2011 saggio per martiniello

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Multimedialità tra comunicazione e formazione di Salvatore Colazzo in: L. Martiniello (a cura di), Comunicazione multimediale e processi formativi, Guida, Napoli, 2011, pp. 63-88. ISBN 978-88-6042-935-3. doi: 10.4443/sc93 Comunicazione vs formazione? Negli ultimi anni, nel dibattito pedagogico si sono moltiplicati i contributi relativi alla relazione che intercorre tra formazione e comunicazione 1. L’idea del presente lavoro è quello di declinare il tema per gettare luce sulle prospettive di sviluppo della didattica multimediale. L’attuale modello comunicativo è quello fortemente interattivo rappresentato dai social network e dall’ambient intelligence2. L’addomesticamento dei media, cioè il processo di incorporazione della tecnologia che fa sì che essa diventi parte integrante delle nostre pratiche quotidiane e di quelle che riusciamo ad immaginare 3, porta a non riuscirci più a pensare fuori dal 1

Citiamo solo qualcuno tra i titoli che più espressamente fanno riferimento alla tematizzazione del rapporto formazione/comunicazione: F. CAMBI, L. TOSCHI, La comunicazione formativa. Strutture, percorsi, frontiere, Apogeo, Milano 2006; A. SEMERARO, Pedagogia e comunicazione. Paradigmi e intersezioni, Carocci, Roma 2007; A. ABRUZZESE, R. MARAGLIANO, Educare e comunicare. Spazi e azioni dei media, Bruno Mondadori, Milano 2008. 2 Il costrutto di Ambient intelligence si deve agli studi di Weiser, Normann e Aarts, che, ognuno per la sua via, sono arrivati a ritenere la tecnologia come un modo per arricchire di potenzialità l’ambiente quotidiano, consentendo un allargamento dell’esperienza e delle possibilità di interazione col contesto. L’aspirazione, soprattutto di Wieser, è quello di pervenire ad artefatti tecnologici capaci di integrarsi nel tessuto delle azioni quotidiane delle persone, poiché progettati per essere usati senza nemmeno pensarci. Cfr. F. SORRENTINO, F. PAGANELLI, L’intelligenza distribuita. Ambient intelligence: il futuro delle tecnologie invisibili, Erickson, Trento 2006. 3 Cfr. T. BERKER, M. HARTMANN, Y. PUNIE, K. WARDS (eds.), Domestication of Media and Technology, Open University Press, Maidenhead 2006. Nella prima metà degli anni '90 del secolo scorso i media studies britannici hanno elaborato il concetto di addomesticamento per descrivere il processo di appropriazione e incorporazione delle tecnologie mediali nei contesti familiari. Il frame interpretativo studia il rapporto fra media, tecnologie e vita quotidiana. L'inizio di questo approccio è considerato il libro di R. SILVESTRON e S. HIRCH, Consuming Technologies, Routledge, London 1992. Uno degli assunti di base della teoria dell'addomesticamento è che fra tecnologie e attori sociali abbia luogo un mutuo adattamento, alla ricerca di un equilibrio. Quindi succede che nel corso dell'appropriazione delle tecnologie, queste si trasformino adattandosi al contesto socioculturale in cui abitano, per altro verso le culture e le pratiche familiari si modificano in relazione ai vincoli e alle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Attorno ai media si disegna una economia morale dell'unità familiare. Internet per esempio ha modificato gli spazi della casa contemporanea, dentro/fuori, privato/pubblico non sono più definiti dalle pratiche di una volta. La presenza in casa di telefonini, computer, tv digitale hanno modificato la stessa capacità degli universi familiari di proporsi come cardine attorno a cui si costituiscono i processi sociali di incorporazione delle tecnologie: l'appropriazione delle tecnologie oggi è sempre più individuale.


cyberspazio, il quale consente ad ognuno di noi di essere potenzialmente in contatto con tutti gli altri abitanti del globo e comunque lo iscrive in mille modi diversi in un sistema ipercomplesso di relazioni mediate elettronicamente, consentendogli opportunità di esperienze, che si traducono in una gran quantità di apprendimenti più o meno formalizzati, più o meno coerenti tra di loro, con conseguenze significative sui modi attraverso cui gestiamo la nostra identità. Il reciproco adattamento tra media, individui e pratiche culturali, ha portato all’emergere di una forma nuova di intelligenza, l’intelligenza digitale4, che consente di muoverci con destrezza nel cyberspazio, valorizzando la possibilità che l’altro costituisca una risorsa per il proprio sviluppo personale. La questione che si pone è allora quella di comprendere quale ruolo venga a configurarsi, in un universo ipermediatizzato, per le istituzioni che tradizionalmente sono state deputate a contribuire alla formazione delle nuove generazioni, assicurando la continuità culturale. Detto in altri termini: c’è ancora la possibilità di una paideia? È la domanda che si pone Franco Cambi5. Paideia è un costrutto che proviene dalla cultura classica (da cui deriverà poi in epoca ottocentesca quello di Bildung) e designa tutto ciò che pertiene all’educazione dell’uomo in quanto uomo, che esercita liberamente il pensiero, esprime creatività nel suo fare e partecipa da cittadino consapevole alla vita della polis, contribuendo alla formazione delle leggi a cui si sottomette decretandone la sovranità6. Paideia esprime quindi la tensione a umanizzare l’uomo, attraverso la conquista di una cultura in grado di rendere possibili le condizioni di un mondo a misura di un disegno condiviso, ritenuto eticamente superiore, di umanità. C’è, nel concetto di paideia, una tensione progettuale orientata axiologicamente. Essa progetta una superiorità etica, un vivere nella società con una consapevolezza maggiore, con una consapevolezza collegata al sogno di un uomo capace di svincolarsi dall’immediatezza del presente e di proiettarsi verso l’ideale costruzione di una società migliore. La pedagogia in quanto scienza ha una responsabilità: tentare di interpretare i valori storici di un’epoca nella loro spinta prospettica, offrendo loro la possibilità di diventare patrimonio delle nuove generazioni, attraverso un progetto educativo, che in tanto può essere implementato in quanto si serve di adeguate metodologie ed opportuni strumenti. Ciò significa – sostiene Cambi – che la pedagogia deve 4

Parliamo di intelligenza digitale nel senso in cui ne parlano A. M. BATTRO e P. J. DENHAM, Verso un’intelligenza digitale, Ledizioni, Milano 2010. Battro e Denham propongono di affiancare alle intelligenze multiple proposte da H. Gardner, quest’ulteriore forma di intelligenza che ha un suo specifico nella possibilità basica di usare la cosiddetta “scelta clic”, che, per dirla con i due autori, è “l’unità elementare di un’euristica binaria” p. 25. Questa possibilità, enormemente ampliata dall’avvento del computer, era già nota agli uomini sin dai loro primordi. Sparare con un archibugio, azionare una balestra, suonare uno strumento a tastiera sono tutti comportamenti che testimoniano l’esistenza di un’intelligenza digitale. D. De Kerckhove sostiene che è preferibile parlare di intelligenza connettiva piuttosto che di intelligenza digitale. Cfr. S. PARISI, Intelligenza connettiva, in A. ABRUZZESE, Lessico della comunicazione, Meltemi, Roma 2003. 5 F. CAMBI, Formazione e comunicazione oggi: un rapporto integrato e dialettico, in F. CAMBI, L. TOSCHI, La comunicazione formativa. Strutture, percorsi, frontiere, Apogeo, Milano 2006, pp. 55-79. 6 Ibidem, p. 57.


rivendicare a sé la prospettiva di “un sapere critico-radicale che si lega al soggetto e ai suoi bisogni, alla trasformazione sociale, a una cultura capace di sottrarsi, per scelta consapevole, al dominio (sociale) e di pensare e volere e prefigurare (sia pure in nuce) nuovi ordini soggettivi, culturali, sociali e anche politici” 7. La tensione verso l’ulteriorità La formazione, dialogando con la società qual è – nel nostro caso è quella del postmoderno – “tempo del pluralismo, della innovazione continua, della plasticità e del nomadismo, perfino dell’erranza e insieme dell’incontro, dello scambio, del dialogo, del métissage”8, si sforza di rendere più udibili certe voci, quelle compatibili con l’utopia di una società capace di soddisfare pienamente i bisogni comunicativi degli uomini, che sono essenzialmente bisogni di relazionalità e di comunità. Quell’utopia che Morin con la sua idea della terra-mondo ha saputo esprimere mirabilmente. Scrive ne Lo spirito del tempo9, che la svolta comunicativa intervenuta grazie a media personali, sembra avere dentro di sé la promessa di un soggetto che sa andare oltre il “buio dei miti dell’individuo privato. Sotto la determinazione individualistica, fusa, mescolata scorgiamo l’attesa e la ricerca millenaria di una maggiore bontà, pietà, amore e libertà nel mondo” 10. “[…] sotto i nostri occhi, e per frammenti, si profila l’abbozzo scimmiesco – il cosmopiteco – di un essere (dotato di maggiore coscienza e amore?) che potrebbe affrontare il divenire e assumere una funzione cosmica” 11. La pedagogia odierna accetta la sfida della postmodernità e rende la formazione disponibile a farsi funzione regolativa di una società che si vuole aperta e pluralista, policentrica e senza un ordine e un senso prestabiliti, ma impegnata continuamente a tentare un ordine ed un senso, collettivamente, attraverso lo strumento del dialogo e della democrazia. Così come pure parallelamente funzione regolativa di un soggetto che vive nell’inquietudine e nella ricerca di un’identità che è aperta nella sua tensione inconclusa alla forma. La formazione scopre la sua profonda vocazione ad orientare i soggetti impegnati a trovare il senso della relazione col mondo e con se stessi. Soggetto e società hanno statuto problematico e aperto, essi ricercano le loro regole di condotta e nel far questo si appellano alla formazione come relazione che aiuta le persone a trovare la loro specifica cifra per stare al mondo e dare il loro attivo contributo a renderlo più a misura dei loro ideali, dentro una cornice etica che fa appello alla reciprocità e al pari diritto che ogni uomo ha di tentare di abitare le cose a modo suo, dando senso pieno alla propria ricerca di senso. La formazione, oggi, che vuole confrontarsi con la società qual è per orientarla secondo le prospettive di una continuità con un ideale di uomo che aspira ad un rapporto attivo e creativo col mondo, che persegue una pienezza di essere, che è vitalità e capacità espansiva delle sue facoltà, non può che essere formazione mediale, cioè formazione ai media, con i media, attraverso i media, ecc. 7

Ibidem. Ibidem, p. 56. 9 Cfr. E. MORIN, Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma 2005. 10 Ibidem, p. 224. 11 Ibidem, p. 225. 8


Deve poter cogliere l’implicita portata etica che i media posseggono. C’è una dimensione positiva che l’avvento dei media personali reca con sé, che può essere colta e valorizzata dalla formazione. Si tratta di una comunicazione che abilita i soggetti, mettendoli in condizioni di parità. Risulta sovvertito il principio gerarchico attorno a cui si era costituita la comunicazione nel passato, che si rifaceva ad un principio di autorità: in famiglia, nella scuola, nei rapporti tra Stato e cittadino. La comunicazione si trovava iscritta in una cultura autoritaria ed era funzionale a ribadire condizioni di asimmetria. La comunicazione oggi considerata eticamente corretta è quella che fa riferimento ad un soggetto “costituito sulla relazione e, quindi, aperto all’alterità, a comprenderla, a interiorizzarla, a disporla come ‘socius’ nell’ego stesso”12. La pedagogia si rende disponibile ad accompagnare il soggetto ad acquisire la comunicazione come veicolo di reciprocità. Compito precipuo della formazione è allora quello di formare il soggetto a gestire eticamente i processi comunicativi, col contesto, con gli altri, con se stesso. Eticamente significa, in buona sostanza: secondo un’idea di riconoscimento dell’altro e ponendosi nelle condizioni di consentire che la comunicazione non si arresti. Si pongono allora dei traguardi impegnativi per la formazione, su molti livelli: a) a livello dell’individuo: consentire l’integrazione dell’io; b) a livello sociale: consentire all’individuo di stare in società perfettamente integrato, il che non significa conformato, ma capace di dare il proprio attivo contributo alla crescita della società; c) a livello delle relazioni interpersonali: riconoscere la diversità e riuscire a rapportarsi con essa, accettandola e riuscendo a coglierne le opportunità che essa offre per la crescita del soggetto; d) a livello istituzionale: riconoscere l’importanza delle istituzioni, cogliere il senso dei propri diritti e dei propri doveri, agendo in tal modo attivamente i rapporti con l’autorità, a scuola, come in famiglia, come al lavoro; e) a livello culturale: riconoscere il lascito culturale delle generazioni passate, identificarsi con la comunità in cui si vive e i suoi valori per riuscire poi ad offrire il proprio contributo di creatività, che innova il passato e rende più articolato e ricco il presente. Abbiamo in tal modo delineato velocemente lo sfondo pedagogico su cui si colloca qualsivoglia riflessione relativa alla didattica multimediale.

Immergersi nell’esperienza per rifletterla La nostra è stata definita come la civiltà delle immagini. Ma in realtà, a badar bene, la definizione non fa giustizia dello smisurato consumo che la società compie di suoni e di musiche. La nostra è una civiltà dell’occhio quanto dell’orecchio, anzi è la civiltà che collega sistematicamente occhio e orecchio, è la civiltà dell’audiovisuale, del multimediale, dei messaggi compositi, che sfruttano la concorrenza di più canali per potenziare la comunicazione. Se le istituzioni educative pensano di dover offrire agli utenti strumenti per sviluppare l’intelligenza cognitiva e contestualmente emotiva, allora l’educazione al suono e alla musica, come l’educazione all’immagine, un tempo discipline neglette nell’ambito della scuola dello scrivere, leggere e far di conto, non possono 12

F. CAMBI, op. cit., p. 63.


non avere un ruolo centrale in una scuola che si vuole in dialogo con il mondo, divenuto ormai, in virtù dei media, ricco di esperienze, sensorialmente ed emotivamente stimolanti, in cui la scrittura convive con i suoni e le immagini. Laddove vi è la convergenza di messaggi che si sviluppano su diversi piani, inevitabilmente la cognitività è pregna di elementi emotivi, la dimensione metaforica dell’esprimersi è potenziata. Il pensiero non può che essere pensiero emozionato e l’apprendimento non può che essere apprendimento per immersione… e la didattica, di necessità didattica multimediale. Suoni e immagini, in ragione del potere di coinvolgimento del corpo che posseggono, mettono in questione i modi tradizionali della formazione. Roberto Maragliano ha parlato di “inquietudine pedagogica” a cui i nuovi linguaggi danno luogo. Le ragioni di questa inquietudine prima facie possono essere individuate nel diverso atteggiamento che scuola e media hanno nei confronti dell’esperienza 13. La scuola assume l’esperienza conoscitiva, affettiva e sociale come qualcosa di fissabile, delimitabile, analizzabile, scomponibile, i media assumono l’esperienza come qualcosa di mobile, aperto, includente e globalizzante, sulla base di un modello che potremmo senz’altro definire acustico. Il suono infatti è mobile, aperto, includente e globalizzante. Quindi qualsiasi esperienza, si dia come immagine, si dia come scrittura (il riferimento è al caso delle e-mail e delle chat), che abbia queste caratteristiche può dirsi incardinata nella matrice del suono. L’esperienza sonora si accompagna sempre a una condotta immersiva, quando si partecipa a un evento sonoro, tutto risuona: noi con-soniamo col contesto, siamo dentro la realtà che stiamo vivendo. Ogni esperienza sonora è un prender parte a qualcosa, per questo l’esperienza sonora è un rituale di interazione. Ciò inquieta la pedagogia. La lettura e la scrittura consentono una prospettiva frontale, l’ascolto immerge in un ambiente che si prospetta in termini che sarebbe giusto definire di realtà virtuale. Ma fare esperienza, si è sempre detto, non è propriamente conoscere. La conoscenza è fatta di “filtri, fatica, complessità, meditazione”, la lettura e la scrittura, opportunamente orientate dall’istituzione scolastica, offrono questi filtri, insegnano a porre nessi, con cui si costruiscono quadri concettuali via via più complessi. Ora, i giovani che fanno esperienza coi suoni, con le immagini, con le parole, che praticano il dilettantismo digitale ci danno un’indicazione su cosa sia per loro propriamente pensare: sono interessati ai loro moti interni, non concedono troppo spazio alle mediazioni interpretative, si occupano in giochi che consentono di praticare l’immaginario, quel terzo spazio “che sta tra mondo esteriore e mondo interiore, dove le matrici della scrittura e del suono operano assieme, dove trionfa l’ibrido”14. Coi suoni, le immagini, le parole i nostri giovani giocano il mondo, costruiscono mondi, ed ogni mondo che essi costruiscono è un vero e proprio ambiente di apprendimento: così imparano non solo a praticare l’addomesticamento dei media, ma anche l’addomesticamento della realtà e delle loro emozioni. Si prospetta una sfida per la pedagogia: mettere in discussione “il verbocentrismo delle pratiche educative correnti”15, aprendo nel contempo la scena educativa 13

R. MARAGLIANO, Parlare le immagini. Punti di vista, Apogeo, Milano 2008. Ibidem, p. 25. 15 Ibidem, p. 35. 14


all’ingresso di tutto quanto “è corpo, tatto, azione”, “moto d’animo, sensazione, affetto”16. Si tratta di abitare, vivere i suoni e “parlare le immagini”. Entrare, cioè, in una dimensione fabbrile, da bricolage elettronico che “nessun attrezzo del pensiero analitico, per fine che sia, potrà mai esprimere compiutamente” 17, nonché assumere una disponibilità all’ascolto, in modo che la dimensione produttiva e quella ricettiva si trovino in equilibrio: si tratta di acquisire delle competenze qualificabili come management dell’ascolto, indispensabile nella società della ipercomunicazione, che proprio perciò è a rischio di produrre molto rumore, in cui il soggetto può sprofondare in una sorta di acusia psicologica. Come dice De Kerckhove, il miglior modo di trattare le psicotecnologie è di non avvertirle come estranee e minacciose, ma di farle diventare parte integrante della nostra psicologia individuale: “un nuovo umano si sta formando” 18. La pedagogia di cui abbisogniamo è quella che riesce a farci percepire nei suoni e nelle immagini il substrato senso-motorio su cui si innesta poi il linguaggio, con la sua “capacità di ‘chiamare’ e classificare, di ‘dire’” 19. La pedagogia che conosce e valorizza le enormi risorse del pensiero analogico, al fine di tenere assieme la dimensione emotiva e quella astratto-razionale, immergersi nella realtà, produrre pensiero emozionato e reimmergersi nell’esperienza, per arricchirla creativamente. Nell’era dei media elettronici tutti siamo costretti in qualche modo a diventare artisti, giocando “sugli innumerevoli tavoli della traduzione, della parodia, della trasformazione, della composizione”20. La speranza è che con ciò si possa contribuire ad costruire una società in cui, come ci suggerisce Richard Rorty, i cittadini sappiano esercitare la tolleranza, la solidarietà, l’ironia, competenze indispensabili per consentire un percorso di autoformazione, di edificazione21. Una società che ha anche trovato il vaccino per immunizzarsi dal consumo, non più demonizzato, ma assunto come luogo che, ove agito strategicamente, consente percorsi di soggettivazione. Sviluppare l’immaginazione Proprio seguendo Rorty, possiamo ricavare alcuni criteri per la didattica multimediale. Innanzitutto l’opportunità di concepire il bricolage che può svilupparsi nell’universo della multimedialità come un’occasione per stimolare e coltivare l’immaginazione. Nell’accezione rortyana, l’immaginazione è l’attitudine a reinventare le pratiche sociali correnti. A lui non interessa tanto l’immaginazione

16

Ibidem, p. 37. Ibidem. 18 D. DE KERCKHOVE, La pelle della cultura. Un’indagine sulla nuova realtà elettronica, Costa & Nolan, Milano 2000, p. 228. 19 R, MARAGLIANO, op. cit., p. 66. 20 Ibidem, p. 179. 21 Cfr. R. RORTY, La filosofia dopo la filosofia: contingenza, ironia e solidarietà , Laterza, Bari-Roma 1989. 17


come la “facoltà di produrre immagini visive o uditive, ma come l’abilità di cambiare le pratiche sociali proponendo nuovi e vantaggiosi usi di segni e suoni” 22. L’immaginazione, a differenza della fantasia, spera, dopo aver introdotto una qualsivoglia novità, che la novità “venga adottata da altre persone, incorporata nel loro modo di fare le cose”23. “Chiamiamo stolti o addirittura folli coloro le cui novità non riusciamo ad utilizzare. Acclamiamo geni quelli che ci hanno colpito per l’utilità delle loro idee”24. Queste idee ci hanno consegnato una conoscenza accresciuta del mondo. La locuzione “conoscenza accresciuta” non deve far pensare ad un accresciuto accesso al Reale, ma ad una “accresciuta abilità nel fare cose, partecipare a pratiche sociali che rendano possibili vite umane più ricche e più piene. Questa ricchezza accresciuta non è l’effetto di una attrazione magnetica esercitata sulla mente umana dal realmente reale, né dell’abilità della ragione di penetrare il velo dell’apparenza. è una relazione fra presente umano e passato umano, non una relazione fra l’umano e il non-umano”25. Con ciò siamo alla natura eminentemente sociale dell’immaginazione odierna, la quale si apre a forme di interazione per la creazione di narrazioni che nascono da forme di intelligenza connettiva, per usare un’indovinata espressione di Derrick De Kerckhove26. 22

Cfr. R. RORTY, Pensieri romantici. Perché la ragione deve seguire i sentieri dell'immaginazione, “La Repubblica”, 04.09.2005, pp.36-37; p. 37. 23 Ibidem. 24 Ibidem. 25 Ibidem. 26 In un’intervista del 1998, Derrick de Kerckhove ricostruisce come storicamente sia nata l’espressione “intelligenza connettiva”. Pierre Lévy aveva fatto uscire il suo Intelligenza collettiva. Cfr. P. LÉVY, Intelligenza collettiva. Per un’antropologia del cyberspazio, Feltrinelli, Milano 2002. In una prima fase, dice de Kerckhove, anch’io usavo questa espressione. Ma poi, “un artista australiano” mi disse che io non esprimevo l'idea di una intelligenza collettiva, perché facevo riferimento, nelle mie riflessioni, ad un sistema di connessione aperta. Non si trattava di riferirsi ad un contenitore chiuso, ma ad una connessione da persona a persona all'interno di una rete molto specifica. Questa connessione con la sua specificità che non sta nel contenitore collettivo di un sapere, di una conoscenza, di uno scambio, mi suggerì di chiamarla "connettiva". L'ho ringraziato perché mi ha reso un grande servizio. Ora posso dire il suo nome: Ross Harly. Ha creato per me questo concetto d'intelligenza connettiva e non ho l'intenzione di monopolizzare né l'invenzione né nient'altro. Questo concetto è formidabile per capire questi processi che la tecnologia digitale ha apportato, e mi ha permesso di scoprire l'intelligenza, o, meglio, l'inconscio connettivo ricco di possibilità. Continuo a prendere ispirazione dal lavoro di Lévy e cerco di coinvolgerlo alla pratica diretta tramite l'intelligenza connettiva. Devo aggiungere che il concetto di intelligenza collettiva è così importante e fondamentale che merita di essere diviso in ulteriori zone d'esplorazione. Questo non elimina la possibilità di una ricerca parallela o interna all'interno di essa. Considero l'intelligenza connettiva in quanto una delle forme dell'organizzazione all'interno dell'intelligenza collettiva. Come Freud aveva trovato molto più interessante l'inconscio privato mentre Hume si era indirizzato verso l'inconscio collettivo, io mi trovo più interessato, per il mio lavoro, nell'esplorare sul campo, con le persone, in tempo reale. Preferisco la pratica dell'intelligenza collettiva nella sua rete specifica che chiamo intelligenza connettiva, piuttosto che lasciare semplicemente il concetto svilupparsi da solo senza sperimentazione. Amo lavorare con le mani. C'è un altro aspetto che mi appassiona. Una vecchia battuta di


Non è possibile concepire la multimedialità senza cogliere la portata della interattività, la quale consente che i percorsi attraverso cui oggi si struttura l’identità siano ben differenti rispetto a quelli del passato e comunque strettamente connessi ai processi sociali attraverso cui odiernamente si crea e si consuma cultura27. Nelle attuali società, altamente differenziate, gli individui si trovano a confrontarsi con una pluralità di contesti di socializzazione e di azione. Ne deriva la possibilità di una socializzazione con marcate caratteristiche individuali. Si osserva una “pluralità disposizionale” quale risultato della pluralità dei principi e dei quadri di socializzazione. Quanto maturato in un contesto non è facilmente trasferibile in un altro. È il fenomeno della cosiddetta specificità di dominio, di cui tratta la teoria modulare della mente di Fodor, già intuita sul finire degli anni sessanta del secolo scorso dall’effetto doppio fondo segnalato da Poeggeler 28, il quale ricavava, peraltro, importanti conseguenze sul piano della criteriologia didattica, che individuava nella relazione apprendimento informale vs apprendimento formale lo snodo per un incrementare l’efficacia dell’azione di insegnamento/apprendimento. I vincoli al transfer comportano che l’individuo si trova ad agire facendo riferimento ad una sorta di politeismo di criteri di azioni. Altra conseguenza è che Molière in “Les femmes savantes” recita in questo modo: “Un gentiluomo è qualcuno che sa tutto senza avere imparato niente”. Penso che con Internet, con il Web e con l'accesso che abbiamo a questa intelligenza collettiva, a questa base cognitiva, siamo tutti dei gentiluomini. Possiamo avere accesso a tutto senza avere imparato mai niente. Ciò è divertente, fa parte del piacere di appartenere della nostra epoca, di essere legati a questa formidabile memoria collettiva”. Il brano riportato può leggersi sul sito “Mediamente” della Rai, nella intervista doppia a Derrick De Kerckhove Pierre Levy, realizzata il 27 marzo 1998, dal titolo: “Due filosofi a confronto. Intelligenza collettiva e intelligenza connettiva: alcune riflessioni”, reperibile all’indirizzo: <www.mediamente.rai.it/home/bibliote/intervis/d/dekerc05.htm>. [Ricerca effettuata il 5.4.2011]. 27 Cfr. B. LAHIRE , La culture des individus. Dissonances culturelles et distinction de soi, , La Decouverte, Paris 2004. 28 La teoria del doppio fondo, riconducibile a F. Poeggeler (cfr. F. POEGGELER, La teoria educativa della scuola, in AA.VV., Il processo dell'apprendimento, La Scuola Brescia, 1973, pp. 185 e ss) si chiede come può succedere che alcune competenze che un soggetto manifesta in contesti ordinari di vita non vengano messe a frutto passando in situazioni più strutturate, ma anche viceversa? Ossia: come può succedere che le competenze acquisite in un contesto d'apprendimento formale non vengano utilizzate nei contesti ordinari di vita? Come esiste il caso dello scugnizzo napoletano che vendendo le sue cianfrusaglie fa addizioni, sottrazioni, divisioni, consegnando il giusto resto quando concretizzi la sua piccola negoziazione economica, mentre a scuola si dimostra completamente interdetto allo studio matematico, così pure esiste il caso del fisico laureato che non mette affatto a frutto le sue conoscenze di fisica, che pure gli tornerebbero preziose, nella soluzione della gran parte dei problemi della vita quotidiana, in cui adotta strategie identiche a quelle delle persone ben meno competenti di lui in leggi fisiche. A fronte di queste constatazioni, da un punto di vista metodologico didattico, la questione è: rinvenire tecniche idonee a “determinare frequenti scambi fra questi due livelli, una sorta di interconnessione che consenta la massima valorizzazione (e quasi un effetto trainante) degli apprendimenti più efficace”(N. PAPARELLA, L'effetto doppio fondo e il transfert operativo nella formazione degli adulti a bassi livelli di scolarità, in E. BARDULLA, N. PAPARELLA (a cura di), La ricerca didattica nei contesti formali, non formali, informali, Monolite, Roma 2005, pp. 1932; p. 23).


gli individui esibiscono una grande variabilità di comportamenti di pratiche individuale a seconda del dominio di pratiche “abitato”, dei momenti della vita che il soggetto sta attraversando, del sistema di relazioni in cui è inserito. La variabilità dei comportamenti incide anche a livello di gruppo. La frequentazione di diversi contesti offre al soggetto i materiali per interpretare con personali connotati i valori e i comportamenti del gruppo. (Ciò evidentemente fa i conti con quanto sfugge ai vincoli al transfer sopra richiamati: in una certa misura l’individuo, in quanto soggettività riflessiva, è in condizione di contaminare i contesti, ricavando lo spazio per perseguire un autonomo processo di soggettivazione). Per definire questi due fenomeni (quello di variabilità individuale e quello di personalizzazione della relazione all’interno dei gruppi), Lahire ha usato il costrutto di dissonanza, che sta quindi tanto a significare le “variazioni intraindividuali dei comportamenti culturali” quanto “la lontananza dei comportamenti individuali dal comportamento modale del gruppo”. Questa dissonanza va interpretata come risultato della concorrenza delle influenze culturali, che si accompagna ad un contestuale indebolimento della credenza nella legittimità della cultura alta, che un tempo era indiscutibilmente la cultura egemone, orientando giudizi e scelte, gerarchizzando comportamenti e soggetti. Lahire tuttavia non crede che ciò significhi l’affermarsi di un’equivalenza sostanziale di tutti i valori e di tutte le pratiche. Esiste ancora l’idea di una gerarchia tra le diverse forme di cultura, solo che questa gerarchia non è più così universalmente condivisa come un tempo. Quando gli individui compiono le loro scelte culturali, lo fanno non per una pura “scelta estetica” o perseguendo “uno stile culturale eclettico rivendicato come tale, una ‘ibridazione’ o un métissage intenzionale e consapevole (secondo il modello del consumo onnivoro delle élites culturali proposto da Richard Peterson, dal quale Lahire prende le distanze)” 29. Da un punto di vista soggettivo, lo spazio culturale non è percepito come uno spazio di registri culturali dal valore equivalente, esso, al contrario, appare gerarchizzato. I sistemi di classificazione, tuttavia, non sono univoci, esiste “una pluralità di ordini di legittimità culturale per lo più a diffusione (o validità) ‘regionale’ come conseguenza della differenziazione della società contemporanea”30. “La partecipazione di uno stesso individuo a più mercati locali di legittimità” 31 rende semplicemente più articolato il gioco, in quanto gli mette a disposizione una certa ricchezza di materiali attraverso cui disegnare una propria gerarchia della legittimità culturale. Quando egli attraversa i diversi contesti, manifesta dissonanza proprio in quanto impegnato in un proprio specifico disegno di distinzione, ossia “di differenziazione attraverso cui potersi sentire diverso dagli – e migliore degli – altri”32, sì da sentirsi giustificato di esistere per come esiste. Un processo che potremmo chiamare anche di edificazione, per usare la terminologia cara a Rorty. La variabilità individuale relativamente ai consumi culturali viene attribuita a una serie di fattori: 29

P. RAVAIOLI, Che cosa vuol dire consumare cultura, “Rassegna Italiana di Sociologia”, nº 3, luglio-settembre 2005, pp. 535-544; p. 537. 30 Ibidem, p. 538. 31 Ibidem. 32 Ibidem.


a) la mobilità sociale; b) le influenze dei contesti relazionali (familiare, amicale, professionale, scolastico, ecc.); c) la penetrazione nelle case dei media audiovisivi di tipo personale che, “privatizzando e rendendo gratuito e immediato il consumo culturale” 33, ha consentito per un verso l’accesso generalizzato a prodotti culturali legittimi e per altro verso di poter consumare, senza dover provare vergogna, prodotti culturali poco legittimi. Questa prossimità coi prodotti culturali poco legittimi ha contribuito ai pubblici più inclini ai consumi legittimi un rilassamento dei rapporti con i prodotti culturali, a prescindere dal loro grado di legittimità; d) lo spostamento di legittimità dalla cultura letteraria ed artistica a campi culturali di tipo scientifico e tecnico, burocratico-politico, economico-commerciale, giuridico. Inevitabilmente questi fruitori avranno una cultura omogenea rispetto a ciò che più propriamente riguarda il loro stretto ambito di interesse, invece rispetto alle altre scelte manifestano una grande variabilità. Così “diventa sempre più comune incontrare giovani inseriti in o usciti da percorsi di istruzione altamente prestigiosi che in domini culturali della cultura generale (pratiche di lettura e di ascolto di musica, uscite o visite culturali) hanno gusti e consumi mediamente o anche poco legittimi”34. Da qui l’importanza che assumono le comunità di pratiche che si costituiscono nella Rete. Attraverso esse si costruisce la possibilità che il soggetto si inserisca in spazi relazionali scelti in funzione della loro capacità di contribuire ai processi di soggettivazione, che sono veri e propri percorsi narrativi. Narrazioni digitali La nostra individualità non è un puro e semplice accumulo di esperienze, ma è un certo modo di tenerle assieme, di dar loro significato, ad alcune assegniamo valore particolare, altre le trascuriamo e le destiniamo all’oblio. E quando qualcosa di nuovo accade nella nostra vita, noi raccordiamo questo alla trama narrativa che fino a quel momento abbiamo costruito, sicché può ben dirsi che noi siamo un tutt’uno con le metafore attraverso cui ci raccontiamo e raccontiamo la nostra relazione col mondo, con gli altri. Riuscire a cambiare è riuscire a raccontarsi in un modo nuovo, vedere la nostra storia come quella d’un altro, intervenire su di essa per riscriverla. Chi riesce a raccontarsi in un altro modo ha conquistato uno sguardo meta, si è cioè liberato in qualche misura dalla consuetudine del suo quotidiano racconto, ha assunto la capacità di vedersi come altro da sé e quindi ha conquistato gli strumenti per poter sviluppare il suo io. Non possiamo operare nella semplicità di una logica lineare, ma viviamo mantenendoci in un universo emotivo di coinvolgimento complessivo, noi siamo il prodotto, relazione di parti, della complessità operativa a cui apparteniamo, ogni parte di noi vive della relazione che mantiene con le altre parti, non ci manifestiamo come oggetti separati, bensì come relazioni, la nostra vita coincide con le nostre relazioni, le nostre esperienze manifestano un mondo di relazioni significative tra le 33 34

Ibidem, p. 541. Ibidem, p. 547.


infinite possibili a cui potremmo far riferimento. Il filosofo Daniel Dennett ha usato una bella analogia, secondo la quale il cervello «tesserebbe» storie sulla nostra identità come il ragno tesse la sua tela senza essere cosciente di farlo o senza farlo deliberatamente: l’io e la coscienza che ne abbiamo non sono la causa, ma il prodotto delle storie elaborate dalla nostra mente, le nostre esperienze mentali, qualunque esse siano o possano essere, determinano il mondo così come lo esperiamo rimanendone profondamente influenzate. Questo punto di vista appare complesso, ma ognuno di noi, nel sogno, anche durante lo stato di veglia, è preda di storie elaborate dal cervello al di fuori della nostra coscienza, storie che possono essere popolate dagli stessi personaggi ma riguardare trame ed esiti infiniti, storie che lasciano una traccia nella nostra psiche. Le storie di ogni singolo individuo, non sono poi tanto diverse dalle storie «mitiche», anche in culture differenti si raccontano storie e miti che danno un senso alla nostra vita: storie di dei, di incesti e parricidi, di amori, di vita e di morte. Senza quest’attività fantastico onirica, di fabbricazione dei miti, non esistono culture che si caratterizzino con una propria identità collettiva, come non esistono individui dotati di un sé individuale, di una coscienza della propria esistenza senza che questi posseggano una loro modalità descrittiva, una loro narrazione35.

Da qui la necessità di imparare a misurarsi con il potere delle immagini. Le immagini costituiscono una delle questioni chiave della cultura occidentale. A partire dalle immagini e attorno alle immagini si sono sviluppate pratiche e teorie le più varie36. Tuttavia procedendo con brutale semplificazione potremmo dire che esistono fondamentalmente due approcci al mondo delle immagini: a) l’approccio logico secondo il quale è possibile “arrivare a catturare il significato dell’immagine. La sua ambizione è di mettere a punto una sorta di grammatica” 37, in base alla quale è possibile sempre rivelare ciò che l’immagine intende dire. Salvo dover constatare che l’immagine intende dire molto di più di quello che noi riusciamo a fargli dire. Constatando che “l’immagine sfugge ad ogni cattura” 38, si finisce col temerla arrivando financo a combatterla, “per esempio accusandola di non essere ‘realtà’ ma copia, immagine – appunto – di realtà: quindi falsità, illusione, tradimento. Pericolo”39. b) l’approccio psicologico, il quale si propone intenti prima pratici e secondariamente conoscitivi. “Che me ne faccio dell’immagine, che cosa le immagini fanno di me, e, soprattutto, come le immagini operano dentro di me? Sono questi i problemi che ci si pone” 40. “In pratica non si crede in una realtà che prescinda dalle immagini. Le immagini sono realtà, sono elementi (fondamentali) attraverso i quali noi costruiamo e usiamo realtà” 41. Così considerate esse implicano la totalità del soggetto, sensoriale, psichico e sociale. Da questa prospettiva l’immagine condivide i destini del suono, come vedremo tra poco sviluppando il nostro ragionamento. È infatti il suono ad essere mobile e 35

Teoria dell’osservatore, sul sito della Scuola di ipnosi costruttivista, all’indirizzo <www. ipnosicostruttivista.it/materiali/articoli/teorietecniche/teoriaosservatore/teoriaosservatore.ht ml> [ricerca effettuata il 10.04.2011]. 36 Cfr. D. FREEDBERG, Il potere delle immagini, Einaudi, Torino 2009. 37 Cfr. R. MARAGLIANO, op. cit., p. VIII. 38 Ibidem. 39 Ibidem. 40 Ibidem. 41 Ibidem.


includente. L’immagine-musica non è propriamente l’immagine fissa, ma quella in movimento, quella che si dispiega nel tempo. Diversamente che per l’immagine fissa, l’immagine in movimento favorisce una condotta immersiva, non dissimile da quella di un ascolto partecipante, dove tutto risuona, oggetto, soggetto e contesto: lì fruire dell’immagine significa starci, esserci dentro, e, perdendosi il distacco che è prerogativa del leggere, ciò equivale a sostenere che il soggetto entra in consonanza (o dissonanza) con l’oggetto, prende parte ad esso, anzi ne è parte42.

La pedagogia è a suo agio con l’immagine fissa, è perturbata da quella in movimento. L’immagine fissa ha confini ben definiti, ha un suo ordine interno e quindi “sollecita una condotta astrattiva nell’utente, non dissimile dalla condotta attivata dalla pratica di lettura”. Di fronte ad un immagine in movimento, “il soggetto è assorbito, incluso ‘assoggettato’ dall’immagine che lo fa suo” 43. Da qui scatta una sorta di moralismo iconofobico. Secondo le asserzioni di questo moralismo iconofobico la cultura delle immagini è causa di imbarbarimento culturale perché porta a richiedere “un rapporto conoscitivo diretto, facile, immediato con le cose e le loro rappresentazioni” 44, mentre ignora “quella nobile relazione con il mondo intessuta di filtri, fatica, complessita, meditazione quale garantisce (garantiva!) solo l’assidua ed esclusiva consuetudine con la lingua in particolare quella scritta”45. I moralisti delle immagini temono il movimento, “non tanto e non solo in senso fisico quanto in senso psicologico”. Essi hanno in sospetto i “moti interni del soggetto” in corrispondenza con le immagini 46. “Le immagini inquietano perché sono aperte e dirette, perché lasciano poco spazio e tempo alle mediazioni interpretative: questo è quanto sostengono i critici”47. Le immagini inquietano perché mettono in scena la molteplicità/complessità dei giochi che si attuano nell’intendere e praticare quel terzo spazio (l’immaginario) che sta tra mondo esteriore e mondo interiore, dove le matrici della scrittura e del suono operano assieme, dove trionfa l’ibrido: questo è quanto sostengo io. Alludendo con ciò a tutte le immagini. Che sono in movimento, e smuovono e fanno movimento anche quando sono fisse. Che illustrano il mondo, anzi i mondi, nel senso che ci danno modo di costruirli, di costruirceli48.

Si prospetta una sfida per la pedagogia: “riconoscere l’impossibilità di scotomizzare o esorcizzare gli elementi che turbano, dell’immagine e nell’immagine”49. Riuscire a lavorare, elaborare, sviluppare “l’immagine cattiva, quella che ti prende e dalla quale ti fai prendere” 50. Che poi significa trovare un 42

Ibidem, p. 22. Ibidem. 44 Ibidem, p. 23. 45 Ibidem, p. 24. 46 Ibidem. 47 Ibidem, p. 25. 48 Ibidem. 49 Ibidem, p. 34. 50 Ibidem, p. 35. 43


rapporto con quel mondo dei media che accettano e cavalcano il prorompere aggressivo dell’immagine, senza preoccuparsi di salvaguardare un’istanza di interpretazione critica e di distanziamento. Detto in altri termini, la pedagogia deve tentare “un approccio interpretativo che, nel coinvolgere anche gli aspetti interiori dell’agire umano e dunque nell’individuare e ‘riscattare’ il lato oscuro e inquietante che è di tutte le immagini, fornisca le basi per la costruzione di una pedagogia altra: la pedagogia del “di dentro delle immagini” 51. Ciò significa aprire la scena educativa all’ingresso di tutto quanto “è corpo, tatto, azione”, “moto d’animo, sensazione, affetto” 52. Si tratta di abitare, vivere le immagini. Una pedagogia adeguata dell’immagine-suono si mostra in grado di avvertire l’immagine come “una forma embrionale di pensiero, un grumo di pre-pensiero, un sostrato di intelligenza senso-motoria, il tronco su cui si innesta il linguaggio e di conseguenza si determina nel soggetto, la capacità di ‘chiamare’ e classificare, di “dire”53. In questa pedagogia è possibile riflettere le immagini, ma in un modo differente da come avveniva nella pedagogia tradizionale, ove riflettere un’immagine significa accedere a forme di concettualizzazione astratta, trasformarle in oggetti di pensiero; qui, in questa pedagogia che accetta la sfida della società delle immagini, la riflessione è giocata “sul fatto che il soggetto si riflette nella cosa-immagine, così come potrebbe avvenirgli se si servisse di un anomale (e non tranquillizzante) specchio attivo, che guardando si vede guardato, e dove insomma egli si rispecchia”54. Confrontando le immagini interne con quelle esterne, il soggetto si sintonizza con gli altri, rinvenendo una possibilità di comunicazione che si sostanzia nel portar fuori il dentro dei soggetti e nell’introiettare il fuori per assimilarlo. Non si riflette sulle immagini, si riflette con le immagini. Bisogna diventare capaci di compiere “un lavoro di rigenerazione delle immagini che sia garantito dalla scelta di ricorre al raccontare e al raccontarsi, esperienze cruciali per la crescita della propria e dell’altrui immagine” 55. Dionisismo pedagogico Lo stesso discorso lo si può fare andando a scandagliare la musica. Se la civiltà occidentale è sorta sulla visibilità, il razionalismo ha poggiato le sue chances sul geometrismo verificabile dall’occhio, la musica ha sempre rappresentato la dimensione oscura dell’essere, ciò che non si lascia ingabbiare nelle griglie matematizzanti della ragione. Del linguaggio la musica è la dimensione sensibile, della coscienza l’inconscio. La musica storicamente nella nostra civiltà mostra sempre di stare dalla parte del periferico, dell’emozionale. Uno studio della musica consente allora di disegnare una storia segreta della cultura, in quanto va ad intercettare inevitabilmente i meccanismi attraverso cui le 51

Ibidem. Ibidem, p. 37. 53 Ibidem, p. 66. 54 Ibidem, p. 154. 55 Ibidem, p. 179. 52


comunità umane sfuggono ai dispositivi di dominio e razionalizzazione della esistenza messi in atto al livello di controllo delle stesse. Giungendo ai nostri giorni, trovandosi di fronte al fenomeno della musica registrata, lo studioso, consapevole di questo statuto fenomenologico del suono, vorrà comprendere perché noi abbiamo deciso di lasciare pervadere i nostri spazi ed il nostro tempo dai suoni. A cosa rimanda questo bisogno così manifesto di galleggiare nei suoni? La nostra era – ha suggerito McLuhan – è paragonabile ad una musica e la musica stessa non può venire distinta da un ambiente sintetico e tecnologico. Il nostro tempo è attraversato da un flusso sonoro pressoché ininterrotto, flusso molteplice, vario, surreale, in cui babelicamente si mescola di tutto, proveniente da tutte le parti, provocando caotiche inferenze di gusto e di stile. La radio, che trasmette senza soluzione di continuità è la metafora più piena del mondo come spazio sonoro multiforme. Per tutto l’Ottocento e per i prima trenta-quarant’anni del secolo ventesimo si esaltava la possibilità di una percezione in termini squisitamente musicali del brano; la stessa pedagogia musicale insisteva sulla necessità di una comprensione dei meccanismi interni della musica; successivamente l’esperienza musicale è apparsa sempre più strettamente connessa con le esperienze extra-musicali che in un modo o nell’altro l’accompagnano. L’ascoltatore oggi tende a vedere la musica non come a sé stante, ma connessa, con il movimento del corpo, con le parole, con le immagini, vive sempre, la musica, in una definita situazione sociale, che di essa finisce per costituire la sostanza stessa. Per l’ascoltatore del passato fare/ascoltare musica significava mettere fra parentesi il vissuto quotidiano ed accedere ad un altro livello di esperienza, per l’ascoltatore odierno fare/ascoltare musica significa (attraverso un privilegiamento della dimensione metonimica) fare un’esperienza contigua al vissuto quotidiano, il che rimanda a quella percezione distratta di cui parlava Benjamin, con geniale precognizione a proposito dei prodotti della cultura di massa. La nota dominante dell’era attuale, quindi, è l’estensione della musica, un tempo arte temporale per eccellenza, all’universo spaziale. Tale processo è osservabile non solo a livello fruitivo – in cui gadgets per l’ascolto personale sono ormai alla portata di tutti – ma anche creativo, laddove, ad esempio, la sonorizzazione dell’ambiente pretende di assurgere a genere compositivo dotato d’una propria dignità ed autonomia. La musica come esperienza globale (non ristretta alla sfera intellettuale) emerge – con connotazioni culturali differenti, evidentemente – come problematica nei musicisti contemporanei e nell’universo della cultura di massa, qui viene vissuta da un’utenza che la annovera tra le più diffuse pratiche “indifferenti” e “distratte”. Il profluvio di suoni che i media ci riversano addosso rischia di indurre una sorta di insensibilità alle differenze; questa babele rischia di farci sembrare che ogni cosa sia scambiabile con qualsiasi altra. A questo pericolo allude un recente articolo di N. Saval56, del quale riportiamo l’attacco: Un qualunque iPod da 60 gigabyte custodisce cinquanta giorni di musica. Qualcuno di voi ha mai ascoltato, anche una sola volta, tutta la musica che ha? 56

Cfr. N. SAVAL, Il muro del suono, che il lettore italiano può leggere su “L’Internazionale” n. 894 del 22 marzo 2011, anche in internet all’indirizzo www.internazionale.it/il-muro-del-suono/> (ricerca del 25.04.2011).


Due anni fa, in piena crisi finanziaria, il sociologo urbano Sudhir Venkatesh si chiedeva sul New York Times perché non fossero scoppiate delle rivolte di massa contro le banche. Dov’erano i forconi? E soprattutto dov’erano le folle? La risposta, secondo Venkatesh, era l’iPod: “Negli spazi pubblici serve un’interazione che crei la ‘mentalità di gruppo’. La maggior parte degli apparecchi come l’iPod tiene i cittadini separati gli uni dagli altri. Non puoi unirti a un movimento se non senti quello che dicono i partecipanti. Complimenti a mister Jobs per aver ostacolato i cambiamenti sociali”. Era una battuta a effetto, ma non solo: qualcuno di sinistra – quasi – ci stava ricordando quanto le tecnologie di registrazione abbiano cambiato la vita urbana. Il timore che la musica registrata favorisca l’isolamento non è nuovo. Prima dell’invenzione del disco e del grammofono, nel 1887, l’unica forma di ascolto era sociale. La cosa che più si avvicinava a un’esperienza musicale privata era suonare uno strumento da soli o leggere uno spartito. Qualcuno poteva frequentare le sale da concerto: un’esperienza resa perfettamente da Edith Wharton nella scena iniziale di L’età dell’innocenza, pubblicato nel 1920, quando quel rito stava passando di moda. Con la riproduzione meccanica nacque la possibilità, fin lì inconcepibile, dell’ascolto solitario della musica polistrumentale 57.

Può significare una sorta di autismo, ma può però anche costituire lo stimolo per un approfondimento delle differenze e per l’uso delle differenze come mattoni per la costruzione della propria identità, secondo un modello maturo del consumare cultura. Certo, senza una adeguata pedagogia, che fornisca modelli d’intervento per condurre una formazione miratamente orientata a sviluppare nei soggetti l’attitudine strategica alla frequentazione dei media, è difficile che le differenze parlino al nostro orecchio; più probabile è il disorientamento, l’acusia, l’insensibilità, la superficialità. Per evitare le insidie e riuscire quindi a profittare positivamente della molteplicità messa a portata di mano dai media bisognerebbe acquisire un atteggiamento d’ascolto insieme decentrato ed attento, bisogna acquisire le competenze per realizzare un management dell’ascolto. Prima l’ascolto era monocentrico ed egocentrico, in quanto favoriva una appropriazione totalizzante del tempo, quasi si potesse controllare il divenire, mediante la sua proiezione orientata, oggi ci si rende conto che un ascolto è possibile solo a condizione che si abbandoni ogni aspirazione a rigidamente orientarlo. Per poter continuare ad ascoltare dobbiamo inventare delle strategie di ripiegamento. I media spingono a trattare le informazioni in modo non lineare. E questo è particolarmente evidente con le nuove generazioni, meno compromesse con la logica tradizionale della scrittura. I nostri ragazzi oggi possono fare i compiti, guardare la tv, ascoltare la radio, parlare al telefono, tutto nello stesso tempo. Ciò perché essi ritengono l’informazione non in senso logico sequenziale, ma in una sorta di cluster. Il sistema dei media li ha assuefatti ad una trasgressione sistematica dei meccanismi causa-effetto e della continuità spazio-temporale, abituandoli al meccanismo della incorporazione casuale delle informazioni nell’ambito di un sistema ad alto tasso di entropia. Di fronte a questa situazione non ha senso giocare in termini puramente difensivistici. Si tratta di sviluppare le strategie cognitive idonee alla nuova situazione, cogliere le opportunità che essa eventualmente è in grado di offrire.

57

Ibidem.


Accettare, in altri termini, la sfida posta da un sistema informativo che è sempre più – nel suo complesso – musica, di una musica che è sempre più ambiente. Si tratta allora di compiere il grande “salto”: dall’ascolto applicato all’ascolto decentrato, dall’ascolto tonale all’ascolto pantonale. L’ascoltatore si emancipa dalla Legge che prescrive l’ascolto diretto, univoco, e si apre alla polisemia a cui in qualche modo questa ricchezza incontenibile di informazioni allude. I media hanno reso obsoleti sia i consueti modi di pensare alla musica, che i tradizionali rituali attraverso cui si instaurava un rapporto con la musica. La musica, a causa dei media, non ha bisogno più del rituale della sala da concerto per offrirsi all’ascolto; il suo ascolto può svolgersi dappertutto ed allora musica e nonmusica finiscono per trovarsi strettamente connesse. C’è una scena del film Il solista58, in cui il protagonista, un musicista che vive sotto i ponti, sostiene l’idea che Beethoven oggi non può che suonarsi nel caos della città, per le strade, non nelle sale da concerto, solo così può colorare d’un ulteriore colore la varietà delle emozioni della vita metropolitana. Perché per ascoltare Beethoven bisogna escludere il mondo? La città è un coacervo di suoni e Beethoven ne è parte. Non è una posizione così eccentrica la sua, riflette piuttosto lo statuto del suono nella postmodernità. Per l’ascoltatore tradizionale la musica va ascoltata compiendo un atto volontario di attenzione, facendo silenzio attorno a sé, intimando al proprio corpo la sospensione di ogni gesto che sia sonoro. Oggi ciò è semplicemente divenuto impossibile. Un ascoltatore emancipato è anche un produttore: un ascoltatore emancipato non tollera la rigida distinzione tra il momento della creazione e quello della ricezione. I media personali esigono che il consumatore si elevi a prosumer. Nel campo della lettura, De Kerckhove ha coniato il termine screttura ad indicare l’indissolubilità, favorita dai new media fra l’atto della lettura e quello della scrittura. Ha sicuramente ragione chi sostiene che i mezzi di riproduzione del suono hanno introdotto tra gli ascoltatori atteggiamenti passivi, ma ciò solo in una primissima fase, successivamente il fruitore si è immunizzato. Oggi, la generale diffusione del computer promette un’ulteriore attivazione della fruizione in senso creativo, con la nascita di un dilettantismo digitale sviluppato a vari livelli. La contemporanea teoria sociale, indagando il consumo, lo qualifica come il luogo in cui “individuo e società, pubblico e privato, aspetto oggettivo e soggettivo della cultura si incontrano”59. Gran parte delle teorie sociologiche del consumo e delle comunicazioni di massa elaborate nei decenni precedenti, dalla Scuola di Francoforte soprattutto, presentano un individuo disposto alla “resa […] al potere della struttura e del ‘noi’”60. Indagini più recenti, debitrici soprattutto nei confronti dei Cultural Studies, dimostrano come sia più produttivo concepire il consumo nel quadro delle pratiche quotidiane di negoziazione dei significati, dei rituali e dei giochi, dei dispositivi, insomma, messi in atto per addivenire alla costruzione riflessiva della 58

Il solista (2009) è un film di J. WRIGHT, con R. DOWNEY (Jr.), C. KEENER, J. FOXX, S ROOT, R. J. SPRINGER. 59 L. AIELLO, L'immunità dello spettatore. Interpretazioni del consumo e teoria sociale, Cooper, Roma 2005, p. 31. 60 Ibidem.


soggettività. Il consumatore, attraverso le pratiche quotidiane del consumo, prende posizione rispetto ai significati veicolati dalle merci. L’avvento dei media personali ha reso particolarmente evidente quest’attitudine del consumatore. Essi mostrano quanto l’accesso ai significati culturali sia individualizzato e dipenda dal tentativo del soggetto di costruire in autonomia una propria soggettività, ricorrendo alle elaborazioni simboliche di gruppi di riferimento. Con ciò esce riabilitata la lettura di Maffesoli, che sottolinea l’importanza del cosiddetto neotribalismo, ossia delle comunità interpretative 61. Nell’era del digitale è possibile rinvenire comportamenti che, presentano analogie con il passato e che si richiamano a forme sociali “da villaggio”. Diffusi soprattutto tra le generazioni più giovani, trovano in Internet un fecondo terreno di incubazione. Si è finora molto parlato di un presunto individualismo generalizzato, in realtà il neotribalismo mostra come esista una sorta di pulsione animale che spinge al contatto con l’altro, alla condivisione fisica degli spazi, al gregarismo. È quasi del tutto scomparso il silenzio, la solitudine: non si sta più in contatto con se stessi perché l’importante è ‘stare insieme’ agli altri. Non perché vi sia una meta da raggiungere, perché si abbia un progetto economico, sociale politico da realizzare, ma per vivere l’effervescenza del momento, così com’è. Internet ha delle caratteristiche che la rendono elettivamente l’infrastruttura tecnologica del neotribalismo: - favorisce il nomadismo e il senso di provvisorietà; - ha una struttura non gerarchizzata, fondata sulle competenze dimostrate all’interno di una comunità che si costituisce in modo informale a partire da una convergenza di interessi, non legittimata da un’autorità esterna; - sviluppa relazionalità: in Internet si formano e si disfano continuamente gruppi. Le comunità virtuali rispettano alcuni meccanismi di funzionamento tipici delle comunità tradizionali. Con una differenza: che nelle comunità tradizionali i gruppi sono marcati con molta evidenza, così come i passaggi cruciali dell’esistenza umana; nella rete i confini sono decisamente più sfumati e i passaggi meno drastici. Dalla solidità delle società tradizionali si passa alla liquidità dei gruppi in rete. Particolarmente significativa appare un’intervista rilasciata da Maffesoli al settimanale “L’Espresso”62, della quale qui riportiamo un paio tra i passaggi più pertinenti al nostro discorso: Siamo in un’epoca di cambiamenti. I giovani, pur essendo protagonisti del futuro, non vivono più proiettati nell’avvenire: vivono solo l’istante. Io lo chiamo ‘presentismo’: cioè vivere con intensità il solo presente, che si tratti di relazioni, di scambi. Vivere l’istante. I giovani non abbracciano più l’idea del progresso, di un orizzonte da conquistare, si concentrano piuttosto su valori come solidarietà e impegno, qui e ora. Penso alle cause ambientali, alle organizzazioni non profit, ma anche alla creazione artistica bricolage, vedi YouTube63.

Si profila una sorta di revival del politeismo, ossia alla coabitazione di una pluralità di valori, che consentono un set di elementi di riferimento, in vista delle proprie istanze di soggettivazione. 61

Cfr. M. MAFFESOLI, Il tempo delle tribù, Armando, Roma 1988. M. G. MEDA, La tribù delle icone. Intervista a M. MAFFESOLI, “L’Espresso”, 19/05/2008. 63 Ibidem. 62


L’Occidente ha trascorso duemila anni ad abbattere idoli per arrivare a un ideale, e oggi succede il contrario, torniamo verso una speciale forma di idolatria. Lo storico Peter Brown parlava di ‘piccole divinità parlanti’: assistiamo a qualcosa di simile. Divinità che parlano a un pubblico specifico a seconda delle inclinazioni dello spettatore: idoli sportivi, musicali, cinematografici, religiosi, politici. Stelle della tv e di YouTube64.

Vede un personaggio che meglio di altri rende emblematicamente lo spirito dei nostri tempi, è Harry Potter. [Questi] ci racconta il passaggio dall’illuminismo al chiaroscuro. Harry Potter incarna una parte d’ombra dell’essere umano, l’ambiguità del nostro tempo. Infatti nel mondo di Potter a volte il bene non trionfa. Nel suo mondo ci sono riti iniziatici, prove fisiche, a dimostrazione che l’educazione non è più una pratica razionale ma, come accade nelle società primitive, il corpo vi partecipa. E, come nei riti tribali, la morte è sempre in agguato65.

Si profila un nuovo modo di intendere i rapporti umani. Ogni epoca ha il suo topos. L’Occidente giudeocristiano è caratterizzato da Dio Padre, dalla legge del padre, dal potere verticale. All’opposto emerge il concetto di affratellamento: rigettiamo il potere, ma cerchiamo autorità nel crescere insieme. Internet è l’espressione compiuta di questo66.

In questo la sua promessa, in questo le suggestioni pedagogiche che suscita Suggestioni che potremmo leggere dentro una cornice di dionisismo, per il quale è indispensabile confrontarsi con la dismisura, l’irrazionale, l’eccesso per tentare di arginarli non con la chiarezza della ragione dispiegata, ma con la forza della creatività e dell’immaginazione che umanizzano le forze oscure della barbarie facendole vivere in una sorta di zona di mezzo, in cui sono non rimosse o dimenticate, ma piuttosto addomesticate dal dover cercare un contesto in cui esplicarsi. Ritroviamo con ciò la lezione profetica di Giovanni Maria Bertin, che in Ragione proteiforme e demonismo educativo propugnava il decisivo apporto dell’immaginazione quale forza per ritrovare la possibilità di riannodare un flusso di attiva comunicazione col mondo 67. “Hai in te stesso – diceva – e nel mondo in cui vivi riserve culturali ed etico sociali su cui puoi contare. Usale…” 68 Perché temere dunque i barbari? La società occidentale, a forza di coltivare igienismo sociale assoluto e culto del rischio zero, si è addormentata. Così non rischiamo più di morire di fame, ma di noia. I barbari, però, portano sangue nuovo. Sono i nostri figli, le nuove generazioni,

64

Ibidem. Ibidem. 66 Ibidem. 67 Cfr. G. M. BERTIN, Ragione proteiforme e demonismo educativo, La Nuova Italia, Scandicci (Fi) 1983. 68 Ibidem, p. 51. 65


che ci scuotono. Fanno traballare certezze e abitudini, sconvolgono la nostra quiete. I barbari sono persone che non parlano la nostra lingua69.

Che usano i nostri artefatti, i nostri strumenti in un modo al quale noi non avremmo saputo pensare, e, con ciò, ci insegnano che un oltre c’è.

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M. MAFFESOLI nell’intervista citata di M.G. MEDA.


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