Magazine S.G. N° 4 2014

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SAVONA TRA PASSATO E FUTURO Web magazine n째4 anno 2014


"VINO E FARINATA", L'ORO GIALLO DI SAVONA La tradizione che resiste, nel cuore della città di ALESSANDRA ARPI

L’entrata dello storico locale di via Pia “Vino e Farinata”, con il forno in bella vista

In un mondo dove sono le mode a dettare legge, alcune perle rare resistono per andare controcorrente. E se la perla in questione ha un colore giallo intenso e quella doppia consistenza, croccante in superficie e soffice dopo il primo morso, la curiosità diventa acquolina. Farina di grano, olio d'oliva, acqua. E lo scoppiettare del forno a legna. La farinata, piatto semplice quanto goloso, parla

ancora di abitudini povere e grandi contenitori di rame, di poche pretese e dita unte pronte a strapparne un altro pezzo. Una tradizione che Savona difende gelosamente, vantando la versione "in bianco", di grano, che ancora oggi ne rimane il marchio di fabbrica. E sono proprio i caruggi della città a custodire una parte di quella semplice ricchezza sottile e rotonda, in uno dei locali più antichi incastonati in via Pia.


2 Il nome è il preludio di una genuinità che non si è fatta influenzare dai tempi e dai ritmi sempre più incalzanti, rispecchiando a pieno l'essenza del mangiare conviviale di una volta. "Vino e farinata", recita l'insegna, niente più. Niente più per modo di dire, dato che il menù, rigorosamente scritto a mano, è variegato e cambia in base alla disponibilità e al pescato del giorno. Piatti poveri della cucina ligure a fare da cornice, dalla trippa alle sardine ripiene, passando per la densa zuppa di ceci simbolo dell'autunno. Fritture di pesce, moscardini in umido, il tutto inondato da vini nostralini. Quelli che non mostrano pompose etichette ma spesso vengono serviti sfusi. Il caffé? Non è contemplato, dato che il locale non dispone di alcuna macchina per l'espresso. Per un'osteria che ha dimenticato il muoversi delle lancette sull'orologio e dei giorni sul calendario. Ed è rimasta saldamente ancorata ai tempi e ai modi di una volta. DI PRENOTAZIONI A VOCE E CODE SNODATE PER VIA PIA Non è la macchina per l'espresso l'unica "tecnologia" bandita da "Vino e Farinata", dato che lo storico locale, con data di nascita situata nell’Ottocento, non possiede linea telefonica né terminale per il bancomat. Contanti e prenotazioni a voce. Chi prima arriva meglio alloggia, il proverbio rivisitato. Proverbio confermato dalla coda consistente che si snoda per via Pia ogni giorno intorno alle sei, tra clienti che bramano un posto a sedere nelle ampie sale interne e gli avventori che invece preferiscono la farinata "mordi e fuggi", incartata rovente dalle mani veloci dei proprietari e mangiata per strada o sul tavolo

L’impasto giallo e morbido per la tradizionale farinata

di casa. «Devo ammettere che quando ho rilevato il locale, ormai quasi trentacinque anni fa -racconta timidamente Giorgio Del Grande, uno dei tre proprietari insieme alle sorelle Bruna e Angelina- avevo in mente qualcosa di più "moderno", anche come tipologia di servizio. Avendo studiato all'Istituto alberghiero di Montecatini, in Toscana, ero abituato ad un servizio più "al passo coi tempi". Ero titubante quando Giobatta Parodi, soprannominato il "Re della farinata" di Savona, mi convinse a diventare proprietario. Non sapevo preparare la farinata e non ero certo che un locale così marcatamente d'altri tempi avrebbe resistito. Ma l'esperienza del "Re" -sorride- mi convinse. Mi insegnò a preparare la miscela di acqua, olio e farina e non smisi mai di farla». La curiosità per una ricetta che fa impazzire tutta Savona e non solo è tanta, ma quando si cerca di indagare Giorgio Del Grande risponde limpidamente che non esiste nulla di segreto, ma solo sapienza e tanta pratica. Nessuna arcana dose di un ingrediente particolare, quindi, a rendere la farinata "Del Grande" così famosa. Se non si conta la passione. Quella che, ogni giorno,


i tre proprietari insieme a tutto il personale, impiegano dal mattino sino alla sera. Per un locale aperto sempre, a pranzo e a cena. Che pare non soffrire particolarmente della crisi che sta mettendo in ginocchio qualsiasi settore. La famigerata coda costante di fronte alla porta a vetri e legno dà ulteriore conferma. «La farinata piace a tutti -spiega Giorgio Del Grande candidamente- anche ai bambini. E, unita ai piatti semplici della tradizione, non stufa. Al contrario delle pietanze di nouvelle cuisine. Ottimi, ma forse troppo particolari e costosi per essere gustati più volte alla settimana. Inutile dire che durante le feste come Santa Lucia o il Venerdì Santo la mole di lavoro è astronomica. Ma vuol dire che la semplicità è la moda che non passa mai».

Sorride, con quel fare impacciato di chi non è abituato a stare sotto i riflettori ma con le mani ben salde sul manico della pala. Quella che, mossa con sapienza, inforna i testi di quel liquido denso e omogeneo finché, ribollendo e scoppiettando, non raggiunge la consistenza soffice all'interno custodita da quella fragrante e "dura" dell'esterno. Che, in fondo, è la consistenza tipica ligure. Dall'apparenza forse indurita dal salino e dal vento nei giorni di mareggiata, ma che, da qualche parte, conserva un cuore morbido. TRENTACINQUE ANNI E NON SENTIRLI Mentre Giorgio Del Grande racconta, le due sorelle Angelina e Bruna sono in cucina, a riassettare tutto dopo la prima ondata del pranzo. Poche ore di "siesta" prima


4 prima di prepararsi alla cena. E prepararla letteralmente. Le mani di donna in cucina, quelle di Giorgio e Luigi "Mirlo" Del Maschio, più abituate a maneggiare il rame dei pentoloni e i grandi testi farinata, a occuparsi del liquido impasto. Proprio di fianco all'imponente forno che troneggia nell'entrata del locale. Quella dove si accalca chi, prima di pranzo o cena, cerca di accaparrarsi le fette bollenti tagliate al momento. Superata l'entrata l'osteria si dirama in più sale, tutte rigorosamente fuori dal tempo. Tavoli di legno e tovaglie a quadretti bianchi e rossi, soffitto a volte con travi a vista, pavimento in cotto e sedie di paglia intrecciata. Un passo indietro negli anni. La parola "moderno", da Vino e Farinata, non rientra nel vocabolario. Che invece brulica di storie d'altri tempi. «Fino a poco tempo fa -continua Giorgio Del Grandemolte persone anziane si portavano il vino da casa, insieme a qualche cosa da mangiare, posavano tutto sul tavolo e ordinavano un po' di farinata. Cenavano così, un misto tra un pic nic e una cena al ristorante. C'è anche chi viene spesso negli orari di chiusura, a prendere qualcosa che è rimasto dalla cucina». Ci si chiede se queste siano stranezze, ma risponde candidamente che per lui tutto è normale, le persone possono fare quello che più le mette a proprio agio. E il locale dei fratelli Del Grande è così intriso di atmosfera familiare che tantevino efarinata 5 sono le coppie storiche formatesi al suo interno. Come "Mirlo" e Claudia Ziliani, entrambi parte dello staff che hanno imparato a conoscersi e ad amarsi proprio tra tavoli e rimbombare di pentole. Trentacinque anni in cui il proprietario ha visto cambiare mode e modi di vivere guardando

I grossi pentoloni di rame in cui viene preparato l’impasto

guardando fuori da quella vetrina che si affaccia su via Pia, ma non ha voluto adattarsi, né abituarsi alle luci della ribalta. Nonostante siano tanti i personaggi, famosi e non, che hanno assaggiato per la prima volta la farinata nel suo locale. Da Fiorello agli attori di teatro dopo gli spettacoli al Chiabrera. Ma Giorgio Del Grande non ha mai chiesto un autografo. «Non volevo trattarli diversamente da tutti gli altri clienti» si giustifica limpidamente. Perché la ricetta semplice, quella senza segreti, è quella vincente.

Lo storico proprietario del locale Giorgio Del Grande racconta con genuinità il suo lavoro


IL SIGNORE DEGLI OMBRELLI Tutto si aggiusta, niente si rottama di IRENE SALINAS

Il signor Sauro Servidei nel suo “regno” in via Untoria, nel cuore della città

C'è un luogo a Savona che è sopravvissuto al tempo, che spazza via frenesie e vita di corsa. Una bottega, nascosta in quella via Untoria di ciottoli, arte e storia. Dove l'artigiano Sauro Servidei ripara valigie, ombrelli, borse e cinture di pelle. E ricordi. Da oltre 46 anni. DI RICORDI, MARE E CUOIO Un mestiere antico, che racchiude la volontà di non gettare via, ma di riparare. Di ridare la vita ad un oggetto ormai logorato dal tempo. Ha 84 anni, il signor Sauro. Ma ne dimostra

almeno dieci di meno. Dietro agli occhi di ghiaccio, si nasconde un uomo colto, ironico e intelligente che mentre lavora ascolta Bach. Le mani grandi e forti raccontano i 46 anni di lavoro. In quel negozio savonese che lui chiama "lo scagno". Come il luogo dove gli armatori arruolavano i marinai. Perché, prima di essere artigiano, era proprio un marinaio. Ha navigato per anni, tra l'America e l'Africa. Ha osservato il mondo, imparato le lingue. Ma il cuore era rimasto a Savona, la città dove arrivò da ragazzino, quando, da figlio di un anarchico,


6 scappò con la famiglia dall'Emilia Romagna in mano ai fascisti. «Una vita dura, quella del marinaio – racconta Servidei – La paga era buona ma la mancanza di mia moglie Luisa era insopportabile. Decisi di sbarcare. Era la primavera del 1967. C'era un bar, a quei tempi, in via Untoria, che ero solito frequentare. Una mattina, mentre facevo colazione, mio cognato mi chiese "vorresti guadagnare gli stessi soldi stando a casa?". "Certamente", risposi. Mi indicò una piccola bottega, proprio di fronte al bar, una pelletteria dove si riparavano oggetti in cuoio e ombrelli. Mi disse che l'artigiano che la possedeva, ormai anziano, voleva cedere l'attività. Capii in un secondo che quello scagno sarebbe divenuto il mio negozio». DAL PANE ALLA PELLE Non ha abbastanza soldi per rilevare la pelletteria, il signor Sauro. Così lavora come panettiere per l'intera stagione estiva. A settembre ha messo da parte 800 mila lire. Consegna il piccolo tesoro al signor Mariani, che gli cede il suo negozio e gli insegna il mestiere, come un padre insegna ad andare in bicicletta al figlio. Con pazienza e tenerezza. Ma Sauro impara in fretta. Dopo una settimana è autonomo. Mariani lo guarda, seduto al bar, pronto ad aiutarlo alla minima difficoltà. «Il mio maestro mi tranquillizzava – confessa Sauro Servidei – ripetendomi che per qualsiasi problema lo avrei trovato di fronte a me. Ma mi diceva anche che ci sarebbe sempre stato un oggetto nuovo, che mi sarebbe capitato tra le mani per la prima volta. Aveva ragione. La mia testardaggine, però, ha spesso avuto la meglio. Ho sempre

amato le sfide, non mi sono mai tirato indietro, non mi sono mai arreso. Nemmeno ora, a 84 anni. Sono ancora alla caccia di una soluzione. Questo mestiere è la metafora della vita. Tutto si aggiusta, niente si rottama». VALIGIE E OMBRELLI, TRA MUSICA E LIBRI Ha trascorso metà della propria vita in quel piccolo negozio, il signor Sauro. Sempre con lo stesso grembiule, le stesse bretelle. Per anni ha lavorato con la moglie Luisa, che ora resta a casa anche se si lamenta perché vorrebbe rendersi utile, aiutarlo. Un amore immenso, il loro. Sessant'anni di matrimonio e una promessa che si rinnova ogni giorno. Dalla sua bottega ha guardato Savona mentre cambiava. Vent'anni fa iniziava a lavorare alle 3 del mattino. A mezzogiorno aveva riparato circa 120 ombrelli. Ogni giorno. I soldi guadagnati gli hanno permesso di comprare il negozio, nel 1985. Oggi i tempi sono cambiati. Oggi gli ombrelli costano poco, si buttano via appena si rompono. E da quei 120 al giorno sono diventati tre o quattro a settimana. Sono sparite le cartelle in pelle. Ma ci sono le borse, le cinture. E le valige.


Perché Sauro Servidei è la figura di riferimento di grandi aziende. Benetton, Roncato, Jaguar, hanno individuato nel negozio savonese il loro punto di assistenza. Eccellenza del passato e del presente, l'attività di Servidei è segnalata su numerosi siti internet. Cambia il lavoro, ma l'impegno è sempre lo stesso. La sveglia continua a suonare all'alba. Ogni mattina la moglie Luisa fa trovare a Sauro i vestiti puliti, il fazzoletto piegato e la colazione. Lui legge il giornale, beve il caffè. Alle 7 la saracinesca della bottega si alza. «Potrei smettere di lavorare. Potrei godermi la pensione. Ma non posso stare senza fare niente, questo per me è più di un mestiere. Ora gli orari sono flessibili. Chiudo alle 12 meno un quarto, torno nella mia casa alle Fornaci a guardare il telegiornale. Riapro alle 3 del pomeriggio per poi tirar giù la serranda alle 7». Azzardare una stima di quanti siano stati i clienti è impossibile. Ha riparato gli ombrelli e le borse dell'intera Savona. Ci sono le note di Bach a fare da sottofondo, nel negozio di Servidei. E l'odore del cuoio. Penetrante, che sa di buono, di vita vissuta. La musica è una delle passioni di Sauro. Insieme alla lettura e alla filmografia. Nella sua casa di fronte al mare c'è una biblioteca, acquistata negli anni 70 da un ingegnere genovese. Vanta un testo autografato dal Manzoni, manoscritti dell'Ottocento. Una fortuna tradotta in carta, letta fino all'ultima pagina. Ma vanta anche una collezione di oltre 2000 DVD, film registrati e guardati mille volte. La manualità di un mestiere antico sposa perfettamente l'intelletto e la cultura. Sauro Servidei fonde in

sè semplicità ed eleganza, la modernità e il romanticismo di un tempo. "I CARE": RICORDI E FUTURO C'è una quadretto, di fronte alla postazione di Sauro. Con la fotografia della porta della camera di Don Milani, sulla quale campeggia la scritta "I Care", "mi interesso". «Quelle due parole – spiega Servidei – racchiudono il mio mondo, il mio passato e la mia storia. E il legame con quel prete di Firenze. Ogni anno, il 26 giugno, mi reco a Barbiana, il paese dove operò Don Milani. Una sorta di pellegrinaggio, un modo per ringraziarlo per avermi, indirettamente, illustrato la via per aiutare mio figlio ad inserirsi nel mondo. Lui, che da piccolo non parlava, ha trascorso l'infanzia in un collegio cattolico. Oggi è uno stimato fisioterapista». Per un attimo la voce di Sauro trema. Gli occhi di ghiaccio brillano di ricordi e tenerezza. Un figlio fisioterapista e un nipote architetto. Il giorno che Sauro Servidei si ritirerà nella sua casa delle Fornaci, tra i suoi libri e i suoi film, la bottega chiuderà la serranda per sempre. E sparirà un pezzo di storia della città. «Regalerei il negozio a un giovane, ma non avrebbe senso. Ormai questa attività non garantisce un reddito. Vivere riparando oggetti in pelle e ombrelli è impossibile. Prezzi minimi, bassa qualità e concorrenza sono rivali impossibili da battere con talento e impegno. Io, che non mi sono mai arreso al tempo che passa e logora gli oggetti, stringo tra le mani qualcosa che non posso riparare, qualcosa alla quale non posso ridare la vita. Ma che di sicuro la vita l'ha data a me».


8 GINO MORAGLIO, UNA VITA INCISA SUL VETRO La storia di un artista che ha fatto della passione uno stile di vita di ANDREA GHIAZZA

Le mani abili dell’artigiano Gino Moraglio

Mani ferme, sicure e veloci. Quanto basta per trasformare il vetro in un'opera d'arte e fare di un lavoro un vero e proprio stile di vita. A guardare il mastro vetrario Gino Moraglio, classe 1931, si rimane incantati, il rischio è che i minuti volino via uno dopo l'altro. Una matita vetrografica guidata da grosse mani sapienti traccia via via sul vetro il disegno. Poi è il turno della scannellatura e dell'incisione all'interno

di una piccola cantina, attrezzata a bottega, che profuma di storia e tradizione. Gino quando utilizza il tornio e le mole non stacca mai gli occhi dalle sue 'creature'. È concentrato per fare sì che un oggetto 'banale' si possa trasformare in un'opera preziosa e unica. È come se il vetro riflettesse il passato del mastro vetrario altarese per non far dimenticare quest'arte dalle tradizioni antiche. Ma non ci si improvvisa


maestri. Certo la mano ferma e decisa che sappia premere sul vetro al punto giusto è una dote naturale. Ma serve qualcosa di più, molto di più. Qualcosa che solo una passione sfrenata è in grado di dare. «Per me il lavoro -spiega Gino Moraglio mostrando alcune foto ingiallite che lo ritraggono- è ed è sempre stato passione. Ora sono in pensione da parecchi anni ma non mi sono mai separato dal vetro, non so spiegare il perché ma è esattamente così e io sono felice di questo». Ma già il padre e il nonno di Gino svolgevano questo lavoro e hanno fatto sì che la tradizione proseguisse ancora generazione

per generazione. Le mani del maestro altarese -che però ha trovato a Vado Ligure una secondo paese natale dove abita tutt'oggi con la moglieraccontano di un'esperienza nella lavorazione del vetro lunga quasi settantanni. «Ho iniziato a lavorare il vetro -racconta Gino con orgoglio- nel 1945. Ero un operaio presso la Società Artistica Vetraia di Altare e allora avevo il compito di togliere la 'bava' dalle coppe di gelato che venivano prodotte in fabbrica con lo stampo». Un'operazione quasi meccanica e ripetitiva che non permetteva, però, di sprigionare quell'estro e quella creatività che Gino aveva, forse inconsapevole, dentro di sé.


10 Ma un evento, solo all'apparenza banale, cambierà la vita del futuro artista vetraio che oggi può vantare premi ed esposizioni in tutta la provincia savonese. «Ero un ragazzo profondamente curioso -spiega Gino abbozzando un sorriso- talmente curioso da mettere alla prova le mie capacità. Un giorno, approfittando di una momentanea assenza del direttore dello stabilimento, decisi di provare a incidere un bicchiere. Ero eccitatissimo dall'idea tanto da non accorgermi dall'arrivo del mio superiore che alla vista dell'incisione non riusci a proferire parola e mi pregò subito di estendere il mio lavoro a un intero servizio di piatti, tazzine e bicchieri». Da quel momento la carriera del giovane Moraglio è cambiata per sempre. Gino trascorrerà diciassette anni, di cui sedici con la moglie, nella fabbrica di Altare per poi trasferirsi negli anni '60 come capo reparto finitura a Vado Ligure nella Sivis, la Società Italiana Vetri Industriali che aveva sede in via Tommaseo. Poi, complice la silicosi, è la volta di lavorare sempre a Vado Ligure alla Vitrofil dove però, sfortuna della vita, subisce un incidente sul lavoro ed è costretto così ad andare in pensione anticipatamente. «Sia quelli di Altare sia quelli di Vado Ligure -ricorda Gino mostrando alcune sue opere di quegli anni- sono stati periodi della mia vita che non dimenticherò mai. Le diverse esperienze mi hanno insegnato tanto sia dal punto di vista umano sia da quello lavorativo e soprattutto mi hanno permesso di assecondare la grande passione della mia vita: la lavorazione del vetro». Tutt'oggi l'artista

altarese continua nelle sue opere d'arte. Non passa giorno che Gino non vada nella sua cantina addobbata a bottega a lavorare il vetro. L'utilizzo del tornio e delle mole sono oramai diventati gesti quotidiani, quasi automatici. La quiete e la semplicità della bottega riflettono la persona nelle suo carattere. Ma fuori il mondo va veloce, come una scheggia impazzita. Cambiano così le tecnologie ma c'è un aspetto che non potrà mai essere cancellato e su cui Moraglio si fa scuro in volto e su cui non transige: «la precisione e la velocità dei macchinari non potrà mai essere confrontata con l'abilità delle mani». Già, proprio quelle mani, le stesse che solo a guardarle e a toccarle riflettono i settantanni di esperienze passate. Nessuno lo cambierà mai. Gino è così: un uomo trasparente, fragile ma di un'integrità morale rara. Proprio come il vetro, madre delle sue creature e compagno per la vita.


FERRAMENTA FAVA, UNA STORIA CENTENARIA Una famiglia, una bottega. E quattro generazioni a gestirla di ALESSANDRO FOFFI

L’entrata della bottega del ferramenta Fava, probabilmente agli inizi del Novecento

C'è un posto dove la clessidra del tempo sembra essersi fermata. Tutto sembra appartenere al passato, dagli oggetti in vetrina all'arredamento. E' il ferramenta Fava. Una realtà savonese 'doc' che ha fatto parlare di sé per essere una delle imprese storiche della città. Molto più di una vera e propria bottega che trasuda storia e tradizione di un tempo caratterizzato non dall'oggetto pronto "usa e getta" di oggi, ma dall'inventiva dell'uomo nel costruirsi tutto. Un'identità che richiama ad un tempo in cui il ferramenta era non soltanto incarnato da chi vendeva, ma

anche da chi dava consigli su come fare il lavoro nel miglior modo possibile. Una vocazione che in centocinquant'anni ha saputo creare una storia unica, ben al di là della propria mansione di rispondere alle esigenze dei clienti. fava francesco"Qui si può trovare tutto, dalla vite al razzo" sottolinea Francesco Fava, proprietario del negozio. E anche se sembra azzardato il paragone con i magazzini Harrod's a Londra - il cui celebre slogan 'dallo spillo all'elefante' - fa intendere l'universalità dei propri prodotti, lo storico ferramenta ha costruito il proprio successo su articoli di ogni tipo, genere e


12 modello. Un 'paese dei balocchi' del ferramenta costruito negli anni attraverso passione, dedizione e tanta ricerca del particolare. La filosofia è semplice: il passato deve interagire con il presente. Un solco che ha permesso a Fava di affrontare ogni sfida con i tempi mettendo fianco a fianco tecnologia e utensili centenari. Da una parte il lavoro, dall'altra la collezione. Un binomio che non sfigura affatto se inserito nel contesto giusto. Quello del ferramenta Fava. «Sono cresciuto con l'animo imprenditoriale -sottolinea Francesco Fava, attuale titolare della storica ditta- visto che la famiglia di mia nonna possedeva una fabbrica di chiodi a Cogoleto». Passa attraverso più di un secolo la vicenda del ferramenta savonese. Si snoda attraverso gli scaffali in legno, datati fine '800, e l'originale bancone intagliato a mano tutt'oggi visibile nel negozio di piazza Giulio II. Per cercare le sue origini, però, bisogna andare indietro e, precisamente, al 1890, data in cui fu iscritto ufficialmente al registro delle imprese di Savona. La nascita dell'attività - come testimoniano i documenti dell'impresa risalirebbe addirittura al 1790. A raccontarlo è lo stesso Francesco Fava. Sguardo chino sul faldone pieno di documenti, sfoglia il libro dei ricordi fatto di vecchie fotografie e antiche fatture. E comincia a narrare la storia della sua bottega. «A fianco del ramo di mia nonna coesisteva quello della famiglia Fava in cui erano tutti maestri calafati e quindi abili nell'usare mani e utensili – spiega - l'idea del ferramenta nacque forse proprio dal mix di queste qualità». Nascita che fa capo al suo

bisnonno, che una volta lasciato il mestiere di calafato decide di aprire il negozio. Ma chi sarà il vero artefice del successo della bottega è Francesco 'Checchin' Fava. Il suo omonimo attuale lo ricorda come un uomo buono, disponibile sempre con tutti. E soprattutto dotato di grande umanità. «Erano tempi duri e Checchin, zio di mio padre Gioacchino, ebbe molta intraprendenza nel tenere sulle proprie spalle la bottega - racconta il padrone dell'omonimo negozio- infatti, dopo che il padre di Gioacchino morì, fu lui stesso a farsi carico dell'intera famiglia. Ma il lavoro paga e il tempo gli diede ragione». Già, perché la gestione a conduzione famigliare coinvolge anche le sorelle di Checchin che, con le proprie


peculiarità, concorrono alla riuscita dell'impresa. «Nonostante l'attività prediliga personale maschile -continua Fava- le sorelle di Checchin seppero ben destreggiarsi nei meandri della bottega, svolgendo anche lavori d'ufficio come la contabilità e l'inventario merce». La bottega diventa, così, fonte di sostentamento dei Fava e negozio di riferimento per tutta Savona. E la politica attuata da Checchin nel commercio di tutti i prodotti di ferramenta si rivela quantomai vincente. fava gioacchino«Mio zio ha insegnato a mio padre, che successivamente ha trasmesso a me, un modo di vivere l'attività e la vita in generale per cui andare fieri – prosegue nei ricordi Francesco- i soldi, nel suo modo di vedere, sono sempre stati solo uno strumento e mai un fine. Lavorava perché gli piaceva il contatto con le persone, il dialogo. Tutte le scelte che ha intrapreso sono state stabilite per ottenere dei miglioramenti al negozio al fine di soddisfare il cliente e non base al mero profitto». E se oggi il negozio di Fava è considerato uno dei ferramenta più forniti di Savona, lo si deve proprio a questo modo di pensare. Alla morte di Checchin, la gestione passa al nipote Gioacchino, padre di Francesco. «Mio padre è praticamente morto in negozio perché amava a tal punto quest'attività, il contatto con le persone e la possibilità di scambiare pareri e opinioni su come svolgere al meglio un lavoro da farne qualcosa di più di un semplice mestiere -continua Fava- nel

passato, infatti, c'era una maggiore tendenza al "fai da te" e la gente si rivolgeva al ferramenta non solo per comprare i materiali, gli utensili e quant'altro servisse per svolgere un lavoro, ma anche per ricevere qualche consiglio su come farlo il meglio possibile». Ma l'idea di ferramenta per i Fava non si riduce alla sola immagine di venditore o dispensatore di consigli. Creatività, genio e passione. Elementi che contraddistinguono l'inventore. «Il più delle volte – conclude il proprietario- la bellezza consiste nel creare ex novo uno strumento per un lavoro o per una occasione particolare. Non nascondo che ho una passione innata nell'inventare o modificare, in base a particolari esigenze, apparecchi, strumentazioni o attrezzature».


14 5 CONTINENTI IN 1100 BOTTIGLIE Il bar-latteria "Centurioni", un angolo di Savona che racchiude tutto il mondo di IRENE SALINAS

Enrico Centurioni, titolare del bar-latteria Centurioni, tra le innumerevoli bottiglie e lattine da collezione

Tutti i colori del mondo riflessi nel vetro di 1100 bottigliette. Piene di liquido e vita. Di ricordi, viaggi, gentilezza, passione. C'è un luogo a Savona che fa volare in ogni angolo del pianeta stando fermi. Il bar-latteria Centurioni è una perla tutta savonese incastonata da 77 anni in quella via De Amicis tanto vicina al mare quanto al centro. Dentro,

custode di storie e sogni, c'è Enrico Centurioni, lui che tra quelle mura è nato e vissuto.Nel 1973, poco più che ventenne, ricevette il negozio dai nonni e lo trasformò nel rifugio di una passione, quella per i viaggi, da mostrare a una città intera attraverso più di mille "mignonette", piccole riproduzioni in vetro di bottiglie di alcolici, e circa duemila lattine. «Ricordo che vidi la prima


bottiglietta nel 1974, mentre acquistavo dei liquori per la latteria -racconta Enrico Centurioni- ne rimasi affascinato. Così mi feci dare un espositore da mettere in negozio con alcune "mignonette". Anni dopo capii che avrei potuto coniugare quel vetro con la mia grande passione, i viaggi, e creare qualcosa di unico». E così ha fatto. Bottigliette da ogni paese, per circa 30 anni di viaggi. Una collezione ricca e irriproducibile, della quale Centurioni ricorda ogni dettaglio. E lo racconta a chi, entrando nel proprio bar, non può che restare affascinato. Perché con le scarpe appoggiate su un vecchio pavimento sempre lucido, si percorrono migliaia di chilometri in una manciata di minuti. Ci si specchia nell'oro della Birmania, si indossano i sari dell'India. Si annusa l'odore della foresta del Brasile e quello delle spezie del Marocco, si alzano gli occhi per guardare le luci di New York e il sole del Kenya. Ascoltando le parole di un uomo che ha trasformato un sogno in realtà. Quello di imprigionare in un solo luogo tutti i luoghi del mondo. «Tutta la mia vita è tra queste mura -racconta Enrico Centurioni- questo è il mio rifugio, il custode dei miei ricordi più belli. Che io condivido con i miei clienti, al quale ogni giorno racconto di paesi lontani che ho visitato. E lo faccio con le parole, ma anche con le immagini di tutte le videocassette dei miei viaggi. Sono più di 200 e, tra un caffè e una spuma, il videoregistratore è sempre acceso». "Enrico, dove ci porti oggi?", lo interrompe un anziano signore con i baffi bianchi. Lui che, quei paesi lontani, li ha visti solo attraverso il vetro e lacenturioni quaderno latta, il nastro

di una cassetta, la generosità e la passione di un barista. C'è chi, invece, fedele a ogni ricorrenza, compra una confezione di quelle bottigliette. Champagne, whisky, cognac, rum. Piccole gemme di fantasia reale. O chi, incuriosito da quelle vetrine, entra e sceglie con cura una "mignonette". Ma non è certo la vendita l'obiettivo di Enrico Centurioni. «Alcune bottigliette non sono acquistabili -spiega Enrico Centurioni- in quel liquido c'è un pezzo della mia storia. Le tengo per me, per chi vuole osservarle. Così come le mie lattine». Centurioni conosce a memoria ogni singolo pezzo della sua collezione. Lo ha disegnato a mano su un quaderno a quadretti che custodisce come un tesoro, dove le pagine profumano di cellulosa e anni che passano. Spesso alcuni clienti, i più affezionati, lo mettono alla prova. Indicano una bottiglietta. A caso, a volte nascosta. "Da dove arriva questa? Quando l'hai presa?". "Parigi, 2005". La risposta è immediata. E con essa arriva prepotente una valanga di ricordi. Che raccontano dell'affetto verso una madre scomparsa da poco, di un carattere chiuso e riservato, di una timidezza che con la semplicità


16 abbatte ogni muro. «Con le lattine è più facile ogni fila è dedicata a una paese. Usa, Inghilterra, Cina, Giappone e Florida» sorride Centurioni, che nel 2000 venne insignito del premio "Italia che Lavora". «Nel 1992 il valore delle mie bottigliette era di 5 milioni di lire -conclude Centurioni. Se mi chiedessero quale cifra vorrei per vendere tutto? "Nessuna" risponderei. La passione non ha un prezzo, i ricordi tanto meno». Resta ancorato a quel bancone, Enrico Centurioni. Come il comandante al timone della nave. Affronta le tempeste, oltrepassa le onde. Dietro di lui ha lasciato tanti paesi, mille volti, culture e sapori. Li ritrova ogni volta che alza lo sguardo e fissa quelle vetrine, con il cuore pieno di orgoglio e gli occhi lucidi di nostalgia. E allora forse è vero che non servono aerei per volare. E il viaggio più bello è quello che ancora non abbiamo fatto.

Solo alcune delle migliaia di bottiglie racchiuse nel bar Centurioni


"LUNEDI' CON IL SUBBUTEO, MOGLI PAZIENTAIl "rito" del calcio in miniatura a Savona di ANDREA GHIAZZA

Le serate del Subbuteo Club Ponente di Savona, tra campetti verdi e tanta passione

Tornare bambini almeno una sera a settimana. A Savona è possibile realizzare questo sogno, rigorosamente in punta di dito. E pazienza se c'è qualche capello in più bianco, l'importante è la voglia di stare insieme e condividere una passione, o meglio, la passione: il subbuteo. Un gioco che entusiasma il mondo dei "grandi", le mogli almeno il lunedì sera dovranno pazientare. La settimana per gli "irriducibili" del subbuteo inizia con il sorriso. Sono tutti lì, puntuali, come non mai. Tolti gli abiti dal lavoro bastano jeans e maglietta per

rivivere emozioni vere e autentiche. Il calcio come pulsione, il subbuteo come una febbre che contagia adulti e non. Già perché al "Subbuteo Club Ponente" di Savona ci sono grandi e piccini, anche se a dire la verità quelli a divertirsi di più sembrano essere i padri. Ma il divertimento è travolgente e basta davvero poco per regalare e regalarsi un sorriso. Un panno verde, due porte, una pallina e due squadre da calcio in miniatura. Un saluto veloce, poi tutti a giocare, il desiderio è bruciante. Ognuno ha il suo rito, non sia mai. Come Trapattoni prima di ogni match si auto benediceva con l'acqua santa, c'è chi strofina le


18 le basi con il lucido, c'è chi non si separa mai dalla propria squadra del cuore, rispolverandola da vecchie scatole ingiallite e polverose. Poi inizia la sfida, quella vera. Anche qui, basta davvero poco. Un salone, una decina di campi da gioco e tanta voglia di mettersi in gioco. La differenza la fanno le persone, non le squadre. Esperti e principianti lanciano la sfida, non importa essere "bravi" anche se poi sul tavolo da gioco ci sono momenti di concentrazione. Come in ogni match nessuno ci sta a perdere ma a fine partita un bicchiere di vino e un po' di focaccia mettono tutti d'accordo. Prima della cena improvvisata di mezzanotte, però, c'è qualche ora spensierata di gioco, i problemi personali rimangono fuori dal panno verde, le preoccupazioni dribblate con classe una dopo l'altra. Va in rete la felicità, lo stress rimane in panchina. Tutti, ma proprio tutti, sono protagonisti e i minuti volano via come i terzini sulla fascia. Nel subbuteo ognuno è giocatore e allenatore allo stesso tempo: difesa in linea per mandare in fuorigioco l'avversario, moduli prudenti e attacchi per lo più centrali. Nessuno imita Zeman, la goleada sarebbe in agguato, e i "patiti" del calcio in miniatura lo sanno bene. Il lunedì oramai è un rituale da qualche mese, i garage, prima campi da gioco improvvisati, possono tornare a ospitare autovetture e moto. Ma tra gli album dei ricordi non può mancare il subbuteo, quel calcio puro e autentico che forse non c'è più e che ai giorni nostri rivive incurante del business solo su un tavolo da gioco. Il Subbuteo è stato, per decine di migliaia di giovani italiani, uno dei regali più attesi e desiderati nelle notti natalizie. Ora,

invece, a Savona il regalo arriva puntuale ogni lunedì sera con la stessa attesa di sempre. Mogli, non preoccupatevi se il vostro marito il primo giorno della settimana tornerà a casa stanco ma felice. Non fategli nessuna domanda inopportuna, se avrà vinto sarà lui a raccontarvi la serata.


MIRAMARE: CENERI DI BELLE ÉPOQUE Fascino e decadenza dell'ex albergo che si affacciava sulla Darsena di ALESSANDRA ARPI

Una veduta del porto di Savona dall’ex albergo Miramare

Arrampicato sul crinale della collina che sovrasta il porto, si affaccia sull’Aurelia e su quella che ai tempi era l’insenatura più famosa di Savona. È l’ex “Albergo Pensione Miramare”, che guarda a destra Albissola Marina, a sinistra il Porto. Costruito nel 1880, alla vigilia della Belle Époque, nell’aria frizzante di vitalità e nel sentore che il nuovo secolo portasse grandi cose. Insieme all’omonimo stabilimento balneare sottostante ha ospitato le vacanze di generazioni, le grandi finestre che guardavano al mare ancora libero dalle

braccia sempre più voraci del porto. Nel 1930 ha trasformato le sue ampie stanze nei locali della caserma dei Carabinieri intitolata a Leone Carmana, giovane carabiniere che nel 1920 riuscì a bloccare l’attacco all’Arsenale di La Spezia da parte di un gruppo di facinorosi decisi a impossessarsi delle armi conservate. Sono stati aggiunti alcuni edifici al complesso, tra cui una scuderia e le autorimesse. Nei primi anni ’60 la caserma si è spostata e il complesso ha iniziato a ospitare la scuola edile E.N.A.I.P. fino al 2001, quando gli edifici del Miramare sono stati abbandonati a loro stessi. Oggi il volto del


20 vecchio albergo è segnato dalle rughe del tempo ma conserva, con aria malinconica, i tratti del suo antico splendore. ALLE SOGLIE DEL NOVECENTO, TRA BALLI E CENE ELEGANTI Immaginarsi l’Albergo Miramare all’apice del proprio splendore non è difficile, posando lo sguardo sulla raffinata facciata che ancora spicca orgogliosa verso il mare. Saltano subito all’occhio i due alti piani di balconi in pietra, raffinati testimoni di vacanze al sapore di salsedine. Si possono immaginare assopite mattine d’estate, tende tirate per ripararsi dal curioso sole di luglio, costumi da bagno appesi al tramonto dopo una giornata balneare. L’edificio, maestoso sulla strada, mostra orgoglioso una terrazza, coperta alle sue spalle da una costruzione più recente. Chi può immaginare quante storie hanno conosciuto quelle stanze, quante mattine sonnolente e quante cene eleganti. Quante colazioni nell’ampia sala illuminata dai raggi di un sole caldo, quante carrozze ottocentesche sono entrate dal cancello principale e hanno sostato nelle rimesse. Quante bottiglie di champagne e di vino sono state aperte e consumate nel vociare della sera, nell’aria fresca d’estate, oppure quante damigiane, come mostrano le foto, schiera di grandi contenitori allineati come un esercito pronto al sacrificio di visitatori gaudenti. Quante risa risuonate in quelle stanze, nelle grandi sale, quanti balli, che si possono solo immaginare. Il giardino che circonda il complesso, tra scale, terrazze, una volta doveva crescere rigoglioso e curato, ammaliando gli ospiti con i colori di una

L’antico splendore dell’albergo Miramare, aggrappatto alla collina della città

vegetazione tipica della terra ligure. Immaginarsi storie su un albergo che ricorda antiche fiabe come il Miramare è facile, ma il suo volto oggi è sfregiato dal tempo, dalle intemperie, dalla dimenticanza. IL MIRAMARE NEL NUOVO MILLENNIO: ERBACCE E MALINCONIA Il cancello principale oggi è arrugginito, apre le sue porte a quella che una volta era la sfavillante reception, al sentiero per le carrozze e le prime automobili. Il tutto è lasciato nelle mani distratte del tempo, che rimaneggia tutto secondo il proprio umore tumultuoso. L’edera fa da padrona, si insinua in ogni crepa, in ogni distrazione dell’asfalto. Le radici degli alberi si sono fatte strada nel deserto di cemento della stradina, e la loro silhouette nodosa è perfettamente visibile sotto la pelle grigia della strada, come se fossero vene in cui scorre una linfa vitale nuova. L’idea che oggi dà il complesso è di qualcosa che anche dopo più di cent’anni questo luogo mantiene il suo dignitoso decoro. Attraversando il giardino, ormai selvaggio, si


arriva alla terrazza immediatamente sopra i balconi, tempestata di sottili camini, esili sentinelle di un tempo che fu. Immediatamente dietro, non visibili dalla strada, due lucernari, robusti a fianco dei camini, dai telai arrugginiti e i vetri che resistono impavidi alle forze della natura. Una volta la luminosa sala delle colazioni, sottostante, riceveva luce da qui. Entrando nelle stanze al piano più basso, dopo aver percorso la vecchia scalinata interna, l’atmosfera è quella confusa del mescolarsi di due ambienti completamente diversi: le stanze ampie e luminose di quello che era un albergo con i vecchi banchi di scuola, i cartelli ancora scritti a mano con le valutazioni della scuola edile. Libri, fogli di quaderno, lavagne, banchi doppi come si immaginano nei libri. Quella che era la sala delle colazioni ospita vestiti dismessi buttati alla rinfusa sul pavimento, qualche computer impolverato ed è pavimentata da pagelle, fogli fitti di appunti scritti con penne stilografiche, circuiti elettrici. Sulla sinistra, una porta sfondata lascia che lo sguardo possa arrivare al locale adibito a cucina. Forse ancora la cucina dell’albergo. Un’affascinante cucina cubica, bianca, posizionata nel mezzo della stanza, fa da protagonista. I suoi tubi del gas a vista sembrano essere vitali e muoversi intorno a tutto il perimetro della cucina. Sembra essere uscita da una delle case di bambole che si avevano da bambini. Ma l’ex Albergo Pensione Miramare una casa delle bambole non è né lo è mai stata. Le bambole incarnano i sogni, ma il Miramare ha bisogno di mani concrete che si prendano cura del suo corpo stanco.


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UN RESPIRO IN PIU' Correre via dall'asma? Ora si può con la tecnologia

di IRENE SALINAS

Lo Spirotiger, strumento innovativo che permette alle persone che soffrono di asma di respirare meglio

Simona Marino, venticinque anni, una cascata di capelli rossi. Segni particolari: nata due volte. La prima nel 1988, la seconda qualche mese fa. Quando inizia a respirare a pieni polmoni. A camminare e parlare senza la sensazione di soffocare, lei che soffre di una grave forma di asma. Rinasce, Simona. Lo fa grazie a una palestra, all’interno del Centro Medico Olos di Savona. E a un piccolo strumento, chiamato Spirotiger, che restituisce sogni. Quella di Simona è una storia di speranza e rinascita. Di quelle che fanno sorridere, che riempiono il cuore. Asmatica dalla nascita, Simona Marino non

poteva correre, ballare, attraversare a piedi la città, terminare una frase senza andare in affanno. Poi, un po’ per caso, un po’ forse no, inizia a usare lo Spirotiger. E la sua vita cambia. «Ho iniziato l'allenamento con lo Spirotiger nei primi mesi dell'anno – racconta Simona – e i risultati sono stati sorprendenti. La quarta volta che utilizzavo lo strumento è accaduto qualcosa di incredibile. I miei polmoni si sono liberati, come se qualcuno li avesse improvvisamente sbloccati. Ho dato un forte colpo di tosse e ho iniziato a respirare. Bene, come non avevo mai fatto. Al controllo di marzo il valore dell'ossido nitrico era sceso da 52 a 7. Perfettamente nella


norma. Così come la mia spirometria». La felicità di Simona è incontenibile. Nella palestra del Centro Medico Olos, unico nella provincia di Savona che utilizza lo Spirotiger, ha ritrovato il sorriso. E la possibilità di camminare a passo veloce, di alzare pesi con le braccia, di ballare. «Appena arrivata al Centro, sono stata visitata dalla pneumologa Veruska Schoepf. Insieme alla dottoressa e ai fisioterapisti Mattia Stazi e Daniele Liserre, si è deciso di intraprendere il percorso riabilitativo con lo Spirotiger. Qui, al centro Olos, sono seguita e monitorata continuamente. Ed è qui che sono rinata». Le parole di Simona trovano conferma nei referti medici, che dichiarano un netto miglioramento. Gli esami parlano chiaro, i valori sono nella norma. Ma c'è di più. «Non tossisco, ho smesso di grattarmi continuamente il naso – conclude la ragazza –ma soprattutto non uso più farmaci d'urgenza. La mia è la vita di ogni ragazza di venticinque anni, fatta di piccole cose. Prima impensabili». Ha gli occhi lucidi, Simona Marino, mentre racconta la propria esperienza. Fatta di coraggio e determinazione. Perché gli allenamenti con lo Spirotiger sono duri, servono impegno e costanza. Ma poter correre di nuovo, sentire il vento tra i capelli, ripagano ogni sacrificio. SPIROTIGER, IL RESPIRO DEL FUTURO E se le spirometrie di Simona Marino testimoniano un netto miglioramento nella respirazione, sono soprattutto le parole di chi usa lo Spirotiger a confermarne l'efficacia. Tra loro c'è chi non correva dai tempi delle

elementari, per colpa dell'asma. E che ora riesce a praticare attività fisica, seguito e monitorato dai dottori del centro Olos. «Spirotiger – spiega Mattia Stazi, giovane direttore del Centro Medico Savonese – è uno strumento che permette un allenamento specifico e intenso, allontanando l'affanno e migliorando la capacità respiratoria. Ma anche la postura, la mobilità della colonna vertebrale, senza sovraccaricare il sistema cardiovascolare». Indicato per ogni tipo di sofferenza respiratoria, lo Spirotiger permette di aumentare la frequenza respiratoria senza andare in iperventilazione. «L'anidride nel sangue – spiega la pneumologa Veruska Schoepf – rimane costante dato che il 90% dell'aria espirata viene nuovamente immagazzinata mentre solo un 10% esce attraverso la valvola. Nel momento in cui un paziente decide di intraprendere un allenamento con Spirotiger, viene stabilito un programma dettagliato, con lo scopo di migliorare il benessere fisico, con periodici controlli mediante aspirometria per valutare miglioramenti e percorso». La funzione dello Spirotiger sembra essere determinante in pazienti che soffrono di


22 patologie respiratorie. «Mediante l'uso dello strumento – continua la dottoressa Schoepf – vengono usati i muscoli accessori respiratori che normalmente non si utilizzano. I risultati confermano un notevole miglioramento nella respirazione». Ma l'efficacia di spirotiger non riguarda solo le patologie respiratorie. «Chiunque pratichi sport ad alti livelli – spiega Daniele Liserre, fisioterapista del Centro medico Olos – deve integrare il proprio allenamento con l'esercizio specifico del sistema respiratorio. Spirotiger permette un allenamento intenso di resistenza aerobica, forza, coordinazione, velocità e mobilità dei muscoli del tronco, che migliora le prestazioni». CENTRO MEDICO OLOS, TRA SFIDA ED ECCELLENZA Elegante e moderno, il Centro Medico Olos è una delle realtà più significative della provincia di Savona, a livello di prestazioni mediche. Incastonato in quella via Nizza che da sempre guarda il mare, tra palme, supermercati e scuole, il centro savonese offre una vasta gamma di servizi. Dalla medicina sportiva, alla fisioterapia, passando per riabilitazione e riatletizzazione, visite specifiche, ecografie, risonanze e prelievi. Una dinamicità, quella del centro, che si traduce nel nome Olos, "tutto", in greco. Ma è la piccola palestra a rappresentare la punta di diamante della struttura gestita da Mattia Stazi, giovanissimo fisioterapista. Uno spazio dedicato alla riabilitazione, fisica e respiratoria, con macchinari altamente specializzati. Ed è proprio la riabilitazione

respiratoria a garantire unicità al Centro Medico Olos. Una sfida, quella dell'equipe di dottori, che unisce competenza e lungimiranza. « Nella nostra palestra – spiega Stazi – ci occupiamo di pazienti che soffrono di patologie respiratorie, dall'asma alle apnee notturne, ma anche affanno, dispnea. Come tutti sanno, respirare è di vitale importanza. Ma c'è chi soffre di affaticamento e ha una ridotta ossigenazione, che al centro Olos cerchiamo di compensare con lo Spirotiger e un allenamento mirato. Tra i nostri pazienti c'è chi, a causa di patologie respiratorie, aveva smesso di praticare attività fisica. Ora può farlo, perché al termine dell'allenamento, grazie alla respirazione con Spirotiger, non entra in affanno. La soddisfazione e la gioia che si leggono negli occhi dei pazienti è enorme. Così come la nostra». Correre con l'asma? Ora si può. Con una palestra, eccellenza savonese, che restituisce un sogno a chi soffre di patologie respiratorie. Quello di poter fare una corsa all'aria aperta, di praticare attività fisica. Nessuna sensazione d'affanno. Si torna a correre e a respirare, con uno strumento innovativo. Portato a Savona dalla lungimiranza di giovani dottori che hanno investito nel futuro. E che quel futuro sembrano riuscire a regalarlo.


CREDITS

Una pubblicazione a cura di:

ABC - idee per la comunicazione

www.savonagraffiti.it


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