheroni, che sembrava di plastica, assicurata al pavimento da bulloni. Il mio amico non si girò. Dopo essere rimasto qualche interminabile secondo fermo come una statua, mise le mano ai due lati dello stipite e si tirò dentro. Vidi il fascio di luce a spot, che gli partiva dall’altezza del petto, scandagliare il locale. Una volta entrato, si librò sul tavolone centrale e, giratosi verso di me, fece un segnale convenzionale di “ok” con la torcia. Mi spinsi dentro. Cristiano ora puntava la luce fissa contro la parete, dietro la porta spalancata. Volteggiai piano per non sollevare il velo di fango che ricopriva le suppel-

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lettili e, con dolcezza, feci ruotare l’uscio sui cardini. Dietro, l’attaccapanni era vuoto. Tornai a voltarmi verso il mio compagno e feci segno che non c’era nulla. Cristiano diresse il fascio luminoso per terra e tutt’intorno, ma della giacca nemmeno l’ombra. Mi sembrò facesse spallucce, ma non ne fui sicuro. Si mosse verso il lato opposto a me e imboccò la porta interna che dava ai bagni e allo stanzone a “V” della prua, in cui tre file di letti a castello ospitavano a turno l’equipaggio. Molti di loro erano stesi su quelle brande quando l’acqua si riversò su tutto il ponte. Saltando in piedi per le urla di allarme, avevano dovuto provare una brutta sensazione all’inconsueto contatto con il liquido gelido. Lo vidi sparire. Prima di seguirlo, mi affacciai con la testa nello stanzino della cucina. Parallelo al salone, lungo la murata di dritta, vi si accedeva solo dal quadrato. Pentole e piatti sembravano al loro posto. L’acqua doveva aver schiacciato la nave mandandola giù senza cambiarne di molto l’assetto. Se fosse sprofondata con la prua in alto, come si vede in tv o al cinema, tutti gli oggetti si sarebbero ammassati lungo le pareti opposte. Sul relitto di un vecchio piroscafo, spezzato in due a poppavia da un siluro e trascinato verso il fondo dall’allagamento della sala motori, nella cucina avevo trovato una pila di piatti di porcellana. Quasi tutti integri, ma addossati alla parete verso poppa in maniera del tutto innaturale. Ripresi la perlustrazione, seguendo Cristiano. Entrai nella cabina equipaggio. L’ischitano era intento a guardare dentro gli armadietti, quando con la coda dell’occhio vidi un bagliore alle mie spalle. Mi girai e osservai il fascio dirigersi giù dalle scale che davano sul ponte superiore. Seguiva Alessandro, con una nuvoletta di sospensione alle spalle, che lo faceva somigliare a un cartone animato. Puntò il faro su di me. Prima che avessi il tempo di pensare a un gesto, si girò e prese la via percorsa da noi entrando. Cazzi tuoi… Tornai a voltarmi verso Cristiano. Era immobile. La sua staticità non mi piacque. Poteva aver trovato qualcosa, magari stava solo fissando lo sguardo su un oggetto interessante… …soldi… …ma non ci avrei scommesso. …troppo fermo… Mi spinsi contro una parete per spostarmi nella sua direzione e, con l’aiuto di un braccio, mi tirai a un letto a castello. Non volevo alzare fango oltre

il necessario, con movimenti inutili. Le due file esterne correvano lungo le pareti e convergevano verso la punta. Il locale si faceva presto angusto. Spazi che a secco e stando in piedi senza ingombranti equipaggiamenti sono di fatto abbastanza agevoli, sott’acqua e in posizione allungata e parallela al fondo, diventano trappole orribili. Ormai il relitto giaceva sul substrato melmoso da più di un mese. Intorno ad esso le reti a strascico dei pescherecci napoletani sollevavano una costante nebbia di sospensione, che la corrente d’acqua portava all’interno, posandosi a ricoprire con un velo ogni superficie. Le bolle della nostra espirazione salivano al soffitto e cercavano una via di fuga. Dappertutto, muovevano le particelle di sabbia e gli organismi decomposti, che fluttuavano ora sempre più densi nello spazio ristretto. Toccai Cristiano ad una gamba, con un brutto presentimento. Sobbalzò sbattendomi contro. Spinto all’indietro, le mie bombole finirono tra due letti e la rubinetteria si incastrò sotto la rete di quello superiore. Ripresomi dallo spavento provocato dalla sua reazione inconsulta, mi mossi verso di lui. Sentirmi bloccato da una forza sconosciuta mi paralizzò i muscoli e fece zompettare il cuore dentro la gabbia toracica, come una palla da squash sparata contro un muro. Tirai una boccata involontaria che doveva aver prosciugato un quarto di bombola. Il tizio di fronte si agitava come un pazzo, sbattendo contro gli armadietti di lamiera e contro di me. Al collo sembrava avessi due mani d’acciaio, che volevano strangolarmi a tutti i costi. Ero gelato dalla paura. Misi una mano contro il longherone della branda che mi bloccava e spinsi verso l’alto con tutte le forze. Un dolore acuto partì nel deltoide sinistro che faceva leva. Si trasmise lungo il bicipite ed esplose nel gomito. Il corpo però fu proiettato in basso e rubinetti e riduttori di pressione del gas si liberarono dalla prigionia. Non feci a tempo a congratularmi con me stesso per l’insperato successo. Cristiano, che continuava ad agitarsi nel panico, mi piombò addosso strappandomi la maschera ed erogatore di bocca. Accecato nella incipiente tragedia, cercai con frenesia di recuperare il secondo stadio, che sbatacchiava sputando gas da qualche parte. Una sorsata di acqua nei polmoni svegliò l’appannato cervello e ricordai appena in tempo che avevo, legata sotto il mento, una seconda fonte di gas. L’acchiappai al volo, proteggendomi dai colpi di gambe e pinne di Cristiano con i gomiti, cercando di riprendere fiato e controllo. Ci riuscii, mentre lui si allontanava da qualche parte, ma fui assalito da un

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senso di oppressione. La penombra che avvolgeva il locale con l’acqua pulita, era scomparsa, sostituita da una tenebra terribile. Il buio s’era inghiottito il profilo della porta e una sensazione di deprivazione percettiva mi stava proiettando, in un momento inopportuno, nel mondo del Mago di Oz. Controllo, urlai nella mia testa. Rimbombò nel vuoto ed ebbi l’orrida impressione che qualcuno avesse fatto una pernacchia, di rimando. Toccando a destra e a sinistra, sopra e sotto, con mani e pinne e altre parti del corpo, cercai di disegnare una mappa mentale del luogo. Presi a caracollare in un senso, ma improvvisamente le dita tastarono forme uguali a entrambi i lati. Stavo andando verso il fondo cieco della prua, i due letti a castello convergevano. Feci di scatto inversione di marcia. Non avevo la più pallida idea di quanto gas mi restasse, ed ero lontanissimo dalla salvezza. Pinneggiai verso la direzione dell’uscita, tenendo la mano destra a contatto col metallo della branda e la sinistra puntata in avanti. Quando persi contatto con la fila centrale dei letti, diedi un colpo di forbice con le gambe per proiettarmi dove doveva esserci la via di fuga. La forza d’urto piegò il polso e il braccio su sé stessi. Per inerzia, all’urto, il corpo di Cristiano si spostò, andando a ostruire l’uscio. Restò immobile nonostante l’avessi preso in pieno ed ebbi la certezza che fosse morto. Fluttuava nel nulla. Lo spostai di lato e tastai in cerca dell’arco della porta, trovandolo subito. Mi tirai fuori tenendo con l’altra mano una qualche parte del corpo del mio amico. Appena oltre lo stipite, emersi da uno sbuffo di fango che lo oltrepassava pigro insieme a me. Ricominciai a vederci qualcosa di nuovo. Da un lato c’era il salone e l’uscita in mare aperto, a destra la scala di accesso alla timoneria. Respiravo a fatica, e se la sensazione di soffocamento e oppressione sul petto era pessima, sapevo che per lo meno stavo riducendo i consumi, rallentando la prospettiva di morire affogato. Molti optavano per erogatori dal gran flusso, ma preferivo quelli che Cristiano chiamava ‘’catenacci’’, utili nelle situazioni di emergenza per non consumare gas preziosi. Certo, non è una bella sensazione quando sembra che stai per soffocare, ma se quello è il prezzo da pagare per restare vivo, ben venga. L’avevo sperimentato di persona, quindi era una scelta ponderata. Quasi tutti i sub non sanno e non si rendono conto che i gas erogati a tutta forza non finiscono tutti nei loro polmoni, ma si disperdono per la gran parte nell’acqua. Vengono definiti “performanti “ strumenti che servono solo a compensare l’affanno che un sub in panico non è capace di controllare. Invece

di spiegare a quel povero scemo che quell’attività e quel genere di situazioni/ rischi che lo manda in panico non è cosa sua, gli appioppano un erogatore costoso quanto inutile e lo buttano in acqua, dove se ha un problema serio si farà male o addirittura morirà. Con la consolazione di essere riuscito a respirare ampie e soddisfacenti boccate fino alla fine… Decisi d’impulso che la via più breve era la migliore. Salendo su per le scale rischiavo di sbatacchiare qua e là e forse imbattermi in un ostacolo. Avrei potuto sopportare anche quel senso di claustrofobia improvviso e del tutto nuovo. Ma la cima era proprio là sopra, molto più vicina e a una profondità sempre inferiore. Usai il braccio per tirarmi su dal corrimano, l’altro per tenere a rimorchio Cristiano. Solo più tardi, rivedendomi in una sorta di moviola mentale tutta la scena, avrei potuto apprezzare la fortuna che la botta, con cui la testa di Crì urtò lo stipite, non gl’avesse strappato di bocca l’erogatore; e che questo, non solo restasse al suo posto, ma con quel flusso regolare di bollicine, segnalasse la prosecuzione dell’attività respiratoria del mio compagno. Tirai, spintonai, diedi colpi e lanciai imprecazioni, ma in pochi istanti fui nell’ampia sala timone. Persi solo qualche istante per assicurarmi che Cristiano tenesse ancora tra i denti il boccaglio. Per sicurezza, diedi un colpo al pulsante di scarico del secondo stadio, spingendogli in gola gas che non sapevo se stesse respirando o meno da solo. Poi presi l’uscita a dritta, trascinandomelo dietro, e un altro colpo di pinne sul ponte ci lanciò verso l’alto con un saltino goffo e patetico. Continuai a usare il braccio libero per tirarci, e strisciai sul tetto fino alla cima. Lì decisi di fermarmi un attimo. Stravolto, controllai i miei manometri. Restava una riserva ridicola e mi pentii del gesto. Sarebbe stato meglio non sapere. Impugnai uno spallaccio di Cristiano e lo avvicinai con poco garbo alla mia faccia. Aveva gli occhi aperti ma vacui. Doveva essere in pieno blac-kout. I nervi non avevano retto e la quantità di impulsi negativi sulle cellule cerebrali si era comportata come un sovraccarico sulle linee elettriche. Il circuito salvavita era saltato, spegnendo la maggior parte delle sue provate terminazioni nervose. Si sarebbe ripreso. Purtroppo i suoi manometri segnavano un prossimo esaurimento del gas di fondo, la miscela ottimale. Bum bum bum… Un battito cupo e ritmato percorreva la lamiera. Non avevo tempo e voglia di farci caso.

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Presi l’erogatore della sua terza bombola, contenente Nitrox. Il manometro indicava ch’era piena. Lo accostai alla bocca e con l’altra mano impugnai quello da cui respirava. Attesi che espirasse. Non volevo rischiare di toglierglielo troppo presto. Appena cominciarono ad uscire le bolle, glielo strappai di bocca lasciandolo cadere e spinsi l’altro con il pulsante, mandandolo in continua. Il flusso dei gas mantenne la cavità libera dall’acqua e lui serrò istintivamente i denti sul nuovo boccaglio. Non era una miscela giusta per quella quota, ma male nell’immediato non gli faceva e tanto era già semincosciente, dovevamo solo toglierci da lì in fretta. Diedi gas al mio giubbotto e cominciai a salire, tenendo le gambe e le loro appendici di plastica avvoltolate come serpenti sulla cima. Cristiano seguiva a rimorchio. Mi sembrò di sentire ancora quel tambureggiare cupo. Ad una sessantina di metri mi fermai. Il relitto si vedeva benissimo nella sua interezza. Da porte e oblò spalancati, continuavano a uscire le nostre bolle. Lentamente, rotolavano sui soffitti cercando la strada verso la superficie. Vedevo almeno una decina di colonne di perle di gas di varie dimensioni. Ma quello stronzo dove cazzo sta?!, pensai, improvvisamente conscio che in quel casino mancava un attore. Guardai su e poi giù. Niente. Cristiano si mosse. Riportai la sua faccia a contatto con la mia. Stava riprendendo il controllo. Poco a poco fu in grado di salire. Mi accertai che non avesse troppo gas nella stagna e nel gav, e lo guardai accompagnarsi con lentezza, le mani strette alla cima. In quel momento, una serie di immagini si formarono tutte insieme nel mio cervello scosso. Come fotogrammi sparati in successione sempre più rapida, sino a sovrapporsi e diventare un tutt’uno, sgomitarono e si insediarono, anche se, a quel punto, li rifiutavo con tutte le forze. Uno. Alessandro usciva dalla sala da pranzo verso il ponte di poppa. Due. Il rimbombo sulla lamiera, come un tamburo percosso con forza… …disperazione… …a un ritmo lento sempre più flebile. Tre. Alessandro che guardava dentro una stiva. Quattro. Nessuna traccia della sua presenza. Cinque. Le perle di bollicine che salivano dal relitto… …dalla stiva… Sei. I boccaporti sul ponte aperti… …è chiuso…

Strinsi le palpebre per focalizzare la vista e puntai gli occhi sul ponte. …oddio… Una delle ghiacciaie ora era chiusa. Il pesante portellone di quella di dritta era ancora spalancato, come fauci affamate, ma l’altro giaceva piatto, parallelo al ponte. Da un lato, verso la parte appena più alta dell’angolo a prua e a dritta, seguendo l’inclinazione della tonnara, un filo di gas saliva regolare. Feci per muovermi e mi trovai a inspirare con difficoltà prima, a vuoto poi. Non usciva più gas. In apnea, raccolsi i manometri. Segnavano entrambi fondo scala. Guardai giù, poi su, poi giù. Forse sarei riuscito a raggiungere le bombole decompressive appese quaranta metri più in alto. Forse. Scattai verso la superficie e l’unica ipotetica salvezza. Nelle orecchie mi sembrava rimbombasse il tamburellare disperato dei pugni di Alessandro, contro la lamiera che lo intrappolava per sempre.

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VI. L’Etrusco Chi cerca, a volte, trova quel genere di cose che preferirebbe non trovare. Nathan il Saggio, G. E. Lessing

Alessandro nella sala comando poco dopo il recupero.

Alessandro con l’Autore sulla Abyss con la campana del peschereccio.

Cristiano nella sua migliore espressione. Il bilancino scende dal Mastino.

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«Aspettiamo Pignalosa?», chiesi «Si… Cristiano! – urlò Ale dal Nissan – Vieni, lascia stare, facciamo colazione da un’altra parte.» L’isolano uscì dal chiosco bar in cui era appena entrato. «Non vi avevo visto», disse salendo dietro. «Siamo arrivati anche noi mo’ proprio.» Ingranò la marcia e percorse la piazza davanti al terminal crociere. «Hai visto quel tre alberi?», indicai un magnifico veliero ormeggiato più avanti, battente bandiera britannica. «Spettacolare… C’è mare?», domandò Alessandro guardando lo specchietto. «Un pochetto, ma ha messo maestrale e credo che lo spiana.» «Va bò, tanto dobbiamo aspettare il Comandante e poi andiamo dal fabbro a vedere il bilancino». Salutò un Mitsubishi azzurro che ci incrociava. Sulla fiancata le scritte “Polizia” e “Sommozzatori”. «Il cambio?», chiese Cristiano. «No, devono sostituire un’elica. Se ci riescono...» «Eh, senza di te come faranno?», lo presi per i fondelli. C’era in ogni modo una buona dose di verità: il mio amico non si tirava mai indietro quando veniva chiamato a svolgere i suoi doveri. I vertici della Questura, così come i suoi superiori diretti, sapevano di poter contare sulle sue capacità e il coraggio guascone in ogni scenario operativo. Ignorandomi, parcheggiò davanti a un bar di fronte al palazzone della Guardia Costiera. «Ci prendiamo i cannoli siciliani? Qua li portano diretti da Palermo con il traghetto veloce della mattina», propose scendendo. «Oh, si, a me due, grazie. E cappuccino.» «Anch’io, con succo alla pera, grazie», si associò Cristiano. Mentre ci accomodavamo a uno dei tavolini che invadevano la corsia stra-

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dale, la cui occupazione di certo non autorizzata era conquistata e difesa con tre fioriere in cemento, colsi all’opera la corpulenta barista. Stava giustappunto farcendo una pastiera di cilindri marroni. I siciliani si facevano ancora un punto d’onore nello spedire quelle splendide opere dolciarie senza scadere nella tentazione industriale. Ripieno, zucchero a velo e involucro di ciascun cannolo, arrivavano alle pasticcerie migliori separati. Si salvaguardano, così, fragranza e croccantezza dell’involucro, che non può essere tollerato “molle” dai puristi. Un concentrato di sapori per il palato, esaltato dal contrasto tra la consistenza della sfoglia con la farcitura di morbida ricotta dolce, impreziosita dai canditi. «Strano che una topaia sia così sofisticata...», dissi rivolgendo la faccia al primo sole. «E picchè – rispose Cristiano imitando la pronuncia sicula –, nun sapite chi accà mammasantissima sugnono?» Risi, godendomi un raggio caldo. Stavamo ancora mangiando, quando ci raggiunse il mitico Comandante Pignalosa. Basso, capelli corvini ricci tagliati corti, baffi scuri e occhiali dalla montatura spessa di plastica nera, nel suo completo bianco somigliava a una versione corta e larga del Dottor Mengele, interpretato da Gregory Peck. «Come andiamo, come andiamo – esordì trafelato – . Ahah, che giornata, sono a pezzi e dobbiamo ancora incominciare», continuò stendendo le gambe sotto il tavolino. «Che prende, Comanda’?», chiese Alessandro alzandosi. «Oh, voi che avete preso? Cannoli? Anche per me, anche per me. E un caffè al vetro, grazie Alessandro.» «Allora – mi guardò sollevando uno dei folti cespugli sugli occhi –, come andiamo, si procede?» Contraccambiai con un sorriso, attendendo che Alessandro tornasse a dirigere il coro. Cristiano sollevò il romanzo di Clive Cussler che stava leggendo, innalzando una barriera insormontabile. Del resto il nostro compare aveva lasciato un orecchio sulla sedia. Come tirato da un elastico, schizzò indietro e si premurò di intervenire dando la versione ufficiale. «Tutto bene – affermò – , siamo pronti per calare il bilancino appena è finito e voi avete il rimorchiatore.» «Ah, bene, bene, magnifico. Mo’ andiamo dal fabbro, mi ha detto che lo deve solo verniciare, come il mare è piatto si procede.» «Perché bisogna verniciare il bilancino?» Cristiano aveva alzato gli occhi dalle pagine che, solo pochi istanti prima, sembravano assorbire tutta la sua

concentrazione. Il capo appena reclinato a sinistra, aveva l’aria incuriosita. «Eh – dissi – , ch’è ‘sta storia, una botta di vanità?!» Il Comandante parve preso in contropiede, e puntò lo sguardo su Ale. «E’ per le foto», fu la risposta laconica di questi. «Aaaah...», esclamammo in coro. «Arrivano gli sciacalli», buttai lì. Come mi aspettavo fu impossibile, per l’ego spropositato e provinciale del napoletano, non inghiottire tutta l’esca, l’amo e buona parte del filo. Sembrò annaspare come se gl’avessi dato un cazzotto al plesso solare, e mi appoggiai meglio allo schienale della sedia, godendomi l’immagine del rocchetto che sibilava sotto la canna, dando spago al mio bel pescione. Aspettai l’attimo in cui diede fiato alla replica piccata, per ferrare la preda. «Meeee – cominciò come una sirena – Stè, nun’ si pazzian’… che...» «Calma, calma – lo interruppi mettendo le mani avanti, in senso letterale, e alzandomi in piedi –, non ci devi mica spiegazioni, è giusto, la pubblicità è l’anima del commercio.» «…intenzioni hai!?! Non facciamo casini», cercò di continuare, con un richiamo alla responsabilità falso come una moneta d’oro di cioccolata. Il nostro supervisore legale non parve afferrare le implicazioni dello scambio di battute in corso. Aggredì con gusto la pasta e, ingoiatala con due morsi famelici, si sciacquò la bocca con un bicchier d’acqua prima di gustare il caffè espresso amaro. Tutto si poteva dire di Pignalosa, meno che non sapesse apprezzare le cose belle della vita. Mi allontanai salendo in auto e bloccai ogni ulteriore discussione impegnandomi in una serie di telefonate. Il gruppetto mi raggiunse di lì a poco e ci spostammo di poche decine di metri. L’officina del fabbro era poco più in là, tra i silos dell’immagazzinamento del grano e la caserma della polizia. Un tappeto di piccioni saltellava sull’asfalto, a caccia dei chicchi caduti dai camion. Erano migliaia e, spensierati, con le loro deiezioni bombardavano a volo radente i cereali destinati ai pastifici. Il bilancino era posizionato un paio di metri oltre la saracinesca. Un ragazzo di bottega lo stava tinteggiando di bianco con la pistola a spruzzo. Si avvicinò il capomastro. «Comanda’, tutt’a post’», disse stringendogli la mano con deferenza. I due parlottarono a lungo con Alessandro. Cristiano ed io restammo a distanza dalla nube di vernice, che ammorbava l’aria tutt’intorno alla massa di metallo. Il ragazzo sembrava indifferente e si dava da fare senza occhiali e mascherina. «Che ne dici?», chiesi. «Uhm, è grosso. E peserà una cifra!», mi rispose Cristiano esplorandosi

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l’orecchio con un dito. Lo tirò fuori, esaminando con interesse il risultato e poi fece finta di tirarmi una palletta di cerume. La pantomima rituale voleva che mi scansassi e così feci. «Cacati addosso. Dice che sono tre tonnellate secche. Più quattro cavi di raccordo e quattro maniglioni, fanno tremilacinquecento chili.» Cristiano volse lo sguardo alla nostra destra, seguendo la direzione in cui stavo guardando mentre parlavo. Poggiati per terra, dietro la saracinesca abbassata dell’altro ingresso, quattro enormi oggetti dalla forma di un’Omega con una sbarra tra le estremità. Ciondolammo verso quegli affari. Cristiano strascicava i piedoni, le mani in tasca, dondolando la testa rapata come se seguisse un ritmo musicale che sentiva solo lui. Quando gli piombavi in casa e ti sedevi a bere grappa e limoncello tra i gatti, il cane e il via vai di amici e sconosciuti di passaggio, non riuscivi nemmeno lontanamente a immaginare che avesse costruito per anni impianti hi-fi di qualità altissima, con transistor enormi che sembravano lampadine giganti tipo i fumetti di Walt Disney. Ricordavano proprio Lampadina, l’assistente di Archimede. Aveva anche fondato, diretto e redatto una fanzine che era stata a lungo una lettura cult per gli appassionati. «Alla fine me ne porto uno a casa, eh!?», dissi. «Bestiali...» Alessandro si avvicinò, infilandosi tra noi. «Belli, eh?! Dobbiamo mettere il grasso sulle filettature, così siamo tranquilli che girino sotto.» «Fagli fare un buco sulle spine e mettiamoci un cordino, così anche se dovessero ruotare per caso, non si aprono e ci cascano», suggerì l’ischitano. «Giusto – dissi – anche perché non fatevi venire in mente di stringerli a morte, se si incastrano sotto e perdiamo tempo per aprirli, sono cazzi. E vedi di comprare qualche spina di riserva, metti che se ne perda una.» «Oh, piano piano, mica le vendono separate! Sai quanto costa uno di ’sti cosi? E alla fine che ci faccio?», protestò Alessandro. «Busciardo fracico! Prima di tutto non li paghi sicuramente tu, e poi li rivendete di sicuro, come se non ti conoscessi», sbottai. Una macchina si fermò al di là della saracinesca e un paio di portiere furono sbattute con forza. Non mi sorpresi di veder spuntare i due fratelli che comandavano la Stella del Mare. Il più giovane affrontò Alessandro con astio appena dissimulato. Brava gente, ma come tutti quelli che hanno famiglia a carico, conti da pagare e pessime prospettive di lavoro e futuro, tendevano a diventare nervosetti con facilità. E parecchio aggressivi. «Ci siamo?»

«La vedo male – dissi ad Alessandro –, quelli vogliono uscire col rimorchiatore domani.» Cristiano pilotava la barca fischiettando, e noi due c’eravamo accomodati sulla panca alle sue spalle. Cominciava a fare caldo, dopo una primavera piovosa e instabile. La fine di maggio e tutto giugno erano previsti all’insegna del bel tempo. «Oh, Stè, e che cazzo… ci manca soltanto la seconda braca davanti. Mo’ andiamo e la mettiamo.» «E’ un lavoro da fare con qualcuno sopra, e non abbiamo una cima galleggiante», intervenne Cri senza voltarsi. «Possiamo usare una cima normale. Uno scende, la infila nel bow thruster e la lega all’occhiello. Mettiamo un pallone a dieci metri e tiriamo dentro il cavo d’acciaio così. E’ l’unica maniera per essere sicuri che non passi tutto da una parte all’altra e fare presto.» «Ti vedo particolarmente ottimista, Ale, quindi lo ripeto, la vedo male». «Dicagnè, nun’ si scasan’ ‘a uallera!». Si levò in piedi e uscì dalla timoneria. Mi misi a fianco di Cristiano e restammo a osservalo in silenzio, seduto con aria truce a prua. «Troppa fretta...» «Condivido...», risposi. Con i palloni avevamo sollevato le estremità delle due brache di poppa e di quella di prua, poggiandole sul ponte, rivolte verso il centro. La cima galleggiante su cui doveva scorrere il bilancino, era stata assicurata sul verricello centrale. In fondo eravamo a buon punto. Anche se l’ultima braca aveva fatto da guastafeste, rifiutandosi di scorrere nel tunnel dell’elica di prua. Forse non voleva smentire la validità della legge di Murphy. Oltre la sagoma di Alessandro, vedevo la boa nera sfuggita a un allevamento di cozze, che avevamo recuperato in navigazione e riciclato. Ora stava

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Il mio amico non era il tipo da farsi intimidire da un pescatore e lo squadrò senza rispondere. Facendo onore al suo ruolo di intermediario ufficiale, il Comandante si affrettò a intervenire con aria gioiosa. «Tutto bene, tutto peeeeeerfetto! Siamo pronti, prontissimi», squittì. Guardai Cristiano. Mani in tasca, aveva un piede su di un grillo, e provava a spingerlo con la suola a carroarmato dello scarponcino da lavoro. Dato che quello non collaborava, mi fissò in faccia e, sollevando le spalle, indicò l’uscita con un gesto del capo. «Prontissimi...», sussurrò, passandomi a fianco in direzione del fuoristrada.


all’estremità del cavo centrale. Più in là, due latte di plastica bianche e un gavitello arancione, segnalavano la cima assicurata sul radar. Cercai la quarta, una tanica blu. «La vedi?», chiesi preoccupato. «No.» Sempre ostile agli occhiali da sole, Cristiano sbatteva le palpebre per proteggersi dall’abbaglio. La vita quotidiana in mare stava scavando sul suo viso rughe caratteristiche, a dispetto della giovane età. Alessandro s’era messo in piedi, e sembrava non trovarla nemmeno lui. La mano a visiera, volgeva la testa da un lato all’altro schermandosi dal sole. Il mare piatto rifletteva la luce con dolorosi baluginii bianchi, e a mia volta raccolsi gli occhiali da sole buttati insieme a cianfrusaglie, arnesi e cartacce sul ripiano sotto al parabrezza. Inforcatili, prestai attenzione a una cartellina blu. La presi in mano e, apertala, cominciai a sfogliare le carte. «Roba interessante?», chiese Cristiano. «Uhm, fax, fatture… Ah, un primo accordo finanziario...» «Che dice? Quanto becca?» «Dunque… dov’è… ah, ecco. “Si stabilisce…” bla, bla, bla, oh, ci siamo. Ottanta milioni. Nella prima fase prende ottanta. A noi spettano scarsi dieci, dodici, metti un po’ di spese, se ne intasca almeno cinquanta e solo all’inizio.» «Sei sicuro? Mi sembra comunque poco.» «Bah, quelli hanno un budget totale di circa un miliardo. Metti cento ad Alessandro, un altro cento, centocinquanta alla nave gru, e lo stesso tra rimorchiatori, noleggi, spese di materiale e impicci e imbrogli. La metà servirà per il cantiere alla fine. Più o meno ci siamo.» «Noi ci esponiamo e facciamo il grosso e non prendiamo un cazzo...», concluse con aria stanca e rassegnata. «Eh, bello mio, siamo manovalanza, dobbiamo pure dire grazie», risposi sardonico. Restai in silenzio per un po’. Alessandro continuava a cercare la boa giusta, girandosi con crescente nervosismo tutt’intorno. «Ti fa passare la voglia. Non so perché lo facciamo. Alla fine è stupido, no? Spendiamo una quantità di soldi in attrezzature, barche, stronzate che usiamo poco e male. Ci riempiamo di debiti e rischiamo di schiattare». «Ormai non saprei che altro fare...» Lo guardai. Viveva come uno zingaro. Un po’ a casa con la moglie e la figlia. Poi, quando lei lo buttava fuori, con la madre tedesca, oppure sulla barca, che non era manco sua ma del padre. Ero diverso? Non tanto.

«Già. Se ci penso, non so manco io che fare oggi. Non ho più voglia di fare rapine, e qualsiasi altro lavoro in fondo è la stessa merda. Gente che cerca di metterti i piedi in testa, debiti e rotture di coglioni. Almeno stiamo a mare...» «Non c’è!» Se il tono di voce di Alessandro non era disperato, quantomeno gli rassomigliava molto. Buttai la cartellina sul ripiano prima che oltrepassasse l’alta figura di Cristiano e mi guardai le mani con aria innocente. «Dove cazzo sta? Porca puttana!!!» «Non si vede nemmeno la cima? – chiese Cri – Se hanno preso la latta in un’elica dovrebbe galleggiare almeno quella.» Succedeva che qualche traghetto o portacontainer se ne fregasse dell’interdizione di quell’area alla navigazione. Troppo vicini all’imboccatura del porto, nel pieno delle rotte di transito. Già di giorno ci sfioravano. Sott’acqua sentivamo di continuo il rimbombo cupo dei motori, e la barca dondolava sulle onde di scia a ritmo costante. «No, no, cazzo, ho guardato bene», rispose sempre più agitato. «Se l’ha presa una nave grossa, può aver sollevato parecchi metri prima di tranciare tutto e quindi poi è andata giù e galleggia dove non vediamo». «Ah, Stè, seccia!» «Seccia un par di ciufoli, non è questione di portare sfiga, qua se non si vede a galla, altre spiegazioni non ci sono, Alessandro.» Cristiano mise a folle e ruotò il timone per tenere la prua verso l’ultima boa. «C’è anche un altro problema», disse. Lo guardammo entrambi con preoccupazione. Non aveva bisogno di proseguire. «Se l’ha presa e tirata dentro l’albero dell’elica, l’ha anche trascinata via.» Alessandro si tolse il berretto, scagliandolo per terra in un angolo. «Cazzo, cazzo!», sbraitò. Prese a calci la porta del cucinino dismesso e snocciolò una serie di parolacce e bestemmie in dialetto. «E mo’?! Questi arrivano con il bilancino domani mattina. Alle cinque viene Roberto e devo andare a prenderlo. Come facciamo?!» Restò lì a fissarci, come se aspettasse una soluzione brillante ed efficace. Non avevamo conigli nel cilindro. Poggiai il culo, fattosi pesante, sulla panca. Ale girò su se stesso un paio di volte, furioso, e poi si sedette al mio fianco. Cristiano restò un po’ ad osservare l’orizzonte, poi si girò, appoggiando la schiena al timone. «Non è che ci sia molto da fare. Tocca scendere a vedere. Se sta giù sul peschereccio, basta risalire sulla cima e mettere rocchetto e pallone. Un altro

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ci viene su con una prolunga e rifacciamo il lavoro», disse. «E se non c’è?», domandai. «La cerchiamo, che altro vuoi fare...»

forse ci aspettava. Nel caso avesse fatto un buco nell’acqua, che a quel punto era un modo di dire azzeccato, sarebbe sceso Alessandro. Consumava meno gas di tutti ed era il più indicato per esplorazioni prolungate. Restavo per ultimo, di stand by, come si dice in gergo tecnico.

«Riepiloghiamo…» Ale stava accucciato davanti a Cristiano, seduto sulla panca di sinistra con tutta l’attrezzatura addosso. Sembrava uno dell’angolo del pugilatore. La stessa espressione corrucciata, misto di preoccupazione, incitamento e consapevolezza egoistica di mandare il proprio boxeur al macello, sul centro del ring alle proprie spalle. Mi sentivo stanco. Incominciavo ad avene i coglioni pieni di quella storia. L’altro mostrava una faccia del tutto inespressiva. Il colletto di lattice nero stringeva la carotide e la cute era arrossata. Una vena pulsava, gonfia, sulla fronte larga, sotto la linea terminale dei capelli tagliati a spazzola. Chissà quali pensieri attraversavano quella mente. Guardai la sporta di retina gialla al loro fianco. Traboccava di oltre trenta metri di cima da venti millimetri, due rocchetti e un secondo pallone oltre a quello che stava sotto al culo di Cristiano, in una sorta di “coda” in tessuto Cordura appesa alla fine dello schienalino del gav. «Se c’è visibilità tieniti sopra. Non scendere e gira intorno finché la vedi. Se non si vede scendi e cerca una traccia nella sabbia. Se la trovi seguila. Se ci arrivi tranquillo, attacca la cima e torna indietro». Si fermò al quarto “se”, ma poteva continuare. «Mi stai ascoltando?», chiese dopo aver interrotto la sequela di ipotesi operative, sconfortato dall’espressione vacua del sub. «Ok, ok – disse rimettendosi in piedi e battendogli sulla spalla –, andiamo, Stè, dammi una mano...» Alzai il culo e presi Cristiano dal lato opposto di Ale. «Ohh-issa...» Sotto il peso l’uomo grugnì, mentre lo aiutavamo a mettersi in piedi. Percorse il ponte trascinando i piedi e, poggiata una mano sul parapetto a poppa, infilò una ad una le pinne che Ale gli passava. Le due bombole decompressive che si era già caricate addosso, intralciarono il movimento. «Ondaaaa», gridai vedendo arrivare la prima di un gruppo spinto da una nave di passaggio. Cristiano si tenne saldo con entrambe le mani, infilò la maschera tra un paio di creste e si buttò in acqua al passaggio della terza. Avevamo deciso che s’immergesse lui perché speravamo che la situazione non fosse tragica. Il più forte tra noi poteva risolvere al meglio il lavoro che

Scese tranquillo. A sessanta metri si tolse di bocca l’erogatore del Nitrox 40 e cominciò a respirare da uno dei due delle bombole con il Trimix. Il mare era pulito, appena un po’ di nebbia dovuta alle reti a strascico. Non c’era traccia della cima arancione di prua. Vide quella centrale, poco distante, appena piegata dalla corrente. Le tre cime sarebbero dovute restare più o meno alla stessa distanza tra loro, mantenendo il distacco che le separava sul fondo, con una variazione minima per effetto dell’allungamento verso l’alto. In realtà si trovò quasi sopra quella di mezzo. Avevano ormeggiato sulla prima a prua e la barca l’aveva tirata verso le altre, spinta dal poco vento e dalla leggera corrente di superficie. Cristiano scendeva ruotando attorno al cavo, a spirale cercando di trovare un’indicazione della fine che aveva fatto quella dannata braca. A cinque metri dalla timoneria esterna, vide una traccia netta nella melma, che dall’altezza del bow thruster partiva in direzione opposta. Strinse le dita sulla corda e bloccò la discesa. Aguzzando gli occhi, cercò invano nel blu indaco. Doveva risparmiare gas e saturarne il meno possibile, per cui staccò dall’anello a D della bretella destra uno dei tre rocchetti che s’era portato. Gonfiò un pochetto il gav e, una volta neutro a quella quota, restò perpendicolare al fondo, armeggiando con l’attrezzo. La lieve corrente lo spingeva infingarda. Si mise in modo da contrastarla con pochi colpi di pinna, lo sguardo alla cima mentre toglieva la sicura al filo d’Arianna e apriva il moschettone alla sua estremità. Diede una sforbiciata più decisa, tornando a contatto con la cima bianca, e vi avvolse attorno il moschettone, chiudendovi dentro il filo da due millimetri. Con uno strattone, l’estremità a cui era collegato il rocchetto si bloccò sul cavo di ormeggio, e Cristiano cominciò a seguire la traccia nel fango, da quindici metri più in alto, svolgendo il filo di sicurezza. Pinneggiò per parecchio. Girandosi si accorse che il peschereccio non si vedeva più. Il rocchetto conteneva quarantacinque metri di filo, che era quasi completamente libero. Formava un’ampia curva alle sue spalle, spinto dalla forza della corrente trasversale al suo percorso. Ripartì con uno sbuffo nervoso. Dopo poco la rotazione si bloccò e, concentrato sulla traccia appena visibile sotto di lui, rischiò di farsi scappare di mano l’arnese. Restò un attimo indeciso, cercando di non perdere il contatto visivo

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con il solco e di decidere cosa fare. Senza accorgersene stava scendendo piano verso il fondale. A un certo punto dovette compensare l’aumento di pressione sui timpani e si avvide di essere quasi sulle piccole dune costellate di buchi delle tane dei vermi marini. La borsa di rete era a contatto del fango, sotto di lui. Decise di appoggiarvisi con il corpo, per non essere portato via dalla corrente. Uno sbuffo di sospensione si sollevò tutt’intorno, ma fu presto portato via. Voleva controllare i manometri, ma il rocchetto lo impicciava. Sull’impugnatura era applicato un altro piccolo moschettone e lo usò per fermarlo a una delle decompressive. La bombola da cui respirava conteneva ancora centoventi bar di gas. Ne restava quasi il doppio di miscela. Infastidito dalla situazione, palpò sotto il cilindro di metallo della decompressiva di destra per raggiungere la borsa. Il moschettone era stato scelto a caso ed era di un tipo poco raccomandabile. L’insignificante intaccatura millimetrica sulla levetta, si incastrò nel tentativo di toglierla da lì per aprirla e prendere un altro rocchetto. Il movimento produsse altra nebbia e inavvertitamente si girò su se stesso. Ma va a cacare, pensò rinunciando. Cercò di trovare la traccia nel fango. Era un paio di metri più in là. Staccò il rocchetto di impulso e spinse con le gambe per raggiungere quella trincea e posarvelo. Avrebbe proseguito ancora per un tratto in navigazione libera, recuperandolo al ritorno. Nella sua intenzione c’era una minima scusante per la violazione di una regola del protocollo di sicurezza. Tornando poteva anche salire direttamente da lì: con il rocchetto in mano, l’altra estremità avrebbe fatto da perno sulla cima principale e lui, dopo un movimento ad arco, si sarebbe ritrovato a contatto con essa quaranta metri più su, proprio sotto la barca appoggio. Merda… Era bloccato a una gamba. Restando più calmo possibile, volse il capo. La cimetta si era impigliata attorno a una pinna, probabilmente mentre cercava di raggiungere la retina. Le bombole lo impicciavano, maledizione, non riusciva a piegare il ginocchio e prendere in mano il cavetto di nylon. Fermo… Calma… Si costrinse a ragionare e a muoversi con cautela. Controllò il computer. Dovette focalizzare meglio dopo il primo sguardo. Si sentiva confuso, un po’ stordito e con un peso sullo stomaco. Le cifre sul display smisero di ondeggiare e si concretizzarono in numeri. Nove minuti… Merda, di già.. Aveva consumato la metà esatta del tempo programmato. Poteva passare alla tabella di riserva aggiungendo altri cinque minuti sul fondo, e se le cose si

mettevamo male c’erano gli altri e… …la bara… …al massimo avrebbe fatto una decompressione di emergenza. Staccò da sotto a uno degli elastici sulla bombola Nitrox un coltello da cucina e lo allungò dietro. Il gesto fu vano: il filo di Arianna era lasco e non riusciva a tagliarlo. Guardò la traccia lasciata dalla braca poco più avanti e si rassegnò a girarsi e perderla di vista. La rotazione lo costrinse a spostarsi ancora un po’ in là da quella, tornando verso il sagolino. Riuscì rapidamente a impugnarla e la tese, troncandola con facilità. Oh cazzo… Il filo bianco, una volta tagliato, partì all’indietro fluttuando a zig zag per qualche metro, agitandosi come la coda di uno spermatozoo in corsa verso l’ovulo da fecondare. La corrente lo spingeva via con facilità. Bestemmiando Cristiano si voltò verso il suo obiettivo e pinneggiò incontro al solco, cambiando l’erogatore di bocca e guardando computer e manometri. Undici minuti… sessanta bar… cazzo… e centottanta… ok… Piegò a destra, gonfiando un po’ il gav per alzarsi sopra la traccia e non cancellarla, mentre pinneggiava furiosamente. Allungò il polso sinistro e frappose il display del computer tra sé e la striscia di fango. Al diciottesimo minuto salgo, dove sto sto, si rassicurò mentalmente. Dopo meno di un minuto la vide. Il cuore fece un salto e cambiò posto, insidiandogli il Pomo di Adamo. Incerto, toccò l’intreccio di fili di acciaio. Spuntava del sedimento, semicoperta. Scomparve d’improvviso in una coltre di sospensione passeggera. Cristiano alzò lo sguardo e vide che l’acqua, cinque metri più su, era limpida e azzurra, ma a contatto col fondo si stava scurendo, virando al marrone per effetto di una nuvola, a tratti spessa, a tratti appena percettibile. Uuà, cazzimme, che giornata… Ogni tanto percepiva la copiosa sudorazione, che aveva impregnato il sottomuta. Quando si staccava dalla pelle nuda, gli provocava brividi di freddo e un senso di malessere. Poggiò la mano senza guanti sul freddo metallo, come per rassicurarsi con la presenza fisica. Ahi… Staccò il contatto di botto e si portò l’indice agli occhi. Un filo di sangue scuro, quasi nero nel blu cupo, svaporò nel nulla dal polpastrello, che aveva schiacciato d’istinto con il pollice. Un minuscolo filamento di acciaio spuntava dalla carne. Notò che riusciva a vedere le spirali dell’impronta digitale, ma forse era l’immaginazione, perché un attimo dopo erano sparite. Rimise la mano sul cavo e cercò di capire dove si trovasse. Con attenzione, per non

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ferirsi ancora, accarezzò la superficie metallica penetrando nella melma in cui sprofondava. L’intreccio di cavetti si fondeva in un blocco uniforme, liscio e di poco più largo. Era l’impiombatura di una delle teste a occhiello. Tornò a controllare la strumentazione. Sedici minuti. Il tempo volava. Aveva consumato quasi mille litri, un terzo della seconda bombola. In un manuale qualsiasi si poteva leggere che a quel punto aveva già oltrepassato ogni limite di sicurezza. Doveva risalire. Avrebbe tolto uno dei rocchetti rimasti dalla retina, oppure la stessa cima più grande e, legata un’estremità al cavo d’acciaio, sparato l’altra con uno dei palloni verso la superficie. Da lì sarebbe riemerso in tranquillità, aggiungendo mano a mano cima alla cima fino su, usando l’ultimo pallone e sostando tappa dopo tappa come programmato. Gli altri si potevano occupare del resto. Non era colpa sua quell’intoppo e non veniva compensato a sufficienza per mettere una pezza al ritardo, anche se avrebbe bloccato la tabella di marcia. Si, doveva risalire, ora! Sollevò le spalle per sottolineare che non gliene importava nulla, prima di tutto veniva la propria sicurezza, ma fece l’esatto opposto, prendendo a percorrere sul fondo il cavo, allontanandosi in cerca dell’estremità da cui doveva spuntare la cima galleggiante. «E così arriva Roberto», dissi stravaccato con la faccia al sole. Alessandro sorseggiò dalla bottiglia il liquido scuro e ruttò. «Bevi italiano!», brindò al cielo, imitando uno dei tormentoni con cui il prossimo ospite allietava il mondo, ogni volta che trangugiava un Chinotto e si sentiva così figo e pieno di sé. «Già, già, è proprio un coglione, sai?!» Il fotografo era stato mio allievo qualche anno prima, e all’inizio sembrava potessimo instaurare una specie di amicizia. «E’ un egoista, narciso e per di più secondo me nemmeno così bravo come dicono. Fa foto banali, da “puttana” quale ammette di essere.» «Però gli pubblicano tutti gli articoli e mi fa pubblicità», rispose. «L’hai chiamato tu o è una trovata di Marco?» Il proprietario dell’agenzia didattica di cui eravamo istruttori, cercava ogni occasione per pubblicizzare il suo brand. Il più profondo recupero mai tentato di un relitto di quelle dimensioni, con le tecniche di immersione della sua “scuola”, era troppo appetitoso. Faceva poca differenza che nessuno di noi tre seguisse gli standard proposti dal Patron, che avevamo scoperto presto ma-

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sticava subacquea “reale” allo stesso livello delle sue pessime performances sessuali. «Veramente non lo so. Credo che abbia letto qualcosa sulla Tek List, e poi in varie telefonate con Cristiano, me e Marco, la cosa è venuta da sé». «Che meraviglia – ironizzai – e quanto resta?» «Fino alla fine, no?! Però se domani non caliamo il bilancino è un casino. Non lo so se il rimorchiatore è disponibile subito di nuovo.» «Ma lo pagate a tariffa?» «Quindici milioni al giorno?! Sei matto? Il Comandante ha trattato per un quinto, più o meno, ma solo quando hanno tempo loro.» Immaginavo le trattative frenetiche e da pieno sottobosco campano. Una mano lava l’altra, e nel porto di Napoli nessuno sapeva quando avrebbe avuto bisogno di un favore e da chi. Gli equilibri erano delicati, gli interessi spesso molto grossi, e c’era sempre la possibilità che fossero pestati calli sensibili. Calli camorristici. «Passa un po’...», chiesi, tendendo la mano per un goccio della San Pellegrino scura. Le bolle di Cristiano si vedevano benissimo. «Si è spostato parecchio – borbottai quasi solo a me stesso – e sta sul fondo da un pezzo.» Alessandro si alzò, spostandosi dal lato opposto, in ginocchio sulla panca. Si tenne con un braccio a una delle aste su cui poggiava il telone e rimase lì, ad osservare pensieroso il cerchio di una ventina di metri di diametro. Le bollicine piccole piccole che si formavano in profondità per l’alta pressione, arrivavano in superficie scoppiando con un rumore inconfondibile, a stento percepibile anche con quelle condizioni meteomarine perfette. Era uno sfrigolio molto vicino a quello che si sente avvicinando l’orecchio a una coppa di buon Champagne. Guardai l’ora dal cellulare. Stava giù da diciannove minuti. Chiusi gli occhi e appoggiai la nuca al legno caldo. Odio aspettare, pensai cercando di assopirmi. Diciannove… Abbassò lo sguardo, tornando a usarlo insieme all’altro per tirarsi lungo la braca. Aveva mandato il gas lungo il corpo. Salito verso l’alto, intrappolato dagli stivaletti di gomma, sollevava gambe e pinne dal fondo. Non si vedeva più un granché, comunque. Per leggere il display l’aveva dovuto avvicinare quasi a

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contatto con la maschera. Sto stronzeggiando… si disse per la quarta o quinta volta. Mi sono infognato, la devo smettere… Non ci riusciva. Conosceva il pericolo delle coazioni, dei comportamenti compulsivi, solo in apparenza volontari e frutto di una decisione razionale. Frequenti quando si respirava aria a profondità superiori ai quaranta metri, si verificavano anche con miscele migliori, laddove intervenivano i cosiddetti fattori incrementanti. Paura, ansia, stress… C’era dentro con tutte le scarpe. Del resto ne avevano discusso: usavamo, per risparmiare sull’elio, una miscela che diminuiva di circa la metà la quota equivalente paragonata a una analoga immersione ad aria. La 50/50 era comoda anche per le ricariche. I calcoli semplici, e l’errore nei travasi quasi impossibile. Metà aria, metà elio. Voleva dire che ora, a ottantacinque metri, era come sottoporsi a una narcosi di quarantadue e mezzo, cicinino più, cicinino meno. Pari a tre bicchieri di Martini, secondo la scuola di pensiero del Comandante Cousteau che, negli anni sessanta, aveva coniato l’equivalenza di uno di quei drink per ogni dieci metri di profondità, a partire dai venti. Niente in confronto al Lagavulin, pensò sorridendo all’idea di un bel bicchiere del suo whisky preferito. Quella sera, tornato a Ischia Porto, sarebbe entrato da Calise, il bar più in del paese e ne avrebbe ordinato una doppia razione. Pregustò il calore nello stomaco e il retrogusto di fumo di torba sul palato, caratteristico dei malti della parte sud dell’isola scozzese di Islay. L’immaginazione anticipò i saluti complici della cassiera e del barman, quei cenni del mento, gli occhi bassi, in un linguaggio gestuale esoterico, appena percettibile e del tutto antitetico agli ampi sorrisi, i movimenti enfatici delle braccia e delle mani, riservati ai turisti, agli stranieri, per la sceneggiata della napoletanità, quasi estranea a questi isolani. Si sarebbe goduto per qualche minuto la pace della pinetina, con Tazio Romeo scalpitante, freccia bianca maculata di nero sul tappeto di aghi di pino, ansioso di scattare verso casa, dove li attendeva la sua (la loro) bimba. Se la moglie non aveva paturnie ed evitavano una lite, forse ci scappava una scopata prima di dormire. Marò, di nuovo… Ritrovò la bombola di ossigeno e la retina. Le aveva lasciate come segnale la seconda volta che gli era sembrato di essere tornato sullo stesso aggrovigliamento del cavo. E ora era la quarta. Girava in tondo, nessun dubbio. Doveva smetterla, risalire da lì. Passò da un erogatore all’altro senza controllare i manometri. Ora non gli andava di farlo. «Cristiano, Cristiano, controllati, sali!», farfugliò nel boccaglio. Quasi tutti coloro che avevano sperimentato compiti gravosi in profondità, ammet-

tevano di parlare ad alta voce con se stessi, per lo più in seconda persona. Il cervello veniva rallentato da gas inidonei, pressione fisica e pressione psicologica. Si divideva in due in modo tangibile. Gli emisferi non riuscivano più a comunicare tra loro in modo istantaneo. Quegli episodi di sfasamento, in superficie provocavano i dejà-vu. Un ricordo o impulso afferrato prima da un lato del cervello e poi dall’altro, induceva a credere di aver già visto o vissuto qualcosa in una precedente occasione. I Newage avrebbero parlato di ‘’vita precedente’’… Sott’acqua, comunque, si amplificava. Era come se due persone parlassero all’interno dello stesso involucro, l’una con l’altra. Per lo più si rassicuravano, o ripetevano a voce alta i gesti e le operazioni che uno consigliava e l’altro eseguiva. Incominciò ad aprire la retina per estrarne le corde su cui risalire. Cos’è… L’attenzione fu carpita da qualcosa, un oggetto comparso all’improvviso all’estremo confine del campo visivo. Girò la testa, alzandola appena. In una macchia di blu vivido tra le volute di sospensione marrone, una cima grossa e arancione saliva e scendeva nella nebbia, formando una U rovesciata. E’ arancione nella tua testa, disse uno dei tizi all’altro. In effetti il colore reale lì era solo una sfumatura di blu, tendente al viola, a voler essere fiscali. Tutto era immobile. Si accorse di aver trattenuto il respiro solo quando la fame d’aria fu tale da provocargli un singulto. Ventidue minuti… Forzò le mani a impugnare i due manometri. Uno segnava trenta e l’altro cinquanta bar residui. Rialzò la testa guardando la cima. Stava lì come una sfida personale, sembrava prenderlo in giro. Puoi arrivarci e portarla su con te… Non ci mise che un attimo. Schizzò in alto con una leggera diagonale. La afferrò nello stesso istante in cui, d’istinto, si voltò nella direzione da cui veniva. Cazzo cazzo cazzo… La nebbia ingoiava il fondale a trecentosessanta gradi, e la bombola d’ossigeno e i rocchetti erano rimasi lì, ormai invisibili e altrettanto inservibili. La pressione del gas residuo, scese sotto il limite di equilibrio con quella della colonna d’acqua che lo sovrastava. In teoria il riduttore di pressione avrebbe dovuto dargli ancora qualcosa da respirare, ma a quella quota la trentina scarsa di BAR erano come non avere nulla. Cambiò con il terzo erogatore. La miscela compressa fluì nei polmoni, e la quantità di azoto oltre misura prese a cazzotti i suoi neuroni. Rise, ubriaco, e il balletto tra le voci si fece intenso. Abituato a un grado piuttosto elevato e frequente di alterazione comportamentale, riuscì a mantenere un certo controllo.

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Aveva il gav poco gonfio e provò a immettere un po’ del gas residuo. Non ottenne il risultato sperato e quindi si attaccò alla cima con le gambe intrecciate. Prima staccò la frusta che immetteva il gas da una delle bombole sulle spalle, poi usò quella che per abitudine portavano sulla decompressiva Nitrox. Nelle configurazioni standard non lo faceva nessuno, ma quella era una delle piccole modifiche introdotte dal loro terzetto per rendere meno insicure le immersioni. «Tiriamo una coperta corta», stigmatizzavo il comportamento schizoide, quando ero in vena di autocritiche. Prendevamo molti, troppi rischi, controbilanciandoli con un patchwork di azzardo e fortuna, protocolli mutevoli, forza bruta e d’animo. Non poteva reggere all’infinito. Era un giochetto che si fondava sull’aiuto e la mutua attenzione con cui ci proteggevamo l’uno con l’altro; ma da soli o con compagni inetti, prima o poi sarebbe finita male. Diede gas e si sentì tirare su. La cima venne verso la superficie con lui. Merda… borbottò quando la corda si interruppe e gli scappò tra le pinne. Espulse del Nitrox dal gav e la riguadagnò, qualche metro più giù. Controllò il computer. Si sentiva meno fuori e vide che non era poi così strano. La quota si era ridotta da ottantacinque a sessanta. Provò a tirare la cima, ma restò bloccata. Gli venne in mente che aveva guardato lo strumento al polso, ma non ricordava quanti minuti segnava. Meno di quattro centimetri quadrati di informazioni vitali condensate l’una affianco all’altra, e ne era stata metabolizzata solo una. Ricordò l’esempio che facevano nei corsi per far comprendere il fenomeno psicocognitivo: “Quante volte vi capita di guardare l’orologio sotto stress, per sapere quanto manca a un appuntamento importante, e siete costretti a riguardarlo subito perché non avete memorizzato l’ora? E’ ciò che capita in narcosi, quando non si raccolgono e mettono in relazione tra loro le informazioni del computer. Solo che da questo, sott’acqua, dipende la vostra vita” Alzò il polso. Venticinque minuti, oh cazzo! Venticinque… «Venticinque, e non vedo più le bolle, porca puttana!» Al grido venato di spavento di Alessandro, aprii gli occhi scordandomi dov’ero. La luce del sole me li accecò, con un dolore acuto che dalla pupilla si propagò al centro del cranio. «Dove? Che?». Inciampai alzandomi in piedi e per poco non ricaddi muso a terra. «Non vedo le bolle, l’ho perso maledizione...». Alessandro correva su e giù. Ritrovai l’equilibrio e me stesso; un senso di nausea m’accartocciò lo stomaco. L’incubo di ciascuno di noi era là attorno che zompettava sulle punte,

facendosi beffe e nutrendosi affamato della paura che alimentava. Volai a prua e mi arrampicai sul tetto della timoneria. Un “crac” sotto il piede sinistro mi segnalò che avevo rotto il compensato marino, ma era un problema insignificante su cui mi auguravo di aver modo di litigare più tardi, ridendo di pericoli immaginari, o scampati come al solito alla grande. «Allora?!», mi urlò. «Niente, non le vedo.» Una leggera brezza increspava l’acqua. Il sole in discesa faceva il resto sparando strisciate mimetizzanti sulla superficie. Non si vedeva più lontano di dieci, quindici metri, senza che diventasse impossibile determinare se erano bolle da giù o miraggi. «Stava laggiù», puntò il braccio Alessandro, in direzione della costa. Il Vesuvio svettava nel cielo sgombro di nubi, troppo lontano dalle boe che avevamo vicino. Se non era tornato indietro, e lì non si vedevano bolle, doveva per forza risalire da un’altra parte. «Non vedo palloni, tu vedi palloni?» No, non ne vedevo. L’orologio segnava le 15:26, stava giù da ventotto minuti. Doveva per forza essere in risalita. Perché non aveva mandato su un pallone? «Che facciamo?» La faccia di Alessandro non trasmetteva pensieri e sentimenti positivi. Sembrava che l’avessero schiacciata con un cingolato e rimessa su alla ben e meglio. Grigia, solcata da un reticolo di rughe improvvise. La bocca cadeva a destra e non doveva respirare bene. Guardò l’orologio al polso. «Sgancia, sgancia...», urlò lanciandosi nella timoneria. Scivolai giù lungo il vetro e con il culo portai con me il tergicristallo, spezzandolo di netto dall’attacco. Disfeci con la massima velocità possibile la cima dalla bitta, e buttai in acqua la boa e tutta la parte a bordo. Alessandro aveva messo in moto, ma non ingranò. Se Cristiano era sotto bisognava far attenzione agli angoli morti, non volevamo mica trasformare in un disastro certo uno al momento solo presunto, tritandolo con l’elica. Feci cenno di muovere piano in avanti, quando la barca si allontanò dalla boa e dalla matassa di polipropilene, spinta dalla brezza marina. Con la metà del corpo, mi sporsi in fuori per controllare che in acqua non sbucasse nessuno. Una mezza ondina infame ci alzò di prua, rischiando di precipitarmi fuori bordo. Presi il telefono dalla tasca del gilet: trentuno.

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Trentuno… Stava a sessanta metri, con una decompressione che galoppava come un puledro impazzito, in crescita esponenziale con lo scorrere dei secondi. Non aveva più ossigeno, poco gas per salire e nessun rocchetto da svolgere con il pallone, per segnalare la sua posizione. Se mollava la cima andava alla deriva nel blu. Una piccola medusa passò fluttuando, pareti cellulari trasparenti, i tentacoli e i contorni appena accennati da striature viola. Valutò la corrente un metro scarso ogni cinque secondi. Se non era del tutto rincoglionito facevano dodici metri al minuto. Per non ammazzarsi, anche saltando tutte le tappe, avrebbe percorso un centinaio di metri prima di sbucare in superficie. Se non lo vedevano era morto, in pochi minuti la malattia da omessa decompressione l’avrebbe debilitato, non sarebbe riuscito a ridiscendere e comunque non cambiava nulla con un dieci litri di Nitrox e basta a disposizione. Aveva tirato la corda e ora era fottuto. Perso per perso… Si lanciò giù a capofitto, sperando di capitare sul lato giusto della cima. Per accellerare la discesa si tirò con violenza sulla corda di plastica. Poteva anche strapparla dalla “cosa” che la teneva sul fondo, se gli diceva culo. Visualizzò la scena della grande nave che aveva catturato nell’elica la tanica e tutto il suo codazzo. Doveva essersi avvoltolata sull’albero dell’elica verso la chiglia, tirando via il cavo d’acciaio dalla tonnara. Quello si era teso verso la superficie scivolando sul fondo, e poi era caduto su se stesso quando le grandi pale, alla fine, avevano strappato o tagliato la cima. Non capiva come il capo superiore potesse essersi impigliato in qualcosa, che l’avesse poi sprofondato e tenuto sul fondo in quella maniera. Fu distratto dall’urto col fondo. Era di nuovo bello stordito, ma sapeva di non avere molto tempo. Strattonò senza successo e decise di evitare di perdere tempo in indagini senza futuro. Tirò fuori un altro coltello dalla tasca sulla gamba destra e cominciò a segare. Se la sommità dell’arco stava a sessanta metri, tagliando la cima sul fondo quella si sarebbe alzata del doppio dal fango, raggiungendo, se tutto andava bene, i trenta metri dalla salvezza. Salendo fino alla massima estensione, poteva consumare tutto il Trimix e il Nitrox rimasti restando sulla verticale, non lontano dal relitto. Poi un salto di trenta metri, pensò, ma il peggio sarà passato. E soprattutto sarebbe riuscito ad emergere senza derivare troppo lontano. Intanto, continuava a mordere il cavo con i denti del coltello. La narcosi lo ovattava, la testa era un pallone riempito di liquido oleoso, in cui risuonavano campane attutite. Non sapeva da quanto tempo stava segando.

All’improvviso la mano sfuggì verso il fango. Rischiò di perdere la presa per la selvaggia esultanza con cui accolse il successo. Era libera! Spinse le gambe sul fango e aiutò il gav a portarlo su. In pochi istanti, fu alto sullo strato di nebbiosità che continuava a ostacolare la vista del fondale. Da qualche parte, proprio sotto di lui, lasciava una fonte di ossigeno che poteva salvargli la pelle. Non poteva farci più nulla. L’entusiasmo e la speranza si infransero contro il muro che si manifestò subitaneo nell’erogatore diventato duro, quasi impossibile respirarci oltre, per il calo della pressione del gas. Inutile perdere tempo a guardare i manometri, sapeva cosa indicavano. Inspirando a fatica, succhiando letteralmente quel po’ che restava ormai al limite dell’apnea, pinneggiò per accellerare la risalita. Cercò di dare un ordine a quella riemersione disperata, ma senza risultato. Voleva rallentarla, controllandola più su e riutilizzando uno dopo l’altro fino all’esaurimento definitivo i gas. Con la graduale diminuzione della pressione della colonna d’acqua, gli erogatori avrebbero ripreso a funzionare alla meno peggio. Non fu possibile. Rintronato, senza una organizzazione dell’assetto data da calma e tempo, fu proiettato verso la superficie. Doveva tenere con almeno una mano la cima. Se la perdeva tutto sarebbe stato vano. Arrivò in un attimo alla massima estensione del cavo. Il corpo fu spinto dal gas che si espandeva nella muta e nel gav, e la presa scivolò per oltre venti centimetri. Riuscì a malapena a serrare le dita su alcune delle trecce in cui si andava sfilacciando l’estremità segata della cima. Che immagine si presentava agli occhi di uno spettatore: un cavo che spuntava dal nulla, attraverso una coltre spettrale nel blu profondo del mare; alla sua estremità una sorta di pagliaccio a testa in giù. Con uno sforzo titanico si tirò in basso, piegando le ginocchia e spingendo le pinne verso il fondo. Non voleva sgonfiare muta e gav, i gas erano pochi e andavano risparmiati. Attorcigliò una gamba al cavo, accertandosi che lo tenesse assicurato, ed ebbe le mani libere. Un dolore sempre più forte cominciò a comprimergli il petto. Rise di se stesso. Che situazione assurda. A rotazione, consumò i gas residui nelle bombole di fondo, estraendo intanto il pallone dall’alloggiamento sotto al gav e mandandolo libero verso la superficie. Per gonfiarlo quanto bastava, fu cauto, usando lo scarico dell’erogatore che aveva in bocca riempiendolo con la propria espirazione. Guardò l’aggeggio volare verso la superficie scodinzolando, come un palloncino liberato da un bimbo a una festa.

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Ogni movimento delle braccia era accompagnato da scosse elettriche che, partendo dalle articolazioni dei gomiti, sentiva scendere fino alle dita. Microbolle di elio che si aggregavano e ferivano i nervi. Terminato il Trimix, passò al Nitrox. Non riusciva nemmeno più a calcolare a spanne quanta deco poteva necessitare. Il petto doleva sempre più e si sentiva stanco. Aveva provato altre volte i sintomi di una MDD, ma mai così in profondità, e iniziava ad avere paura. Sollevò lo sguardo verso la superficie. Chissà se il pallone era stato visto dagli altri. Le sue bolle piegavano di una ventina di gradi salendo. Non avrebbero potuto determinare la verticale, ma l’acqua era limpida e forse avrebbero calcolato la direzione e ampiezza della curva. Morirò?, si chiese. Quante volte avevano beffato la Morte… C’era un senso in tutto questo? Faceva davvero sentire più vivi mettere in gioco la propria vita di continuo e riuscire a sfuggire quella roulette con l’ultima pallottola? Non sapeva rispondersi. Aveva l’impressione che di molte scelte, determinanti nella nostra esistenza, comprendiamo le ragioni solo a posteriori. La loro “giustezza” o erroneità ci è chiara solo dopo averle compiute, e magari anche dopo ch’è trascorso parecchio tempo da allora. Spesso, troppo tardi. Dentro di sé, era ancora convinto di negare la soddisfazione alla Nera Signora. Sarebbero arrivati i suoi amici, tra un po’ avrebbe potuto arrischiare l’ultimo salto, per farsi raccogliere e curare a galla. Quella stessa sera avrebbe riabbracciato la sua bambina, giocato con il cane, ricambiato il sorriso della mamma e scherzato con gli amici. Invece del Lagavulin, si sarebbe concesso un bicchiere, anzi, un’intera bottiglia di Laphroaig. Lo trovarono più tardi. Un filo di gas usciva piano dal gav, ormai pressoché sgonfio. L’aria intrappolata nella muta lo tratteneva verso la superficie, ma il peso delle bombole e della zavorra, non più sostenuto, piegava il busto e la testa in giù, con una posizione innaturale e orribile a vedere. Il volto, gonfio e grigio, era una maschera sotto la maschera, contratto dalla sofferenza e dalla consapevolezza di essere morto in solitudine, senza alcun conforto e in una lenta agonia. Tutt’intorno, un’immensa distesa di liquido che non aveva confini, estendendosi ovunque. Aveva un suo suono, cupo e infinito, come un tunnel verso l’ultima oscurità.

La Stella del Mare appena riemersa sotto lo sguardo sfatto ma appagato di Alessandro.

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VII. La bara Nulla sapevo, sono entrato e ho veduto le cose segrete. Canto 116, Papiro di Nu, Sec. XV a.C.

La “bara” a bordo dell’Abyss.

Dalla barca di Alessandro, a poppavia, le comunicazioni via radio coi sub con le maschere granfacciali.

Scesi dal treno metropolitano e attraversai l’atrio della stazione Mergellina a passo spedito. Una leggera pioggerellina cadeva trasversale, spinta dal vento alzatosi senza preavviso. Pensando di ripartire avevo disdetto la camera del solito albergo zuzzuso. Ma Alessandro voleva approfittare dell’improvvisa perturbazione per infilare l’ultima braca all’insaputa dei committenti, che pensavano fosse cosa fatta, ed ero stato cooptato con la sacca da viaggio già infilata nel bagagliaio del pullman per Bari. La strada per raggiungere l’ostello si inerpicava su uno dei colli che cingono la città, appena prima di una delle due gallerie e vicino alle tombe di Virgilio e Leopardi. Lasciai il marciapiede e mi inoltrai sull’asfalto, tra immondizia, recinzioni segnaletiche a rete di plastica arancione, tubi Innocenti. Un cantiere come tanti in quel guazzabuglio di case accatastate le une sulle altre, giardini traboccanti di piante e arbusti incolti, cassonetti bruciati e spazzatura ammonticchiata ovunque, intrecciati a splendori storici e monumentali in un abbraccio blasfemo. Insieme alle urla, al rumore delle sgommate di auto e motorini, la cacofonia sonora e visiva di Napoli, mi urtava. Gli abitanti di quella città mi stavano genericamente antipatici. L’ostello della gioventù ricordava un collegio privato dove i miei genitori m’avevano spedito a quindici anni, alla prima bocciatura liceale. Come l’Eurocollege di Bergamo – così si chiamava il mio dorato esilio –, era una struttura di moderno cemento prefabbricato, tutto vetrate, colori pastello e pulita essenzialità. La folla di giovani nordamericani e scandinavi, rendeva azzeccato lo stile architettonico. Spagnoli e latini vari vestivano Gap, H&H, Levi’s, Stussy, Hilfiger, e calzavano Nike e Adidas come i coetanei del nord e l’ambiente restava molto cool e WASP. Diedi la carta d’identità al banco della reception e non mi sorprese vedere

Cristiano in discesa per un sopralluogo filmato sulla Stella del Mare. 142 142

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passare due culetti sodi e tondi, ai lati dei quali sbattevano borse di carta con i marchi di Prada e Diesel. Compra e vesti italiano, secondo l’ultima tendenza del capitalismo occidentale. Che poi con tutta probabilità fossero dei falsi era poco importante. Il “logo” faceva fede sull’appartenenza alla grande tribù dell’apparire per essere e, tanto, originali e bufale venivano cuciti, stampati e assemblati dagli stessi esseri umani: bambini, ragazzini e anziani. Dannati della Terra indonesiani o cinesi, nelle medesime fabbriche/lager. La sola differenza stava nel prezzo. Il paio di scarpe Nike “originali”, portava nelle capienti tasche del presidente di quel colosso, ogni anno, molto più dello stipendio complessivo dei sessantamila lavoratori asiatici che le producevano. A Napoli, almeno, buona parte di quei soldi provenienti dai “cloni” veniva ridistribuito tra ex sfruttati, diventati figli di “un capitalismo minore”. Anche la stanza a due ricordava il collegio. Poggiai lo zaino nell’armadio e feci una doccia. La mensa non era un granché frequentata. Mangiai in silenzio, dando un’occhiata svogliata al TG5, padrone assoluto di un tavolo in formica azzurra da sei posti. Tornato in camera ci trovai l’altro inquilino, un ingegnere torinese dell’azienda che aveva l’appalto per la costruzione della metropolitana. Anche loro avevano problemi con gli alberghi, sempre pieni, e soffrivano un budget risicato, che si assottigliava sempre più nell’attesa da mesi dello sblocco dei lavori, fermati dalla Soprintendenza a causa dei costanti ritrovamenti archeologici. Entrambi non avevamo molta fantasia di chiacchierare. Girando per corridoi, si capiva che non c’erano festini e ragazze “facili”. A parte shopping e turismo di gruppo, sembrava dominare l’alloggio strumentale al solo sonno ristoratore per adolescenti Ymca Style. Niente zaffate di Maria Giovanna e melodiche tenebrose e martellanti tipo “Shoot me again” dei Metallica, tracce di un modo di vivere alternativo e forse altrettanto consumistico, ma più umano e a me affine. Con quella noia, sprofondai subito nel limbo onirico e fu di nuovo giorno.

«Che si fa allora?», domandai con aria svagata. Sorseggiò la spremuta d’arancia ammiccando verso una bella mora che trascinava un trolley, affrettandosi verso i due scafi veloci pronti a partire. «Capri o Ischia?» Era un giochetto abituale. Ci occupava spesso e volentieri. Di solito ad orari da aperitivo post lavoro, ma anche a colazione ci si poteva perdere del tempo. «Capri», risposi senza esitazioni. Ci disponemmo ad aspettare l’esito allungando entrambi le gambe sotto il tavolino. Alessandro spinse con il dito indice gli occhiali da sole alla radice del naso, io mi grattai dietro l’orecchio. Arrivata al molo, la ragazza si mise in fila dietro il cartello che indicava l’idrojet per l’isola dei VIP. Tra i denti il biglietto, lo stava sicuramente imbrattando di rossetto rosso fuoco. Non avevo avuto bisogno di analizzare per più di un battito di ciglia il completino giacca-pantalone nero ardesia di ottimo taglio, intonato ai lunghi, curati capelli corvini. Trucco, occhiali da sole firmati, bigiotteria “stilosa” e scarpe lucide con tacco alto alle otto di mattina: mai nella vita sarebbe potuta partire per un’isola “popolana” come Ischia. Ale aveva già perso l’interesse per la fichetta e si alzò, tastandosi le tasche per trovare le chiavi dell’auto. «Iamm’, è tardi.»

«Roberto?», chiesi sedendomi al tavolino del bar. «E’ partito subito per Ischia. Visto che dobbiamo passare ancora una braca ed è brutto, ha approfittato per qualche immersione con Cristiano sul Misero.» «Oh, esimio compare Alessandro, quindi siamo io e te e te e io! Alleluia...» Mi guardò, poco convinto se prenderla come una battuta priva di allusioni o con un sottinteso polemico. Conoscendo la sua natura permalosa, mi godetti l’interrogativo amletico privandolo di qualsiasi indizio risolutore.

Feci un’immersione tranquilla. Usando il solito bastone di scopa passai la cima guida da un lato all’altro del bow thruster. La prima braca giaceva tra due pale dell’elica, per cui la feci filare nello spazio accanto. Girando attorno alla prua mi rovesciai sul dorso. L’acqua era pulita e se ci fosse stato il sole avremmo avuto un sacco di luce. In ogni caso la punta della tonnara svettava sopra di me ed era uno spettacolo. Immaginavo come si dovessero sentire i delfini quando le passavano sotto a tutta velocità, saltando sul ventaglio di spuma sollevata nel fendere l’acqua, da destra a sinistra e viceversa. Ma che tenerone… stroncai me stesso. Indugiare su immagini così melense poteva far male alla salute. Optai per una variante in cui dalla prua ai cetacei zompettanti gli sparavo con uno Spas 12 caricato a pallottole rinforzate Brenneke per la caccia al cinghiale. Del resto i delfini sono buoni come i suini, non si butta niente. Misi il pallone nell’occhiello ricavato all’estremità della corda, dopo averla tagliata via dal bastone per fare prima. Riempito dal gas si sollevò trascinandola. Dopo pochi metri arrivò senza problemi il cavo di metallo, urtando contro una delle pale di ottone, ma senza bloccarsi.

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Si arrestò dopo poco, comunque. Gonfiai appena il gav risalendo la cima e, arrivato al pallone, feci entrare altro gas. Riprese a tirare e sollevò ancora un po’ la braca. Controllai il computer. Quattordici minuti. Potevo lavorare ancora per quattro, cinque, ma non mi andava. Risparmiavo di saturarmi ulteriormente, in vista di giornate che si annunciavano di certo gravose. Si era al rush finale. Repressi una mezza voglia di farmi un giro di piacere sul relitto. La deco cominciava di nuovo a essere pallosa. Per due mesi le conseguenze dell’MDD dell’Iseo mi avevano lasciato appeso alla cima, durante le tappe, in stato comatoso. I sessanta, a volte ottanta minuti tra ventuno e sei metri passavano presto. Fantasticavo d’incidenti, morti e stranezze, ma passavano. Cristiano aveva immerso romanzi e fumetti nell’olio, per impermeabilizzarne le pagine e leggere durante l’attesa. Dopo un paio di esperimenti più o meno mal riusciti, era tornato alla solita apatia rassegnata. Il suo carattere lo ritenevo confacente a quella rottura di coglioni, ma non capivo come riuscisse Ale, così anfetaminico, a star tranquillo. Per quanto riguardava me, l’isteria decompressiva stava rapidamente tornando in sella. Avevo già ripreso a “tagliare” minuti finali con la motosega, come dicevano per prendermi per il culo. Se avevo ancora dieci minuti a sei metri, andavo giù a dodici e ne facevo tre, respirando ossigeno puro. Più che per spirito di ricerca empirica, i miei “esperimenti” venivano dettati da una incontenibile incapacità di stare fermo ad aspettare. Con Cristiano avevamo creato una corrente che chiamavamo la ‘’subacquea sciamanica’’. Ci facevamo crasse risate alle spalle di beoti e creduloni, terrorizzati dalla marea di incertezze e contraddizioni delle teorie medicoscientifiche e metodologiche del settore. Cercavano sempre di trovare conforto in qualche dottrina o tesi proposta in modo deciso, assolutistico. Ignoranti e stupidi come asini, più che voler capire e accettare anche l’imponderabilità, preferivano essere sodomizzati intellettualmente da imbecilli spocchiosi e arroganti, che proponevano baggianate ascientifiche con cipiglio severo e imposizione fideistica. Noi, che non sapevamo nulla se non che la maggior parte delle teorie non funzionavano, o quantomeno che si raggiungeva lo stesso risultato cambiando l’ordine dei fattori, trovavamo esilarante proporre un indeterminismo contaminato da pseudoreligiosità pagana, lo sciamanesimo, appunto. Una volta, su un forum internet, avevo sostenuto che m’ero comprato negli USA un ‘’accappatoio decompressivo’’, che permetteva di ridurre le soste per denaturare dai gas accumulati. In realtà si era verificato un episodio dei nostri, proprio a Ischia. Avevo dimenticato al diving di Ischia il sottomuta,

un indumento che isola la pelle da alcuni tessuti con cui si producono le mute stagne, impermeabili ma termicamente inefficaci. Non trovando di meglio, lo sostituii con un indumento di Cristiano, un suo accappatoio vecchio e sporco trovato in barca tra gli stracci. Qualcuno dei clienti/allievi aveva manifestato stupore per il mio profilo di immersione molto più rapido del suo, e senza pensarci su tanto, avevo risposto ch’era grazie all’accappatoio speciale di Jim Bowden, un recordman texano. Cristiano, per scherzo, s’era dato pena di portare avanti la storiella su Internet e qualche cretino c’era cascato, comparvero infatti dei post in cui si chiedeva dove acquistarlo. Un’altra delle gag più riuscite era quella della decompressione transitiva. Se l’era inventata Cristiano, questa. I primi computer da polso non erano programmabili dall’utente e avevano (quelli ‘’di massa’’ l’hanno tuttora), dei software che tengono conto di organismi estremamente fragili, per cui di default allungano i tempi delle soste deco. Gente magra, giovane, sana e abituata, che per di più utilizzava miscele desaturative come noi, poteva uscire dall’acqua molto prima che lo strumento desse il permesso. Ma se il computer usciva dall’acqua con noi senza essere d’accordo, suonava l’allarme e andava in modalità errore, restando fuori uso per ventiquattro ore e penalizzando le immersioni successive. Per cui c’eravamo abituati a lasciare gli strumenti in acqua. Li attaccavamo al filo d’Arianna dei rocchetti, uscivamo e poi, passati i minuti letti sul display, li recuperavamo. Cristiano non era riuscito a evitare di approfittare di uno dei tanti sciocchi con cui ci accompagnavamo inevitabilmente. Un bel giorno, dato che c’era sempre la paura di perdersi i costosi aggeggi sotto la barca per distrazione o errore, l’aveva passato a uno di quei soggetti. Solo che non mancò di inzupparci il pane: gli spiegò con la sua caratteristica serietà, che il computer passava la saturazione a chi lo indossava. Se questi avesse deciso di uscire prima dall’acqua, secondo i propri tempi, si sarebbe ammalato al posto dell’altro. L’assurdo non era tanto che in queste trappole ci cadessero degli scemi notori, quanto che persone di un certo livello intellettuale si ponessero l’interrogativo se facevamo o meno seriamente. La diceva lunga sulla feccia umana che riusciva a raccattare la subacquea in generale, e quella cosiddetta tecnica in particolare. Spuntai in superficie sotto un cielo incupito dalle nuvole. Il mare piatto era del colore del piombo fuso. «Com’è?», chiese il napoletano affacciandosi. «Mah, non male. Devi solo alzare un lato e appoggiare le due teste sul ponte.» «Hai fatto prima o tagliato?» «Tagliato. Ci ho messo un po’ a farla passare...», mentii.

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«Uà, lota, e dai. Ti ho detto di fare attenzione, dobbiamo finire ecchecazzo. Se ti fai male è un casino, già siamo pochi.» Mi aiutò a risalire e a spogliarmi. Feci l’inverso con lui e, una volta scomparsa la sua testa sotto la superficie dell’acqua, mi dedicai ai soliti panini. Iniziavo a essere stufo anche di quelli. Dopo venti minuti non vedevo ancora le grosse bolle della media e bassa profondità. Appoggiato alla cabina osservavo il cerchio di quelle minuscole – le “abissali” o “da sprofondo” – largo e costante quindici metri oltre la prua. L’orologio e quell’indicatore mi annunciavano che avevamo un problema, oppure Alessandro stava superando il tempo protocollato per la frenesia di finire quella fase del recupero. Avrei dovuto prevederlo. Un po’ di senso di colpa s’insinuò tra le maglie strette della cotta che difendeva la mia pessima coscienza. Forse avrei dovuto darmi un po’ più da fare. No, non mi pagava abbastanza. Girai i tacchi e andai a prendermi un secondo panino e una lattina di birra con cui soffocare quegli scrupoli ammoscianti. Passarono quindici minuti e fu in vista sotto di me. Tirai fuori una bombola Nitrox e una di ossigeno in più, per buona misura, e le calai in acqua dopo aver calcolato quattro bracciate di cima. «Beh?», lo guardai interrogativo. Non mi rispose, togliendosi la maschera e soffiandosi il naso. La poltiglia di muco galleggiò sull’acqua striata da grumi nerastri. «Stai sanguinando dal naso», commentai in tono neutro. «Mi sa che mi sono fatto male», fu la risposta, che davo per scontata. Presi un pezzo di corda e gliene tirai un capo davanti al muso. «Attaccati, ti traino.» Lo afferrò e si lasciò rimorchiare a poppa. Un pessimo segno. Palpai la tasca del gilet, pronto a tirar fuori il telefonino. Poi diedi una rapida occhiata alla camera iperbarica, o a quella cosa che con una certa qual fantasia le rassomigliava. «Stai male o male male?», chiesi tirandolo verso la pedana. Facevamo una precisa distinzione, il primo scenario non veniva preso in considerazione, almeno non più di quanto facesse l’allenatore di una squadra di rugby con un suo giocatore tacchettato sotto una mischia. «Un po’...» «Che ti senti?» «Mi faceva male la spalla a nove metri. Sono sceso e ho fatto un altro po’ di deco a dodici. E’ andata bene fino a cinque, poi ha ripreso.» «Beh, scusa, tieni l’ossigeno in bocca, no!?»

«Mi viene da vomitare.» «Ho capito, però...» Misi le mani in acqua stendendomi sul legno del plancito, e poi gli staccai le bombole dal petto, sollevandole in barca. Restava a galleggiare sulla schiena, il capo reclinato indietro sul gav, e respirava a fatica. Non scatarrò, né fece la balena sputacchiando un getto d’acqua supino. Immobile, evitava tutti quei gesti abituali che denotavano un buono stato di salute. Allegria… Lo tirai a me, staccando torcia e rocchetto che impicciavano. Poi presi la cintura del gav e ne aprii fibbia e moschettone del sottocavallo. «Non mi toccare l’uccello, o ti inculo», tubò, con una classica distonia tra immagine del Super-Io e rappresentazione del Sé. «Oh, stiamo meglio oppure è l’ultima stronzata del morente. Vieni qua frocione, fatti togliere ‘sta merda», cercai di sdrammatizzare. Aveva fatto una battuta, ma gl’era uscita con un tono spiacevole, come farsi una sega nella carta abrasiva. Libero dal gav, mi passò la zavorra e si tolse le pinne. Non senza una smorfia di dolore, quando usò il braccio destro. Ne spiai i movimenti finché si sedette, spogliato dalla muta fino ai fianchi, a occhi chiusi. «Telefono in ospedale?» Li spalancò di botto. «Si scem’?!?» Fece un cenno enfatico di diniego col dito indice. Il resto del corpo continuava ad essere rigido come un blocco di marmo. «Non se ne parla, niente casini. Va tutto bene.» «Se lo dici tu...» «Lo dico io. Certo.» Bianco come un cencio, il volto affilato si contraeva per il dolore rivelando i contorni del teschio sotto la pelle tesa a tamburo. «Quindi? Che hai combinato?» «Ho alzato l’altra testa, ma ho perso tempo con quella valvola di merda del pallone da cinquecento. Non si apriva, poi è partita di botto e si è sgonfiato. Sono dovuto scendere di nuovo a chiuderla e ripartire da capo. E meno male che il tappo mi è rimasto in mano...» «Un film. E ovviamente dovevi finire oggi...» «E certo. Che so’ sfaticato come a te?» «‘Fanculo Alessandro, ‘Fanculo» Mostrai il medio per essere sicuro che avesse capito. «Poi?», continuai con espressione interrogativa. Se aveva la for-

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za di rispondere, c’eravamo evitati ancora una volta il disastro. «Poi niente. Ho sgonfiato tutt’e due piano e le ho appoggiate sul ponte vicino alle altre». Mi figurai la scena. Ora le due coppie di brache passavano a poppa e a prua, e giacevano appoggiate sul ponte, le une verso le altre, pronte ad essere connesse al centro con il bilancino. I lati di un triangolo di cui la nave costituiva la base, da sollevare a galla e rimettere in navigazione pompando via l’acqua dalla stiva. «Che vuoi fare?», chiesi. Soffriva, lo vedevo bene. Poteva non essere nulla di grave. Presumendo fosse una botta causata dall’elio, il dolore si faceva acuto all’inizio, ma rispetto all’azoto scemava prima e dava poche conseguenze. Almeno entro poco tempo. Nessuno di noi, nemmeno i dottori che si occupano di iperbarismo subacqueo, poteva pontificare con coscienza sulle conseguenze che si sarebbero prodotte sul nostro organismo di lì a dieci, venti anni. Eravamo la seconda generazione professionale a fare quel tipo di esperienze in immersione libera profonda, e dalla prima ci separava un solo lustro. «Aspettiamo. Dammi la bombola di ossigeno. Ce la fai a guidarla in porto da solo?!» «Che fai, sfotti?!» Saltellai verso la tuga prima che cambiasse idea. «Dopo un po’ è passato il peggio. Appena siamo arrivati all’imboccatura ha voluto stare lui al timone.» «Allora era a posto...», commentò Cristiano all’altro capo del telefono. «Già, credo pure io» «Hai capito cosa gli è successo?» «Mah, secondo me siamo un po’ carichi. Abbiamo fatto cinque profonde a testa in due settimane e tre di seguito negli ultimi quattro giorni. Quando è ridisceso e risalito facendo sforzi, deve aver avuto una modesta aggregazione di microbolle di elio.» «Se è passato il dolore dopo poco, respirando ossigeno in superficie credo anch’io.» «Voleva mettersi in camera dentro al porto. Ma ti pare? Con tutti quelli della Capitaneria e i suoi colleghi attorno.» «Eh, eh, sai che pubblicità!? Gli hai dato Decorade?» «Madò, sul serio, finiva sul Mattino... Si, due Aspirine, un Aulin e la vitamina E, solito intruglio. Come una brava chioccia. E voi, che fa il testa di cazzo?»

«Siamo scesi, ma ha fatto poche foto, c’era una corrente di ponente che sporcava.» «Va bene. Ci vediamo domani allora. Salutami tua madre.» «Ok, ciao Stè.» «Ciao.» Restai ancora un po’ seduto a guardare fuori dalla vetrata del secondo piano del Mc Donald’s. Comincio a invecchiare…Ormai non riuscivo più a mangiare quella roba, se non inframmezzando almeno una settimana tra un pasto e l’altro al fast food. Le patatine in particolare. Quando vendevano quelle tagliate grosse, similforno, ancora ancora andava bene. Ma le tradizionali mi facevano venire la nausea. Quarantun’anni. Che palle. La folla riempiva ogni angolo della piazza. Chissà com’era quel posto quando Garibaldi entrò a Napoli. Trovavo più che normale che il Dittatore avesse chiuso l’avventura dei Mille in quella città. Non aveva scampo. Da una parte le truppe dei Savoia, dall’altra una popolazione di pagliacci, infidi, traditori, abituati a sottostare tirando fregature, a subire sbeffeggiando e pazziando. Da mezzo terrone i partenopei li disprezzavo con tutto il cuore, considerandoli responsabili di un modus vivendi che in realtà appartiene a loro soli, e che nel tempo è stato invece attribuito a tutti i meridionali, come una coperta infettata da uno, passata a contagiarne mille. Scesi in strada dribblando coni di plastica gialla, che mi avvertivano di far attenzione al pavimento bagnato, e palloncini colorati di una festa di compleanno celebrata nel tempio del cibo yankee. Mi sentivo depresso. Perché non riuscivo a gustarmi la libertà? Dopo dodici anni di schifo carcerario continuato e altri tre di semilibertà, perché non giravo come una trottola ovunque, succhiando la vita in ogni via, locale, angoletto sperduto? Mi ero riabituato. Gironzolai un po’ in mezzo alla gente, le mani in tasca. Cercavo di fare il lavoro che m’ero scelto e, soldi o no, passavo al mare buona parte del mio tempo. Tutto il bagaglio che trascinavo dentro di me, dalla adolescenza sbalestrata alla latitanza, dalla galera al ritorno in libertà caotico, senza né capo né coda, iniziava a scendere sul fondo e a depositarsi in strati più o meno mischiati tra loro. Forse stavo alla meno peggio tra quelle persone borderline perché lo sarei stato per sempre anch’io, comunque. Suonai al campanello dell’albergo, degnando appena di un’occhiata la telecamera di sorveglianza puntatami contro.

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Il portiere mi riconobbe e non chiese i documenti, limitandosi a porgermi sul banco il modulo da firmare per la Questura. Nella cameretta buttai la sacca in un angolo e accesi la tv, più per isolarmi con un rumore mio da quelli esterni che per guardare qualche trasmissione. Telefonai a Claudia. «Ciao, come va?», si informò. «Bene, più o meno. Tu quando vieni?». «Penso lunedì. Mando le figlie dal padre con l’autobus e vengo in macchina.» «Ok. Novità?» «Nessuna. Solite cose. Tua madre mi da il tormento per sistemare le tende e tagliare l’erba, ma tutto ok.» «Va bene. Alessandro vuole organizzare una serata, ti va?» «Si, ok. Ti chiamo domani per la conferma. Saluta tutti. Baci, amore» «Baci a te, ciao.» Spensi la tv e la luce al neon. Urla e sirene entrarono dalla finestra accostata e occuparono la stanza insieme alle ombre. La palazzina degli ormeggiatori e degli equipaggi dei rimorchiatori, era uno dei pochi edifici antichi sopravvissuti a cementificazione e insediamento dei capannoni nel porto. Bassa e tozza, isolata da tutto, mi piaceva molto. L’ingresso era sporco e annerito come l’ambiente circostante, ma conservava un aspetto austero, che nemmeno i panni stesi ad asciugare alle finestre, sui lati e nel cortile retrostante, riuscivano a modificare. La fila di rimorchiatori affiancati murata a murata lungo il molo alle spalle, era una gioia per gli occhi. Uno o due erano vetusti, ma non per questo meno belli. Trovavo anzi che donassero un certo fascino retrò alla colonna di maestosi bulldog del mare, ipertecnologici, che costituivano il grosso della flotta partenopea. Ciascuno di quei tozzi e potenti bestioni, costava una media di quindici miliardi di lire. Erano il nerbo dell’attività commerciale del porto, sempre su e giù per i moli e le dighe foranee, spingendo e tirando navi portacontainer, piroscafi, petroliere e traghetti. Quando metteva brutto, erano loro a uscire, spingendosi fuori a bassa velocità, ma inesorabili, per prendere in consegna le veloci e longilinee navi in difficoltà o in panne. «E’ quello», puntò con l’indice Alessandro. Sulla fiancata anteriore, caratteri bianchi in rilievo sullo scafo nero, campeggiava il nome.

«Mastino», lessi ad alta voce. «Un nome un programma», aggiunse Cristiano alle mie spalle. Roberto ci superò avvicinandosi. Scattava qualche foto e si guardava attorno per scegliere una buona posa. Tornammo all’auto. «Allora – disse Alessandro – oggi quello ci porta il bilancino. Dobbiamo essere rapidi perché resta a disposizione del centro controllo, se lo chiamano il Comandante molla tutto e se ne va.» «Oh, ma che novità… Veniamo sempre prima di tutto, vedo.» Nessuno si associò alla polemica. Entrambi i miei compari, avevano interesse che il fotoreporter scrivesse quante più cazzate possibili sulla “professionalità” dell’operazione. Ero scettico sul fatto che ne potessero controllare la linea editoriale. Conoscevo bene lui e le riviste per cui pubblicava. Non facevano differenza tra il record di Claudia a centosessantacinque metri in un lago gelato e nero, e quello di un tizio che gironzolava in bicicletta in una piscina. Anzi, se quest’ultimo pagava qualche inserzione, o lo faceva l’azienda che lo sponsorizzava, il maggior risalto se lo beccava lui. Parcheggiata la macchina dietro il parcheggio della P.S. al Beverello, tornammo indietro a piedi, tra i soliti stormi di piccioni scacazzanti sui camion che caricavano il grano dai silos. Salimmo a bordo e mollammo gli ormeggi. Ormai il mare era quasi sempre piatto o appena increspato. Il Golfo dava il meglio di se e la navigazione era piacevole e rilassante. Cristiano, che aveva preso il mio posto come istruttore “tecnico” del reporter, faceva da chioccia e ne controllava la configurazione. Nessuno di noi era preoccupato. Sapeva stare in acqua. Ottimo sub. Apprendeva quello che gli serviva e lo modificava il giusto per adattarlo al suo mestiere. Carattere e acquaticità non dovevano per forza essere affini. Conoscevo un sacco di stronzi capaci di nuotare con le bombole. «Lo vedi?», chiesi a Cristiano. Ogni tanto sollevava la testa dagli equipaggiamenti e puntava gli occhi verso il faro rosso, dietro al quale doveva spuntare la sagoma del nostro rimorchiatore. «No.» «Scommettiamo che facciamo notte?» Ci avrei messo in palio i gioielli di famiglia. «Chi scende con il granfacciale?», mi domandò. «Ale resta su, tu fai il primo giro e io sto di riserva.» Una volta fermi sulla prima cima, cominciammo ad assemblare maschere e apparecchiatura per la configurazione radio.

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«Riuscite a dare le disposizioni direttamente al rimorchiatore?», chiese Roberto ad Ale. «No, teniamo la radio ricetrasmittente qui a bordo. Vedi, dalla valigetta che la contiene esce il cavo che mando giù fino a venti metri, lì c’è il trasduttore che emette e riceve il segnale», rispose indicando il filo nero che usciva fuori bordo «Fino a che distanza?» «Dipende dalla limpidezza dell’acqua. Maggiore è la sospensione, minore il raggio di trasmissione. Diciamo tra i dieci e i cinquanta metri». «Arriva!» Cristiano segnalò il profilo del Mastino. Lo scafo basso e nero si vedeva a stento, ma il castello di comando bianco svettava imponente, con l’ampia vetrata in cima dalla quale i piloti osservavano tutto a trecentosessanta gradi. «Adesso arrivano con il bilancino – proseguì Alessandro spostandosi sullo specchio di poppa – che è già appeso fuoribordo dietro. Si ormeggeranno a quel cavo lì, lo vedi? Quello arancione, si. Poi lo tireranno con il loro verricello finché sarà praticamente in verticale.» «Non c’è il rischio che si spezzi? Devono essere belli pesanti», lo interruppe il fotografo. «Beh, si, ma abbiamo un cavo usato negli ormeggi delle navi, attaccato sulla parte più resistente del peschereccio, il verricello. E’ imbullonato sul ponte con una contropiastra, per sopportare la trazione di tonnellate e tonnellate di rete, tonni e cavo d’acciaio. Oggi non c’è mare né corrente. Vedrai, terrà». Restammo in attesa. Il Mastino viaggiava attorno ai cinque nodi l’ora e ci volevano una ventina di minuti perché ci raggiungesse. «Posso salire a bordo?», domandò Roberto preparando la macchina fotografica per le esterne. Quella usata sott’acqua era già installata nella custodia scafandrata. Giaceva in una bacinella di plastica da bucato, una grossa sfera bianca con l’ampio vetro convesso. Le braccia che sostenevano i flash e le impugnature la facevano somigliare a un granchio, di qualche specie abissale sconosciuta. La trovavo inquietante. In Sud America alcune tribù indigene non volevano essere fotografate, ritenendo che il ritratto rubasse la loro anima. Avevo letto che nell’ottocento i primi “reporter” del Far West si erano scontrati con la stessa paura da parte degli indiani americani, i “pellerossa”. L’atteggiamento di Roberto era un tantino “vampiresco”, a pensarci bene. Quando il rimorchiatore fu prossimo, Alessandro scambiò qualche indicazione con il pilota via radio. Non appena furono a portata di voce, però,

presero a comunicare da una parte all’altra a voce, con urla e gesti più consoni alla napoletanità. Adoravo quell’aggeggio. Manovrava come fosse un giocattolino senza peso. Si girò praticamente sul proprio asse. Non aveva timone, le due eliche principali ruotavano e disponeva di altri due bow thruster indipendenti a prora. Lo guidavano da una consolle rotonda, che ora vedevamo bene, attraverso le vetrate a esagono. Il principio era lo stesso dei cingolati, un’elica andava in retromarcia e l’altra spingeva. Anche la prua riceveva una spinta laterale dalle proprie eliche, e quella massa a cui non attribuivi la minima agilità, ballava al millimetro su di un punto dato. Lungo tutte le fiancate grosse gomene e catene attraversavano cilindri di spessa plastica. I piloti si appoggiavano spesso alle fiancate delle navi, per “parcheggiarle” a spintoni nei posti assegnati lungo moli sempre più affollati, e quei parabordi proteggevano gli scafi. Una volta giratosi con la sua poppa verso la nostra, il Mastino avvicinò con cautela la boa nera. Due marinai in tuta da lavoro arancione e caschetti antinfortunistici gialli, la recuperarono con le lunghe aste uncinate. Fu poi tirata a bordo tutta la cima che avanzava in acqua. «Ok, potete salire se volete. Cri, stacca!», urlò il nostro timoniere. Mollammo il nostro ormeggio e Alessandro portò il suo scafo a fianco di quello del rimorchiatore. Saltai a bordo e, aiutato da uno dell’equipaggio, assicurammo le cime di poppa e prua alle bitte del Mastino. Roberto e gli altri due mi raggiunsero. «Dio, senti quanto è stabile?», chiesi all’ischitano dandogli una gomitata al fianco. «Qua il mal di mare sarebbe raro», rispose strizzandomi l’occhio. «Uh, si, se avessi i soldi lo comprerei già solo per quello!» Alessandro si affacciò a poppa. Avevano aggiunto alla cima un’altra gomena, per raggiungere il verricello sotto la struttura. Il ponte di poppa era uno spazio vuoto di un centinaio di metri quadri. Con la mano Ale segnalò di cominciare a tirare e proseguì, come un parcheggiatore che indica le distanze, fino a che valutò si fosse raggiunto il punto limite. «Caffè?», gridò dalla plancia il Comandante del Mastino. Sorridemmo tutti. Non poteva mancare una sosta, sorseggiando la bevanda calda. Anche se avessimo rifiutato scortesemente, se la sarebbero presa comunque.

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«Cri, mi senti?» «Ti sento, ti sento. Funziona bene. Sono a venti metri. La visibilità è buona. Vedo la chiglia del Mastino. Passo.» «Ok, perfetto. Aspetta. Do il via alla calata. Passo.» Alessandro aveva sfoderato per l’occasione le nuove T-shirt, con il logo della sua ditta sul petto e la scritta “Diving Staff” sulla schiena. Dalla tasca posteriore dei jeans tirò fuori il cellulare e lo andò a posare sulla timoneria. «Prima che mi caschi in acqua...», ci spiegò ammiccando. Fece cenno all’equipaggio del Mastino, pronto a poppa. «Adesso che succede?», mi chiese Roberto. «Calano il bilancino in acqua e Cristiano lo collega alla cima con un’asola. Poi lo mandiamo giù con il verricello, guidando l’operazione con la radio». «Ma non c’è rischio che vada fuori bordo? Sarebbe un guaio, no?» «Diciamo di si, soprattutto perché perderemmo tempo. In questa fase le condizioni meteo sono fondamentali. Dobbiamo sfruttare il bel tempo e l’alta pressione. Se va giù e tocca metterlo a posto è un bel casino. Lo solleviamo con i palloni, ma considerata la profondità e il suo peso, ci toccherebbe dover gestire più di ventimila litri di aria.» «Oh, piano!», urlò Alessandro. Il parallelepipedo bianco, collegato con le quattro brache da un metro e mezzo al cavo metallico del rimorchiatore, cominciava la discesa in acqua. «Come mai ci sono quei cavi corti?», chiese il fotografo. «Ci servono per gestire il collegamento con quelli sotto. Non sappiamo come si posizionerà sul ponte, ed è più comodo e veloce muovere quelli. Anzi, in realtà una volta che quel coso sta giù possiamo dire che lui e i cavi lunghi sono inamovibili senza palloni.» «Ma anche quelli lì pesano, no?» «Oh, scherzi? Solo i grilli pesano una cinquantina di chili l’uno, e gli spinotti da soli vanno per quindici. Ma li gestiremo. Tirando e spingendo, ma ce la si fa.» Almeno lo speravamo, ma questo lo tenni per me. Alessandro intanto stava comunicando con Cristiano e aveva stoppato l’uomo che sul rimorchiatore comandava il movimento del verricello. «Ci sei? – domandò al microfono – Cristiano, mi senti? Passo.» «Si, un attimo...» La voce era appena affannata, ma tra un respiro e l’altro, udibile. «Sono sul bilancino. Se parlo devo per forza tenere un dito sul pulsante del trasmettitore, quindi per un po’ non mi sentirai. Adesso collego il bilancino al nostro cavo, ok? Passo.»

«Perfetto, aspettiamo. Vai pure. Passo.» Appoggiò il microfono sulla plancia e gridò a quelli del rimorchiatore: «State fermi, sta collegando il bilancino.» Dieci metri sotto la superficie dell’acqua, Cristiano era salito sull’arnese metallico e, sgonfiato un po’ il gav per non galleggiare, ci si era seduto a cavalcioni. Anche se il mare era uno specchio, ogni leggero movimento si trasmetteva su tutto quell’armamentario, e non era tanto rassicurante. Cavi in tensione, migliaia di chili di metallo e una profondità equivalente a un palazzo di una trentina di piani, diventavano una combinazione capace di solleticare i nervi a chiunque. L’altro problema che lo rendeva nervoso era il granfacciale. La maschera copriva tutto il volto e lo isolava del tutto dall’acqua, permettendo l’uso di una ricetrasmittente. Per ascoltare aveva una scatoletta stagna, attaccata alle cinghie della maschera all’altezza dell’orecchio. Nonostante lo strato di neoprene del cappuccio protettivo, sentiva piuttosto bene la voce dei compagni all’altro capo. Poche volte era stato necessario sistemarla meglio o premerla contro l’orecchio per migliorare la ricezione. Di contro, il consumo di aria era maggiore che con un semplice erogatore. E poi richiedeva attenzioni particolari per evitare di rovinare il microfono, nel caso fosse entrato in contatto con l’acqua salata. Scrollò le spalle per concentrarsi sul lavoro e staccò dalla cintura un pezzo di cima. Fece un nodo ai due capi, dopo aver cinto il cavo di acciaio a cui era collegato il bilancino e quello di polipropilene che proveniva dal relitto. Si distrasse un attimo, attirato da qualcuno che si era tuffato in acqua proprio sopra di lui. «Cri, sta arrivando Stefano. Passo.», comunicò dalla barca Ale proprio in quel momento. L’ho visto… pensò. Non perse tempo a rispondere e finì l’operazione, controllando di non aver stretto più del dovuto. Si diede poi una spinta e tornò a nuotare intorno all’oggetto. «Ok, potete mandarlo giù.» La sua voce giunse chiara anche nel mio ricevitore. «Vai Cri, ti sostituisco», dissi passandogli vicino. «Ciao ciao», mi fece senza schiacciare il tasto della radio. Con quelle maschere si riusciva a distinguere le parole anche senza usarla, entro qualche metro. L’acqua trasmette bene i suoni. Non si poteva capirne la direzione, ma arrivava. Tenendomi a debita distanza, scesi seguendo il bilancino, che ora scorreva verso il relitto. Per quanto il rimorchiatore fosse quasi verticale sulla Stella

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del Mare, una leggera corrente e la brezza spingevano da un lato, angolando il cavo di ormeggio, seppur tirato al massimo. «Funziona, stiamo a trenta metri. Passo», comunicai soddisfatto. L’asola di giunzione messa da Cristiano teneva bene e anche se il bilancino ora era un po’ scostato, continuava a scorrere lungo il cavo guida verso la sua destinazione. «Sessanta metri, mi fermo. Tutto bene, ripeto, tutto bene. Vedo la Stella. Ripeto, vedo la Stella. Passo.» La mia voce suonava distorta. La pressione sulle corde vocali la trasformava, dandole un tono alla Paperino anche senza l’uso di elio. Ero alla massima profondità stabilita come accettabile respirando aria. Mi girava un po’ la testa. Ascoltare quella voce che non sembrava provenire da me, aumentava lo stato confusionale provocato dall’azoto. Un sapore metallico mi riempiva la bocca, dandomi ancora più fastidio. «Aòh, che stat’ a fa?! Problemas?», urlai. «Un attimo… Tutto ok? Sali un po’ più su.» La voce di Alessandro era un tantinello formale. Aveva assunto il tono che si usa con una persona di cui si sospetta il non perfetto stato mentale. Coi matti, insomma. Ridacchiai. Ero fatto e se n’erano accorti dalla frase sconnessa e farfugliante. «Tranquilli – li anticipai – sono un po’ rintronato ma tuttaposto compaňeros. Fai scendere quell’affare, infila il macigno turgido nella tana, uh uh uh!» Non ci fu commento. Il bilancino ricominciò a scendere. Ad essere sinceri non ci credevo. Avevamo progettato tutto a tavolino, fatto calcoli e ipotizzato scenari, ma mandare giù una massa pesante quanto un camioncino esattamente al centro del bersaglio, senza poter vedere nulla dalla superficie e in mezzo al mare, era una bella sfida. «Vai, vai, stop! Ale, aspetta, mi senti? Passo.» Scossi la testa, avevo un po’ di problemi a focalizzare la vista dall’alto verso il basso. «Oh, scendo un altro po’, passo. Ma tu mi senti?» «Ti sento forte e chiaro. Non ti muovere da lì, stanno venendo anche gli altri», intimò Alessandro. «Tranquillo, tranquillo, sono fatto ma ragiono, al massimo parlo da ubriaco. Sto scendendo a settanta, ecco, ci sono. Roger. Vai col tango, sono al bilancino, andate giù piano. Passoooooo, oh oh!...» Una mezza dozzina di bicchieri di Martini Dry (mescolato, non shackerato…) più su, il mio amico e boss doveva sudare freddo. Il cavo ebbe una leggera scossa e vidi che riprendeva a trasportare verso il ponte la massa bianca.

«Piano… piano… così… un attimo...» Senza avvertirlo per evitare proteste, scesi giù un altro po’ e spinsi per provare a metterlo meglio sul bersaglio. Ero proprio fuori fase: ovviamente non si spostò di un millimetro. «Vai, vai...», farfugliai. Non sapevo nemmeno se mi riceveva, ormai ero parecchio lontano dal trasduttore appeso sotto lo scafo. Qualcosa mi tirò da dietro. Cristiano spuntò nel mio campo visivo mentre il metallo cozzava contro il metallo. «Ok, ok, perfetto, wow, tutto ok!», urlai premendo il tasto della radio. Il mio amico mi aveva preso il manometro dell’unica bombola che avevo in spalla e me lo agitava davanti alla maschera. Ops… Segnava sessanta bar. Optai per una riemersione rapida. Feci ciao con la mano, e mi tirai sulla cima spingendo per buona misura con le gambe. Il gav era un semplice modello ricreativo, non aveva alcuna capacità di sostentamento a quella quota. Del resto non era previsto che stessi lì. Pompai aria nella muta stagna, schiacciando il pulsante della valvola sul petto. Si gonfiò staccandosi dal corpo, con un effetto piacevole a livello epidermico, e mi aiutò a sollevarmi. Guardavo in basso Cristiano. Aveva cambiato l’equipaggiamento e indossava il bibombola con la miscela di tre gas. Al suo fianco Roberto schiacciava il tasto della macchina fotografica. Il lampo dei flash imprimeva sul mio cervello le immagini come se vedessi fotogrammi distinti e non una sequenza continua. Cri era già all’opera. Senza tanti complimenti, stava tagliando la cima di giunzione e, fattolo, buttò via il coltello da cucina. Immediatamente passò allo spinotto del grillo, che teneva il bilancino collegato al cavo del rimorchiatore. La scena si faceva meno chiara e mi aggrappai come una scimmia alla cima di ormeggio, bloccando la risalita a una sessantina di metri. «…zzz… Stè. Oh, Stè, mi senti? Come va? Mi ricevi?...» Misi il dito sul cilindro di plastica grigia all’altezza della bocca e aprii la comunicazione. «Tutto ok, Cristiano sta staccando il cavo… sta lì, tranquillo. Passo.» Sotto, i due subacquei si muovevano con abilità. Roberto cercava di trovare gli scatti giusti il più in fretta possibile, e Cristiano muoveva le forti mani con perizia e sicurezza. Come al solito non indossava guanti di protezione. Ne portava i segni. Tagli, ferite, unghie nere e cicatrici. Per una persona che non ha mai provato a compiere un’azione anche banale in acqua, è difficile comprendere la difficoltà. Un compito che a secco prende cinque minuti, in immersione ne richiede dalle tre alle cinque volte

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tanto. E più si è in profondità, tanto peggio è. Un po’ per la narcosi, un po’ per la particolarità del momento, mi sentivo emozionato. Avevamo lavorato in una sorta di limbo emotivo, senza sapere davvero se avremmo ottenuto un risultato. Ogni anno, più di un centinaio di pescherecci affondava in tutto il Mediterraneo. A profondità di gran lunga inferiori, con stazze un quinto meno pesanti, si decideva di abbandonarli sul fondo per costi, rischi e difficoltà di recupero. Noi tre stavamo realmente tirando su quella nave. Il bilancino era sulla tonnara, e gli otto capi dei cavi di trazione giacevano proprio lì, ai suoi lati, pronti per il collegamento finale. Mancava un bel pezzo, ma eravamo riusciti nella parte di nostra esclusiva competenza. «Vai Ale, vai, libero, libero!», gridai nel granfacciale, vedendo Cristiano mollare fuori bordo il cavo del Mastino. Oscillò verso il fango, portato dal peso sotto la verticale del rimorchiatore. Continuai a salire, chiedendo conferma, ma la voce di Alessandro mi rassicurò: «Bene, ricevuto, bel lavoro! Quanta aria hai?» Cacchio… Raccolsi il manometro e mi guardai bene dal rispondere. «Salgo, passo e chiudo», mi limitai a dire. A dieci metri erano assicurate una bombola di ossigeno e una di Nitrox. Saltai un po’ di tappe raggiungendole. Dalla tasca del gav estrassi la maschera di riserva normale, che copriva solo occhi e naso. Ruotai la manopola del Nitrox e ne controllai pressione e funzionamento. Dopo di ché feci un bel respiro e mi tolsi il granfacciale. Con gli occhi aperti vedevo tutto sfocato e il sale dell’acqua marina bruciava un po’, ma c’ero abituato. Misi in bocca l’erogatore dell’altra bombola e respirando a pieni polmoni indossai la maschera piccola. Mi augurai di non rovinare il microfono, se no chi lo sentiva “quello”? L’immersione fu completata con pieno successo. Scesi più giù per riprendere con sufficiente gas la mia deco e iniziai a fantasticare. I pilota rompevano le palle come sempre, picchiettando sulle pinne perché non li vedessi. Chissà in quanto tempo una deriva genetica poteva trasformarli in aggressivi piraña... Ricordai di avere un giochino in serbo per loro e tirai fuori dalla tasca di Cordura sulla gamba destra una lenza già corredata di amo. Uscii poco dopo dall’acqua senza aver pescato un tubo, proprio mentre gli altri due raggiungevano la loro prima tappa. «Oh, bella compà!», salutai in superficie Alessandro. Anche lui tutto contento, s’era tolto un peso.

«Ma tu usavi aria o Trimix?» Stavo guardando il rimorchiatore che si allontanava. Comandante ed equipaggio si erano complimentati a lungo. Non si capacitavano che avessimo davvero piazzato tre tonnellate di acciaio al loro posto ottanta metri più sotto. I marinai e l’universo sotto le chiglie delle loro imbarcazioni, non avevano quasi nulla a che fare. Si trovava ancora gente che non sapeva nuotare, tra gli equipaggi. Parlavano di profondità per cinque, dieci metri, come fossero abissi. Ottantasei erano uno sproposito per loro. «Aria», risposi voltandomi. «E non era pericoloso a settanta?» Stava sciacquando la scafandratura nella bacinella con una tanica di acqua dolce. Una pezza appoggiata alla panca attendeva di essere usata per asciugarla ben benino. Forse avrebbe addirittura atteso di ritornare a terra, prima di aprirla ed estrarne la reflex. Lo guardai negli occhi. Roberto, come tutti noi, era sceso con l’aria anche parecchio più giù. Non aveva torto che fosse pericoloso, fattibile ma mortalmente pericoloso, glielo avevo spiegato io stesso due anni prima, con un corso sull’aria profonda. Ma a bordo di quella barca il tasso di testosterone era molto elevato. «Pigli p’ ‘o culo?!», contrattaccai. Sorrise contento. Nessuno di noi riusciva ad atteggiarsi a “pentito” e a rifiutare il passato, o meglio i “vecchi sistemi”, con il dogmatismo con cui andava sempre più di moda. Tutt’e quattro avevamo fumato più di un cannone e non disdegnavamo una bella sbronza. Rischiando e provocando anche qualche incidente, avevamo guidato alticci. Non solo non eravamo eccessivamente preoccupati, ma ci piaceva, ci dava proprio gusto, qualche botta narcotica in profondità. «Oh, però sul serio, che cazzo – borbottò Ale intervenendo – non dobbiamo azzardare sul lavoro!». «Aèh, mo’ mi fai la predica...» «Nun si pazzian’, cazzimme, dico veramente! Facciamo i bravi, né!?!» «E ora?», chiese Cristiano masticando un cornetto (che mi sembrava alla crema), sopravvissuto alla seconda colazione on board, gentilmente offerta dai ragazzi del Mastino. «Uè, quello è mio, ladro! – protestai – Non capisco perché cazzo a bordo di tutte le fottute navi, barche e bagnarole c’è sempre da mangiare e da bere in abbondanza e qui mai una sega.» «Buscià! Nun’ è ‘o vere… porto sempre i panini!» «Ma non dire cazzate Ale, due volte su dieci. E poi non dico panini e Coca Cola, parlo di mangiare vero. Nella cucina hai solo una bottiglia di limoncello

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e nel lavandino ci sono calzini sporchi!». «Alle femmine il limoncello a bordo piace...», rispose sornione. «E si, chess’ è ‘nu burdelle, altro che nave appoggio sommozzatori...», rise Cristiano, sputando briciole, saliva e parole. Continuammo con quell’andazzo fino in banchina.

Avevo visto con i miei occhi il relitto di un aliscafo affondato fuori al molo di Ischia. Il timoniere era ubriaco e aveva preso un’onda a tutta manetta uscendo dal porto. Lo scafo si era impennato ed era volato sugli scogli. Una vecchietta ci aveva rimesso la pelle affogando. Di casi simili, ma soprattutto di quelli sfiorati per miracolo, ce n’erano decine, forse centinaia. Il Golfo sembrava una mega autostrada in pieno esodo festivo, e le imboccature e vicinanze dei porti, aree di confluenza alle barriere del pedaggio, assaltate da peones impazziti. «Siii, beh, poi vediamo… Ma a queste zoccolette che gli facciamo? Claudia le frusta?»

«A che ora arriva Claudia?» «Uhm, verso le nove, credo». Non ci avrei messo la mano sul fuoco. Alessandro stravaccò le gambe sul divano letto. «Sicuro che vengono?», chiese ammiccando. «Così hanno detto.» «E che facciamo?» «Oh, che ne so!! Ce le scopiamo, che vuoi fare?!» «Si, no, va beh. Voglio dire… sono masochiste, no?! Ma solo masochiste, non è che vogliono menare a noi, no?!» «Stai calmo. Non ti arrapare troppo, io non sono disponibile! Una è switch, con l’uomo fa la padrona ma le piace essere frustata. Sai la bionda… Quella mora invece è solo schiava.» «Uhmmm… La frusto io, ‘sta troia!». «Ale...». «Eh?! Che c’è...» «Ti sta scendendo la saliva… sbavi!» «Vaffanculo, sceeem!» «Nell’attesa… Non mi hai detto che vuoi fare...» Mi avvicinai sedendomi sul bracciolo. «Eh! Il Comandante dice che per i cavi dobbiamo usare il pontone. I rimorchiatori c’hanno da fare...» «…e costano...» «…e costano, si. Oh guarda che se avanzano un po’ di soldi vengono a noi!» «Ci sto per credere...» Scattò in piedi. «Dai non essere pessimista. Mò vediamo. Intanto per qualche giorno ci organizziamo. Cristiano ha un lavoro a Casamicciola e Roberto c’ha da fare a Roma. Io e te colleghiamo il bilancino alle brache sotto e mettiamo tutto a posto, poi portiamo il pontone.» «Lo vuoi portare a rimorchio ‘n ‘anz’ e rete?» «Eh, mo’ vediamo, una notte può pure stare là. Se danno il permesso» Scivolai sui cuscini e lo guardai negli occhi. «Tu sei matto. Lo sai come stanno quelli delle navi, gli passano sopra!»

Ale, Claudia ed io avevamo fatto terzetto per scorribande sessuali più o meno lungo tutto l’anno prima. Noi due lavoravamo sull’isola aiutando Cristiano al diving, ma ci spaccavamo le palle, sempre tra noiosi subacquei che non riuscivano a smettere di blaterare di immersioni, torce o erogatori, a tutte le ore. Cene e relax diventavano occasioni per sfogare frustrazioni maniacali e ossessive, asessuate. O, al massimo, di un feticismo che non ci eccitava: ok raffigurare o sostituire l’oggetto sessuale con scarpe dai tacchi vertiginosi e dalla lacca immacolata, ok godere per l’odore pregno di feromoni di ascelle e culi. Ma perfino Stekel e Binet avrebbero storto la bocca davanti a feticci come fruste lunghe, moschettoni a doppia luce, spools, reels, e altre balle varie con cui quei tizi a tavola si riempivano le bocche tra un vinello e una grappa. Così, restando estimatori di un eros variegato ma sempre focalizzato sulla carne, ogni tanto, almeno il venerdì o il sabato sera, prendevamo il traghetto e andavamo a Napoli da Alessandro. In breve si era instaurata una routine divertente e spensierata. Tra una birra e un cocktail, seguivamo il pattugliare di Ale nei locali “in”, dove curava le sue relazioni ordinarie. Claudia ballava, lui rimorchiava e io bevevo, in paziente attesa. Verso l’una ci spostavamo e cominciava la caccia grossa... Dopo un po’ di giri a vuoto, beccammo un club privé, uno dei primi a Napoli, in uno stabilimento balneare sulla costa Pozzuolana. Se ne usciva-mo parecchio prima del traghetto dell’alba, di ritorno a Ischia, si concludeva la nottata con un puttans tour, un giro a puttane e transessuali per le vie del capoluogo, divertendoci con Claudia che trattava prezzi e prestazioni facen-do imbufalire le professioniste, terribilmente bigotte e astiose nei confronti di una cliente sempre indesiderata. Il “mestiere” non prevede perversioni o roba complicata e cerebrale: per pochi spicci solo maschi, e se possibile rapidi e semimpotenti, grazie. Le vere acrobazie le riuscivamo a fare solo nei club, con le coppie

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scambiste borghesi. E ci divertivamo. Una volta ci godemmo una retata dei Carabinieri. Un brigadiere, cercando droga sotto i cuscini, sollevò un preservativo pieno di liquido spermatico ancora caldo, esaminandolo con molta attenzione nella penombra complice. Alessandro fu redarguito con buffetti paterni da un ufficiale che, presolo sotto braccio, si informò poi se si acchiappava robbba buoona. Per non creargli ulteriori imbarazzi, noi ex “terroristi” ultra s/pregiudicati, facemmo finta di non conoscerlo, attendendolo più avanti nel buio della notte con l’auto. La banda di sadomaso l’avevamo invece beccata con gli annunci su Internet, che iniziava a spopolare sostituendo le obsolete riviste di annunci porno. Alessandro al primo appuntamento non c’era, e si era esaltato parecchio quando Claudia gl’aveva sadicamente descritto nei particolari, quello che s’era ingegnata a fare a una delle ragazze del gruppo. «Oh, ecco la mitica recordwoman!», disse Alessandro andando incontro all’amica e abbracciandola con affetto. «Ciao Pciucka! – dissi avvicinandomi e baciandola – Viaggio faticoso?», mi informai. «No, un po’, quella Panda ormai vibra tutta e non riuscivo a chiudere l’aria da sotto. Come stai Alessà?! Ti fa impazzire?», disse sorridendo, indicandomi con un cenno del mento. Si sedette sulla scrivania all’ingresso, facendo ballare le ciabatte infradito ai piedi e sollevando quel po’ di stoffa della minigonna che copriva già a malapena le mutandine di pizzo nero trasparenti. Ale le batté una mano sulla coscia scoperta, abbronzata e muscolosa. «Tu mi capisci Clà, è un cacacazzi!! Meno male che sei venuta tu.» «Eh, sei tu che non mi vuoi! Non fai lavorare le donne! Te le scopi e basta», disse affondando il coltello. Non se ne faceva scappare una. Alessandro quasi si strozzava. Punto sul vivo e in piena difensiva cominciò a snocciolare scuse sulla “resistenza e ottusità dei committenti”. Claudia mi strizzò l’occhio. «Vedo che non è cambiato, sempre permaloso, eh?!» «Nooo, che dici», scherzai. «Beh, si scopa?!!» Il nostro ospite fu visibilmente felice di sfuggire a contestazioni sindacalfemministe e si proiettò su un terreno di maggior attrattiva. «Claudia! Qua si scopa sempre! Stasera però ‘amm’ a frustà!!!»

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Mi staccai dalla cima, dopo aver sistemato la bombola Nitrox sotto al radar. Con un leggero colpo di pinne, oltrepassai col busto il tetto della timoneria. Messa la mano sul bordo, mi produssi in una mezza piroetta, come un ginnasta che fa i suoi esercizi agli attrezzi, roteando sul cavallo. Le bombole cozzarono con un rumore sordo, quando al termine del movimento mi misi seduto, le pinne puntate a poppa. Sotto di me, il bilancino risaltava nella miriade di sfumature del blu, con il suo colore bianco trasformato in un azzurrino pallido. La scena aveva quasi dell’incredibile. C’eravamo sul serio. Non mi ero del tutto reso conto di come fosse posizionato bene. Bastava aprire il grillo che racchiudeva i quattro occhielli esterni, e le brache di giunzione corrispondenti a ciascun angolo. Sarebbero cascate per il peso proprio sopra alle teste di quelle che giacevano sul ponte. Alessandro era già arrivato. Poggiò le ginocchia sul ponte e diede un’occhiata attorno. Vidi benissimo quando il corpo cambiò postura a causa mia. Passò da uno stato di morbida grazia a scatti rigidi e nervosi. Messa una mano sui cavi d’acciaio, si tirò sul bilancino, fluttuando nell’acqua come se si librasse sul ponte privo di peso. Era divertente farlo preoccupare un po’, e decisi che potevamo permetterci un intermezzo. Si agitò guardandosi intorno, in cerca di una mia qualche traccia. Poi alzò il capo e si voltò verso la cima. Vedendomi appollaiato, mi indirizzò un paio di corna e sventolò la mano facendomi segno di raggiungerlo. Ok, al lavoro… Svitammo con cautela lo spinotto da quindici chili del grillo su cui si tenevano i quattro cavi. Per evitare di farci male, tutta l’operazione fu svolta tenendomi in galleggiamento, gambe verso la superficie e testa in giù. Il grillo era andato in tensione, per cui fu difficile sbloccarlo. Avevamo portato un grosso cacciavite, e Ale lo infilò in un foro praticato nella impugnatura dello spinotto. Fece leva grugnendo, mentre tenevo fermo il più possibile quell’ammasso instabile. Lo sapevo che sembrava troppo facile, pensai. Il mio compagno avrebbe snocciolato una sequela interminabile di improperi e recriminazioni, una volta tornati su. Avevo perso un paio di minuti, e non bisognava farlo mai con il tempo a disposizione così ridotto. Fui sollevato quando vidi che quell’accidente cominciava a girare, e mi staccai preparandomi per tempo alle azioni successive. I cavi piombarono con fragore sul ponte. Tra grillo, il metro e mezzo per una sessantina di millimetri di diametro e le redancie, pesavano da soli attorno

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ai cento chili l’uno. Scattammo a svitare gli altri tre spinotti, trascinandoli poi a fianco delle teste a cui dovevamo collegare il tutto. Ho parlato troppo presto, merda!, borbottai tra me e me. Infilare trentacinque chili di ferraccio negli occhielli altrettanto pesanti, metterli in posizione e riavvitare gli spinotti, non fu una passeggiata. L’acqua che entrava ogni tanto da polsini e colletto, si mischiava al sudore. Sbuffavamo, smadonnando e tirando come ossessi. Il tempo scorreva implacabile, e con esso la frenesia e il nervosismo. Non si poteva buttare quell’immersione senza concludere tutto, magari per un unico grillo non connesso o un paio di spinotti serrati male. Superammo i diciotto minuti programmati. L’ultimo grillo non si apriva. Qualcuno su l’aveva serrato troppo, senza rendersi conto delle difficoltà e dei rischi che ci avrebbe procurato. Ci stavo lavorando quando Ale finì con i suoi. Si avventò sul mio, e cercammo di sbloccarlo facendo forza in due sul cacciavite. Avevamo sgonfiato del tutto gav e muta, ma comunque i nostri corpi non erano così pesanti come a galla. Spingevamo e tiravamo, ma senza fare presa sul ponte. Gran parte della forza si disperdeva facendoci scivolare via. Una fitta dolorosa mi attraversò il braccio. Vedevo che anche Alessandro soffriva, a causa delle microbolle dei gas inerti saturanti il nostro organismo. Gli sforzi formavano e aggregavano accumuli di bollicine, che prendevano a calci i nervi e i tessuti, cercando di aprirsi la strada. Vai! urlai quando quel bastardo pezzo di metallo infame, girò su se stesso con uno scatto sordo. Con la coda dell’occhio vidi sul display il tempo trascorso, mentre aiutavo a svitare lo spinotto, collegare grillo e redance e serrare il tutto. Venticinque, merda… Feci il segno del pollice in alto, per indicare l’immediata risalita, e ci staccammo dal ponte, puntellando i piedi e spingendoci su insieme. Pinneggiando verso la cima, vidi Alessandro massaggiarsi il gomito. Ahi, brutto segno… Dolori a quella quota erano una pessima cosa. Presi la bombola e cominciai a farla scorrere sulla cima senza nemmeno aprire il moschettone. Non volevo perdere tempo, riducendo prima di almeno una atmosfera la quota. A settanta metri mi fermai e feci segno ad Ale di fare lo stesso. Puntai il dito sulla bombola di Nitrox, suggerendogli di farsi un paio di boccate. L’ossigeno contenutovi era in percentuale troppo elevata a quella quota, ma la sua tossicità si sarebbe manifestata solo con tre, forse cinque minuti di esposizio-

ne. Se prendeva qualche “tiro” l’effetto negativo non poteva manifestarsi, e al contrario l’ossigeno in elevata quantità, avrebbe espulso un po’ di quell’elio in eccesso, che premeva nel suo organismo. Fece ok con la testa e scambiò gli erogatori. Mi avvicinai ancora di più, per ogni evenienza. Dopo un minuto mossi la mano sotto al collo, di taglio. Scambiò di nuovo, tornando a respirate Trimix, e riprendemmo la marcia verso l’alto. Alessandro allungò la sua deco, tenendo le mie bombole quando ebbi terminato le mie tappe. «Claudia, Claudia, oh – urlai mettendo la testa fuori dall’acqua –, passami una bombola di ossigeno, Ale non sta bene.» Corse a poppa e tornò indietro con una dieci litri verde, l’erogatore già innestato. «Resto con lui, oh?» «Va bene, vuoi che avverto a terra?» «No, vediamo un attimo che succede, ma prepara un’altra di ossigeno con un granfacciale.» Tornai da Alessandro, fermo a nove metri, e restammo lì ad aspettare che si esaurisse anche la seconda bombola. «Com’è?», chiesi appena in superficie. «Boh, così così, ho un dolore al braccio destro, non troppo forte, però». «Vuoi scendere ancora?» «No, fa freddo e sono stanco… Proviamo a salire e vediamo». Nuotammo a poppa e con Claudia l’aiutai a spogliarsi. Riuscì a malapena a cambiarsi il sottomuta fradicio. «Non stai messo bene, che si fa?» Si era cambiato e ora respirava ossigeno puro anche a bordo. «Portami a terra Ste, poi vediamo.» Claudia mi aiutò a togliere l’ormeggio e navigammo a tutto motore verso il porto. Al molo ci aspettava un collaboratore di Alessandro che aiutò a legare le cime alle bitte e agli anelli sul molo, e poi ci passò l’asse per scendere a terra. Alessandro respirava a fatica, ma non voleva allertare l’ospedale e andare in camera iperbarica. «Troppo casino, aspettiamo… sto meglio con l’ossigeno.» «Scusa – provai a suggerire – vogliamo mettere la roba nel forno e ti ficchi dentro?». Guardammo tutti e quattro la minuscola camera a bordo. «Potrei provare...», disse dopo un po’.

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Prima che cambiasse idea infilai dentro una bombola d’aria e una di ossigeno, e raccolsi nel secchio di plastica una mezza dozzina di litri d’acqua di mare. L’amico di Ale aveva una faccia poco convinta, ma non era il momento di attardarsi in spiegazioni. Claudia prese una coperta dalla panca nella timoneria e la stese sulla lastra di metallo zigrinato, che faceva da supporto piano all’interno del cilindro. Alessandro si infilò a fatica, con smorfie di dolore che non mi piacquero neanche un po’. «Fa molto male? – azzardai a chiedere – Sei sicuro che non sia meglio andare in ospedale?» «Ale – intervenne Claudia – se ti ficchi dentro e svieni è peggio. Non possiamo controllarla da fuori, rischiamo di depressurizzare di botto o peggio.» «Sto bene, ce la faccio!» Non ci diede il tempo di replicare oltre e chiuse il portello. Sentimmo il sibilo dell’aria che usciva dalla bombola e il metallo fece uno schiocco sulla guarnizione. «Ma siete sicuri?», domandò l’ometto calvo. «No, manco un po’», risposi mettendo la faccia a contatto con il vetro e guardando dentro. Ale mi salutò con un sorriso. «Sto a sei metri – gridò – il dolore è passato, adesso mi metto a respirare l’ossigeno!» Andai dentro la cabina e accesi il computer portatile. Appena Windows ebbe caricato i programmi cliccai sull’icona di un software decompressivo. Non dava nessun aiuto specifico per quei casi, ma potevo simulare una seconda immersione dopo aver impostato i dati della prima, con una serie di errori che riproducessero empiricamente la situazione. Copiai le tappe a penna su un foglietto, secondo le indicazioni generate dal programma, non avendo una stampante. «Ok, compà, senti a me, mo’ devi fare così...» Lo guidai per un’ora e mezza in una immersione terapeutica del tutto “spannometrica”, come avrebbe detto Cristiano. Consultammo telefonicamente un po’ di medici iperbarici amici e anche loro subacquei. Tutti invitarono al ricovero, ma ne uscì più o meno una indicazione di massima da raffrontare alla nostra situazione ed esperienza. Mentre si procedeva, Claudia mi venne vicino per avvertirmi un paio di volte «Guarda che perde aria dalla guarnizione...» «Lo so – risposi – me l’hai già detto. Che ci posso fare? Sta riequilibrando da dentro, lo senti...» «Si, ma se peggiora?» «E io che cosa ci posso fare Clà? E’ adulto e vaccinato, sta chiuso là den-

tro… Hai soluzioni?» Quando uscì tirammo un sospiro di sollievo. «Come stai?», chiese lei abbracciandolo. «Ti sei preoccupata Claudietta? Sto bene, sto bene.» «Voi due la dovete finire di fare ‘ste stronzate – lo redarguì agitando l’indice come una mamma col figlioletto discolo – Non ce n’è alcun bisogno. Ti facevi un ciclo in ospedale e stavi a posto.» «Naaa, poi mi fanno domande, rompono le palle. Abbiamo quasi finito, non è il momento.» «Testa dura… – borbottò la mia donna, scuotendo il capo – E a te è inutile dire niente...» «Oh, che c’entro io mo’?!», la guardai con aria offesa.

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Claudia era distesa sul letto matrimoniale, coperta dall’asciugamano di spugna dell’albergo. Se ne era avvolta un altro più piccolo a turbante, per asciugarsi i capelli dopo la doccia, e guardava la tv facendo zapping. «Pensi stia bene?», mi chiese, senza togliere gli occhi dallo schermo, su cui ritmicamente cambiavano i programmi. Gerry Scotti, un pronto soccorso che poteva essere ER, una partita… Distolsi lo sguardo irritato. «Credo di si, avrebbe telefonato se no.» La faccia dai marcati lineamenti slavi, frutto del DNA materno di stampo ugrofinnico, non lasciò trasparire nulla. Improvviso come l’incendio di un campo di sterpaglia secca, il cambio d’umore non mi colse di sorpresa. Conoscevo bene quel temperamento, che nella sua città natale chiamano “fumantino”. «Non mi piace, dai, chiamiamolo noi!», sbottò. Saltò giù dal letto e raggiunse in due sgambate il boudoir, su cui giaceva il cellulare. L’asciugamano scivolò ai suoi piedi e rimase nuda. Appoggiato allo stipite della porta del bagno, accarezzai con gli occhi le ampie spalle, scivolando giù sulla vita stretta e le due fossette, che preannunciavano il generoso sedere. Mentre digitava il numero di Ale, i muscoli interni delle cosce potenti e tornite, guizzavano nervosi. Alzai lo sguardo e l’erezione che cominciava a manifestarsi divenne quasi dolorosa, accentuata dalla vista dei seni, dello stomaco morbido dietro cui, nella parte alta, si delineavano i quadratini degli addominali. Lo specchio del mobile mi rimandava l’immagine e potevo ammirarla avanti e dietro. «Non ridere...», si lamentò nello stesso istante in cui arrivai al minuscolo cespuglio di pelo castano, sopravvissuto alla depilazione integrale della parte media e inferiore del pube.


Dopo appena un istante, non aveva ancora posato il telefonino, fui alle sue spalle e l’afferrai. La feci ruotare sui talloni e, spingendola da sopra le clavicole, l’accompagnai al letto, su cui si inginocchiò, poggiandosi sulle braccia. Mi umettai di saliva la mano destra e gliel’applicai sulla fica, già bagnata e aperta, dopodiché le infilai il cazzo e presi a stantuffarla con forza. Il cellulare suonava e vibrava. Sperò che non cadesse giù dalla panca di legno, che trasmetteva con un caratteristico tamburellio la doppia funzione di avviso di chiamata. Era già a dodici metri da una ventina di minuti e il dolore non passava. Stava respirando ossigeno dall’inizio della ricompressione e avrebbe anche potuto ridurre le atmosfere, uscire e rispondere. Iniziava a maledirsi per lo stupido orgoglio e la superficialità con cui si era ficcato nella “bara” senza avvertire nessuno. In effetti poteva aver influito l’elevato tasso alcolico, con cui per alcune ore aveva cercato di contrastare il dolore in costante aumento. Non si preoccupava più di tanto di fare su e giù, ma c’era da scommettere sul fatto che l’MDD ormai galoppava nel suo organismo: se ne assumeva il controllo c’erano ampie possibilità che non gli fosse stato più concesso di manovrare l’uso di quell’aggeggio. Fece orecchie da mercante e ignorò la musichetta, tratta dal jingle più famoso dei film di 007. Intanto che apriva il rubinetto della bombola d’aria, controllando la quota dal computer subacqueo immerso nel secchio, anche quella distrazione cessò. Chissà chi era… pensò al livello più superficiale delle sue circonvoluzioni cerebrali. L’interrogativo che assorbiva la maggior parte delle risorse mentali, era a che profondità si sarebbero disciolte le sofferenze, insieme alle bolle che premevano su cellule e nervi. Uno scricchiolio di origine sconosciuta si trasmise lungo la schiena. Se qualcuno avesse guardato dal vetro superiore, un oblò di una ventina di centimetri di diametro posto in alto dietro di lui, si sarebbe accorto di come quel suono sinistro fosse stato somatizzato dall’uomo accovacciato in quel cilindro angusto. La luce gialla di uno dei lampioni della banchina, filtrando diagonale, creava ombre a mezzaluna sotto le vetrate, stagliatesi in rilievo sulla T-shirt all’inarcamento involontario della schiena. Quello stesso osservatore, avrebbe anche potuto vedere l’incrinatura del cristallo, che dal bordo schiacciato nella doppia guarnizione, si dipanava come il disegno di un fulmine a più estremità, o come la multipla foce di un fiume. Alessandro non se ne accorse, concentrato sul dolore lancinante agli arti, focalizzato come chiodi piantati in ciascuna articolazione.

Aveva paura. Dopo l’inefficace ricompressione del pomeriggio assistito dai suoi amici, non c’era stato nemmeno il tempo di tornare a casa, farsi una doccia e indossare abiti puliti. Le bolle erano sempre lì e avevano ricominciato a farsi sentire, reclamando pegno. «Alessandro, amore, non mangi niente?», s’era informata premurosa come sempre la madre, affacciandosi dalla porta della cucina. Preferì non rispondere che con un frettoloso diniego con la mano, le chiavi dell’auto tintinnanti al movimento, per timore di lasciarsi sfuggire un gemito aprendo bocca. Gesù se faceva male. Gli occhi si riempirono di lacrime mentre aspettava l’ascensore, e più volte stava perdendo il controllo dell’auto, accartocciandosi sul volante per le fitte improvvise che lo squassavano. Diciotto metri. I cristalli liquidi del display cambiavano la disposizione dei rettangoli esagonali e mostravano la profondità crescente. Il sibilo dell’aria gli riempiva le orecchie, ovattate dalla pressione che non aveva compensato da un po’. Quando cominciarono a fargli male si decise ad alzare il braccio, portandosi la mano al naso. Voleva ritardare quel momento il più a lungo possibile, per evitare di scoprire che il movimento provocava ancora scosse elettriche nell’arto malato: non bastava, doveva spingere quello strumento infernale oltre qualsiasi ragionevole limite. Si sovvenne che le malattie decompressive più gravi, richiedevano una compressione meccanica fino a cinquanta metri. Il dibattito medico-scientifico da bar dello sport metteva in dubbio tale procedura, limitandosi a quote standard di diciotto metri. Ma tutti erano, dichiaratamente o meno, consapevoli del fatto che si trattava di pura speculazione da mala sanità. La maggioranza delle camere iperbariche, detto senza ipocrisie e falsità, non era idonea a trattamenti complessi. Molte, in tutto il paese, non avrebbero forse nemmeno superato un collaudo serio per simili pressioni. E poi, last but not least, i medici e le équipes sanitarie già non sapevano curare MDD banali nella stragrande maggioranza dei casi, figuriamoci con ricompressioni profonde a miscela. Questi pensieri poco rassicuranti aumentarono l’ansia per quel che stava facendo. Di contro, la sofferenza che provava rendeva inevitabile per il suo cervello ottenebrato un’alternativa diversa. Guardò ipnotizzato le cifre che crescevano senza sosta. Una sorta di cauto fatalismo si sovrappose alla preoccupazione. Il timore calava insieme al dolore, lasciando il posto a una sensazione soffusa di pace. Arrivato all’incredibile pressione di sei atmosfere, bloccò il flusso dell’aria e trattenne il respiro. Riusciva a sentire, o forse l’immaginava soltanto, lo sciabordio quieto dell’acqua sulle fiancate della barca.

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Il cilindro di metallo sembrava reggere oltre ogni aspettativa. Il dolore era scomparso. Aveva un’autonomia di mezz’ora con la bombola Heliox e di un’ora con quella di ossigeno. Sapeva che non serviva a nulla, ma a quel punto la razionalità s’era ormai presa una lunga vacanza. Mentre Alessandro si godeva quella temporanea sensazione di benessere, una fitta nebbia cominciava a lambire le plafoniere dei lampioni. Scendeva lenta e plumbea, dopo aver nascosto alla vista l’imponente torrione del Castello Angioino, colorandosi di giallo arancio sotto le luci artificiali dei moli. Il vecchio pescatore calò paziente l’amo in acqua. L’umidità si raccoglieva sul ferro della grossa bitta su cui sedeva da ore, scivolando in piccoli rivoli lungo le curve del metallo corroso. Indifferente, si raschiò la gola e sputò un grumo catarroso verso il galleggiante rosso e bianco. Mancavano alcune ore all’alba e alla partenza dei primi traghetti e, proprio in quel momento, raccoglieva i frutti dell’attesa, catturando a ogni lancio uno dei grossi cefali di passaggio nel piccolo canale, tra il bacino militare e il molo Beverello. Poche auto passavano alle sue spalle, senza riuscire a infrangere il silenzio innaturale che stringeva d’assedio la metropoli. Il monolocale cupo e polveroso, puzzolente di soffritto e tabacco bruciato, poteva attenderlo ancora per qualche ora, lassù tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli. Cambiò idea di botto, alzando gli occhi dalla lastra di ardesia in cui la lenza di nylon entrava come uno dei fili portanti di una ragnatela. Laggiù, oltre la piattaforma di atterraggio degli elicotteri, appena lambita dalle prime avanguardie nebbiose, sull’acqua correvano serpentine di fumo verdastro, quasi fosforescenti. Il cuore ebbe un sussulto e la carne coriacea e rugosa si fece di ghiaccio, anticipandone lo stato all’ombra della prossima dipartita dai crucci terreni. Aveva già visto quel fenomeno spettrale. Stava proprio lì, sulla stessa bitta, un anno prima o poco più. Incuriosito, non badava più alla trazione sulla canna delle preda ferrata, osservando le trame verdognole dipanarsi sul mare zozzo e costellato di bottiglie e piatti e buste di plastica. Nondimeno, l’avviamento incerto e raschiante del motore di un’auto, fino a quel momento immota sotto la pensilina delle biglietterie, l’aveva fatto trasalire. Si era girato, giusto in tempo per vedere l’utilitaria scattare in avanti, verso le bocche spalancate dei due traghetti della Caremar, dopo che i fari si erano accesi come per incanto, a conferma che il mezzo era vivo, palpitante.

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Le labbra incavate all’interno della bocca sdentata, si erano separate per lo stupore, lasciandosi dietro una sottile giunzione di bava. A prua delle navi, le spore verdi si infilavano tra gli scafi bianchi, lanciate incontro all’autovettura, che invece di piombare sulle piattaforme, puntò decisa allo spazio vuoto tra le navi. Non vide il volo planato, né l’impatto con l’acqua. Sentì solo lo schianto, e l’improvviso, contestuale arretramento del fumo malefico, che si allontanava da dove sembrava esser venuto, verso l’imboccatura del porto. Terrorizzato, senza nemmeno sapere davvero da cosa, aveva raccolto le sue cose – il thermos e la cassetta degli attrezzi di plastica nera e rossa, in cui teneva rotoli di filo, piombi, ami ed esche – , e si era affrettato a passi rapidi e corti verso il varco doganale. Passando a fianco delle navi, aveva gettato uno sguardo timoroso, di sbieco, al rettangolo d’acqua che si stava chiudendo sopra la macchina, già abbrancata dal fondo di melma millenaria. Quella mota raccoglieva con altera democrazia, preservativi usati come cannoni medievali spagnoli, orci romani e idrocarburi. Ora si apprestava ad essere la prima tomba della proprietaria di quell’auto, che solo da lì a un’ora, il nucleo sommozzatori della Polizia di Stato avrebbe riportato a galla, per l’ultima destinazione, una tomba al Cimitero di Poggioreale. Tra i sub della Polizia, che estrassero il corpo di una giovane donna dal rottame, c’era Alessandro, ignaro allora dello strano fenomeno luminescente così come ora. Il pescatore si alzò di scatto; l’unico testimone di due eventi mortali legati da un’unica, malvagia e soprannaturale causa, si allontanò dal porto, uscendo di scena. Nella camera iperbarica, intanto, il giovane si preparava alla “risalita”. La coltre fumosa era scesa fino al livello del molo, ma non aveva superato la prima fila di pietre massicce che ne delimitavano il bordo. Umida e poco invitante, aveva ricacciato all’interno della garitta di guardia, il marinaio della Capitaneria. Il giovanotto s’era alzato dal tavolino dove giocava a carte con un collega e due piantoni della Polizia e della Finanza e, dopo aver infilato una giacca a vento e il berretto d’ordinanza, aveva aperto la porta, trovandosi davanti il muro grigio. Era così spessa, la cortina nebbiosa, da aver inglobato e soffocato anche la potente luce allo iodio dei lampioni. Restò un secondo indeciso, restio a muovere il primo passo violandola, quando una voce alle sue spalle lo fece sobbalzare e, subito dopo, decidere. «Guarda che stanotte te la scordi un’ispezione degli ufficiali. Stanno tra le

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cosce calde de’ femm’ ne!» Richiuse la porta tornando a sedere proprio un attimo prima di assistere allo straordinario ritrarsi della nebbia “normale” davanti ai filamenti verdi, che si irradiavano sulla superficie dell’acqua. Provenivano dal porto principale, sollevandosi sul liquido plumbeo e scavalcando il livello stradale del molo. Veloci, precisi, come dotati di coscienza di ciò che erano e stavano facendo. Alessandro interruppe il flusso dell’aria riavvitando il rubinetto della bombola. Arrivato alla quota di cinquanta metri l’aveva già chiuso una prima volta, ma si era subito accorto che da qualche parte c’era una perdita e aveva trafficato un po’ per compensarla, regolando il flusso e lasciandolo poi fluire. Controllò il computer per vedere se fosse necessario aprire la valvola verso l’esterno, ma la fuga stava svuotando il cilindro con regolarità, secondo la sua rapida stima a quattro metri al minuto. Poteva andare, almeno fino a una pressione equivalente a trenta metri. Giuntovi così senza problemi, oppure se il dolore fosse ricomparso prima, avrebbe riaperto la bombola d’aria e compensato la fuoriuscita, come per una sosta in acqua a quattro atmosfere. L’uomo era del tutto ignaro di quanto avveniva intorno al suo sarcofago. Accovacciato, col capo chino sul secchio tra le gambe, sembrava un ubriaco all’ultimo stadio, aggrappato al contenitore in cui vomitare le budella torturate. Concentrato per cercare di catturare le cifre sul display del computer, posato sotto venti centimetri d’acqua, non si rendeva conto che quello sforzo dipendeva da un ulteriore abbassamento della già poca luce proveniente dall’esterno. La nebbia aveva soffocato i lampioni, stringendo le barche del porticciolo in una morsa cupa grigioscura. Alessandro avrebbe dovuto restare del tutto al buio, costretto quindi a scuotersi, ricordando di aver portato con sé una torcia elettrica, che giaceva alle sue spalle. Quel gesto, combinato alla curiosità de vedere cosa era successo fuori, avrebbe forse evitato quanto stava per avvenire. Voltandosi, guardando verso l’oblò, si sarebbe di certo accorto del buio innaturale e della crepa profonda sul vetro. Dalla lastra di ardesia in cui la Abyss sembrava fusa, però, sorgeva quel vapore verdognolo, con la sua luminescenza malata. Si spandeva nel bacino militare sgorgando dalla stretta imboccatura, come fosse l’alitare dell’inferno stesso. Un osservatore tanto coraggioso, o pazzo, da riuscire a sostenere la vista senza fuggire urlando, avrebbe visto le avanguardie scivolare sull’acqua con evidente intenzionalità. Cercava qualcosa. O qualcuno. La massa compatta si allargò al centro del porticciolo, estroflettendo propaggini tentacolari, come esploratori inviati a trovare la vittima designata.

Una di queste si arrampicò sulla barca di Ale, fornendo luce all’interno della camera iperbarica. Il sub non sembrò accorgersi che le pareti bianche erano passate da una sfumatura gialloarancio al verdastro. Si sentiva confuso, ottenebrato. Il dolore pulsante, pungente, scemando ricacciato dalla presurizzazione, l’aveva lasciato stremato e avvilito. Non sapeva capacitarsi come fosse stato così stupido a cacciarsi in quel guaio. La quantità di gas respirabile dalle bombole che si era portato là dentro, poteva garantirgli null’altro che un giretto in profondità. Tra pochissimo doveva normalizzare la pressione, ritrovandosi punto e da capo, forse in condizioni peggiori e, di certo, solo nel cuore della notte. Pensò a quanto era stato stupido, non avendo nemmeno avvertito i colleghi di turno nella garitta, pochi metri più in là. Fuori, la massa verde aveva raggiunto con un balzo famelico il suo braccio, già avvolto come un Anaconda attorno alla camera, quasi a volersi assicurare di non poterla perdere. Le gocce infinitesimali s’erano fuse ai minuscoli pori della vecchia vernice scrostata e rugginosa, e se fosse stato possibile guardare con un microscopio, si sarebbe visto quella sostanza ultraterrena insinuarsi tra le molecole del metallo, penetrarlo e fluire oltre di esso, all’interno. Alessandro non si avvide di nulla. Perso nei suoi pensieri, non vide il cilindro di ferro vibrare e farsi morbido, plasmabile anche allo sguardo. La massa rigida e tubolare fu scossa da spasmi e contrazioni. In pochi attimi si strinse attorno a ciò che conteneva, aderendone alle forme. Una sorta di caricatura statuaria si materializzo sul ponte della barca, raffigurando rozzamente un uomo accovacciato con un secchio tra le gambe acciambellate, con un erogatore in bocca e qualche bombola alle spalle. Il blob gelatinoso in cui si era trasformato il vapore, ebbe un ulteriore guizzo camaleontico, espandendosi fino ad esplodere in una galassia di puntini verdi. Fu come se di un boato mai udito, fosse rimasta solo l’eco sorda che pulsava nelle orecchie ferite. I piantoni ne furono scossi. Le carte caddero di mano, gli occhi s’incrociarono sbattendo. «Avete sentito?...» «Ma che cazz…?» «...» «… Tonì, ch’è state?!» Il finanziere si portò la destra all’orecchio, ritraendola bagnata di una sostanza viscosa. Restò attonito guardando il sangue scuro sulla punta delle dita. «Ma era un’esplosione?», chiese il poliziotto.

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«Io non ho sentito niente – rispose uno dei guardacoste –, ma, però… non lo so… è come se...» «Oh, ma chille sanguina!», disse il suo compagno, alzandosi verso il finanziere che, intanto, roteava gli occhi al soffitto e cominciava ad afflosciarsi. Ci misero parecchio a riordinare idee e posto di guardia. Avevano ripulito da poco, medicato l’infortunato e trovato una mezza spiegazione razionale, quando furono spinti ad uscire nel mondo esterno da un trambusto proveniente dalla barca di quel collega poliziotto, quello che faceva i recuperi, che ora giaceva semisommersa e spezzata in due sotto la banchina. L’esplosione che non c’era stata e le loro strane reazioni, vennero rapidamente cancellate dalle ore successive, con il via vai frenetico di uomini e mezzi, autoambulanze, medici e infermieri, il carro funebre e, ahiloro, le visite imbufalite, rapide e sferzanti come grandinate estive, degli ufficiali dei rispettivi corpi. Come è stato possibile che nessuno se ne sia accorto, chiesero furenti, senza trovare risposte negli sguardi muti, più interessati ad accertarsi che i piedi fossero sempre al proprio posto. Come poteva una persona, anche autorizzata, salire a bordo di una delle barche ormeggiate sotto il loro controllo, senza che nessuno l’avesse visto? E come poteva aver trafficato a lungo dentro la camera iperbarica, senza destare allarme? Soprattutto, come poteva essere morto per l’esplosione del cilindro, che doveva aver prodotto un boato terribile, senza che uno solo di loro se ne accorgesse? Nessuno trovò mai una spiegazione.

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VIII. Il vampiro Entri e lo vedi penzolare dalla trave con la faccia gonfia e nera. Poi apre gli occhi; sono gonfi, sporgenti, fuori dalle orbite, ma TI VEDONO e sono felici di vederti. Salem’s lot, S. King

La Stella del Mare a fianco della nave gru Tide.

Seduta a poppa, Claudia sembrava persa in pensieri che dovevano stridere con la bellezza del paesaggio. Il sole aveva perso quell’aspetto pallido e malaticcio, che caratterizza la maggior parte delle albe e mi fa preferire i momenti che precedono il tramonto. Entro poco avremmo sofferto il caldo e la giornata si annunciava umida e faticosa. In quel preciso istante, però, potevamo godere di una sorta di stato di grazia. Una leggera brezza proveniva dalla costa, accarezzandoci la faccia senza increspare lo specchio d’acqua, di un blu intenso, che faceva a gara con quello altrettanto spettacolare del cielo. La luna era ancora alta, luminosa e piena. La città, il vulcano e la cintura di colline e montagne circostanti, si offrivano nitide allo sguardo, come le isole. Tanta bellezza contrastava con il volto corrucciato e lo sguardo triste. Cristiano, che le sedeva accanto, se ne era accorto. Dotato di particolare sensibilità, aveva con Claudia un rapporto speciale. Per molti aspetti, il loro carattere coincideva. Alzò gli occhi da “Le notti di Salem”, un romanzo di King che stava leggendo da quando avevamo lasciato il Beverello. «Tutto bene?», le chiese. Finsi di continuare a dormire, steso a meno di un metro da loro. Alessandro e Roberto chiacchieravano a prua, in attesa del Mastino, il rimorchiatore che portava i cavi da calare quel giorno. «Non tanto – rispose Claudia – ho un po’ di problemi e mi mancano le figlie.» Restarono in silenzio per qualche minuto. Da parte di Cristiano non mi aspettavo nulla di diverso, bisognava tirargli fuori le parole con un paio di

La tonnara viene svuotata dall’acqua ancora nelle stive mentre si effettuano i primi sopralluoghi. 178

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tenaglie. Era invece anomalo per Claudia, a cui piaceva chiacchierare e che, negli ultimi tempi e soprattutto con me, non ne aveva avuto molte occasioni. «E a te come va? Con Marina e la piccola, dico...», aggiunse. «Insomma alti e bassi. L’estate scorsa non ha aiutato», rispose l’altro. Tacquero, entrambi presi forse dai ricordi. In effetti, il 1999 non si era chiuso proprio al meglio. Avevamo lavorato a Ischia tutti i mesi estivi, ma senza successi. La crisi del settore subacqueo cominciava a farsi pesante, anticipando il trend degli anni futuri. Cristiano aveva accolto la ex compagna di un ragazzo romano, andata via con armi e bagagli da Ponza, dove gestivano un diving insieme. Conoscevo entrambi di vista. Il fratello di lui era stato a lungo detenuto nel mio stesso reparto di massima sicurezza, a Rebibbia. Brigatista irriducibile, (anche se dentro lo consideravamo un cretino), non somigliava molto, almeno in apparenza, al consanguineo subacqueo, di simpatie politiche opposte. La moglie di Cri non aveva gradito l’alleanza professionale, soffrendo una profonda gelosia per la ragazza, carina e capace. Il fatto che si fosse legata sentimentalmente ad un collega partenopeo non la rassicurava. Non si era mai interessata di subacquea, ed improvvisamente eccola lì, ogni giorno al diving del marito pretendendo di “aiutarlo” nella gestione del lavoro. La trattativa per una fusione societaria, in cui la transfuga avrebbe curato il settore turistico e il nostro amico i lavori industriali, naufragò tra liti e malumori. E meglio non andò il nostro tentativo di organizzare il primo record “evento” di Claudia ad Ischia, dove aveva già stabilito primati mondiali ufficiosi nel corso delle sue immersioni. «Eccoli, siamo pronti?» Ale ci piombò addosso tutto eccitato. Ormai c’eravamo. Se quel giorno mettevamo giù i primi due cavi di raccordo verticale, si poteva prevedere il recupero nell’arco delle successive quarantotto ore. Alzai la testa da sotto il berretto di cotone, con cui m’ero schermato gli occhi dalla luce. Incrociai quelli di Roberto, che seguiva Alessandro a ruota. Penetranti, indagatori, se non potevo affermare che m’inquietassero, di certo li trovavo ambigui… …pericolosi… …e spiacevoli. Un gioco d’ombre sul volto affilato, rivelò il contorno delle ossa, aggiungendo un tocco malsano al suo aspetto. Sei un succhiasangue…, pensai. I suoi denti cavi erano quella macchina fotografica, che si preparava a utilizzare per trarre linfa vitale dal nostro lavoro.

In quel preciso momento storico, Roberto era il massimo rappresentante del parassitismo devastante dei “media” del settore. Insieme ai suoi colleghi, girava il Paese catturando immagini funzionali agli interessi economici dei vari inserzionisti pubblicitari delle riviste. Promettendo agli sprovveduti e speranzosi operatori notorietà da servizi stampa, partecipando a spedizioni, veniva portato su relitti storici appena scoperti, era benvenuto e riverito in occasioni come quella del recupero che stavamo facendo. In realtà, guardandosi bene dal fare mai distinzioni utili al pubblico dei lettori, su competenze e capacità, servizi e qualità di ciò che fotografavano e pubblicizzavano, la genia di fotoreporter subacquei stava contribuendo a distruggere tutta la filiera. Tutti si trovavano in qualche maniera in vetrina, ma in modo uniforme e passeggero. Il ritorno economico diventava del tutto apparente, motivando anzi grossi investimenti in equipaggiamenti e contratti capestro con l’industria delle attrezzature e dei servizi didattici. Il fallimento delle imprese era ormai fisiologico quanto endemico, con una durata media della vita professionale che chiamavamo il “ciclo dei tre anni”. Il primo s’investivano i soldi che la stragrande maggioranza degli operatori aveva ricavato da altre attività e beni familiari. Il secondo si andava in passivo, cercando di farvi fronte succhiando tutte le risorse possibili dal “giardino di casa” (amici, parenti, allievi). Il terzo, coperti di debiti, si crollava. Di questo vivevano i vertici della catena alimentare, le aziende che vendevano beni strumentali e qualifiche professionali. Attenti a non criticare mai un prodotto scadente o pericoloso, così come un istruttore incapace o una scuola responsabile di incidenti anche mortali, la gente come Roberto immetteva spazzatura disinformante giorno dopo giorno. «Oh, la nostra puttana mediatica...», lo insultai con un sorriso. Alessandro mi scoccò uno sguardo di fuoco, ma evitò il confronto verbale, sapendo che finiva peggio. «Fai anche tu lo stesso mestiere, no?», rispose l’altro con diplomazia. «Captain Nemo non è una rivista di bugiardi e venduti, come sai bene.» «Per questo non facciamo una lira...», intervenne Claudia. Il tono non mi rassicurava sul fatto che la mia socia e cofondatrice della rivista non ne fosse, in quel preciso momento, del tutto entusiasta. Decisi di sorvolare sulla possibile polemica interna e colsi l’occasione per continuare a dar fastidio al fotografo. «Anche dal punto di vista più cinico e capitalistico fate schifo. Ormai nes-

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sun settore merceologico è così al riparo da critiche. Potreste usare la denuncia delle schifezze e dei pataccari come forma di pressione per ottenere più soldi dai grossi. Invece vi prostituite per spiccioli!», continuai. «Vorresti sostenere che è più corretto vendersi per tanti soldi piuttosto che per pochi?», mi rispose, convinto di aver fatto un punto. «Voglio dire soltanto che tutto il mondo delle merci per profitto fa vomitare. Ma se rinunciamo a farci seghe mentali con pretese utopistiche impossibili, possiamo ottenere qualche risultato di compromesso utile ed efficace. Le industrie che investono grossi capitali in pubblicità, sono costrette anche a subire il rovescio della medaglia. Si espongono a una visibilità e a una notorietà che pagano con i propri soldi. Quando commettono porcherie macroscopiche le pagano molto care», sparai tutto d’un fiato. «Stai sostenendo che corrompendo ad alto livello si suicidano?», buttò lì a caccia di una contraddizione. «No, appunto. Non hanno nessuna intenzione di farlo, per cui quando li becchi con le mani nel sacco o sanno che può succedere, sono costretti a metterci una pezza». «E che differenza c’è in questa morale da quella che mi critichi? Perché sarebbero migliori questi altri che definisci tu stesso comunque corrotti?». Adesso sorrideva a tutta dentiera, guardando gli altri, che sembravano aspettare con altrettanta curiosità una spiegazione. «Roberto, stai facendo il finto tonto. Non penso che uno che intasca tanti soldi e/o favori da un’industria sia chissà che, o che il mondo sia così bello. Credo che la vita sia in realtà una cacata in cui ci dibattiamo, per consolarci con qualche momento fuori dalla puzza e dallo schifo. Ma senza andare a ravanare nei massimi sistemi, so che molti soldi distribuiti in giro, fanno esplodere quelle che un tempo venivano definite le contraddizioni del sistema. Senza soldi non c’è concorrenza. E la concorrenza quanto più è spietata, tanto più è feroce, e tanto più genera informazione. Se non puoi avere per esempio un giornalismo utopicamente sopra le parti, puoi avere almeno tanti scribacchini di parte, che per colpire l’avversario sono costretti a denunciare magagne e schifezze. Così, più voci e più investimenti. Aumentano la necessità di mettersi in regola, di evitare di farsi beccare.» «E noi in quale maniera rovineremmo questo panorama idilliaco?», disse ironico. «Voi state vendendo la vostra merda per spiccioli. State facendo pubblicità a chiunque per nulla. Sai benissimo che ormai il budget delle vostre riviste è così basso, che la maggioranza degli articoli è scritta dalle stesse persone che si pubblicizzano.»

«Non lo dire a me. Sono costretto a pubblicare per due lire». «Già, e dovresti essere il numero uno o tra i cinque più rappresentativi. Quello che ci vive, tra l’altro, che lo fa di mestiere. Scrivono “articoli” ormai cani e porci. O no?!» «Si, è vero, ma non capisco dove vuoi arrivare.» «Invece lo sai, ne abbiamo già parlato.» «E’ vero – si inserì Claudia – e non capisco perché insisti Stefano, ogni volta sono le solite chiacchiere. Lui è così, questo mondo va così», concluse con astio. «Strano che lo dica tu...», disse Cristiano guardandola di traverso. «Perché? Perché sono il Direttore di Captain Nemo? Gli articoli li scrive lui – proseguì lei sullo stesso tono – e li firma a nome mio. E poi cosa pubblichiamo? In tre anni due numeri? Nessuno fa pubblicità da noi, siamo in perdita dall’inizio. Soldi buttati, come se ne avessimo...» Alessandro si frappose tra noi, anche fisicamente, alzandosi e puntando il braccio a poppa. «Ok, basta chiacchiere, si lavora. Eccoli.» Lo conoscevo a sufficienza per non sapere che quella sorta di crisi sentimentale, latente nella critica di Claudia sul nostro comune lavoro, lo faceva soffrire. Era dispiaciuto, volendo bene a entrambi, e lo lasciava trasparire nel desiderio di darci un taglio, con la scusa offerta a fagiolo dall’approssimarsi del Mastino. Sul ponte di comando, Pignalosa si sbracciava entusiastico. «Non fare quel sorriso da sciacallo, Roberto. Sono abituato a fare ciò che voglio da solo. Ho sopportato il peso della reazione di uno Stato, da solo! Le critiche di Claudia o di chiunque, giuste o meno, non cambiano di una virgola la mia capacità di continuare a prendere a calci in culo la gente come te.» Fu piacevole togliergli dal muso la soddisfazione di uno scazzo tra me e Claudia, ma non restai indifferente all’odio represso nel profondo di quegli occhi gelidi.

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Il flash sparò su Alessandro la sua luce fredda e bianca «Ok, piano… piano… stop!» Venti metri più su, diedi l’ordine di bloccare il verricello, vedendolo afferrare la testa della prima braca di raccordo. Lui e Roberto erano al centro del peschereccio. Il fotografo si era messo di spalle all’ingresso della sala comune, e scattava qualche immagine del mio amico. In ginocchio davanti al bilancino, era intento a collegarlo con l’occhiel-


lo del cavo di diciotto metri, da tre quintali di peso, che guidavo con il solito sistema di comunicazione nella sua discesa. La mano con cui tenevo la cima di plastica scorreva su questa per trenta centimetri buoni. In realtà io stavo fermo, galleggiando alla medesima quota di sessantadue metri. Era la cima che faceva su e giù, tirata come un elastico dal movimento basculante del rimorchiatore. Avevamo fatto tardi, la distesa piatta delle sette di mattina s’era trasformata in un fastidioso susseguirsi di onde, in movimento per l’effetto delle variazioni termiche. Ormai giugno inoltrato, il calore sviluppato dal sole nella mattinata, metteva in moto le correnti di risucchio tra acqua e terra. Alle undici e mezza il mare si alzava con regolarità invidiabile da qualsiasi statistico. Ai lati superiori del bilancino, due pistoni orizzontali scorrevano verso l’esterno nelle loro guide. Alessandro li aveva aperti, per accogliere nell’incavo lo stroppo del primo cavo e bloccarlo chiudendo il pistone. Cercava di tenere ferma la testa di quel serpente d’acciaio, come un cowboy sulla schiena di un enorme toro da rodeo. La gomena arancione gemeva sotto il tiro del poderoso rimorchiatore. «Cazzo, bastardo, aiutalo!!», urlai nel granfacciale all’indirizzo di Roberto. Non riuscivo a credere che potesse restare indifferente davanti allo sforzo del piccoletto. Ne sentivo le urla e i grugniti, mentre cercava di infilare il pistone nel momento in cui l’asola era in linea, senza farsi ridurre la mani in poltiglia. L’altro stava lì, a due metri, immobile. Non scattava nemmeno più. Immaginai non volesse sprecare pellicola, aspettando magari… …il sangue… …che succedesse qualcosa di interessante. All’ennesimo insuccesso, quando il cavo si sfilò all’ultimo secondo saltando verso l’alto e mandando il pistone a sbattere contro il metallo, a vuoto, decisi che non potevo restare a guardare. Alessandro si era raccomandato, già l’altra volta avevo disubbidito rischiando. Non potevamo usare il Trimix per me: l’elio distorceva ulteriormente la voce e avrebbe reso impossibile capire le mie indicazioni. La comunicazione in quell’occasione diveniva essenziale. Se il cavo non si fermava nel punto esatto, poteva o essere troppo distante dal bilancino, oppure troppo sopra, rendendo impossibile per Ale muoverne la testa, pesantissima. Ma ora stava all’altezza giusta e, narcosi o no, poca aria o meno, da un momento all’altro la cima di ormeggio poteva spezzarsi. Le conseguenze sarebbero state disastrose. Piombai giù in un attimo. Puntando le ginocchia presi la testa e cercai di

spingerla e trattenerla al posto giusto. Alessandro ebbe un sussulto e cominciò a gridare, bloccandosi. Restai un secondo interdetto, poi compresi. Alla mia destra, pronto e in attesa il… …vampiro… …fotografo era lì per cogliere qualsiasi incidente con un sorriso famelico. Ale aveva a cuore me e tutto il nostro lavoro, e così lo mettevo a un rischio più alto che un semplice fallimento di una singola operazione. Feci ok e misi le mani avanti per invitarlo a stare calmo. Poi ricordai che poteva sentirmi e gridai nella maschera: «Vado, tranquillo, vado...». Ne uscì un suono disarticolato, e il sapore metallico si insediò nella mia bocca alzando il livello dello stato di alterazione. Tirai il corpo sulla cima, pinneggiando verso l’alto. Ale si proiettò di nuovo sulla maledetta asola e successe il miracolo. Nello stesso istante in cui il pistone la infilò a metà corsa, il cavo di polipropilene si spezzò con uno schiocco. Perso l’ormeggio su quello, il rimorchiatore mise in tensione il cavo di acciaio che a sua volta teneva la braca, e si “ancorò” al bilancino. Fu una frazione di secondo, ma restammo come impietriti per quello che dopo ci parve un secolo. Tutto si rimise in moto. Il Mastino sculettò mentre l’onda gli passava sotto. La poppa si abbassò di una decina di centimetri appena, sufficienti per mollare la tensione sul pistone. Poteva scivolare di lato e liberarsi, ma Ale fu fulmineo e lo spinse a fondo. Senza soluzione di continuità raccolse il chiodo che aveva posato a fianco, e lo infilò nella sicura bloccandolo. Vidi come al rallentatore che sollevava il volto verso di me, ma lo avevo anticipato. Schiacciando il pulsante della radio e lanciandomi in alto, gridai a Cristiano: «Cri, è fatta, mollate un po’ di cavo della braca, mollate la braca, la cima arancione è andata, ripeto, è andata la cima arancione! Mi senti?! Passo!» «Ok, ricevuto, la cima arancione è rotta, lo abbiamo visto. Sta venendo su. Molliamo un po’ di cavo.» C’era ancora il rischio che il rimorchiatore muovesse troppo il bilancino, con un ancoraggio troppo teso su di esso, ma vidi che il cavo si piegava verso il fondo. Trovatomi senza guida, feci una rotazione per individuare la cima bianca a cui era assicurata la nostra barca. Sotto di essa, intravidi le bolle emesse da Ale e Roberto, che a quel punto stavano risalendo anche loro.

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«Ma che culo!», urlai in superficie levandomi il mascherone. «Ch’è stato?», chiese Cristiano affacciandosi dalla murata. «Non puoi capire – mi lasciai spingere dalla corrente lungo la barca spu-


tacchiando e parlando – si è spezzato il cavo nello stesso momento in cui Alessandro prendeva dentro l’asola!» «Eh, l’hai detto prima, avevo capito.» «Scusa eh?! Non ti agitare troppo, ti dovesse fare male alla salute. Claudia?» «Sta là», indicò il rimorchiatore, ma non vedevo niente oltre la fiancata alta tre metri dal livello dell’acqua. «Co’ Pignalosa?!» «Eh, hanno fatto pappa e ciccia.» Ridacchiai. Doveva aver ritrovato il buon umore, e con il nostro Comandante preferito aveva pane per i suoi denti, avrebbero scambiato ciarle a più non posso. «Mi aiuti Cri?» «Arrivo», posò il libro e venne sulla pedana. «Tira un pochetto, eh?» «Si, sta salendo corrente, ma vento no. Quelli dove stanno?» «A nove metri.» «Dici che possiamo far mollare il Mastino?» Mi issai a bordo, restando seduto con le gambe a mollo. Ci pensai un po’ guardando verso il rimorchiatore. «E’ meglio che aspettiamo Ale. Al massimo tirerà il bilancino contro la murata, ma con il cavo lasco non lo alza e quindi non andrà fuori bordo.» Era l’unica paura che avevo, che incasinasse i cavi da qualche parte, rompendo qualcosa, ma così... Alzatomi in piedi, allargai le braccia in fuori e gli volsi la schiena. Impugnò la cordicella della zip e mi aprì la cerniera, tornando a sedersi subito dopo. Dal Mastino Claudia mi salutò sbracciandosi. Fece il segnale di ok usato convenzionalmente in superficie, con il braccio destro ad arco e la mano a toccare il capo. Quando le risposi allo stesso modo mimò che lei restava lì a parlare con Pignalosa, che l’affiancava sorridente nella consueta mise bianca, gli occhiali da sole scuri da narcotrafficante sudamericano inforcati sul naso. «L’amico tuo non ha mosso un dito, sai?!», mi fu impossibile non rimarcare, una volta liberatomi dalla muta e seduto di fronte all’ischitano. «A far che?», non alzò gli occhi dal testo. «Ale era in difficoltà...» «Ah… non è il suo mestiere» «Nemmeno il nostro fargli da balia quando fa le foto. Ma mi pare che l’abbiamo sempre aiutato in acqua, e tu pure qualcosina in più, o sbaglio?!». «Perché ce l’hai tanto con lui?»

Adesso sembrava aver deciso di darmi spago. Non ricordavo di avergli mai visto occhiali da sole. Tolsi i miei RayBan neri dalla tasca dei calzoncini e li dispiegai sulle cinque cerniere. Quel modello era un po’ demodè, ma l’adoravo. «Perché è uno stronzo e un pezzo di merda», dissi proteggendomi dal riverbero del sole sulla spuma bianca delle gallinelle. «Cosa dovrebbe fare? La guerra come fai tu? E per arrivare dove? Non cambierà mai niente.» «Oh oh, ci stiamo scaldando. Questo qualunquismo è ridicolo. Sai bene che sfrutta tutti. Lui più degli altri.» «Con me si comporta bene, ha fatto begli articoli sulle nostre immersioni.» «Cristià, non dire stronzate. Gli hai fatto tutti i corsi gratis, lo porti gratis in acqua, gratis le spese di gas e carburante, gratis la pubblicità alle attrezzature che vuole lui e per cui becca quattrini. Tutto a sbafo, e non ti serve a niente.» Appoggiò le braccia sul parapetto e stese le gambe verso di me. «Porterà lavoro...» «Non porterà a niente. Verrà con i suoi amichetti e quei soldi che ti sembrerà di guadagnare, saranno spesi con gli interessi per farli giocare alle tue spalle. E dato che in acqua sono pericolosi, rischierai pure la pelle.» Ridacchiò dicendo: «Perché, ora no?!» «Non dico questo. Anzi, è proprio qui il punto. Noi sappiamo di giocarci la buccia e stiamo attenti, l’uno all’altro, sempre. Facciamo cazzate e sappiamo quando e come, e badiamo a coprirci le spalle. Loro no. Se ti leghi alla sua banda prima o poi muori, Cristiano.» «Può essere. E può essere di no.» «Stai attento a non tirare la corda. Oh Clà – mi volsi a poppa, dove era spuntata insieme a un marinaio in tuta arancione – , passi di qua?» «Stanno preparando la pasta, io mangio qui. Voi volete un piatto? Spaghetti alla matricina.» «Uhm, boni, mandate, mandate.»

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Fu Cristiano a scendere, nel pomeriggio. Portò con se una delle cime galleggianti e la passò dentro l’occhiello superiore del cavo, calato la mattina dal rimorchiatore. Non avrebbe avuto bisogno di pallone, per mandarla su a doppino, come si dice in gergo. Per evitargli fatiche inutili – lavorava comunque intorno ai sessanta metri – e, soprattutto avere la cima di ritorno a portata di mano, fu mandato giù con l’attrezzo. Scese rapido. Arrivato sull’obbiettivo, si prese il lusso di dare un’occhiata


giù. Avevamo notato tutt’e tre questo comune impulso. Ci immergevamo da anni su relitti. Ne avevamo anche scoperto qualcuno, che giaceva celato agli occhi umani da decenni e, in qualche caso, millenni. Eppure la Stella del Mare aveva un fascino tutto particolare. Era la nostra sirena personale. Poteva restare laggiù, sul fondo, finché il mare e i suoi abitanti più antichi, minuscoli e implacabili, l’avrebbero consumata, ridotta in particelle infinitesimali. Oppure tornare a navigare, ad essere l’orgoglio e la fonte di vita di intere famiglie, il vertice di una catena commerciale che produceva profitti per decine di miliardi l’anno, Facendo secchi migliaia di tonni, qualche delfino e, ogni tanto, uno o due pescispada. Dipendeva dal nostro lavoro. Si riscosse dai pensieri. Attaccato con le gambe al cavo, cercando di non strofinare sui minuscoli filamenti di acciaio la muta stagna, tolse la zavorra dal capo di plastica e la attaccò per il momento con un moschettone. Con gesti rapidi ed essenziali, passò il polipropilene nella redancia e lo collegò al pallone di sollevamento, gonfiandolo. Non ebbe bisogno di aiutare la gomena, che prese a scorrere scendendo da un lato per risalire, sempre più velocemente dall’altro. In poco meno di due minuti il movimento cessò, con un leggero sobbalzo. Guardò il computer… Mancavano oltre dieci minuti al limite programmato. Attese che in superficie raccogliessero pallone e cima, cosa che fu eseguita rapidamente perché, dopo poco, si accorse che i due capi venivano tirati su. Il cavo di acciaio che scendeva dal rimorchiatore e che, fino allora, aveva tenuto su il primo dei collegamenti per il sollevamento, perse tensione. Ora la barca era sostenuta dalla gomena che aveva appena posizionato. Si tolse una pinza dalla tasca dei ferri appesa in cintura. Con uno sforzo minimo sbloccò lo spinotto del grillo e lo svitò, liberando il Mastino da quei sessanta metri di cordone ombelicale. Aprì la mano. Osservò il cavo allontanarsi, libero di seguire la forza di gravità, attenuata appena dall’attrito con l’acqua. Nel suo cammino, questa lo faceva vibrare. Produsse un leggero arco, passando alto sopra la Stella, come una carezza anticipante la prossima resurrezione. Risalito Cristiano alla prima tappa deco, l’attività in superficie ebbe un leggero sussulto, prima di tornare immobile attendendone la definitiva uscita dall’acqua. Quelli del rimorchiatore furono autorizzati a mettere in moto il verricello. Per prima cosa recuperarono il loro cavo, che andò ad avvoltolarsi sulle centinaia di altre spire. Dopodiché, sempre usando lo stesso macchinario, fornito

di più funzioni, venne posata sul fondale la prima braca verticale. Due boe vennero infine assicurate ai cavi, ributtando il tutto in mare. Il Mastino si allontanò alla massima velocità consentitagli, per andare a macinare soldi seri in porto. «Beh, è quasi fatta», dissi con un sospiro. Alessandro ed io eravamo gomito a gomito, guardando andar via il tozzo naviglio. «Insomma… siamo a buon punto e il nostro lavoro è finito. Quello serio, dico. Mò c’amm’ a moveee. Il tempo è buono, se mettiamo subito tutte le brache la MedLift viene subito. Non hanno impegni fuori, però ha detto Pignalosa che li possono chiamare in qualsiasi momento. Capit’ a me?!» «Uhm, che stress… A che ora sono disponibili domani quelli?», risposi, indicando il rimorchiatore che si allontanava, con un cenno della testa. «No, e chill’ nun’ ce stann’ chiù! Dobbiamo usare il pontone.» Voltai la testa verso il latore di quella pessima notizia. Ale rimase imperturbabile, lo sguardo all’orizzonte. «Ahè… stiamo apposto...» Ricordai la faccia di Fabrizio, il primo giorno al cantiere, quando guardava quel pregevole aggeggio. Anche solo dentro il porto, con poche spanne d’acqua, ispirava la stessa sicurezza che si proverebbe salendo sul sedile del passeggero in compagnia di un manichino Hybrid, lanciati a palla di cannone verso un muro da crash test. «Oh, non c’è niente da fare. Il rimorchiatore costa assai, e poi non può stare qua tutto il tempo. Dobbiamo portare le brache e lavorare in continuazione, fino a che finiamo.» «Vuoi fare tutto in una volta? E come si fa? Abbiamo una profonda, la seconda braca da mettere sul bilancino. E lì dobbiamo andare almeno in due in un tuffo, se va bene. Poi sono due tuffi a sessanta, due a quaranta e due che vabbò, non contano, a dieci. Tutto in un giorno?» Non dovevo avere né una faccia rassicurante, né un tono che ammettesse repliche superficiali, perché si decise a guardarmi negli occhi. «Stè – replicò mettendomi una mano sulla spalla – siamo in ritardo. Potremmo anche non essere pagati. Qua stanno già litigando...» Non avevo ancora grande esperienza dei lavori subacquei. Ma stavo imparando. Rischiare sott’acqua era il meno, la cosa alla fine più facile e divertente. Anche le contrattazioni e i problemi economici, in fondo, non si discostavano dalle comuni spiacevolezze in tutti i settori merceologici. Quello che creava problemi davvero seri e rospi difficili da ingoiare, era il clima da psicodramma maniaco-depressivo del tutto peculiare al settore.

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Gente che non aveva la più pallida idea di cosa aspettarsi dalla profondità, dagli intoppi provocati dai capricci meteorologici, dai tempi imposti da decompressioni e stress fisici, ci alitava sul collo. In mare, successi e insuccessi si susseguivano come grani di un vecchio rosario artigianale. Chiari e scuri, forme e dimensioni mai eguali. Alzai le spalle. «Ok, poi vediamo. Claudia e Roberto?», chiesi accorgendomi che sulla Abyss regnava un silenzio innaturale. Il Comandante era tornato a terra con il Mastino, ma loro avevano trasbordato sul nostro guscio di noce da un’ora. Girai la testa e non vidi nessuno. Non è che ci fosse tutto ‘sto posto dove inguattarsi. Mossi qualche passo verso prua e chiamai : «Clà!?» Da dietro i vetri della cabina che ci separava, spuntò la testa del fotografo. Ma che cazz’… Un certo grado di miopia e l’avversione per occhiali e lenti a contatto, mi impedì di avere certezza su quel che m’era sembrato di vedere. «Siamo qui», gridò Roberto levandosi del tutto in piedi. La sua faccia scomparve rapida come era apparsa, dietro il tetto di legno, eppure mi era sembrato… «Robè, guarda dove sta Cristiano», Alessandro mi spostò con un braccio, facendosi largo e precedendomi ad ampie falcate. Si frappose alla vista della prua, per dirigersi poi dentro alla timoneria. Lanciò uno sguardo per accertarsi che l’altro eseguisse, restando un attimo sullo stipite. Lo seguii, superando la porta e raggiungendo gli altri. Roberto mi dava le spalle, la testa e il busto oltre la battagliola, per vedere a che punto stava Cristiano. Claudia giaceva di schiena, la faccia al sole. Gli occhi erano chiusi e la bocca atteggiata a un sorriso strano, quasi una smorfia. Non riuscivo a capire se rappresentasse dolore o piacere… forse entrambi. La mano destra si premeva , o accarezzava (difficile dirlo), il collo. «Stai bene?», le domandai. «Sta salendo, Ale!… Cristiano sta salendo», urlò il reporter voltandosi verso di noi e impedendomi di sentire la risposta. Fui attirato dalla voce e dalla rapidità con cui si era… …proiettato… …girato venendomi incontro. Strinsi le palpebre guardandolo in volto. Il sorriso, ampio e cordiale, aveva un che di sgradevole. Come un profumo al mughetto, fresco e gentile, sotto il quale si cela l’odore fetido e stantio di un corpo che non conosce l’acqua e sapone. Quell’uomo affabile e vitale, a volte mi appariva come un involucro, una

sorta di maschera di caucciù, simile a quella che nei film di serie zeta, trasforma una bella ragazza di sessanta chili in uno scaricatore di porto da un quintale. Si, alle volte era… …inverosimile… …come se ci fosse qualcun altro sotto la sua pelle. «Tutto bene? Sei bianco come un lenzuolo. Hai visto un fantasma?», chiese ridendo. Più che una risata fu un susseguirsi di schiocchi, secchi e rapidi come colpi di frusta. Aveva i canini così… …lunghi… …evidenti, che la lingua, parlando, ne veniva schiacciata alle estremità sottostanti. Faceva un certo effetto. Cercai di non continuare a fissarli, sembravo… …impaurito… …scemo. Spostando lo sguardo di nuovo verso Claudia, passai in rassegna il mento e i bordi delle labbra, cercando una traccia di quei rivoli di… …sangue… …colore rossastro che mi sembrava aver intravisto a poppa. Continuò a sorridermi, ironico, mentre mi fissava con occhi… …malvagi… …penetranti. Claudia si era seduta e stiracchiava le braccia. Feci per aggirarla e buttare un’occhiata al lato destro del collo, ma Alessandro gridò: «Stè, oh, sveglia, vai ad aiutare Cristiano che ce ne andiamo, ‘iamm.»

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Non era la prima volta che mi sembrava di aver visto Roberto propendere al succhiotto sul collo di una donna. Poco meno di un anno prima, io e Cristiano lo avevamo portato sulla parete esterna del promontorio di St. Angelo. Tra il 1994 e il 1997 avevo frequentato spesso quel pezzettino anomalo di Ischia. Lo consideravo un’imitazione casuale di Capri, l’unica che avvicinava le due isole maggiori del Golfo, così vicine ma altrettanto lontane. Senza automobili (per Ischia un’anomalia, con le sue 30.000 auto censite), raccolto su se stesso e in buona sostanza ormai quasi tutto negozi, alberghi e camere in affitto, il borgo aveva molte velleità d’imitazione del famoso ricettacolo di Vip. Della blasonata Capri, però, non poteva godere le ben più grandi dimen-


sioni e offerte. Il porticciolo, per quanto bello e attrezzato, non avrebbe mai potuto ospitare più di una mezza dozzina di yacht di medie dimensioni. La piazzetta principale era anche l’unica, e bar “in” e posti a sedere, in numero insufficiente a soddisfare le torme di attori protagonisti, comprimari e comparse della bella vita. Ischia è un’isola popolana. Un luogo vero e non virtuale, dove l’esistenza quotidiana non è incentrata sul servizio full time e full optional al turismo, d’élite o meno. Al popolo di ristoratori, camerieri, tassinari, commessi e portieri d’albergo, fa da contrappeso quello di una popolazione produttiva quasi autosufficiente. Pescatori, contadini, artigiani, ma anche fabbri, carrozzieri, mastri carpentieri e via elencando. Poter passare senza soluzione di continuità da strade a due corsie, affollate come quelle dell’opposta costa continentale, al trasporto delle attrezzature e valigie con un piccolo trattore elettrico, giù dall’unica viuzza d’accesso al paesino, mi piaceva tantissimo. Negli ultimi tempi erano scomparsi, ma le prime volte che c’ero stato, quel servizio essenziale era ancora appannaggio di alcuni muli. Il promontorio di S. Angelo era abitato solo dal lato verso l’isola, con cui comunica a mezzo di una lingua di sabbia artificialmente rimpolpata e consolidata. Da un lato veniva difesa dall’erosione del mare con frangiflutti, dall’altro costituiva la curva inferiore di una U, i cui bracci erano i moli portuali e un pezzetto, appunto, di promontorio. Alloggiavamo lì, prima nell’unico albergo, in seguito nelle camere in affitto, a noi date gratuitamente dal figlio del proprietario, che era diventato nostro amico e allievo. Tutta la mia esperienza profondistica era nata lì, sugli strapiombi di sabbia e roccia che scendevano ripidi fino a oltre cento metri, dal versante sud. Sapevamo dalle carte batimetriche, che esisteva una seconda parete a strapiombo che chiamavamo “esterna”. Per tutto quel periodo non ci andammo mai. Bisognava allontanarsi dalla punta di roccia, già essa distante circa duecento metri dall’imboccatura del porto. I nostri amici, che poi erano adolescenti, non disponevano di barche appoggio ed ecoscandagli. Si faceva una faticaccia a pinneggiare fino all’estremità del promontorio, figurarsi parecchio oltre. E poi, allora, ci andava bene così. Picchiate a meno cento e grandi bevute e fumate di Cannabis erano più che sufficiente per me che frequentavo il posto in licenza, direttamente dalle celle di Rebibbia, dove scontavo gli ultimi tre anni in semilibertà. Diventò qualcosa di diverso solo nel ’98. Ero ormai libero, il mio unico mestiere e interesse in quel momento ruo-

tava attorno alla subacquea profondistica. Conosciuto Cristiano, alloggiavamo a casa di sua madre e con la barca del papà davamo la caccia a “sprofondi” e relitti. Battevamo il mare. Circumnavigavamo l’isola godendoci le nuvole di zucchero filato incastrate nel’Epomeo, ‘a Muntagna per gl’isolani. Il nostro amico si era fatto dare un po’ di “punti” dai pescatori locali. Posti dove si impigliavano le reti. Scoprimmo così l’ultima dimora di un rimorchiatore della Marina, il “Miseno”, e quella di un mercantile e di una nave militare che dovevamo ancora identificare. Tra successi e insuccessi, nella valanga di “fangate” che diedi alla caccia dei resti di una fortezza volante americana, recuperammo a più di cento metri una canoa. Affondata a qualche incauto turista che l’aveva noleggiata, spingendosi troppo al largo, ce la trovammo davanti sul fondo melmoso, a quattro, cinque miglia dalla costa. Lo scandaglio aveva disegnato sul display, tra vari “target”, un cerchio perfetto, che alzava dal fondo di parecchi metri. Era rosso vivo, come tutto ciò che il processore identificava per materia solida e compatta. Cristiano restò su a governare e io mi buttai sul filo del pedagno. Sotto c’era una rete derivante che, forse impigliata proprio nella carlinga (o quel che ne restava), mi chiuse il passaggio a una cinquantina di metri. Decisi di scendere comunque, con cautela, tenendomi largo. C’erano altri segnali che emergevano dal fondo. Forse pezzi dell’aereo. A parte un paio di vecchietti che si ricordavano di aver visto il colossale bombardiere cadere in mare, durante gli ultimi attacchi a Napoli, un pescatore ci aveva mostrato il motore tirato su con la sua rete a strascico. Avevano fatto bei danni al relitto, negli anni, ma forse valeva la pena sprofondarmi. Chissà, magari risalivo con un pezzo che ci dava certezza e avremmo smesso per un po’ di fare gli zingari attorno all’isola, dedicandoci al bersaglio. Oppure, trovavo una roccia con del corallo. La nostra propensione al profondismo, era pari solo alla velocità con cui potevamo cambiare fonte di reddito ciondolando là sotto. L’unica cosa che beccai, fu la canoa. Per tigna decidemmo di tirarla su, dopo che vi misi sopra un rocchetto di filo d’Arianna. Così lasciammo perdere per il momento l’aereo, che sta ancora lì, e tornammo a St. Angelo. Quando ci immergemmo sulla parete esterna, tutto il resto passò in secondo piano. E ci portammo Roberto. Avevamo messo una catena sulla parete più alta, una punta di roccia che si sollevava a quarantasei metri. La chiamammo “La Guglia del Cremlino”, per la sua forma.

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Ormeggiati sulla boa, ad alcune centinaia di metri dalle rocce del promontorio, calavamo di botto sulla Guglia. Lì mollavamo le decompressive, “aprendo” poi vie nella parete a strapiombo, come arrampicatori alla rovescia, verso la spianata di sabbia a meno duecentodieci. I corallari avevano ripulito tutto fino a circa centosessanta metri. Sotto, nelle fenditure, c’era l’oro rosso “serio”. Per il fotografo, che arrivava a una buona media di centodieci, centoventi metri, c’era comunque materiale a iosa. Vicissitudini varie, nell’ultima metà del ’99, chiusero la nostra avventura su quella parete. Non prima, però, di aver visto Roberto succhiare dal collo, e non solo, di una procace ragazza della Campania continentale. In una delle occasioni in cui venne a fare corsi e foto, lo raggiunse una bella gnocchetta, a cui ogni tanto dava due botte. Pur se fidanzato con una svedese, il reporter non disdegnava carne fresca attirata da indubbia bella presenza e una fama nazionale, nel suo campo. Cristiano e io dormivamo in casa della mamma, tedesca giunta come tante sulla nostra isola più apprezzata dai crucchi, che vi si riversano dagli anni sessanta costituendo la gran maggioranza di quell’imponente mezzo milione di visitatori che l’assale di media il solo mese d’agosto. Al pari di molte, aveva ceduto al fascino travolgente dello stallone latino. In questo caso, trattandosi di un medico brillante, sportivo e divertente, la foga passionale si era trasformata in amore. E l’amore aveva inglobato l’isola e i suoi abitanti, al punto che vi era rimasta, da sposata ma anche successivamente al divorzio. Adoravo quella casa. Una tipica villetta bassa, su due piani di cemento addossati a una parete rocciosa. Il caos del giardino ricoperto da alti alberi da fusto, era pari a quello interno, che veniva diviso dalla padrona con ospiti spesso a pagamento. Di madre svedese, conoscevo quella indolenza che prendeva tanti degli ordinatissimi scandinavi e anglosassoni che si trasferivano da noi. Specialmente al Sud. Dimostrava quanto tutto il mondo sia paese, e come il controllo sociale e l’ambiente possano influenzare e condizionare la natura che accomuna la nostra specie sotto mille profili, in maniera trasversale. In quei giorni non c’erano ospiti paganti, così a Roberto fu data una delle stanze padronali del piano superiore, che dava sul terrazzo comune. Per noi c’era posto sempre, da qualche parte nelle varie camere e camerette. Cristiano ed io restammo a bere e a chiacchierare giù, in cucina, dopo cena, quando il reporter decise di appartarsi con l’amante. Dopo poco sentimmo delle grida.

«Hai sentito?», chiesi alzando la testa dal bicchiere di limoncello, che stavo osservando con grande interesse. Non rispose ma gli occhi erano due fessure e le orecchie avevano avuto un movimento verso l’esterno che non mi era sfuggito. «Sembri Dumbo, porcone.» «Sveglierà mia madre», fece. «Tua madre affitta camere. E la migliore sta a quattro metri dalla sua. Lei e tuo fratello ne sentono di tutti i colori, compà!». «Non può fare così...», continuò in coda un a gemito, seguito a sua volta da un urlo, che fece vibrare le corde della mia appendice, non più addormentata dall’alcool tra le gambe. «Aaaah, siiiii, cosiiiiiiii...» Fu come l’effetto di un affondo deciso nella melodia che fa sollevare la testa al cobra dal cestino di paglia intrecciata. Ci guardammo. Svuotai il bicchiere e mi versai una buona razione di grappa friulana. Quel mix veniva associato a scotch scozzese, o comunque rigorosamente gaelico, di cui l’isolano andava ghiotto. Tre bottiglie che mostravano il fondo, dividevano i sorrisi beoti che ci stavamo scambiando. «Andiamo a vedere!», proposi. «No! Tu si scem’!!!» Non ero sorpreso. Poteva indulgere a improvvisi eccessi di bigotteria. Da quando avevamo fatto banda, era l’anello debole dell’unità di assalto sessuale. Cristiano scopava, e sapevo che era anche un cerebrale, ma a differenza del resto del quartetto, costituito con me, Claudia e Ale, non lo faceva con promiscuità associativa. Un altro paio di colpi di reni dovevano essere all’origine della successiva sequenza di guaiti. Il sangue fluiva nei nostri corpi cavernosi. «Oh, andiamo a ve-de-re!», incitai scandendo la fine della frase. Mi ero alzato. A fatica e con il mondo che non collaborava, ruotando come un ossesso tutt’intorno a me. Ma ero in piedi e determinato. Un mugolio lungo e profondo ci fece rabbrividire. Osservai, con improvvisa e stupefacente lucidità, i peli delle braccia di Cristiano che si alzavano ritti, come soldatini di piombo sull’attenti. Vedevo ogni poro della sua pelle, piccole voragini che si andavano spalancando. Non c’era bisogno guardassi le mie, l’effetto di quel suono era di sicuro identico. Cristiano si stava levando in piedi, ma ricadde sulla panca come un sacco

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di farina mollato di botto. Le mie ginocchia sembravano voler farmi fare una fine simile, meno dignitosa dato che, non avendo più una sedia sotto al culo, rischiavo di piombare sul pavimento. «Cos’era?», farfugliò. Non lo sapevo. Da un lato mi aveva eccitato, il sesso era duro come un palo telefonico. Ma sotto un altro profilo, testimoniato dal rinsecchimento dello scroto e dalla fuga delle palle nella cavità del bacino, mi stavo cacando sotto. «Uh… lei… credo...» «Io non vengo!», disse. Si versò una dose da John Wayne nelle migliori performance e trangugiò il whisky d’un fiato. Al piano di sopra ripresero gemiti e urletti, ora a un ritmo che, se non erano fondisti, precludeva a una rapida conclusione. «Io vado...» Voltai sui talloni, prendendo l’uscita. Per un soffio non schiacciai uno dei micetti che scorrazzavano per la cucina. Uscito in giardino presi a sinistra, risalendo fuori dal vialetto il pendio lungo la casa. Saltai il parapetto ed entrai in punta di piedi sul terrazzo, dalla parte del muro contro cui, sulla parete interna, adesso sbatteva a ritmo sincopato la testata del letto. Tum, tum, tum… Gli dà… pensai affacciandomi dall’angolo. La porta finestra interna era aperta, ma avevano socchiuso le persiane. La luce in stanza era accesa… …me la scoperei pure io così, è tutta da vedere… …e gettava sul pavimento di mattonelle sporche e incrostate da muschio e terreno, una trama di strisce bianche e nere intervallate. Feci qualche passo e spiai dentro. I due ci davano a più non posso e avevo l’impressione che il ciclope volesse scappare dai jeans. La tenda spessa, per fortuna, era spalancata. Quella bianca e sottile sembrava non esserci, tanto era trasparente. Da quella posizione, però, il tessuto colorato e spesso della prima, incolonnato alla mia destra, mi impediva di vedere qualcosa di più dei piedi di Roberto, che urtavano contro il fondo del letto. Dalla posizione sembrava essere in ginocchio. Se la fa alla pecorina, grande!, mi entusiasmai. Il problema era che in quel caso il busto sarebbe stato eretto, e con la faccia da quel lato, poteva vedere qualcosa passare. Lui non mi interessava, dovevo per forza spostarmi dall’altra parte.

Allontanatomi dal muro, raggiunsi il parapetto. C’erano quattro metri buoni e strisciai lungo di esso col culo, guardando dentro la finestra con attenzione. L’uomo si stagliò dietro il velo bianco, intento a montarla. Non avrebbe potuto vedermi in ogni caso, perché la posizione era diversa. La prendeva in ginocchio, si, ma anche lei gli dava il volto – e tutto il resto… – stesa sulla schiena, con le gambe in alto, i talloni appoggiati sulle spalle. I piedi che coprivano il volto e la visuale laterale del reporter. Scattai in avanti, tranquillizzato, e presi posizione. Ora stavo dal lato opposto della finestra, leggermente alle sue spalle. Il rischio era che mi vedesse lei, ma dubitavo fosse mai possibile. Aveva gli occhi chiusi, i capelli lunghi e lisci appiccicati sul volto ovale dal sudore, che ruscellava su entrambi i corpi, facendoli luccicare. Doveva entrarle fino in gola. La prendeva tirandola a se, facendo presa sulle cosce e dai fianchi. Lei si inarcava ritmicamente, accompagnando con il bacino ogni spinta, dentro e fuori. A volte le stringeva i fianchi del culo pieno, lasciando i segni delle mani, bianchi sulla pelle dorata. Ma vieni, spettacolo!, gongolai tra me. Compatii il mio compare. Alessandro, al posto suo, non se lo sarebbe mai fatto scappare. Se ci fosse stata Claudia avremmo bussato e chiesto di farlo a quattro, maledizione. Mi domandai se potevo osare, provare a farmi avanti. La tizia non era certo una che disdegnava una doppia, ma non credevo di essere il suo tipo, aveva guardato Cristiano come una pantera potrebbe valutare un cosciotto di manzo. Il sudore le colava dai seni marmorei, raccogliendosi tra le colline come un laghetto montano… Tzaaa, mi posso accontentare… Roberto le passò le mani lungo i polpacci torniti, afferrandola per le caviglie. Con un movimento violento la allontanò un po’ da se. Vidi per un attimo il pene, fuoriuscito per buona parte dal sesso di lei. Ma che cavolo… Avevo notato le grandi labbra gonfie e rosee, accuratamente depilate dal vello che, vista la criniera soprastante, doveva essere rossiccio o ramato. Ma quella che s’era stampigliato al fondo del mio nervo ottico era la fotografia del suo uccello. Cristo, era un affare lungo e secco, rosso come la carne scorticata dalla cute, e non sembrava avere affatto la maledetta pelle. Un liquido denso, giallastro, era colato fuori come gelatina. In realtà fu tutto molto rapido, frazione di secondo. Continuò il gesto con grazia e forza imprevista, passando le estremità di lei l’una sotto l’altra. L’in-

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treccio le si propagò lungo gli arti e il busto, rivoltandola sulla pancia come non avesse peso alcuno. Urlò in quella maniera ambigua, misto di sofferenza e goduria, restando sempre impalata sull’asta del suo padrone. Questi, compiuta l’evoluzione, l’attirò a se infilandola fino in fondo, poi fece cascare le gambe sul materasso e le diede un ceffone sul culo. La ragazza stava venendo. Iniziò a tremare e a miagolare nello stesso tempo. La fonte di tanto piacere si lasciò cadere in avanti. Col busto su di lei, spingendole col bacino le chiappe, in direzione delle perfette fossette al confine con la schiena inarcata, si tenne sollevato con il braccio opposto al mio lato. La mano destra le scostò i capelli dal collo e poi impugnò la chioma, tirandone la testa a se. Mentre l’orgasmo della bella si trasformava in un’onda lunga, sottolineata dall’urlo continuo, di gola, abbassò di scatto la testa, la bocca a contatto con il lungo collo così esposto. Ora non la vedevo quasi più, coperta da lui. Si agitava forsennata, trasmettendo il movimento a Roberto, che vedevo sobbalzare. D’improvviso lui si staccò e si mise di nuovo in ginocchio, voltandosi in pieno con la faccia nella mia direzione. Non vidi che alla periferia del mio sguardo il corpo della donna, abbandonato come un sacco floscio, cascare riverso sulle lenzuola. Fu solo più tardi, mentre per trovare un sonno pieno di incubi, mi finivo, ingollando dal collo della bottiglia di grappa, un quarto del suo contenuto, che chiusi gli occhi rivedendo sulle palpebre il fiotto di sangue che le sgorgava da due forellini sul collo. Tutta la mia attenzione era concentrata sugli occhi del… …Nosferatu!… …fotoreporter, dardeggianti pozze di fiamma. E dai lunghi denti canini da cui colava una densa pappa rossa, che copriva lingua, labbra e mento. Arretrai inciampando sui miei piedi, e soffocai un grido folle in gola solo perché mentre cascavo quell’immagine fu sostituita dalla faccia di sempre dell’uomo, appena alterata dal piacere. Toccai terra con un botto sordo, di culo, ed ebbi la prontezza di riflessi di rotolare fuori dal campo visivo nonostante il mio osso sacro avesse urlato il suo disappunto, con una scossa che si fece tutta la camminata lungo la spina dorsale, vertebra dopo vertebra, fino alla materia grigia trasformata in gelatina dallo spavento. «Ch’è stato?», sentii dire da una voce femminile.

«Non lo so, aspetta...» Immaginai che l’uomo che guardava all’altezza di dove prima si trovava la mia testa, non avesse visto nulla di più di un’ombra scomparsa in un lampo mentre cascavo all’indietro. L’uomo no, ma la bestia…, mi misi in ginocchio e strisciai dietro l’angolo da dove ero venuto, restando impietrito. Adesso esce e mi sbrana… La persiana cigolò su se stessa e vidi una lunga e nera ombra stagliarsi sul terrazzo. Restò così un poco. «Amore, vieni qui, dammene ancora...», disse lei da dentro. Lui dovette girarsi, perché l’ombra scomparve, tornando sui suoi passi verso quell’invito.

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«Ti ricordi quella volta che Roberto si scopò la tizia a casa tua, e io andai a vedere?» Cristiano alzò la testa dalla cassetta degli attrezzi. Mise gli occhi furbi nei miei e disse: «Si… Lo sai che quella poi mi telefonò e ci ho scopato?» «Ma dai… cioè, c’ero pure io quando t’ha chiamato il giorno dopo, ma l’avevi liquidata… mi sembrava» «No, cioè, sul momento si, ma dopo...» «Brutto porcello, davvero?! Sei un figlio di puttana, piaceva anche a me...» Mi feci distrarre dalla notizia e non gli chiesi più se, quella notte, avesse sentito o visto qualcosa di strano. Non ricordavo molto io stesso, né del giorno dopo a dire il vero. Ero già ubriaco salendo a spiare; dopo, la parola “sbronza” assunse tutto un nuovo, eclatante significato. «Che ne pensi di domani?» Persi definitivamente il filo del discorso, quando cambiò argomento, portandolo su altri binari. «Mah, che ti devo dire? Più che altro ti immagini la faccia di quelli di traghetti e aliscafi che ci passeranno attorno?» «Già, uno spettacolo, il nostro pontone.» E il giorno dopo, lo “spettacolo” era fermo in mezzo al mare. Avevamo rimorchiato quel cesso ambulante con la vongolara. Alessandro si era rifiutato di farlo con la sua barca, adducendo come motivazione lo sforzo eccessivo per i suoi motori. Claudia e io ritenevamo che non avesse la faccia di farsi vedere in giro così. Comunque fossero andate le cose tra i boss dell’operazione, con le prime luci della mattina il buffo corteo lasciò il porto di Napoli. Tenendosi un po’


discosto, Ale prese il largo dopo poco, scusandosi con la necessità di preparare il campo. Avevamo finito mentre la barca dei pescatori e il suo rimorchio, erano ancora a un terzo della strada. Fu lanciata una cima sul pontone, e Pignalosa, che lì dirigeva le operazioni, fece tirare dal verricello il cavo di polipropilene fino a quel momento recuperato a bordo della nostra barca. In breve il pontone fu sulla verticale della Stella del Mare. La gomena arancione, a doppino, era ben tesata e appariva non avere alcuna angolazione. Del resto non c’era corrente e il poco vento che aspettavamo per mezzodì, era ora assente. Cristiano scese in acqua con Roberto. Lasciarono passare la braca di metallo, che fu calata lungo il cavo arancione, dopo averle assicurate l’una all’altra con i soliti occhielli, laschi a sufficienza per evitare impigliamenti. Volai giù a sessanta e comunicai che aveva passato il grillo e l’asola senza intoppi, aiutandola più per scrupolo che per necessità un paio di volte. Risalendo, incrociai i due. Gli occhi del reporter mi osservavano con aria… …famelica… …strana. Salutai, passando oltre. Ero inquieto per Cristiano, ma sollevato di non esserci io, con quello stronzo, laggiù. Un’ora dopo erano fuori. Tutto procedeva come previsto e Cristiano non aveva incontrato particolari difficoltà. Lo aiutai a togliersi la muta di dosso. Non sembrava molto concentrato, gli occhi erano velati. «Stai bene, compà?» «Si», rispose laconico. Sfilò la testa dal colletto e restò con la felpa di pile, umidiccia, all’altezza delle orecchie. Gliela tirai giù, restando di sasso. Il colletto a camicia restò arrotolato a salsiccia per qualche istante, scoprendogli il collo. All’altezza della giugulare aveva un’ematoma bluastro. Girai la testa di scatto verso Claudia, che osservava con pigrizia l’attività sul pontone. Aveva lo stesso segno sul lato destro del collo. Feci per chiedere spiegazioni, ma Alessandro urlava ordini isterico, e sul pontone lo stesso faceva Pignalosa. Si era tolto la camicia bianca e sbracciava arti pelosi dalla canotta, mostrando ciuffi nerastri e sudaticci sotto le ascelle. «Sublime...», sibilai. Cristiano finì di togliersi la muta e si avvicinò ad Ale. Parlottarono un po’,

dopodiché ripartì, questa volta per la timoneria. «Comanda’…Comandante – strillò Ale, portandosi le mani a coppa alla bocca – accostiamo, vengo su.» L’altro fece segno di aver capito e rafforzò il gesto indicando di affrettarsi. Nessuno come i napoletani, nella comunicazione gestuale, nulla da dire. L’Abyss mosse in avanti, e piegò poi a dritta, tracciando un semicerchio di spuma bianca sulla superficie del mare. Pignalosa correva su e giù sul piccolo ponte color pece. Sbraitava dando ordini, che intesi riguardavano le altre due brache da preparare alla calata. I cavi di polipropilene adesso erano tre e andavano in acqua da estremità diverse del pontone, di modo che non si intrecciassero tra loro. Si era levato un lieve venticello. La gente di mare e noi sommozzatori, alzavamo il naso come il tartufo di un cane che annusa, cercando di captarne le intenzioni. Se dava una spintarella al mare, era tutta da ridere. Affiancai Alessandro. «Monta, secondo te?» «No, non più», rispose. Ero scettico sul fatto che il Tirreno avrebbe dato retta a tale ingiunzione, se gli girava diversamente. Ma ci vuole convinzione nelle cose. Accostammo sottovento e Alessandro si arrampicò con consueta agilità sui copertoni di camion, che facevano da parabordo alle fiancate del pontone. Mentre confabulava con Pignalosa, Claudia urlò: «Onda!». Mi buttai sul fianco di sinistra della barca, saltando sulla panca mentre la prima ci alzava sulla cresta, avvicinandoci con forza al pontone. Alessandro arrivò di corsa. In un battibaleno, fummo tutti impegnati a cercare di evitare che la fiancata fosse danneggiata, rischiando piedi, mani e altre parti organiche frapponendole qua e là tra i legni. Ale urlava furioso, e si incazzò ancor più quando il dondolio di tutto l’ambaradan fece infilare l’antenna radio in un copertone. Non si ruppe nulla, ma cercammo con occhi astiosi il colpevole. Un traghetto era ormai un centinaio di metri oltre la nostra perpendicolare, ma la distanza a cui c’aveva superato non poteva superare cinquanta, a dir tanto settanta metri. «Ma siamo segnalati?», domandai. «Certo, hanno emesso l’ordinanza da giorni e ho sentito gli avvisi ai naviganti della Capitaneria anche poco fa», sbottò Alessandro, le mani ai fianchi e lo sguardo infiammato. Mi girai per caso. Claudia e Roberto erano vicini, e lui sembrava parlarle all’orecchio, ma sembrava poter anche star alzando la bocca dall’altezza del collo di lei.

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Accortosi di me, si spostò verso la poppa. Stai diventando paranoico…, pensai. Volevo avvicinarmi e guardarle il lato dove c’era l’ematoma, ma Cristiano mi anticipò stringendomi il braccio: «Preparati, Stè.» Sembrava un’intimazione e stavo per farglielo notare a muso duro, ma Alessandro cominciò a urlare ai pescatori di calare con maggior attenzione la braca. Dovevo muovermi. In acqua non feci che pensarci. Arrivato a cinquantotto metri attesi che il cavo continuasse la discesa, e guidai per radio l’avvicinamento. Lo spinotto del grillo non diede problemi. Era assicurato al codino di sicurezza, ma non ci fu bisogno di sfilarlo del tutto dal grillo. Legai le asole dei due cavi da giuntare tra loro con un cordino, così che quella in altro non ondeggiasse allontanandosi. Poi girai di traverso il grillo. I cinquanta chili di peso rimasero in appoggio sulla redancia e non fu nemmeno faticoso. La narcosi ottundeva un pochetto, ma era piacevole. Il cervello smise di occuparsi di più pensieri alla volta e mi concentrai sul lavoro. «Vampiri… Ma che stronzate», borbottò nel mascherone la mia voce, non autorizzata. Girai su se stesso lo spinotto finché uscì dalla filettatura, poi, tenendolo dentro all’altro braccio del grillo, che per inciso chiamavamo maniglione, feci forza e lo tirai nello stroppo. Una volta unita così la braca di sotto a quella di sopra, reintrodussi lo spinotto nella filettatura e girai fino a fondo corsa, stringendo con una leva del cacciavite che mi ero portato appresso. «Fatto, salgo. Vai con Cri», dissi nella radio. Stavo ancora a sei metri quando la testa alta della seconda braca di quella coppia passò, strisciando lungo il cavo arancione verso la sua destinazione. Cristiano seguiva a ruota e, quando erano sui trenta metri, mi parve dovesse averla ormai superata. Misi la testa fuori e levai il mascherone proprio quando cominciò a dare le prime indicazioni. Non avevo fretta di salire, ma negli ultimi metri mi era preso un dolorino a un dente. Sparito in pochi secondi, s’era insediato al posto suo il mal di testa e, a quel punto, volevo solo stendermi sul pontone, abbastanza stabile e confortante. Dovetti fare la spola, dall’acqua alla pedana a poppa, e dalla barca al pontone. Evitai di togliermi la muta e fu veloce. Alessandro e Claudia stettero tutto il tempo ai fianchi di Roberto, con occhi vacui e volti inespressivi. Strano, soprattutto da parte di Ale. La cefalea premeva sul bulbo oculare, così rimandai ogni ulteriore indagine e approfondimento. Stendendomi sul ponte oleoso e umidiccio del pontone, senza tema per la

muta da lavoro, impataccata da tempo oramai, feci caso all’immagine che m’era rimasta di loro. Erano bianchicci, e Alessandro aveva tirato fuori un foulard che usava come bandana, e se l’era avvolto al collo. Reclinai il capo chiudendo gli occhi e appoggiando la nuca a una matassa di corda grigia. Stavo prendendo sonno quando Pignalosa esplose in una sequela di insulti. «Porco Dio dovete stare a cinquecento metri! Avere rotto, capito?!». Continuò snocciolando bestemmie e improperi in dialetto, ballando tutt’intorno come impazzito, la radio portatile alla bocca. Che manicomio, qua stanno dando tutti di fuori… Richiusi gli occhi e presi un bel respiro. Un paio d’ore dopo la barca trotterellava su ondine basse, rientrando in porto. Le due coppie di brache, che al temine delle operazioni arrivavano ai trentacinque metri circa, giacevano ora sul fondo. Se qualcuno voleva tirarci un bello scherzo, non aveva che da togliere le quattro boe dai capi delle cime corrispondenti. Bastava portarsi a traino due di essi, per sfilare le teste a ottantasei metri e darci un’inculata coi fiocchi. Speravo non avvenisse. Intanto mi dovevo sorbire tre facce da zombies e un Roberto alquanto arzillo e spiacevole. Sorrideva con una smorfia malsana. Se avessi avuto una .357 e la certezza di pagarlo con soli sei mesi di gabbio, gliela avrei cancellata con un colpo o due a bruciapelo. Ci potevo stare, con quello scambio. Sarei andato a dare un’occhiata allo stato dell’arte della recente riforma penitenziaria, togliendomi un pensiero. Faccia di merda, pensai guardandolo fisso. Mise gli occhi nei miei e rise. Se vieni in acqua domani, ti faccio sperimentare un incidentuccio, cazzone. Non credo proprio, rispose qualcuno dentro la mia testa. Avevo girato lo sguardo, ma quel sussurro minaccioso dentro il cranio mi fece sfiorare il colpo apoplettico e mi ritrovai i suoi occhi puntati nei miei, come un cazzutissimo mirino elettronico. Aveva sempre quel sorriso soddisfatto e flemmatico. E i canini aguzzi… Scattai in piedi verso di lui, arrivandogli con un balzo a pochi centimetri. Non se lo aspettava e si ritrasse d’istinto. Voltai a sinistra e me ne andai a prua. Le sensazioni si ristabilirono come prima, un brivido freddo mi percorse la schiena e faticai a non guardarmi alle spalle immaginando mi saltasse… …al collo… …addosso. Ero certo che, se mi fossi girato, l’avrei visto sorridere come

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poco prima e sarei svenuto se solo mi faceva “bù”! «Dormito bene?». «Bel completino...», mi limitai a ribattere, ignorando la domanda. Roberto vestiva una felpa nuova di pacca “firmata” con il logo di una didattica, e un paio di pantaloni “tecnici” che apparivano provenire da medesima fonte. Fece spallucce e si allontanò. Ad essere sinceri non avevo chiuso occhio. Claudia si era risentita per una scopata presonno svogliata e passiva. Non mi aveva quasi rivolto parola dal risveglio. Del resto non ero dell’umore giusto, come anzidetto. Mi si erano sbarrati gli occhi prima dell’alba, e avevo passato il mio tempo a rigirarli su e giù, da sinistra a destra e ritorno, più e più volte. La solita puzza degli alberghi locali, filtrava da sotto la porta. Nemmeno sapere che ci aveva cercato la polizia contribuiva a rendermi più allegro. Una volta tanto non volevano me. Il portiere, appena messo piede alla conçiergerie, s’era dato pena di avvertirla che una certa tal dei tali, funzionaria al vicino Commissariato, la desiderava. Ora attendevo il risultato di una telefonata, che stava facendo alla tizia proprio in quel momento. Alessandro e Cristiano sedevano ciascuno su una bitta, guardando svagati il via vai di traghetti da per le isole. Pensavo che il teamleader avrebbe dato i numeri all’idea di dover rinviare di più di un’ora la partenza. Il cellulare prendeva poco o punto fuori, e Claudia voleva sentire qual era il punto, per cui bisognava attendere che la tizia prendesse servizio. Con nostra sorpresa, Ale non batté ciglio, né fece commenti. Si limitò a stravaccare le gambe sotto al tavolino del bar e a prolungare la colazione di un buon quarto d’ora. Passeggiammo come sfaccendati lungo il molo, parlando del più e del meno, e ora stavamo lì, a metà strada dalla meta. Claudia concluse la conversazione e si avvicinò. «Niente di ché. Una segnalazione vecchia, voleva sapere dove stanno le figlie. Credo che sia una cosa risalente a quando abbiamo litigato con Claudio». Claudio e Claudia… scossi la testa. Da qualche parte, dovevo aver letto un avvertimento sui guai che provoca mettersi con una madre appena separatasi. Qualsiasi cosa fai non è quella giusta, in ogni caso. E il mio carattere non proprio conciliante, sommato a precedenti penali che facevano sobbalzare e

innervosire le guardie, non aiutavano. «Possiamo andare?», chiese Ale. Controllai che cotanta pazienza e disponibilità, provenissero davvero dal nostro amico. La situazione cominciava ad essere davvero paradossale. Ma sono tutti fatti come cocuzze? E ché si so’ fumati?, mi domandai. Caracollammo verso la barca, che si intravedeva tra i due edifici, al confine con il bacino militare. Fu una navigazione svogliata. Ciascuno sembrava immerso in profondi pensieri, comunque privati e da cui poteva essere più difficile riemergere che dalla pozza in cui ci toccava bagnare il posteriore quel giorno. Costeggiando il terminal crociere, mostrai il dito medio all’equipaggio di una nave da sbarco della Marina Militare statunitense. Alessandro, che si accorgeva di tutto e di solito in porto stava sulle spine, controllando ogni mio movimento, non diede segno di vita. Anche gli yankee, devo ammetterlo, parvero indifferenti. Dovevano essere abituati, conclusi. A prua, proveniente dal lato sinistro del canale portuale, vidi il convoglio infame. La vongolara trascinava il pontone, dando pessimo spettacolo. Il cubo nerastro mi sembrò più lurido e fatiscente che mai. Un paio di persone sfaccendavano a bordo, e il tizio seduto su un bidoncino rovesciato doveva essere proprio il Comandante. Nessuno proferì parola e, arrivati a destino, cominciai a innervosirmi. Restammo in attesa e dicisi di approfittare per fare un riposino, imitato, vidi, da Cristiano e Claudia. Roberto e Alessandro si chiusero nella timoneria, confabulando tra loro. «Che cazz’…!» Saltai su di botto. Qualcosa mi alitava nell’orecchio. Il risveglio era stato subitaneo quanto lo scatto di reni, ma quel figlio di puttana non doveva aver voluto essere da meno. Mi ritrovai la sua faccia all’altezza della mia, nonostante che un attimo prima non poteva stare che un metro più in basso. Oppure avevo sognato che il suo alito… …i suoi denti… …soffiasse contro il mio collo? «Ehi, fatto un brutto sogno? Sei tutto rosso in viso. Ce n’hai di sangue, eh…?!», mormorò, la lingua saettante tra i denti come quella di una fottuta vipera. «Stè, prepariamoci», disse Alessandro dividendoci nel passare tra noi, non sapevo quanto per puro caso. Diedi uno sguardo appannato alla situazione. Cri e Claudia stavano mon-

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tando gli erogatori sulle bombole. Roberto aveva in mano la macchina fotografica con un obiettivo da zoom. A circa duecento metri, il pontone veniva nuovamente assicurato alle cime, che tirate sollevavano a loro volta le brache. Non c’era traccia della vongolara, per cui immaginai fosse nascosta alla vista dietro il malaugurato isolotto artificiale. Fui attirato dalla grossa nave che rallentava più in là. «Oh, ma quella è la Tide… – mi voltai verso Ale – hai intenzione di finire oggi per caso?!» La domanda era del tutto retorica, non si scomodavano centocinquanta milioni di lire sonanti tanto per fare una passeggiata al mare. «Ci proviamo e poi siamo a buon punto e loro possono lavorare anche di notte, se serve.» «Ne dubito, se permetti. Se poi lo fanno loro che hanno una nave vera sotto al culo, ok, può essere, ma noi?! Non possono cambiare le brache senza sommozzatori… Vuoi che andiamo avanti a oltranza?» Terminai la frase cercando il conforto di Cristiano, ma aveva la testa bassa e sembrava indifferente. «Oh ecco, ci risiamo! Siamo alle solite, Mission Impossible alla riscossa...» Il fatto che non mostrasse di apprezzare una critica ironica e costruttiva, mi agitò. Si mise al timone e andammo sotto al pontone. Una delle brache pendeva fuori bordo, pronta. Il primo a scendere fu Cristiano, e si piazzarono in una sola immersione due cavi. Ormai lavoravamo a soli quaranta metri, una fesseria. Il mio turno era addirittura a poco più di dieci, una bazzecola rispetto al recente passato. Faceva caldo, comunque, e le operazioni di allestimento diventavano di ora in ora più faticose. Verso le dieci mise per di più un’onda tirata, prodotta da una termica che non refrigerava affatto. In piedi dalle sei, avevo fame. Nessuno si era premunito di roba commestibile, per cui decisi di andare a ravanare nel cucinino. «Che palle Ale… Ma guarda qua, non c’hai una mazza. Ch’è questo… bourbon… bourbon! Ma che ti bevi? – mi lamentai – Oh, tiè, roba di lusso, un risotto ai funghi...». Sollevai la bustina di liofilizzato, tenendola tra pollice e indice come avrei fatto con un pedalino sporco dei suoi. E, detto en passant, tra le altre cose mi sembrò di intravederne giusto uno… «Buona!», si complimentò Roberto. Alessandro mi scostò senza complimenti con la spalla, e accese il fornelletto a gas, mettendo a bollire l’acqua. Poco dopo mangiavamo quella porcheria da piatti di emergenza, ricavati dal reporter tagliando a metà delle bottiglie d’acqua. Di solito servivano come segnali dei pedagni, ma divise equamente, a uno il fondo e a un altro il collo, e riempite di riso dalla consistenza sospetta, andavano altrettanto bene. Sul pontone avvenivano cose strane. Pignalosa doveva aver risentito della

giornata al sole. Si era tolto anche la canotta e con la cravatta o un altro oggetto simile, che non riuscivo a identificare per la distanza, s’era improvvisato una bandana. Novello Rambo, con una pericolosa deriva verso Sandokan, abbarbicato sulla gru lanciava strida inconsulte e incomprensibili. Dondolai la testa, sempre più affranto. «Ma perché non riusciamo mai ad evitare di sprofondare nella follia?!» «Non è follia, ma gusto per l’avventura...», filosofeggiò il reporter. Era sincero come un giocatore di poker che sta tirando fuori dalla manica un asso. Toccava a me, per cui buttai il mio fondo di bottiglia a mare, alla faccia dell’ecologia. Andando a prendere le mie cose, pensai fugacemente che le correnti potevano anche farlo finire nel blu hole del Golfo. La grande cavità circolare, che cominciava a quasi cinquanta metri e sprofondava fino a un centinaio, conteneva buona parte della spazzatura di quel pezzo di mare. Alessandro mise in moto e in pochi minuti fummo in posizione. Saltai in acqua, e scesi sulla braca. Attaccarla alle altre e ripetere la stessa operazione con la gemella fu una questione di poco. Riemersi, sentendo pulsare la gengiva sopra un premolare. In barca il silenzio era tombale e i volti anemici accentuavano le vistose borse nere sotto gli occhi dei miei compagni. Solo il reporter era tutto arzillo, anche se pareva altrettanto chiuso in un mutismo che mi innervosiva. «Ma che avete? Vi ha fatto male il risotto?», dissi buttando i guanti di neoprene sulla panca. Nessuna risposta. Roberto mi guardava di sottecchi, un sorriso malsano sotto i baffi. Alessandro mi si avvicinò. «Non ti spogliare, devi tornare giù», disse con voce roca. «A far che? Non tocca a Cristiano? Cioè, non c’è problema, è solo che comincia a farmi male un dente in salita.» «Lui non può… mi serve… cambia bombola e vai a staccare il cavo di sicurezza sulla testa a trenta.» «Subito?» «Si.» «Ok.» Lo guardai perplesso, ma ruotò sui tacchi e se ne andò a prua strascicando i piedi. Il sole cominciava a picchiare e la muta, seppur bagnata all’esterno, dentro non dava nessun conforto, anzi. Faceva caldo, l’ambientino non era dei più accoglienti e il nuovo tuffo diventò un’alternativa allettante.

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Normalmente qualcuno avrebbe provveduto a cambiare la mia bombola, ma sembrava un episodio di “Ai confini della realtà” e mi rassegnai a farlo da solo. Perché sto qua?, mi domandavo smontando e rimontando il gruppo di erogatori e fruste dalla bombola esaurita a quella carica. Ma si, perché facevo quel mestiere, così, invece di coltivare la terra, allevare cavalli o guidare un taxi a Londra? Perché in quel momento non me ne stavo sul molo di tondi massi glaciali, sul lago davanti casa dei miei nonni svedesi, a pescare persici, temoli, lucci e salmerini? «Già, perché? Perché sono scemo, ecco perché!», sbottai ad alta voce. L’assoluta mancanza di reazione a quella confessione autocritica, la diceva lunga sull’alienità che regnava a bordo di quell’imbarcazione. Prima di saltare in acqua, lanciai uno sguardo per vedere se dalla porta del bagno semichiusa, si intravedesse un bacello de “L’invasione degli ultracorpi”, quello originale del ’56, non il suo pessimo remake, (con tutto che Donald Sutherland mi piace…). Alessandro, vivaddio, mi aveva comunque portato sotto al pontone, per cui fu agevole pinneggiare per quei pochi metri che mi separavano dai cavi che lo collegavano alla tonnara. Voltai appena il capo per prendere la mira, e poi mi spinsi avanti di spalle, tenendo la rotta con gli occhi rivolti alla Abyss. Ne approfittavo per spiare i movimenti di quei quattro sconosciuti. Tre, a volerla dire tutta: il fotoreporter mi sembrava sempre uguale. Anzi, era più se stesso del solito, come stesse gradualmente calando la maschera che indossava ogni giorno. Chi m’era divenuto sconosciuto erano ciascuno dei miei compagni. La sensazione di estraneità non veniva al momento accompagnata da particolare cruccio per la perdita, in quando ero assorto in ben altri pensieri; primo su tutti quello sulla percentuale di chances di sopravvivere a ciò che stava succedendo. Concentrato nel cercare di cogliere qualche gesto o movimento significativo – sulla barca nessuno pareva interessato a soddisfarmi: stavano immobili come statue di sale – , diedi una craniata contro la murata del pontone. «Bong! Vacci piano amico, così te la rompi, eh eh...». Ruotai su me stesso e lanciai un’occhiataccia al pescatore… …Ridi su ‘sto cazzo… … che, dall’alto del pontone, mi dispensava un largo sorriso, stampato sulla faccia scavata e mal rasata. La bocca era al pelo dell’acqua e lasciai che si riempisse, poi spruzzai fuori il contenuto come una fontanella, in direzione dei denti di cane che costellavano la lamiera corrosa, tra alghe e catrame rappreso. Misi tra i denti il boccaglio e alzai il corrugato per sgonfiare il gav, usando la destra per soffiare dentro il

naso e compensare. Ero poco pesato e dovetti tirarmi giù sui cavi. Arrivato a un cinque, sei metri, agganciai a uno di essi le gambe e spinsi il pulsante di scarico della stagna, ottenendo un magro risultato. Ne uscì qualche bolla, dalle dimensioni modeste e il passo pigro, e la punizione per aver raccattato una cintura di zavorra qualsiasi fu immediata: la muta collassò del tutto, risucchiando dai vecchi e slabbrati polsini e dal colletto acqua gelida e sgradevole. Borbottai qualche imprecazione e ripresi a scendere. Le orecchie si riequilibravano con facilità, ma i seni frontali non ne volevano sapere. All’altezza della radice del naso, un dolore sordo spingeva sull’osso del cranio, come volesse schiacciarlo. Pinzai tra le dita il naso di plastica e provai a tirar in fuori e smuovere lateralmente la maschera, ma tutto quel che ne ricavai fu un po’ di acqua negli occhi. Alzai la testa verso la superficie e forzai la compensazione. Intanto da troppo positivo ero passato a negativo e, impegnato in quella lotta con la mia cavità sinusale, non feci in tempo a immettere un po’ d’aria nella muta o nel gav. Scivolavo lungo la cima come un pompiere che scende dalla pertica, acqua che entrava di qui e di là, un chiodo martellato a ripetizione nella fronte e il nervosismo che montava esponenzialmente. Quanto odiavo la subacquea. Stufo, rinunciai lasciando che la pressione facesse quello che voleva. Mollai le gambe e mi misi a volo d’angelo, dando una pompatina alla muta e soffiando nel naso schiacciato con le dita. Smadonnai una decina di metri per il male che provavo, ma a un certo punto, come sempre, sentii uno schiocco tra le sopracciglia e la fitta scomparve, lasciando il posto a un ritmico pulsare della zona torturata. Intanto ero sul mio obiettivo, per cui bando alle ciance, era ora di darsi da fare. Staccai quello che dovevo staccare e me ne tornai su. Per pochi metri. Ahia…Un’improvvisa mazzata sopra uno dei denti mandibolari mi strappò un lamento molto simile ad un guaito. Uuuh… E’ quello di prima… La lingua andò a premere dall’interno su un premolare a sinistra dell’arcata superiore. Bloccai la risalita e comincia a compensare. Poi smisi. Che lo facevo a fare? Potevo cercare di spingere aria dall’interno, per riequilibrare la pressione della colonna d’acqua su orecchie e cavità frontali, ma coi denti era un vero problema. Quella era una minuscola bolla di gas, infiltrata senza autorizzazione in una otturazione mal eseguita o, in questo caso, vecchia e sfaldata. S’era insinuata tra avorio e amalgama e, mentre risalivo, aveva espanso il suo

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volume, restando intrappolata. Ora spingeva sulle pareti della cavità cariata e, soprattutto, verso l’alto, contro la gengiva e il canale nervoso. Cercai di ricordare se quel dente era anche devitalizzato. Lo speravo con tutto il cuore, perché in caso contrario dovevo aspettarmi di fare una approfondita conoscenza con l’astronomia. Beh, no, si trattava al massimo di reminiscenza. Quand’ero carcerato m’avevano fatto imparare il significato del termine “mal di denti”. Aspettare settimane un cane che strappava quel che c’era da curare, e trapanava infettando quel che era sano per procurarsi una futura estrazione, insegnava molto sugli aspetti perversi della vita. Scesi più in basso e mossi il capo sperando che la bolla, rimpicciolita, uscisse da dove era entrata. Un’occhiata al manometro mi consigliò di togliermi di là. Poco più su il dolore ripresentò il conto. Feci così, a yo-yo, una ventina di metri. Non potevo far molto altro che star appeso alla cima, aspettando che infinitesimali molecole, frazioni di una capocchia di spillo, in qualche modo si staccassero dall’insieme e riducessero la pressione. Ero giunto alla conclusione che si trattava di un dente devitalizzato. Visto il male che faceva, non volevo nemmeno pensare a quel che avrebbe provocato su un nervo vivo e pulsante. L’aria nella bombola andava finendo, e fuori aspettavano solo me per mettere in moto l’ultima parte di quel circo. Vorrei vantarmi di essere sempre stato un subacqueo attento e scrupoloso, ma sarei uno spudorato mentitore. Sciatto e approssimativo è più vicino alla realtà. E piuttosto indifferente alla salute, in quel modo che connota tutta la mia vita. Un misto di superficialità, guasconeria, fatalismo catartico e furbizia scaramantica. Che vuol dire? Presto detto. Sono di quelli che non ci credono, ma si toccano i gingilli e fanno corna. Farmi male è un po’ punirmi per le sofferenze che provoco agli altri, un po’ immolare sull’altare sacrificale parti in cambio della salvaguardia del tutto. Dato che sarei dovuto morire un milione di volte fino ad oggi, forse funzionava. Stetti un po’ tra i dieci e sei metri, indeciso. Poi diedi un’alzata di spalle e mi trascinai su. Il dolore si piantò tra dente e gengiva, spingendo e strappando. Una lama ardente si fece strada dentro la carne rossa e palpitante, preceduta da una scossa elettrica che strapazzò la massa encefalica, rendendola ancor più simile a un budino gelatinoso. Vago, tra le tenebre lacerate da bilioni di bilioni di puntini accecanti – avete presente nel film della Enterprise quando il capitano Kirk dice “Signor Sulu, velocità Warp!” come si trasforma lo schermo sullo spazio nero in un’esplosione bianca? Beh, quelli – il ricordo dell’esame di neurobiologia con il Prof. Oliverio nella saletta dei colloqui avvocati di Rebib-

bia: era l’ottavo nervo che collega orecchio, occhio e cervello e terminazioni attigue, vero? Splof! O forse fece skiok! La bolla trova sempre la sua strada, nella nostra morbida polpa. Sale verso l’alto e squarcia tutto ciò che incontra e si sovrappone ad altra bolla, se non può tornare da dove è entrata. Dentro me, o meglio dentro il mio dente, aveva trapassato cemento odontotecnico marcio, polpa, canalizzazioni e tessuti vari. Lo schiocco fu ovunque. Nel condotto uditivo, dentro il cranio, ma soprattutto, fisico e concreto, nella maschera. Il gas in salita rapida aveva spintonato e lacerato. Fattosi strada, era finalmente esploso dal naso con un geyser di sangue e muco. La poltiglia aveva riempito la stretta intercapedine tra appendice nasale e protezione di silicone della maschera, e si era sparsa sul vetro della stessa. Riemersi con gli occhi chiusi e la testa in su, e per un po’ stetti così a galla, godendomi quell’atrocità evaporata in un ricordo e il ritrovato benessere. Stordito, ci misi un pochetto a far caso agli strepiti sopra di me. I tizi sul pontone erano belli agitati, urlavano che mi ero fatto male, qualcuno parlava di “sangue”?, e facevano ampi gesti alla nostra barca. Richiusi gli occhi, quanto casino per nulla. «Oh!» Singolare come ci siano voci e toni che, pacati quanto noti, in mezzo ad assordanti cacofonie forestiere ti raggiungono precisi come colpi di cecchino. Spalancai le palpebre. L’Abyss mi dondolava a fianco. Alessandro, poggiato sul parapetto sinistro, mi guardava con occhi velati. Quant’è pallido, pensai. La corrente mi accompagnò alla pedana di poppa, a cui mi aggrappai. In realtà mi sentivo parecchio stanco. Stavo sollevando la maschera quando il fotografo disse:«No, fermo, non te la togliere», con occhi spiritati e un ghigno di piacere. Lo guardai correre verso la parete della cabina, frugare in una sacca nera e tornare con la fottuta Reflex. «Si… si… resta così… aspetta...», farfugliava sbavando tra gli scatti. «Ma vaffanculo Robè, accanna, non gliela fò più!», dissi usando il dialetto romanesco dell’altro. Restai, appeso, comunque, le braccia incrociate sul tubo di acciaio inox, che bordava il piano di listarelle di tek sbiancato dal sole e dal sale. Alle spalle di quella zecca, di ‘sto parassita, cercavo di capire come mai vedessi le suole delle scarpe di Cristiano. Stava steso, (e immobile) lungo il ponte, ecco come mai.

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Quando fui stufo e mi strappai la maschera dalla faccia, Roberto fece un sibilo, o un risucchio che si smorzava con un ringhio di gola, non so. Sollevai gli occhi, ma s’era rimesso in piedi e scattava con il sole alle spalle. La luce mi colpì, lasciando una palla bianca stampata sulle palpebre richiuse di scatto. Quando si trasformò in un grigio uniforme, attraversato da filamenti contorti di palline accodate le une alle altre, m’azzardai a riaprirli. Roberto era scomparso. Cristiano giaceva sempre allo stesso posto e di Ale vedevo le spalle oltre il finestrone della timoneria. Nessuna traccia nemmeno di Claudia. «Ooooooh, che cazzo fai!», urlai quando i motori si accesero di botto, sputandomi fumo e acqua dagli scarichi dritto in faccia. Fu solo un presentimento, ma mi tirai su di forza, bombola e tutto, un battito di ciglia prima che l’elica girasse turbinando schiuma e spruzzi. Rimasi appeso, aggrappato a tutto quel che trovavo, mezzo bacino e gambe proiettate indietro, salve per miracolo, a planare sulla scia. La maschera piena di sangue raggrumato e schifo vario, traballava come un tarantolato sul ponte azzurrino, a un palmo dal mio naso. Tirai e strisciai, addossandomi allo specchio di poppa. L’Abyss prese malamente un paio d’onde. Come un cavallo imbizzarrito tentò di disarcionarmi, ributtandomi in mare. Strappai via fibbia e clip delle cinture e degli spallacci e tolsi le pinne, con rabbia, buttando tutto alle mie spalle. Qualcosa volò in acqua ma lo ignorai. Furioso, attraversai il ponte dando un calcio laterale a Cristiano. Non fece “ah” da sotto all’asciugamano con cui era coperto dai pettorali in su. Avrei dovuto notare anche la singolare cadaverica rigidità, ma ero troppo imbufalito. Piombai dalla porta della plancia su Ale, che manovrava come un burattino il timone. Impattando con violenza la mano sul suo deltoide sinistro, incontrai carne trasformata in legno, dura e compatta. Girò il capo a novanta gradi verso di me, come fosse avvitato su un perno, privo di quella plasticità infusa dall’attrito elastico di pelle, tendini e muscoli. Gli occhi chiusi si spalancarono su orbite riempite di vermi e la mascella ricadde scoprendo denti marciti all’improvviso. Mi fece linguaccia con qualcosa somigliante a del bollito in decomposizione. Non urlai. Non feci in tempo. Il vampiro si fece carne e ossa, spuntando dal nulla dietro di me, azzannandomi il collo e trascinandomi a terra. Poi fu il buio.

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IX. La fine It hurts to set you free But you’ll never follow me The end of laughter and soft lies The end of nights we tried to die The end, The Doors

La Stella del Mare in galleggiamento, finalmente nel bacino del cantiere, scortata dalla Abyss.

Riemersi a faccia in su, piano, infrangendo la lastra di mare tirata a specchio. La Abyss dondolava indolente, come una bella donna nel suo talamo, dopo una notte d’amore. La cima d’ormeggio cadeva floscia dalla prua. S’incurvava appena, a tratti, verso l’acqua ferma; una goccia, allora, riusciva a scivolare giù urtando la sensibilità del mare, che protestava per quella violenza amplificandone l’eco dell’impatto. A parte ciò, s’era fatto silenzio. Non chiamai nessuno. Tanto non c’è nessuno… Mossi le pinne sotto di me, incrociandole nella maniera che si fa con un elastico, e quelle allo stesso modo tornarono indietro, imprimendo al busto la controrotazione. Feci un lento giro a trecentosessanta gradi, la miopia svanita in una vista nuova, direi telescopica. Vedevo la Tide, più in là. Ferma, inattiva. Attorno, galleggiavano le barchette dei pescatori venuti a partecipare al recupero. Vuote. Non erano più vitali i due traghetti della Caremar bianchi e blu, che incrociatisi nel va e vieni per Ischia, ora quasi toccavano le rispettive mura, affiancati e immoti. Un idrogetto sembrava aver deciso di interrompere la corsa in modo più spettacolare. La prua affilata dei due scafi a catamarano, aveva tagliato in tre pezzi uno yacht a vela, rimasto semi sommerso sotto l’investitore. Quell’abbraccio violento non aveva prodotto il corollario di urla e strepiti

La Stella del Marea secco, da sinistra: il Comandante Pignalosa, Claudia Serpieri e sua figlia Livia e il primogenito sempre del responsabile del recupero per le autorità Giudiziarie e Portuali. 214

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di passeggeri ed equipaggio, che ci si poteva aspettare da ogni naufragio degno di rispetto. Ad onor del vero non aveva prodotto un bel niente, visto che là non c’era ombra di vita. E non un’auto si muoveva o strombazzava sul lungomare. Il cielo blu era sgombro da una sia pur piccola nuvola, e altrettanto dalle consuete scie di condensa dei jet. Niente rombi da Capodichino. Zero sirene a Mergellina. Mute le navi nel porto. Gabbiani… Dove sono i gabbiani? Una strolaga, oppure una semplice libellula perduta troppo al largo. Niente. Ecco, era questo. Attorno a me, sopra e sotto di me, c’era il niente. «Iàlla zibbi! Scharmuta iàlla, iàlla...», urlava un arabo magro e rugoso all’indirizzo di una ragazza sui sedici anni, che lo precedeva a passetti veloci, la testa bassa. Il sole mi ferì gli occhi uscendo dall’ombra del palazzo di fronte, e inforcai gli occhiali. Quando li cercai di nuovo, strizzando le palpebre, erano già spariti, dietro l’angolo o, forse, in uno dei cupi portoni di alluminio anticorodal e vetro smerigliato a rete interna. Svoltai sulla parallela alla piazza della stazione, puntando un bar dal lato opposto la carreggiata, dove servivano spettacolari pasticciotti. Pregustando il sapore della pasta frolla croccante, calda e profumata, seguita nel primo morso dal contrasto con il ripieno di crema al limone e ricotta, mi si riempì la bocca di saliva. Aaah, e un bel cappuccino bollente. Attraversai veloce, tagliando in due un crocicchio di immigrati nordafricani, fermi a parlottare al semaforo. Volevo restare al sole, camminando. La prima mattina era ancora fresca, specie in giornate così terse e dopo una spazzata di maestrale. Indossavo solo una T-shirt e il gilet da lavoro, e la pelle delle braccia si increspava e i peli si drizzavano, restando all’ombra. Entrai nel locale affollato, pagai alla cassa e, consegnato lo scontrino al banco, riposi il portafoglio nella piccola tasca laterale sul fianco destro. Nemmeno quel giorno furono deluse le mie aspettative, e poco dopo mi dirigevo satollo, a ritroso sui miei passi, per incontrarmi con Claudia – sempre in ritardo anche se non era tipo da trucchi e imbellettamenti – e proseguire

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insieme per il porto. Un tizio che stavo incrociando, urtò la mia spalla sinistra. Mentre chiedevo scusa con la faccia voltata verso di lui, entrambi ancora in movimento, un altro mi toccò a destra. Appena una bottarella, piccole collisioni da traffico pedonale congestionato. Feci solo due passi prima di realizzare dentro di me la scena. La mano corse su per la giacchetta a mezze maniche e palpai la tasca… … Seee, ciao, state freschi… …vuota, mentre ruotavo su di un tallone e con lo sguardo stile radar di puntamento di un lanciamissili, davo la caccia all’obbiettivo. Mai rubare a un ladro. Ci misi circa quattro secondi ad acchiappare quello che faceva lo “specchio”. Dopo avermi urtato per distrarmi, non portando indosso nulla di compromettente, s’era allontanato veloce ma senza correre. Quando lo afferrai per il collo fece la faccia brutta, ma poteva anche trasformarsi in un mostro, tanto lo riempivo di calci in culo comunque. La discussione si animò quando fui circondato dal gruppetto dei suoi amici. «Tu poliziotto?», mi chiese uno, indeciso su cosa attendersi dalla veemenza con cui affrontavo la banda. «Ma quale poliziotto, tirate fuori il portafogli forza, non ho tempo da perdere!» Stavamo per passare dalla fase verbale a quella degli spintoni e “mani in faccia”, ed ero rassegnato sulla conclusione. Uno più anziano si fece largo nel gruppetto che mi circondava. «Stefano… Sei tu, Stefano?» Osservai il tipo con curiosità, ma potevo immaginare che non fosse un caso di omonimia. «Ci conosciamo? – domandai, approfittando dell’occasione per introdurre un argomento nuovo di trattativa – Stavi in qualche carcere con me?!». «Si, si, fratello, sono Muhammad, ricordi tu!?! Spoleto, insieme a Hussein, Roberto, tu ricorda!?!» Mi abbracciò, producendosi in grandi pacche sulle mie spalle. Non ricordavo proprio niente, troppi anni e troppe facce; non ne parliamo proprio del numero di Muhammad, Mohammed, Mohàmmet e via elencando varianti e accenti. Che si ricordasse lui andava più che bene. Ci bevemmo un caffè e, rimembrati i “bei vecchi tempi” insieme ai suoi compari a sufficienza per ritornare in possesso dei miei beni, li lasciai al loro angoletto di strada. «Che giornata...»

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«Bella, si. Oggi mi sa che finiamo. Sei stanca?» «Insomma, abbastanza, dormito poco.» L’autobus era affollato, la gente ci schiacciava e spintonava l’uno contro l’altra, nel tratto che dovevamo percorrere fino al Beverello. Ne approfittai per strofinare il sesso contro il culo di Claudia, facendo finta di niente. Sorrise una sola volta con fare complice, ma per lo più restò impassibile, premendosi a sua volta contro di me. Una ragazza seduta a fianco, accortasi della manovra, fece la faccia schifata, immaginandosi che fossi un molestatore. Quando le sorrisi ammiccando, sbuffò e voltò il capo verso il finestrino. Scendemmo sotto il Castello Angioino e ci avviammo mano nella mano. Claudia indossava una minigonna e un top, ai piedi le solite ciabatte di plastica, con il velcro. Molte teste si giravano a osservarle le cosce; i capelli castani imbionditi dal sole e dal mare, oltre ai tratti stranieri ereditati dalla madre finlandese, dovevano farla sembrare una ragazzona appetitosa, in vacanza nel capoluogo. Mi dispiaceva che il maschilismo indigeno le impedisse di lavorare con noi. Oltre ad essere brava e utile, si sarebbe divertita di più. Salutammo tutti al bar e prendemmo una rapida seconda colazione. Il percorso in barca fu insolitamente veloce, allietato dai ricordi giovanili del Comandante Pignalosa. «Eh, si, ero mozzo su quella nave quando arrivammo in Sud America… Incontrai ‘ sta guagliona , bella assai, e mi sbarcai», stava confidando ad Ale, quando, a un certo punto, passai dalla timoneria. «Grandi racconti, eh?!», disse Cristiano, facendomi posto vicino a se a prua. Misi giù il culo e allungai le gambe al sole. A poppa Claudia e Roberto chiacchieravano di cose che non mi interessavano. «Oh, te dico… Come te la senti? Finiamo?» «Penso di si, non ci dovrebbero essere problemi», rispose. «Uhm, speriamo, mi sono stufato,» L’area operativa era affollata. Si stava trasformando in un luogo “in”. Come sulla corsia opposta alla scena di un incidente stradale, le barche rallentavano al passaggio per curiosare. La Tide obbligava al rispetto dell’avviso ai naviganti diramato dalla Capitaneria. Troppo grossa per far finta di non vederla o rischiare una collisione. Non che questo volesse dire stessero davvero alla larga. «Passano cinque metri più in là del solito», ironizzò Cristiano, indicando con un cenno del mento un idrogetto rosso e bianco di una delle compagnie di

navigazione. Guardai con un misto di fastidio e divertimento le varie bagnarole dei diportisti , che ruotavano tutt’intorno. «Già, alla grande, ma stiamo attirando moscerini!». Una vedetta della Capitaneria, passata a dare anch’essa un’occhiata, aveva cacciato in malo modo un barchino, partito addirittura dalla costa per assistere. I proprietari dovevano aver tirato un sospiro di sollievo; secondo me non portavano neanche le dotazioni di bordo per stare oltre le tre miglia, e il fatto che non fosse stato effettuato un controllo li aveva graziati. «Allora sfaticati, si va?!» Alessandro era raggiante. «Oh, guardalo – puntai il dito, rivolgendomi a Cristiano sempre seduto al mio fianco – , è tutto illuminato...». «Il gran giorno, eh Ale?!», gli disse sorridendo, con gli occhi semichiusi, l’isolano. «Su, forza, alzate il culo e andiamo a lavorare – ribatté lui, schioccando le dita –, e tu, mi raccomando, niente fantasie da seccia!» Lo gratificai di un’occhiataccia. Poche cose mi davano fastidio, ma una che proprio non sopportavo era il minimo accenno o battuta sul portare sfortuna. In tutte le attività a rischio, basta un unico precedente per attribuire nomee che non ti levi più di dosso. E’ come buttare un mozzicone ardente in un campo di erba secca in pieno agosto. Lo sapevo bene, tanto che mi ero servito di questo espediente alcune volte, per dar noia ad avversari. «Io non porto seccia – rimarcai – e non ho fantasie di quel genere!». Controllai l’effetto della precisazione, restando abbastanza soddisfatto. Cristiano si stava allacciando le scarpe con indifferenza, e Alessandro non mi aveva nemmeno ascoltato. Stava ormai a poppa, tutto preso dagli accordi con il fotoreporter per le migliori inquadrature del recupero. Da quando è uscito il film “Sliding Doors”, trasmissioni tv e media hanno amplificato un genere già caro alla letteratura e alla filosofia. Interrogarsi su cosa sarebbe avvenuto, se si fosse mosso un passo in maniera diversa da quello che si è fatto, appartiene al bagaglio concettuale della nostra specie da quando è capace di ragionare e speculare. A posteriori, mentre osservavo l’evidenza della mia assoluta solitudine, mi chiesi se le cose sarebbero andate in un altro modo, se Alessandro non avesse instillato quel tarlo nel mio cervello. Preparando l’equipaggiamento, la lingua tormentava il dente malato. Non devo pensare cazzate morbose, mi ripetevo tre me e me. Il che non impedì che continuassi a farlo quando mi calai in acqua, né dopo,

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pinneggiando attorno ai cavi per il controllo di routine. Sotto al pontone, immaginavo la frenesia che doveva percorrerne la parte in superficie, con tutta l’équipe intenta a preparare il delicato passaggio di consegne alla nave gru. La Tide poteva sollevare quasi il doppio del peso della Stella del Mare. Ma le sue grandi braccia avevano una portata di venti metri, non oltre. Pertanto si rendeva necessario usare brache di sollevamento non più lunghe di tanto. Il momento più difficile non era nemmeno il comunque temuto “strappo” iniziale dal fondo. Il relitto non si era mai infossato più di un metro, e poco più a poppa, la parte pesante, a causa dei motori. Un “effetto ventosa” sembrava possibile ma non preoccupante. Quello che, viceversa, esponeva parecchio la Tide, era il momento di passaggio tra una coppia di brache e l’altra. Dopo il primo aggancio, per ben tre volte, si rendeva necessario bloccare il sollevamento. La gru doveva sollevare fino al massimo della sua capacità la prima coppia che sarebbe uscita dall’acqua e assicurare una nave all’altra, spostando poi il bigo. Per un po’, rivedendo un’ennesima volta la sequenza, la mia mente si distrasse. Ci pensai, ed eccomi ritornato a rimuginare su quel motivo ossessivo. Tutte stronzate, l’altra volta è stato un caso, fece in mezzo a un “mumblemumble” caotico il mio io disturbato. Guardavo i cavi metallici che salivano lenti dal fondo, dov’erano stati a riposo tutta la notte. Sul pontone Ale e Pignalosa dovevano star urlando ordini e mettendoci il loro olio di gomito. Pensa se si strappa una cima… Non fui abbastanza lesto a ricacciare quella stupidata da dov’era venuta. La vista di uno dei due cavi che sprofondava di botto, però, mi spinse in gola la risatina che l’aveva accompagnata improvvida. Scossi la testa incredulo, come un pugile rintronato, e osservai la parte terminale del cavo. Sfilacciata in un ciuffo di cordicine strappate, sembrava una mano che fa “ciao ciao”, muovendo veloce le dita. E, ahinoi, andava giù, seguendo a duemila il cavo metallico che poco prima stava invece sollevando. Assaporai un singolare retrogusto di rame, nel solito mix di saliva e acqua marina che stazionava in bocca. Il dolore arrivò poco dopo: mi ero morso a sangue la lingua. Ero a tre o quattro metri ed ebbi l’occasione, più unica che rara (e questa non è una frase fatta!), di salvare il genere umano. Lo choc fu così forte da azzittire il turbinio di pensieri che, se fossi stato più

giù, avrebbe fatto seguito all’evento. Riemersi, di botto, come salta un tappo di spumante a Capodanno, spinto dall’agitare la bottiglia con quello scopo. Flop! Fuori c’era il panico. Per poco non mi vennero addosso con la barca, accostatasi alla piattaforma, su cui strepitavano varie voci isteriche e furiose. «Ahò, che state facendo, c’è Cristiano sotto!», urlai accodandomi al generale stato di concitazione. Un vago senso di colpa venne costretto a battere in ritirata. L’ho detto prima: persi una grande, epocale chance. Fossi risalito a bordo, adducendo qualche scusa plausibile per non immergermi più, ora non sarei qui, nel silenzio di tomba… …e che tomba… …che mi attanaglia, indeciso se risalire sulla barca di Ale, dove non c’è nessuno che mi possa accogliere. Invece restai appeso a una corda ciondolante, una delle tante che scendevano come festoni dall’isolotto galleggiante. Attesi che recuperassero la calma, e poco dopo fui affiancato da Cristiano. Restò con l’erogatore in bocca. A pelo d’acqua, soffiava l’aria in mare facendo bolle e schiuma, e mi guardava da dentro la piccola maschera nera, da apneista. «Che c’è!?!», sbottai con astio, mentre scodinzolavo la coda di paglia. Continuò a fissarmi per un po’, poi si mosse, per allontanarsi da sotto al pontone. Alessandro dovette vederlo subito, perché si precipitò sul bordo: «Cristiano, Cristiano! L’hai vista?! Porca puttana, ma com’è possibile… Oh, puoi andare giù?!» L’altro sollevò il capo, sputando il boccaglio. «Si, mo’ vado...» Mi guardò, riprese il secondo stadio e, stretta l’appendice gommosa tra i denti, scomparve tra i flutti dopo avermi fatto il segnale di discesa, col pollice verso, alla imperatore romano con rodimento di culo. Indossai la maschera e, trattenendo il fiato, lo guardai scendere sulla fila superstite di brache. Senza cercarlo con gli occhi, mossi il braccio lungo il fianco destro e là attorno, finché raccolsi l’erogatore penzolante e me lo posizionai tra le labbra. Mantenevo lo sguardo puntato sulla striscia di metallo e sulla colonna di bolle che gli si alzava vicina. A un certo punto cominciò a spostarsi, segno che Cristiano stava andando sul capo sprofondato da qualche parte intorno alla tonnara. Speravo non avesse

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dovuto raggiungere il fondo. Il cavo di plastica galleggiante era lungo almeno quindici metri, dal punto in cui si era spezzato alla testa della braca metallica. Se era crollata giù accatastandosi su se stessa, poteva ancora spuntare sui sessanta metri. La sequenza di bolle restò piuttosto vicina alla verticale su cui era sceso, e un paio di minuti più tardi vidi arrivare a tutta velocità il pallone di segnalazione di Cristiano. Alzai la testa dall’acqua e cercai il pontone. Era a dieci metri da me e stavano tutti in fila sul bordo, con gli occhi puntati sul sottoscritto. Non seppi resistere e feci un giretto a destra e a sinistra. Tizi in tuta giallognola e caschetto spuntavano sul parapetto della Tide, e da bordo della Abyss c’era la stessa attenzione verso il mio francobollo di mare. «Butta la cima!», urlai all’indirizzo di Ale. Ci mise un attimo. Beccai quasi sul cranio il pesante moschettone che aveva piazzato in testa alla fune. «Malfidato...», borbottai, per nulla scontento che non si aspettasse qualcosa di buono dai miei cosiddetti nodi, né che avesse avuto modo di esibire la sua vena cabarettistica con battute tipo “Ste’, lascia perdere, la mia barca non è una scarpa da ginnastica…”. Trainandomela a rimorchio, pinneggiai verso il pallone e mi immersi sul filo d’Arianna sottostante. A venti metri incrociai Cristiano in risalita. Ci scambiammo un saluto e ognuno proseguì per la sua strada. Trenta metri più giù vidi la cima. Dire che mi conoscevano bene era usare un eufemismo. Anche l’altro furbacchione non si era scervellato sul dilemma amletico se fidarsi dei miei nodi o no. Un bell’occhiello era già pronto e dovetti solo attaccarci il moschettone. Visto che c’ero, staccai il rocchetto del mio amico e mi presi la briga di tornare a galla riavvolgendovi il filo per tutto il percorso a ritroso. Ho detto prima di aver avuto un’occasione per impedire ciò ch’è successo dopo. In realtà, pensandoci ora che sono seduto tutto solo soletto sul ponte della Abyss, non è corretto: ne ho avute ben due. Impegnato nella complicata procedura, cercando di concentrarmi per non far uscire la cimetta dalla guida e tenerla ben tesa, riemersi in un battibaleno senza colpo ferire. Solo a quel punto, con Ale che mi urlava nelle orecchie se potevano tirare su o meno, mi venne in mente che non avevo fatto pensieri assurdi. Ma, come vi ho detto or ora, ormai la capoccia stava fuori dall’acqua. La barca di Ale si avvicinò e mi aiutarono a salire a bordo.

Dalla radio il mio amico mi fece riferire di non togliere la muta e cambiare la bombola, e così feci. Restammo a lungo lì, a dondolare in mezzo al mare girando i pollici. Quelli sul pontone recuperarono la braca affondata e poi si diedero da fare per agganciare quella e la gemella alla Tide. Le operazioni furono coadiuvate dalla solita vongolara. Alessandro aveva già dato i numeri a sufficienza, quando una manovra improvvida stava facendo schiantare la murata della sua barca contro un fianco del pontone. «Ti stai divertendo? », mi chiese Roberto. Non parlavamo più un granché e, anche in quell’occasione, mi parve più una provocazione che reale interesse. Lo ignorai. «Oh, Stè – mi scosse Claudia – , c’è Ale alla radio» Andai al microfono e gli diedi una voce: «Alessà, sono Stefano, dimmi.» «Dicagnetto!… Allora, dobbiamo fare un ultimo controllo e poi solleviamo. Avvicinatevi e fai un tuffo veloce.» «Ok, ricevuto.» Chiusi la comunicazione e mi spostai di dieci centimetri, sul timone. Dopo aver dato motore, puntai la prua sul pontone e portai la Abyss a pochi metri dalla fiancata della Tide, che sostava subito dopo. Passai la guida a Cristiano e volai dietro, indossando il gruppo, cintura e pinne. La maschera me l’ero dimenticata sulla fronte per tutto quel tempo, per cui dovetti solo abbassarmela sugli occhi. Ci ripensai in acqua: non avevo sputato e strofinato la saliva sul vetro interno, prima di bagnarla, per evitare appannamenti. Lo feci, tanto con maschere vecchie come la mia funzionava lo stesso. Se Ale voleva che facessi in fretta, fui un fulmine. In un minuto arrivai a cinquantadue metri, e pochi attimi dopo vedevo il relitto. Ex relitto, pensai. Il bilancino era già sollevato qualche metro sopra il castello di prua. Ed era una fortuna, perché ondeggiava appena appena, ma con le sue tre tonnellate anche quel movimento minimo si sarebbe abbattuto come un maglio su qualsiasi struttura fosse capitata a tiro. Radar e tettoia erano al riparo, ma non volevo pensare all’effetto àncora della Stella del Mare sulla nave e sulla gru soprastanti. Rifacendo la strada di ritorno, mentre controllavo che tutti i cavi e maniglioni fossero a posto, quello stupido pensiero sgomitò tra gli altri e fece più volte capolino, finché lo notai e gli prestai attenzione. E se resta appesa?…

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Mi maledissi e cominciai a contare, cantare e cazzarare. Tutto pur di smetterla. Avevo un paio di tappe, roba di dieci minuti o poco più, ma le saltai alla grande, preoccupatissimo. Sentivo di averla fatto grossa e questo mi aiutò a non proseguire oltre. Emersi come un periscopio, puntato sul pezzo di orizzonte dove il sommergibilista si aspetta di trovare il bersaglio. Non mi persi la coppia che zompettando e gridando, avendomi visto spuntare e dare l’ok con il braccio, ordinava frenetica di salpare. La gru della Tide cominciò a muovere. «Vieni Stè...», dalla Abyss, comparsa al mio fianco, Claudia tendeva la gaffa per aiutarmi ad accostare. Passammo un po’ di tempo a guardare, ma non successe granché. La Stella del Mare si sollevò con tranquillità dal fondo. In apparenza sembrava stufa di rimanere laggiù e non diede problemi. Poi, come tutto quello che vuole per forza rendere il postulato di Murphy una Legge assoluta e ineluttabile, qualcosa si inceppò. Scese il buio, e l’unica cosa che era salita a galla erano le prime due brache appaiate. Sessantacinque metri più giù, la povera tonnara restava appesa come un salame al gancio del salumiere. Il folcloristico squadrone di recupero, ormai appariva più un circo equestre nel caos. Stanchi, affamati, isterici e incazzati, non cavavano il proverbiale ragno dal buco. Le comunicazioni si erano interrotte tra squadra subacquea e gruisti. La Tide non ne voleva sapere di andare avanti. «’Sti rott’ ‘n cul’!!!», sbraitò furioso Ale salendo a bordo. La vongolara stava tornando al pontone, che avrebbe rimorchiato in porto. «Bè?!», chiesi. «Il Comandante della Tide dice che non faticano di notte al buio...» «Ma se c’hanno quei mega fari!!!», replicai. Ale mi guardò storto:«Oh, ti ci metti pure tu?! Lo so, ma mi dice che non hanno le assicurazioni, o che l’equipaggio è stanco, che ne so… Sfacimme, chelle lote...». «E quindi?» Guardammo Roberto, inseritosi nel circoletto che avevamo formato raggruppati a poppa. Ale lo ruppe, attraversando a grandi falcate il ponte diretto al timone. «E quindi si riprende domani all’alba», ululò.

«Ma può restare così, con quella cosa appesa sotto?», fece eco Claudia, esprimendo un dubbio corale. «Mah… Corrente non ce n’è, non ci siamo mossi, credo», concluse Cristiano guardando nave gru e le luci a terra. Evitai di accennare alla mia… come vogliamo chiamarla, preveggenza?… … gufaggio, seccia?… …per tutta la cena. Non fu difficile. Andammo in una pizzeria in Piazza Pepe, che aveva i tavolini fuori sul marciapiede e faceva d’antipasto della verdura fritta con una pastella degna dei colleghi di San Lorenzo, a Roma, e affogammo il malumore nella birra. Nessuno sembrava aver voglia di chiacchierare. «Sono le undici… Che facciamo?» Abbassammo tutti gli occhi sui rispettivi orologi. Forse si era sbagliato e non era così tardi, potevamo dormire quelle duecentocinquantottomila ore di cui avevamo assoluta necessità. Niente. Riportai lo sguardo su Alessandro, che non appariva per nulla smontato da quella manifestazione di sfiducia nella sua capacità di leggere l’ora. «Voto per abbandonare il recupero al suo destino», suggerii. Per sottolineare la mia convinzione, alzai la bottiglia verde e feci un muto brindisi alla compagnia. Cristiano si associò alla bevuta, che coronò con un rutto potente. Nessuno di noi si guardò attorno per controllare gli effetti sul pubblico. Non c’era nessuno, già da quando eravamo entrati nella saletta illuminata dai neon, sporchi e puzzolenti come caproni. «Io non vado in albergo, non ce la faccio a mettermi a letto e rialzarmi tra quattro ore», disse Claudia con voce alticcia. Figuriamoci, mi limitai a pensare senza fare un fiato. Difficile darle torto, ma una decisione del genere era tipica della mia donna, in qualunque caso. Avrei potuto scommetterci su un patrimonio con ore di anticipo. «No, io vado a darmi una sciacquata e faccio un sonnellino – rispose Roberto – . Mi accompagni Alessandro?» «Si, certo. Allora voi che fate?» «Andiamo in barca e dormiamo. Se stiamo già là recuperiamo anche un’oretta», fu il saggio contributo di Cristiano. Ale pagò per tutti e ci dividemmo, raggiungendo con l’ischitano il porto e parcheggiando la nostra vecchia Panda nell’area riservata alle Forze dell’Ordine. L’aria era calda e umida.

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«Un gelato?», propose Claudia. Ce ne prendemmo uno a testa, ma io mi gratificai anche di un pasticciotto di crema. Cri restò a guardare per un po’ la fila di bottiglie alle spalle del banco. «Vuoi un bicchierino Clà?», si offrì ordinando il solito scotch torbato. «Per me un grappino...», chiese lei. Li lasciai sorseggiare e me ne andai a sedere sotto il porticato, dal lato del molo traghetti. Cominciava a scendere un velo di nebbia, e alla mia destra scorreva strombazzante il consueto fiume d’auto. «Gesù, sono così stanco che non riuscirò mai ad addormentarmi», confessai agli altri due quando vennero a tenermi compagnia. «Vedrai che come metti giù la capa ti prende sonno», disse Cristiano. «Io non lo so se voglio dormire, tanto ormai...» «Oh, Clà, che palle che sei, ci potevo giurare! E non andiamo in albergo perché ormai è tardi; e non dormiamo perché tanto è quasi ora… Datti una calmata! Domani a noi ci tocca farci il culo così.» «Ehi, e chi t’ha detto niente, dormi, no?!» Scossi la testa innervosito. Con la coda dell’occhio mi accorsi che l’altro membro del trio aveva assunto una postura da Buddha. Cranio pelato, occhi chiusi e mani intrecciate sul petto, dormiva placidamente o faceva finta in modo egregio. Gli diedi una pacca. «Dai, muoviamo il culo.» Qualche secondo dopo aver appoggiato la testa sulla giacca, che faceva facente funzione cuscino, poggiata su una delle panchine, fui scosso con ru-dezza. Le palpebre incollate da liquido lacrimale addensato, rifiutarono di aprirsi. Dovetti fare forza e mi sembrò di staccare con esse le retine. «Già qui?», farfugliai cercando di metterlo a fuoco. «Guarda che sono le quattro.» Misi a fuoco con grande fatica. Ale era passato a svegliare Claudia, che russava con la bocca spalancata dall’altro lato. «Quella che non poteva dormire...», mormorai chinando il capo. La testa pesava come un macigno e sembrava potesse staccarsi dal collo da un momento all’altro, precipitando sulle assi del ponte. L’odore del caffè caldo fu anticipato di un secondo dalla visita delle scarpe di gomma di Cristiano. Sollevai l’appendice estranea, dimostrando che la forza di gravità è relativa, e mi venne un principio di strabismo focalizzando il bicchierino fumante, tenuto a un palmo dal mio naso. «Gentile dono del boss per il nostro sacrificio.» «Uh… cibarie? – domandai, pentendomene subito, con un rutto acido –

No… ritratto… Ma quanto abbiamo bevuto?» Cristiano mi mollò il caffè e ruotò sui tacchi senza un fiato. In qualche modo riuscimmo a metterci tutti in piedi e a disormeggiare partendo. Il rumore del motore e la puzza di fumi di scarico accellerarono i tempi, urtando nervi eccitati e organi sensoriali ipersensibili. Armeggiavamo a poppa, appena oltre l’imbocco al piccolo bacino da cui uscivamo, quando Ale mise in folle. Lo guardammo tutti al di là del vetro, senza capire. Stava immobile, forse appena teso, rigido. In un primo momento la sua decisione mi apparve incomprensibile. Poi, d’un tratto, la mia prospettiva cambiò nello stesso modo con cui, quando guardi un filmato, l’obiettivo cambia la messa a fuoco e passa da un primo piano a un campo lungo. La mascella cascò giù, senza il minimo contrasto da parte di muscoli e tendini deputati a tenerla solidale all’arcata superiore. «Ma quella non è la Tide?», disse qualcuno alle mie spalle. Scossi la testa a destra e sinistra con vigore, e forse fu solo la mia immaginazione, ma sentii sciabordare un liquido, là dentro. «Uuuh, hanno fatto il recupero!» Voltai appena la testa, guardando con odio Claudia. «Tu, per caso, vedi la tonnara a rimorchio?», scandii parola per parola. «E dov’è?!», rispose. Un’idea ce l’avevo. Ho visto poche volte Alessandro davvero incazzato. Di lì a qualche minuto, e per tutta l’ora successiva, avrei più volte temuto per le sue coronarie e per quelle povere vene e arterie, che minacciavano di esplodergli dal collo in su. Ci fu un frenetico consulto telefonico, che non osammo disturbare né interrompere con domande al momento ininfluenti. Quando lo vidi un po’ più calmo, e dopo che Cristiano s’era occupato di toglierci dalla direttrice dei traghetti che, di lì a poco, sarebbero partiti, azzardai a porre la prima. «Ale… Cosa ne hanno fatto?» Non rispose subito. Sorvolai sulla scortesia. Partecipavo della sua rabbia. Anche se… …l’avevo pensato, cazzo, è colpa mia… …cominciavo a sentire un filo di corresponsabilità Stavo precipitando nelle fantasticherie quando decise di aprire bocca. A onor del vero è improprio: diede fiato alle trombe! «Quei cornuti, ‘sti pezz’ e mmmerde, hanno avuto paura! Capito?! Paura!

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Non volevano tenersela sotto appesa e l’hanno mollata, hai capito porca troia, l’hanno mollata!!» Mentre continuava a smadonnare, mi venne un dubbio. «Scusa… Ma come hanno fatto?» E si, perché se la Stella del Mare era appesa sotto di loro, in tensione, come potevano aver mollato? Ci volevano sommozzatori e barche appoggio. Poi mi venne in mente, e stavo per aprire bocca quando mi precedette. «L’hanno appoggiata su un altro fondale!» Chissà perché tutto quello che ci si poteva far venire in mente di negativo, continuava ad uscire dai miei neuroni. «E… per caso… ti hanno detto se hanno lasciato una boa, segnalando il punto in cui hanno mollato i cavi? Ehm… sempre che quando è successo si siano presi la briga di mettere le cime di recupero...». Potevo tirare una bomba, o cominciare a ballare nudo menandomelo e non avrei ottenuto maggior attenzione. Alessandro esplose in una nuova raffica di insulti e minacce, dopodiché si attaccò al cellulare. Claudia aveva riaperto la bocca e non accennava a chiuderla. Il fotografo cominciò ad elencare “impegni imprescindibili” e Cristiano prese a girare come un Napoleone alto il doppio, su e giù per la coperta, che copriva con quattro passi, con le mani giunte dietro la schiena. Ancora un fiotto di parolacce dalla bocca di Ale, confermò le peggiori ipotesi prima che chiudesse la conversazione. Si proiettò da noi come una pallottola. «Non ci credo, non ci credo! Quei bastardi hanno buttato tutto di sotto. Non sanno nemmeno bene il punto, solo che stavano sui settanta metri scarrocciati verso Mergellina. Io li ammazzo!!» Continuò così un po’. Cristiano doveva essersi scocciato di imitare l’Imperatore e si sedette con la testa tra le mani e i gomiti sulle ginocchia. Poi si alzò. Si rimise giù. Si rialzò. «Andiamo a vedere!», si decise infine. «Eeh… – cominciai – … ehm… si… penso anch’io che non abbiamo molte alternative. Mi duole dirlo con queste splendide premesse, ma tocca andare a vedere». Andò così che, sulla barca che ora mi cullava al sole di una giornata priva di vita – a parte me, of course – , navigammo pattugliando il fondale per un paio d’ore. Ale continuò a bombardare di chiamate mezzo mondo. Non si dava pace che non avessero segnalato il punto. Il problema in realtà non si poneva affatto, se non per la noia e il tempo perso cercandolo. Era accertato che l’equipaggio della nave gru aveva mollato

i cavi con la Stella del Mare sul fondo. Per loro era impossibile fare diversamente anche se avessero voluto. Dovevano per forza scaricare il peso delle centocinquanta tonnellate, prima di poter liberare il bigo. Ora, non avendo navigato, il pezzo di mare in cui si trovavano con un fondale sui sessanta, non si poteva definire certo “vasto”. Scandagliammo, smadonnammo, riscandagliammo. Alla fine, sullo schermo, dal fondo piatto il segnale si alzò di sei o sette metri e l’obiettivo fu lì. Scesero Ale e Roberto. Il primo s’era portato la macchina di video – ripresa. Doveva servire a documentare il recupero, ma ora il mio compare stava solo pensando ad usarla per far lievitare con prova provata la fattura finale. Il fotografo ripiegava anche lui su più modeste pretese. Vecchio volpone, metteva da parte qualche scatto in più, così archiviava un numero di foto sufficienti per qualche articolo anche se non fosse tornato più. Non lo sapevo ancora, ma quelle immagini erano davvero le ultime. In senso letterale… Tornarono su con notizie di media consolazione. Sotto un cielo ancora grigio, alle sette di mattina, il rapporto fu snocciolato ancora con la muta addosso. Alessandro si sedette sulla panca di dritta. Il capo rivolto verso il piancito del ponte, sembrava un cavaliere medievale in riflessione, con il cappuccio di neoprene nero ancora indosso, che ne incorniciava il volto come una cotta di maglia. Tra i piedi si stava formando una piccola pozza d’acqua, che gli sgocciolava dal naso. Restai in attesa, a lungo, che cadesse l’ennesima piccola pera argentea, aggrappata alla punta dell’appendice dalle forme classicheggianti. Quasi non vidi partire la mano, poggiata a fianco della coscia destra; descrisse un rapido arco e spazzò via la goccia e i residui di acqua marina dal volto. «Sta sbandata, non molto, a dritta. Il bilancino è fuori bordo, lungo la murata...», sibilò tra i denti. Alzò il capo sbattendo più volte le ciglia e poggiando le spalle al parapetto. Tirò un profondo respiro e poi continuò con voce più ferma: «… ma le brache sono accatastate nel fango e non abbiamo visto le teste di quelle staccate dalla Tide» «Ahi». Mi sentii improvvisamente tutta la stanchezza del giorno e della notte precedenti sulla schiena. Premevano talmente che più che sedermi a mia volta, crollai col culo a peso morto sull’asse di legno. «Pessimo… pessimo… Ma sei sicuro che non siano comunque a tiro?», chiesi con un filo di speranza. Scosse la testa senza una parola. Poteva essere che non ne avesse idea, ma

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anche la tragica consapevolezza dell’affondamento di cavi, dei due occhielli che ci servivano. Indagare troppo sulla questione a quel punto mi spaventava. Dicono che occhio non vede, cuore non duole. «Secondo me la coppia di brache di superficie sta parecchio fuori bordo», intervenne Roberto. Lo guardammo con occhi colmi di attesa, dovevamo sembrare cani spelacchiati e bastonati in attesa di una carezza, di un tono gentile e rassicurante. Si raschiò la gola prima di proseguire, incerto. L’aspettativa era tale che immaginai si fosse reso conto di dover essere più cauto. «Mi è sembrato di vedere dei cavi andare in fuori...» «Quanti erano?», stavo per aggiungere se potevano essere più di due, nel qual caso così come andavano magari tornavano. Chiusi la bocca in tempo, non volevo influenzare la risposta. «Mi è sembrato fossero due. Non ne sono sicuro, eh!?!». Ale ed io ci scambiammo sguardi in cui leggevamo la stessa quantità di significati: speranza, disillusione, paura e stanchezza… Dover andar giù a collegare cime con cui ritirare su tutto, era di per se tempo perduto, nuova fatica e rischio. Mettersi a cercare i due capi oppure, forse peggio, utilizzare i palloni per tirar su quel che si poteva e dipanare a mezzacqua la matassa, non erano prospettive allettanti. «Che palle...», sbottai battendomi la coscia e rimettendomi in piedi. Il nervosismo cominciava a sostituire lo scoraggiamento. «Ok, ok, così non combiniamo nulla, tocca tornare giù» «Vuoi andare ora tu?» Una domanda posta così la diceva lunga sullo stato mentale di Alessandro. Lo squadrai stringendo le sopracciglia e indurendo la mascella. «Certo che si. Non mi pare il caso di aspettare. Comunque dobbiamo mettere un pedagno, quindi scendo, cerco i capi e li collego a una cima. Se si può, se abbiamo culo, facciamo qualcosa di più.» Alessandro chiuse gli occhi, un po’ sollevato, un po’ per riprendere concentrazione. «Claudia, mi aiuti a spogliarmi?», le chiese. Presi subito ad armeggiare con la mia roba. Infilandomi dentro la muta arricciai il naso. «Madò, quanto puzza! Non posso continuare così, tocca che una lavata gliela do!», dissi continuando a vestirmi. Voltai le spalle a Roberto e allargai le braccia: «Chiudi casa, và...». Prese l’anello di spago che avevo legato al cursore della cerniera e provò a tirarla. «Eh… Uhm, oltre al lavarlo ‘sto cesso, dovresti mettere la cera su questa

merda di cerniera». Grugnendo cercò di chiuderla, ma incontrava qualche difficoltà. «Dai a me». Con la coda dell’occhio vidi Claudia che lo spostava con la sua non comune grazia. Mise le dita nell’ampia bocca che attraversava la mia schiena da parte a parte, e spinse dentro lembi di tuta. Poi tirò decisa, con un colpo secco iniziale imprimendo forza constante. La cerniera si chiuse con un riiiiip! e feci un saltello di lato, quando diede l’ultima botta sbilanciandomi. Allungai il braccio sinistro e presi il cordino, che mi penzolava sul dorsale destro. «Non ti fidi?», borbottò. «Naaa, lo sai, è un automatismo. E poi su questa barca ci stanno tre su cinque dei pezzi di merda che mi hanno lasciato la muta aperta». Dopo un po’ di volte che ti tuffi senza aver controllato, sentendo l’acqua gelida entrare dall’ultimo centimetro di cerniera spalancato a bella posta, impari meglio di un cane di Pavlov. Solo quando fui dentro all’abbraccio di quel mare divenuto inospitale, mi sovvenni fosse il caso di tenere a cuccia i pensieri. La discesa andò liscia come sul velluto e ciondolai un po’ sul relitto, osservando sconsolato il paesaggio. Non sapevo decidermi se considerarlo o meno un secondo naufragio. Tecnicamente la Stella del Mare s’era alzata dal fondo di venti metri circa. Con un po’ di fantasia potevamo sostenere che avesse anche “navigato”, visto che s’era spostata di un bel pezzetto da dove giaceva ventiquattro ore prima. Certo, come sommergibile, ma… Il mio cervello rimuginò talmente che mi sembrò sentirne il rumore. Ora aveva preso un’aria da relitto vero. Sembrava affranta e malmessa come noi. Buttata di traverso, sbandata di almeno quindici gradi a dritta, molto più “impolverata”. Probabilmente aveva arato il fondo prima di essere mollata, e il sedimento alzato in sospensione s’era poi posato sulle strutture. Complice la minor profondità e il cielo nuvoloso, la luce che arrivava giù le conferiva ancor più una patina grigiastra, brutta e… malaticcia. Tutta quella massa di cavi poi, che schifezza, era davvero uno spettacolo da sfasciacarrozze. Rimuginando, m’ero sprofondato all’altezza della murata centrale. Accarezzai il bilancino, rovinato fuori bordo e quasi a contatto con il fondale. Pinneggiai sui cavi cercando di dargli un ordine sequenziale. Niente da fare. Allora restava solo da seguire i cavi che, a destra del reporter, andavano verso l’esterno. Scendendo avevo chiesto ad Ale se mettevano le decompressive sotto la

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barca. La sera prima non avevamo ricaricato, pensando non ce ne fosse bisogno, per cui il mio bibo era stato rabboccato solo con aria in navigazione. La percentuale di ossigeno era sul diciotto per cento. Se fossi rimasto una decina di minuti sopra i sei metri, potevo scommettere su un bel mal di testa e tanta nausea, ma quella miscela mi consentiva di andare su e giù senza tante storie. Visto che dovevo fare un’esplorazione rapida e pinneggiare, avevo optato per non portarmi appresso le due ingombranti decompressive. Quando ci compreremo gli scooter sarà sempre tardi, pensai, immaginandomi comodamente trainato da un propulsore subacqueo. E se cadessero senza che se ne accorgano? Capita che una fantasia stupida ti si affacci in testa prima di averla pensata sul serio, e molto prima di riuscire ad afferrarne il bavero della giacca e spintonarla indietro. Ci sono addirittura parole che escono di bocca prima della loro elaborazione mentale, altroché. Un pensiero psicotico è, a parer mio, un’altra manifestazione improvvisa di attività non autorizzate che si svolgono nel nostro cervello, non trovate anche voi? Come definire altrimenti l’assurda situazione che ci si presenta davanti, per esempio, quando guardiamo dritto in faccia un tizio, uno con cui stiamo trattando l’acquisto rateale della macchina nuova, o che ci indica la strada da percorrere per arrivare a un teatro, a casa di un conoscente, che ne so, e in quel mentre, proprio in quel preciso istante in cui scorgiamo i peli che gli escono dal naso costellato di punti neri e valutiamo, critici, l’orrida attaccatura dei capelli smorti e fini, beh, proprio allora, ci immaginiamo, ci viene l’idea, di dargli un bacio in bocca, oppure di sputargli in un occhio. Vi è capitato mai? A me si. Parlando con la gente di cose così me ne sono venute in testa un sacco. E se ora gli sputo?… Adesso le sparo in faccia… Potrei aprirmi la patta, tirarlo fuori e pisciarti sulle scarpe… Che ne pensi, amico, se ti ficco la lingua in quella bocca marcia?… Già, cose così. Per caso, qua e là nel tempo e nello spazio. Senza un senso, un motivo, uno sprazzo di ragione qualsiasi, un indizio sull’arrivo di quel fulmineo pensiero astruso e malsano a ciel sereno. Ma allora sei proprio scimunito, mi rimbrottai. Stavo fermo, in galleggiamento sopra qualche migliaio di chili di cavi e maniglioni e redancie del piffero, quando un siluro nero mi sprofondò davanti

agli occhi, sfiorandomi la testa bacata. Cozzò contro il metallo ammassato due metri più sotto, con un bong! Sinistro. Se avessi mosso appena appena le pinne un secondo prima, mi beccava in pieno. Bastava un filo di corrente dietro il culo, tanto per dire. Abbassai lo sguardo. La bombola da dieci litri nera, una delle mie decompressive Nitrox, mi osservava incuriosita nell’abbraccio confortevole di una spira di grossi cavi d’acciaio. Che c’è da guardare? sembrava dicesse, scimunito… Coincidenze, solo banali coincidenze. Scrollai il capo per snebbiare un ammasso di neuroni inutili e, in apparenza, alquanto instabili. Ok, a te ti raccatto dopo, le spedii per telepatia tra bombola e bambolo. «Voglio una vita spericolata, di quelle vite fatte cosiiii...», canticchiai nel boccaglio. Non che Vasco mi piacesse, ma m’era venuto in mente. Uhm… due… ripensai a quel che aveva detto Roberto. Se mi diceva culo le due brache erano cadute sul fondo libere e a distanza. Bastava pinneggiarci sopra e andare a prendere il capo di ciascuna. Toccai il rocchetto di sagola che dovevo assicurare sopra una delle due, sperando fossero parallele fino alla fine. Dopo una decina di metri sprofondavano in una parte parecchio molle del pianoro fangoso. I due solchi sembravano tracciati da un aratro. Scesi un po’ più vicino al fondo per non rischiare di perderli. Una scarpa spuntava dritta come una Pinna nobilis, la suola scollata sembrava una delle due valve aperte a succhiar acqua da filtrare. Trovavo ridicole tutte le tiritere pseudoambientaliste sul degrado dei fondali; i lamenti degli amanti della natura mi annoiavano. Quante immersioni avevo fatto nelle acque portuali? Cento? Duecento? Considerando quelle dentro e fuori i moli foranei, era probabile. Mi divertiva quello che si vedeva là sotto. Realtà. Il nostro mondo, non cartoline, acquari fasulli. L’estate in cui con Claudia avevamo gestito la subacquea nel parco acquatico di Civitavecchia, l’Aqua Felix, era stata altrettanto divertente. Portare gente a fare la prima esperienza nella piscina delle onde era uno schifo più che soddisfacente. Passavamo tra cosce pelose e cellulitiche, tanga strepitosi e culi flaccidi, in una distesa ondeggiante di capelli, peli pubici, cerotti, assorbenti esterni con e senza ali. Senza continui lavaggi con acqua borica al tre per cento, venivano otiti clamorose, ma il mio gusto per l’orrido era ampiamente nutrito.

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Dovetti sbattere un paio di volte le palpebre per mettere a fuoco la vista. I cavi erano arrivati alla fine, ma per qualche caso strano il fondale passava da una distesa piatta e uniforme, a un tratto di collinette parallele. I solchi, che correvano lungo quelle onde sabbiose, vi si confondevano e stavo per perderli, proseguendo oltre. Sgonfiai il gav e scesi sul fango, cercando di non sollevarlo troppo. La mano vi penetrò con facilità e la consistenza vischiosa mi solleticò i polpastrelli, che spuntavano dai guanti sdruciti e bucati. Arrivai fin quasi a mezzo avambraccio prima di toccare il freddo metallo. Fu facile percorrerne la superficie, aprendo con il mezzo braccio un varco nella melma, e dopo venti centimetri passai dalla trama arricciata dei filetti d’acciaio alla superficie liscia della redancia e del maniglione. Impossibile tirarlo fuori, staccai il rocchetto e srotolai un metro di filo d’Arianna, infilando e girandolo attorno alla sezione del grillo. Tirai il cordino con forza, per assicurarmi fosse legato per bene, poi gonfiai un po’ il giubbetto e la muta e presi a risalire in verticale. Tutta l’immersione durava da dieci minuti scarsi e non mi andava di tornare indietro a prendere la deco. Che si fosse staccata per una sorta di infernale magia, dopo il mio stupido pensiero, non lo prendevo (più…) in considerazione. Sopra gl’era scappata una bombola, e ora ce n’erano altre pronte sotto la barca. Srotolai il filo e cominciai a prendere velocità. Tenevo il rocchetto saldamente in mano, la frizione appena allentata, sì da fare un po’ di resistenza. Il cavetto veniva bello teso e lo lasciai scorrere tra gambe e pinne, controllando con attenzione di non piegare il rullo facendolo scavallare dalla guida. A trenta metri dalla superficie vidi la chiglia che ondeggiava lenta. Quando m’ero tuffato, rare ondine si rompevano sullo scafo e producevano sbuffi di spuma bianca, ma ora il confine tra acqua e legno era liscio e trasparente. Mare piatto, buona cosa. Forse finivamo oggi. Passai l’impugnatura del rocchetto dalla mano destra a quella sinistra. Diedi una sgonfiata alla stagna, alzando il braccio della valvola e premendovi sopra, finché l’aria smise di uscire con forza, riducendosi a qualche gorgoglio stentato. Il cavetto perse tensione e lo vidi curvarsi sotto di me, come uno spinnaker anoressico che raccoglie un vento pigro gonfiandosi a stento. Girai il dado in teflon finché la punta, facendo pressione su uno dei piatti di plastica nera, non bloccò lo svolgimento del filo d’Arianna. Con la mano libera afferrai il moschettone che era assicurato sull’anello anteriore del sottocavallo, lo aprii e strattonai per liberare il pallone da dietro al culo, portando poi il braccio in alto e con forza di nuovo verso il basso. Il gesto lo dispiegò e aprì come un paracadute, ma ancora allo stadio che viene definito in gergo “fiamma”, un

salsicciotto oblungo e stretto, che in aria trema proprio come una fiammella e non fa attrito. Attaccai il moschettone del pallo-ne a quello del rocchetto, lo gonfiai e mollai la frizione. Scodinzolando come un cane eccitato, volò verso la superficie, mentre il filo si svolgeva. Senza nessuno che lo bloccasse di nuovo, avrebbe continuato a mollare cimetta, ma ero proprio sotto l’Abyss e contavo che qualcuno a bordo lo notasse e raccogliesse con il mezzo marinaio, o tuffandosi se troppo lontano. Fu Claudia ad accorgersi di quella presenza colorata e ondeggiante, pochi istanti dopo. Stavo guardando, in attesa, e vidi prima l’esplosione di acqua e bolle; poi, come un grosso pesce, il corpo della mia compagna nella scia. Nuotò sott’acqua per qualche metro, quindi uscì fuori con la testa e riprese fiato ruotandola sul collo muscoloso, cercando prima la direzione e poi, miratolo con gli occhi, proiettandosi verso il fungo di plastica arancione. Quando lo prese e nel tragitto al contrario, usò le forti gambe sforbiciando perpendicolare al fondo. Ogni volta che tirava a se gli adduttori, il modo con cui gli arti si piegavano formava un cuore stilizzato. Lo slip rosso del due pezzi risaltava sulla pelle chiara. Bella vista se fosse nuda, pensai strizzando gli occhi che mi bruciavano per l’acqua salata. Schiacciai con l’indice e il medio la parte sopra la radice del naso della maschera e ci soffiai dentro per espellere un po’ dell’acqua entratavi. Riaprendo gli occhi mi trovai in linea con la donna sopra di me e per poco non mi scappò il boccaglio tra le labbra. Ma che cazz’… Aveva allungato le gambe, interrompendo il nuoto di fianco, e mollato il pallone, ora distante un metro o più. La postura del corpo strillava la sorpresa che doveva divorarla. Era nuda, oh cazzo, si, se era nuda! No… Non sono io… E’ impossibile! L’aspetto divertente e intrigante della questione era del tutto annichilito dalla consapevolezza di non poter controllare la situazione. Avevo l’impressione che i pensieri, le loro immagini, volessero rotolarmi fuori dalle orecchie. Lottavo disperatamente con le anticipazioni, come fossero dei trailers di film, lasciando che si accavallassero senza prendere forma, sostanza. Fintanto che si affollavano come una marea umana in fuga da un’unica uscita, quella massa priva di volti e corpi era una macchia compatta e confusa. Ma sapevo che poteva durare ancora poco e, presto, ogni idealizzazione avrebbe raggiunto una sua precisa connotazione. A quel punto… …Oddio… ma che succede?…

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…la vedevo proprio male. Senza riflettere afferrai il filo d’Arianna e strattonai per tirarmici su. Il braccio scattò a vuoto, facendo srotolare cima per tutta la lunghezza del movimento. Guardai su e vidi che il rocchetto continuava a girare, era evidente dalla massa bianca che gli si stava accumulando attorno. Claudia sguazzava tra pallone e barca. Potevo quasi sentire quello che stava dicendo agli altri a bordo. Avrebbe riversato una valanga di parole per mezz’ora da quella bocca atteggiata in una smorfia sorpresa e impaurita per l’incomprensibile fenomeno. Il pallone, intanto, se ne andava in corrente. Presi a nuotare verso il cordame che intravedevo scendere dalla prua dell’Abyss. Misi il polso sinistro davanti alla faccia e cercai di imprimere un movimento diagonale, guadagnando qualche metro verso l’alto. Che storia… pensai incredulo. Sorrisi immaginando quasi senza riflettere due o tre tizi con cui avevo conti in sospeso che si contorcevano tra spasmi e dolori inenarrabili. Chissà se in quel preciso istante stavano morendo, sotto gli occhi attoniti di chi li circondava. Tempo prima avevo letto qualcosa sugli effetti della succinilcolina, un rilassante come il curaro e il pancuronium bromide. Il suo effetto paralizzante sui muscoli, provoca anche il blocco del diaframma e della respirazione. Se non si intuba la vittima e non la si seda, rimane senza fiato, perfettamente immobile, ma consapevole della imminenza della propria fine. Il sorriso, credo, si trasformò in un ghigno sadico: c’era giustappunto uno stronzo a cui quel trattamento sarebbe calzato a pennello. Come una pallina che schizza su e giù in un flipper, la mia immaginazione elaborò una sequela di torture, incidenti, eventi paradossali, a volte comici, e a volte tragici, che si abbatterono in rapida sequenza su una sfilza di persone. Sempre che quella follia fosse reale, inutile dirlo. Ai margini del delirio, aleggiava come un fantasma incorporeo la sensazione di star ritardando l’ineluttabile. Finché pensavo alle mie vendette, risalivo verso la barca senza fare danni “seri”. Ero certo che la realizzazione dei miei pensieri non funzionasse fuori dall’acqua. Ergo, dovevo uscire il più rapidamente possibile. Percepivo dove stavo andando a parare. Di deco da fare ce n’era poca e poi qua rischiavo di far finire il mondo. Un caleidoscopio impazzito mi esplose nel cervello mentre schizzavo deciso verso la superficie. Capi di Stato annaspanti in cerca d’aria, i polmoni collassati manco si fossero trovati in mezzo allo spazio. L’istantanea di un camorrista con cui era finita a cazzotti per una discussione durante una partita

di rugby in galera, spedito a bruciare nelle spire infernali del Sole, punito per la serie di faide e casini che aveva provocato per vendicarsi. Uno dopo l’altro, ininterrotti, flash dopo flash, desideri e frustrazioni rancorose e malvagie si facevano strada. Il vortice di pensieri era più veloce della pallonata. Guardavo la superficie che si avvicinava; l’acqua piatta, non più smossa dalle bolle lasciate indietro per la rapidità della risalita, rifletteva ormai la mia immagine come uno specchio. Vulcani esplodevano, deserti s’espandevano, meteoriti scoppiavano su mari lanciati in tsunami assassini, virus letali cancellavano nazioni intere. Tutte le più assurde e terrificanti trame di film e romanzi, ingollati in tre decenni di voracità intellettuale onnivora e spesso acritica, saltellavano come fotogrammi montati a raffica di un videoclip, in una mente ormai febbricitante. Riemersi a faccia in su infrangendo la lastra di mare tirata a specchio. L’ultima immagine saltò fuori dall’acqua insieme a me. Dentro di me scattò qualcosa. Fu come sentire il clic! di un interruttore. Tutto quel bailamme si spense e, anche se non poteva aver fatto rumore – se non immaginarlo anch’esso – un’eco sorda, restò appesa nell’aria. Mi guardai attorno… Tutto è finito, non c’è più nessuno, avevo pensato con la punta del naso che usciva dall’acqua, tipo periscopio nella riemersione rapida di un sommergibile, un attimo prima della prua tonda. La Abyss dondolava indolente, come una bella donna nel suo talamo, dopo una notte d’amore…

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Postfazione L’estate successiva al recupero, sono risalito sulla Stella del Mare nel porto calabrese di Cetraro. Le avevano sostituito il nome in Maria Pia, rispettando la tradizione di non usare lo stesso quando una nave affondata viene riportata a galla e di nuovo armata per la navigazione. Non era l’unico cambiamento. Durante i lavori di ristrutturazione era stata allungata e allargata di alcuni metri nella parte centrale del baglio, tra il castello di prua e il passo d’uomo di poppa. Fui chiamato da Alessandro che, a sua volta, era stato incaricato dai pescatori di tutelarne gli interessi in una nuova avventura. Invece di pescare tonni ammazzandoli, la grande rete sarebbe servita per bloccarli e tenerli uniti in un pezzetto di mare aperto. Lì, un rimorchiatore avrebbe trainato una gabbia fatta con altra rete, più spessa, tenuta a galla da un cerchio di tubi in PVC termosaldato. Accostata questa struttura alla rete pesca, si apriva no i due varchi preallestiti in entrambe e, dalla tonnara, veniva salpato il cerchio che si stringeva attorno ai tonni. Il mio compito, insieme ad Alessandro e altri, era di contare i tonni. Muniti di un aggeggio di plastica, che misurava numericamente gli scatti che imprimevamo con un pulsante, guardavamo i pesci passare da una trappola all’altra. La mia partecipazione fu di breve durata. I pescatori degli equipaggi riuniti in una piccola flotta, accusarono Alessandro e i suoi subacquei di essere in combutta con quelli dell’acquirente, un imprenditore spagnolo, che aveva cominciato come cuoco di bordo sulle navi tonnara dei giapponesi, e che ora possedeva allevamenti multimiliardari nel Golfo di Cartagena. Secondo loro, c’era maggior accordo tra subacquei di due Paesi diversi, capaci tra l’altro di parlarsi in una lingua che non capivano, che tra italiani. Per anni, quei pescatori avevano valutato il numero dei tonni di un banco osservandolo dall’alto di un aereo di ricognizione, o semplicemente da bordo alle loro imbarcazioni. Quel “tesoro” che restava sott’acqua e non potevano contare direttamente mai, affidandosi alla nostra parola, era sempre sottostimato rispetto ai loro “calcoli”. A me, ad ogni pescata, sembrava di assistere alle diatribe sul numero dei partecipanti di una manifestazione, tra Questura e organizzatori. Non era purtroppo possibile ragionare in base a dati “scientifici”: i pescatori non prendevano in considerazione la nostra obiezione che anche con la pesca tradizionale,

tra il numero dei tonni valutati e quelli pescati ci fosse una differenza per difetto. Sostenevano che dipendesse in quel caso dalla fuga di parte del banco, al di sotto della rete. Naturalmente non fu nemmeno possibile farli ragionare sulla oggettiva vantaggiosità della scoperta che avevamo fatto: il banco spezzato dalla rete e diviso, si riusciva a catturare tutto. Senza la mattanza, i tonni che restavano dentro la rete, mentre noi attendevamo per ore, anche giorni, l’arrivo del rimorchiatore, attiravano quelli in libertà, che un secondo peschereccio a quel punto riusciva a catturare, aumentando il numero dei pezzi vendibili. Il problema era che ogni tonno valeva tanti soldi quanto pesava, e i sommozzatori stabilivano sia categorie di peso che quantità, influendo su cifre miliardarie (in lire). Troppi soldi, e solo una piccolissima parte finiva nelle tasche di chi partecipava alla caccia. Le discussioni si fecero liti, i sospetti e le maldicenze accuse. Non sopportai. Prendevo come al solito pochi spiccioli, non valeva la pena di finire per accoltellare (o essere accoltellati da) un poveraccio stanco e ubriaco. Me ne sarei tornato a casa, non prima di aver scoperto già dalla prima notte, che non potevo dormire nella sala equipaggio, a prua. Ero diventato claustrofobico. Appena le luci si spensero, mi sentii soffocare. Non trovai sollievo nemmeno con la faccia spiaccicata contro il minuscolo oblò e la bocca spalancata ad aspirare aria come un ossesso. Riuscii a stento a scedere dal letto a castello e a guadagnare l’esterno senza svenire. O urlare. La Stella del Mare mi aveva segnato per sempre anche in questo. Le notti successive le passai sul ponte, sotto le stelle infinite, là fuori, oltre le cinquanta miglia dalla costa. Tra i mille pensieri che si affollavano nei miei stanchi circuiti neuronali, ogni tanto mi veniva in mente la frase palindroma In girum imus nocte et consumimur igni, che Cristiano mi aveva fatto conoscere in quelle nostre conversazioni solo in apparenza banali, inerpicandoci su un tornante tra i Monti Ausoni, e che tanto ci si attagliava. Le guardavo, quelle stelle così accatastate le une sulle altre, dicendomi che avrei raccontato la storia della Maria Pia, un giorno. E ne sono certo, tuttora.

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Stefano Di Cagno


Glossario Abbrivio: velocità residua; movimento dell’imbarcazione rispetto al fondo, qualsiasi ne sia la causa. Accostare: cambiare rotta; affiancarsi a un molo, a un’altra imbarcazione. Alare: fare forza su un cavo per tesarlo e sollevare un peso. Aria arricchita: vedi Nitrox. Armatore: proprietario che gestisce l’imbarcazione, senza esserne necessariamente il comandante. Assetto: stato del subacqueo rispetto alla gravità terrestre e alla densità dell’acqua; può essere positivo (galleggiamento in superficie), neutro (equi-librio tra positivo e negativo), oppure negativo (affondamento sotto la superficie) Baglio: correttamente B. massimo, larghezza dell’imbarcazione; trave con funzione strutturale nell’ossatura di uno scafo. BAR: unità metrica di misura della pressione; per gli anglosassoni PSI. Battagliola: ringhiera composta da draglie e candelieri che corre lungo il bordo esterno della coperta. Bow Thruster: elica laterale, inserita in un alloggiamento della chiglia, per aiutare le manovre in porto e/o mantenere una posizione stabile su un punto in mare. In quest’ultimo caso sono solitamente più d’una. BCD: Buoyancy Control Device, vedi GAV. Bitta: elemento robusto metallico o di legno a cui dare volta le cime di ormeggio o le catene. Boccaglio: vedi erogatore. Bombola: contenitore ad alta pressione per gas respirabili compressi, in fer-ro, alluminio e, raramente, composti speciali come fibre di carbonio. Candeliere: asta di metallo dove passano le draglie della battagliola. Coperta: copertura principale di una imbarcazione ed elemento strutturale. Corrugato: tubo di plastica morbida del GAV attraverso il quale, con un apposito comando a pulsantiera e un boccaglio, si immette aria dalla bombola per mezzo di una frusta collegata al primo stadio oppure insufflando per bocca, e la si scarica. Dare volta: fissare un cavo in modo che non si sciolga. DIR: acronimo per Doing It Right. Indica un sistema protocollato di immersione tecnica e il movimento subacqueo che lo promulga e propone con una rigida ‘’filosofia’’. Doppino: cavo ripiegato su se stesso in modo da formare un occhiello. Draglie: cavi di acciaio che compongono la battagliola. Erogatore: riduttore che, composto da primo e secondo stadio, fornisce al su-

bacqueo i gas contenuti nella bombola a pressione costante. Il primo stadio è la parte applicata sul rubinetto della bombola, e da cui si dipartono, collegati da fruste, il secondo stadio tenuto in bocca dal sub per mezzo del boccaglio, il manometro e la frusta di carico del GAV applicata sul corrugato. Filare: lasciare scorrere un cavo o una catena. Foraneo: esterno al porto. Frusta: tubo di plastica in cui viene fatto passare il gas; può essere di bassa pressione, quando serve l’erogatore o il corrugato, o di alta, se per il manometro. Gaffa: mezzo marinaio, l’asta con un gancio e un puntale all’estremità distale, per afferrare o spingere. Galloccia: corto bastone assicurato a un supporto centrale, serve a darvi volta cavi e catene. GAV: giubbetto ad assetto variabile (in inglese BCD); equipaggiamento posizionato tra il sub e le bombole per controllarne l’assetto; anche Jacket. Grillo: ferro a U le cui estremità sono attraversate da un perno a vite o scat-to munito di chiavetta. Anche maniglione o maniglia se di dimensioni notevoli, o schiavo o gambetto se piccole. Heliair: miscela ternaria come il Trimix, in cui azoto e ossigeno non sono miscelati separatamente ma come composto unico in percentuale fissa, ovvero aria. Heliox: miscela binaria composta da elio e ossigeno. In bando: vedi Lasco. Incattivarsi: impigliarsi in modo da non essere utilizzabile (cavo o catena). Jacket: vedi GAV. Lasco: in bando, allentato. Maniglione: o maniglia; vedi Grillo. Manometro: misuratore di pressione collegato al primo stadio con una fru-sta. Può essere con indicatore analogico o digitale. Mezzo marinaio: vedi Gaffa. Miglio: unità di misura marina corrispondente a 1852 metri; un miglio l’ora è uguale a un nodo; prende origine dal latino milia passuum, mille passi. Miscela: composti gassosi per la respirazione subacquea; l’aria è una miscela binaria di azoto al 79% e ossigeno al 21% c.a, più ridottissime percentuali di altri gas. Possono essere binarie (due) o ternarie (tre). Murata: anche mura; il fianco dell’imbarcazione. Nitrox: anche aria arricchita per l’aumento della quantità percentuale di ossigeno rispetto all’aria comune; miscela binaria composta da azoto e ossige-no, in inglese rispettivamente nitrogen e oxigen.

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Nodo: unità di misura della velocità in mare, corrispondente a un miglio nautico percorso in un’ora; legatura fatta con un cavo, una cima, una sagola, etc. Passo d’uomo: accesso alla stiva e alla sala motori. Plancia: parte dell’imbarcazione destinata a governo e comando. Poppa: parte retrostante dell’imbarcazione. Primo stadio: vedi erogatore. Prua: parte anteriore dell’imbarcazione. Octopus: sistema composto da primo stadio, due secondi stadi, un manome-tro e frusta per il GAV. Chiamato così per la forma rassomigliante a un polpo. Quadrato: locale principale nelle navi civili, sala ufficiali in quelle militari; è il solo locale nelle imbarcazioni più piccole. Redancia: anello rotondo o a forma di goccia di metallo, legno o plastica con una scanalatura all’esterno nella cui gola passa una cima; serve a impedire o ridurre l’usura in quel punto di particolare attrito che è l’estremità. Rocchetto: cilindro su cui è avvolta una sagola. Chiamato in inglese Reel se dotato di manopola e Spool se privo. Rubinetteria: la parte avvitata all’estremità della bombola, da cui viene erogata l’aria comandata da un rubinetto. Sagola: cavetto sottile, morbido e robusto. Secondo stadio: vedi erogatore. Specchio di poppa: la parte piatta che forma la poppa dell’imbarcazione. Stroppo: pezzo di cavo impiombato su se stesso ad anello. Termoclino: strato di transizione tra due colonne d’acqua di temperatura differente, spesso visibile a occhio nudo per la diversa densità del liquido, che ne altera la trasparenza. Tientibene: profilo, cimetta, draglia o maniglia posizionati per dare appiglio lungo la tuga o una scaletta per tenersi in caso di mare mosso. Trimix: miscela ternaria composta da azoto, elio e ossigeno in percentuali diverse a seconda dell’utilizzo. Tuga: soprastruttura sul ponte di Coperta che lascia sempre un passaggio dalla murata. Verricello: argano. Zavorra: pesatura del subacqueo per equilibrarne la galleggiabilità, gene-ralmente composta da pesi di piombo posizionati su una cintura.

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Ringraziamenti A mia madre Ann Marie (Ami) Hettemark, senza la quale non avrei potuto mai fare quello che ho voluto, e che mi ha offerto sempre tutte le opportunità per comportarmi e vivere diversamente da come ho fatto. E a sua sorella (e mia zia…) Britten, vicina e solida come non mai nella bufera. All’Editor, senza la quale questo libro non sarebbe mai stato pubblicato. E’ un faro nella notte tempestosa, anche se lei si crede un lumicino (ma sospetto che sia falsa modestia femminile…), e resta tale anche nel disastro della mia vita. Al Prof. Giacomo Marvulli e al Prof. Fabio Abbattista, pazienti e indulgenti anche con marmaglia come me, che hanno buttato un occhio a questo (che impropriamente chiamerei) lavoro. A Massimo Damax Cellammare, sempre una spada con la creazione grafica. Ad Alessandro Bellini, che si è pazientemente prestato, durante una faticosa immersione di lavoro, al mio costante e infantile cazzeggio, fornendomi la sua maschera di Scream e filmandomi uscire dallo squarcio di un relitto a una sessantina di metri, al largo della bianca Ostuni. Lui e il suo “compare”, a parer mio, hanno meritato gli onori tributatigli per i servizi giornalistici di ben altra importanza fatti on the fire line, in Iraq. Ai creatori delle fondamenta di Internet, dei motori di ricerca e dello sviluppo dei software di correzione testuale: senza di loro il nostro lavoro sarebbe troppo oneroso e complesso. A Paoletto De Gennaro, Antonio AMA Magli Aiello e Andrea Nik Nicolao, in rigoroso ordine alfabetico. Gli amici del cuore sono lì quando serve; e loro ci sono sempre, famiglie comprese, da troppi anni e in troppe burrasche perché sia casuale e/o effimero. Ad Alice Luna. Nel bene e nel male è sempre lì, nel cuore del mio cuore, mentre questo libro veniva scritto e oltre. Ai miei lettori, che comprendono che non capirò mai perché mi leggono, ma nonostante ciò continuano e mi spronano: siete Voi a dare un’utilità a ciò che scrivo. A Cristiano l’Etrusco Ielasi, Claudia Pciucka Serpieri e Alessandro Trifix Scuotto; ci siamo trovati e persi ma, nella luce e nell’oscurità, abbiamo vissuto come pochi possono vantare aver fatto. Per questa seconda edizione, devo anche ringraziare la Direzione della Casa Circondariale di Bari che mi ha permesso di utilizzare un computer rivedendo i numerosi errori e refusi della prima. Tutti gli errori sono da attribuire sempre ed esclusivamente al sottoscritto.

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INDICE

Prefazione..........................................................................................4 I.

L’impermeabile...........................................................................9

II

Schiacciato................................................................................33

III La rete.......................................................................................51 IV Pesci pilota................................................................................75 V Per un pugno di dollari..............................................................93 VI L’Etrusco................................................................................121 VII La bara....................................................................................143 VIII Il vampiro...............................................................................179 IX La Fine....................................................................................215 Postfazione.....................................................................................238 Glossario........................................................................................240 Ringraziamenti...............................................................................243 Indice.............................................................................................244

come per "Morire..." anche "Incubi..." diventa un ebook. Buona lettura.

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